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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2016

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aggiornamento al 30.11.2016

aggiornamento al 28.11.2016

aggiornamento al 23.11.2016

aggiornamento al 16.11.2016

aggiornamento all'08.11.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.11.2016

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Ancora sulla quantificazione del "profitto conseguito" circa la sanzione ex art. 167 d.lgs. 42/2004 in materia di accertamento compatibilità paesaggistica.

EDILIZIA PRIVATAL'intervento abusivo, che ha dato luogo alla richiesta di sanatoria, non ha determinato un aumento di superficie calpestabile ma il solo innalzamento del fabbricato con conseguente incremento del solo volume.
L'articolo 167, comma 5, dlgs 42/2004 prevede che "qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima."
A sua volta la legge 47/1985, nella nota 1 alla tabella allegata, prevede che "qualora, per la tipologia dell'abuso realizzato, si debba fare riferimento al volume, l'ammontare dell'oblazione versata con riferimento alla superficie deve essere diviso per 5 e moltiplicato per 3".
Ciò posto il collegio ritiene che la deliberazione del consiglio comunale, nella parte in cui richiama la suddetta nota 1 alla tabella allegata alla legge n. 47/1985, per l'applicazione del 5° comma dell'articolo 167 del decreto legislativo 42/2004, non appare conforme alla previsione contenuta nel succitato articolo, in quanto la stima deve accertare in concreto il maggior importo tra danno arrecato e profitto conseguito (nel caso di specie solo profitto in quanto l'accertamento della compatibilità ha eliminato il danno), mentre il criterio dettato dalla legge 47/1985 riguarda esclusivamente l'ipotesi dell'oblazione in sede di condono, non applicabile nel caso di specie nel quale si deve determinare un indennizzo ragguagliato al maggior profitto.
Ne consegue che la trasposizione della tabella può valere per il calcolo della sanzione da applicarsi in sede di rilascio del permesso in sanatoria (ipotesi assimilabile al condono), ma non per la determinazione del maggior profitto conseguito per effetto di trasgressione non incidente sulla compatibilità paesaggistica.
---------------

... per l'annullamento del provvedimento del Direttore del Settore Territorio e Urbanistico P.G. N. 189488 del 23.07.2009 che ha rilasciato l’autorizzazione paesaggistica e il permesso di costruire in sanatoria relativamente ad alcune difformità costruttive realizzate nell'edificio di via dell'Osservanza n. 47 rispetto al permesso di costruire P.G. n. 123725/2005 nella parte che applica la sanzione di cui all'art. 167, 5° c., D.Lgs. n. 42/2004 e determina in Euro 241.532,17 l'importo della indennità pecuniaria per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e in Euro 12.695,16 la sanzione pecuniaria relativa al rilascio del permesso di costruire;
...
1. Col ricorso in epigrafe viene impugnato il provvedimento con cui il comune di Bologna ha rilasciato l'autorizzazione paesaggistica ed il permesso di costruire in sanatoria relativamente ad alcune difformità costruttive realizzate nell'edificio di via dell'Osservanza 47 rispetto al permesso di costruire del 2005, nella parte concernente l'applicazione della sanzione di cui all'articolo 167, comma 5, del decreto legislativo 42/2004 determinando in € 241.532,17 l'importo dell'indennità pecuniaria per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ed in € 12.695,16 l'importo della sanzione dovuta dalla proprietà in relazione al rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Viene altresì impugnata la deliberazione n. 40/2006 con cui il consiglio comunale di Bologna aveva approvato i criteri per l'applicazione della sanzione di cui al suddetto articolo 167.
Il primo provvedimento impugnato è stato adottato in esecuzione della sentenza 951/2009 con cui questo Tribunale aveva accolto alcuni ricorsi, fra i quali quelli degli attuali ricorrenti, proposti avverso il precedente diniego di permesso di costruire in sanatoria del 2005 ritenendo che, nel caso, non poteva operare il divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria di cui all'articolo 146 del decreto legislativo 42/2004, in quanto la normativa transitoria di cui all'articolo 159 del suddetto decreto posticipava ad un momento successivo alla conclusione della fase transitoria l'applicabilità del suddetto di divieto.
Le difformità contestate e, quindi, l'intervento abusivo che ha dato luogo alla richiesta di sanatoria, non ha determinato un aumento di superficie calpestabile, ma il solo innalzamento del fabbricato con conseguente incremento del solo volume.
2. Con una prima censura parte ricorrente contesta l'applicabilità della sanzione di cui all'articolo 167, comma 5, del decreto legislativo n. 42/2004, in quanto il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica e del permesso di costruire in sanatoria fa venir meno la situazione di abusività che è il presupposto dell'applicazione del suddetto articolo 167.
La tesi non può essere condivisa, in quanto l'articolo in questione riguarda proprio il caso in cui gli abusi vengano ritenuti compatibili con il vincolo paesaggistico, il che si è verificato nel caso di specie per effetto dell'accertata compatibilità paesaggistica dell'immobile dopo l'abuso.
Con un secondo ordine di censure si contestano le modalità di calcolo della sanzione, in particolare la formula con la quale, in assenza di esplicite previsioni, è stata applicata in via analogica la legge 47/1985 (volume diviso per 5 e moltiplicato per 3).
Nel caso di specie i criteri applicati (delibera 40/2006) non contemplano il caso di aumento del solo volume in quanto richiamano, fra i vari parametri per il calcolo del "maggior profitto", esclusivamente quello della "superficie" (lettera c della suddetta deliberazione); il comune ha così applicato l'allegato 1 alla suddetta deliberazione il quale prevede espressamente "per gli ampliamenti di volume senza aumento di superficie vengono utilizzati i criteri di trasformazione del volume in superficie di cui alla legge 47/1985 (volume diviso per 5 e moltiplicato per 3)".
Al fine di esaminare da suddetta censura occorre richiamare il dato normativo.
L'articolo 167, comma 5, di cui si tratta prevede che "qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima."
A sua volta la legge 47/1985, nella nota 1 alla tabella allegata, prevede che "qualora, per la tipologia dell'abuso realizzato, si debba fare riferimento al volume, l'ammontare dell'oblazione versata con riferimento alla superficie deve essere diviso per 5 e moltiplicato per 3".
Ciò posto il collegio ritiene che la deliberazione del consiglio comunale, nella parte in cui richiama la suddetta nota 1 alla tabella allegata alla legge n. 47/1985, per l'applicazione del 5° comma dell'articolo 167 del decreto legislativo 42/2004, non appare conforme alla previsione contenuta nel succitato articolo, in quanto la stima deve accertare in concreto il maggior importo tra danno arrecato e profitto conseguito (nel caso di specie solo profitto in quanto l'accertamento della compatibilità ha eliminato il danno), mentre il criterio dettato dalla legge 47/1985 riguarda esclusivamente l'ipotesi dell'oblazione in sede di condono, non applicabile nel caso di specie nel quale si deve determinare un indennizzo ragguagliato al maggior profitto.
Ne consegue che la trasposizione della tabella può valere per il calcolo della sanzione da applicarsi in sede di rilascio del permesso in sanatoria (ipotesi assimilabile al condono), ma non per la determinazione del maggior profitto conseguito per effetto di trasgressione non incidente sulla compatibilità paesaggistica.
Per quanto sopra il ricorso deve essere accolto limitatamente alla parte della deliberazione comunale n. 40/2006 relativa al calcolo del maggior profitto: allegato punto 1, terzo capoverso (per gli ampliamenti di volume senza aumento di superficie vengono utilizzati i criteri di trasformazione del volume di superficie di quella legge 47/1985 (volume diviso per 5 e moltiplicato per tre).
Conseguentemente, limitatamente al calcolo del maggior profitto di cui all'articolo 167 di cui si tratta, deve essere annullato il provvedimento del Direttore del Settore Territorio e Urbanistico numero 189488 del 23/07/2009 vale a dire nella sola parte che applica l'articolo 167, comma 5, del decreto legislativo 42/2004, ferma restando, quindi la sanzione di euro 12695,16 relativa al rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La necessità di nuove determinazioni da parte del comune rende altresì improcedibile il motivo aggiunto con cui si chiede a questo Giudice di sostituirsi all’Amministrazione nella determinazione dell’importo delle sanzioni.
Tenuto conto della parziale soccombenza reciproca e della novità della questione sussistono giusti motivi per compensare integralmente fra le parti spese, competenze ed onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna-Bologna, Sezione II, accoglie il ricorso in epigrafe nei termini e nei limiti di cui in motivazione (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 20.10.2014 n. 975 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il Comune: “E’ evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc ha determinato un profitto che pur non consistendo al momento in termini di superfici reali, si realizza nel non avere demolito una struttura…”.
Pertanto, tale parte delle valutazioni svolte dal Comune corrispondono pienamente sia alla lettera che, soprattutto alla ratio della norma, la quale, indicando il quantum di sanzione nel maggiore importo tra danno paesaggistico derivante dall’abuso e, appunto, il maggior profitto conseguito dall’autore, si attiene a parametri certamente connotati da concretezza ed attualità, di modo che la sanzione pecuniaria irrogata, oltre che a soddisfare i predetti requisiti, risulti altresì proporzionata e comunque coerente con l’oggettiva entità dell’abuso, nei suoi duplici riflessi riferiti o al danno paesaggistico causato o al concreto “maggior profitto” tratto dai responsabili dell’abuso.
In conclusione,
nella fattispecie in esame, ove non può essere applicato il primo dei parametri indicati dalla norma, non essendosi verificato alcun danno paesaggistico, risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente.
Ciò anche ai fini equitativi e di necessaria proporzionalità, non solo tra l’effettivo abuso paesaggistico (minore) accertato e la corrispondente sanzione pecuniaria da irrogare, ma anche fra l’altra sanzione pecuniaria irrogata in riferimento alla stessa opera in sede di sanatoria edilizia (€. 12.695,16) e quella che il Comune valuterà di comminare quale “sanzione paesaggistica” in esecuzione della presente decisione.

---------------
... per ottenere:
quanto al ricorso principale: ex artt. 112 e 114 cod. proc. amm., l’esecuzione del giudicato, da parte del comune di Bologna, nascente dalla sentenza 20.10.2014 n. 975 del TAR Emilia–Romagna, Bologna, Sez. II;
...
Il Tribunale deve innanzitutto osservare che la nuova determinazione, da parte del Comune, dell’importo della sanzione pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, del D.lgs. n. 42 del 2004 da irrogare agli ex committenti degli odierni ricorrenti si fonda –come richiede espressamente la citata disposizione– su una perizia di stima redatta dalla “U.I. Tecnica del Settore Patrimonio del comune di Bologna” (v. doc. n. 6 del Comune).
La tabella facente parte integrante della nuova perizia evidenzia un calcolo del “maggiore profitto”, asseritamente tratto dai proprietari del fabbricato, per mezzo dell’abuso paesaggistico in questione, ammontante ad €. 157.860,90 e, di conseguenza, ridetermina in tale somma l’importo della sanzione ex art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42 del 2004.
A tale conclusione l’Ente perviene partendo dai seguenti dati: a) un volume abusivo effettivamente realizzato di mc. 199,23; b) un’altezza dei vani di riferimento su cui calcolare la sanzione di m. 2,40 (corrispondente all’altezza dei vani accessori); c) una superficie dichiaratamente qualificata “virtuale”, calcolata in mq. 83,01, sulla base dei precedenti dati di volume ed altezza; nonché d) il valore unitario della superficie stimato in €/mq. 1.901,65.
Il ragionamento del Comune per pervenire, sulla base di questi dati, a tale somma di “maggiore profitto”, può essere sintetizzato riportando quanto riferisce l’Ufficio comunale per la Tutela del Paesaggio nella nota del 14/07/2015 diretta al’Avvocatura comunale, secondo cui: “E’ evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc. ha determinato un profitto che pur non consistendo al momento in termini di superfici utili reali, si realizza nel non aver demolito una struttura. In condizioni normali, nel 2005, se i proprietari avessero richiesto legittimamente la possibilità di ispessire le strutture e quindi aumentare la sagoma plani volumetrica, avrebbero potuto farlo chiedendo prima le autorizzazioni necessarie (autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire). Realizzandolo in assenza delle necessarie autorizzazioni, ha comportato un abuso edilizio, paesaggistico che per le modifiche introdotte nel Codice dei Beni Culturali, non potevano essere sanate in quanto comportante aumento di volumetria”.
Secondo il Comune, poi “E’ evidente che di fronte alla scelta della demolizione in luogo del pagamento della sanzione, come si è detto, per ragioni tecnico–costruttive non si è potuto demolire il volume abusivo e pertanto si è mantenuto quell’aumento di volume che appunto costituisce il maggior profitto sanzionato dalla norma. L’ispessimento dei solai e con la conseguente altezza del fabbricato, hanno potuto beneficiare di un bonus volumetrico oggi quantificabile in nuova superficie. Da tali premesse, i tecnici comunali pervengono alla conclusione che “Il maggior profitto” conseguito mediante la trasgressione è costituito da un volume che, essendo aumentato, rappresenta una potenzialità edificatoria diversa e maggiore da quella che il proprietario avrebbe senza abuso: con gli strumenti urbanistici attuali, in caso di demolizione e ricostruzione, il trasgressore potrà utilizzare la volumetria abusivamente realizzata per ottenere superficie utile o accessoria, ricostruire quindi un nuovo volume trasformando le strutture portanti (il corpo "solido cieco” descritto nel ricorso) in superficie. Ne consegue che oggi l’aumento di 199,23 mc., potrebbe potenzialmente diventare 83,01 mq. di superficie accessoria o mq. 73,79 di superficie utile.”.
Il Tribunale ritiene che le suddette considerazioni portate a supporto motivazionale della nuova determinazione della sanzione siano condivisibili unicamente riguardo a parte di quanto contenuto nelle premesse, ma certamente non per quanto concerne le ulteriori considerazioni svolte, con particolare riferimento alle conclusioni alle quali la civica amministrazione erroneamente perviene.
La parte motiva del provvedimento che il Collegio ritiene legittima è quella in cui, come si è detto, il Comune rileva, quale unico parametro a disposizione ai fini di determinare la sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del D.lgs. n. 42 del 2004, quello del “maggior profitto”, correttamente configurando ed adattando il parametro espressamente indicato dalla norma al concreto, specifico abuso da sanzionare, nonché quella parte della motivazione nella quale il Comune, contestualizzando altrettanto correttamente tale “maggiore profitto” derivante dall’abuso solo volumetrico, lo collega direttamente al solo effettivo, concreto lucro tratto, nell’occasione, dai proprietari del fabbricato. Secondo il Comune, infatti: “
E’ evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc ha determinato un profitto che pur non consistendo al momento in termini di superfici reali, si realizza nel non avere demolito una struttura…”.
Pertanto, tale parte delle valutazioni svolte dal Comune corrispondono pienamente sia alla lettera che, soprattutto alla ratio della norma, la quale, indicando il quantum di sanzione nel maggiore importo tra danno paesaggistico derivante dall’abuso e, appunto, il maggior profitto conseguito dall’autore, si attiene a parametri certamente connotati da concretezza ed attualità, di modo che la sanzione pecuniaria irrogata, oltre che a soddisfare i predetti requisiti, risulti altresì proporzionata e comunque coerente con l’oggettiva entità dell’abuso, nei suoi duplici riflessi riferiti o al danno paesaggistico causato o al concreto “maggior profitto” tratto dai responsabili dell’abuso.
In conclusione, stante quanto dallo stesso Comune rilevato,
nella fattispecie in esame, ove non può essere applicato il primo dei parametri indicati dalla norma, non essendosi verificato alcun danno paesaggistico (v. il relativo specifico passaggio nella sentenza di questo TAR n. 975 del 2014), risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente; ciò anche ai fini equitativi e di necessaria proporzionalità, non solo tra l’effettivo abuso paesaggistico (minore) accertato e la corrispondente sanzione pecuniaria da irrogare, ma anche fra l’altra sanzione pecuniaria irrogata in riferimento alla stessa opera in sede di sanatoria edilizia (€. 12.695,16) e quella che il Comune valuterà di comminare quale “sanzione paesaggistica” in esecuzione della presente decisione (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 27.11.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio statico), l'edificio è stato realizzato con alcune difformità.
Secondo il verbale di accertamento redatto dai funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture pertinenziali.
Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm dell'edificio non ha comportato alcun aumento né di cubatura né di superficie utile, ma corrisponde puramente e semplicemente all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle travi della copertura, resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune secondo cui le difformità "sono sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle finestre e di portefinestre, modificazione all'area pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior) volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale" delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha affermato che “risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione [non anche ricostruzione] della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”, sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale, più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in discorso.
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... per l'ottemperanza della sentenza 27.11.2015 n. 1041 del TAR EMILIA ROMAGNA-BOLOGNA, SEZ. II, resa tra le parti, concernente esecuzione sentenza 20.10.2014 n. 975 Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II - rideterminazione sanzione pecuniaria relativa al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica e del permesso di costruire in sanatoria.
...
1. Giova riepilogare, per quanto più sinteticamente possibile, gli antefatti.
Gli architetti Gl. e Ro.Gr. sono stati progettisti e direttori di lavori, per conto dei loro clienti sig.ri Va. e Mo., effettuati sull'edificio sito in Bologna, via ..., n. 47, per il quale è stato rilasciato dal Comune il permesso di costruire (concessione edilizia) n. P.G. 82570/2000 del 16.05.2002.
Il progetto prevedeva la demolizione di un preesistente edificio di maggior altezza, volume e impianto costruttivo, e la costruzione in sua vece di un nuovo fabbricato destinato a residenza civile, in un'area soggetta al vincolo paesaggistico.
In sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio statico), l'edificio è stato realizzato con alcune difformità.
Secondo il verbale di accertamento n. 52/2005 redatto dai funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture pertinenziali.
Tutta la presente vertenza riguarda la consistenza fisico/morfologica e conseguentemente la rilevanza anche economica di queste difformità costruttive, che sono state sanzionate pecuniariamente sulla base del loro valore.
Vale perciò riepilogare l’identificazione delle opere difformi dal progetto.
1.1. Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm dell'edificio non ha comportato alcun aumento né di cubatura né di superficie utile, ma corrisponde puramente e semplicemente all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle travi della copertura, resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune P.G. n. 152679/07, secondo cui le difformità "sono sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle finestre e di portefinestre, modificazione all'area pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior) volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale" delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Tale essendo la situazione di fatto, sia gli architetti che la proprietà hanno sùbito provveduto a regolarizzare quella che ritenevano una "abusività" marginale.
Per questo hanno presentato domanda di variante in corso d'opera (P.G. n. 533 del 21.03.2005) e, poi, domanda al Comune per ottenere sia il permesso di costruzione in sanatoria ex art. 17 l.reg. n. 23/2004 (P.G. n. 123725/2005) sia l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria ai sensi dell'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (ex art. 13 l.reg. n. 31/2002).
Quest'ultima è stata denegata con provvedimento prot. 123725/2005 del 29.08.2005, per il solo motivo della "impossibilità, anche ai sensi dell'art. 159 del d.lgs. n. 42/2004, di rilasciare la suddetta autorizzazione a sanatoria, trattandosi di interventi già realizzati per i quali l'art. 146, c. 10, vieta espressamente il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria".
Contro questo provvedimento è stato presentato un primo ricorso al Tar (n.r.g. 1184/2005).
Ma, in attesa della decisione, i progettisti hanno presentato il 28.07.2006 la domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 e di riesame del diniego di permesso di costruire in sanatoria.
Il Comune di Bologna ha però respinto entrambe le domande:
a) quella di accertamento di compatibilità paesaggistica, per "carenza di legittimazione" dei richiedenti;
b) quella di permesso di costruire in sanatoria, perché:
   - l'accertamento di compatibilità paesaggistica non poteva essere rilasciato;
   - esulante "dai casi di cui ai commi 4 e 5 del predetto art. 167".
Tale provvedimento è stato impugnato dagli architetti con il ricorso n.r.g. 327/2007.
E' però accaduto che i proprietari committenti hanno invece ottenuto l'accertamento di compatibilità paesaggistica, che era stato negato agli architetti progettisti e direttori dei lavori.
Il titolo a sanatoria è stato rilasciato con contestuale applicazione di una sanzione pecuniaria di complessivi euro 295.845,47, dei quali euro 52.314,50 quale sanzione edilizia ex art. 34 DPR n. 380/2001 ed euro 243.532 quale c.d. "danno ambientale", in applicazione dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
1.2. Questo provvedimento è stato impugnato sia dagli architetti, con motivi aggiunti al ricorso n. 327/2007, sia con autonomo ricorso n.r.g. 927/2007 dai committenti.
Il Tar ha riunito i ricorsi con sentenza n. 951/2009 e li ha accolti, annullando il diniego di autorizzazione paesaggistica e di permesso di costruire in sanatoria (ricorsi nn. 1184/2005 e 1417/2005) e le sanzioni pecuniarie per illegittimità derivata dalla illegittimità del diniego di sanatoria (ricorsi nn. 327 e 927 del 2007).
Poi il procedimento amministrativo è stato riattivato.
Il Comune ha riesaminato il diniego, conformandosi a quanto affermato dal Tar in accoglimento dei ricorsi, ed ha emanato il provvedimento P.G. 189408 del 23.07.2009 con cui ha rilasciato il permesso di costruire in sanatoria subordinato al pagamento di due sanzioni pecuniarie. La prima, per l'abuso edilizio, di euro 12.695 (calcolata secondo le modalità di cui alla nota 1 della Tab. allegata alla L.n. 47/1985, trasformando l'incremento di volume in superficie virtuale utilizzando la formula superficie=incremento di volume x 3/5, in quanto l'abusivo innalzamento del fabbricato non ha comportato un aumento di superficie). La seconda, per l'abuso paesaggistico, applicata ai sensi dell'art. 167, co. 5, del d.lgs. n. 42/2004, è stata fissata seguendo i paramenti quantitativi previsti dalla delibera consiliare n. 40/2006, che prevedevano anche essi la conversione del maggior volume di 199 mc nella superficie di 119 mq.
E' stata irrogata quindi una sanzione dello stesso importo di euro 243.532,97 di quello del precedente provvedimento, già annullato dalla citata sentenza.
Anche tale ultimo provvedimento è stato impugnato al Tar dagli architetti con ricorso n. 1309/2009 e dai committenti con separato ricorso.
Nonostante l'istanza di sospensiva, i committenti hanno dovuto pagare l'intero importo ingiunto dal Comune (euro 256.228,13).
Per questo i committenti, sentendosi danneggiati, hanno proposto contro gli architetti numerose cause civili, che nelle more del giudizio avanti al Tar, durato cinque anni, hanno avuto vari esiti tutti economicamente pesanti per i convenuti.
1.3. Con sentenze nn. 975 e 973 del 20.10.2014, il Tar dell'Emilia Romagna ha infine accolto sia il ricorso degli architetti sia quello dei committenti e ha annullato i provvedimenti impugnati.
Nella motivazione il Tribunale, pronunciandosi sull'art. 167, c. 5, del d.lgs. n. 42/2004 e sulla possibilità di ricorrere per il calcolo delle sanzioni al meccanismo della trasformazione della cubatura in superficie utile, afferma questo principio di diritto: "Il richiamo alla l. n. 47/1985, nota 1 della Tabella allegata, non appare conforme alla previsione contenuta nel citato articolo 167, 5° c., in guanto la stima deve accertare in concreto il maggior importo tra danno arrecato e profitto conseguito".
Entrambe tali sentenze sono passate in giudicato.
1.4. Quella n. 975 è stata notificata il 21.11.2014 ma il Comune di Bologna non vi ha dato esecuzione, non ha cioè provveduto alla restituzione delle somme pagate dai committenti (euro 256.228,13) e per le quali essi hanno perseguito gli architetti.
Non l'ha fatto subito, come doveva, stante l'esecutività della sentenza, e non lo ha fatto neppure dopo il passaggio in giudicato, avvenuto sei mesi dopo la notifica.
Sono stati gli architetti, quindi, a contestare l'illegittimo ritardo nel provvedere e a sollecitare e diffidare il Comune a dare esecuzione alla sentenza.
Perdurando ancora l'inerzia del Comune, gli architetti hanno pertanto proposto il ricorso per ottemperanza in cui chiedevano al Tribunale:
   I. ai sensi dell'art. 114, c. 4, lett. a) e d), del c.p.a.: ordinare al Comune di restituire ai committenti la somma pagata quale sanzione ex art. 167, c. 5, del d.lgs. n. 42/2004, fissando il termine entro il quale doveva essere emesso il mandato;
   Il. ai sensi degli art. 112, c. 5, e 134 c.p.a., sussistendo giurisdizione di merito: dare gli opportuni chiarimenti in ordine alla esecuzione della sentenza;
   III. ai sensi dell'art. 114, c. 3, e dell'art. 114, c. 4, lett. e), c.p.a.:
a) di condannare il Comune, per l'ingiustificato ritardo nell'esecuzione in forma specifica della sentenza passata in giudicato, al risarcimento dei danni maturati a causa dell'illegittimo ritardo fino alla notifica del ricorso, danni forfettariamente indicati nell'importo di euro 5.000,00 o nella diversa misura ritenuta secondo equità;
b) di stabilire l'importo della somma di denaro dovuta dal Comune per ogni ulteriore ritardo rispetto alla data di notifica del ricorso o dell’emanando provvedimento che ordina l'esecuzione della sentenza (c.d. “astreinte”).
1.5. Alquanto dopo la notifica del ricorso per l'ottemperanza il Comune ha notificato un nuovo provvedimento, sostitutivo di quello annullato dalle sentenze nn. 975/2014 e 973/2014.
In esso viene fatto un nuovo calcolo della sanzione pecuniaria per la violazione paesaggistica, e cioè il calcolo del "maggior profitto" ritratto da una difformità edilizia di cui era stata previamente accertata la compatibilità paesaggistica.
Ma questo nuovo calcolo ha ripercorso e riprodotto sostanzialmente il meccanismo della sanzione già annullata, perché ha convertito ancora una volta il maggior volume (cieco) in una "superficie virtuale".
Con provvedimento P.G. 186953 del 19.06.2015 il Comune ha, infatti, ricalcolato l'importo di questo ipotetico maggior profitto riproponendo (con una leggera diminuzione) il meccanismo già dichiarato illegittimo.
La differenza è che questa volta si è ipotizzato che la superficie virtuale avrebbe riguardato vani alti m. 2,40, cioè superfici accessorie.
Contro questo nuovo provvedimento gli architetti hanno proposto motivi aggiunti al ricorso per l'ottemperanza, deducendo due censure e cioè:
   a) violazione del giudicato;
   b) violazione e falsa applicazione dell'art. 167, co. 5 e 6, del d.lgs. n. 42/2004. Illogicità manifesta, difetto di motivazione e falso presupposto di fatto. Violazione dell'art. 11, co. 5., del regolamento edilizio del Comune di Bologna e del punto 18 della delibera dell'Assemblea Regionale n. 279/2010.
1.6. Si perviene così all'impugnata sentenza n. 1041/2015, depositata il 27.11.2015, con la quale il Tar:
   a) ha dichiarato improcedibile il ricorso per l'esecuzione di giudicato, sul presupposto che il nuovo provvedimento non è di portata elusiva, condannando peraltro il Comune al pagamento di euro 2.000 per spese legali, stante il ritardo nel provvedere;
   b) ha respinto l'azione risarcitoria presentata contestualmente all'ottemperanza, compensando per tale profilo le spese di lite;
   c) ha accolto i motivi aggiunti, convertiti in ricorso ordinario di legittimità ex art. 32 c.p.a., e ha annullato il provvedimento impugnato, compensando, peraltro, anche qui, le spese di lite.
1.7. Questa sentenza è stata impugnata, quanto al capo c), dal Comune, che assume corretto il suo metodo di calcolo del maggior profitto.
Gli architetti hanno controdedotto ma, a loro volta, hanno proposto appello incidentale contro i capi a) e b) della sentenza, giacché a loro avviso il censurato provvedimento (nei fatti annullato dal Tar) era elusivo del giudicato e comunque doveva reputarsi illegittimo il ritardo nella sua adozione con danni patrimoniali per gli architetti causati dalle azioni civili nel frattempo portate avanti dai committenti, certamente quantificabili quanto meno in via equitativa.
1.8. E’ opportuno ricordare che da ultimo, nelle more di questo giudizio, il Comune ha adottato un ulteriore provvedimento determinativo della sanzione, questa volta allineato concettualmente alla decisione Tar (ossia costo della demolizione), anche se gli architetti (che lo hanno già impugnato al Tar Emilia, ivi rinunciando a chiedere misure cautelari in attesa dell’esito di questo giudizio) segnalano ancora l’eccessività del quantum della sanzione (circa 91.000 euro), dovuta al fatto che il Comune ha computato oltre ai costi di demolizione anche quelli di ricostruzione dei solai e tetto, per di più non applicando prezziari del 2005 sibbene molto più recenti ed onerosi.
2. Vale a questo punto osservare che il Collegio non ha motivo di prendere in considerazione il provvedimento sanzionatorio adottato dal Comune come ultimo in ordine di tempo e ciò perché lo stesso, per quanto riferito, è già stato autonomamente impugnato innanzi al Giudice di primo grado, che pertanto dovrà farsene carico in relazione alle censure in quella sede articolate nei suoi riguardi.
Può solo incidentalmente notarsi in questa sede –sulla scorta degli argomenti comunque già spesi in proposito dalle parti in causa– che non possono escludersi suoi profili di eccessività, quanto alla concreta, nuova determinazione della sanzione, in considerazione del fatto che il Comune avrebbe stimato costi non soltanto di demolizione ma anche di ricostruzione (quanto meno dei solai dell’edificio). E questo potrebbe non essere del tutto allineato con quanto stabilito dal Giudice di primo grado, in relazione al criterio parametrico da utilizzare per la stima del “profitto” altrimenti conseguito dalla parte proprietaria, secondo il quale, ragionevolmente, i costi da considerare sono esclusivamente quelli di demolizione (non anche, perciò, di ricostruzione).
Del resto, non va trascurato che, nella fattispecie, la demolizione resterà puramente teorica (valendo soltanto come parametro di riferimento per una liquidazione in via amministrativa di una sanzione) e che perciò la proprietà non avrà necessità di alcuna ricostruzione.
Sempre incidentalmente, poi, non si può nemmeno del tutto trascurare che, in epoca recente e successiva ai fatti di causa, come provato documentalmente in questo giudizio, il Comune si è infine indotto ad introdurre una disciplina regolatoria –valida per casi particolari, come quello in discorso– per effetto della quale il computo della sanzione deve avvenire secondo quantificazione forfettaria e, in ogni caso, con una valutazione a corpo, non a misura, dell’entità del profitto conseguito.
3. Venendo poi al merito stretto del presente giudizio, giova precisare che la materia del contendere ruota intorno alla questione se sia stato corretto o meno, da parte del Comune, in sede di ottemperanza, una riedizione del provvedimento sanzionatorio sopra detto suscettibile di pervenire ad una quantificazione monetaria non sensibilmente dissimile da quella che derivava dal primo provvedimento sanzionatorio, già censurato con successo in sede giurisdizionale.
Secondo il Comune sì, il suo comportamento è stato corretto e, pertanto, va riformata la sentenza impugnata lì dove essa, invece, ha annullato il provvedimento in argomento.
No, invece, ad avviso degli architetti resistenti ed appellanti incidentali, secondo i quali il provvedimento, proprio perché rinvenuto illegittimo, denuncia la sua portata elusiva del giudicato e, dunque, giustificherebbe la riforma in parte qua della sentenza impugnata.
3.1. Dirimente in proposito, ad avviso del Collegio, è una considerazione di natura innanzitutto logica, prima ancora che giuridica.
Il Comune, posto che nella fattispecie, per la determinazione della sanzione da irrogare, si doveva calcolare esclusivamente la componente “profitto” –esclusa essendo, incontestatamente fra le parti, la necessità di sottrarvi la componente “danno”, dato che, infine, gli interventi eseguiti sono risultati paesaggisticamente compatibili– si è convinto che, allora, tale “lucro” si dovesse misurare secondo una logica commerciale e di mercato.
L’aumento dimensionale dell’edificio è stato esclusivamente volumetrico ed “esterno” –ed anche questa è circostanza non controversa– giacché non s’è verificata né maggiore volumetria utile interna né maggiore superficie utile interna.
In parole povere, solo i limiti esterni dell’edificio si sono “ingrossati”. E questo si spiega bene sol che si consideri che, nel caso in esame, all’edificio sono stati aumentati i volumi delle strutture portanti e di solaio come conseguenza di un voluto adeguamento antisismico dell’immobile (adeguamento che può in effetti determinare ispessimenti).
Perseguendo l’intento, dunque, il Comune si è posto nella logica di dover tramutare comunque in superficie metrica la maggior volumetria riscontrata nell’edifico per poi ricavare il valore economico di tale maggiore superficie.
Tutto questo, però, in palese e dichiarata prospettiva meramente “virtuale”, posto che evidentemente all’interno dell’immobile non era stata ricavata maggiore superficie utile.
Per giungere a tale obiettivo, dopo un primo tentativo fallito (giacché il relativo provvedimento è stato annullato in sede giurisdizionale), il Comune è allora ricorso al seguente ragionamento: qualora la proprietà abbattesse l’edificio ristrutturato, ed ampliato all’esterno dal punto di vista volumetrico, e qualora la stessa subito dopo lo ricostruisse, questa volta però rinunciando a parte della maggiore volumetria per ricavarne, sostitutivamente, maggiore superficie utile interna, si paleserebbe a quel punto l’entità del “profitto” al momento non visibile, giacché tutto racchiuso –in potenza– all’interno di quei metri cubi di maggior volume esterno.
3.2. In questi termini, tuttavia, il ragionamento del Comune risulta del tutto non persuasivo.
E ciò non tanto e non solo in relazione al fatto che gli strumenti urbanistici del momento potrebbero non consentire una siffatta trasformazione (e chissà se mai nel futuro) ovvero che è del tutto opinabile che la proprietà abbia effettivamente in animo di imbarcarsi in una operazione di siffatta metamorfosi di un suo edificio appena riadattato, quanto piuttosto per il fatto che –ove mai vera l’ipotesi prefigurata dal Comune– essa risulterebbe nella sostanza in buona parte autolesionistica, perché fondata sul presupposto di una rinuncia alla maggior robustezza dell’edificio (frutto della recente ristrutturazione anche con valenza antisismica) a mero vantaggio di una piccola maggiore estensione interna della sua superficie utile.
Detto in altri termini, non risulta in primo luogo plausibile stimare come “profitto” ciò che, per il suo materiale conseguimento, implicherebbe “sacrificio” di una utilità ben maggiore, ossia, nel caso di specie, la maggiore robustezza dell’edificio dal punto di vista antisismico.
Implausibilità, quella appena descritta, tanto maggiore quanto più si consideri che la città di Bologna ha avuto tristemente modo, in tempi recenti, di dimostrare di non essere affatto estranea al rischio sismico, essendo stata più che lambita dai tragici eventi tellurici di appena quattro anni fa.
3.3. Senza dunque neppure dover prendere in considerazione il fatto che, persistendo nella sua teorizzazione, il Comune è riuscito, nel caso di specie, a mantenere (utilitaristicamente, dal punto di vista delle casse locali) l’entità della sanzione pecuniaria in misura prossima a quella della sua prima (ed illegittima) determinazione, esprimendo essa una somma di denaro idonea a giustificare un ragionevole valore di mercato della maggior superficie utile interna virtuale, è possibile constatare che, in tal modo, l’ente locale si è nuovamente sottratto, nella sostanza, ad un’appropriata e congrua esecuzione del giudicato cui esso era tenuto.
In quest’ottica, allora, non risulta persuasivo e fondato l’appello del Comune, volto ad una possibile riforma della sentenza impugnata lì dove essa, anche se con altro percorso argomentativo, giunge a ritenere non legittima anche la seconda determinazione della sanzione in contestazione.
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha affermato che “risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione [non anche ricostruzione] della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”, sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale, più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in discorso.
3.4. Le considerazioni che precedono, di contro, rendono persuasivo l’appello incidentale degli architetti volto a far rilevare che, quello del Comune, è stato un adempimento solo formalmente esaustivo del dovere di ottemperanza cui esso era tenuto ma non di certo sostanzialmente satisfattivo.
Per questa parte, dunque, la sentenza impugnata deve essere riformata e dichiarato coerentemente illegittimo, per elusione di giudicato, l’adempimento che il Comune indica come soddisfacentemente eseguito.
La non adeguatezza dell’adempimento, per elusione del giudicato, conduce altresì a ritenere persuasiva la domanda di risarcimento del danno formulata dagli architetti che, accolta, può condurre ad una liquidazione equitativa del danno in euro 5.000,00 per ciascuno dei ricorrenti incidentali, anche nella considerazione del tempo impiegato dall’ente locale nel giungere all’adozione di un atto pur sempre non coerente con quello da esso atteso.
Non persuasiva, di contro, la richiesta di astreinte formulata dagli appellanti incidentali, specie in considerazione del fatto che gli stessi non risultano aver addotto argomenti in ordine al requisito della non manifesta iniquità di cui all’art. 114, co. 4, lett e), del c.p.a..
4. In conclusione, va respinto l’appello principale e, in accoglimento parziale di quello incidentale, deve essere riformata in parte la sentenza appellata, in particolare con la condanna del Comune al risarcimento del danno in favore degli appellanti incidentali nella misura innanzi detta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.11.2016 n. 4824  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Non vi è dubbio che sia l’interpretazione letterale della norma che quella logico-sistematica depongono per una lettura che riconosce anche agli gli appalti di forniture e servizi l’incentivo previsto dalla disposizione normativa, senza che sia necessaria per il riconoscimento dell’incentivo, la presenza di un appalto misto ossia di un appalto di un servizio o fornitura collegato ad un lavoro pubblico.
E’ evidente che il termine “lavori a base d’asta” utilizzata nel secondo comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture.
In breve, il compenso incentivante, è previsto per i servizi e le forniture in maniera autonoma, ossia a prescindere da ogni collegamento con l’esecuzione di lavori, ovviamente nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo 113 del d.lgs. 50/2016.
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Per quanto riguarda quali criteri l’amministrazione debba utilizzare per graduare l’importo dell’incentivo e se sia legittimo servirsi di criteri che riducano la quota dell’incentivo con l’aumento dell’importo dell’opera, si osserva che la risposta comporterebbe una valutazione di merito incompatibile con l’attività consultiva della Corte che, come è noto, non può interferire con l’attività di gestione dell’ente.
Si può soltanto affermare in via generale, a giudizio di questa Sezione, che
i criteri devono essere conformi a parametri di congruità e di ragionevolezza.
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Circa la questione se spetti il compenso incentivante per la progettazione ed il coordinamento della sicurezza richiamate nel comma 1 ma poi non indicate nel comma 2 dell’art. 113, si ritiene che il compenso non spetti in quanto il legislatore con il comma 1 ha inteso stabilire che gli oneri per le attività ivi menzionate fanno carico sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, mentre con il comma 2 ha voluto definire il valore massimo del fondo incentivante (2% del valore dell’opera) e determinare i beneficiari dello stesso tra i quali non sono presenti le attività relative alla progettazione ed al coordinamento della sicurezza.

D’altra parte come ricordato anche dall’ANAC con determinazione 14.09.2016 n. 973 (linee guida sull’affidamento dei servizi di ingegneria e di architettura)
nel caso di progettazione interna non potrà essere riconosciuto l’incentivo del 2% in quanto non previsto dalla legge delega.
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Questa Sezione ritiene che la quota non utilizzata dell’incentivo di cui al comma 3, penultimo periodo, dell’art. 113 (parte dell’incentivo corrispondente a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento) debba (nuovamente) incrementare il fondo per il finanziamento di quanto stabilito dall’art. 113, senza che, però, la suddetta somma possa maggiorare i compensi già stabiliti per i dipendenti interessati dal lavoro, servizio o fornitura, che hanno determinato il suddetto incremento.
In ultima analisi
non vi sarà un’economia di spesa ma un incremento del fondo previsto dall’art. 113 del codice dei contratti nelle sue articolazioni.
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Il Presidente della provincia di Mantova ha formulato una richiesta di pareri in ordine a talune problematiche che riguardano la materia degli incentivi per le funzioni tecniche disciplinate dall’art. 113 del decreto legislativo 50/2016.
Prima di esaminare la richiesta, per una migliore comprensione dei quesiti, appare utile riportare integralmente l’art. 113 del decreto legislativo 50/2016:
1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2
”.
Il presidente della provincia di Mantova ha formulato la richiesta di parere per i seguenti quesiti che vengono così sintetizzati:
   1) se gli incentivi per funzioni tecniche debbano essere riconosciuti esclusivamente per gli appalti di lavori, ovvero anche per nel caso di appalti per servizi e forniture, e qualora (essi incentivi) siano riconoscibili anche per questi ultimi appalti, debbano essere soggetti ad incentivazione solo nel caso di appalti misti ascrivibili al regime dei lavori pubblici;
   2) in base a quale criterio le amministrazioni devono quantificare la percentuale da destinare all’apposito fondo previsto dal comma 2 del succitato articolo, e se l’eventuale graduazione delle risorse da destinare al suddetto fondo in seguito agli esiti della contrattazione decentrata, possa essere disciplinata per fasce di importo che moduli la percentuale da destinare al fondo stesso con riduzione progressiva della stessa in maniera proporzionale all’aumento dell’importo;
   3) se la progettazione ed il coordinamento della sicurezza, richiamate nel comma 1 ma non menzionate nel comma 2 dell’art. 113 siano da escludere dagli incentivi;
   4) come deve essere interpretato il disposto del comma 3 penultimo periodo laddove sancisce che “le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento incrementano la quota del fondo di cui al comma 2;
...
Per quanto riguarda il quesito n. 1 dove si chiede se gli incentivi siano da riconoscere soltanto agli appalti di lavori ovvero anche agli appalti di servizi o forniture,
non vi è dubbio che sia l’interpretazione letterale della norma che quella logico-sistematica depongono per una lettura che riconosce anche agli gli appalti di forniture e servizi l’incentivo previsto dalla disposizione normativa, senza che sia necessaria per il riconoscimento dell’incentivo, la presenza di un appalto misto ossia di un appalto di un servizio o fornitura collegato ad un lavoro pubblico.
L’art. 113 al secondo comma, infatti, sancisce che gli stanziamenti di cui al primo comma debbano finanziare, fra l’altro, un fondo non superiore al 2 per cento del importo del lavoro a base d’asta, per l’attività relativa alla programmazione della spesa per investimenti, alla verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e dei costi stabiliti.
L’art. 113 al terzo comma espressamente stabilisce che l’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio o fornitura con le modalità ed i criteri previsti di contrattazione decentrata e pertanto, anche per questa tipologia di appalti (servizi e forniture) la possibilità di incentivazione è prevista per tabulas.
E’ evidente che il termine “lavori a base d’asta” utilizzata nel secondo comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture.
Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone che il responsabile unico del procedimento controlla l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di conformità per i servizi e le forniture e disciplina una serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse figure professionali che dovranno svolgere quelle attività destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 e la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare.
Non bisogna infine dimenticare che il nuovo codice degli appalti prevede anche per l’acquisto di beni e servizi l’obbligo della programmazione (disposizione già introdotta dalla finanziaria 2016 -legge 208/2015 art. 1, comma 505- per gli acquisti superiori ad 1.000.000 di euro ed ora superata dall’art. 21 del decreto legislativo).
L’art. 21 del decreto legislativo 50/2016 dispone che le amministrazioni aggiudicatrici adottano il programma biennale degli acquisti di beni e servizi ed i programma triennale dei lavori pubblici, nonché i relativi aggiornamenti annuali. I programmi sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio.
In breve,
il compenso incentivante, è previsto per i servizi e le forniture in maniera autonoma, ossia a prescindere da ogni collegamento con l’esecuzione di lavori, ovviamente nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo 113 del decreto.
Per quanto riguarda il quesito (rectius i quesiti) n. 2, ovvero quali criteri l’amministrazione debba utilizzare per graduare l’importo dell’incentivo e se sia legittimo servirsi di criteri che riducano la quota dell’incentivo con l’aumento dell’importo dell’opera, si osserva che la risposta comporterebbe una valutazione di merito incompatibile con l’attività consultiva della Corte che, come è noto, non può interferire con l’attività di gestione dell’ente.
Tuttavia, è utile richiamare quanto evidenziato dalla sezione Autonomie con deliberazione 13.05.2016 n. 18 che nel commento all’art. 93 del decreto legislativo 163/2006, ancora utile per quanto qui interessa, ha scritto ”Ai fini del corretto inquadramento della tematica, si rende necessario un breve excursus normativo, che prende le mosse dall’art. 13, del d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. n. 114/2014, con il quale sono stati abrogati i commi 5 e 6 dell’art. 92.
Il successivo articolo 13-bis, rubricato “Fondi per la progettazione e l'innovazione”, ha aggiunto all’art. 93, del d.lgs. n. 163/2006, una serie di commi fra cui il comma 7-bis, che, nell’istituire un apposito fondo per la progettazione e l’innovazione, demanda ad un regolamento dell’ente la determinazione della percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, in forza di quanto disposto dal successivo comma 7-ter, per l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. Il restante 20 per cento è destinato, dal comma 7-quater all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all’ammodernamento ed all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006 demanda al potere regolamentare di ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
Tale regolamento, nel quale trova necessario presupposto l’erogazione degli emolumenti in questione, ha rappresentato da sempre un passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia, nel rispetto dei principi e canoni stabiliti dalla legge, e per tale motivo gli enti sono tenuti ad adeguarlo tempestivamente alle novità normative. Analogo adempimento, pertanto (previa definizione dei nuovi criteri in sede di contrattazione decentrata integrativa), si renderà necessario anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014
.”
Si può soltanto affermare in via generale, a giudizio di questa Sezione, che
i criteri devono essere conformi a parametri di congruità e di ragionevolezza.
Per quanto riguarda il quesito n. 3 dove si chiede
se spetti il compenso incentivante per la progettazione ed il coordinamento della sicurezza richiamate nel comma 1 ma poi non indicate nel comma 2 dell’art. 113, si ritiene che il compenso non spetti in quanto il legislatore con il comma 1 ha inteso stabilire che gli oneri per le attività ivi menzionate fanno carico sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, mentre con il comma 2 ha voluto definire il valore massimo del fondo incentivante (2% del valore dell’opera) e determinare i beneficiari dello stesso tra i quali non sono presenti le attività relative alla progettazione ed al coordinamento della sicurezza.
D’altra parte come ricordato anche dall’ANAC con determinazione 14.09.2016 n. 973 (linee guida sull’affidamento dei servizi di ingegneria e di architettura)
nel caso di progettazione interna non potrà essere riconosciuto l’incentivo del 2% in quanto non previsto dalla legge delega (art. 1, comma 1, lettera rr) della legge 11/2016).
La sezione Autonomie, poi, nella richiamata deliberazione 13.05.2016 n. 18 ha ricordato che "In linea con quanto previsto dai criteri di delega (art. 1, comma 1, lett. rr) contenuti nella legge 28.01.2016, n. 11, la nuova normativa, sostitutiva della precedente, abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter ed introduce, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche”. Disposizione, quest’ultima, rinvenibile al Tit. IV del d.lgs. n. 50/2016 rubricato “Esecuzione”, che disciplina gli
incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la realizzazione corretta dell’opera”.
Per quanto riguarda il quesito n. 4 questa Sezione ritiene che
la quota non utilizzata dell’incentivo di cui al comma 3, penultimo periodo, dell’art. 113 (parte dell’incentivo corrispondente a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento) debba (nuovamente) incrementare il fondo per il finanziamento di quanto stabilito dall’art. 113, senza che, però, la suddetta somma possa maggiorare i compensi già stabiliti per i dipendenti interessati dal lavoro, servizio o fornitura, che hanno determinato il suddetto incremento.
In ultima analisi
non vi sarà un’economia di spesa ma un incremento del fondo previsto dall’art. 113 del codice dei contratti nelle sue articolazioni (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: Rif. circolare del CNI del 28.10.2016, prot. n. U-rsp/6252/2016 - Competenze professionali degli Architetti sugli edifici vincolati - valutazioni (Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, nota 23.11.2016 n. 3644 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 30.11.2016, "Nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016): eliminazione acquisti in economia e conseguenti determinazioni" (deliberazione G.R. 28.11.2016 n. 5859).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATANel settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
   i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
   ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
   iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
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Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé. La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto, dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza (
«(…) realizzazione di un corpo ascensore e scala esterni che ne modificano sostanzialmente la percezione dalla strada con cui (attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra edificio, aperture e balconi sul prospetto sud») non risulta, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in quanto manca una adeguata descrizione del contesto paesaggistico e soprattutto del rapporto tra gli interventi che si intendono realizzare e il contesto stesso.
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1.– La Be.Ho. s.r.l. (d’ora innanzi anche solo società), al fine di realizzare un annesso con nuove camere al servizio del proprio albergo sul terreno sito lungo la s.s. 45-bis Gardesana e distinto al catasto al foglio 21 mappale 1096, ha realizzato senza titoli abilitativi un intervento di risanamento conservativo su un vecchio edificio in prossimità dell’albergo stesso, denominato “Villa Mughetto” ovvero “dei Mughetti”, già adibito a residenza estiva per membri del clero e poi abbandonato e lesionato da successivi eventi sismici.
In particolare, la società ha realizzato:
   i) all’interno del corpo di fabbrica una serie di alloggi bilocale, pensati per le famiglie in vacanza;
   ii) all’esterno, sul lato nord ha costruito un vano scale ed ascensore, finalizzati a consentire un accesso più agevole e a costituire una via di fuga in caso di emergenza.
Essendo l’area sottoposta a vincolo, ai sensi del decreto ministeriale 15.03.1985, n. 65, la società ha presentato domanda di sanatoria, anche paesaggistica.
La Soprintendenza, con atto 18.10.2011, ha espresso parere sfavorevole, così motivato: «(…) realizzazione di un corpo ascensore e scala esterni che ne modificano sostanzialmente la percezione dalla strada con cui (attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra edificio, aperture e balconi sul prospetto sud».
L’amministrazione comunale, con atto 07.07.2014, n. 144, ha, implicitamente, rigettato la domanda di sanatoria e ordinato la rimozione delle opere in esame, preavvertendo della possibilità, in caso di inottemperanza, di acquisire i beni oggetto dell’ordinanza e la relativa area al patrimonio pubblico.
2.– La società ha impugnato tali atti innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza 13.02.2015, n. 264, ha accolto il ricorso, rilevando l’illegittimità del parere della Soprintendenza sia perché adottato senza la comunicazione del preavviso di rigetto sia perché privo di adeguata motivazione.
In particolare, in relazione a quest’ultimo aspetto, si è affermato che in presenza di un vincolo paesaggistico e non monumentale sull’edificio «la compatibilità di un intervento va allora valutata dal punto di vista di chi osserva da lontano, e non è esclusa per il solo fatto che le innovazioni siano visibili su questa scala più ampia; viene infatti meno quando le stesse, oltre che visibili, siano oggettivamente percepibili come un’indebita intrusione, avuto riguardo alle forme, ai colori, alle dimensioni e alla funzione dei nuovi manufatti, da apprezzare comparando l’interesse pubblico alla conservazione con quello privato alla fruizione del territorio».
3.– L’amministrazione ha proposto appello rilevando che:
   i) l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del fatto che la Soprintendenza, con parere 06.05.2010, aveva già espresso parere negativo;
   ii) gli interventi in esame sarebbe incompatibili con il quadro di insieme che il vincolo ambientale intende tutelare, atteso che di esso «fanno parte integrante proprio quelle ville e villini tra i quali rientra anche l’immobile interessato dall’intervento, con la conseguenza che, stravolgendone le precipue caratteristiche, l’intera prospettiva sottoposta a tutela viene ad essere snaturata». Si aggiunge che il primo giudice avrebbe invaso in modo indebito sfera di azione propria dell’amministrazione.
3.1.– Si è costituita in giudizio la società, ricorrente in primo grado, chiedendo il rigetto dell’appello e riproponendo i motivi non esaminati dal Tribunale amministrativo.
3.2. La Sezione, con ordinanza 21.10.2015, n. 4792, ha sospeso l’efficacia della sentenza impugnata ad eccezione della parte in cui la stessa aveva privato di effetti l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
3.3.– La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 13.10.2016.
4.– L’appello non è fondato.
5.– Con un primo motivo, l’appellante deduce che l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del fatto che l’amministrazione, con parere 06.05.2010, aveva già espresso parere negativo.
Il motivo non è fondato.
L’art. 146, comma 8, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137) dispone che il Soprintendente, in caso di parere negativo, deve comunicare agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
Nella fattispecie in esame la Soprintendenza non ha rispettato quanto previsto dalla suddetta norma, non avendo comunicato il preavviso di rigetto. Tale omissione non può ritenersi, come sostiene l’appellante, giustificata dall’esistenza di un precedente parere negativo, in quanto si tratta di vicende amministrative non completamente sovrapponibili, con la conseguenza che l’amministrazione avrebbe dovuto assicurare, anche in relazione al procedimento in esame, una previa interlocuzione con il privato.
6.– Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto non congrua la motivazione del parere, in quanto gli interventi in esame sarebbe incompatibili con il quadro di insieme che il vincolo ambientale intende tutelare, atteso che di esso «fanno parte integrante proprio quelle ville e villini tra i quali rientra anche l’immobile interessato dall’intervento, con la conseguenza che, stravolgendone le precipue caratteristiche, l’intera prospettiva sottoposta a tutela viene ad essere snaturata». Si aggiunge che il primo giudice avrebbe invaso in modo indebito la sfera di azione propria dell’amministrazione.
Il motivo non è fondato.
Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che, nel settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (Cons. Stato, sez. VI, 23.12.2013, n. 6223; Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535).
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé. La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto, dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza, sopra riportata, non risulta, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in quanto manca una adeguata descrizione del contesto paesaggistico e soprattutto del rapporto tra gli interventi che si intendono realizzare e il contesto stesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.11.2016 n. 4925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl trasferimento di cubatura, riconosciuto dal legislatore statale come schema negoziale tipico (recependo l’istituto già affermatosi nella prassi dei mercatores immobiliari) –nell’esplicazione della potestà legislativa esclusiva attribuita allo Stato in materia di ordinamento civile–, deve ritenersi generalmente ammesso, salvo che la normativa settoriale urbanistica ovvero gli strumenti di pianificazione territoriale lo vietino per particolari ragioni o lo assoggettino a particolari condizioni, in tal senso dovendo essere inteso il rinvio del novellato art. 2643, n. 2-bis), cod. civ., alle «normative statali o regionali», ovvero agli «strumenti di pianificazione territoriale» (in altri termini, il trasferimento di diritti edificatori trova il proprio limite, oltre che in eventuali discipline speciali della legislazione urbanistica, nelle statuizioni degli strumenti urbanistici, i quali potrebbero vietare tali operazioni per alcune aree, oppure contenere previsioni inerenti alla determinazione della volumetria realizzabile fondata su criteri incompatibili con il suo trasferimento).
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Nella specie non può ritenersi ostativo al trasferimento di diritti edificatori la previsione dell’art. 15 delle n.t.a. al p.u.c. –che, per la «zona residenziale B4 - zona di completamento», stabilisce l’indice della «densità edilizia massima» di 2,20 mc/mq, intendendosi per ‘densità edilizia’ «il rapporto (mc/mq) tra la cubatura urbanistica realizzabile fuori terra e la relativa superficie catastale del lotto edificatorio» (v., così, la definizione contenuta nell’art. 1 delle n.t.a. al p.u.c.)–, poiché, in difetto di espresso divieto, la densità edificatoria del singolo lotto può essere ridistribuita, con lo strumento del trasferimento di diritti edificatori (olim, cessione di cubatura), tra i vari lotti di una stessa zona omogenea, nel rispetto dell’indice territoriale dell’intera zona e del relativo complessivo carico urbanistico.
Con riguardo al previgente istituto pretorio della cessione di cubatura, ex plurimis, Cons. St., Sez. V, 19.04.2013, n. 2220, secondo cui l’asservimento della volumetria da un lotto a favore di un altro, onde realizzare una maggiore edificabilità, è consentita solo con riferimento ad aree aventi una medesima destinazione urbanistica, posto che, diversamente, si verificherebbe un’evidente alterazione delle caratteristiche tipologiche della zona tutelate dalle norme urbanistiche, con la conseguenza che, in quel caso, è stato ritenuto inammissibile un trasposto di cubatura tra le sottozone F2 e F3, in quanto aventi indici di edificabilità diverse, e trattandosi quindi di zone disomogenee.
Invero, negare la possibilità del trasferimento di diritti edificatori nell’ambito di una stessa zona omogenea, con la motivazione del mancato rispetto del parametro dell’indice edificatorio fondiario del lotto beneficiario, equivarrebbe ad una sostanziale abrogazione dell’istituto introdotto dal citato art. 5 d.l. n. 50/2011, perseguendo l’istituto in esame il precipuo fine di aumentare la capacità edificatoria del lotto di proprietà del cessionario, anche e proprio nei casi in cui la capacità edificatorio del lotto sia già esaurita, ché, diversamente, non sarebbe necessario l’acquisto di diritti edificatori provenienti da altro immobile (il tutto, purché venga rispettato l’indice territoriale dell’intera zona).
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Orbene, ritiene il collegio che, contrariamente a quanto affermato dal T.r.g.a., deve ritenersi ammissibile e legittimo, sotto un profilo urbanistico-edilizio, il trasferimento della cubatura di 60 mc + 32 mc, dalla p.m. 14 della p.ed. 1544 e, rispettivamente, dalla p.m. 4 della p.ed. 714, alla p.m. 10 della p.ed. 1782, in quanto:
- tutti gli immobili interessati dal trasferimento di cubatura –sia quelli a quibus, sia quello ad quem– sono ubicati nella stessa zona omogenea, quale territorialmente delimitata nel piano di zonizzazione del p.u.c. di Brunico, urbanisticamente qualificata come ‘zona residenziale B4 - zona di completamento’ (v. estratto del piano di zonizzazione, in atti);
- dalla documentazione catastale (v. «visura catastale particelle validate», in atti) emerge che le p.ed. 714 e 1544 confinano con la p.ed. 1782 e che, in particolare, la p.m. 10 della p.e.d 1782 è frapposta tra le due particelle da cui proviene la cubatura trasferita, sicché gli immobili devono ritenersi tra di loro contigui per gli effetti urbanistici, essendo anche tali lotti ubicati nella medesima zona servita dalle medesime opere di urbanizzazione, e avendo gli stessi la medesima destinazione residenziale (impressa alla p.m. 10 dalle gravate concessioni);
- la ridistribuzione della volumetria tra i fondi, per effetto dei contratti di cessione stipulati tra i relativi proprietari, non altera pertanto il carico urbanistico della zona, lasciandone al contempo inalterata la densità territoriale complessiva;
- il trasferimento di cubatura, riconosciuto dal legislatore statale come schema negoziale tipico (recependo l’istituto già affermatosi nella prassi dei mercatores immobiliari) –nell’esplicazione della potestà legislativa esclusiva attribuita allo Stato in materia di ordinamento civile–, deve ritenersi generalmente ammesso, salvo che la normativa settoriale urbanistica (nella specie viene in rilievo la disciplina provinciale, rientrando l’urbanistica nelle materie attribuite alla competenza primaria delle province autonome) ovvero gli strumenti di pianificazione territoriale lo vietino per particolari ragioni o lo assoggettino a particolari condizioni, in tal senso dovendo essere inteso il rinvio del novellato art. 2643, n. 2-bis), cod. civ., alle «normative statali o regionali», ovvero agli «strumenti di pianificazione territoriale» (in altri termini, il trasferimento di diritti edificatori trova il proprio limite, oltre che in eventuali discipline speciali della legislazione urbanistica, nelle statuizioni degli strumenti urbanistici, i quali potrebbero vietare tali operazioni per alcune aree, oppure contenere previsioni inerenti alla determinazione della volumetria realizzabile fondata su criteri incompatibili con il suo trasferimento);
- nella specie non può ritenersi ostativo al trasferimento di diritti edificatori la previsione dell’art. 15 delle n.t.a. al p.u.c. –che, per la «zona residenziale B4 - zona di completamento», stabilisce l’indice della «densità edilizia massima» di 2,20 mc/mq, intendendosi per ‘densità edilizia’ «il rapporto (mc/mq) tra la cubatura urbanistica realizzabile fuori terra e la relativa superficie catastale del lotto edificatorio» (v., così, la definizione contenuta nell’art. 1 delle n.t.a. al p.u.c.)–, poiché, in difetto di espresso divieto, la densità edificatoria del singolo lotto può essere ridistribuita, con lo strumento del trasferimento di diritti edificatori (olim, cessione di cubatura), tra i vari lotti di una stessa zona omogenea, nel rispetto dell’indice territoriale dell’intera zona e del relativo complessivo carico urbanistico (v., su tali principi, Cons. Stato, Sez. VI, 08.04.2016, n. 1398, relativa ad una fattispecie analoga concernente una vicenda urbanistico-edilizia in un comune limitrofo a quello di Brunico; v. altresì, con riguardo al previgente istituto pretorio della cessione di cubatura, ex plurimis, Cons. St., Sez. V, 19.04.2013, n. 2220, secondo cui l’asservimento della volumetria da un lotto a favore di un altro, onde realizzare una maggiore edificabilità, è consentita solo con riferimento ad aree aventi una medesima destinazione urbanistica, posto che, diversamente, si verificherebbe un’evidente alterazione delle caratteristiche tipologiche della zona tutelate dalle norme urbanistiche, con la conseguenza che, in quel caso, è stato ritenuto inammissibile un trasposto di cubatura tra le sottozone F2 e F3, in quanto aventi indici di edificabilità diverse, e trattandosi quindi di zone disomogenee);
- negare la possibilità del trasferimento di diritti edificatori nell’ambito di una stessa zona omogenea, con la motivazione del mancato rispetto del parametro dell’indice edificatorio fondiario del lotto beneficiario, equivarrebbe ad una sostanziale abrogazione dell’istituto introdotto dal citato art. 5 d.l. n. 50/2011, perseguendo l’istituto in esame il precipuo fine di aumentare la capacità edificatoria del lotto di proprietà del cessionario, anche e proprio nei casi in cui la capacità edificatorio del lotto sia già esaurita, ché, diversamente, non sarebbe necessario l’acquisto di diritti edificatori provenienti da altro immobile (il tutto, purché venga rispettato l’indice territoriale dell’intera zona);
- alla stregua di quanto sopra, nella fattispecie sub iudice il trasferimento dei diritti edificatori deve ritenersi legittimo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.11.2016 n. 4861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio –segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo– sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, ma soltanto alla condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
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Si premette, in linea di diritto, che secondo l’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, condiviso dal collegio, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio –segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, rispettivamente il corrispondente art. 70 l. urb. prov. (emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano nell’esercizio della potestà legislativa primaria in materia di urbanistica), la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo– sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, ma soltanto alla condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.09.2012, n. 5128; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2546) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.11.2016 n. 4861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALILegali, parcella per ogni atto. Compenso dovuto anche per comunicazioni e trasferte. La Cassazione definisce il perimetro delle competenze economiche degli avvocati.
La Corte di Cassazione (VI Sez. civile) con ordinanza 10.11.2016 n. 22951, ha ribadito che all'avvocato è dovuto un compenso per l'esame del dispositivo di ogni sentenza e di ogni decreto o ordinanza, anche se emessi in udienza. Sono, altresì, dovuti i compensi chiesti a titolo di corrispondenza informativa ed anche quelli per indennità di trasferta.
La Corte di appello aveva parzialmente accolto il ricorso proposto da Caio, avvocato, e riliquidato le spese di primo grado in somma diversa da quella richiesta, avuto riguardo al minimo tariffario previsto dal dm 08/04/2004 n. 127 per lo scaglione di riferimento in considerazione della minima complessità della controversia, detraendo l'importo chiesto a titolo di onorari per la discussione orale e per i diritti di procuratore le voci relative all'esame della documentazione di controparte, l'esame di tre ordinanze non risultando altra ordinanza se non quella di nomina del Ctu già presente in udienza, quella relativa alla corrispondenza informativa con il cliente mancando documentazione al riguardo e le somme chieste a titolo di indennità di trasferta per tre udienze mancandone la prova necessaria.
Inoltre i giudici della Suprema corte hanno anche evidenziato come bisogna ritenere per ciò stesso assolto da parte del difensore il dovere di informare il cliente per invitarlo a parteciparvi, con la conseguenza che per la liquidazione della corrispondente voce non è richiesta la prova.
L'attribuzione di ulteriori competenze per tale titolo è subordinata, invece, in ossequio a un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, alla documentazione e, comunque, alla prova certa dell'effettività della prestazione professionale come specificamente indirizzata a tenere informato il cliente di eventi processuali rilevanti (si veda, tra le altre, Cass. 17/10/2007 n. 8152). Sembra quindi opportuno evidenziare come il tenore letterale della voce n. 15 dell'allegato B al dm n. 127 dell'08.04.2004, sia chiaro nel disporre che è dovuto un compenso «per l'esame del dispositivo di ogni sentenza e di ogni decreto o ordinanza, anche se emessi in udienza».
Quanto all'indennità di trasferta i giudici della Cassazione hanno rilevato che la voce n. 57 della citata tabella prevede che «Per il trasferimento fuori dal proprio domicilio sono dovute le spese e l'indennità così come previste nella tabella degli onorari stragiudiziali».
L'art. 8 della Tabella D prevede che «all'avvocato che, per l'esecuzione dell'incarico ricevuto, debba trasferirsi fuori dal proprio domicilio professionale, sono dovute le spese di viaggio e di soggiorno -pernottamento in albergo 4 stelle e vitto- rimborsate nel loro ammontare documentato, con una maggiorazione del 10% a titolo di rimborso delle spese accessorie; in caso di utilizzo di autoveicolo proprio è dovuta un'indennità chilometrica pari ad un quinto del costo del carburante a litro, oltre alle spese documentate per pedaggio autostradale e parcheggio. Sono in ogni caso dovuti gli onorari relativi alla prestazione effettuata e un'indennità di trasferta da un minimo di euro 10,00 a un massimo di euro 30,00 per ogni ora o frazione di ora, con un massimo di otto ore giornaliere» (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIL'errore dell'avvocato non basta. Cassazione.
L'avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver commesso un errore o un'omissione nello svolgimento del suo incarico. Per accertare la responsabilità professionale, infatti, è necessario che il cliente, dopo aver mosso specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta asseritamente dannosa.

Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 10.11.2016 n. 22882.
Il caso è quello di un'azione di responsabilità professionale promossa da una società operante nella sanità privata, nei confronti di due legali, fondata su presunti errori commessi nel fornire assistenza in relazione ad alcune fasi di una complessa procedura di licenziamento collettivo dei propri dipendenti, che, rivelatasi poi illegittima, si è tradotta in un danno consistente.
Gli Ermellini hanno ritenuto che l'impugnazione promossa dalla Casa di cura avverso le sentenze di primo e secondo grado, che avevano escluso la responsabilità dei legali, fosse essenzialmente priva di pregio, per diverse ragioni. Con specifico riferimento ai criteri di valutazione dell'operato dei professionisti, la Corte ha condiviso l'impianto motivazionale adottato dai Giudici di merito, fondato su due aspetti: la “marginalità” della condotta dei professionisti nella produzione del danno e l'esclusione della colpevolezza.
Quanto al primo, hanno escluso la rilevanza causale di detta condotta dei legali, atteso che l'incarico era stato loro conferito “in corso d'opera”, vale a dire in epoca successiva all'avvio delle procedure amministrative di licenziamento. Quanto al secondo, hanno valorizzato la circostanza per cui l'incarico atteneva a questione resa controversa da una giurisprudenza ambigua, peraltro complicata da sopraggiunti interventi normativi.
In ogni caso, il “cuore” della sentenza attiene ad un aspetto di carattere prettamente processuale, che si traduce, sostanzialmente, in una severa interpretazione dell'onere della prova a carico del cliente asseritamente danneggiato (articolo ItaliaOggi del 17.11.2016).

APPALTI FORNITUREAggiudicazione, ripristino non è un atto dovuto.
In tema di forniture alla pubblica amministrazione, la pendenza di un giudizio risarcitorio per una precedente revoca non rende il ripristino dell'aggiudicazione atto dovuto, ma costituisce, semmai, uno degli elementi da ponderare in sede di valutazione sul modo di conseguire la fornitura ritenuta necessaria.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 03.11.2016 n. 4613.
I giudici del Consiglio di stato hanno, altresì, osservato che, stante il principio di immodificabilità dell'offerta e il quinquennio eventualmente trascorso, sarà onere della stazione appaltante dar conto della ricomprensione delle modifiche nell'ambito dell'aggiornamento tecnologico, e sembra indiscutibile che tale valutazione vada fatta, o comunque debba essere adeguatamente esternata.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei supremi giudici amministrativi, a distanza di cinque anni dalla presentazione dell'offerta, in un settore soggetto a rapida evoluzione/obsolescenza e con prezzi in tendenziale continua diminuzione (a fronte della medesima prestazione), una valutazione aggiornata e comparativa della convenienza economica dell'offerta, a parere dei giudici di palazzo Spada era certamente necessaria, e, oltre che dell'opportunità di ottenere una diminuzione del prezzo dell'8%, di definire la fornitura in tempi brevi e di eliminare i rischi altrimenti derivanti dal contenzioso in essere (elementi favorevoli considerati nel provvedimento), sarebbe stato opportuno prendere in considerazione anche le condizioni economiche ottenibili sul mercato e rilevabili, anzitutto, dalle forniture pubbliche effettuate in tempi più recenti.
Il thema decidendum prendeva le mosse dal fatto che la Ausl aveva espletato una gara per l'affidamento della fornitura in noleggio di un sistema RIS/PACS (a supporto dell'attività di gestione, archiviazione, stampa e trasmissione delle immagini, dei referti e dei dati clinici prodotti dalle Unità Operative di Radiologia) per un periodo di 6 anni con opzione di riscatto, aggiudicandola con deliberazione alla Alfa Spa.
A seguito della trasformazione in ambulatori di alcuni ospedali, con delibera la gara e l'aggiudicazione venivano revocate. La Alfa impugnava la revoca dinanzi al Tar, chiedendo il riconoscimento del diritto alla conclusione del contratto nonché la condanna della Ausl al risarcimento dei danni (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

VARILiti con casa di cura nel foro dell'utente.
Il foro competente per le liti tra pazienti e case di cura è quello del consumatore. Quindi, nelle controversie legali instaurate con le case di cura vale il foro dell'utente.

Questo sulla base di quanto ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con la ordinanza 02.11.2016 n. 22133, secondo cui rimane indiscussa la natura privatistica del rapporto sia con il medico sia con la casa di cura.
La Suprema corte, sezione civile, ha così accolto il ricorso di una donna, che chiedeva il risarcimento dei danni sofferti a seguito di un intervento chirurgico non risolutivo, effettuato presso una clinica operante in regime privatistico, sia pure in convenzione con il servizio sanitario nazionale.
Nella propria domanda risarcitoria, la paziente si era rivolta al proprio giudice di riferimento quale «foro del consumatore», sostenendo, in maniera corretta, secondo i giudici di legittimità, che l'espletamento della prestazione contestata da parte dell'azienda sanitaria privata, dunque in regime privatistico, comportasse di diritto dell'applicazione del foro del consumatore e non quello dell'azienda.
Dal canto suo, il pm, nelle sue conclusioni, aveva chiesto l'esclusione della rilevanza del foro del consumatore sulla base della motivazione di una precedente decisione della Cassazione (n. 8093 del 2009). Il Collegio ha invece rilevato la declaratoria della competenza del Tribunale su tutta la controversia, evidenziando la «manifesta erroneità della declinatoria di competenza, al di là della sua motivazione, certamente incomprensibile là dove discetta della natura della prestazione sanitaria per escludere la rilevanza del foro del consumatore e parrebbe adombrare che la responsabilità della casa di cura non sarebbe contrattuale».
In particolare, la massima Corte ha osservato come i giudici di merito avessero sbagliato a negare la qualifica di professionista della casa di cura operante, stante la natura privatistica del rapporto tra di essa e la paziente. Ricorre, quindi, il foro del consumatore non essendo stata messa in discussione la natura privatistica del rapporto medico/casa di cura (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

EDILIZIA PRIVATACostante orientamento giurisprudenziale ha rilevato come l'art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di abitabilità dell'immobile condonato.
Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere eccezionale e derogatorio della disciplina del condono edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano della legittimità costituzionale, perché incidenti sul fondamentale principio della tutela della salute.
Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di una normativa di rango primario, costituendo una diretta applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265 (Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
Ne consegue che proprio il carattere della fonte, diretta attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, non autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono per le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene, questi ultimi non attuativi di norme di legge gerarchicamente sovraordinate.

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FATTO
Il Sig. Ca.Ve. e la Sig.ra Ca.El. hanno impugnato un provvedimento di annullamento degli effetti dell’attestazione di abitabilità e del successivo rigetto della richiesta di riesame, provvedimenti questi ultimi successivi ad un cambio di destinazione da residence a abitazione civile proposto dagli stessi ricorrenti.
Il provvedimento di annullamento degli effetti dell’attestazione di abitabilità risulta emanato in considerazione del fatto che non sarebbero stati dimostrati i requisiti igienico-sanitari di cui al DM del 05.07.1975, in quanto l'immobile avrebbe una superficie pari a soli 25 mq., inferiore ai 28 mq previsti dalla disposizione sopra citata.
I ricorrenti con l’unico motivo sostengono la violazione dell’art. 35, comma 20, della legge 28.02.1985 n. 47 e degli artt. 24 del D.p.r. n.380/01 e 149 della L. Reg. n. 65/2014, in quanto dette disposizioni consentirebbero, una volta intervenuto il condono edilizio, di ottenere l'attestazione di abitabilità anche in deroga delle norme regolamentari e, quindi, anche del DM del 05.07.1975.
Si è costituito il Comune di Firenze contestando le argomentazioni dei ricorrenti e chiedendo il rigetto del ricorso in considerazione della sua infondatezza.
All’udienza del 25.10.2016, uditi i procuratori delle parti costituite, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
DIRITTO
1. In ricorso è infondato e va respinto.
1.1 E’ necessario evidenziare che la fattispecie in esame risulta disciplinata dall’art. 3 del DM del 05.07.1975 nella parte in cui prevede che l'alloggio monostanza, per una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a mq. 28, e non inferiore a mq. 38, se per due persone.
1.2 Detta disposizione a parere dei ricorrenti risulterebbe derogabile nell’ipotesi di condono in considerazione di quanto previsto dall’art. 35, comma 20, della L. 47/1985 nella parte in cui dispone che "a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari.".
1.3 Le argomentazioni dei ricorrenti sono smentite da un costante orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come l'art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di abitabilità dell'immobile condonato (in questo senso si veda TAR Liguria, Genova, n. 194 del 27/1/2012).
1.4 Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere eccezionale e derogatorio della disciplina del condono edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano della legittimità costituzionale, perché incidenti sul fondamentale principio della tutela della salute (in questo senso TAR Toscana Sez. II, 03.04.2009, n. 559 e Cons. Stato, sez. V, 13.04.1999, n. 814).
1.5 Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di una normativa di rango primario, costituendo una diretta applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265 (Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
1.6 Ne consegue che proprio il carattere della fonte, diretta attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, non autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono per le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene, questi ultimi non attuativi di norme di legge gerarchicamente sovraordinate.
1.7 Nel caso di specie è circostanza incontestata che il manufatto in questione non presenta le caratteristiche necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione d'uso abitativa, difettando di una superficie minima non inferiore a mq. 28, sicché l’Amministrazione non avrebbe potuto che annullare gli effetti della dichiarazione di abitabilità.
1.9 Il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.11.2016 n. 1575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARISnc, responsabilità senza solidarietà. Sotto i riflettori rapporti intercorrenti tra soci. Nelle snc niente responsabilità solidale tra i soci.
La Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la sentenza 19.10.2016 n. 21066, si è soffermata sui rapporti intercorrenti tra i soci (le decisioni giurisprudenziali sono spesso riferite nei confronti dei terzi). In particolare, la Corte suprema, nell'ambito delle società in nome collettivo, ha escluso l'applicazione del principio della responsabilità solidale illimitata di ciascuno dei soci per le obbligazioni sociali (art. 2291 c.c.).
Dunque, tale principio vale solo ed esclusivamente ai fini della tutela dei terzi estranei alla società, è perciò operante solo nei confronti dei soggetti esterni alla società.
Nel caso di specie, due soci di una snc, con quote di partecipazione al capitale sociale identiche, avevano concesso in locazione alla società una villa di cui erano proprietari indivisi anche in questo caso per metà ciascuno. A questo punto uno dei due soci agisce in giudizio contro la società per avere il pagamento dei canoni relativi al suo 50% dell'immobile locato. Ma essendo il patrimonio sociale insufficiente, ha citato in giudizio l'altro socio per costringerlo a rispondere dell'obbligazione, sulla base del principio della responsabilità solidale illimitata dei soci per le obbligazioni sociali (art. 2291 cc). Tuttavia, la Suprema corte, ha stabilito che nei rapporti interni tra i soci tale principio non si applica poiché dettato esclusivamente a tutela dei creditori estranei alla società.
Qualora, quindi, un socio promuova un'azione nei confronti della snc e pretenda di estenderla anche ad altro socio illimitatamente responsabile, quest'ultimo risponde non illimitatamente (come nei confronti dei terzo), ma solo nei limiti della propria quota di capitale sociale (solo in questo caso, al pari delle società di capitali, ovvero al pari del socio accomandante della Sas).
Mentre, si può estendere agli altri soci l'azione esercitata dal socio creditore contro la società solo nel caso vi sia «un effettivo squilibrio tra i soci stessi nei reciproci obblighi di contribuzione per il pagamento dei debiti sociali», cosa che nel caso di specie non si è verificata poiché le quote di partecipazione erano uguali (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

AGGIORNAMENTO AL 28.11.2016

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALa Scia è un alert per la p.a.. Sentenza Cds.
L'amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo leso da una attività posta in essere da altro privato a seguito di una Scia, ha l'obbligo di procedere all'accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo. Ma scaduti i termini per l'esercizio dei poteri inibitori subentra la discrezionalità dell'ente il quale deve tenere conto anche dell'eventuale affidamento.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza 03.11.2016 n. 4610.
Decisione che assume particolare rilevanza in relazione al fatto che gli artt. 19 e 21-nonies della legge 241/1990, che disciplinano rispettivamente la Scia ed il potere di autotutela esercitato dalla p.a., sono stati di recente modificati dalla legge Madia, ovvero la legge 124/2015 e questo è uno dei primi pronunciamenti che affrontano la problematica connessa ai poteri dell'amministrazione a seguito di una azione proposta dal cosiddetto terzo.
Alla luce del fatto che il comma 6-ter dell'art. 19, ha rilevato il collegio, ha stabilito che la Scia non è provvedimento tacito direttamente impugnabile, ma gli interessati possono soltanto sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione prevista dal codice del processo amministrativo avverso il silenzio della p.a., vanno chiarite le questioni relative al tempo dell'azione esperibile dal terzo e al tipo di potere che il terzo stesso può «sollecitare».
A tale proposito il collegio, pur dando atto dell'esistenza di un orientamento il quale ritiene che il terzo possa chiedere al giudice di ordinare all'amministrazione di esercitare i poteri inibitori, anche dopo la scadenza del termine di 30 (per l'edilizia) e di 60 giorni per le altre fattispecie previsti dall'art. 19, legge 241/1990, la sezione ha ritenuto preferibile l'interpretazione della disposizione nel senso che il terzo può chiedere la condanna dell'amministrazione all'esercizio del potere ma in tal caso quest'ultimo deve comunque rispettare i requisiti che giustificano l'autotutela amministrativa per l'atto di secondo grado il quale, oggi, tiene conto anche dell'affidamento nel frattempo maturato (articolo ItaliaOggi del 16.11.2016).

EDILIZIA PRIVATASe il potere inibitorio dell’amministrazione sulla presentata SCIA, su denuncia del terzo, può essere esercitato anche oltre il termine di trenta (o sessanta) giorni previsto dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
In relazione al tempo, non è perfettamente adattabile lo schema dell’azione avverso il silenzio inadempimento a quella proposto dal terzo nell’ambito della SCIA.
L’art. 31 c.p.a. prevede, infatti, che l’azione si propone entro il termine di un anno dalla conclusione del procedimento. Ma in questo caso il ricorrente, essendo titolare dell’interesse legittimo pretensivo all’adozione di un provvedimento favorevole che ha attivato con la sua istanza, è a conoscenza del momento in cui il procedimento si deve concludere e, conseguentemente, di quando inizia a decorrere il termine di un anno.
Nel caso della SCIA, invece, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’adozione di atti sfavorevoli per il destinatario dell’azione amministrativa. Non è, pertanto, a conoscenza “diretta” dell’andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica.
In relazione alla natura del potere, un primo orientamento, seguito dalla sentenza impugnata, ritiene che il terzo possa chiedere al giudice di ordinare all’amministrazione di esercitare i poteri inibitori, anche nel caso in cui sia trascorso il termine di trenta (o sessanta) giorni previsto dall’art. 19.
Un secondo orientamento, che la Sezione ritiene preferibile, assume, invece, che il terzo possa chiedere la condanna dell’amministrazione all’esercizio di poteri che devono avere i requisiti che giustificano l’autotutela amministrativa.
Quest’ultima, calata nell’ambito del procedimento in esame, si connota in modo peculiare perché:
   i) essa non incide su un precedente provvedimento amministrativo e dunque si caratterizza per essere un atto di “primo grado” che deve, però, possedere i requisiti legittimanti l’atto di “secondo grado”;
   ii) l’amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo, ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo e ciò diversamente da quanto accade in presenza di un “normale” potere di autotutela che si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere.
Tale seconda opzione interpretativa è preferibile in quanto coniuga in modo più equilibrato le esigenze di liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo.
Se quest’ultimo potesse sollecitare i poteri inibitori senza limiti temporali e di valutazione dell’incidenza sulle posizioni del privato che è ricorso a questo modulo di azione verrebbero frustrate le ragioni della liberalizzazione, in quanto l’interessato, anche molto tempo dopo lo spirare dei trenta (o sessanta) giorni previsti dalla legge per l’esercizio dei poteri in esame, potrebbe essere destinatario di atti amministrativi inibitori dell’intervento posto in essere.
La qualificazione del potere come potere di autotutela costituisce invece, da un lato, maggiore garanzia per il privato che ha presentato la SCIA, in quanto l’amministrazione deve tenere conto dei presupposti che legittimano l’esercizio dei poteri di autotutela e, in particolare, dell’affidamento ingenerato nel destinatario dell’azione amministrativa, dall’altro, non vanifica le esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può comunque fare valere, pur con queste diverse modalità, le proprie pretese.

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... per la riforma della sentenza 11.07.2015 n. 1114 del TAR Piemonte, Torino, Sez. II.
...
1.– La questione all’esame del Collegio attiene alla natura dei poteri che l’amministrazione può esercitare a seguito di una azione proposta da un terzo leso da una attività posta in essere da altro privato a seguito di segnalazione certificata di inizio attività.
...
3.– Nel merito è necessario stabilire se è corretta l’interpretazione, seguita dal primo giudice, secondo cui il potere inibitorio dell’amministrazione, su denuncia del terzo, può essere esercitato anche oltre il termine di trenta (o sessanta) giorni previsto dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
4.– Il suddetto art. 19 dispone che l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della sua presentazione all’amministrazione competente.
Il comma 3 di prevede che l’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti per lo svolgimento dell’attività oggetto di SCIA, «nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni».
La stessa norma aggiungeva che: «è fatto comunque salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies 21-nonies» della stessa legge 241. Il comma 6-bis dispone che «nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni».
Il comma 4 prevedeva che: «decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3 ovvero di cui al comma 6-bis, all'amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente».
L’ art. 25, comma 1, lett. b-bis), del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha modificato quest’ultimo inciso, disponendo che «è fatto comunque salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies, nei casi di cui al comma 4 del presente articolo».
Il richiamato comma 4, anch’esso modificato, prevede che decorso il termine per l’esercizio dei poteri inibitori «all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente».
La legge n. 124 del 2015 ha nuovamente modificato il comma 4, disponendo che decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti inibitori «l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies». Quest’ultima norma è stata anch’essa modificata dall’art. 6 della legge n. 124 del 2015, il quale ha previsto che il provvedimento illegittimo «può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici (…) e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
Il comma 6-ter, introdotto dall’ art. 6, comma 1, lett. c), del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla l. 14.09.2011, n. 148, dispone che: «La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104».
Il richiamo anche al terzo comma dell’art. 31 implica che il giudice amministrativo «può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».
5.– La non chiarezza del vigente quadro normativo ha posto le questioni –non risolte dal legislatore (cfr. Consiglio di Stato, comm. spec., parere 30.03.2016, n. 839)– relative al tempo dell’azione esperibile dal terzo e al tipo di potere che il terzo stesso può “sollecitare”.
In relazione al tempo, non è perfettamente adattabile lo schema dell’azione avverso il silenzio inadempimento a quella proposto dal terzo nell’ambito della SCIA.
L’art. 31 c.p.a. prevede, infatti, che l’azione si propone entro il termine di un anno dalla conclusione del procedimento. Ma in questo caso il ricorrente, essendo titolare dell’interesse legittimo pretensivo all’adozione di un provvedimento favorevole che ha attivato con la sua istanza, è a conoscenza del momento in cui il procedimento si deve concludere e, conseguentemente, di quando inizia a decorrere il termine di un anno.
Nel caso della SCIA, invece, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’adozione di atti sfavorevoli per il destinatario dell’azione amministrativa. Non è, pertanto, a conoscenza “diretta” dell’andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica.
In relazione alla natura del potere, un primo orientamento, seguito dalla sentenza impugnata, ritiene che il terzo possa chiedere al giudice di ordinare all’amministrazione di esercitare i poteri inibitori, anche nel caso in cui sia trascorso il termine di trenta (o sessanta) giorni previsto dall’art. 19.
Un secondo orientamento, che la Sezione ritiene preferibile, assume, invece, che il terzo possa chiedere la condanna dell’amministrazione all’esercizio di poteri che devono avere i requisiti che giustificano l’autotutela amministrativa.
Quest’ultima, calata nell’ambito del procedimento in esame, si connota in modo peculiare perché:
   i) essa non incide su un precedente provvedimento amministrativo e dunque si caratterizza per essere un atto di “primo grado” che deve, però, possedere i requisiti legittimanti l’atto di “secondo grado”;
   ii) l’amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo, ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo e ciò diversamente da quanto accade in presenza di un “normale” potere di autotutela che si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere.
Tale seconda opzione interpretativa è preferibile in quanto coniuga in modo più equilibrato le esigenze di liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo.
Se quest’ultimo potesse sollecitare i poteri inibitori senza limiti temporali e di valutazione dell’incidenza sulle posizioni del privato che è ricorso a questo modulo di azione verrebbero frustrate le ragioni della liberalizzazione, in quanto l’interessato, anche molto tempo dopo lo spirare dei trenta (o sessanta) giorni previsti dalla legge per l’esercizio dei poteri in esame, potrebbe essere destinatario di atti amministrativi inibitori dell’intervento posto in essere.
La qualificazione del potere come potere di autotutela costituisce invece, da un lato, maggiore garanzia per il privato che ha presentato la SCIA, in quanto l’amministrazione deve tenere conto dei presupposti che legittimano l’esercizio dei poteri di autotutela e, in particolare, dell’affidamento ingenerato nel destinatario dell’azione amministrativa, dall’altro, non vanifica le esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può comunque fare valere, pur con queste diverse modalità, le proprie pretese.
6.– Applicando le regole sopra esposte alla fattispecie all’esame del Collegio ne discende la fondatezza dell’appello.
L’appellante ha presentato la SCIA il 31.01.2014 e il terzo ha diffidato l’amministrazione ad esercitare i propri poteri il successivo 5 giugno. La fattispecie sostanziale si è, pertanto, perfezionata prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 133 del 2014, con conseguente applicazione della disciplina vigente in quel dato momento.
Chiarito ciò, la Sezione rileva come l’azione del terzo non poteva ritenersi finalizzata alla sollecitazione di poteri inibitori bensì di autotutela. Il primo giudice avrebbe, pertanto, dovuto, alla luce del quadro normativo riportato, qualificare correttamente l’azione e condannare l’amministrazione ad iniziare il procedimento di “secondo grado” finalizzato a stabilire la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento richiesto dal terzo, senza valutare, in ragione della natura discrezionale dell’attività, la fondatezza della pretesa azionata.
7.– Alla luce di quanto esposto, l’appello è fondato nei limiti indicati, senza che sia necessario esaminare l’altro motivo proposto.
8.– La fase esecutiva successiva a questo giudizio impone all’amministrazione di dare esecuzione alla presente sentenza mediante l’inizio di un procedimento di autotutela amministrativa finalizzato a verificare non soltanto l’asserita illegittimità dell’attività posta in essere dall’appellante ma anche la sussistenza degli ulteriori presupposti costituiti dalla sussistenza di un interesse concreto e attuale all’esercizio dei poteri in esame e dalla mancanza di un legittimo affidamento dell’appellante stesso.
9.– La particolarità dell’esito del presente giudizio che, pur accogliendo l’appello, impone comunque all’amministrazione di iniziare il procedimento di autotutela, unitamente alla non chiarezza del complessivo quadro normativo, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi giudizio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.11.2016 n. 4610 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Sul licenziamento del dirigente dell'ente locale per responsabilità dirigenziale.
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Non possono nutrirsi dubbi sulla sussistenza degli estremi per la configurazione di una responsabilità dirigenziale meritevole di licenziamento per giusta causa, anche a prescindere dalla comunicazione o meno delle direttive generali, visto che quelle contestate (leggerezze nella gestione delle gare di appalto, cattiva gestione del personale con irrigazione di sanzioni disciplinari in contrasto con l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, rifiuto nel passaggio delle consegne, scorrettezza nei rapporti con l'assessore di riferimento, ritardi e incompletezze nella redazione delle schede-obiettivo per il 2011, mancato raggiungimento dei risultati per il 2009 e il 2010) sono condotte di per sé contrarie all'art. 5, comma 1, del CCNL cit. secondo cui: "Il dirigente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza dell'attività amministrativa nonché quelli di leale collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice civile, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui".
Peraltro,
si tratta di comportamenti contrari anche ai successivi commi dello stesso art. 5 che elencano gli obblighi dei dirigenti, fermo restando che, come affermato da questa Corte:
   a) in presenza di più addebiti la valutazione della condotta deve essere globale;
   b) la responsabilità dirigenziale è configurabile anche nei casi in cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e quella disciplinare.
Sicché, eventuali condotte del dirigente in difformità ai citati principi legittimano il suo licenziamento per giusta causa, a nulla rilevando che la sanzione sia stata comminata dal Responsabile delle Risorse Umane in luogo del Segretario Generale.
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1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 14.05.2014) respinge l'appello di Iv.Ag. avverso la sentenza n. 2299/2013 del Tribunale di Torino, di rigetto del ricorso proposto dall'Ag. onde ottenere la declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento intimatogli dal Comune di Rivoli —di cui era dipendente con qualifica di dirigente— per molteplici mancanze commesse nell'ambito di una complessa vicenda. La Corte d'appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa che:
   a) è infondata la censura dell'Ag. secondo la quale il licenziamento intimatogli sarebbe di tipo disciplinare e non dirigenziale e, come tale, sarebbe radicalmente nullo perché adottato dal Dirigente delle Risorse Umane del Comune di Rivoli anziché dall'Ufficio competente (Segretario comunale), secondo quanto disposto dall'art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dall'art. 53 del "Regolamento sull'ordinamento degli Uffici e dei Servizi" del Comune stesso;
   b) infatti, dalle risultanze processuali emerge con chiarezza che l'Amministrazione, attraverso il richiamo dell'art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 3 del CCNL 07.02.2010 per il personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie locali e la procedura speciale prevista per l'ipotesi di recesso per responsabilità dirigenziale, ha inteso specificamente contestare fatti che comportavano tale ultimo tipo di responsabilità, ritenendo che i molteplici addebiti mossi all'Ag. integrassero l'inosservanza delle direttive generali per l'attività amministrativa e la gestione cui fa riferimento la suindicata norma contrattuale;
   c) ciò è sufficiente per considerare corretta l'adozione del provvedimento di recesso da parte del Dirigente delle Risorse Umane, in quanto da un lato gli addebiti devono essere valutati nel loro complesso e non atomisticamente sicché se anche qualcuno ha carattere disciplinare ciò non esclude che l'insieme possa integrare una responsabilità del dirigente tale da legittimare il recesso per giusta causa, d'altra parte la responsabilità dirigenziale è configurabile —e la relativa procedura applicabile— anche nei casi in cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e quella disciplinare, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità;
   d) del pari infondata è la censura con la quale il dirigente contesta la decisione del primo giudice di considerare "nuove" e perciò inammissibili —perché avanzate in corso di causa e non nel ricorso introduttivo del giudizio— le deduzioni svolte in ordine alla pretesa insussistenza della preventiva comunicazione delle direttive generali inerenti l'attività amministrativa e la gestione alla cui inosservanza l'art. 3 del CCNL cit. collega la configurabilità della responsabilità disciplinare;
   e) si tratta, infatti, di un aspetto sul quale era necessario consentire la corretta instaurazione del contraddittorio e, nel ricorso introduttivo, ad esso non si fa neppure cenno visto che ci si limita ad eccepire la nullità del licenziamento per violazione dell'art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 53 del "Regolamento sull'ordinamento degli Uffici e dei Servizi" del Comune stesso e quindi a contestare nel merito il licenziamento stesso, richiamando l'art. 3 del CCNL cit. solo per dedurre l'erroneità in fatto e l'infondatezza in diritto delle contestazioni;
   f) alla luce della valutazione dei singoli addebiti, va rilevato che essi, nel loro insieme, sono tali da legittimare il recesso per giusta causa intimato ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 3 del CCNL cit.;
   g) è, infatti, evidente che il comportamento tenuto complessivamente dall'Ag., contraddistinto da notevole superficialità e manifesta insofferenza rispetto persino alle regole più elementari e ovvie per una corretta gestione dell'ufficio, non può che considerarsi incompatibile con le funzioni dirigenziali affidategli.
...
1. Il ricorso è articolato in due motivi.
1.1. Con il primo motivo si denuncia:
   a) in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 22 nonché degli artt. 55, 55-bis, comma 4 e seguenti del d.lgs. n. 165 del 2001; dell'art. 27 del CCNL 10.04.1996 per il personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie locali; degli artt. 3, 5, 6, 7 del CCNL 07.02.2010 per il personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie locali;
   b) in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Si sostiene che il licenziamento in oggetto non sarebbe stato di tipo dirigenziale —come apoditticamente affermato dalla Corte d'appello— in quanto non fondato su una vera e propria responsabilità dirigenziale.
Si aggiunge che la stessa Corte territoriale, affermando erroneamente la sovrapponibilità della responsabilità disciplinare e di quella dirigenziale, non nega il carattere disciplinare degli addebiti, ma da questa premessa sbagliando evince che fatti di rilevanza disciplinare possano rivestire rilievo ai fini della responsabilità dirigenziale.
Si tratterebbe, pertanto, di un licenziamento ontologicamente disciplinare, che come tale sarebbe nullo perché adottato dal Dirigente delle Risorse Umane del Comune di Rivoli e non dall'Ufficio competente (segretario comunale) ai sensi dell'art. 55-bis, comma 4 e seguenti del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 53 del "Regolamento sull'ordinamento degli Uffici e dei Servizi" del Comune stesso.
1.2. Con il secondo motivo si denuncia:
   a) in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 434, 437 cod. proc. civ.; degli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165 del 2001; degli artt. 1218 e 2697 cod. civ.; dell'art. 27 del CCNL 10 aprile 1996 per il personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie locali; dell'art. 3 del CCNL 07.02.2010 per il personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie locali;
   b) in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Si contesta la statuizione della Corte torinese secondo cui, nella specie, sarebbe applicabile l'art. 3 del CCNL del 2010 cit. sostenendosi l'erroneità dell'affermazione del carattere di novità delle deduzioni della difesa del dirigente in ordine alla insussistenza della "preventiva comunicazione" delle direttive generali inerenti l'attività amministrativa e di gestione richiesta dal suddetto art. 3 per la configurabilità della responsabilità dirigenziale.
In particolare si contestano sia la configurazione come "nuova" della suddetta deduzione sia la consequenziale dichiarazione di inammissibilità, trattandosi di una mera argomentazione difensiva già effettuata e comunque come tale proponibile anche per la prima volta in appello.
Sulla base di tale presupposto erroneo, la Corte torinese avrebbe anche violato le norme sull'onere della prova e inoltre non avrebbe verificato se del suddetto art. 3 sia stata data, in concreto, corretta applicazione, cioè se sia stata dimostrata la sussistenza degli elementi ivi previsti per il licenziamento con effetto immediato per "responsabilità dirigenziale".
Invece, si sarebbe trattato non una mutatio libelli, ma di una semplice emendatio libelli, non incidente sulla causa petendi.
...
3. Il ricorso non è da accogliere per le ragioni di seguito esposte.
3.1. In primo luogo, tutte le censure proposte, in entrambi i motivi, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. sono inammissibili, in quanto, al di là della formulazione della rubrica, nella sostanza tali censure risultano prospettate in modo non conforme all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ. -nel testo successivo alla modifica ad opera dell'art. 54 del d.l. 22.06.2012, n. 83, convertito in legge 07.08.2012, n. 134, applicabile ratione temporis- in base al quale la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili, evenienze che non risultano denunciate nella specie (Cass. SU 07.04.2014, n. 8053; Cass. 09.06.2014, n. 12928).
3.2. Per il resto, nel primo motivo si contesta soltanto la statuizione della Corte torinese secondo cui la responsabilità dirigenziale è configurabile -e la relativa procedura applicabile- anche nei casi in cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e quella disciplinare mentre non si contesta la statuizione -autonoma- secondo cui è sufficiente per considerare corretta l'adozione del provvedimento di recesso da parte del Dirigente delle Risorse Umane il fatto che gli addebiti devono essere valutati nel loro complesso e non atomisticamente, sicché se anche qualcuno ha carattere disciplinare ciò non esclude che l'insieme possa integrare una responsabilità del dirigente tale da legittimare il recesso per giusta causa.
Ne consegue che -a prescindere dalla conformità alla consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte della statuizione impugnata (vedi, per tutte: Cass. 08.04.2010, n. 8329; Cass. 17.06.2010, n. 14628; Cass. 08.06.2015, n. 11790)- trova applicazione il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, l'omessa impugnazione di una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza (vedi, per tutte: Cass. 05.10.1973, n. 2499; Cass. SU 08.08.2005, n. 16602; Cass. SU 29.05.2013, n. 7931; Cass. 11.02.2011, n. 3386; Cass. 27.05.2014, n. 11827; Cass. 17.06.2015, n. 12486).
3.3. Di qui l'inammissibilità del primo motivo.
3.4. Infine, non sono da accogliere neppure le censure di violazione di legge proposte con il secondo motivo, che residuano rispetto a quelle prospettate ex art. 360, n. 5 cod. proc. civ. (di cui si è detto al punto 3.1.).
Infatti, ex art. 1363 cod. civ. il richiamato art. 3 del CCNL cit. deve essere letto insieme con tutti gli altri articoli del CCNL e, in particolare, con il successivo art. 5.
Dalla lettura combinata di tali due articoli si evince che la comunicazione o meno delle direttive generali inerenti l'attività amministrativa e la gestione, alla cui inosservanza l'art. 3 del CCNL cit. collega la configurabilità della responsabilità disciplinare non è certamente indispensabile per la configurazione di tale tipo di responsabilità, che è configurabile tutte le volte in cui il dirigente non rispetti gli obblighi propri del suo incarico, quali esemplificativamente indicati nell'art. 5 medesimo.
Nella specie, come risulta dalla sentenza impugnata,
i comportamenti contestati —di cui nel presente ricorso non viene messa in discussione la sussistenza— consistono in leggerezze nella gestione delle gare di appalto, cattiva gestione del personale con irrigazione di sanzioni disciplinari in contrasto con l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, rifiuto nel passaggio delle consegne, scorrettezza nei rapporti con l'assessore di riferimento, ritardi e incompletezze nella redazione delle schede-obiettivo per il 2011, mancato raggiungimento dei risultati per il 2009 e il 2010.
Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sulla sussistenza degli estremi per la configurazione di una responsabilità dirigenziale meritevole di licenziamento per giusta causa, anche a prescindere dalla comunicazione o meno delle direttive generali, visto che quelle contestate sono condotte di per sé contrarie all'art. 5, comma 1, del CCNL cit. secondo cui: "
Il dirigente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza dell'attività amministrativa nonché quelli di leale collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice civile, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui".
Peraltro,
si tratta di comportamenti contrari anche ai successivi commi dello stesso art. 5 che elencano gli obblighi dei dirigenti, fermo restando che, come affermato da questa Corte:
   a) in presenza di più addebiti la valutazione della condotta deve essere globale;
   b) la responsabilità dirigenziale è configurabile anche nei casi in cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e quella disciplinare.

Ne deriva che —anche a prescindere dal mancato rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale, il ricorrente avrebbe dovuto, con riguardo al ricorso introduttivo del giudizio, assolvere il duplice onere di cui all'art. 366, n. 6, cod. proc. civ. e all'art. 369, n. 4, cod. proc. civ.— le censure in oggetto sono comunque inammissibili perché si riferiscono ad una questione priva del carattere della decisività e quindi irrilevante, per quanto si è detto sopra.
3.5. Anche il secondo motivo va, quindi, dichiarato inammissibile (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 22.11.2016 n. 23744).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria, essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo, richiede necessariamente l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
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... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n. 75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione straordinaria e del permesso di costruire per opere di ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n. 4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione dei manufatti in questione sulla base di una pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta, con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione. Lamenta in particolare che il comune di Verona ha indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la zona di progetto e la zona in cui sono individuati i manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la loro omissione nell’atto notarile di compravendita di terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata, essendo certa esclusivamente la provenienza della dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria, essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo, richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, ONEROSA O NON ONEROSA? LA RISTRUTTURAZIONE: QUANDO LA GIURISPRUDENZA RISCRIVE LA LEGGE E QUANDO UNA EVENTUALE SENTENZA NEGATIVA POTREBBE ESSERE IN UN CERTO MODO UTILE (25.11.2016 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

APPALTI: M. L. Chiarella, La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione tra buona fede, efficienza e tutela dell’affidamento (16.11.2016 - tratto da www.federalismi.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - VARI: Oggetto: Legge sul c.d. "caporalato" (L. n. 199/2016): pubblicazione in G.U. (ANCE di Bergamo, circolare 18.11.2016 n. 202).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Risposte ad interpelli in materia di sicurezza (ANCE di Bergamo, circolare 11.11.2016 n. 196).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC on-line – Decreto modificativo (ANCE di Bergamo, circolare 11.11.2016 n. 194).

UTILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: Rischio da videoterminale, la guida con le indicazioni sulla postura corretta (24.11.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Guida impianto termico: accensione, manutenzione, libretto e rapporto di controllo (17.11.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica semplificata, ok dal Parlamento. Ecco le agevolazioni in arrivo (03.11.2016 - link a http://biblus.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 26.11.2016 n. 277, suppl. ord. n. 52/L, "Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio-assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs. 25.11.2016 n. 222).
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(Atto del Governo n. 322).

ENTI LOCALI: G.U. 25.11.2016 n. 276 "Attuazione della delega di cui all’articolo 10 della legge 07.08.2015, n. 124, per il riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura" (D.Lgs. 25.11.2016 n. 219).

PATRIMONIO: G.U. 25.11.2016 n. 276 "Istituzione del fondo per la progettazione preliminare e definitiva degli interventi di bonifica di edifici pubblici contaminati da amianto" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 21.09.2016).

VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 47 del 25.11.2016, "Definizione della denominazione, delle caratteristiche e del logo delle strutture di informazione e accoglienza turistica (art. 11, comma 2, della legge regionale 01.10.2015, n. 27)" (Regolamento Regionale 22.11.2016 n. 9).

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 25.11.2016, "Criteri per l’istituzione delle strutture di informazione e accoglienza turistica in attuazione dell’art. 11, comma 5, della legge regionale 01.10.2015, n. 27 e per lo svolgimento delle relative attività" (deliberazione G.R. 18.11.2016 n. 5816).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 24.11.2016, "Linee di indirizzo per lo sviluppo del catasto regionale degli impianti radioelettrici istituito dall’articolo 5 della legge regionale 11.05.2001 n. 11 e indicazioni relative al Programma CEM di cui al decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare RINDEC-2016-0000072 del 28.06.2016" (deliberazione G.R. 18.11.2016 n. 5827).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 23.11.2016, "Nomina della commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 4, comma 2 – D.g.r. 5001/2016, ALL. L)" (deliberazione G.R. 18.11.2016 n. 5830).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 23.11.2016, "Indirizzi ai comuni per favorire il contenimento dei costi di esercizio, manutenzione e controllo degli impianti termici civili, a favore soprattutto delle fasce deboli della popolazione" (deliberazione G.R. 18.11.2016 n. 5825).

ENTI LOCALI: G.U. 21.11.2016 n. 272, suppl. ord. n. 51, "Adozione dei nuovi coefficienti di riparto complessivo dei fabbisogni standard dei Comuni per il 2016, relativi alle funzioni fondamentali di cui all’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26.11.2010, n. 216" (D.P.C.M. 14.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 46 del 17.11.2016, "Riorganizzazione del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree regionali protette e delle altre forme di tutela presenti sul territorio" (L.R. 17.11.2016 n. 28).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 16.11.2016 n. 268 "Intesa, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Rep. Atti n. 125/CU)" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza Unificata, intesa 20.10.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' NAZIONALE CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Linee guida n. 5, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici” (determinazione 16.11.2016 n. 1190 - link a www.anticorruzione.it).
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Pubblicate le Linee guida per la scelta dei commissari di gara ed Albo delle commissioni giudicatrici. Segnalazione a Governo e Parlamento per modificare l’art. 77.
Emanate dall’Autorità nazionale anticorruzione in via definitiva le Linee guida n. 5, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, ‘Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici’. Le Linee guida sono state approvate dal Consiglio dell’Autorità del 16.11.2016 con la delibera n. 1190.
Contestualmente l’Anac, con la Delibera n. 1191 del 16.11.2016 ha inviato a Governo e Parlamento l’Atto di segnalazione ‘Proposta di modifica dell’art. 77 del Decreto Legislativo 18.04.2016, n. 50. Alla segnalazione è allegato l’elenco sottosezioni dell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici.

APPALTI: Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 (Regolamento 16.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Nuovo Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio.
Pubblicato il nuovo Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97.
Il d.lgs. 97/2016 ha apportato, tra le altre, alcune significative modifiche all’articolo 47 del d.lgs n. 33/2013, cd. “decreto trasparenza”, che prevede “sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi specifici”. In particolare, analogamente a quanto disposto per le sanzioni in materia di anticorruzione, è previsto che sia l’ANAC ad irrogare le sanzioni, e a disciplinare con proprio Regolamento il relativo procedimento. Si è reso pertanto necessario sostituire il Regolamento del 23.07.2015, che attribuiva all’ANAC la competenza ad irrogare le sanzioni in misura ridotta, ed al Prefetto quelle definitive.
Il procedimento disciplinato dal presente Regolamento tende ad agevolare l’accertamento della violazione, coinvolgendo i Responsabili per la trasparenza e gli Organismi indipendenti di valutazione o altri organismi con funzioni analoghe, ed a semplificare, nel pieno rispetto del contraddittorio, l’istruttoria volta all’irrogazione della sanzione, in misura ridotta, conformemente a quanto indicato dalla legge 689/1981, ovvero definita entro i limiti minimo e massimo edittali, tenuto conto delle circostanze indicate dall’art. 11 della citata legge 689.
Il nuovo regolamento entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

LAVORI PUBBLICI: Manuale dell’Autorità sulla qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro (14.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Aggiornato il manuale per la qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro.
Il manuale per la qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro, pubblicato con il Comunicato del Presidente del 16.10.2014, è stato aggiornato. Nel capitolo VI, pag. 265, punto 2-6-1), ‘Tariffe applicabili per il rilascio dell’attestazione’, nella parte relativa al pagamento del corrispettivo per il rilascio dell’attestazione è stato aggiunto il seguente paragrafo:
Nel rispetto dei principi di indipendenza e di esclusività dell’oggetto sociale, sono ammesse convenzioni tra S.O.A. e società finanziarie in assenza di collegamento societario tra le stesse volte unicamente a facilitare, senza compensi in denaro né altri vantaggi economici per le S.O.A., la conclusione di contratti di finanziamento alle imprese per il pagamento del corrispettivo derivante dallo svolgimento dell’attività di attestazione.

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il Consiglio di Stato si sofferma nuovamente sulla data di entrata in vigore del nuovo rito appalti, introdotto dall’art. 204 del nuovo Codice dei contratti.
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Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016 – Sentenza giudice di primo grado – Appello – Termine di trenta giorni ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a. – Ambito di applicazione.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione aggiudicazione di gara - Esclusione.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione aggiudicazione di gara – Art. 216, d.lgs. n. 50 del 2016 – Applicazione alle sole procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo Codice.
Il termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza, previsto dall’art. 120, comma 6-bis, c.p.a. per la proposizione dell’appello, nel testo modificato dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, si riferisce alle sole impugnazioni delle sentenze del giudice di primo grado pronunciate nell’ambito del rito “superspeciale” introdotto dal citato art. 204 (1).
Il rito “superspeciale” “superspeciale” previsto dall’art. 120, comma 6-bis, c.p.a., introdotto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, si applica al solo gravame proposto avverso i provvedimenti che determinano l’ammissione alla (e le esclusioni dalla) procedura di gara e non anche all’impugnazione dell’aggiudicazione della stessa.
Ai sensi dell’art. 216, comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 le disposizioni introdotte dallo stesso d.lgs. n. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo Codice (quindi dopo il 19.04.2016), salvo il rinvio a disposizioni speciali e testuali di un diverso regime di transizione; a questa regola soggiace anche l’applicazione delle nuove regole processuali, introdotte dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016, che ha novellato l’art. 120 c.p.a. (2).

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(1) Ha chiarito la terza sezione che le regole procedurali dettagliate al comma 6-bis dell’art. 120 c.p.a. descrivono un rito accelerato per le impugnazioni delle ammissioni e delle esclusioni, nei casi meglio definiti al precedente comma 2-bis, ed esauriscono un sistema processuale chiuso e speciale, con la conseguenza che la previsione del termine breve (asseritamente inosservato) per la proposizione dell’appello si inserisce (anch’essa) nel predetto regime procedurale, nel senso che deve intendersi operativa solo al suo interno e, quindi, per la sola impugnazione di sentenze di primo grado pronunciate su ricorsi introdotti e definiti ai sensi del combinato disposto dei commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a..
(2) Ha sul punto chiarito la terza sezione che il comma 1 dell’art. 216, nel riferirsi “al presente Codice”, intende, evidentemente, comprendere entro il suo ambito applicativo tutte le disposizioni dello stesso Codice, con le uniche eccezioni di deroghe testuali ed espresse alla predetta regola transitoria (come chiarito dall’incipit dello stesso art. 216). A prescindere, infatti, dalla curiosità lessicale che il titolo del decreto legislativo non reca (più) la dizione di “Codice”, viceversa presente nella legge delega, resta evidente che l’espressione letterale utilizzata all’art. 216, comma 1, deve intendersi riferita a tutte le previsioni normative contenute nel provvedimento normativo nel quale la relativa previsione transitoria risulta inserita.
Se, infatti, il legislatore avesse voluto escludere dall’ambito applicativo del regime transitorio le disposizioni processuali contenute nel decreto legislativo, lo avrebbe dovuto esplicitamente chiarire, come ha fatto per le previsioni riportate nei commi dell’art. 216 successivi al primo e come espressamente stabilito, quale criterio esegetico generale della disciplina transitoria, nella clausola di apertura del primo comma, con la conseguenza che, nel silenzio dell’art. 216, comma 1, e in mancanza di diverse disposizioni specificamente riferite alle innovazioni del Codice del processo amministrativo, il carattere generale della formulazione della suddetta previsione impone di ritenerla estesa a tutte le norme del nuovo “Codice” non menzionate da disposizioni transitorie speciali.
Con puntuali argomentazioni la sezione terza ha poi escluso che possa valere obiettare che la disciplina transitoria in questione debba intendersi limitata alle sole previsioni direttamente riferibili al “Codice dei contratti pubblici” e non anche alle norme inserite, con esso, nel Codice del processo amministrativo.
Come già chiarito, il riferimento al “presente Codice” (seppur non immune dalle imprecisioni e dalle incertezze lessicali connesse al sorprendente, mancato utilizzo di quel termine nel titolo del provvedimento) dev’essere inteso come comprensivo di tutte le disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 50 del 2016, senza possibilità di una incerta cernita selettiva di quelle soggette alla disciplina transitoria, atteso che il lemma “Codice” risulta utilizzato sia nella legge delega, sia all’art. 1 del decreto legislativo (rubricato “Oggetto e ambito di applicazione”), sicché il suo utilizzo nella norma dedicata a regolare la successione delle leggi nel tempo dev’essere decifrato come significativo del provvedimento normativo nella sua interezza.
La sezione ha ancora chiarito il perché la regola del tempus regit actum non risulta nella fattispecie applicabile.
Ha infine concluso che quand’anche permanessero dubbi esegetici sul regime temporale di applicazione delle nuove regole processuali esaminate, gli stessi dovrebbero essere risolti preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24 e 113).
A fronte dell’introduzione di un gravoso (e, finora, inedito) onere processuale, quale quello relativo all’immediata impugnazione delle ammissioni alla gara (pacificamente escluso, prima dell’innovazione processuale in esame), dev’essere, infatti, rifiutata ogni lettura delle disposizioni sopravvenute che limiti o, addirittura, pregiudichi l’esercizio del diritto di difesa, come accadrebbe se si ammettesse l’operatività del nuovo rito anche con riferimento alle procedure bandite prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 (in ragione delle preclusioni espressamente collegate dalla nuova normativa all’omessa, tempestiva impugnazione delle ammissioni di altre imprese concorrenti) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.11.2016 n. 4994 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Il compenso revisionale dell'appalto pubblico approvato dalla Giunta comunale è invalido se non viene ratificato dal Consiglio comunale.
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Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte in merito al quadro normativo applicabile nella specie, il diritto dell'appaltatore alla revisione dei prezzi, sorge (dopo la L. n. 47 del 1973) soltanto per effetto e dal momento del riconoscimento della revisione medesima da parte dell'amministrazione. Tale riconoscimento non può che perfezionarsi con le modalità richieste dalle norme sull'evidenza pubblica, per i comuni, contenute nel R.D. n. 148 del 1915, nonché nelle leggi successive in materia, e deve perciò provenire necessariamente dall'organo dell'ente pubblico abilitato a manifestarne la volontà che è esclusivamente il Consiglio comunale.
Deve quindi ribadirsi che
non può assurgere a valido ed efficace riconoscimento del diritto dell'appaltatore alla revisione il provvedimento, pur espressamente attributivo della revisione stessa, pur quando adottato dal Sindaco e dalla Giunta municipale in via d'urgenza, ove la delibera non sia stata ratificata dal Consiglio Comunale.
L'istituto della revisione dei prezzi contrattuali, onde adeguarli ai mutati costi dei fattori produttivi, per gli aggravi economici che impone alla stazione appaltante, è infatti disciplinato in ogni sua fase dalla legge e correlato ad un potere attribuito alla p.a. nell'interesse pubblico, che perciò opera al di fuori del contratto (nonché delle spese in esso previste) con effetti su di esso. Ben vero esso è strutturato come un procedimento concessorio rimesso alla discrezionalità dell'amministrazione appaltante.
Conseguentemente,
per l'impegno di nuove spese che esso comporta, il riconoscimento della revisione negli appalti dei comuni rientrava, già ai sensi del menzionato R.D. n. 148 del 1915, art. 131, nella competenza esclusiva del Consiglio comunale a deliberare "nuove e maggiori spese, nonché lo storno di fondi da una categoria ad un'altra del bilancio" (punto 10), e non in quella della G.M. (artt. 139 e 140), che al più, nelle ipotesi di particolare urgenza -tale da non consentire la convocazione del Consiglio- poteva adottare in via provvisoria la relativa deliberazione, tuttavia subordinata quanto alla sua efficacia alla ratifica del Consiglio comunale.
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Con riferimento al ritardo cagionato dal finanziamento da parte del terzo si rende applicabile il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui
l'ente finanziatore non è tenuto a rivalere il concessionario della somma che si sia obbligato a versare all'appaltatore, salvo che non sia stata stipulata una convenzione accessoria all'atto di concessione, con la quale l'ente garantisca la tempestiva erogazione del finanziamento, ovvero la copertura del concessionario dai rischi derivanti per i ritardi nei pagamenti dovuti all'appaltatore.
Deve quindi ribadirsi che,
in tema di responsabilità da ritardo del committente nei pagamenti degli acconti e del saldo quale corrispettivo delle opere eseguite nell'ambito di rapporto di appalto pubblico, in favore dell'appaltatore, causato dal ritardo nell'erogazione del finanziamento da parte di altro ente pubblico, non può essere esclusa la responsabilità del debitore per il ritardato pagamento in quanto i fatti, in apparenza ascrivibili ad un soggetto terzo-finanziatore, restano imputabili al committente-debitore in mancanza di una convenzione ulteriore, con la quale l'ente finanziatore garantisca al committente la tempestiva erogazione del finanziamento.
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2.1 - Con il secondo mezzo, denunciandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. C.p.s. n. 1501 del 1947 e degli artt. 139 e 140 del R.D. n. 148 del 1915, si sostiene che erroneamente era stato ritenuta la sussistenza di un valido riconoscimento del diritto al compenso revisionale, non essendo a tal fine corretta la valorizzazione della delibera della Giunta comunale, non ratificata dal Consiglio comunale.
2.2 - Con il terzo motivo si sostiene che il riconoscimento del diritto alla revisione sarebbe validamente avvenuto soltanto con la delibera Agensud del 16.01.1991, ragion per cui si sarebbe dovuto tener conto di tale dato ai fini della determinazione della decorrenza degli interessi in materia di revisione.
2.3 - La quarta censura attiene alla violazione dell'art. 1218 cod. civ. e alla mancata valutazione delle prove circa l'addebitabilità del ritardo ad Agensud.
2.4 - Con l'ultimo motivo si deduce la violazione degli artt. 115 cod. proc. civ. e 1362 cod. civ., in merito all'omessa valutazione della clausola con la quale era stato escluso qualsiasi indennizzo per il ritardo nei pagamenti.
...
5 - Il secondo mezzo è fondato.
La corte distrettuale, dopo aver precisato che il soggetto abilitato ad approvare la revisione era il Comune di Noepoli, per aver stipulato il contratto di appalto, ha rilevato che "la Giunta del Comune di Noepoli, in data 10.04.1989, sul presupposto riconosciuto che i lavori erano stati regolarmente eseguiti dall'appaltatore, approvò la contabilità finale dando atto che essa conteneva l'espressa previsione della revisione prezzi per lire 333.217.878".
5.1 - Il rilievo del ricorrente, secondo cui la delibera concernete la revisione, il cui riconoscimento da parte della stazione appaltante era necessario sulla base del quadro normativo vigente "ratione temporis", non sarebbe stata approvata dall'organo competente, è condivisibile.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte in merito al quadro normativo applicabile nella specie,
il diritto dell'appaltatore alla revisione dei prezzi, sorge (dopo la L. n. 47 del 1973) soltanto per effetto e dal momento del riconoscimento della revisione medesima da parte dell'amministrazione. Tale riconoscimento non può che perfezionarsi con le modalità richieste dalle norme sull'evidenza pubblica, per i comuni, contenute nel R.D. n. 148 del 1915, nonché nelle leggi successive in materia, e deve perciò provenire necessariamente dall'organo dell'ente pubblico abilitato a manifestarne la volontà che è esclusivamente il Consiglio comunale (Cass., Sez. Un., 25.02.2009, n. 4463; Cass. Sez. Un., 05.04.2005, n. 6993; Cass. Sez. Un., 03.11.2005, n. 21292).
5.2 - Deve quindi ribadirsi che
non può assurgere a valido ed efficace riconoscimento del diritto dell'appaltatore alla revisione il provvedimento, pur espressamente attributivo della revisione stessa, pur quando adottato dal Sindaco e dalla Giunta municipale in via d'urgenza, ove la delibera non sia stata ratificata dal Consiglio Comunale (v. anche Cass., Sez. Un., 19.03.1999, n. 165).
5.3 -
L'istituto della revisione dei prezzi contrattuali, onde adeguarli ai mutati costi dei fattori produttivi, per gli aggravi economici che impone alla stazione appaltante, è infatti disciplinato in ogni sua fase dalla legge e correlato ad un potere attribuito alla p.a. nell'interesse pubblico, che perciò opera al di fuori del contratto (nonché delle spese in esso previste) con effetti su di esso. Ben vero esso è strutturato come un procedimento concessorio rimesso alla discrezionalità dell'amministrazione appaltante.
Conseguentemente,
per l'impegno di nuove spese che esso comporta, il riconoscimento della revisione negli appalti dei comuni rientrava, già ai sensi del menzionato R.D. n. 148 del 1915, art. 131, nella competenza esclusiva del Consiglio comunale a deliberare "nuove e maggiori spese, nonché lo storno di fondi da una categoria ad un'altra del bilancio" (punto 10), e non in quella della G.M. (artt. 139 e 140), che al più, nelle ipotesi di particolare urgenza -tale da non consentire la convocazione del Consiglio- poteva adottare in via provvisoria la relativa deliberazione, tuttavia subordinata quanto alla sua efficacia alla ratifica del Consiglio comunale.
Abrogate le nuove competenze degli organi, introdotte dal R.D. 03.03.1934, n. 383, ad opera del R.D.L. 04.04.1944, n. 111, art. 13, la L. 09.06.1947, n. 530, art. 25, dispose: "Le attribuzioni ed il funzionamento dei Consigli e delle Giunte comunali sono regolati dal testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 04.02.1915, n. 148 e dalle modifiche contenute nel R.D. 30.12.1923, n. 2839". Venne pertanto ripristinata la competenza del Consiglio comunale a disporre e/o riconoscere la revisione, che permaneva dunque sia all'epoca in cui furono stipulati i contratti di appalto tra le parti, sia a quella della delibera in esame.
5.4 - La questione sopra indicata si intreccia con il tema del riconoscimento implicito, in realtà non affrontato nella decisione impugnata, dovendosi al riguardo precisare che lo stesso in tanto può comportare l'insorgere di una valida obbligazione dell'Amministrazione committente alla revisione dei prezzi, in quanto la corrispondente manifestazione volontà provenga in ogni caso dall'organo deliberativo del soggetto pubblico appaltante (v. la citata Cass. n. 4463 del 2009 e Cass., Sez. Un., 28.10.1995 n. 11312).
Sotto tale profilo la percezione di un acconto da parte del Formica, cui si accenna nella sentenza impugnata (allo scopo di escludere -in parte qua- il conteggio degli interessi: pag. 7), in tanto può intendersi come riconoscimento implicito in quanto riconducibile a una volontà dell'organo del Comune a tanto abilitato (cfr., amplius, la citata Cass. n. 4463 del 2009, in motivazione).
...
7 - Va rilevata, infine, l'infondatezza del quarto motivo, dovendosi al riguardo richiamare l'insegnamento di questa Corte secondo cui in materia di responsabilità contrattuale, l'art. 1218 cod. civ. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell'inadempimento, una presunzione di colpa superabile mediante la prova dello specifico impedimento che abbia reso impossibile la prestazione o, almeno, la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell'impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore.
Peraltro, perché l'impossibilità della prestazione costituisca causa di esonero del debitore da responsabilità, non basta eccepire che la prestazione non possa eseguirsi per fatto del terzo, ma occorre dimostrare la propria assenza di colpa con l'uso della diligenza spiegata per rimuovere l'ostacolo frapposto da altri all'esatto adempimento.
Con particolare riferimento al ritardo cagionato dal finanziamento da parte del terzo si rende applicabile il principio, già affermato da questa Corte (Cass., 23.10.2014, n. 22580; Cass., 06.06.2013, n. 14340, in motivazione, proprio in relazione a finanziamenti da parte di Agensud; v. anche, in fattispecie analoga, Cass., 16.03.2012, n. 4214), secondo cui
l'ente finanziatore non è tenuto a rivalere il concessionario della somma che si sia obbligato a versare all'appaltatore, salvo che non sia stata stipulata una convenzione accessoria all'atto di concessione, con la quale l'ente garantisca la tempestiva erogazione del finanziamento, ovvero la copertura del concessionario dai rischi derivanti per i ritardi nei pagamenti dovuti all'appaltatore.
Deve quindi ribadirsi che,
in tema di responsabilità da ritardo del committente nei pagamenti degli acconti e del saldo quale corrispettivo delle opere eseguite nell'ambito di rapporto di appalto pubblico, in favore dell'appaltatore, causato dal ritardo nell'erogazione del finanziamento da parte di altro ente pubblico, non può essere esclusa la responsabilità del debitore per il ritardato pagamento in quanto i fatti, in apparenza ascrivibili ad un soggetto terzo-finanziatore, restano imputabili al committente-debitore in mancanza di una convenzione ulteriore, con la quale l'ente finanziatore garantisca al committente la tempestiva erogazione del finanziamento (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.11.2016 n. 23628).

ATTI AMMINISTRATIVIAnche le istanze manifestamente infondate o reiterative di istanze analoghe già respinte, non consentono di configurare, a carico dell’Amministrazione, l’obbligo di provvedere.
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1.4.) Deve pertanto farsi applicazione della consolidata massima (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. V, n. 273 del 2015), secondo cui anche le istanze manifestamente infondate o reiterative di istanze analoghe già respinte, non consentono di configurare, a carico dell’Amministrazione, l’obbligo di provvedere.
Nella specie, è rimasto indimostrata la situazione di pericolo anche ai fini di cui all’art. 54 t.u. enti locali; sono rimasti inoppugnati i provvedimenti di diniego la cui non riferibilità all’Amministrazione avrebbe dovuto essere dedotta con apposito ricorso; è acclarato che le previsioni di piano operano per il futuro e che lo strumento urbanistico in vigore fino al 1995–1997 imponeva (e non ricusava) le alberature; né si può certamente pretendere che il comune, man mano che crescano gli alberi sia obbligato a potarli, anche in considerazione della ulteriore circostanza che le previsioni del piano si riferiscono letteralmente agli spazi liberi al momento della sua entrata in vigore (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.11.2016 n. 4836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale, con conseguente applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare, "Con riguardo all’individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la “permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981”.
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Ricorso straordinario proposto dalla Signora LA.Nu. avverso il decreto del dirigente servizio del Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, n. 2184 del 07.08.2014, di ingiunzione di pagamento indennità ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004. Istanza di sospensione.
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1. Con atto notificato all’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana –Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali di Messina– con raccomandata a.r. del 19.01.2015 e trasmesso all’Ufficio riferente con raccomandata a.r. del 30.01.2015, la Signora La.Nu. ha proposto ricorso straordinario per l’annullamento, previa sospensione:
   - del decreto n. 2184 del 07.08.2014, a firma del dirigente del Servizio tutela e acquisizioni del Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, delegata alla firma dal Dirigente generale, con il quale, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, come sostituito dall’art. 27 del d.lgs. n. 157/2006, è stato ingiunto il pagamento della somma di euro 9.398,00, quale indennità per il danno causato al paesaggio con la realizzazione di opere abusive in area di notevole interesse paesaggistico senza il preventivo nullaosta della Soprintendenza, consistenti nella realizzazione di un corpo di fabbrica in località Tufo del Comune di Lipari, foglio di mappa n. 97, particella 214;
   - di ogni altro atto presupposto inerente e consequenziale al suddetto provvedimento.
In punto di fatto la ricorrente premette di avere presentato al Comune di Lipari, in data 01.04.1986, domanda di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi della l. n. 47/1985, per la costruzione di un corpo di fabbrica adibito a civile abitazione. La pratica è stata istruita, acquisendo anche il parere favorevole, con prescrizioni, della Soprintendenza di Messina n. 7284 del 27.10.1997 ed è stata quindi rilasciata concessione edilizia in sanatoria n. 180 del 17.06.2004.
In data 07.08.2014 veniva poi emesso il D.D.S. n. 2184/2014, oggi impugnato.
2. Il ricorso è affidato al seguente motivo: il decreto impugnato avente natura di atto amministrativo definitivo, risulta illegittimo stante la intervenuta perenzione della pretesa impositiva a seguito di prescrizione del relativo diritto.
Giusta il disposto di cui all’art. 28 l. n. 689/1981, la sanzione della quale si discute deve ritenersi ormai prescritta essendo trascorso il periodo di cinque anni dalla data di rilascio della concessione edilizia in sanatoria –17.06.2004– a quello della notifica del decreto impugnato –11.10.2014– che tale sanzione irroga.
3. Con nota n. 18376 del 16.04.2015 il Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana ha trasmesso un rapporto sul suddetto ricorso, corredato dai relativi atti, affermando la imprescrittibilità del potere sanzionatorio della P.A. in materia di sanzioni paesaggistiche.
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Quanto sopra premesso, il Collegio ritiene che si possa entrare nel merito del ricorso la cui motivazione è incentrata sulla intervenuta perenzione della pretesa impositiva, a seguito di prescrizione del relativo diritto.
Sulla linea dell’orientamento espresso, con indirizzo ormai costante, sia dal Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 11.04.2007, n. 1585; Id. 12.03.2009, n. 1464; Id. 23.03.2010, n. 2160) che dalle Sezioni riunite di questo Consiglio (Cons. giust. sic., sezioni riunite, 08.11.2011, n. 188/2011; Id., 21.02.2012, n. 28/2012) e dal Consiglio di giustizia amministrativa in sede giurisdizionale (n. 123 del 13.03.2014), occorre in primis affermare che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici, costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale, con conseguente applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare nella sentenza sopra citata del Consiglio di Stato n. 1464/2009, che ripercorre sul tema (richiamandoli) i punti fermi dell’elaborazione giurisprudenziale, è affermato “Con riguardo all’individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la “permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981”.
Nel caso di specie il rilascio della concessione edilizia in sanatoria è avvenuto il 17.06.2004, sicché la prescrizione dell’illecito è maturata il 17.06.2009, e quindi assai prima che fosse irrogata la sanzione impugnata con il presente ricorso.
Quest’ultima, dunque, è illegittima come rilevato con l’unico motivo di ricorso, giacché irrogata a credito sanzionatorio prescritto.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto con assorbimento dell’istanza di sospensione cautelare (CGARS, parere 21.11.2016 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl gravato provvedimento comunale di autotutela risulta viziato anche sotto il profilo della violazione di legge, per essere stato adottato ad una lunghissima distanza temporale dall’adozione degli atti oggetto di ritiro in violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
E infatti, il presupposto della legittimità del potere di autotutela decisoria individuato sin dall’immediato varo dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990 avvenuto con la L. n. 15 del 2005, consiste nella tempestività dell’esercizio del potere stesso, ossia nel dispiegarsi di esso entro un ragionevole lasso di tempo decorrente tra il provvedimento oggetto di ritiro in autotutela e quello mediante il quale la stessa si estrinseca.
Orbene, l’art. 21–nonies della L. n. 241/1990, inserito dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15, stabilisce sin dalla sua prima versione, vigente ed applicabile al provvedimento impugnato, che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Successivamente, nel corpo della norma è stato inserito l’inciso in forza del quale il termine ragionevole deve essere “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20”, disposizione recata dall'articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1), della Legge 07.08.2015, n. 124 (c.d. Riforma Madìa, in vigore dal 28.08.2015).
In disparte la riportata ultima definizione normativa, nella sua estensione massima, del termine ragionevole, già l’originario testo dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990 statuiva, dunque, la necessità che il provvedimento di secondo grado venisse adottato entro un termine ragionevole, la cui concreta individuazione era opera della giurisprudenza, che all’uopo ha valorizzato i più svariati fattori, onde tutelare l’affidamento incolpevole che il privato destinatario del provvedimento di primo grado, eventualmente accrescitivo della sua sfera giuridica, avesse riposto nel silenzio dell’Amministrazione sull’assetto di interessi creato dall’atto amministrativo sul quale solo successivamente essa intervenga in via di autotutela c.d. decisoria.

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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Termoli, prot. n. 18624 del 12.06.2009 con il quale, in esecuzione delle deliberazione di G.C. n. 202 del 05.06.2009, è stato concluso il procedimento di declaratoria di nullità e/o annullamento in autotutela delle delibere giuntali n. 241 del 07.11.2000 e n. 142 del 24.05.2002, nonché di tutti gli atti precedenti e/o presupposti.
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Accertato il tempestivo deposito del ricorso può ora passarsi allo scrutinio del merito delle censure proposte da parte ricorrente che, data la stretta connessione che le connota, possono esaminarsi congiuntamente.
Esse sono fondate alla stregua delle considerazioni che di seguito si espongono.
Occorre preliminarmente rammentare che, secondo quanto affermato da parte ricorrente e non contestato, tra le parti è intercorso un accordo per la revisione del criterio di determinazione delle tariffe del servizio idrico mediante la sostituzione del criterio precedentemente impiegato del costo con quello del consumo, sulla base dell’attribuzione ad un tecnico designato dalle parti del compito di definirne le modalità di calcolo.
Il tecnico ha svolto l’incarico, stabilendo un criterio che ha dato luogo ad una diversa commisurazione tariffaria, aumentando l’importo dovuto, il cui incremento ha generato una cospicua morosità da parte del Comune accumulata nel corso degli anni. Ne è derivata l’instaurazione di un procedimento arbitrale, previsto nella relativa convenzione accessiva, che si è concluso con la condanna del Comune al pagamento della morosità per un importo di euro 259.666,95 in favore della società ricorrente quale corrispettivo dell’erogazione del servizio idrico negli anni dalla modifica del criterio di tariffazione fino al 2008.
Dopo la condanna subita in sede arbitrale, il Comune ha adottato il gravato provvedimento in autotutela con il quale ha ritirato i provvedimenti che avevano dato il via libera all’aumento delle tariffe e, come detto, alla formazione della predetta rilevante morosità.
Sennonché, in tal modo, il Comune ha posto in essere una condotta finalizzata ad eludere l’osservanza dell’obbligo nascente dal lodo arbitrale, realizzando così una strumentalizzazione del fine pubblico inquadrabile nell’ambito dello sviamento di potere, avendo utilizzato lo strumento dell’autotutela per sottrarsi unilateralmente alla vincolatività di un lodo arbitrale al quale aveva peraltro partecipato, proponendo ritualmente le proprie difese.
Ma il gravato provvedimento di autotutela risulta viziato anche sotto il profilo, dedotto da parte ricorrente, della violazione di legge, per essere stato adottato ad una lunghissima distanza temporale dall’adozione degli atti oggetto di ritiro in violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
E infatti, il presupposto della legittimità del potere di autotutela decisoria individuato sin dall’immediato varo dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990 avvenuto con la L. n. 15 del 2005, consiste nella tempestività dell’esercizio del potere stesso, ossia nel dispiegarsi di esso entro un ragionevole lasso di tempo decorrente tra il provvedimento oggetto di ritiro in autotutela e quello mediante il quale la stessa si estrinseca.
Orbene, l’art. 21–nonies della L. n. 241/1990, inserito dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15, stabilisce sin dalla sua prima versione, vigente ed applicabile al provvedimento impugnato, che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell' articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”. Successivamente, nel corpo della norma è stato inserito l’inciso in forza del quale il termine ragionevole deve essere “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20”, disposizione recata dall'articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1), della Legge 07.08.2015, n. 124 (c.d. Riforma Madìa, in vigore dal 28.08.2015).
In disparte la riportata ultima definizione normativa, nella sua estensione massima, del termine ragionevole, già l’originario testo dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990 statuiva, dunque, la necessità che il provvedimento di secondo grado venisse adottato entro un termine ragionevole, la cui concreta individuazione era opera della giurisprudenza, che all’uopo ha valorizzato i più svariati fattori, onde tutelare l’affidamento incolpevole che il privato destinatario del provvedimento di primo grado, eventualmente accrescitivo della sua sfera giuridica, avesse riposto nel silenzio dell’Amministrazione sull’assetto di interessi creato dall’atto amministrativo sul quale solo successivamente essa intervenga in via di autotutela c.d. decisoria.
In chiave ricognitiva della stratificazione normativa succedutasi nel tempo in ordine alla tematica del ragionevole termine di annullamento di provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole, rammenta anche il Collegio come sul punto si profili rilevante, in quanto direttamente disciplinante l’annullamento di provvedimenti ampliativi incidenti su rapporti convenzionali o contrattuali intercorrenti tra la P.A. e i privati (qual è indiscutibilmente il caso all’esame), la disposizione dell’art. 1, comma 136, della L. 30.12.2004 n. 311 (Legge Finanziaria per il 2005).
Tale norma, pienamente vigente fino alla sua abrogazione operata con l’art. 6, comma 2, della L. 07.08.2015, n. 124 appena citata, stabiliva che: “Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L'annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
Orbene, considerato che, come si è or ora avvertito, tale norma è stata espunta dall’ordinamento solo con l’art. 6 della L. n. 124 del 07.08.2015, doveva fondatamente predicarsene la sua doverosa applicazione da parte del Comune resistente, allorquando è stato assunto l’impugnato provvedimento 12.06.2009 discendendone che in forza della disposizione in disamina esso è illegittimo poiché adottato oltre il tempo massimo di tre anni entro il quale, in applicazione dell’art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004 poteva essere annullato d’ufficio un provvedimento amministrativo illegittimo ad efficacia durevole –quali quelli oggetto di autotutela con i quali si era stato stabilito di definire nuovi criteri tariffari– incidente su rapporti contrattuali o convenzionali intercorrenti tra la P.A. (Comune di Termoli) e i privati (nella specie, la società ricorrente) ed avente ad oggetto il servizio idrico.
Ne consegue la evidente illegittimità del gravato provvedimento del Comune di Termoli del 12.06.2009 (prot. n. 18624), in quanto adottato a distanza di quasi nove anni dal primo provvedimento oggetto di ritiro, con la conseguenza che esso deve essere annullato per violazione dell’art. 21-nonies, L. 07.08.1990, n. 241, interpretato alla luce dell’art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004, norma che costituiva dunque positivizzazione legislativa del principio del termine ragionevole (Consiglio di Stato, sez. III, 17.11.2015, n. 5259).
Tale esegesi è stata sposata anche dal giudice amministrativo di prime cure, che ha del pari affermato che “Il limite di tre anni previsto dall'art. 1 comma 136, l. 30.12.2004 n. 311, per annullare d'ufficio provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con i privati traduce in un dato concreto il parametro indeterminato del “termine ragionevole” di cui all'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241 previsto in via generale per l'esercizio di tale potere. Esso individua legislativamente un punto di equilibrio tra il potere di annullamento d'ufficio per ragioni di convenienza economico-finanziaria e l'esigenza di certezza nei rapporti contrattuali tra pubblica amministrazione e privati, e non lascia quindi alcuno spazio ulteriore per l'esercizio dell'autotutela finalizzata a evitare un illegittimo esborso di denaro pubblico” (TAR Toscana, Sez. I, 21.02.2013 n. 263).
Sotto altro e connesso profilo, poi, l’inerzia comunale protratta per circa nove anni non può non aver ingenerato nella società ricorrente un affidamento legittimo ed incolpevole nella definitività dei provvedimenti oggetto di autotutela; affidamento che non è escluso dalla mancata adozione degli atti di copertura finanziaria da parte del Comune.
Ed infatti, un tale accertamento non spettava alla parte privata che non poteva certo essere onerata di verificare l’adozione degli atti di impegno di spesa, senza considerare che i provvedimenti impugnati non determinavano l’ammontare del maggior esborso gravante sull’Amministrazione, atteso che l’esatta commisurazione di esso sarebbe derivata dal concreto consumo idrico.
In definitiva il provvedimento impugnato è illegittimo, il ricorso deve essere accolto e il provvedimento impugnato annullato (TAR Molise, sentenza 21.11.2016 n. 480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa biomassa non stoccata è un rifiuto. Tar Toscana.
Va classificata come rifiuto la biomassa agricola se non è ben stoccata. Se è vero che i materiali agricoli utilizzati per produrre energia sono esclusi dalla disciplina sui rifiuti, l'esclusione vale fintantoché vengono utilizzati per produrre energia e non già quando vengano abbandonati.
L'attività di bonifica e ripristino ambientale esula dalle competenze del sindaco.
Questo è il principio espresso dal TAR Toscana, con la sentenza 18.11.2016 n. 1611 in merito alla classifica della biomassa agricola.
I giudici hanno sottolineato che l'articolo 192 del dlgs 152/2006 attribuisce al Sindaco unicamente il potere di dettare le operazioni necessarie per la rimozione, l'avvio a recupero e lo smaltimento dei rifiuti e il ripristino dello stato dei luoghi.
Pertanto, l'ordinanza sindacale travalica tali limiti laddove disponga anche altri adempimenti e in particolare di presentare un piano di investigazione sull'integrità del suolo dove sono stati stoccati i materiali nonché, se necessario, anche un piano di ripristino (articolo ItaliaOggi del 26.11.2016).
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MASSIMA
4. Nel merito il ricorso è parzialmente fondato, nei termini che seguono.
4.1 Il primo e il terzo motivo devono essere respinti poiché, come si evince dalla documentazione fotografica dei rilievi svolti da ARPAT e allegata al verbale n. 427 del sopralluogo effettuato il 10.07.2015, il materiale si presentava in stato di abbandono e non era stoccato per l’alimentazione della centrale a biomasse.
Le foto 7 e 8, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, mostrano la presenza di notevoli quantità di insilato; due foto entrambe numerate con il numero 9 mostrano l’una, residui di insilato sulla scarpata sovrastante il torrente Riomaggio; l’altra, un silobag squarciato con dispersione del materiale sul terreno in notevole quantità, materiale che, ove avesse rivestito interesse per la ricorrente, questa si sarebbe affrettata a raccogliere e conservare.
Non è poi contestata la circostanza che nell’impianto siano stati reperiti solo tre silobag, e la dispersione di materiale in tale quantità non sarebbe potuta derivare accidentalmente da operazioni di insilamento con riferimento a tra soli silobag.
Non appare quindi credibile la tesi sostenuta dalla ricorrente, secondo la quale durante i sopralluoghi sarebbe stata riscontrata una modica quantità di materiale, caduta accidentalmente durante l’inserimento nei contenitori silobag; lo stato dei luoghi mostra invece che trattasi di rifiuti abbandonati come sostenuto nell’ordinanza impugnata e nel rapporto di ARPAT.
Il materiale de quo risulta abbandonato sul terreno, e ciò evidenzia l’intenzione della ricorrente di disfarsene e correttamente, quindi, il Sindaco, nell’esercizio delle proprie competenze di cui all’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006, ha impartito l’ordine di rimuoverlo.
Quanto qui dedotto appare sufficiente ad escludere la sussistenza di vizi nell’istruttoria condotta dalle Amministrazioni intimate, con conseguente reiezione per infondatezza anche del terzo motivo di ricorso.
Quanto poi alla destinazione, agricola o meno, dei piazzali è inconferente il richiamo, contenuto nel ricorso, alla P.A.S. n. 7/2014 poiché la ricorrente in tal modo dà per dimostrato ciò che invece è in discussione, ovvero che il terreno non sia stato trasformato e sia (ancora) adibito ad attività rientranti tra quelle agricole.
Non è però contestata l’affermazione di ARPAT, che il terreno è stato compattato con l’apporto di materiali sabbiosi e detriti rocciosi facendo venir meno la possibilità di utilizzarlo a fini agricoli, e la circostanza deve quindi ritenersi acquisita ex art. 64, comma 2, c.p.a.
I piazzali risultano adibiti ad aree di deposito ed è così venuta meno la loro destinazione ad uso agricolo, come correttamente sostenuto dalle Amministrazioni intimate.
4.2 Il secondo motivo è invece fondato poiché
l’articolo 192 del d.gs. 152/2006 attribuisce al Sindaco unicamente il potere di dettare le operazioni necessarie per la rimozione, l’avvio a recupero e lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Nel caso di specie l’ordinanza sindacale ha travalicato detti limiti laddove ha disposto anche altri adempimenti (punti 2 e 3 del provvedimento impugnato), e in particolare di presentare un piano di investigazione sull’integrità del suolo dove sono stati stoccati i materiali nonché, se necessario, anche un piano di ripristino. Trattasi di adempimenti che rientrano nell’attività di bonifica e ripristino ambientale, materia che esula dalle competenze sindacali come correttamente lamenta la ricorrente,

APPALTI: La Corte di giustizia dell’Unione europea fissa le condizioni per l’esclusione automatica di una impresa che in sede di gara non abbia indicato separatamente gli oneri di sicurezza aziendali c.d. interni avallando, nella sostanza, la soluzione propugnata dalla più recente giurisprudenza dell’Adunanza plenaria.
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Appalti pubblici – Oneri di sicurezza aziendale – Omessa separata indicazione - Esclusione – Limiti.
Il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti.
I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice (1).

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(1) I.- Nel rispondere ad una questione sollevata dal Tar Molise, nell’ambito di un giudizio proposto dalla seconda e terza classificata avverso il provvedimento di aggiudicazione in favore della prima impresa, la Corte afferma il principio secondo cui la mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza non può portare all’esclusione laddove non espressamente statuito dagli atti di gara ovvero dalla legislazione nazionale, dovendo in tal caso la stazione appaltante garantire il soccorso istruttorio.
II. - Il ragionamento seguito dalla Corte europea, oltre a richiamare un recente precedente -sentenza sez. VI, 02.06.2016, C-27715, Pippo Pazzo, oggetto della News US in data 05.07.2016 secondo cui: <<Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da un'interpretazione di tale diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all'operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice>>- muove dal richiamo a due principi: da un lato, quello di parità di trattamento (a mente del quale tutti gli offerenti dispongono delle stesse possibilità nella formulazione dei termini e delle medesime condizioni); dall’altro, quello di trasparenza (in base al quale vanno eliminati i rischi di favoritismo e di arbitrio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice).
Tali obblighi impongono quindi che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d’oneri.
I medesimi principi impongono che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione a un appalto siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche. L’amministrazione aggiudicatrice può precisare o può essere obbligata dalla legge nazionale a precisare nel capitolato l’organismo o gli organismi dai quali i candidati o gli offerenti possono ottenere le pertinenti informazioni sugli obblighi relativi alla fiscalità, alla tutela dell’ambiente, alle disposizioni in materia di sicurezza e alle condizioni di lavoro che sono in vigore nello Stato membro. Tuttavia, la Corte esclude che la mancanza di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi possa determinare automaticamente l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione.
In tale contesto, una condizione derivante dall’interpretazione del diritto nazionale e dalla prassi di un’autorità –così viene qualificata la giurisprudenza della Adunanza plenaria richiamata in sede di inquadramento preliminare (cfr. sentenze 20.03.2015, n. 3 e 02.11.2015, n. 9, rispettivamente in Foro it., 2016, III, 114 con nota di TRAVI e III, 65, con nota di CONDORELLI)- sarebbe particolarmente sfavorevole per gli offerenti stabiliti in altri Stati membri, il cui grado di conoscenza del diritto nazionale e della sua interpretazione nonché della prassi delle autorità nazionali non può essere comparato a quello degli offerenti nazionali.
Pertanto, se la necessaria indicazione separata degli oneri della sicurezza non è espressamente prevista a monte dalle leggi di gara, l’amministrazione aggiudicatrice può (rectius deve) accordare all’offerente escluso un termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione.
III. - Giova evidenziare che la soluzione cui è approdata la Corte del Lussemburgo è stata sostanzialmente anticipata dall’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19 (oggetto della News US in data 01.08.2016, cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento ), secondo cui <<per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, qualora l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara e dalla modulistica allegata ma sia assodato che sostanzialmente l’offerta abbia tenuto conto dei costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio>>.
Per l’indicazione delle ulteriori questioni rimesse dai giudici amministrativi italiani alla Corte di giustizia UE in materia di oneri di sicurezza, si rinvia alla News US in data 19.02.2016 (Corte Giust. UE, Sez. VI, ordinanza 10.11.2016 - C-140/16 + Corte Giust. UE, Sez. VI, ordinanza 10.11.2016 - C-162/16 + Corte Giust. UE, Sez. VI, ordinanza 10.11.2016 - C-697/15 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 («Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga […]»), l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla legge.
In altri termini «la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo».
La pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso.

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Il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
Pertanto, l’assunto della ricorrente sulla natura di factum principis della controversia giudiziaria con l’impresa e il direttore lavori deve essere respinto.
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Circa l’interpretazione dell’art. 30, comma 3, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98, è chiaro il tenore letterale della disposizione secondo cui la stessa si applica solo nelle ipotesi in cui il termine per l’inizio dei lavori non sia già scaduto al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge citato.
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La dichiarazione del direttore dei lavori, riferita allo stato dei lavori eseguiti prima della ripresa dei lavori avvenuta nel dicembre 2014, indica una serie di opere (adeguamento e potenziamento centrale termica esistente; scavi e pozzetti scarichi fognari di pertinenza della dependance; realizzazione piattaforma per posizionamento gru) che non integrano un effettivo inizio di esecuzione delle opere oggetto della concessione.
E ciò sulla scorta della consolidata giurisprudenza secondo cui «l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di costruzione.
Detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
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1. – Con il ricorso in esame, la società Mi.Fi. s.r.l. chiede l’annullamento dell’ordinanza n. 8 del 21.04.2015, notificata il 15.05.2015, con la quale il Comune di Olbia ha ordinato alla società di demolire le opere realizzate senza concessione edilizia (nell’immobile censito al Foglio 2, Map. 1508, sub 3, del catasto del Comune di Olbia), in quanto i relativi lavori sarebbero stati iniziati dopo il decorso del termine annuale di inizio previsto nella concessione edilizia n. 322/11, rilasciata alla Mi.Fi. s.r.l. in data 31.10.2011.
2. - Nella motivazione dell’ordinanza, si richiama il rapporto del servizio prevenzione abusi, redatto a seguito del sopralluogo effettuato il 07.01.2015 presso l’immobile in questione, nel corso del quale sarebbero state accertate le opere edilizie abusive oggetto dell’ordinanza di demolizione.
Dal verbale del sopralluogo risulta che i funzionari del servizio comunale, intervenuti mentre nel cantiere si svolgeva attività edilizia, sul presupposto che la concessione edilizia era stata rilasciata in data 31.10.2011, informavano il responsabile del cantiere che i lavori avrebbero dovuto essere iniziati entro un anno dal rilascio, pena la decadenza dalla concessione.
Il responsabile dichiarava che «i lavori hanno avuto inizio nel mese di dicembre 2014 sotto la direzione del Geom. Antonio Pinna». Sulla scorta di quanto attestato nel verbale di sopralluogo, il dirigente del servizio ha adottato, dapprima, l’ordinanza di sospensione dei lavori (n. 1 dell’08.01.2015, anch’essa impugnata col ricorso in esame); e successivamente l’ordinanza di demolizione, ritenendo che le opere fossero state «iniziate abbondantemente dopo un anno dal rilascio della Concessione Edilizia n. 322/11…», e pertanto da considerare abusive.
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3. - Passando all’esame delle altre censure, è infondato l’assunto che l’ordinanza avrebbe dovuta essere preceduta dalla dichiarazione di decadenza della concessione per il mancato rispetto del termine di inizio lavori.
Sul punto è sufficiente richiamare la giurisprudenza nettamente prevalente del Consiglio di Stato, dalla quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, secondo cui, ai sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 («Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga […]»), l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla legge; in altri termini «la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo» (Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2014, n. 1747; in tal senso, ex multis, anche Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870: «la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione»).
Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso (Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870; nonché, TAR Sardegna, sez. II, 04.05.2015, n. 741).
4. - Sotto altro profilo, rilevante nella fattispecie in esame, in giurisprudenza si sottolinea che «il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)» (Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870).
Pertanto, l’assunto della ricorrente sulla natura di factum principis della controversia giudiziaria con l’impresa e il direttore lavori [di cui al punto 4) della esposizione di cui sopra] deve essere respinto.
5. - E’ del tutto infondata anche l’interpretazione dell’art. 30, comma 3, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98, esposta al punto 5) di cui sopra, poiché dal chiaro tenore letterale della disposizione emerge che la norma si applica solo nelle ipotesi in cui il termine per l’inizio dei lavori non sia già scaduto al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge citato.
6. - Rimangono da esaminare i rilievi sollevati dalla ricorrente sotto il profilo del difetto di istruttoria e di motivazione (punto 3 dell’esposizione di cui sopra).
6.1. - Sul punto, le censure della ricorrente non possono essere condivise.
6.2. - Come accennato, la motivazione dell’ordinanza si basa sugli accertamenti istruttori effettuati in occasione del sopralluogo dei funzionari del servizio “Controllo Edilizia e Prevenzione Abusi” del Comune di Olbia, nonché sulla documentazione fotografica dello stato dell’area (al 07.04.2014) in cui dovevano essere iniziati i lavori di cui alla concessione n. 322/11, acquisita mediante “Google Earth” (cfr. il rapporto dell’08.01.2015 e la documentazione fotografica allegata, doc. 2 della produzione del Comune di Olbia).
In particolare, da tali risultanze fotografiche appare evidente che ancora alla data del 07.04.2014 nessun intervento fosse stato iniziato nella proprietà della MI.FI. srl. Il che, costituisce un indiretto riscontro delle dichiarazioni del responsabile del cantiere, acquisite durante il sopralluogo del 07.01.2015 (dichiarazioni, secondo cui i lavori sarebbero iniziati solo nel dicembre 2014).
6.3. - Peraltro, sotto altro connesso profilo, la dichiarazione del direttore dei lavori (rilasciata il 25.05.2015 e prodotta da parte ricorrente quale all. 17 della produzione documentale depositata il 26.05.2016), riferita allo stato dei lavori eseguiti prima della ripresa dei lavori avvenuta nel dicembre 2014, indica una serie di opere (adeguamento e potenziamento centrale termica esistente; scavi e pozzetti scarichi fognari di pertinenza della dependance; realizzazione piattaforma per posizionamento gru) che non integrano un effettivo inizio di esecuzione delle opere oggetto della concessione.
E ciò sulla scorta della consolidata giurisprudenza, fatta propria anche dalla Sezione, secondo cui «l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000, n. 5242)» (TAR Sardegna, sez. II, 04.05.2015, n. 741) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.11.2016 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulle opere consistenti nella realizzazione di un solaio in legno, con piano di calpestio in tavolato ligneo della superficie di circa 130 mq., collegato al locale sottostante con una scala in legno.
Le variazioni di superficie, quando collegate al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari originariamente distinte, rientrano tra le opere di manutenzione straordinaria e non fra gli interventi di ristrutturazione edilizia; il che significa, ulteriormente, che le variazioni di superficie non determinano, sotto il profilo giuridico, la nascita di un organismo diverso dal precedente.
A maggior ragione, il discorso deve valere per le eventuali modifiche della superficie nelle singole unità immobiliari, indipendentemente dall’accorpamento o frazionamento delle stesse; purché, ovviamente, «non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici.
Ne deriva come conseguenza che se anche si dovesse ritenere che, nella fattispecie, il solaio in legno realizzato dalla ricorrente sia anche in parte utilizzabile come superficie calpestabile, questo elemento non consentirebbe di qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, non potendosi individuare alcun organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione e rimessa in pristino datata 17.04.2015 n. 61/URB (pratica sorveglianza edilizia n. 14618.20) notificata il 20.04.2015, a firma del Dirigente del Servizio Edilizia Privata del Comune di Cagliari, notificata in data 20.04.2015;
...
 1. - Con il ricorso in esame, la sig.ra Ca.Si. chiede l’annullamento dell’ordinanza n. 61 del 17.04.2015, con la quale il dirigente del Servizio edilizia privata del Comune di Cagliari ha disposto la demolizione delle opere abusive realizzate all’interno dell’unità immobiliare sita in Cagliari, Via ... n. ..., piano secondo, di proprietà dell’odierna ricorrente.
Secondo la motivazione della predetta ordinanza, le opere (consistenti nella realizzazione di un solaio in legno, con piano di calpestio in tavolato ligneo della superficie di circa 130 mq., collegato al locale sottostante con una scala in legno) sarebbero state realizzate in assenza di permesso di costruire; titolo che sarebbe stato necessario, in quanto l’intervento realizzato rientrerebbe nell’ambito della ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 3 della legge regionale 15.10.1985, n. 23, configurando un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, con la sostituzione di alcuni elementi costitutivi l’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi.
...
1. Con il primo motivo, la ricorrente –sul presupposto che i lavori in questione debbano essere qualificati come opere interne, la cui esecuzione non è, quindi, subordinata ad alcun titolo abilitativo– rileva che le opere risultano assentite sulla base della comunicazione al Comune, effettuata il 02.03.2001, prot. n. 3505; e, per quanto riguarda la scala di accesso al sottotetto, con la comunicazione opere interne datata 03.11.2003, prot. n. 78673; nonché, con la comunicazione opere interne del 24.03.2014, prot. n. 74017 (lavori resisi necessari in esecuzione della sentenza civile pronunciata nel contenzioso con la confinante Sa.An.Ma.Gr.).
Sotto altro profilo, la ricorrente deduce il difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata, perché non vengono individuati gli specifici elementi che giustificherebbero la diversa qualificazione delle opere come “intervento di ristrutturazione edilizia”, né viene precisato per quali elementi l’organismo edilizio risultante dai lavori effettuati dalla ricorrente sia in tutto o in parte diverso dal precedente.
In ogni caso, la ricorrente contesta le possibili motivazioni che potrebbero avere indotto l’amministrazione a pronunciarsi in tal senso. In particolare, se tali ragioni debbono essere individuate nel fatto che il nuovo solaio è stato abbassato di un metro, diventando una copertura calpestabile da considerare come superficie utile, la ricorrente precisa che –sulla base della apposita perizia di un ingegnere strutturista, versata in atti- deve escludersi che il nuovo solaio in legno sia in grado di sopportare i carichi prescritti affinché un’unità immobiliare possa essere utilizzata come residenziale.
Sottolinea, altresì, che il solaio non sarebbe in ogni caso abitabile anche perché non conforme alle prescrizioni dettate per i sottotetti dall’articolo 61 del regolamento edilizio del Comune di Cagliari, avendo una altezza media pari a 1,05 mt. (mentre il regolamento impone una altezza media di almeno 2,70 mt. e una minima di 2,00 mt.).
Risulterebbe violato, quindi, l’articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, che definisce la nozione legislativa di ristrutturazione edilizia.
Con il secondo motivo, la ricorrente contesta la legittimità della disposizione dell’ordinanza in cui si prevede che, in caso di inadempienza, l’amministrazione procederà ad acquisire il sedime del manufatto e le pertinenze, posto che l’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001 («Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità») non contempla l’ulteriore sanzione di acquisizione al patrimonio comunale del manufatto su cui sono state realizzate le opere abusive.
Infine, con il terzo motivo, la ricorrente contesta che l’immobile in questione sia compreso all’interno della fascia di rispetto dei 100 metri dal sito denominato “ruderi di terme romane”, poiché con provvedimento regionale dell’11.02.2009, n. 190/DG, per il bene paesaggistico in questione, è stata esclusa la forma di tutela costituita dalla fascia di rispetto.
Il primo, articolato, motivo è fondato.
La questione centrale, infatti, come emerge dalla motivazione dell’ordinanza impugnata, è rappresentata dalla riconducibilità, o non, delle opere realizzate all’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia.
Tuttavia, non può convenirsi sulla correttezza di tale assunto.
Occorre verificare, quindi, se l’intervento in questione sia compatibile con la definizione legislativa di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui rientrano nella nozione «gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza (…)».
Elemento normativo caratterizzante la definizione è costituito dal prodotto dei lavori, ossia la creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Occorre stabilire, peraltro, quali sono i profili giuridici che connotano il concetto. In tale prospettiva, deve necessariamente farsi riferimento al contenuto della definizione di opere di manutenzione straordinaria, che si può considerare confinante con quella di ristrutturazione edilizia (e di organismo edilizio “diverso dal precedente”, che qualifica quest’ultima), nel senso che gli interventi che sono riconducibili alla prima categoria di opere indubbiamente sono esclusi dall’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia.
Secondo la definizione di cui alla lettera b, dell’art. 3 cit., sono interventi di manutenzione straordinaria «le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso. Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso».
Dalla lettura emerge agevolmente come le variazioni di superficie, quando collegate al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari originariamente distinte, rientrano tra le opere di manutenzione straordinaria e non fra gli interventi di ristrutturazione edilizia; il che significa, ulteriormente, che le variazioni di superficie non determinano, sotto il profilo giuridico, la nascita di un organismo diverso dal precedente. A maggior ragione, il discorso deve valere per le eventuali modifiche della superficie nelle singole unità immobiliari, indipendentemente dall’accorpamento o frazionamento delle stesse; purché, ovviamente, «non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici» (il che, nel caso di specie, è pacifico).
Ne deriva come conseguenza che se anche si dovesse ritenere che, nella fattispecie, il solaio in legno realizzato dalla ricorrente sia anche in parte utilizzabile come superficie calpestabile, questo elemento non consentirebbe di qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, non potendosi individuare alcun organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
A quanto appena affermato, si soggiunga che, in ogni caso, deve escludersi che il solaio in legno possa essere considerato come superficie utile abitabile, posto che la stessa amministrazione ha accertato che l’altezza minima del solaio è di 1,05 mt., mentre quella massima è di 3,20 mt. (quella media è pari, quindi, a 2,125 mt.); dati che si pongono in contrasto con quanto previsto, per i sottotetti, dall’articolo 61 del regolamento edilizio del Comune di Cagliari, che prescrive una altezza media di almeno 2,70 mt. e una minima di 2,00 mt .
Considerata la natura sostanziale dei motivi esaminati, il cui accoglimento comporta la piena tutela della situazione giuridica fatta valere in giudizio dalla ricorrente, possono ritenersi assorbite le ulteriori censure dedotte.
Il ricorso, in conclusione, deve essere accolto, con il conseguentemente annullamento dell’ordinanza di demolizione impugnata (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.11.2016 n. 841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla realizzazione di una tettoia in tegole sorretta da robusti pali in legno stabilmente infissi sul terreno, delle dimensioni di m. 7,35 x 3,60.
La giurisprudenza, sia di primo che di secondo grado, è nel senso che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e quindi assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è comunque doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica”.
Ciò ovviamente vale anche nel caso si tratti di manutenzione straordinaria assentibile con semplice D.I.A..
Al riguardo il Consiglio di Stato ha evidenziato come sia irrilevante il titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata; ciò che rileva è infatti che lo stesso sia stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo in zona soggetta a vincolo.
Trattasi dell’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con D.I.A., prive di autorizzazione paesaggistica.

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Con ricorso notificato il 22/24.02.2010 e depositato il 23.03.2010 Gi.Me. ha impugnato l’ordinanza del Comune di Minturno n. 115 datata 15.12.2009 con la quale è stato ingiunto alla ricorrente di demolire una tettoia adiacente all’immobile sito in Minturno, frazione ..., via ... n. 12, coinvolgendo nell’azione impugnatoria tutti gli atti connessi.

L’ordinanza è motivata dal fatto che la tettoia, di m. 7,35 x 3,60, sarebbe stata costruita in assenza di titolo abilitativo ed in area sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico.
...
...il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e debba pertanto essere respinto.
Preliminarmente si osserva come la rappresentazione dei fatti da parte della ricorrente sia sostanzialmente smentita dalla stessa documentazione prodotta, dalla quale si evince che la precedente struttura era costituita da un semplice tenda sorretta da pali di metallo, mentre la struttura per la quale è stato emesso il provvedimento impugnato è di tutt’altra natura, essendo costituita da una tettoia in tegole sorretta da robusti pali in legno stabilmente infissi sul terreno.
Ma a prescindere da tale circostanza, e cioè che sia sufficiente nella fattispecie la presentazione di una semplice D.I.A. e non di un permesso di costruire, la giurisprudenza, sia di primo che di secondo grado, è nel senso che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e quindi assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è comunque doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica” (TAR Napoli, Sez. VI, 22.10.2015 n. 4931; Sez. IV 23.10.2013 n. 4676) ciò ovviamente vale anche nel caso si tratti di manutenzione straordinaria assentibile con semplice D.I.A..
Al riguardo il Consiglio di Stato (Sez. VI 09.01.2013 n. 62) ha evidenziato come sia irrilevante il titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata; ciò che rileva è infatti che lo stesso sia stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo in zona soggetta a vincolo.
Trattasi dell’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con D.I.A., prive di autorizzazione paesaggistica.
Tutto ciò rende infondato l’articolato motivo di gravame, per quanto riguarda sia la presunta manutenzione straordinaria, sia la garanzia partecipativa, sia la valutazione dell’interesse pubblico, non trattandosi peraltro qui di provvedimento adottato in autotutela.
Appare infine quasi superfluo osservare come la fattispecie in esame, per quanto in precedenza esposto, esuli dalla disciplina dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. 380/2001 (TAR Lazio-Latina, sentenza 08.11.2016 n. 705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl dies a quo per l'impugnazione delle disposizioni contenute in strumenti urbanistici generali va individuato nella scadenza del termine di pubblicazione dell'avviso di deposito degli atti presso gli uffici comunali, applicandosi cioè la disciplina urbanistica regolatrice delle fasi di adozione ed approvazione degli strumenti urbanistici non occorrendo alcuna forma di comunicazione personale secondo cui detti piani sono oggetto di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (o nei rispettivi B.U.R.) e i cui atti debbano essere depositati presso il Comune "a libera visione del pubblico".
Non di meno, qualora -come nel caso di specie- l'efficacia dei piani da impugnare sia condizionata alla pubblicazione sul BUR, avvenuta dopo la pubblicazione della delibera di approvazione del piano attuativo all'albo pretorio, il dies a quo per l'impugnazione va individuato nel momento di acquisizione dell'efficacia ovvero nella pubblicazione sul BUR e non già in quello, antecedente, della scadenza del termine di pubblicazione all'albo pretorio.
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2. - E’ materia del contendere l’impugnativa da parte della sig.ra So., proprietaria finitima, del Piano Attuativo di iniziativa della controinteressata approvato con del. G.C. n. 85/12 dal Comune di Terni ed inerente intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione delle strutture preesistenti e mutamento della destinazione d’uso, intervento già assentito con autorizzazione unica SUAP, sostitutiva del permesso di costruire, n. 513 del 2008.
Viene altresì impugnato dalla medesima ricorrente, con secondo ricorso RG 106/2014, il provvedimento della Provincia di Terni con cui sì è stabilito di non procedere all’annullamento, ai sensi dell’art. 39 T.U. edilizia, della predetta autorizzazione.
3. - Preliminarmente va disposta ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm. la riunione dei ricorsi in epigrafe, stante l’evidente connessione oggettiva e soggettiva.
Occorre premettere quanto ad entrambi i ricorsi che come già rilevato dall’adito Tribunale (sent. 2011 n. 3) in riferimento a ricorso promosso da altro proprietario finitimo avverso il medesimo Piano Attuativo, l’autorizzazione unica SUAP 513/2008 oggetto dell’intervento per cui è causa è da ritenersi tutt’ora valida ed efficace.
Infatti, la suddetta sentenza di annullamento dell’autorizzazione unica 513/2008 e della variante n. 266/2009 rilasciate dal Comune alla controinteressata, è venuta meno a seguito della riforma in appello, in considerazione dell’intervenuta rinuncia della ricorrente all’azione promossa ed agli effetti della decisione di primo grado.
La caducazione della sentenza ha così inevitabilmente comportato la reviviscenza dei provvedimenti provvisoriamente annullati in primo grado, con conseguente piena validità ed efficacia dei medesimi.
4. - Deve essere “in limite litis” esaminata l’eccezione di irricevibilità del ricorso RG 98/2013 sollevata dalla controinteressata.
Ad avviso della controinteressata il ricorso sarebbe tardivo in quanto notificato soltanto l’11.02.2013, mentre il Piano Attuativo impugnato è stato pubblicato all’albo pretorio del Comune di Terni il 19.03.2012 e sul B.U.R. l’11.12.2012.
Ai sensi dell'art. 24, c. 17, della L.R. Umbria n. 11/2005, la deliberazione comunale di approvazione del piano attuativo è trasmessa entro quindici giorni alla Regione Umbria che provvede alla pubblicazione della stessa nel B.U.R., dalla quale decorre l'efficacia dell'atto.
Il ricorso risulta effettivamente notificato l’11.02.2013 ovvero oltre il termine di sessanta giorni decorrente dall’11.12.2012, data di pubblicazione sul B.U.R..
Il dies a quo per l'impugnazione delle disposizioni contenute in strumenti urbanistici generali va individuato nella scadenza del termine di pubblicazione dell'avviso di deposito degli atti presso gli uffici comunali, applicandosi cioè la disciplina urbanistica regolatrice delle fasi di adozione ed approvazione degli strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sez IV., 15.11.2002, n. 6278; id. sez. VI., 10.02.2010, n. 663) non occorrendo alcuna forma di comunicazione personale (Consiglio di Stato sez VI., 05.08.2005, n. 4159; id. sez VI., 16.10.2001, n. 5467; id. sez VI., 14.06.2001, n. 3149; TAR Lombardia-Milano, sez II, 27.12.2006, n. 3095) secondo cui detti piani sono oggetto di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (o nei rispettivi B.U.R.) e i cui atti debbano essere depositati presso il Comune "a libera visione del pubblico".
Non di meno, qualora come nel caso di specie l'efficacia dei piani da impugnare sia condizionata alla pubblicazione sul BUR, avvenuta dopo la pubblicazione della delibera di approvazione del piano attuativo all'albo pretorio, il dies a quo per l'impugnazione va individuato nel momento di acquisizione dell'efficacia ovvero nella pubblicazione sul BUR e non già in quello, antecedente, della scadenza del termine di pubblicazione all'albo pretorio (TAR Umbria 12.06.2015, n. 285).
Non ritiene d’altronde il Collegio che il Piano in questione fosse soggetto ad onere di comunicazione personale nei confronti della ricorrente, non essendo ella direttamente incisa dal Piano stesso (ex multis TAR Campania Napoli sez. VIII, 09.12.2010, n. 27126).
Nel caso di specie il ricorso è pertanto evidentemente tardivo, venendo a scadere il sessantesimo giorno alla data del 09.02.2013.
5. - L'eccezione di tardività è dunque fondata, con conseguente irricevibilità del ricorso ai sensi dell’art. 35, c. 1, lett. a), cod. proc. amm. (TAR Umbria, sentenza 07.11.2016 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione alla natura del potere di riesame straordinario regionale contemplato dall’art. 27 della L. 1150/1942 e oggi dall’art. 39 del d.P.R. 380/2001 è sorto un obiettivo contrasto giurisprudenziale.
La tesi avallata dalla ricorrente è indubbiamente sostenuta in giurisprudenza, riconducendo il potere in esame ad espressione di mera funzione di vigilanza e controllo da parte dell’autorità sovraordinata. Anche a voler seguire tale tesi, occorrerebbe giocoforza affermare il carattere eminentemente officioso del potere, escludendosi l’obbligo giuridico di provvedere a fronte di istanze volte a sollecitarlo, a pena di una evidente surrettizia elusione del termine decadenziale per l’azione di annullamento.
Secondo però altra opzione interpretativa, il potere di annullamento in questione, pur indubbiamente distinto da quello esercitabile dal Comune in sede di riesame, deve essere esercitato alla luce dell’art. 97 Cost. e del principio di ragionevolezza sulla scorta degli stessi presupposti ovvero con doverosa valutazione degli interessi e degli eventuali affidamenti nonché della situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria.
Ritiene il Collegio preferibile tale seconda lettura, specie alla luce delle recenti modifiche apportate dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” all’art. 21-nonies della legge 241 del 1990 (pur “ratione temporis” non direttamente applicabile) secondo cui seppur limitatamente ai provvedimenti di “autorizzazione ed attribuzione di vantaggi economici” è stato rigorosamente delimitato il termine di esercizio del potere d’annullamento d’ufficio in 18 mesi dalla emanazione dell’atto.
Tale “ius superveniens” rende sicuramente più stabile la posizione del soggetto destinatario dell’autorizzazione, quindi del permesso di costruire quale tipico atto autorizzatorio il quale può confidare nella stabilità del rapporto una volta decorso il suddetto termine perentorio, a differenza del regime previgente la novella legge 124/2015, laddove la “ragionevolezza” del termine dava inevitabilmente adito -per l’indeterminatezza ed elasticità del parametro- ad interpretazioni del tutto difformi, in danno della stessa certezza dei rapporti di diritto pubblico.
Tanto che in materia edilizia una parte della giurisprudenza individuava tale termine ragionevole, per analogia, proprio nel decennio stabilito dal citato art. 39 o addirittura opinava nel senso della inesauribilità del potere di annullamento comunale dei titoli abilitativi in considerazione della natura di illecito permanente.
A fronte di tale innovativa disciplina non ritiene a maggior ragione il Collegio plausibile opinare nel senso voluto dalla ricorrente.
Infatti, proprio l’esaminata maggior esigenza di stabilità e di tutela dell’affidamento del destinatario del provvedimento di autorizzazione non può dirsi compatibile con un potere di riesame regionale di stretta legalità, del tutto avulso dalla situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria.
E’ vero che l’art. 39 del Testo Unico prevede un termine temporale assai più ampio (dieci anni), tuttavia tale maggior estensione, a fortiori, deve contemperarsi con i criteri conformativi delineati dall’art. 21-nonies, non essendo più predicabile -o quantomeno essendo assai dubbia- la permanenza nel nostro ordinamento di ipotesi di interesse pubblico “in re ipsa” in grado di giustificare in via del tutto autonoma il potere di riesame.
E’ poi irrilevante la non applicabilità “ratione temporis” della legge 124 del 2015 dal momento che essa, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.
Si impone inoltre una interpretazione comunitariamente orientata del potere di annullamento straordinario, poiché la eccezionale maggior ampiezza del termine deve contemperarsi con il principio di derivazione comunitaria di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto.
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6. - Venendo al secondo ricorso (RG 106/2014), ad avviso della difesa della ricorrente l’annullamento straordinario previsto dall’art. 39 del Testo Unico in materia edilizia risulterebbe unicamente finalizzato ad assicurare il rigoroso rispetto della legalità nel campo urbanistico-edilizio, senza effettuare alcuna comparazione tra l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata con l’affidamento del privato, tipica del potere di autotutela con funzione di riesame come oggi codificato dall’art. 21-nonies della legge 241 del 1990 e s.m..
Sarebbe per tanto del tutto improprio il riferimento operato nel diniego impugnato a tale ultima norma e del tutto non dovuto il bilanciamento dei contrapposti interessi ed in primis di quello vantato dalla Ba.Co. s.r.l. in merito alla apparente legittimità della ristrutturazione effettuata.
7. - Non ritiene il Collegio di poter aderire alle pur suggestive considerazioni articolate dalla difesa della ricorrente.
8. - In relazione alla natura del potere di riesame straordinario regionale contemplato dall’art. 27 della L. 1150/1942 e oggi dall’art. 39 del d.P.R. 380/2001 (nonché dall’omologo art. 11 della L.R. 21/2004) è sorto un obiettivo contrasto giurisprudenziale.
La tesi avallata dalla ricorrente è indubbiamente sostenuta in giurisprudenza, riconducendo il potere in esame ad espressione di mera funzione di vigilanza e controllo da parte dell’autorità sovraordinata (Consiglio di Stato sez. IV, 20.02.1998, n. 315; id. sez. IV, 09.09.2009, n. 5409; id. sez. IV, 08.11.2013, n. 32; TAR Lazio sez. I, 23.05.2014, n. 5521). Anche a voler seguire tale tesi, occorrerebbe giocoforza affermare il carattere eminentemente officioso del potere, escludendosi l’obbligo giuridico di provvedere a fronte di istanze volte a sollecitarlo, a pena di una evidente surrettizia elusione del termine decadenziale per l’azione di annullamento (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 27.04.2005, n. 1947).
Secondo però altra opzione interpretativa, il potere di annullamento in questione, pur indubbiamente distinto da quello esercitabile dal Comune in sede di riesame, deve essere esercitato alla luce dell’art. 97 Cost. e del principio di ragionevolezza sulla scorta degli stessi presupposti ovvero con doverosa valutazione degli interessi e degli eventuali affidamenti nonché della situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria (ex multis TAR Liguria sez. I, 13.01.2015, n. 79; Consiglio di Stato sez. VI, 02.09.2013, n. 4352).
Ritiene il Collegio preferibile tale seconda lettura, specie alla luce delle recenti modifiche apportate dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” all’art. 21-nonies della legge 241 del 1990 (pur “ratione temporis” non direttamente applicabile) secondo cui seppur limitatamente ai provvedimenti di “autorizzazione ed attribuzione di vantaggi economici” è stato rigorosamente delimitato il termine di esercizio del potere d’annullamento d’ufficio in 18 mesi dalla emanazione dell’atto.
Tale “ius superveniens” rende sicuramente più stabile la posizione del soggetto destinatario dell’autorizzazione, quindi del permesso di costruire quale tipico atto autorizzatorio (Corte Cost. sent. n. 5/1980) il quale può confidare nella stabilità del rapporto una volta decorso il suddetto termine perentorio, a differenza del regime previgente la novella legge 124/2015, laddove la “ragionevolezza” del termine dava inevitabilmente adito -per l’indeterminatezza ed elasticità del parametro- ad interpretazioni del tutto difformi, in danno della stessa certezza dei rapporti di diritto pubblico.
Tanto che in materia edilizia una parte della giurisprudenza individuava tale termine ragionevole, per analogia, proprio nel decennio stabilito dal citato art. 39 (TAR Lombardia Brescia sez. I, 05.04.2013, n. 34) o addirittura opinava nel senso della inesauribilità del potere di annullamento comunale dei titoli abilitativi in considerazione della natura di illecito permanente (Consiglio di Stato sez. VI, 23.02.2012, n. 1041).
A fronte di tale innovativa disciplina non ritiene a maggior ragione il Collegio plausibile opinare nel senso voluto dalla ricorrente.
Infatti, proprio l’esaminata maggior esigenza di stabilità e di tutela dell’affidamento del destinatario del provvedimento di autorizzazione non può dirsi compatibile con un potere di riesame regionale di stretta legalità, del tutto avulso dalla situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria.
E’ vero che l’art. 39 del Testo Unico prevede un termine temporale assai più ampio (dieci anni), tuttavia tale maggior estensione, a fortiori, deve contemperarsi con i criteri conformativi delineati dall’art. 21-nonies, non essendo più predicabile -o quantomeno essendo assai dubbia- la permanenza nel nostro ordinamento di ipotesi di interesse pubblico “in re ipsa” in grado di giustificare in via del tutto autonoma il potere di riesame.
E’ poi irrilevante la non applicabilità “ratione temporis” della legge 124 del 2015 dal momento che essa, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti (così Consiglio di Stato sez. VI, 10.12.2015 n. 5625).
Si impone inoltre una interpretazione comunitariamente orientata del potere di annullamento straordinario, poiché la eccezionale maggior ampiezza del termine deve contemperarsi con il principio di derivazione comunitaria di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto (TAR Umbria, sentenza 07.11.2016 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione dei manufatti (abusivi) in questione sulla base di una pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del codice civile.
Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei manufatti.
Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.

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Le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente.
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata, essendo certa esclusivamente la provenienza della dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune ai fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque titolo.
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Né ha pregio il deposito in giudizio di perizia giurata a firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale preesistenza.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i contrari elementi di prova oggettivi richiamati dall’amministrazione.
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... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n. 75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione straordinaria e del permesso di costruire per opere di ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n. 4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione dei manufatti in questione sulla base di una pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta, con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione. Lamenta in particolare che il comune di Verona ha indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la zona di progetto e la zona in cui sono individuati i manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la loro omissione nell’atto notarile di compravendita di terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata, essendo certa esclusivamente la provenienza della dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria, essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo, richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
4. Sono infondate le censure proposte con motivi aggiunti di ricorso avverso l’ordinanza di demolizione sia perché sono proposti vizi d’invalidità derivata già proposti col ricorso principale sia perché l’amministrazione ha congruamente smentito la circostanza, invocata da parte ricorrente, che i manufatti preesistessero ad epoca anteriore alla seconda guerra mondiale.
Né ha pregio il deposito in giudizio in data 07.05.2015 di perizia giurata a firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale preesistenza.
Si tratta infatti di perizia che non è stata prodotta da parte ricorrente nel procedimento che ha condotto all’adozione dei provvedimenti impugnati né sussistevano impedimenti a che tale perizia fosse eventualmente prodotta nel momento in cui parte ricorrente, nell’ambito delle proprie facoltà partecipative, era abilitata a presentare memorie e documenti prima dell’adozione dei provvedimenti impugnati.
Il collegio prescinde dalla circostanza che il motivo di ricorso incentrato su tale perizia costituisce motivo nuovo di ricorso, proposto oltre il termine decadenziale di 60 giorni dalla conoscenza del provvedimento impugnato e dunque irricevibile per tardività. Infatti tale motivo di ricorso è comunque infondato.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i contrari elementi di prova oggettivi richiamati dall’amministrazione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa relata di notifica costituisce un atto pubblico, per cui le attestazioni in essa contenute, inerenti sia alle attività che l'ufficiale notificante certifica di avere eseguito, sia alle dichiarazioni da lui ricevute, sono assistite da fede pubblica privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c..
A fronte di tale valore probatorio può sempre essere contestata la veridicità del contenuto sostanziale delle dichiarazioni ricevute dal P.U. notificante, fermo restando che la verità intrinseca di tali dichiarazioni comunque si presume per cui, su chi le contesta, grava l'onere della prova circa la loro intrinseca inesattezza, sebbene con tutti i mezzi consentiti e senza ricorso alla querela di falso.

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6. L’appello non è fondato.
6.1. Come già correttamente rilevato dal TAR, il provvedimento contiene l’espressa verbalizzazione dell’avvenuta consegna di copia in data 19.03.2015, nonché la sottoscrizione autografa del destinatario.
6.2. La relata di notifica costituisce un atto pubblico, per cui le attestazioni in essa contenute, inerenti sia alle attività che l'ufficiale notificante certifica di avere eseguito, sia alle dichiarazioni da lui ricevute, sono assistite da fede pubblica privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c.
A fronte di tale valore probatorio può sempre essere contestata la veridicità del contenuto sostanziale delle dichiarazioni ricevute dal P.U. notificante, fermo restando che la verità intrinseca di tali dichiarazioni comunque si presume per cui, su chi le contesta, grava l'onere della prova circa la loro intrinseca inesattezza, sebbene con tutti i mezzi consentiti e senza ricorso alla querela di falso (fra le tante, Cass. civ., Sez. I, 29.03.2016, n. 6046; Sez. V, 08.07.2016, n. 13981).
6.3. Nel caso di specie, l’appellante allega, quali indizi della mancata consegna, la missiva del procuratore legale che, in data successiva al 19.03.2015, si premurava di inviare documentazione integrativa dell’originaria istanza, sollecitando la notifica del provvedimento finale.
Tale circostanza tuttavia non ha oggettiva e significativa consistenza probatoria, concernendo documenti provenienti dalla stessa parte appellante, ai quali del resto l’amministrazione ha già, a suo tempo, replicato in sede amministrativa, evidenziando di avere già provveduto alla notifica (nota della Questura del 27.07.2015).
E’ quindi dalla data di consegna così come verbalizzata dagli agenti notificatori che deve aversi riguardo per il computo del termine per impugnare, con la conseguenza, già ricavata dal giudice di prime cure, che il ricorso introduttivo è palesemente tardivo (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.10.2016 n. 4080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 23.11.2016

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, nel caso in cui la denuncia di inizio attività (DIA ora SCIA) si ponga quale titolo abilitativo esclusivo (art. 22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), solo l'esecuzione di interventi edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti edilizi integra il reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
Diversamente,
nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cosiddetta superDIA: art. 22, comma terzo, d.P.R. n. 380/2001) è configurabile il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, sia nel caso di assenza del permesso di costruire o della DIA, sia nel caso di difformità totale delle opere eseguite rispetto alla DIA presentata, restando priva di sanzione penale la sola difformità parziale.
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2.1. Nella specie, la Corte territoriale non si è uniformata a tali principi, rinviando, da un lato, alla sentenza di primo grado ed agli elementi probatori acquisiti, ma non esaminando, dall'altro, le specifiche censure rivolte con l'appello a quella pronuncia.
Al ricorrente è stato contestato il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001 per aver realizzato lavori di esecuzione di un deposito temporaneo di rifiuti non pericolosi provenienti da demolizioni edili, con difformità rispetto alle previsioni progettuali.
E' stato accertato che, in sede di accesso, venivano riscontrate le difformità rispetto alle previsioni progettuali di cui alla denuncia di inizio lavori presentata dall'imputato al Comune di San Marco d'Alunzio in data 04.08.2011 e, cioè, occupazione di un'area della superficie pari a mq 92,82 anziché mq 79,56, realizzazione di muretti dell'altezza di m 3,20 anziché m. 2,00, aumento dell'altezza del muretto di divisione esterno lato ovest, omessa realizzazione di un adeguato sistema di canalizzazione delle acque meteoriche.
Va ricordato, in proposito, che
la DIA prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3 (cd DIA alternativa o SuperDIA), non è istituto ontologicamente diverso da quello disciplinato dai due commi precedenti (cd DIA semplice, ora SCIA) dal quale non si distingue certo per il carattere dell'onerosità, che ben può essere comune e differisce da esso soltanto in relazione agli interventi assoggettabili (alternativamente) alla procedura.
Diverso, invece, è il connesso regime sanzionatorio.
Nei casi previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, commi 1 e 2, -in cui la DIA (ora S.C.I.A.), si pone come titolo abilitativo esclusivo (non alternativo, cioè, al permesso di costruire)- la mancanza della denunzia di inizio dell'attività o la difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata non comportano l'applicazione di sanzioni penali ma sono sanzionate soltanto in via amministrativa (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, comma 6). Dovendo ritenersi, però, che sia comunque punibile ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), -pure se preceduta da rituale denuncia d'inizio- l'esecuzione di interventi sostanzialmente difformi da quanto stabilito da strumenti urbanistici e regolamenti edilizi.
Questa Corte ha, infatti, affermato che
l'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 22, commi 1 e 2, (ora S.C.I.A.), allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dal citato D.P.R. n. 380, art. 44, lett. a), atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora S.C.I.A.), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dallo stesso D.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, (Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv. 235413; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099).
Nei casi previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3, invece, in cui la DIA (DIA alternativa o superDIA), ai sensi del successivo art. 44, comma 2-bis, si pone come alternativa al permesso di costruire, l'assenza sia del permesso di costruire sia della denunzia di inizio dell'attività ovvero la totale difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata integrano il reato di cui al successivo art. 44, lett. b) (Sez. 5, 26.04.2005, Giordano; Sez. 3, 09.03.2006, n. 8303; 26.01.2004, n. 2579, Tollon).
La disciplina sanzionatoria penale non è correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell'intervento. Ciò che conta non è la qualificazione dell'intervento data dal privato nella DIA presentata ma la esatta indicazione e descrizione, in tale denuncia, delle opere, poi, effettivamente eseguite (Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Rv. 238463).
Non trova, comunque, sanzione penale la difformità parziale: le sanzioni di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001 sono applicabili soltanto in caso di assenza o totale difformità dalla DIA, atteso che la esclusione dell'ipotesi di parziale difformità dal regime sanzionatorio opera sia in caso di edificazione con permesso di costruire che nella diversa ipotesi di opzione per la DIA (Sez. 3, n.44248 del 23/09/2004, Croattini).
E' stato osservato, a tal proposito, che
le opere per le quali l'art. 1, comma 6, della legge 21.12.2001 n. 443 ha previsto la possibilità, a scelta dell'interessato, di procedere in base a DIA in alternativa al premesso di costruire (previsioni trasfuse, poi, con modificazioni nell'art. 22, comma 3, del T.U. n. 380/2001) sono rimaste soggette, rientrando in origine esclusivamente nel regime concessorio, alla sanzione di cui all'art. 44, lett. b), del T.U. n. 380/2001, con la conseguenza che integrano il reato previsto da tale norma le opere suddette, quando siano state realizzate in assenza sia del permesso di costruire sia della DIA, ovvero in totale difformità rispetto alla DIA inoltrata (Sez. 5, n. 23668 del 26/04/2005, Rv. 231905).
2.2. In definitiva, in tema di reati edilizi,
nel caso in cui la denuncia di inizio attività (DIA ora SCIA) si ponga quale titolo abilitativo esclusivo (art. 22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), solo l'esecuzione di interventi edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti edilizi integra il reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001; diversamente, nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cosiddetta superDIA: art. 22, comma terzo, d.P.R. n. 380/2001) è configurabile il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, sia nel caso di assenza del permesso di costruire o della DIA, sia nel caso di difformità totale delle opere eseguite rispetto alla DIA presentata, restando priva di sanzione penale la sola difformità parziale (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Rv. 243099, cit.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2016 n. 47970).

IN EVIDENZA

URBANISTICAI piani di lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata decennale, sicché, decorso infruttuosamente detto termine, essi perdono efficacia.
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli artt. 16, comma 5, e 17 della l. n. 1150/1942 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria.
Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile eseguire i previsti espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto.

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Giova premettere al riguardo, che nel sistema normativo attualmente vigente i piani di lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata decennale, sicché, decorso infruttuosamente detto termine, essi perdono efficacia (cfr., Cons. St., sez. IV, 27.04.2015, n. 2109; idem, TAR Umbria, sez. un., 07.12.2001, n. 650).
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli artt. 16, comma 5, e 17 della l. n. 1150/1942 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria (cfr., in detti termini, Cons. St., sez. VI, 05.12.2013, n. 5807; Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2013, n. 1574; Cons. St., sez. IV, 28.12.2012, n. 6703).
Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile eseguire i previsti espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto (in tal senso, Cons. St., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572).
Tanto premesso in punto di diritto, occorre rilevare che, nel caso di specie, la delibera del Comune di Foligno n. 465 del 17.11.2010, con la quale è stato prorogato il termine di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, ha espressamente preso atto del fatto che la validità decennale dell’impugnato piano particolareggiato, come precedentemente approvato con delibera comunale n. 32 del 17.03.2005, “decorre dalla data di notifica ai proprietari dell’avvenuta approvazione, ovvero dal giorno 23/05/2005, e pertanto la proroga non può eccedere il termine del 23/05/2015”.
Risultando, allo stato, ampiamente decorso detto termine finale, il piano particolareggiato in questione, nonché tutti gli atti e provvedimenti preordinati alla sua realizzazione, come in epigrafe riportati, hanno perduto la loro efficacia e non possono essere portati ad esecuzione né dal Comune di Foligno né dalla società odierna contro interessata, incaricata delle opere di urbanizzazione primaria.
Ne discende, che la società odierna ricorrente non può conseguire alcuna utilità dall’eventuale annullamento da tali atti, sicché sia il ricorso principale sia i successivi atti per motivi aggiunti, devono essere dichiarati improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.
Quanto detto trova peraltro conferma nel fatto che, per espresso riconoscimento della stessa ricorrente, le opere di urbanizzazione non sono state iniziate, se non a livello embrionale, mentre l’edificazione è allo stato inesistente, discutendosi ancora sulla tipologia di edificazione da realizzare e sulle modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione propedeutiche all’edificazione (cfr., pag. 15, dell’ultimo atto per motivi aggiunti).
In conclusione, l’intero gravame va dichiarato improcedibile (TAR Umbria, sentenza 28.10.2016 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: G. Cocchi, Annullamento in autotutela del permesso di costruire alla luce dell'entrata in vigore dell'art. 21-nonies della legge 241/1990, come modificato da ultimo dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015. Prime pronunce giurisprudenziali. Spunti di riflessione (18.11.2016 - link a www.lexambiente.com).

QUESITI & PARERI

INCARICHI PROFESSIONALI: Quali limiti alla parcella dell’avvocato?
Alla fine della causa l’avvocato mi ha presentato una parcella che raggiunge quasi la metà di quanto l’avversario mi dovrà dare: è legittimo oppure c’è un limite massimo per il suo compenso?
Così come non esistono limiti minimi alle tariffe degli avvocati, la legge non prevede neanche limiti massimi: la parcella dell’avvocato viene quantificata sulla base di quanto le parti hanno convenuto all’atto del conferimento del mandato. In pratica, anche in tema di compensi dovuti all’avvocato vale il principio generale del nostro ordinamento della libera trattativa tra le parti.
Come, del resto, un negoziante è libero di venderci un vestito a un prezzo dieci volte superiore al valore del bene, altrettanto può fare il professionista. Ecco perché è sempre bene concordare in anticipo la parcella. Peraltro, se richiesto dal cliente, il preventivo va messo per iscritto, salvi eventuali «correttivi» in aumento qualora il giudizio dovesse presentare difficoltà o costi sopravvenuti, comunque da giustificare. (...continua) (21.11.2016 - link a www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Immobile comunale del patrimonio disponibile destinato a farmacia.
Per quanto concerne l'assegnazione in uso a terzi di immobili comunali, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione amministrativa, mentre l'appartenenza del bene al patrimonio disponibile implica l'utilizzo di negozi contrattuali di diritto privato.
Alla luce del quadro normativo vigente (art. 9, c. 3, L. n. 537/1993; art. 32, c. 8, L. n. 724/1994), che impone la determinazione dei canoni di concessione di immobili ai privati sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato, la gestione dei beni pubblici è improntata al principio di fruttuosità.
Secondo l'orientamento della Corte dei conti, come evoluto negli ultimi anni, le eccezioni alla regola della redditività, sia nel senso di mitigarla che in quello di escluderla, postulano l'assenza dello scopo di lucro in capo ai soggetti privati beneficiari. Va data, ovviamente, in questo caso, esaustiva motivazione della finalità istituzionale perseguita e deve essere compiuta un'attenta valutazione comparativa degli interessi pubblici in gioco.
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, ai fini dell'assegnazione di immobile comunale destinato a farmacia a farmacista libero professionista, sembra venire in considerazione, stante la natura di imprenditore commerciale del farmacista, l'istituto della locazione, nel rispetto della normativa vigente (per un canone corrispondente a quello del valore di mercato).

Il Comune è proprietario di un immobile destinato a farmacia ed appartenente al patrimonio disponibile, a suo tempo concesso in uso gratuito al precedente titolare della farmacia.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di procedere ora, allo stesso modo, all'assegnazione gratuita dell'immobile al nuovo farmacista, libero professionista, considerata l'importanza di avere il servizio di farmacia nel proprio territorio montano -distante dai paesi di fondovalle e la cui scarsa popolazione è composta per lo più da anziani- e comunque di sapere attraverso quale strumento giuridico sia legittimo agire (locazione, comodato, concessione). Il Comune rappresenta, inoltre, l'utilità di assicurare ai residenti ulteriori servizi -consegna farmaci a domicilio, misurazione pressione, uso defibrillatore- per i quali valuterebbe di dare un corrispettivo al farmacista.
In via preliminare, si precisa che l'attività di questo Servizio consiste nel fornire agli enti locali un supporto giuridico generale sulle questioni poste, da cui poter trarre elementi utili per l'individuazione in autonomia della soluzione dei casi concreti, in relazione alle specificità che li connotano. Pertanto, in via collaborativa, si esprimono sul tema in oggetto le seguenti considerazioni.
Il tipo di negozio giuridico da utilizzare per l'affidamento di immobili comunali dipende dalla natura di questi, demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale disponibile.
In particolare, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione amministrativa, mentre per i beni del patrimonio disponibile l'attribuzione in godimento a soggetti terzi deve essere effettuata secondo gli schemi di diritto privato
[1]. La giurisprudenza della Cassazione civile è costante nell'affermare che, a prescindere dalla qualificazione giuridica attribuita dalle parti o dalla pubblica amministrazione al rapporto posto in essere, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile implica l'esistenza di una concessione amministrativa, mentre il rapporto avente ad oggetto il godimento di un bene immobile compreso nel patrimonio disponibile si configura quale locazione [2].
Queste considerazioni portano a ritenere che la concessione in uso dell'immobile comunale, appartenente al patrimonio disponibile dell'Ente (per sua espressa indicazione), vada effettuata a mezzo di negozi contrattuali di diritto privato.
In ordine a quale contratto possa essere utilizzato, in particolare se anche il comodato, la Corte dei conti, nel rimarcare che le concrete scelte gestionali in questo ambito rientrano nell'esclusiva discrezionalità degli enti
[3], ha espresso principi generali, continuando a specificarne i contenuti e le deroghe nel susseguirsi dei suoi pronunciamenti sino ad oggi.
La Corte dei conti ha innanzitutto tratto dal quadro normativo vigente il principio di fruttuosità dei beni pubblici, muovendo dalla lettura combinata delle disposizioni di cui agli artt. 9, comma 3, L. n. 537/1993
[4], e 32, c. 8, L. 724/1994 [5], che impongono la determinazione e l'aggiornamento dei canoni dei beni dati in concessione a privati, sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato, e da cui deriva il principio di gestione del patrimonio pubblico in modo da incrementare le entrate patrimoniali dell'amministrazione [6].
Per la Corte dei conti, infatti, queste norme sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti -come nella specie- di immobili del patrimonio disponibile destinati ad uso commerciale, relativamente ai quali -già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici
[7].
Peraltro, con particolare riferimento al patrimonio disponibile, di interesse nel caso di specie, la Corte dei conti ha formulato ulteriori riflessioni.
Il Giudice contabile osserva in primis che la concessione in uso gratuito di bene immobile del patrimonio disponibile va qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio economico' in favore di soggetto di diritto privato, per cui detto provvedimento deve essere adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla L. n. 241/1990 (art. 12), nonché delle norme regolamentari dell'ente locale. La Corte dei conti osserva, dunque, che non esiste uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di detti beni che appartengono all'ente pubblico iure privatorum.
Tuttavia, l'ente locale nell'esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo. D'altra parte, la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale
[8].
Successivamente, la Corte dei conti ha assunto una posizione di maggior rigore rispetto alla possibilità di derogare al principio della redditività del patrimonio pubblico.
La Corte dei conti Veneto, deliberazione n. 716/2012, ha osservato che il legislatore stesso ha tracciato i confini delle possibili eccezioni ai principi generali della gestione economica del patrimonio pubblico. In particolare, l'art. 32, comma 8, L. 724/1994, prevede una deroga in considerazione degli 'scopi sociali', mentre l'art. 32, L. n. 383/2000, consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questi casi, la mancata redditività del bene è considerata, comunque, compensata dalla valorizzazione di un altro bene ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento nell'art. 2 della Costituzione.
Le predette eccezioni si riferiscono a categorie ben individuate di beneficiari, in relazione alle quali la Corte dei conti fa delle precisazioni. E così, l'art. 32, L. n. 383/2000, consente il comodato a favore delle organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale, secondo la definizione contenuta nell'art. 2 della L. 383/2000, che comprende soggetti costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati.
D'altra parte anche il beneficio previsto dall'art. 32, comma 8, L. 724/1994, va letto -secondo la Corte- in riferimento a quanto previsto dal comma 3 del medesimo articolo, che esclude dall'incremento dei canoni annui dei beni patrimoniali, in questo caso dello Stato, una serie di categorie di soggetti, tra le quali sono comprese anche le associazioni e fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti
[9].
Dalla lettura delle norme in questione -afferma la Corte dei conti Veneto n. 716/2012- 'risulta pertanto evidente che la deroga alla regola della determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato [...] appare giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni'.
E sulla base di queste premesse, la Corte dei conti Veneto, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare un canone ridotto rispetto a quello di mercato ad associazioni senza scopo di lucro di interesse collettivo, nel ribadire che l'indirizzo politico e legislativo che si è venuto affermando negli ultimi anni è stato improntato alla valorizzazione del patrimonio pubblico secondo criteri di redditività, formula, tuttavia, nel caso specifico, conclusioni di apertura. E lo fa attesa la natura dell'ente locale di ente a fini generali, e richiamandolo di conseguenza ad assumere le proprie scelte gestionali in considerazione delle proprie finalità istituzionali, attraverso un'attenta valutazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi negli anni precedenti dalla magistratura contabile.
In linea di continuità con la Corte dei conti Veneto n. 716/2012, la Corte dei conti Molise afferma che il comodato di beni del patrimonio disponibile pubblico è da ritenersi ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui non sia rinvenibile alcuno scopo di lucro nell'attività concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni. Su queste premesse, nel caso specifico relativo alla possibilità di stipulare un comodato in favore di una cooperativa sociale ONLUS, la Sezione molisana rimette la scelta gestionale all'ente, previa esaustiva motivazione della finalità di interesse pubblico
[10].
Si osserva, successivamente alla deliberazione della Sezione veneta n. 716/2012, un uniformarsi della giurisprudenza contabile alle osservazioni ivi svolte circa l'assenza dello scopo di lucro in capo ai soggetti per i quali il legislatore ha previsto la possibilità di derogare alla regola della redditività del patrimonio pubblico. Assenza di fine di lucro necessaria, ad avviso della Corte dei conti, tanto per mitigare quanto per escludere detta redditività.
In applicazione di questi principi, nelle fattispecie specifiche sottoposte al suo vaglio, ove i soggetti possibili affidatari dei beni del patrimonio locale sono pp.aa. o soggetti privati connotati dall'assenza di scopo di lucro, la magistratura contabile rimette alla scelta autonoma degli enti la possibilità di determinare il canone di locazione in misura ridotta o di disporre la gratuità dell'utilizzo dell'immobile, ovviamente dando esaustiva motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguite e sulla base di una valutazione ponderata comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi in passato
[11].
L'accertamento della sussistenza o meno dello scopo di lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto di impresa, è rimesso al prudente apprezzamento dell'ente interessato, in relazione allo scopo e alle finalità perseguite dall'operatore e alle modalità concrete con le quali viene svolta l'attività che coinvolge l'utilizzo del bene pubblico
[12].
Venendo al caso di specie, in via collaborativa, si osserva che la giurisprudenza ha affermato lo status di imprenditore commerciale del farmacista, in considerazione della sua attività di smercio di medicinali e prodotti parafarmaceutici
[13], che rientra nella definizione dell'art. 1470 c.c. e nelle regole tutte della compravendita [14]. Pertanto, alla luce della natura di imprenditore commerciale del farmacista e dell'orientamento giurisprudenziale sulla gestione dei beni pubblici come evoluto negli ultimi anni, sembrerebbe venire in considerazione, per l'affidamento dell'immobile di cui si tratta al nuovo farmacista, il contratto di locazione, nel rispetto della normativa vigente (per un canone corrispondente a quello del valore di mercato).
Per quanto concerne, infine, l'espletamento da parte del farmacista di servizi ulteriori in favore dei residenti, si osserva che la L. n. 69/2009 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi finalizzati all'individuazione di nuovi servizi a forte valenza socio-sanitaria erogati dalle farmacie pubbliche e private nell'ambito del Servizio sanitario nazionale (art. 11).
In attuazione della legge delega, è stato emanato il D.Lgs. n. 153/2009 che ha individuato i nuovi servizi assicurati dalle farmacie previa adesione del titolare della farmacia, tra cui, ad es. la consegna domiciliare dei farmaci (art. 1, comma 2, lett. a, n.1) e l'utilizzo presso le farmacie di dispositivi semiautomatici per la defibrillazione (art. 1, comma 2, lett. d)
[15].
In considerazione della valenza socio sanitaria dei nuovi servizi, espressamente indicata dal legislatore, si ritiene che gli stessi non possano essere imputati al Comune, deputato allo svolgimento delle funzioni che riguardano i servizi alla persona (art. 13, c. 1, D.Lgs. n. 267/2000
[16]; art. 16, c. 1, L.R. n. 1/2006 [17]), i quali attengono alla sfera sociale e socio-assistenziale [18] e non a quella sanitaria e socio-sanitaria, di competenza del Servizio sanitario.
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[1] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4. La magistratura contabile richiama, in questo senso, la giurisprudenza uniforme di legittimità (tra le altre, Cass. civ., sez. III, 22.06.2004, n. 11608) e amministrativa (tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. V, 06.12.2007, n. 6265, secondo cui, in caso di presenza di un bene del patrimonio disponibile, l'utilizzo della concessione amministrativa non trova alcun fondamento normativo né alcuna giustificazione, ma si risolve solo ed esclusivamente nell'elusione di norme inderogabili poste dal diritto privato).
[2] Cass. civ., sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Cass. civ., sez. III, 19.12.2005, n. 27931.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 09.06.2011, n. 349.
[4] Ai sensi del comma 3 in argomento, 'A decorrere dal 01.01.1994, il canone degli alloggi concessi in uso personale a propri dipendenti dall'amministrazione dello Stato, dalle regioni e dagli enti locali, nonché quello corrisposto dagli utenti privati relativo ad immobili del demanio, compresi quelli appartenenti al demanio militare, nonché ad immobili del patrimonio dello Stato, delle regioni e degli enti locali, è aggiornato, eventualmente su base nazionale, annualmente, con decreto dei Ministri competenti, d'intesa con il Ministro del tesoro, o degli organi corrispondenti, sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato per gli immobili aventi analoghe caratteristiche e, comunque, in misura non inferiore all'equo canone. A decorrere dal 01.01.1995 gli stessi canoni sono aggiornati in misura pari al 75 per cento della variazione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) dell'ammontare dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati, verificatesi nell'anno precedente'.
[5] Il comma 8 in argomento prevede che 'A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali'.
[6] Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio 03.05.2004, n. 1737/2004 e 02.03.2009, n. 262/2009.
[7] Corte Conti, sez. II giurisdizionale centrale d'appello, 22/04/2010, n. 149. Nello stesso senso, Corte dei conti, sez. reg. contr. Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170, secondo cui l'obbligo della gestione economica del bene pubblico, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.), del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario.
[8] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 17.06.2010, n. 672 e deliberazione 09.06.2011, n. 349. Nello stesso senso, Corte dei conti Veneto 22.04.2009, n. 33.
[9] Corte dei conti Veneto n. 716/2012. Conforme sull'interpretazione delle norme in argomento, Corte dei conti Puglia n. 170/2013 cit.. La posizione della Corte dei conti Veneto sull'assenza dello scopo di lucro è altresì richiamata dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione 12.12.2014, n. 216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n, 172; Molise deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[10] Corte dei conti Molise n. 1/2015 cit..
[11] Corte dei conti Puglia n. 170/2013 cit. -nel riaffermare dopo la Sezione veneta n. 716/2012 le eccezioni ai principi generali della gestione economica quali quelle espressamente indicate dal legislatore (art. 32, comma 8, L. 724/1994, interpretato alla luce del comma 3 dell'art. 32 medesimo; art. 32, L. n. 383/2000)- nel caso specifico, rimette alla valutazione dell'ente la possibilità di stipulare il comodato in favore di società consortile senza fini di lucro, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici secondo i principi già espressi dalla giurisprudenza contabile in ordine alla gestione dei beni pubblici (in particolare, Corte dei conti Lombardia n. 349/2011, cit.);
Corte dei conti Lombardia n. 172/2014 cit. - nel premettere che la Corte dei conti Veneto n. 716/2012 ha chiaramente evidenziato che la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata solo dall'assenza dello scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni - nel caso specifico, rimette all'ente la scelta gestionale di prevedere tariffe agevolate o la gratuità per l'utilizzo dei beni pubblici in favore di associazioni no profit;
Corte dei conti Puglia n. 216/2014 cit. - richiamata la numerosa giurisprudenza sull'assenza di lucro a giustificazione della deroga al principio generale di redditività del bene pubblico - nel caso specifico, si esprime in senso favorevole alla concessione in comodato alla Guardia di Finanza di un immobile comunale per l'allocazione della relativa caserma;
Corte dei conti Molise n. 1/2015, cit.. Sul principio del riconoscimento di una riduzione del canone concessorio per l'utilizzo di beni pubblici (nel caso demaniali) da parte del privato, a fini di pubblico interesse, da cui il concessionario non tragga alcun lucro, v. anche Consiglio di Stato 03.06.2014, n. 2839, con specifico riferimento alla normativa recata dal Codice della navigazione.
[12] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit.. Conformi: Corte dei conti Lombardia, n. 172/2014, cit.; Corte dei conti Molise n. 1/2015, cit..
[13] Cass. civ., sez. lav., 24.02.1986, n. 1149. Nello stesso senso, Cass. civ., sez. trib., 03.08.2007, n. 17116. Sull'indubbia natura commerciale dell'attività del farmacista, v. anche Consiglio di Stato, sez. III, 25.01.2012, n. 324, e TAR Cagliari, sez. I, 24.02.2010, n. 223.
Inoltre, in generale, in ordine al concetto di impresa, la Cassazione civile, sez. trib., 16.07.2010, n. 16722, richiama la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'ambito del diritto alla concorrenza, secondo cui la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività economica (Corte di giustizia UE, sez. VI, 23.04.1991, n. 41 e 11.12.1997, n. 55), e costituisce un'attività economica qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte di giustizia UE, sez. V, 18.06.1998, n. 35).
[14] Ai sensi dell'art. 122, R.D. 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del Testo unico delle leggi sanitarie) oggetto prevalente dell'attività del farmacista è la vendita di medicinali «messi in commercio già preparati e confezionati».
[15] D.Lgs. 03.10.2009, n. 153, in attuazione del quale sono stati emanati i DM 16.12.2010, il DM 08.07.2011 e il DM 11.12.2012.
[16] 'Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito al altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le relative competenze'.
[17] 'Il comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali'.
[18] V. art. 6, L. n. 328/2000, secondo cui i comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale e v. altresì art. 10, L.R. n. 6/2006, secondo cui i comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti la realizzazione del sistema locale di interventi e servizi sociali
(21.11.2016 -
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SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali. Rimborso spesa quota parte per segretario dell'UTI.
L'art. 32, comma 5-ter, del d.lgs. 267/2000, stabilisce che il presidente dell'Unione di comuni si avvale del segretario di un comune facente parte dell'Unione, senza che ciò comporti l'erogazione di ulteriori indennità e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Si ritiene opportuno che i rapporti tra gli enti coinvolti all'utilizzo della figura del Segretario siano regolati da apposita convenzione, che definisca in dettaglio anche i profili economici e le quota di partecipazione alle spese inerenti al trattamento economico del medesimo, ferma restando l'osservanza delle norme statali sull'ordinamento dei segretari e di quelle sul contenimento della spesa per il personale.

Il Comune rappresenta di voler procedere alla nomina del Segretario dell'UTI individuando a tal fine il segretario comunale attualmente titolare di una convenzione tra Comuni limitrofi.
Il Sindaco del Comune capofila, per concedere detta autorizzazione, richiede un rimborso spese pari alle ore effettivamente prestate dal segretario a favore dell'Unione. Si precisa che in ogni caso non si verrebbe a corrispondere alcun emolumento aggiuntivo al segretario medesimo.
Premesso un tanto, l'Amministrazione istante chiede:
- quale atto sia necessario per disciplinare i relativi rapporti economici tra UTI e amministrazione comunale che autorizza la funzione di segretario a favore dell'UTI, ovvero se sia sufficiente l'atto di nomina a Segretario da parte del Presidente, ove si specifica che le ore prestate a favore dell'UTI verranno rimborsate:
- se la quota parte di rimborso da parte dell'UTI possa costituire valorizzazione ai fini del rispetto della spesa di personale da parte del Comune titolare della convenzione di segreteria.
Sentito il Servizio finanza locale, si espone quanto segue.
Preliminarmente si osserva che l'art. 5, comma 2, della l.r. 26/2014 stabilisce che l'Unione territoriale intercomunale ha autonomia statutaria e regolamentare secondo le modalità previste dalla legge medesima e precisa che, al predetto ente, si applicano i principi fissati per l'ordinamento degli enti locali e, in quanto compatibili, le norme di cui all'articolo 32 del d.lgs. 267/2000.
Il citato art. 32, al comma 5-ter, stabilisce che il presidente dell'Unione di comuni si avvale del segretario di un comune facente parte dell'Unione, senza che ciò comporti l'erogazione di ulteriori indennità e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Si fa notare che il segretario dell'Unione è tuttora un istituto (al pari del segretario dei comuni) disciplinato dalla normativa statale e l'attività espletata dallo stesso, per conto dell'Unione, rientra nelle funzioni istituzionali svolte da detta figura, come avviene per l'ente Comune.
Premesso un tanto, venendo al merito della questione prospettata e fermo restando che specifiche norme, anche di carattere finanziario, potrebbero disciplinare in concreto la fattispecie sottoposta, sentito il Servizio finanza locale, si ritiene utile fornire le seguenti considerazioni.
Si evidenzia che la ratio sottesa all'art. 32, comma 5-ter del d.lgs. 267/2000, è in sostanza quella di imporre tassativamente il divieto di retribuire, in forma aggiuntiva rispetto a quanto consentito dall'ordinamento vigente, le funzioni di Segretario dell'Unione, venendo a gravare ulteriormente sulle finanze dei Comuni costituenti l'Unione stessa.
Ciò non toglie che si ipotizzi ragionevolmente un coinvolgimento di tutti gli Enti interessati all'utilizzo del Segretario, nel concorrere proporzionalmente all'accollamento della spesa relativa ai compensi spettanti a detta figura, in relazione all'impegno richiesto nelle varie sedi amministrative.
Si ritiene opportuno comunque che i rapporti tra gli Enti coinvolti all'utilizzo della figura del Segretario siano regolati da apposita convenzione, che definisca in dettaglio anche i profili economici e le quote di partecipazione alle spese inerenti al trattamento economico del medesimo L'atto di nomina da parte del Presidente non sembra infatti sufficiente a determinare detti aspetti, anche considerando che successivamente dovranno essere adottati i prescritti provvedimenti di impegno di spesa da parte del Responsabile competente.
Si osserva a tal proposito che, per quanto riguarda la compatibilità del cennato atto convenzionale con la normativa vigente sull'ordinamento dei segretari comunali ed in particolare con la vigente convenzione fra due Comuni limitrofi, è opportuno contattare la Prefettura di Trieste, competente in materia.
Per quanto concerne poi la questione se la quota di rimborso da parte dell'UTI possa costituire valorizzazione ai fini del rispetto delle norme sul contenimento della spesa di personale, da parte del Comune titolare della convenzione di segreteria, al fine di ottenere indicazioni riferite alla applicazione, alla situazione concreta ed al contesto locale, delle norme sul contenimento della spesa, si suggerisce di valutare la possibilità di interpellare la sezione regionale della Corte dei conti.
In via collaborativa, si riportano di seguito in sintesi gli orientamenti finora espressi dalla magistratura contabile.
La Sezione Autonomie della Corte dei conti
[1] ha sottolineato che il caso dell'Unione merita ulteriori momenti di approfondimento, anche alla luce delle problematiche che una più ampia utilizzazione della figura del Segretario potrà far emergere. Con riferimento alle convenzioni di segreteria, non si è comunque ritenuto possibile suddividere la spesa pro quota, ai fini del limite della voce complessiva 'spese di personale'.
In linea generale, si rileva che la magistratura contabile
[2] ha richiamato alcuni orientamenti espressi dalle varie Sezioni regionali di controllo, che hanno confermato l'orientamento secondo cui il contenimento dei costi del personale dei comuni deve essere valutato sotto il profilo sostanziale, sommando alla spesa di personale propria la quota parte di quella sostenuta dall'Unione dei comuni [3].
In particolare, si è evidenziato che 'il dato relativo alla spesa di personale da prendere in considerazione non può essere solo quello di ciascun Comune o dell'Unione poiché si tratterebbe di un dato incompleto e fuorviante (...) ma quello complessivo degli enti e dell'Unione'.
L'intento del legislatore, infatti, sembra essere quello di non limitarsi ad una considerazione puramente formale delle spese di personale di ciascun ente, ma di valutare, da un punto di vista sostanziale, l'entità delle stesse al fine di evitare incrementi incontrollati.
Nel caso dell'Unione -ha rilevato la Corte dei conti- è ragionevole che l'esame del rispetto della normativa in materia di spese di personale avvenga considerando sia la spesa dei singoli enti che quella dell'Unione in modo che alla costituzione del nuovo soggetto consegua un effettivo risparmio e non un incremento elusivo dei limiti posti ai singoli soggetti costitutori.
Si è inoltre rilevato che la spesa sostenuta per il personale dell'Unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli comuni partecipanti.
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[1] Cfr. n. 17/SEZAUT/2013/QMIG.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 313/2015/PAR.
[3] Cfr. Sez. Autonomie, deliberazione n. 8/AUT/2011/QMIG
(15.11.2016 -
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GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla rimozione di una sbarra in ferro di mt. 4,80 circa x m. 1,00 di altezza, posta all'ingresso della strada.
In punto di diritto il Collegio non ha rinvenuto significativi precedenti giurisprudenziali specificamente inerenti alla tipologia di opera in questione e ben conosce quella giurisprudenza secondo cui un intervento quale l’installazione di un cancello non costituisce un abuso edilizio soggetto a demolizione, trattandosi di un intervento non subordinato al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Ed ancora che la sostituzione di un cancello non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire, in quanto attività edilizia libera o al più integrante intervento di mera manutenzione ordinaria.
Il Collegio rileva come un altro orientamento giurisprudenziale dia rilevanza urbanistica, seppure a fini paesaggistici, all’installazione ex novo di un cancello in ferro (a differenza della mera sostituzione), stante la sua idoneità a produrre una sensibile alterazione dello stato dei luoghi e conseguente trasformazione edilizia.
Ritiene, in ogni caso, il medesimo Collegio che la realizzazione di un’opera come quella in questione, consistente nell’istallazione di una sbarra di ferro, con relativo basamento nel terreno, fissa e lunga mt. 4,80, a chiusura di una strada, richiedesse il permesso di costruire, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
Ciò anche in considerazione della tipologia di intervento, diversa rispetto alla posa in opera di un cancello in sostituzione, che comporta una rilevanza ben maggiore di impatto sul territorio, avendo a oggetto un’opera avente carattere di stabilità e volta ad interdire, in maniera permanente, la percorrenza di una via.

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FATTO
Il Comune di Mondragone, con Disposizione Dirigenziale n. 14/2011, ordinava alla parte ricorrente la rimozione di una sbarra in ferro di mt. 4,80 circa x m. 1,00 di altezza, posta all'ingresso della via De Amicis.
Motivava l’ordine ripristinatorio sulla base della circostanza che la sbarra in questione sarebbe stata installata abusivamente.
Le parti ricorrenti, con ricorso notificato il 23.11.2011, hanno impugnato la suindicata ordinanza, nonché ogni altro atto preordinato, connesso o consequenziale, chiedendone l’annullamento, previa sospensione, in quanto l’ordine di demolizione sarebbe stato adottato sul presupposto non veritiero che la strada di fatto interrotta con la sbarra metallica risulterebbe essere pubblica o di uso pubblico.
In realtà, asseriscono i ricorrenti, si tratterebbe di una strada privata non interessata da alcun diritto di uso pubblico. Inoltre, dal punto di vista del titolo abilitativo edilizio, l’edificazione dell’opera in questione non avrebbe necessitato del rilascio di un permesso di costruire.
E’ intervenuta in giudizio ad opponendum Al.Me., che ha formulato argomentazioni difensive e sostenuto che l’istallazione oggetto di ordine di demolizione le impediva l’accesso al proprio fondo.
L’adito TAR, con ordinanza n. 265/2012, ha rigettato l’istanza cautelare “considerato che i ricorrenti non risultano aver addotto elementi probatori sufficienti ad escludere l’assoggettamento a servitù pubblica della strada attinta dall’intervento abusivo di cui alla gravata ordinanza n. 14 del 14.09.2011”.
Il Consiglio di Stato, adito in sede di appello, ha confermato con ordinanza n. 1902/2012, il provvedimento di rigetto rilevando, sull'assenza del fumus boni iuris, che “l’intervento è stato realizzato in assenza di titolo abilitativo”.
DIRITTO
Il ricorso si rivela infondato.
L’ordine di demolizione è stato motivato dal Comune con l’assenza di un titolo abilitativo edilizio, senza espressa menzione del carattere pubblico dell’area o dell’esistenza di un diritto di uso pubblico.
In punto di fatto appare pacifico che l’intervento realizzato non è suffragato da alcun titolo abilitativo edilizio.
In punto di diritto il Collegio non ha rinvenuto significativi precedenti giurisprudenziali specificamente inerenti alla tipologia di opera in questione e ben conosce quella giurisprudenza secondo cui un intervento quale l’installazione di un cancello non costituisce un abuso edilizio soggetto a demolizione, trattandosi di un intervento non subordinato al preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Basilicata Potenza Sez. I, 31.05.2016, n. 575; TAR Liguria, I, 09.12.2009, n. 3562); e ancora che la sostituzione di un cancello non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire, in quanto attività edilizia libera o al più integrante intervento di mera manutenzione ordinaria (TAR Campania Napoli Sez. III, 11/05/2015, n. 2600).
Il Collegio rileva come un altro orientamento giurisprudenziale dia rilevanza urbanistica, seppure a fini paesaggistici, all’installazione ex novo di un cancello in ferro (a differenza della mera sostituzione), stante la sua idoneità a produrre una sensibile alterazione dello stato dei luoghi e conseguente trasformazione edilizia (TAR Campania Napoli, Sez. III, sentenze n. 439 e 1306 del 2016).
Ritiene, in ogni caso, il medesimo Collegio che la realizzazione di un’opera come quella in questione, consistente nell’istallazione di una sbarra di ferro, con relativo basamento nel terreno, fissa e lunga mt. 4,80, a chiusura di una strada, richiedesse il permesso di costruire, incidendo in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
Ciò anche in considerazione della tipologia di intervento, diversa rispetto alla posa in opera di un cancello in sostituzione, che comporta una rilevanza ben maggiore di impatto sul territorio, avendo a oggetto un’opera avente carattere di stabilità e volta ad interdire, in maniera permanente, la percorrenza di una via.
Per le suindicate ragioni il ricorso deve essere rigettato.
Stante l’assenza di precedenti giurisprudenziali consolidati in ordine alla soluzione adottata, il Collegio ritiene sussistano gravi ed eccezionali motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.11.2016 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38 D.P.R. 380/2001 appartiene al genus delle misure ripristinatorie.
Significativa in tal senso si appalesa la circostanza che essa è prevista dalla norma in sostituzione della misura demolitoria, di cui è indiscussa la natura reale.
Pertanto, posto il carattere reale dell’una (quella demolitoria), non può che concludersi che anche l’altra (quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura, attesa l’alternatività delle misure in questione.
Deve, dunque, concludersi che la misura di cui all’art. 38 cit. è diretta all’eliminazione della situazione obiettivamente antigiuridica conseguente alla realizzazione e permanenza di un’opera contrastante con la vigente disciplina urbanistica nonché, al conseguente ripristino dell’ordine urbanistico violato.
La predetta natura reale conferisce alla sanzione de qua la prerogativa di seguire l’immobile nei suoi successivi trasferimenti di proprietà, sicché essa è legittimamente comminata in capo all’attuale proprietario dell’opera abusiva.
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1.- Con il ricorso introduttivo depositato in data 22.06.2015, il sig. Ni.Vi.Pi.Sa., in qualità di titolare dell’impresa individuale “Al. di Sa.Vi.Ni.Pi.”, ha chiesto l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia esecutiva, del provvedimento con il quale il Comune resistente ha comminato, nei suoi confronti, la sanzione pecuniaria di oltre 400.000,00 euro, prevista dall’art. 38 D.P.R. 380/2001, per interventi eseguiti in base a permesso di costruire successivamente annullato.
L’odierno ricorrente –questo, in estrema sintesi, il nucleo delle doglianze formulate- si duole dell’erronea irrogazione della predetta sanzione nei suoi confronti, nonostante la propria estraneità rispetto alla realizzazione dell’opera abusiva, deducendo la violazione del citato art. 38 D.P.R. 380/2001.
In particolare, espone in narrativa di aver acquistato, in buona fede, dalla società Di.Co. s.r.l., l’immobile rispetto al quale è stata irrogata la misura ex art. 38 cit., facente parte di un più ampio complesso immobiliare destinato alla realizzazione di un centro polifunzionale, ubicato nel Comune di Gioia del Colle e deputato a “negozio commerciale al piano ammezzato (primo catastale) della superficie di circa metri quadrati centoventicinque (mq. 125)”, realizzato in virtù del permesso di costruire n. 115/2004, successivamente annullato in sede giurisdizionale per effetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 2578/2012, all’esito di un giudizio del quale egli afferma di non aver avuto notizia.
Deduce, conclusivamente, la propria estraneità non solo all’abuso commesso (dunque, sotto il profilo oggettivo), ma anche alla conoscenza dello stesso al momento dell’acquisto (dunque, sotto il profilo soggettivo), di cui ha avuto notizia solo successivamente al rogito notarile.
2.- Con motivi aggiunti del 26.04.2016, parte ricorrente ha impugnato le note del Comune di Gioia del Colle del 02.11.2015 e prot. 1798 del 22.01.2016, recanti autorizzazione, in favore della società cooperativa Coop Es., alla surrogazione, ex art. 1201 c.c., “in tutte le ragioni di fatto e di diritto vantate nei confronti dei comproprietari debitori”, compreso l’odierno ricorrente, con riguardo alla sanzione pecuniaria per cui è causa.
3.- Con ulteriori motivi aggiunti del 09.06.2016, parte ricorrente ha chiesto, infine, l’annullamento della determinazione del 29.12.2015 nr. Gen. 1227 (nr. Sett. 199) del Responsabile del Settore del Comune di Gioia del Colle, con la quale il Comune intimato stabiliva di prendere atto dell’istanza formulata dalla società cooperativa Coop. Estense in data 01.12.2015, “con l’impegno di autorizzare la stessa Società a surrogarsi, ex art. 1201 del C.C., in tutte le ragioni di fatto e di diritto vantate nei confronti dei debitori della predetta sanzione in qualità di comproprietari dell’immobile di che trattasi”.
4.- Costituendosi in resistenza il Comune di Gioia del Colle, ha chiesto il rigetto dell’avverso ricorso poiché infondato, difendendo la legittimità dell’operato dei propri uffici sulla scorta della natura reale e ripristinatoria della sanzione comminata.
5.- Con controricorso del 30.05.2016, si è costituita in giudizio anche la società cooperativa Coop Alleanza 3.0, chiedendo il rigetto dell’avverso ricorso.
6.- Con ordinanza n. 458 del 2015, non impugnata, è stata accolta la domanda cautelare, in ragione dell’entità pecuniaria della sanzione irrogata e del conseguente possibile pregiudizio derivante dal pagamento della stessa, riservando alla fase di merito, l’esame più approfondito delle doglianze prospettate.
7.- Alla pubblica udienza del 06.10.2016, la causa è stata trattenuta in decisione.
8.- Il vaglio delle censure prospettate, proprio della fase di merito conduce a ritenere i ricorsi (principali e per motivi aggiunti) infondati, con conseguente loro reiezione.
8.1.- L’odierno ricorrente fonda la sua pretesa:
   a) sull’estraneità alla commissione dell’abuso (in quanto mero avente causa dell’autore dell’opera abusiva);
   b) sulla propria buona fede, incontestata e dimostrata dal contratto di compravendita dell’immobile (versato in atti), nel quale si dà atto espressamente che, “ai sensi della vigente normativa urbanistica ed edilizia, la parte venditrice come sopra rappresentata dichiara che il fabbricato di cui il compendio immobiliare predetto è porzione, è stato realizzato in virtù delle concessioni e provvedimenti amministrativi in premessa citati”, nonché dalla circostanza che dal predetto contratto non era dato in alcun modo evincere la pendenza del contenzioso successivamente sfociato nell’annullamento del permesso di costruire in virtù del quale l’immobile compravenduto era stato realizzato.
Si appella, pertanto, ai principi valevoli per la categoria di sanzioni amministrative aventi funzione afflittivo-retributiva, dirette a punire il solo autore dell’illecito per la violazione commessa con scopo di prevenzione generale e speciale, deducendo –in questo il punto nodale della tesi prospettata- che la propria totale estraneità alla commissione dell’abuso lo esonererebbe dal subirne gli effetti di cui all’art. 38 cit..
Tanto sul presupposto che la misura di cui alla disposizione applicata partecipi della stessa natura delle suddette sanzioni che può sinteticamente racchiudersi nel principio di personalità della responsabilità.
8.2.-. La domanda dell’odierno ricorrente verte, conclusivamente, su di un’unica questione di diritto, attinente alla titolarità passiva della sanzione di cui all’art. 38 cit..
La tesi prospettata non è fondata.
La sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38 D.P.R. 380/2001, come invece, dedotto dagli odierni resistenti, appartiene al genus delle misure ripristinatorie.
Significativa in tal senso si appalesa la circostanza che essa è prevista dalla norma in sostituzione della misura demolitoria, di cui è indiscussa la natura reale.
Pertanto, posto il carattere reale dell’una (quella demolitoria), non può che concludersi che anche l’altra (quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura, attesa l’alternatività delle misure in questione.
Deve, dunque, concludersi che la misura di cui all’art. 38 cit. è diretta all’eliminazione della situazione obiettivamente antigiuridica conseguente alla realizzazione e permanenza di un’opera contrastante con la vigente disciplina urbanistica nonché, al conseguente ripristino dell’ordine urbanistico violato.
La predetta natura reale conferisce alla sanzione de qua la prerogativa di seguire l’immobile nei suoi successivi trasferimenti di proprietà, sicché essa è legittimamente comminata in capo all’attuale proprietario dell’opera abusiva (cfr., ex multis, TAR Piemonte n. 52874 del 2003; TAR Liguria n. 306 del 2009; TAR Toscana n. 361 del 2012.)
Conclusivamente i ricorsi devono essere respinti (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 16.11.2016 n. 1290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl ricorrente ha collocato sul fondo di sua proprietà, avente destinazione agricola, una serie di veicoli e mezzi targati e altri beni. Sicché, vi è stato certamente un mutamento funzionale della destinazione dell’area, in quanto l’utilizzazione della stessa quale parcheggio e deposito di mezzi e materiali di vario genere non può essere considerata compatibile con la destinazione agricola prevista dagli strumenti urbanistici.
Appare evidente che lo stazionamento quotidiano sull’area di mezzi e attrezzi per svolgere l’attività di imprenditore edile non può ritenersi precario o contingente, ma funzionale a soddisfare esigenze stabili nel tempo, strettamente collegate all’attività imprenditoriale del ricorrente, che risulta idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la rimovibilità dei mezzi e l’assenza di opere edilizie. Ciò imprime una differente destinazione d’uso al bene (area a parcheggio mezzi e stoccaggio attrezzi) che è da ritenersi incompatibile con quella individuata dallo strumento urbanistico vigente (area agricola).
Pertanto, non appare condivisibile la giurisprudenza citata dalla difesa del ricorrente, secondo la quale sarebbe compatibile con la destinazione agricola del fondo anche una sua utilizzazione come parcheggio, avuto riguardo alla circostanza che l’impatto urbanistico, oltre che ambientale, di un parcheggio di rilevante consistenza, qual è quello di macchinari e attrezzature per svolgere attività imprenditoriale, non qualificabile nemmeno come precario e temporaneo, è certamente impattante rispetto a tutto il contesto circostante.
In tal senso può essere richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico urbanistico, unitamente alla dotazione di standard, detta circostanza rende irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie.
Difatti, è stato affermato che in materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444.

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Il mutamento di destinazione per essere rilevante non richiede necessariamente la realizzazione di opere edilizie e laddove siano richieste dotazioni aggiuntive di servizi e spazi pubblici si è al cospetto di una trasformazione urbanistica, soggetta a permesso di costruire (già concessione edilizia).
La parte ricorrente assume, in maniera del tutto apodittica, che nella fattispecie de qua non siano richieste dotazioni aggiuntive di servizi e spazi pubblici e quindi non sia necessario il permesso di costruire.
In realtà, la realizzazione di un parcheggio e di un’area di stoccaggio richiede necessariamente delle dotazioni aggiuntive: da un punto di vista della viabilità, c’è una grande differenza tra una zona agricola, che potrebbe anche non essere servita da alcuna arteria stradale, e un parcheggio che, al contrario, deve essere inserito in un contesto viabilistico idoneo a limitare i problemi di traffico e a garantire la sicurezza nella zona interessata; anche da quest’ultimo punto di vista, ovvero della garanzia di sicurezza, un parcheggio necessita di interventi (segnaletica, realizzazione di innesti nelle strade principali, di protezioni per i pedoni e gli automobilisti che ne usufruiscono, raggiungibilità da parte dei mezzi di soccorso, ecc.) che non sono richiesti per una zona esclusivamente agricola.
Di conseguenza, nella presente fattispecie sarebbe stato necessario munirsi di un permesso di costruire e, pertanto, appare corretta l’irrogazione della sanzione ripristinatoria di cui all’art. 77 della legge regionale n. 11 del 1998 e all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, comprensiva della sanzione accessoria dell’acquisizione al patrimonio comunale, nel caso di inottemperanza all’ordine di rimessione in pristino.
Naturalmente va evidenziato che l’acquisizione al patrimonio comunale è subordinata al decorso infruttuoso del termine per adempiere all’ordinanza di rimessione in pristino (90 giorni) che, essendo stato sospeso con il decreto cautelare n. 18/2016 e con l’ordinanza n. 23/2016, ricomincerà a decorrere ex novo dalla comunicazione della presente sentenza.
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2. Con la prima doglianza si assume l’illegittimità dell’ordinanza impugnata, sul presupposto che nessuna opera sarebbe stata realizzata sull’area di proprietà del ricorrente, che avrebbe semplicemente utilizzato la stessa, in maniera assolutamente precaria e instabile e certamente compatibile con la sua destinazione agricola, come parcheggio di alcuni veicoli e mezzi targati, funzionanti e utilizzati nell’esercizio dell’impresa attiva nei settori dell’edilizia, dei servizi per la selvicoltura e delle coltivazioni agricole associate all’allevamento.
2.1. La doglianza è infondata.
Il ricorrente ha collocato sul fondo di sua proprietà, avente destinazione agricola, una serie di veicoli e mezzi targati e altri beni, come risulta dal verbale redatto all’esito del sopralluogo del 03.11.2015 (all. 4, richiamato integralmente alle pagg. 7-8 del ricorso); è altresì pacifico che nessuna opera è stata realizzata per modificare la conformazione dei luoghi.
Nel caso de quo, vi è stato certamente un mutamento funzionale della destinazione dell’area, in quanto l’utilizzazione della stessa quale parcheggio e deposito di mezzi e materiali di vario genere non può essere considerata compatibile con la destinazione agricola prevista dagli strumenti urbanistici; tale conclusione è avallata dal comma 3 dell’art. 73 della legge regionale n. 11 del 1998, secondo il quale “all’interno di ogni categoria di destinazioni d’uso, opera la presunzione che gli usi e le attività diano luogo allo stesso peso insediativo; di contro, si presume che il passaggio dall’una all’altra categoria dia luogo a pesi insediativi diversi, e richieda pertanto standard potenzialmente diversi”.
Ulteriormente il successivo art. 74, comma 1, chiarisce che il mutamento di destinazione d’uso si verifica “quando l’immobile, o parte di esso, viene ad essere utilizzato, in modo non puramente occasionale e momentaneo, per lo svolgimento di attività appartenenti ad una categoria di destinazioni, fra quelle elencate all’art. 73, comma 2, diversa da quella in atto”.
Appare evidente che lo stazionamento quotidiano sull’area di mezzi e attrezzi per svolgere l’attività di imprenditore edile non può ritenersi precario o contingente, ma funzionale a soddisfare esigenze stabili nel tempo, strettamente collegate all’attività imprenditoriale del ricorrente, che risulta idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la rimovibilità dei mezzi e l’assenza di opere edilizie (sulla nozione di precarietà in campo edilizio, da ultimo, TAR Emilia-Romagna, Bologna, I, 28.06.2016, n. 655). Ciò imprime una differente destinazione d’uso al bene (area a parcheggio mezzi e stoccaggio attrezzi) che è da ritenersi incompatibile con quella individuata dallo strumento urbanistico vigente (area agricola).
Pertanto, non appare condivisibile la giurisprudenza citata dalla difesa del ricorrente, secondo la quale sarebbe compatibile con la destinazione agricola del fondo anche una sua utilizzazione come parcheggio (TAR Sardegna, Cagliari, II, 14.09.2011, n. 926; TAR Veneto, Venezia, III, 18.03.2002, n. 1108), avuto riguardo alla circostanza che l’impatto urbanistico, oltre che ambientale, di un parcheggio di rilevante consistenza, qual è quello di macchinari e attrezzature per svolgere attività imprenditoriale, non qualificabile nemmeno come precario e temporaneo, è certamente impattante rispetto a tutto il contesto circostante.
In tal senso può essere richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico urbanistico, unitamente alla dotazione di standard, detta circostanza rende irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania, Salerno, II, 08.03.2013, n. 580).
Difatti, è stato affermato che in materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (TAR Veneto, Venezia, II, 21.08.2013, n. 1078; TAR Lombardia, Milano II, 27.07.2012, n. 2146).
2.2. Pertanto, la prima censura va respinta.
3. Con la seconda doglianza si eccepisce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, giacché la stessa sarebbe stata adottata sull’erroneo presupposto che l’attività posta in essere dal ricorrente necessitasse del rilascio di un permesso di costruire, mentre si tratterebbe di attività edilizia libera o, al più, soggetta a d.i.a., con rilevanti conseguenze anche in termini di sanzioni applicabili.
3.1. La doglianza è infondata.
L’art. 74 della legge regionale n. 11 del 1998, al comma 2 stabilisce che “il mutamento della destinazione d’uso, come disciplinato dal presente articolo, sussiste anche in assenza di opere edilizie ad esso funzionali”. Al successivo comma 3, si evidenzia inoltre che “il mutamento della destinazione d’uso da cui deriva la necessità di dotazioni aggiuntive di servizi e spazi pubblici costituisce trasformazione urbanistica ed è soggetto a concessione edilizia; la destinazione d’uso finale deve essere ammessa dal PRG e dal PTP nell’area o nell’immobile interessati; quando una destinazione d’uso non sia ammessa dal PRG o dal PTP nell’area o nell’immobile interessati, fatto salvo quanto stabilito nel comma 4, non sono consentite trasformazioni edilizie o urbanistiche preordinate a quella destinazione e non è consentito destinare quell’immobile, o parte di esso, a quell’uso, ancorché in assenza di opere edilizie”.
Emerge con evidenza dall’esame delle predette disposizioni che il mutamento di destinazione per essere rilevante non richiede necessariamente la realizzazione di opere edilizie e laddove siano richieste dotazioni aggiuntive di servizi e spazi pubblici si è al cospetto di una trasformazione urbanistica, soggetta a permesso di costruire (già concessione edilizia).
La parte ricorrente assume, in maniera del tutto apodittica, che nella fattispecie de qua non siano richieste dotazioni aggiuntive di servizi e spazi pubblici e quindi non sia necessario il permesso di costruire.
In realtà, la realizzazione di un parcheggio e di un’area di stoccaggio richiede necessariamente delle dotazioni aggiuntive: da un punto di vista della viabilità, c’è una grande differenza tra una zona agricola, che potrebbe anche non essere servita da alcuna arteria stradale, e un parcheggio che, al contrario, deve essere inserito in un contesto viabilistico idoneo a limitare i problemi di traffico e a garantire la sicurezza nella zona interessata; anche da quest’ultimo punto di vista, ovvero della garanzia di sicurezza, un parcheggio necessita di interventi (segnaletica, realizzazione di innesti nelle strade principali, di protezioni per i pedoni e gli automobilisti che ne usufruiscono, raggiungibilità da parte dei mezzi di soccorso, ecc.) che non sono richiesti per una zona esclusivamente agricola.
Di conseguenza, nella presente fattispecie sarebbe stato necessario munirsi di un permesso di costruire e, pertanto, appare corretta l’irrogazione della sanzione ripristinatoria di cui all’art. 77 della legge regionale n. 11 del 1998 e all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, comprensiva della sanzione accessoria dell’acquisizione al patrimonio comunale, nel caso di inottemperanza all’ordine di rimessione in pristino.
Naturalmente va evidenziato che l’acquisizione al patrimonio comunale è subordinata al decorso infruttuoso del termine per adempiere all’ordinanza di rimessione in pristino (90 giorni) che, essendo stato sospeso con il decreto cautelare n. 18/2016 e con l’ordinanza n. 23/2016, ricomincerà a decorrere ex novo dalla comunicazione della presente sentenza.
3.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta doglianza.
4. L’infondatezza delle censure di ricorso determina il rigetto dello stesso (TAR Valle d'Aosta, sentenza 16.11.2016 n. 55 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl riconoscimento della qualità di controinteressato <deve essere condotto sulla scorta del combinato di due elementi: quello cosiddetto “sostanziale”, che richiede l’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che richiede l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione>.
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Difatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, il riconoscimento della qualità di controinteressato <deve essere condotto sulla scorta del combinato di due elementi: quello cosiddetto “sostanziale”, che richiede l’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che richiede l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione> (Consiglio di Stato, VI, 16.07.2015, n. 3553; altresì, TAR Lombardia, Milano, III, 11.03.2016, n. 507)
(TAR Valle d'Aosta, sentenza 16.11.2016 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Pur essendo i Comuni esonerati dalla necessità di uno specifico titolo edilizio per le opere dagli stessi realizzate, comunque vi è l’obbligo del rispetto della normativa urbanistica ed edilizia vigente, che deve essere attestato proprio attraverso la relazione del tecnico abilitato.
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Nella presente fattispecie, oltre alla mancanza dell’attestazione di conformità a livello urbanistico ed edilizio, non risulta adottato neanche l’atto di validazione del progetto esecutivo che, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve accompagnare la delibera comunale di approvazione del progetto.
La specificazione, contenuta nel provvedimento impugnato, che l’approvazione non sostituisce l’atto di validazione del progetto esecutivo, della cui esistenza non si fa cenno, non appare rispettosa del dettato normativo, che prescrive l’adozione dell’atto di validazione in un momento anteriore rispetto all’atto di approvazione della delibera da parte degli organi comunali.
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2. Passando all’esame del merito del ricorso introduttivo, lo stesso è fondato secondo quanto di seguito specificato.
3. Con la prima censura si assume l’illegittimità delle deliberazione impugnata, giacché il progetto approvato con la stessa non sarebbe corredato, secondo quanto previsto dall’art. 62 della legge regionale n. 11 del 1998, della relazione firmata da un tecnico abilitato e attestante la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche o edilizie, nonché alle norme di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesaggistiche; nemmeno sarebbe stato adottato l’atto di validazione di cui all’art. 7, comma 1, lett. c, del D.P.R. n. 380 del 2001.
3.1. La doglianza è fondata.
L’art. 62 della legge regionale n. 11 del 1998 stabilisce che “le deliberazioni con le quali vengono approvati i progetti delle opere pubbliche comunali hanno i medesimi effetti delle concessioni edilizie; i relativi progetti devono peraltro essere corredati da una relazione a firma di un tecnico abilitato che attesti la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche o edilizie, nonché alle norme di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesaggistiche”.
Nel caso di specie –ovvero del progetto relativo all’installazione di quattro strutture seminterrate per il conferimento dei rifiuti nella località Cretaz– il fascicolo risulta costituito dalla relazione tecnica, dagli elaborati progettuali e dal computo metrico (all. 8 al ricorso). Emerge pertanto in maniera evidente la mancanza della relazione a firma di un tecnico abilitato che il citato art. 62 assume come obbligatorio corredo del progetto approvato dagli organi comunali.
D’altronde, pur essendo i Comuni esonerati dalla necessità di uno specifico titolo edilizio per le opere dagli stessi realizzate, comunque vi è l’obbligo del rispetto della normativa urbanistica ed edilizia vigente, che deve essere attestato proprio attraverso la relazione del tecnico abilitato (cfr., per una fattispecie similare, TAR Sicilia, Catania, I, 19.09.2013, n. 2248; più in generale, Consiglio di Stato, V, 05.11.2012, n. 5589).
Nemmeno può ritenersi che l’attestazione di conformità possa ricavarsi implicitamente dalla relazione generale e dagli altri allegati al progetto, atteso che, oltre al chiaro disposto della normativa in precedenza richiamata, che impone la redazione della relazione da parte del tecnico abilitato, non emerge dal complesso della documentazione riguardante il progetto alcun riferimento all’avvenuta verifica della conformità dello stesso alle prescrizioni urbanistiche o edilizie, nonché alle norme di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesaggistiche, avuto riguardo anche alla mancanza di una puntuale motivazione in seno all’autorizzazione paesaggistica.
In senso contrario, inoltre, non appare decisivo il rilievo della difesa comunale che sottolinea come il progetto sia frutto dell’opera di un libero professionista, ossia di un dipendente della società Qu., e non già dell’Ufficio tecnico comunale, per cui sarebbe escluso il rischio di un sovrapposizione tra soggetto autorizzato e soggetto autorizzante, che l’art. 62 citato vorrebbe scongiurare.
Difatti, la lettera della norma non sembra consentire una tale riduttiva interpretazione, come sottolineato anche nelle Circolare regionale di settore, secondo la quale “devono essere a tutti gli effetti considerati progetti di opere pubbliche comunali ai fini dell’applicazione dell’articolo in esame [ovvero l’art. 62] i progetti redatti anche da altre amministrazioni, qualora tali progetti riguardino interventi da effettuarsi su proprietà comunali e che ovviamente si configurino come interventi che avrebbero potuto essere effettuati anche dal comune, nell’esercizio delle proprie competenze istituzionali” (Circolare della Direzione Urbanistica dell’Assessorato del Territorio, Ambiente e Opere pubbliche della Regione Valle d’Aosta, prot. n. 13766/UR del 06.07.2001).
3.2. Nella presente fattispecie, oltre alla mancanza dell’attestazione di conformità a livello urbanistico ed edilizio, non risulta adottato neanche l’atto di validazione del progetto esecutivo che, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve accompagnare la delibera comunale di approvazione del progetto.
La specificazione, contenuta nel provvedimento impugnato, che l’approvazione non sostituisce l’atto di validazione del progetto esecutivo, della cui esistenza non si fa cenno, non appare rispettosa del dettato normativo, che prescrive l’adozione dell’atto di validazione in un momento anteriore rispetto all’atto di approvazione della delibera da parte degli organi comunali (cfr. Cass. pen., III, 20.09.2012, n. 36038).
3.3. Pertanto, la prima censura va accolta
(TAR Valle d'Aosta, sentenza 16.11.2016 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 3, primo comma, lett. d), del Testo Unico (come modificato dapprima dall’art. 1 del d.lgs. n. 301 del 2002 e poi dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013) ricomprende nella ristrutturazione anche il “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati e demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
La vigente definizione normativa esclude, diversamente dal passato, sia il requisito temporale della contestualità fra demolizione e ricostruzione, sia la condizione del rispetto della preesistente sagoma (con l’eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004), subordinando il ripristino al solo limite della volumetria preesistente.
La giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire, in termini condivisibili, che la cancellazione del riferimento all’identità di sagoma induce ad escludere anche l’esigenza che sia conservata un’identica area di sedime: ne consegue che la modesta traslazione della costruzione sul lotto di pertinenza non comporta necessariamente la qualificazione dell’intervento come “nuova costruzione”.
Si è osservato che, poiché la nozione di sagoma edilizia è normalmente legata anche all’individuazione dell’area di sedime del fabbricato, avendo il legislatore eliminato il riferimento al rispetto della sagoma per gli immobili non vincolati, la ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione ben può contemplare lo spostamento di lieve entità rispetto al sedime originariamente occupato.

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In fase cautelare, si era rilevato che il permesso “è stato rilasciato a distanza di ben sei anni dal crollo del preesistente immobile, sicché appare problematica la riconducibilità dell’intervento di ‘ricostruzione’ alla categoria della ristrutturazione edilizia, pur nella più ampia definizione conseguente alle modifiche introdotte dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (che conserva la necessità di identica sagoma solo per gli immobili vincolati)”.
Con il primo motivo, il ricorrente afferma l’intervento progettato dalla Mo. s.r.l., avente ad oggetto la ricostruzione dell’edificio residenziale crollato nel 2009, integrerebbe la tipologia della “nuova costruzione”. Secondo il ricorrente, nella specie difetterebbe la contestualità tra la demolizione e la successiva ricostruzione, né sarebbe dimostrata la perfetta coincidenza di volumi, superfici occupate, sagoma e sedime. Su tali presupposti, il mancato rispetto delle distanze minime prescritte dall’art. 53 delle n.t.a. per la zona DT92 (cinque metri dal confine e dieci metri dalle pareti finestrate) vizierebbe irrimediabilmente il permesso di costruire.
Il Collegio, rimeditando l’avviso espresso sulla base della sommaria cognizione propria della fase cautelare, ritiene che l’intervento autorizzato dal Comune debba essere senz’altro ricondotto alla tipologia della “ristrutturazione edilizia”. E ciò, secondo un principio consolidato, prescindendo dal nomen iuris che la società richiedente e l’amministrazione hanno prescelto.
Come è noto, l’art. 3, primo comma – lett. d) del Testo Unico (come modificato dapprima dall’art. 1 del d.lgs. n. 301 del 2002 e poi dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013) ricomprende nella ristrutturazione anche il “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati e demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
La vigente definizione normativa esclude, diversamente dal passato, sia il requisito temporale della contestualità fra demolizione e ricostruzione, sia la condizione del rispetto della preesistente sagoma (con l’eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004), subordinando il ripristino al solo limite della volumetria preesistente.
La giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire, in termini condivisibili, che la cancellazione del riferimento all’identità di sagoma induce ad escludere anche l’esigenza che sia conservata un’identica area di sedime: ne consegue che la modesta traslazione della costruzione sul lotto di pertinenza non comporta necessariamente la qualificazione dell’intervento come “nuova costruzione” (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.07.2015 n. 294).
Si è osservato che, poiché la nozione di sagoma edilizia è normalmente legata anche all’individuazione dell’area di sedime del fabbricato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.03.2013 n. 1564), avendo il legislatore eliminato il riferimento al rispetto della sagoma per gli immobili non vincolati, la ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione ben può contemplare lo spostamento di lieve entità rispetto al sedime originariamente occupato.
Nel caso di specie, non è contestato che il nuovo edificio progettato dalla controinteressata Mo. s.r.l. sia coincidente, quanto a volume, con quello crollato. Né che la superficie coperta risulti addirittura lievemente inferiore a quella preesistente, per effetto dell’eliminazione del porticato.
La modesta traslazione lineare verso ovest dell’edificio ricostruito (per circa cinque metri) non impedisce di qualificare la ricostruzione come “ristrutturazione edilizia”, non soggetta al rispetto delle distanze minime prescritte dallo strumento urbanistico per le nuove edificazioni.
L’allineamento dell’edificio verso il lotto di proprietà del ricorrente risulta, oltre che invariato, perfino ridotto nella sua lunghezza totale, giacché l’area libera da costruzioni sarà più ampia rispetto a quella preesistente (si veda il doc. 12 della controinteressata, in particolare la rappresentazione a colori dello stato sovrapposto al doc. 12.7 e 12.9).
Infine, non rileva in senso negativo l’intervallo di tempo intercorso tra il crollo accidentale dell’edificio e l’avvio della ricostruzione.
Alla luce della richiamata definizione di ristrutturazione edilizia, l’elemento temporale assume importanza soltanto laddove il proprietario non possa fornire la prova documentale certa della consistenza dell’immobile crollato e dello stato di fatto antecedente.
Nella specie, non sono emersi dubbi circa le originarie dimensioni dell’edificio residenziale, crollato nel 2009. Né vi sono contestazioni sul fatto che la società richiedente le abbia correttamente indicate in progetto. Si aggiunga che la società ha acquistato l’immobile mediante decreto di trasferimento del Tribunale di Torino del 27.07.2011, nel quale si è espressamente dato atto della preesistenza dell’edificio sui terreni acquistati nell’ambito dell’esecuzione immobiliare.
Per quanto fin qui detto, il primo ordine di censure è infondato.
L’accertata riconducibilità dell’intervento controverso alla categoria della “ristrutturazione edilizia” comporta, con immediata evidenza, l’infondatezza del secondo e terzo motivo di ricorso.
Ed infatti, l’art. 24 delle n.t.a. del piano regolatore prescrive per le nuove costruzioni, e non per le ristrutturazioni edilizie, l’obbligatorio reperimento di aree destinate ad incrementare la dotazione di servizi pubblici.
Allo stesso modo, diviene irrilevante ogni riferimento all’art. 69 del regolamento edilizio comunale, in materia di ricostruzione in deroga al piano regolatore, sebbene la disposizione sia richiamata dalla società richiedente e dal Comune in sede di rilascio del permesso. Non è necessario stabilire se il progetto di ricostruzione comporti modifiche alla sagoma, alle altezze ed alla posizione del nuovo manufatto sull’area di sedime, poiché la ristrutturazione sull’area acquisita dalla Monviso s.r.l. è consentita dallo strumento urbanistico, senza che a quest’ultimo debba derogarsi ai sensi della norma regolamentare.
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 15.11.2016 n. 1410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAA destinazione a verde pubblico, al pari di quella a vincolo assoluto di protezione, non comporta tuttavia l'imposizione di un vincolo espropriativo, ma conformativo, come tale non sottoposto a indennizzo e decadenza, perché funzionale all’interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale.
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La documentazione in atti attesta che, secondo la disciplina di piano regolatore comunale, destinata a essere superata dall’approvando regolamento urbanistico, il mappale 676 di proprietà dei ricorrenti è per una parte incluso in “Zone a verde pubblico” e in “Zone di saturazione B4” e, per la porzione più consistente, in “Zone a vincolo assoluto di protezione”.
Al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti, la destinazione a verde pubblico, al pari di quella a vincolo assoluto di protezione, non comporta tuttavia l'imposizione di un vincolo espropriativo, ma conformativo, come tale non sottoposto a indennizzo e decadenza, perché funzionale all’interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 09.12.2015, n. 5582)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.11.2016 n. 1631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di “lotto intercluso”, di matrice pretoria, ha una sua valenza giuridica nelle ipotesi in cui, eccezionalmente, si ritenga potersi (e doversi) derogare al divieto di rilascio di titoli edilizi in assenza della preventiva approvazione della pianificazione attuativa richiesta dallo strumento urbanistico generale.
Dalla situazione di interclusione, ammesso che sia dimostrata, non deriva invece alcun obbligo dell’amministrazione di modificare a richiesta degli interessati la destinazione urbanistica del lotto, così come non necessariamente essa dà luogo, in sede di esercizio della potestà pianificatoria, ad affidamenti meritevoli di particolare tutela sub specie di rafforzamento degli oneri motivazionali gravanti sull’amministrazione procedente.

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Né, in senso contrario, rileva la pretesa qualità di fondo intercluso del terreno di proprietà Ne./Bo..
La nozione di “lotto intercluso”, di matrice pretoria, ha una sua valenza giuridica nelle ipotesi in cui, eccezionalmente, si ritenga potersi (e doversi) derogare al divieto di rilascio di titoli edilizi in assenza della preventiva approvazione della pianificazione attuativa richiesta dallo strumento urbanistico generale.
Dalla situazione di interclusione, ammesso che sia dimostrata, non deriva invece alcun obbligo dell’amministrazione di modificare a richiesta degli interessati la destinazione urbanistica del lotto, così come non necessariamente essa dà luogo, in sede di esercizio della potestà pianificatoria, ad affidamenti meritevoli di particolare tutela sub specie di rafforzamento degli oneri motivazionali gravanti sull’amministrazione procedente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2012, n. 6656)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.11.2016 n. 1631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La risarcibilità del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita, ma debba essere subordinato anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole, e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato ad un tale interesse.
Ma anche a volersi muovere nella diversa ottica della risarcibilità del danno da ritardo c.d. “puro”, dipendente cioè dalla mera violazione dei tempi procedimentali e svincolato dall’accertamento prognostico in ordine alla spettanza del bene della vita (dunque, ipotizzabile anche laddove detto accertamento abbia avuto esito negativo), il tardivo esercizio della funzione amministrativa non può mai considerarsi fonte di danno in re ipsa, mentre, i ricorrenti si sono limitati a dedurre non meglio precisati danni “sia esistenziali che economici”, dei quali non hanno però dimostrato l’esistenza e l’entità, neppure attraverso l’allegazione di elementi utilizzabili sul piano presuntivo.

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2.1.2. Le considerazioni esposte evidenziano la totale assenza dei presupposti per la configurabilità della responsabilità dedotta a carico del Comune resistente.
Si aggiunga, quanto poi al pregiudizio asseritamente derivante dalla violazione del “bene tempo”, che nell’ottica della prevalente giurisprudenza, pur a seguito del suo riconoscimento legislativo (art. 2-bis della legge n. 241/1990), la risarcibilità del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non possa essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita, ma debba essere subordinato anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole, e, quindi, alla dimostrazione –del tutto mancante nella fattispecie– della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato ad un tale interesse (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.09.2016, n. 3920; id., sez. IV, 06.04.2016, n. 1371).
Ma anche a volersi muovere nella diversa ottica della risarcibilità del danno da ritardo c.d. “puro”, dipendente cioè dalla mera violazione dei tempi procedimentali e svincolato dall’accertamento prognostico in ordine alla spettanza del bene della vita (dunque, ipotizzabile anche laddove detto accertamento abbia avuto esito negativo), il tardivo esercizio della funzione amministrativa non può mai considerarsi fonte di danno in re ipsa, mentre, i ricorrenti si sono limitati a dedurre non meglio precisati danni “sia esistenziali che economici”, dei quali non hanno però dimostrato l’esistenza e l’entità, neppure attraverso l’allegazione di elementi utilizzabili sul piano presuntivo (vi è solo la generica allegazione del condizionamento che i ricorrenti assumono di aver subito alla libera determinazione dei propri interessi)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.11.2016 n. 1631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Altro che "furbetto": è un truffatore il pubblico dipendente che attesta falsamente la presenza in servizio.
La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili.
L'omessa timbratura del cartellino, in occasione di allontanamenti intermedi del dipendente, impedisce pertanto a sua volta il controllo di chi è tenuto alla retribuzione, sulla quantità dell'attività lavorativa prestata, tanto in vista di un recupero (ove previsto) del periodo di assenza, quanto in vista di una detrazione correlativa dal compenso mensile, così che, sotto tali profili, costituisce condotta idonea a trarre in inganno ed a far conseguire ingiusti profitti.

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L'omissione di cui si tratta è giuridicamente rilevante, poiché il dipendente pubblico, nella specie, è tenuto ad uniformarsi ai principi di correttezza, anche nella fase esecutiva del contratto e, pertanto, ha l'obbligo giuridico di portare a conoscenza della controparte del rapporto di lavoro non soltanto l'orario di ingresso e quello di uscita, ma anche quello relativo ad allontanamenti intermedi sempre che questi, conglobati nell'arco del periodo retributivo, siano economicamente apprezzabili: tale obbligo va adempiuto tramite i sistemi all'uopo predisposti e, quindi anche mediante la corretta timbratura del cartellino segnatempo o della scheda magnetica, ove installati, salvo che siano adottate altre procedure equivalenti, a condizione che queste siano formali e probatoriamente idonee ad assolvere alla medesima funzione.
In particolare, anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica e che danno apprezzabile non è sinonimo di danno rilevante, non limitandosi il concetto alla mera consistenza quantitativa ma investendo tutti gli aspetti pregiudizievoli per il patrimonio.
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2.1 Manifestamente infondato è anche il ricorso Bu..
2.1.a Inammissibili sono i primi due motivi del ricorso. E' versato in fatto quello relativo alle modalità di identificazione, modalità ritenute idonee nei due gradi del giudizio di merito con motivazione congrua e non manifestamente illogica.
Nessuna rilevanza può avere, rispetto all'affermazione di responsabilità, il rilievo che l'imputata non era tenuta, normativamente, a timbrare il cartellino: anche se ciò fosse giuridicamente sostenibile, rimane il fatto che la Bu. il cartellino lo timbrava, e ciò costituisce il raggiro truffaldino, per assicurarsi l'attestato della presenza sul luogo del lavoro e giustificare in tal modo surrettiziamente, l'adempimento della prestazione per la quale veniva pagata, mentre in effetti, secondo quanto emerge dai servizi di osservazione degli inquirenti, puntualmente richiamati in sentenza , ella si sottraeva al lavoro allontanandosi ingiustificatamente.
2.1b Questa Corte, in ipotesi di condotte affatto simili a quelle qui in esame, ha già ripetutamente affermato che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili.
L'omessa timbratura del cartellino, in occasione di allontanamenti intermedi del dipendente, impedisce pertanto a sua volta il controllo di chi è tenuto alla retribuzione, sulla quantità dell'attività lavorativa prestata, tanto in vista di un recupero (ove previsto) del periodo di assenza, quanto in vista di una detrazione correlativa dal compenso mensile, così che, sotto tali profili, costituisce condotta idonea a trarre in inganno ed a far conseguire ingiusti profitti (Riv. 183150; Riv. 173033; Riv. 169953).
Deve chiarirsi ulteriormente, in proposito, che l'omissione di cui si tratta è giuridicamente rilevante, poiché il dipendente pubblico, nella specie, è tenuto ad uniformarsi ai principi di correttezza, anche nella fase esecutiva del contratto e, pertanto, ha l'obbligo giuridico di portare a conoscenza della controparte del rapporto di lavoro non soltanto l'orario di ingresso e quello di uscita, ma anche quello relativo ad allontanamenti intermedi sempre che questi, conglobati nell'arco del periodo retributivo, siano economicamente apprezzabili: tale obbligo va adempiuto tramite i sistemi all'uopo predisposti e, quindi anche mediante la corretta timbratura del cartellino segnatempo o della scheda magnetica, ove installati, salvo che siano adottate altre procedure equivalenti, a condizione che queste siano formali e probatoriamente idonee ad assolvere alla medesima funzione.
In particolare la Corte di legittimità, ha posto l'accento sul fatto che anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica e che danno apprezzabile non è sinonimo di danno rilevante, non limitandosi il concetto alla mera consistenza quantitativa ma investendo tutti gli aspetti pregiudizievoli per il patrimonio (Rv. 235307, Rv. 255201, Rv. 258987) (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 09.11.2016 n. 46964).

PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che si sottrae per due volte alla visita medica di idoneità fisica. In questo caso infatti si configura una fattispecie autonoma di licenziamento disciplinare e non è necessario motivare adeguatamente sull’idoneità o meno del lavoratore alle mansioni assegnate.
In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico dipendente, la comunicazione all'interessato della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura all'UPD, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 3, ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti dell'eventuale omissione di tale adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente.
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Nel pubblico impiego contrattualizzato la risoluzione del rapporto di lavoro —a seguito del procedimento di cui all'articolo 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001— nel caso di ingiustificato rifiuto, da parte del dipendente pubblico, di sottoporsi alla visita medica di idoneità, reiterato per almeno due volte, di cui al combinato disposto dell'art. 55-octies, lettera d), del d.lgs. n. 165 del 2001 con l'art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011, costituisce un'autonoma ipotesi di licenziamento disciplinare, finalizzata ad assicurare assicurare il rispetto delle altre norme dettate dall'art. 55-octies cit., sempre tutelando il diritto di difesa del dipendente.
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3.3. Il terzo motivo non è fondato.
Secondo consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 10.08.2016, n. 16900 e Cass. 08.08.2016, n. 16637):
   a) l'art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 per gli illeciti disciplinari di maggiore gravità, imputabili al pubblico dipendente, come quelli che comportano il licenziamento, contiene due previsioni:
1) con la prima (comma 3), è imposto al dirigente della struttura amministrativa in cui presta servizio il dipendente la trasmissione degli atti all'ufficio disciplinare "entro cinque giorni dalla notizia del fatto" e la "contestuale" comunicazione all'interessato;
2) con la seconda (comma 4) si prescrive all'ufficio disciplinare la contestazione dell'addebito al dipendente "con l'applicazione di un termine" pari al doppio di quello stabilito nel comma 2 (ossia quaranta giorni) e inoltre si stabilisce che la violazione dei termini "di cui al presente comma" comporta per l'amministrazione la decadenza dal potere disciplinare;
   b) attraverso la previsione dei suindicati termini, alla "ratio" generale della norma —rappresentata dalla necessità della individuazione di un apposito Ufficio per i procedimenti disciplinari (UPD), per i procedimenti relativi a fatti puniti con sanzioni più severe rispetto a quelle indicate nel comma 1, onde garantire meglio il diritto di difesa del dipendente— si aggiunge la "ratio" della salvaguardia dell'esigenza di rendere più veloce l'esercizio del potere disciplinare, attraverso la previsione di regole che mettono in correlazione, funzionale e temporale, le attività e le fasi del procedimento, anche nei casi in cui queste si svolgano davanti ai due diversi organi individuati come "competenti", tant'è che il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento gestito dall'UPD viene fatto decorrere dalla data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione, "anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora";
   d) peraltro, gli effetti dell'eventuale omissione della "contestuale comunicazione all'interessato" della trasmissione di cui all'ultima parte citato art. 55-bis, comma 3, non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente, in quanto la comunicazione "all'interessato" ha una funzione meramente informativa, senza alcun pregiudizio per le garanzie difensive, le quali vengono in considerazione solo se ed in quanto venga avviato, dall'organo competente, il vero e proprio procedimento disciplinare;
   e) del resto, la suddetta norma non contiene alcun alcuna previsione sanzionatoria in relazione ai casi in cui la comunicazione al lavoratore sia stata omessa e neppure contiene una qualche espressione letterale dalla quale possa desumersi la cogenza dell'adempimento, non essendo esso costruito in termini di "obbligo", obbligo che peraltro non sarebbe nemmeno configurabile, atteso che tutto il materiale relativo alla "notizia" del fatto disciplinarmente refluisce nella contestazione;
   f) nessun pregiudizio dei diritti di difesa del sottoposto a procedimento disciplinare potrebbe, pertanto, derivare dall'eventuale mancanza della comunicazione preliminare informativa da parte del soggetto che vi è tenuto, ove si consideri che il lavoratore, nei cui confronti sia, poi, avviato il procedimento disciplinare, ha il diritto di accedere agli atti istruttori, anche per potere verificare il rispetto dei termini perentori, come è espressamente previsto dall'ultima parte dell'art. 55-bis, comma 5 ("Il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori riguardanti il procedimento").
In base alle suddette considerazioni il terzo motivo di ricorso va rigettato, ribadendosi il principio di diritto secondo cui: "
In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico dipendente, la comunicazione all'interessato della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura all'UPD, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 3, ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti dell'eventuale omissione di tale adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente".
3.4. Infondati sono anche il quarto e il quinto motivo, da esaminare insieme data la loro intima connessione.
Entrambi i motivi, infatti, muovono dall'erroneo presupposto secondo cui sarebbe illegittima l'irrogazione del licenziamento ex art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011 che non si accompagni ad una adeguata motivazione in ordine agli elementi di fatto che facciano presumere l'inidoneità psico-fisica del dipendente a svolgere la mansione, come risulterebbe confermato dalla Circolare MIUR 08.11.2010, n. 88, ove non si prevede l'ipotesi del licenziamento per assenza ingiustificata alla visita della Commissione Medica di Verifica.
3.5. Al riguardo deve essere, in primo luogo, precisato che:
   a) le circolari ministeriali non sono fonte del diritto ma semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dall'Amministrazione su un dato oggetto, la cui inosservanza può dare luogo al vizio di eccesso di potere dell'atto amministrativo quando ciò avvenga senza adeguata motivazione (Cass. 12.01.2016, n. 280; Cass. 14.12.2012, n. 23042; Cass. 27.01.2014, n. 1577; Cass. 06.04.2011, n. 7889);
   b) nella specie, peraltro, la Circolare del MIUR richiamata è stata emanata prima del d.P.R. 27.07.2011, n. 171, recante il "Regolamento di attuazione in materia di risoluzione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche dello Stato e degli enti pubblici nazionali in caso di permanente inidoneità psicofisica, a norma dell'articolo 55-octies del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165", come tale avente rango superiore.
3.6. Ciò detto, non potendosi nutrire dubbi sul carattere attuativo dell'art. 55-octies cit. del suindicato regolamento -specificato anche nel titolo- va sottolineato come la lettera d) di tale articolo preveda espressamente: "d) la possibilità, per l'amministrazione, di risolvere il rapporto di lavoro nel caso di reiterato rifiuto, da parte del dipendente, di sottoporsi alla visita di idoneità".
Ne risulta la assoluta correttezza -e conformità alla normativa richiamata- delle affermazioni della Corte aquilana secondo cui:
   1) l'art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011 cit. non ha carattere innovativo, ma si è limita a precisare il contenuto precettivo della lettera d) del dell'art. 55-octies del d.lgs. n. 165 del 2001;
   2) come già affermato dal primo giudice alla presente fattispecie è estranea la problematica dell'accertamento della idoneità psico-fisica, in quanto quello di cui si tratta costituisce un autonomo caso di licenziamento disciplinare derivante dal rifiuto reiterato della dipendente di sottoporsi a visita medica.
Tale ipotesi nuova, può aggiungersi, appare avere carattere strumentale al fine di assicurare il rispetto delle altre norme dettate dall'art. 55-octies cit., sempre tutelando il diritto di difesa del dipendente.
IV - Conclusioni
4. In sintesi, il ricorso deve essere respinto e le spese del presente giudizio di legittimità vanno compensate, in Considerazione della assenza di precedenti pronunce di questa Corte riguardanti l'interpretazione del combinato disposto dell'art. 55-octies, lettera d), del d.lgs. n. 165 del 2001 con l'art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011 cit. (vedi, sul punto: Cass. 19.10.2015, n. 21083).
5. Proprio in considerazione di tale novità, si ritiene opportuno, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., affermare il seguente principio di diritto: "
nel pubblico impiego contrattualizzato la risoluzione del rapporto di lavoro —a seguito del procedimento di cui all'articolo 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001— nel caso di ingiustificato rifiuto, da parte del dipendente pubblico, di sottoporsi alla visita medica di idoneità, reiterato per almeno due volte, di cui al combinato disposto dell'art. 55-octies, lettera d), del d.lgs. n. 165 del 2001 con l'art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011, costituisce un'autonoma ipotesi di licenziamento disciplinare, finalizzata ad assicurare assicurare il rispetto delle altre norme dettate dall'art. 55-octies cit., sempre tutelando il diritto di difesa del dipendente" (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 07.11.2016 n. 22550).

INCARICHI PROFESSIONALILegali, l'iter è blindato. Chi partecipa alla delibera poi deve firmarla. DEONTOLOGIA/ Cassazione sul presidente e il segretario del Coa.
Violazione dell'art. 51 del codice deontologico forense quando presidente e segretario che hanno preso parte alla deliberazione risultano essere persone diverse rispetto a quelle che hanno sottoscritto la medesima decisione al momento della pubblicazione: lo hanno stabilito le Sezz. unite civili, della Corte di Cassazione nella sentenza 07.11.2016 n. 22516.
Intervenute sul ricorso che un legale, sospeso dall'esercizio della professione per la durata di tre anni, aveva mosso avverso il Cnf per non aver dichiarato la nullità della delibera del Coa di appartenenza, pur essendo stata sottoscritta da un presidente ed un segretario diversi da quelli che avevano effettivamente partecipato alla seduta, le Sezioni unite hanno specificato che «le decisioni dei Consigli degli ordini degli avvocati e procuratori debbono essere sottoscritte dal presidente e dal segretario che hanno partecipato alla seduta, la cui data risulta nel corpo della decisione».
La sentenza impugnata, chiariscono sul punto, supponendo che la decisione fosse stata valida purché sottoscritta dal presidente e dal segretario in carica al momento della pubblicazione della stessa pur se diversi da quelli che avevano partecipato alla deliberazione, si sarebbe posta in radicale contrasto con il principio richiamato: dalla lettera dell'art. 51 infatti si poteva «agevolmente» desumere che «presidente e segretario debbono essere quelli che hanno partecipato alla deliberazione della decisione nella detta qualità, non essendo prescritta la sottoscrizione del relatore ed essendo invece previsto in unico contesto il requisito della indicazione della data della deliberazione e quello della sottoscrizione dei soggetti indicati».
La sentenza avrebbe quindi violato la norma «nel non rilevare e dichiarare la nullità della decisione di primo grado per la non corrispondenza tra il presidente e il segretario del Consiglio dell'ordine che hanno partecipato alla deliberazione e il presidente e il segretario che hanno sottoscritto la decisione al momento della pubblicazione». Per questi motivi è stata cassata senza rinvio e il procedimento è stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione dell'illecito disciplinare contestato (articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016).

EDILIZIA PRIVATAL’esercizio dell’attività repressiva in materia edilizia costituisce attività vincolata che non richiede la partecipazione del soggetto secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ma oltretutto anche volendosene discostare la possibile illegittimità procedimentale non potrebbe condurre all’annullamento dell’atto secondo quanto prevede l’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990 poiché l’esito del procedimento non poteva essere diverso.
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Nei casi in cui deve essere ordinata la demolizione parziale l’Amministrazione si può limitare ad ordinarla tutte le volte che ritiene che la parte abusiva dell’immobile sia facilmente rimovibile.
E’ onere del soggetto che deve eseguire la demolizione dare la prova che essa non è possibile per i rischi o i danni cui andrebbe incontro la parte lecita dell’edificio.
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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Bologna P.G. n. 14716/2008 del 21/01/2008, portante ordine di ripristino ex art. 34 D.P.R. n. 380/2001.
...
La ricorrente impugnava l’atto indicato in epigrafe con cui le era stato ingiunto di ripristinare degli abusi edilizi consistenti nella costruzione di un abbaino che aveva alterato la sagoma planivolumetrica dell’edificio.
Il primo motivo di ricorso concerne la violazione dell’art. 7 L. 241/1990 e la violazione del giusto procedimento per il fatto che l’amministrazione comunale non aveva avvisato dell’avvio del procedimento sanzionatorio edilizio, impedendo alla ricorrente di far valere le sue ragioni.
Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 3 e 34 DPR 380/2001 poiché, contrariamente a quanto stabilito dal Comune di Bologna, non siamo di fronte ad una nuova costruzione, ma ad una pertinenza nei confronti della quale non è possibile ordinare la demolizione, ma la sola sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 DPR 380/2001.
Il terzo motivo lamenta che sia stata ordinata la demolizione senza verificare se essa sia tecnicamente possibile senza lesione delle parti legittime dell’edificio.
Il Comune di Bologna si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.
Il primo motivo di ricorso non merita accoglimento in quanto l’esercizio dell’attività repressiva in materia edilizia costituisce attività vincolata che non richiede la partecipazione del soggetto secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ma oltretutto anche volendosene discostare la possibile illegittimità procedimentale non potrebbe condurre all’annullamento dell’atto secondo quanto prevede l’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990 poiché l’esito del procedimento non poteva essere diverso.
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Il terzo motivo è infondato perché inverte l’onere della prova: nei casi in cui deve essere ordinata la demolizione parziale l’Amministrazione si può limitare ad ordinarla tutte le volte che ritiene che la parte abusiva dell’immobile sia facilmente rimovibile.
E’ onere del soggetto che deve eseguire la demolizione dare la prova che essa non è possibile per i rischi o i danni cui andrebbe incontro la parte lecita dell’edificio.
Il ricorso va quindi respinto con condanna della ricorrente alle spese di giudizio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 07.11.2016 n. 904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’abbaino fa corpo con la cosa principale cui aderisce modificandone la sagoma ed il prospetto e costituisce un volume trattandosi di struttura chiusa e dotata di copertura.
L’intervento realizzato non può ricomprendersi nell’abito del risanamento conservativo, ma della ristrutturazione edilizia poiché viene aumentata la volumetria e si modifica la sagoma dell’edificio.
Ciò determina(va) la necessità di ottenere il permesso di costruire non essendo sufficiente la D.I.A..
Si veda sul punto il Consiglio di Stato che così motiva: “Sulla questione relativa alla costruzione degli abbaini, bene la sentenza, anche alla luce delle precisazioni contenute nella relazione comunale del 07.09.2010, ha affermato che viene in discussione un intervento il quale determina un mutamento di sagoma e un incremento di volumetria riconducibili alla tipologia d'intervento di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001, con la conseguente creazione, a causa di un incremento volumetrico e di un'alterazione della copertura, di un organismo edilizio in parte diverso dal precedente, con l'applicabilità delle NTA del PRG nella parte in cui è prevista una distanza minima dal fabbricato preesistente di mt. cinque, nella specie non rispettata, e con l'assoggettamento dell'intervento al rilascio di permesso di costruire ex art. 10/C)”.
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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Bologna P.G. n. 14716/2008 del 21/01/2008, portante ordine di ripristino ex art. 34 D.P.R. n. 380/2001.
...
La ricorrente impugnava l’atto indicato in epigrafe con cui le era stato ingiunto di ripristinare degli abusi edilizi consistenti nella costruzione di un abbaino che aveva alterato la sagoma planivolumetrica dell’edificio.
...
Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 3 e 34 DPR 380/2001 poiché, contrariamente a quanto stabilito dal Comune di Bologna, non siamo di fronte ad una nuova costruzione, ma ad una pertinenza nei confronti della quale non è possibile ordinare la demolizione, ma la sola sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 DPR 380/2001.
...
Il secondo motivo vorrebbe ricondurre erroneamente l’intervento edilizio abusivo all’interno del concetto di pertinenza edilizia; ma l’abbaino fa corpo con la cosa principale cui aderisce modificandone la sagoma ed il prospetto e costituisce un volume trattandosi di struttura chiusa e dotata di copertura.
Ai sensi dell’art. 93 del Regolamento edilizio vigente all’epoca dell’abuso nei palazzi ricompresi nel centro storico sono possibili solamente interventi di risanamento conservativo.
L’intervento realizzato non può ricomprendersi nell’abito del risanamento conservativo, ma della ristrutturazione edilizia poiché viene aumentata la volumetria e si modifica la sagoma dell’edificio.
Ciò determinava la necessità di ottenere il permesso di costruire non essendo sufficiente la D.I.A.
Si veda sul punto la sentenza 3558/2015 del Consiglio di Stato che così motiva: “Sulla questione relativa alla costruzione degli abbaini, bene la sentenza, anche alla luce delle precisazioni contenute nella relazione comunale del 07.09.2010, ha affermato che viene in discussione un intervento il quale determina un mutamento di sagoma e un incremento di volumetria riconducibili alla tipologia d'intervento di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001, con la conseguente creazione, a causa di un incremento volumetrico e di un'alterazione della copertura, di un organismo edilizio in parte diverso dal precedente, con l'applicabilità delle NTA del PRG nella parte in cui è prevista una distanza minima dal fabbricato preesistente di mt. cinque, nella specie non rispettata, e con l'assoggettamento dell'intervento al rilascio di permesso di costruire ex art. 10/C)”.
Inoltre il richiamo all’art. 80 del regolamento edilizio è improprio poiché la possibilità che la norma offre di costruire abbaini è subordinata a reali esigenze funzionali che nel caso di specie non sono state allegate (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 07.11.2016 n. 904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’affidamento di un incarico dirigenziale, al di fuori della dotazione organica, in assenza di una procedura selettiva e nell’inosservanza del vincolo di bilancio imposto agli enti locali, è illegittimo e produce un danno erariale.
In tali fattispecie,
la Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico perché, se l'esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare, l'espletamento dell'attività amministrativa deve comunque ispirarsi a criteri di economicità e di efficienza, che, costituendo specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., assumono rilevanza sul piano della legittimità -e non della mera opportunità- dell'azione amministrativa.
In tale prospettiva è stato pertanto affermato che
siffatto controllo non esorbita dal piano della legittimità quando va a indagare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire, alla stregua di una valutazione che necessariamente involge il rapporto tra obiettivi conseguiti e costi sostenuti.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il presente giudizio trae origine dall'affidamento di un incarico dirigenziale extra dotazione organica, a tempo determinato, all'avvocato Ma.Zu., da parte della Provincia di Udine, ex art. 110, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000.
Assumendo che il conferimento dell'ufficio fosse illegittimo, sotto diversi profili, arbitrario e causativo di danno erariale, la Procura regionale presso la sezione giurisdizionale del Friuli Venezia Giulia della Corte dei conti agì in giudizio nei confronti, tra gli altri, di Ma.St., Presidente dell'Ente, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti all'illecito amministrativo contabile perpetrato.
L'illegittimità, secondo la prospettazione accusatoria, era integrata sia dalla violazione dell'art. 1, commi 198 e 204, legge n. 266 del 2005, (finanziaria per l'anno 2006), che poneva un tetto alle spese per il personale, ivi compreso, come chiarito dalla circolare n. 9 del 17.02.2006 del MEF, quello destinatario di incarichi conferiti dagli enti locali, ai sensi dell'art. 110, commi 1 e 2, d.lgs. n. 267 del 2000; sia dalla violazione dei principi generali dettati dagli artt. 7, commi 6 e 6-bis, 19, comma 6, e 28 del d.lgs. n. 165 del 2001 (tutti applicabili agli enti locali, in forza del rinvio dinamico operato dall'art. 88 del d.lgs. n. 267 del 2000), quanto ai requisiti di particolare e comprovata esperienza professionale, neppure scrutinati, nella fattispecie, attraverso una qualsivoglia, anche informale, procedura selettiva.
In accoglimento della domanda, il giudice di prime cure condannò lo St. al pagamento, in favore della Provincia, della somma di euro 42.621,56, oltre svalutazione e interessi.
Con la sentenza ora impugnata, depositata in data 01.04.2014, la prima sezione giurisdizionale centrale di appello della Corte dei conti, ha respinto il gravame del soccombente.
Avverso detta decisione Ma.St. ha proposto ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione, illustrato anche da memoria, ex artt. 360, comma 1, n. 1 e 362, comma 1, cod. proc. civ., denunciando il difetto assoluto di giurisdizione del giudice contabile.
Il Procuratore generale presso la Corte dei conti di Roma ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1 Con il primo motivo l'esponente lamenta, ex art. 360, n. 1, cod. proc. civ., difetto di giurisdizione della Corte dei conti.
Ricordato preliminarmente che, a norma dell'art. 1 della legge 14.01.1994, n. 20, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione del giudice contabile è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, e che l'art. 110, comma 2, del TUEL, con riferimento agli enti in cui è prevista la dirigenza, espressamente rinvia al regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi per la determinazione dei limiti e delle modalità con i quali possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazione, sostiene che, in base all'art. 34 dello Statuto della Provincia di Udine nonché agli artt. 33 e 34 del Regolamento sull'ordinamento degli uffici della Provincia, egli, in quanto Presidente dell'Ente, aveva il potere, non scrutinabile dal giudice, di selezionare fiduciariamente i collaboratori in staff per l'espletamento del mandato elettivo.
In tale contesto il sindacato del giudice contabile sarebbe inammissibile, sia con riguardo al merito della selezione, sia con riguardo alla legittimità delle norme statutarie e regolamentari che ammettono la possibilità di scelta del personale dirigente, non potendo la Corte dei conti sostituire la propria valutazione di merito a quella dell'amministratore, né rilevare tout court l'illegittimità o l'incostituzionalità della regolamentazione adottata dall'ente territoriale.
Invero, accertata la congruità dell'iniziativa intrapresa con i fini dello stesso, la valutazione in dettaglio dei mezzi esulerebbe dalla competenza del giudice.
1.2 Con il secondo mezzo sostiene il ricorrente l'insuscettibilità della norma finanziaria di limitare la discrezionalità politica. I vincoli di bilancio -argomenta- non possono costituire una surrettizia limitazione delle prerogative organizzative della Provincia.
Evidenzia all'uopo che la normazione secondaria è esplicazione di un'autonomia garantita dalle leggi statali -segnatamente dagli artt. 91, 107 e 110 del d.lgs. n. 267 del 2000 nonché dall'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001- le quali, a loro volta, attuano il dettato degli artt. 114 e 117, comma 2, lett. p) e comma 4, della Costituzione. Ne deriverebbe l'incostituzionalità di qualsivoglia limitazione di siffatte prerogative e quindi anche della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui sarebbe volta a perimetrare in maniera cogente la discrezionalità politica dei vertici della provincia, nell'organizzazione degli uffici.
2.3 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia erronea valutazione del rapporto onorario sotto il profilo che l'esistenza dello stesso non sarebbe ragione sufficiente per giustificare il sindacato contabile sulle scelte dell'organo di vertice, stante, tra l'altro, l'incerta gerarchia esistente tra norme finanziarie e autonomia degli enti locali, disciplinata da disposizioni di oscura interpretazione.
Evidenziato che proprio gli apparati amministrativi, a fronte dei numerosi rimaneggiamenti normativi in materia ambientale e dell'evidente contrasto tra la legge n. 266 del 2005 -i cui articoli 1, comma 198, e 204 sembravano imporre rigidi vincoli di riduzione di spesa per il personale delle pubbliche amministrazioni, e i regolamenti e lo Statuto della Provincia di Udine che consentivano l'assunzione di personale in staff in via fiduciaria, senza vincoli di bilancio, purché il numero complessivo di tali dirigenti fosse inferiore al 5% della pianta organica complessiva- avevano prefigurato quale soluzione alla pregiudizievole impasse, lo scorporo dell'Area Ambiente, con conseguente individuazione di una figura specializzata extra pianta organica da preporre alla direzione del servizio, salvo poi a rendere parere sfavorevole a un'operazione da essi stessi proposta, rileva il deducente che andava semmai sanzionato il comportamento di siffatto personale, che aveva prima ipotizzato, e poi eseguito un atto di cattiva gestione amministrativa, per di più omettendo di denunciare all'autorità competente l'irregolarità.
2.4 Con il quarto mezzo l'impugnante, in via subordinata, prospetta la carenza di giurisdizione del giudice contabile perché, anche ammesso che il Presidente della Provincia avesse dato corso alla spendita di somme di cui non aveva la disponibilità, il relativo atto dispositivo, in quanto privo di titolo giustificativo e in contrasto con norme cogenti, poteva essere sanzionato solamente dal giudice ordinario, integrando in sostanza un illecito aquiliano.
Ne deriverebbe che la sentenza impugnata aveva, contro tutti i principi, sostenuto che la giurisdizione contabile sussisteva anche a fronte di un atto usurpativo sine titulo, e cioè di un atto adottato in assoluta carenza di potere.
2.5 Con il quinto motivo il ricorrente si duole che, nella fattispecie, l'elemento soggettivo del preteso illecito contabile sia stato desunto tout court, senza motivazione alcuna, dalla sussistenza di pretesi pareri contrari degli uffici tecnici, e cioè dal fatto che il politico non aveva avallato l'opinione del dirigente.
3. Le censure, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono prive di pregio.
Esse sono volte a far valere -attraverso la predicata potestà del Presidente della Provincia di selezionare fiduciariamente, per l'espletamento del suo mandato, i collaboratori in staff, nell'esercizio di una discrezionalità asseritamente impermeabile a qualsivoglia scrutinio esterno e alla stessa operatività delle norme della legge finanziaria- il difetto assoluto di giurisdizione del giudice contabile nella forma dell'eccesso di potere giurisdizionale, per avere l'organo giudicante invaso la sfera di competenze riservate in via esclusiva all'amministrazione.
4. Ora, secondo la consolidata giurisprudenza di queste sezioni unite,
le decisioni del giudice amministrativo sono viziate per eccesso di potere giurisdizionale e, quindi, sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione, nel solo caso in cui detto giudice, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, riservata alla pubblica amministrazione, compia una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e della convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'amministrazione, così esercitando una giurisdizione che esorbiti, di fatto, dall'area della pura legittimità: è invero indiscutibile che la mera non condivisione di valutazioni discrezionali operate dall'organo gestorio configuri un indebito sconfinamento della giurisdizione di legittimità nella sfera allo stesso riservata (cfr. Cass. civ. sez. un., nn. 23302 del 2011, 2312 e 21111 del 2012).
5. Con specifico riferimento al sindacato del giudice contabile, si è peraltro precisato che
la Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico perché, se l'esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare, l'espletamento dell'attività amministrativa deve comunque ispirarsi a criteri di economicità e di efficienza, che, costituendo specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., assumono rilevanza sul piano della legittimità -e non della mera opportunità- dell'azione amministrativa (cfr. Cass. civ. sez. un. 29.09.2003, n. 1448).
In tale prospettiva è stato pertanto affermato che
siffatto controllo non esorbita dal piano della legittimità quando va a indagare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire, alla stregua di una valutazione che necessariamente involge il rapporto tra obiettivi conseguiti e costi sostenuti (cfr. Cass. civ. sez. un. 07.11.2013, n. 25037; Cass., sez. un., nn. 831 e 20728 del 2012, 4283 e 12102 del 2013).
6. Questi essendo i criteri che governano l'area della giurisdizione del giudice contabile, deve escludersi che nella fattispecie i relativi limiti siano stati superati.
Occorre all'uopo muovere dalla considerazione che l'illecito individuato dalla Procura venne realizzato attraverso due delibere: con una, la n. 255 del settembre 2006, venne deciso l'affidamento della Direzione d'Area Ambiente ad apposita figura dirigenziale in dotazione organica, con rapporto a tempo determinato ex art. 33 del Regolamento uffici e servizi; con la seconda, la delibera n. 319 dell'ottobre successivo, vennero scorporati dalla predetta Area i Servizi relativi alle Risorse Ambientali, Idriche e Amministrative, contestualmente prevedendosi l'affidamento della relativa posizione dirigenziale, ex artt. 110, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 e 34 del Regolamento, a un incaricato extra dotazione organica, poscia individuato nello Zu.
7. Ciò posto, ha ritenuto il decidente che la scelta operata dallo St., certamente non giustificata dall'allegato affaticamento della struttura burocratica della Provincia, neppure poteva ritenersi espressione di una discrezionalità libera nei fini e solo latamente vincolata dal legislatore.
Ed invero il Presidente dell'Ente, facendo ricorso alla facoltà riconosciutagli dall'art. 110, commi 2, t.u. n. 267 del 2000 -che demandava alla fonte regolamentare la determinazione dei limiti, dei criteri e delle modalità da osservarsi nella stipula, al di fuori della dotazione organica, di contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire- ma contestualmente ignorando sia i vincoli imposti dalla legge n. 266 del 2005 (finanziaria del 2006), la quale aveva introdotto un tetto di spesa per il personale, valevole anche per gli enti locali e, nell'ambito degli stessi, per i corrispettivi versati a fronte di incarichi conferiti ai sensi dell'art. 110, commi 1 e 2, d.lgs. n. 267 del 2000, come chiarito dalla circolare del Ministero dell'economia n. 9 del 2006; sia la circostanza che, in punto di fatto, i compensi corrisposti allo Zu. avevano determinato lo sforamento del tetto massimo di spesa consentito ai fini del mantenimento dell'equilibrio di bilancio; sia, infine, le prescrizioni del comma 6 della medesima fonte, che, per la realizzazione di obiettivi determinati, esigeva che le collaborazioni esterne avessero un alto contenuto di professionalità, aveva instaurato, in assenza di qualsivoglia procedura selettiva, un rapporto intuitu personae, con un professionista che aveva presentato il proprio curriculum solo il giorno precedente e che era in ogni caso privo di particolari qualifiche in materia ambientale.
Ha aggiunto la Corte che certamente sussisteva l'elemento soggettivo dell'illecito, costituito dalla colpa grave, posto che le direzioni del personale e del servizio finanziario nonché il segretario generale si erano espressi contro l'iniziativa e che dunque l'istruttoria interna aveva dato esiti negativi.
8. A fronte di siffatto impianto motivazionale, i rilievi critici svolti in ricorso -e segnatamente nel primo, nel secondo e nel quarto mezzo- si rivelano privi di consistenza, a sol considerare che la pretesa dell'impugnante dell'insindacabilità della sua scelta, in quanto esercitata con riferimento a una nomina assolutamente fiduciaria, non ha alcuna base normativa e neppure è congruente con la tipologia dell'incarico del quale lo Zu. è stato officiato.
Ne deriva che la verifica della compatibilità dello scrutinato atto di nomina con le norme della legge finanziaria e con quelle che regolano i criteri di scelta del personale non integra affatto una forma di sindacato sulla discrezionalità e sul merito dell'azione amministrativa, attenendo piuttosto alla sfera della pura legittimità.
9. In tale contesto costituisce nulla più che una suggestiva provocazione la tesi del carattere usurpativo dell'atto e della sua conseguente esorbitanza dall'area di controllo del giudice contabile. La responsabilità dello St. è stata invero affermata con riferimento a un provvedimento posto in essere dallo stesso nell'esercizio delle sue funzioni, incidente nella sfera erariale dell'Ente, come tale soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti.
Ne deriva che allorché questa è andata a verificarne la compatibilità con le norme della legge finanziaria e con i criteri che devono presiedere alla scelta dei dirigenti e dei collaboratori esterni non ha affatto sconfinato dall'ambito dei suoi poteri giurisdizionali.
10. Tali rilievi, che disvelano l'insussistenza del denunciato eccesso di potere giurisdizionale, consentono di risolvere agevolmente anche le critiche svolte negli altri mezzi.
Esse, appuntandosi sulla mancata considerazione della condotta pretesamente ambigua degli uffici burocratici e sulla conseguente impossibilità di qualificare in termini di colpa grave l'elemento psicologico della condotta dello St., attaccano profili della valutazione del giudice contabile che -giusti o sbagliati che siano- non hanno alcuna attinenza con i limiti della sua giurisdizione, concretizzando al più pretesi errores in iudicando della scelta decisoria adottata.
È il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che il profilo soggettivo dell'illecito contabile è stato comunque oggetto di specifica considerazione, da parte del decidente, di talché la sentenza impugnata si sottrae alla denuncia di denegata giustizia segnatamente svolta nel quinto mezzo.
10. In definitiva il ricorso deve essere rigettato (Corte di cassazione, Sez. unite civili, sentenza 03.11.2016 n. 22228).

ATTI AMMINISTRATIVIIl risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse.
L’entrata in vigore dell’art. 2-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non ha, infatti, elevato a bene della vita suscettibile di autonoma protezione, mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza dell’interesse sostanziale al cui conseguimento il procedimento stesso è finalizzato.
Inoltre, il riconoscimento della responsabilità della Pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che l’inosservanza delle cadenze procedimentali è imputabile a colpa o dolo dell’Amministrazione medesima, che il danno lamentato è conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell’Amministrazione, nonché la prova del danno lamentato.
Altresì:
   a) il superiore principio deve valere laddove venga prospettata la richiesta di liquidazione della chance;
   b) laddove ci si dolga di un ritardo dell’Amministrazione in relazione a pretese che non avrebbero avuto pratica possibilità di accoglimento allo stato l’unica forma di protezione prevista dall’ordinamento sarebbe semmai, ricorrendone i presupposti, quella dell’indennizzo ex art. 2-bis, comma 1-bis, della legge citata.
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1. L’appello è infondato e va respinto nei sensi di cui alla motivazione che segue.
1.1. Ritiene il Collegio che l’appello colga parzialmente nel segno allorché denuncia una qualche contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata, in quanto ivi, nella premessa, si afferma la condivisione da parte del Tar della tesi secondo cui a seguito della introduzione nel sistema dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, ai fini della liquidazione del risarcimento del danno da ritardo non sarebbe necessaria la prova della spettanza del c.d. “bene della vita” mentre poi, la statuizione reiettiva si fonda proprio sulla non accoglibilità della istanza proposta dal Consorzio in data 07.01.2010.
Tuttavia, tale contraddizione contenuta nella motivazione della sentenza impugnata non implica la favorevole scrutinabilità della pretesa risarcitoria.
1.2. Prima di analizzare la domanda risarcitoria, e le singole “poste” ivi richieste, pare opportuno al Collegio rimarcare immediatamente che esso non intende decampare dai principi ancora recentemente affermati da questa Sezione (sentenza n. 1371 del 06.04.2016), laddove è stato ribadito che “il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse; l’entrata in vigore dell’art. 2-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non ha, infatti, elevato a bene della vita suscettibile di autonoma protezione, mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza dell’interesse sostanziale al cui conseguimento il procedimento stesso è finalizzato; inoltre, il riconoscimento della responsabilità della Pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che l’inosservanza delle cadenze procedimentali è imputabile a colpa o dolo dell’Amministrazione medesima, che il danno lamentato è conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell’Amministrazione, nonché la prova del danno lamentato”.
1.2.1. Ivi è stato parimenti rilevato (ed anche su ciò questo Collegio concorda pienamente) che:
   a) il superiore principio debba valere laddove venga prospettata la richiesta di liquidazione della chance;
   b) laddove ci si dolga di un ritardo dell’Amministrazione in relazione a pretese che non avrebbero avuto pratica possibilità di accoglimento allo stato l’unica forma di protezione prevista dall’ordinamento sarebbe semmai, ricorrendone i presupposti, quella dell’indennizzo ex art. 2-bis, comma 1-bis, della legge citata.
1.3. Dagli atti di causa emerge (e lealmente ciò non è stato contestato da parte appellante) che il Commissario ad acta aveva accertato che l’approvazione ed attuazione del progetto di strada esterno alla lottizzazione (cui era legato l’impegno del Comune ad esaminare la modifica delle clausole della convenzione) era impossibile da attuarsi, in quanto ciò avrebbe richiesto l’approvazione di una variante, non trovandosi al cospetto di modifiche “marginali” autorizzabili con variante semplificata ex artt. 1 e 2 della legge regionale del Lazio n. 36/1987.
Se tale dato è corretto, ne discende che:
   a) l’inerzia del Comune relativa a “quel progetto” non ha inciso sulla realizzabilità del medesimo, che era preclusa per altre ragioni;
   b) la predetta inerzia del Comune sull’istanza del 07.01.2010 e sulla successiva diffida, non era quindi causalmente ricollegabile ad un danno discendente dalla omessa realizzazione della strada, (quantomeno nei termini ipotizzati dalla odierna appellante nella predetta istanza);
   c) l’appellante aspirava ad ottenere una delibera consiliare che approvasse il detto progetto: ma tale evento (ammesso che si potesse considerare “atto dovuto” a fronte della precedente delibera dal 2009) era impossibile da ottenersi: e ciò, per ragioni giuridiche, e non fattuali.
1.4. Pare al Collegio che la stessa parte odierna appellante si sia resa conto di ciò, tanto da avere prospettato un petitum ridotto e parzialmente diverso, rispetto a quello ab initio ipotizzato, e concernente il rimborso delle spese sostenute per la progettazione della strada, etc.
1.5. Sennonché, pare al Collegio che plurimi elementi si oppongano alla favorevole delibabilità anche di tale domanda, lato sensu assimilabile alla richiesta di corresponsione dell’indennizzo di cui al comma 1-bis dell’art. 2-bis, della legge n. 241/1990 (“fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400 . In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento”).
1.6. Si osserva, infatti, in proposito che, una volta rimasto accertato che “quel” progetto non era realizzabile, nessun risarcimento è dovuto per la condotta omissiva/silente.
Ciò che sostanzialmente si “imputa” al Comune (soprattutto nella memoria in ultimo depositata) tuttavia, non è in verità la condotta omissiva/silente, ma una condotta “attiva”, riposante nell’avere indicato un percorso amministrativo che –per la tipologia di opera che si voleva realizzare– era non corretto e non concretamente perseguibile (“fuorviante” viene definito nell’appello).
In sostanza, muovendo dal dato (incontestato) che l’approvazione ed attuazione del progetto di strada esterno alla lottizzazione (cui era legato l’impegno del Comune ad esaminare la modifica delle clausole della convenzione) era impossibile da attuarsi, in quanto ciò avrebbe richiesto l’approvazione di una variante, non trovandosi al cospetto di modifiche “marginali” autorizzabili con variante semplificata ex artt. 1 e 2 della legge regionale del Lazio n. 36/1987, viene imputato al Comune di avere suggerito/praticato un percorso approvativo errato.
1.6.1. In disparte la sostanziale “novità” del titolo di responsabilità ipotizzato, e le perplessità che potrebbero avanzarsi, sotto il profilo procedurale, circa la incardinabilità di una simile domanda in seno al giudizio sul silenzio, il profilo sostanziale di infondatezza della domanda emerge con evidenza dalla considerazione che se anche fosse vero quanto sostenuto, in verità il Comune non è un consulente di parte cui possano addebitarsi i danni discendenti da una simile condotta.
1.6.2. Essa, a tutto concedere, andrebbe configurata inquadrandola sub art. 2043 c.c. (o 1337-1338 c.c.): ma francamente non si vede la fondatezza di una domanda risarcitoria che addebita all’Ente pubblico di avere ipotizzato che l’approvazione del progetto dovesse avvenire in una maniera in realtà non praticabile, quando la stessa parte odierna appellante non si è accorta della non fattibilità dell’azione amministrativa: né si era in presenza di alcuna “imposizione” di tale percorso approvativo.
2. Alla stregua delle superiori considerazioni, quindi:
   a) il silenzio/inerzia del Comune non è causale rispetto alla perdita di alcun bene della vita, e non è quindi risarcibile;
   b) l’indennizzo non può corrispondersi per le stesse ragioni prima chiarite;
   c) la domanda risarcitoria, ove tesa a far constare la errata condotta attiva del Comune, che ipotizzò un percorso amministrativo non utile all’approvazione del progetto è “nuova”, non coltivabile in seno al giudizio sul silenzio ex artt. 31 e 117 del c.p.a., e comunque infondata, in quanto la stessa parte odierna appellante, a tutto concedere, non cogliendo la impossibilità del percorso amministrativo ipotizzato, diede causa ai danni subiti.
3. L’appello va quindi disatteso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2016 n. 4580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Nelle deliberazioni dei Comuni che importino spese, la indicazione del mezzo per farvi fronte deve tradursi, ai sensi dell'art. 284 del r.d. 03.03.1934 n. 383 (applicabile "ratione temporis"), nel riferimento ad un mezzo di copertura della spesa che sia attuale, certo e precisamente indicato.
La indicazione di un mezzo di copertura della spesa che sia ipotetico, solo possibile, indicato alternativamente e, comunque, non certo e non attuale comporta la nullità della deliberazione ai sensi dell'art. 288 dello stesso T.U..

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La censura è fondata.
Va premesso che le deliberazioni del comune di Terlizzi (poste a base della convenzione stipulata tra le parti il 12.10.1990), essendo state adottate nell'anno 1987, sono entrambe soggette —ratione temporis— alla disciplina di cui al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383.
Com'è noto, l'art. 284 del T.U. della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383, stabilisce che «le deliberazioni dei Comuni, delle Province e dei Consorzi che importino spese devono indicare l'ammontare di esse ed i mezzi per farvi fronte»; completa la norma la sanzione di nullità della deliberazione adottata in violazione di tale precetto, in base a quanto disposto dall'art. 288: «Sono nulle le deliberazioni prese in adunanze illegali, o adottate sopra oggetti estranei alle attribuzioni degli organi deliberanti, o che contengano violazioni di legge».
Nell'interpretare tali disposizioni, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che
—in applicazione del combinato disposto degli artt. 284, primo comma, e 288, primo comma, del R.D. n. 383 del 1934— deve ritenersi nullo il contratto di incarico professionale stipulato tra Comune o Provincia, da un lato, e privato, dall'altro, ogni volta che risulti la nullità della delibera a monte della sua stipulazione per mancata previsione dell'ammontare del compenso e dei mezzi per farvi fronte.
In particolare, le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito che,
nel vigore del combinato disposto degli artt. 284 e 288 del R.D. 03.03.1934, n. 383 ("Testo unico della legge comunale e provinciale"), la delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidano ad un professionista privato l'incarico per la progettazione di un'opera pubblica, è valida e vincolante nei confronti dell'ente locale soltanto se contenga la previsione dell'ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte. L'inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della delibera, nullità che si estende al contratto di prestazione d'opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l'idoneità a costituire titolo per il compenso (Sez. U, Sentenza n. 12195 del 10/06/2005).
Nella motivazione della sentenza, la Corte ha precisato che,
se i vizi della delibera (e, più in generale, della fase amministrativa) sono privi d'incidenza sul contratto stipulato in forza di essa ove rendano la delibera stessa soltanto annullabile, ciò non può dirsi in presenza di una violazione di legge che ne comporti la nullità, atteso il collegamento tra delibera e contratto, poiché la delibera a contrarre s'inserisce come passaggio obbligato nell'iter di formazione della volontà contrattuale della parte pubblica, cosicché la sua nullità (come la sua mancanza) si riflette necessariamente sulla validità del contratto. Nello stesso senso, ex plurimis, Sez. 1, Sentenza n. 18144 del 02.07.2008 e Sez. 1, Sentenza n. 22922 del 29/10/2009.
La sostanza della disciplina —nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione— non è mutata a seguito dell'introduzione dell'art. 23 d.l. n. 66 del 1989. Tale disposizione, infatti, al comma 3, primo periodo, prevede che: «
A tutte le amministrazioni provinciali, ai comuni ed alle comunità montane l'effettuazione di qualsiasi spesa è consentita esclusivamente se sussistano la deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché l'impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati» e al successivo comma 4 stabilisce: «Nel caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni o servizi in violazione dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si estende per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti coloro che abbiano reso possibili le singole prestazioni» (disciplina —questa— che è rimasta immutata anche nella normativa successiva, laddove il d.lgs. 25.02.1995 n. 77 ha sostanzialmente riprodotto nell'art. 35 la disposizione dell'art. 23 d.l. n. 66 del 1989, prevedendo al quarto comma che «nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei coltimi 1, 2 e 3» il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura).
A fronte di tale nuova disciplina, questa Corte ha affermato che,
in tema di obbligazioni della P.A., l'inserimento nel contratto d'opera professionale di una clausola di c.d. copertura finanziaria —in base alla quale l'ente pubblico territoriale subordina il pagamento del compenso al professionista incaricato della progettazione di un'opera pubblica alla concessione di un finanziamento— non consente di derogare alle procedure di spesa di cui all'art. 23, commi 3 e 4, del d.l. 02.03.1989 n. 66, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, legge 24.04.1989, n. 144 (oggi sostituito dall'art. 191 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), che non possono essere differite al momento dell'erogazione del finanziamento, sicché, in mancanza, il rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente ma intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno (Sez. U, Sentenza n. 26657 del 18/12/2014, Rv. 634114).
Orbene, dovendosi per quanto detto fare applicazione —ratione temporis— della disciplina di cui all'art. 284 del T.U. della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383, va chiarito il significato della prescrizione per cui «le deliberazioni dei Comuni (...) che importino spese devono indicare ( ...) i mezzi per farvi fronte».
Il problema che si pone è quello di stabilire se il mezzo per far fronte alla spesa debba essere precisamente indicato e debba essere già attuale al momento dell'adozione della delibera ovvero se esso possa essere indicato alternativamente, ipoteticamente, e individuato in un tempo successivo.
Non par dubbio al Collegio che l'unica interpretazione aderente al dettato della legge e alla volontà del legislatore sia quella secondo cui
il mezzo per far fronte alla spesa deve essere precisamente individuato e già attuale; mentre tradirebbe il precetto normativo un'interpretazione che consentisse all'ente pubblico di indicare solo le possibili vie per la copertura della spesa, ma di tale copertura non vi fosse certezza né in ordine all'an né in ordine alla fonte.
In questo senso, in una fattispecie analoga alla presente, si è già pronunciata questa Corte quando ha statuito che
la delibera con la quale un Comune conferisce un incarico professionale (nella specie, di progettazione della sistemazione di alcuni locali comunali al fine di ottenerne la certificazione della agibilità per uso pubblico) ed il contratto stipulato in base a tale delibera sono affetti da nullità, ex art. 284 del r.d. 03.03.1934 n. 383 (applicabile "ratione temporis"), ove carenti del reale riferimento ai mezzi finanziari necessari al pagamento della corrispondente spesa per il compenso del professionista incaricato, all'uopo rivelandosi insufficiente il solo generico e formale richiamo ("possibilità di finanziamento a mezzo mutuo da contrarre con la Cassa DD.PP.") a mezzi di copertura della stessa non effettivamente pertinenti alle opere deliberate (Sez. 1, Sentenza n. 17469 del 17/07/2013, Rv. 627394).
Nella specie, nella deliberazione del Comune di Terlizzi n. 1529 del 1987, la prescrizione della indicazione dei mezzi per far fronte alla spesa è stata assolta facendo riferimento alla "possibile stipulazione di mutui con la Cassa DD.PP. o con istituto di credito autorizzato o con contributo regionale in conto capitale".
È evidente, pertanto, che, nella deliberazione, sono stati indicati non mezzi di copertura della spesa effettivi e attuali, ma solo possibili, futuri e —in quanto tali— incerti. Dal che è evidente la violazione del precetto di cui all'art. 284 del T.U. della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383 e la conseguente nullità della deliberazione ai sensi dell'art. 288 dello stesso T.U.
Sul punto, ai sensi dell'art. 384 primo comma cod. proc. civ., va affermato il seguente principio di diritto: «
Nelle deliberazioni dei Comuni che importino spese, la indicazione del mezzo per farvi fronte deve tradursi, ai sensi dell'art. 284 del r.d. 03.03.1934 n. 383 (applicabile "ratione temporis"), nel riferimento ad un mezzo di copertura della spesa che sia attuale, certo e precisamente indicato; la indicazione di un mezzo di copertura della spesa che sia ipotetico, solo possibile, indicato alternativamente e, comunque, non certo e non attuale comporta la nullità della deliberazione ai sensi dell'art. 288 dello stesso T.U.».
Va pertanto accolto il primo motivo del ricorso incidentale, dovendosi ritenere, ai sensi degli arti. 284 e 288 del T.U. della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383, la nullità della deliberazione del Comune di Terlizzi n. 1529 del 1987 e la conseguente nullità dell'intera convenzione stipulata inter partes nel 1990, che su quella delibera era fondata.
L'accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale comporta la cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto all'attore la somma di euro 13.053,45 (corrispondente a lire 25.275.000) sulla base della ritenuta validità della delibera n. 1529 del 1987. Il detto accoglimento comporta anche l'assorbimento dei restanti motivi del ricorso incidentale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 27.10.2016 n. 21763).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Disturbo alle persone se gli odori della pizzeria si sentono anche a finestre chiuse e superano la normale tollerabilità.
La sentenza impugnata reca sul punto una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente, laddove evidenzia che le prove testimoniali risultano sostanzialmente convergenti nell'affermare che i cattivi odori derivanti dalla cottura delle pizze nell'esercizio dell'imputata si avvertivano anche a finestre chiuse e comunque sul vano scala e nella zona del garage e, in alcuni orari, invadevano le stanze dei vari appartamenti.
Tali odori erano stati percepiti anche dal funzionario della ASL che aveva proceduto all'accertamento dei fatti e, seppure in misura minore dal tecnico dell'Agenzia regionale per l'ambiente.
Correttamente, dunque, il giudice di primo grado ha concluso per la sussistenza del superamento del limite delle normale tollerabilità, che funge da criteri di legittimità delle emissioni ai sensi della seconda parte dell'art. 674 cod. pen..

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1. - Con sentenza del 22.10.2015 il Tribunale di Vicenza ha condannato l'imputata alla pena dell'ammenda, oltre che al risarcimento del danno alla parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, con liquidazione di provvisionale provvisoriamente esecutiva, in relazione al reato di cui all'art. 674 cod. pen., a lei contestato per avere cagionato, quale titolare di una pizzeria, molestia e disturbo agli inquilini residenti negli appartamenti posti al di sopra del locale, a causa degli odori derivanti dalla cottura.
2. - Avverso la sentenza l'imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, in primo luogo, l'erronea applicazione della disposizione incriminatrice, nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.
Si rammenta, in particolare, che si tratterebbe di una delle tante cause proposte dei vicini nei confronti della pizzeria, la quale si era trasferita altrove anche per atti di sabotaggio che aveva subito in ore notturne. Non si sarebbe considerato che, in presenza di molestie di tipo di tipo olfattivo, la valutazione della normale tollerabilità è rimessa al giudice, che la deve effettuare in base al criterio di stretta tollerabilità.
Si sostiene, in secondo luogo, che vi sarebbe stato un travisamento dei fatti, perché gli odori caratteristici della pizza erano inidonei a cagionare molestie olfattive vere e proprie, e che le prove le prove orali sul punto risultavano contraddittorie. Nessuno dei testimoni, infatti, avrebbe ritenuto insopportabili le esalazioni, pur avendole percepite. E non si sarebbe tenuto conto degli accertamenti svolti dai funzionari dell'Agenzia regionale per l'ambiente.
...
4. - Il ricorso è infondato.
4.1. - I primi due motivi di doglianza -che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla motivazione della sentenza in punto di responsabilità penale- sono infondati.
Infatti la sentenza impugnata reca sul punto una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente, laddove evidenzia che le prove testimoniali risultano sostanzialmente convergenti nell'affermare che i cattivi odori derivanti dalla cottura delle pizze nell'esercizio dell'imputata si avvertivano anche a finestre chiuse e comunque sul vano scala e nella zona del garage e, in alcuni orari, invadevano le stanze dei vari appartamenti.
Tali odori erano stati percepiti anche dal funzionario della ASL che aveva proceduto all'accertamento dei fatti e, seppure in misura minore dal tecnico dell'Agenzia regionale per l'ambiente.
Correttamente, dunque, il giudice di primo grado ha concluso per la sussistenza del superamento del limite delle normale tollerabilità, che funge da criteri di legittimità delle emissioni ai sensi della seconda parte dell'art. 674 cod. pen. (ex plurimis, in tema di molestie olfattive, Cass., sez. 3, 03.07.2014, n. 45230, rv. 260980; sez. 3, 14.07.2011, n. 34896, rv. 250868).
E non può essere sindacato in questa sede -risultando sufficientemente motivata- l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il teste Er., unico che non aveva percepito cattivi odori, deve essere ritenuto inattendibile, per la sua dichiarata inimicizia con le persone offese (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.10.2016 n. 45225).

ATTI AMMINISTRATIVIDoppia istanza contro il silenzio. P.A./ Sentenza del Consiglio di stato.
Decorso il termine annuale –ora disciplinato dagli artt. 117 e 31 c.p.a. e, prima, dall'art. 21-bis della legge n. 1034 del 1971– per impugnare il silenzio, la parte, se ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dalla pubblica amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se la p.a. non provvede nel termine procedimentale assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio inadempimento formatosi.

È quanto ribadito dai giudici della terza sezione del Consiglio di Stato, Sez. III , con la sentenza 26.10.2016 n. 4496.
I giudici di palazzo Spada nel caso di specie erano stati chiamati a esprimersi circa il silenzio serbato sull'istanza di attivazione della procedura per l'accreditamento istituzionale per attività di odontoiatria e protesi dentarie.
La Presidenza del consiglio dei ministri, nella persona e per il tramite del commissario ad acta per l'attuazione del Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario della Regione, proponeva ricorso per la revocazione, ai sensi dell'art. 395, comma primo, n. 4, c.p.c., della sentenza del Consiglio di stato che riformava una sentenza del Tar.
Con detta sentenza il Consiglio di stato, accogliendo il ricorso contra silentium proposto in primo grado da Tizio, statuiva l'obbligo, in capo alla Regione e all'Azienda sanitaria locale, di concludere il procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso sull'istanza da questo presentata al fine di ottenere l'accreditamento istituzionale, in favore dello studio medico da lui gestito, per l'erogazione delle prestazioni specialistiche di odontoiatria e protesi dentarie (articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Ripristino di un edificio o di una sua parte: i criteri per decidere tra permesso di costruire e Scia. Nuova sentenza della Cassazione sull'accertamento oggettivo della preesistente consistenza dell'edificio.
La possibilità di qualificare un intervento edilizio come ristrutturazione, per la quale non è necessario il permesso di costruire, essendo assoggettato al regime semplificato della S.C.I.A., richiede, infatti, che esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
Invero,
va ribadita la necessità, per poter qualificare come ristrutturazione edilizia l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, di accertarne, in base a riscontri documentali o ad altri elementi certi e verificabili, e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio, quali volumetria, altezza, struttura complessiva; con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che l'art. 30 d.l. n. 69 del 2013 richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
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2. Ora, nella decisione in esame, il Giudice dell'udienza preliminare, dopo aver premesso che la vicenda riguardava la demolizione di due pajare adiacenti, e la loro ricostruzione in un edificio unico, con sagoma diversa ma senza superare né la superficie né il volume iniziale espresso dagli edifici demoliti, ha ritenuto qualificabile tale intervento come ristrutturazione ai sensi dell'art. 3, lett. d), d.P.R. 380/2001, evidenziando che l'intervento denunciato consisteva nella realizzazione sulla stessa area di un nuovo edificio, di dimensioni leggermente inferiori, per superficie e cubatura, rispetto a quello preesistente, e quindi realizzabile anche in assenza di permesso di costruire, essendo sufficiente una DIA (attualmente SCIA).
2.1. Quanto alla compatibilità di tale intervento con le Norme Tecniche di Attuazione, che all'art. 42 vietano la demolizione delle pajare e consentono nelle zone agricole, quale quella oggetto dell'intervento in questione, solamente la costruzione di case rurali, cioè al servizio della conduzione del fondo, mentre quella risultante dalla ristrutturazione era destinata a civile abitazione, il Giudice dell'udienza preliminare ha affermato che tale divieto deve essere inteso come limitato alle sole pajare recuperabili, in quanto non avrebbe "senso immaginare che la norma tuteli ruderi irrecuperabili che, lasciati privi di qualsiasi intervento, sarebbero destinati a sparire naturalmente nel corso degli anni per collasso strutturale", sottolineando che dalle fotografie acquisite si ricavava che una delle due pajare era completamente diruta e l'altra lo era in buona parte; il divieto di edificare costruzioni non aventi destinazione agricola, cioè strumentali alle esigenze di coltivazione di un fondo rustico, sarebbe limitato alle sole nuove costruzioni e non anche a quelle preesistenti e da ristrutturare, in considerazione della possibilità di realizzare depositi di rottami, impianti di smaltimento di rifiuti o laboratori artigianali per attività non connesse all'agricoltura, che consentirebbe di ravvisare la possibilità di mutare la destinazione d'uso nel caso di ristrutturazione di un immobile preesistente.
3. Tali considerazioni non sono condivisibili.
3.1. Va, anzitutto, rilevato che il Giudice dell'udienza preliminare, in contrasto con l'orientamento giurisprudenziale ricordato, ha compiuto una vera e propria valutazione di merito sulla colpevolezza degli imputati, senza limitarsi ad una valutazione di astratta idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio, omettendo anche di tener conto dei possibili sviluppi degli stessi a seguito dell'istruttoria dibattimentale, ad esempio con riguardo alle condizioni dei due manufatti preesistenti, alla loro consistenza ed alla loro possibilità di recupero in luogo della demolizione, e quindi della potenziale idoneità di tali sviluppi a consentire di superare le eventuali contraddittorietà degli elementi acquisiti, con la conseguente esorbitanza dai poteri attribuitigli.
3.2. La motivazione della sentenza impugnata risulta, inoltre, apodittica per quanto riguarda la corrispondenza di superficie e volumetria tra i fabbricati preesistenti e quelli oggetto dell'intervento edilizio oggetto della contestazione, non essendo tale asserzione fondata su elementi univoci, e potendo il relativo punto, che riguarda la qualificazione giuridica dell'intervento e non una questione di fatto, essere oggetto di sviluppo a seguito dell'istruttoria dibattimentale.
La possibilità di qualificare un intervento edilizio come ristrutturazione, per la quale non è necessario il permesso di costruire, essendo assoggettato al regime semplificato della S.C.I.A., richiede, infatti, che esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (così Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552; conf. Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo, Rv. 265444, che ha ribadito la necessità, per poter qualificare come ristrutturazione edilizia l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, di accertarne, in base a riscontri documentali o ad altri elementi certi e verificabili, e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio, quali volumetria, altezza, struttura complessiva; con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che l'art. 30 d.l. n. 69 del 2013 richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire; conf. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464, che ha escluso la qualificabilità come ristrutturazione edilizia o manutenzione straordinaria dei lavori di ricostruzione di un trullo o pajara).
Ora, nella specie, il Giudice dell'udienza preliminare ha del tutto omesso di considerare la rilevanza sulla qualificazione giuridica dell'intervento, e dunque sulla sussistenza o meno dell'illecito edilizio, dei possibili sviluppi derivanti dall'istruttoria dibattimentale in ordine a tali aspetti, con la conseguente insufficienza della motivazione della sentenza impugnata al riguardo.
3.3. Infine la motivazione in ordine alla inapplicabilità dei divieti stabiliti dall'art. 42 delle Norme Tecniche di Attuazione, secondo cui non possono in nessun caso essere demolite le pajare e nelle zone agricole (come quella interessata dall'intervento edilizio oggetto della contestazione) non possono essere realizzate civili abitazioni, ma solo case rurali, risulta illogica, in quanto limita il primo divieto alle sole pajare suscettibili di recupero edilizio, in assenza di qualsiasi disposizione in tal senso, attraverso un percorso argomentativo che non risulta coerente né conforme alla regole della logica, risultando priva di fondamento testuale l'individuazione di detto limite al divieto di demolizione delle pajare; anche la, sostanziale, disapplicazione del divieto di realizzare fabbricati civili nelle zone agricole risulta frutto di un iter argomentativo illogico, essendo stata ricavata l'inapplicabilità di tale divieto dalla possibilità di realizzare depositi di rottami, impianti di smaltimento dei rifiuti o laboratori artigianali, di cui non è stata adeguatamente illustrata la relazione con le civili abitazioni (quale quella oggetto dell'intervento edilizio realizzato dagli imputati), sicché anche tale ultima affermazione risulta frutto di un ragionamento illogico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2016 n. 44921).

INCARICHI PROFESSIONALIIl compenso del praticante non si usurpa.
Il lavoro eseguito dal praticante legale non può essere poi rivendicato, e quindi «incassato», dall'avvocato titolare dello studio professionale.
Così la Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 25.10.2016 n. 21543.
Dunque, l'avvocato di uno studio legale non può pretendere il compenso per le pratiche stragiudiziali portate avanti da un praticante in favore dei suoi parenti.
In particolare, nel caso di specie, il presunto cliente, per delle cause personali, si era fatto assistere dal proprio nipote, quale praticante presso uno studio legale. Ebbene, l'avvocato titolare di detto studio rivendicava per se i corrispettivi maturati per la somma di 1.346,25 e per questo aveva fatto il decreto ingiuntivo allo zio (ritenuto in maniera impropria suo cliente) poiché il contratto di prestazione professionale si sarebbe concluso per «facta concludentia».
A questo punto il presunto cliente (lo zio) si è opposto al decreto emesso dal giudice di pace di Milano, deducendo l'inesistenza del rapporto professionale, avendo questi incaricato non l'avvocato dominus ma il proprio nipote, che in quel momento esercitava la pratica forense presso detto avvocato.
La vicenda poi finiva avanti il Tribunale di Milano che con la sentenza n. 3288/12, condannava l'avvocato, e questo perché il professionista si era addentrato in questa incresciosa vicenda senza neppure avere il mandato scritto, e senza che vi fossero altri elementi idonei a confermare il conferimento anche solo verbale dell'incarico all'avvocato. Anzi è emerso che lo zio avesse avuto un «rapporto diretto solo col proprio nipote, abilitato allo svolgimento della richiesta attività stragiudiziale».
La Suprema Corte ha, così, respinto le istanze difensive dell'avvocato, che aveva prima ottenuto decreto ingiuntivo, poi revocato a seguito di opposizione.
In conclusione, la Cassazione ha accolto le rimostranze del presunto cliente (zio), poiché, nel caso di specie non erano emersi elementi idonei a confermare il conferimento anche solo verbale dell'incarico al dominus titolare di studio. Mentre, invece, è apparso incontestabile che l'uomo avesse avuto un rapporto diretto solo con il proprio nipote, praticante ma abilitato allo svolgimento di attività stragiudiziale (articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza e per previsione di legge, gli atti autorizzatori di interventi in zone qualificate beni paesaggistici vanno motivati circa la compatibilità degli interventi con il vincolo paesaggistico.
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- Ritenuto in primo luogo che non ci si può discostare dalla prima censura contenuta nell’appello erariale circa l’infondatezza dell’assunto della sentenza di primo grado, secondo il quale l’annullamento ministeriale si sarebbe discostato dai suoi poteri di controllo della legittimità dell’autorizzazione paesistica comunale procedendo a valutazioni di merito, poiché in realtà la Soprintendenza ha solo rilevato il difetto di motivazione di quest’ultima, che si era limitata ad affermare senza una reale motivazione che l’intervento in causa non alterava l’impatto dell’edificio esistente nel contesto paesaggistico ed il rapporto di questo con il territorio circostante;
- Considerato che per pacifica giurisprudenza e per previsione di legge gli atti autorizzatori di interventi in zone qualificate beni paesaggistici vanno motivati circa la compatibilità degli interventi con il vincolo paesaggistico, il che nella specie difettava rendendo legittimo il doveroso annullamento soprintendentizio: sicché non si può che concludere per la fondatezza del motivo di appello;
- Rilevata altresì la fondatezza della seconda censura, secondo la quale il Tribunale amministrativo, spingendosi oltre i propri poteri, ha indebitamente provveduto esso stesso a direttamente stimare un’asserita non invasività dell’intervento e una sua compatibilità con il vincolo paesaggistico, riferendo la collocazione dei moduli fotovoltaici in parte in posizione nascosta alla vista a livello del terreno e in parte coperti da vegetazione ad alto fusto: sicché il giudice di primo grado si è sostituito all’autorità competente nei suoi ordinari compiti amministrativi;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata respinge il ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.10.2016 n. 4462 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Apertura di pareti finestrate - Permesso di costruire - Necessità - Intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti - Ristrutturazione edilizia "minore" - Esclusione - Artt. 3, 10, 34, 44, lett. e), d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 167, 181, c. 1­bis, D.Lgs. n. 42/2004.
L'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere interne e reati edilizi - Realizzazione di un soppalco senza modifiche volumetriche - Incremento della superficie utile calpestabile - Aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi - Necessità di permesso di costruire - Presupposti.
La semplice realizzazione di un soppalco, pur senza modifiche volumetriche, determina un incremento della superficie utile calpestabile, con necessità di permesso di costruire e conseguente configurabilità del reato edilizio.
Sicché, le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011 - dep. 21/12/2011, Truppi; fattispecie relativa proprio alla realizzazione di un soppalco all'interno di un'unità immobiliare che per la sua esecuzione si rendeva necessario il permesso di costruire o, in alternativa, la denuncia di inizio attività) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato paesaggistico - Natura di reato di pericolo astratto - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (Cass. Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 ­ dep. 16/03/2015, Murgia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: RISARCIMENTO DEL DANNO - Proprietario confinante - Legittimazione a costituirsi parte civile - Condanna generica al risarcimento dei danni in favore della Parte Civile - Accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso - Nesso di causalità - Giurisprudenza.
La condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal giudice penale (come avvenuto nel caso di specie), non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013 - dep. 07/11/2013, Di Fatta e altri; Sez. 5, n. 191 del 19/10/2000 - dep. 10/01/2001, Mattioli F. P. ed altri; Sez. 6, n. 12199 del 11/03/2005 - dep. 29/03/2005, Molisso, secondo cui ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della P.C. non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia infatti costituisce una mera "declaratoria juris" da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione; proprio in tema di edilizia, Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009 - dep. 25/11/2009, Vespa, secondo cui il proprietario confinante è legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni (art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni (art. 871 cod. civ.), indipendentemente dalle distanze; fattispecie di mutamento di destinazione d'uso di un piano seminterrato da garage e cantina in miniappartamento) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri concessori - Esonero - Realizzazione di una scuola da parte di un ente ecclesiastico.
In linea generale, occorre precisare che il contributo di costruzione posto a carico del costruttore trova causa nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle <sole ipotesi tassativamente previste dalla legge> da intendersi di stretta interpretazione.
In base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la controversia sulla quantificazione del contributo di costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione della natura paratributaria del contributo” con la conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera legis, deve individuare il criterio in base al quale è stata disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti”.
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Per beneficiare della gratuità, la norma richiede il concorso di due requisiti: uno di carattere oggettivo legato al tipo di opera; l’altro di carattere soggettivo relativo all’ente che esegue le opere.
Nel caso in oggetto (ndr: costruzione di una scuola da parte dell'Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero
), risulta in atti che non è stato evidenziato un rapporto giuridico tra l’Istituto e l’amministrazione comunale, non essendo stato conferito alcun mandato alla realizzazione per conto del Comune dell’opera scolastica in questione.
L’eventuale convenzione tra il Comune e i gestori dei servizi educativi/scolastici, essendo finalizzata alla erogazione di benefici, non attiene al rapporto per la materiale esecuzione dell’opera e dunque non è rilevante per qualificare, sotto il profilo soggettivo, l’Istituto abilitato a costruire.
Infine, nel caso di specie, manca la previsione della cessione dell’opera al patrimonio comunale; dunque, viene meno la possibilità di qualificare l’opera stessa come opera di urbanizzazione, ai sensi del citato art. 30 LR 31/2002.
In conclusione, è legittimo nel caso di specie il non esonero dal contributo di concessione.
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Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Forlì e Bertinoro, in persona del legale rappresentante ...
contro
Comune di Forlì, in persona del legale rappresentante p.t. ...
per l'annullamento
della determinazione del contributo di urbanizzazione e di costruzione su un intervento edilizio dell'Istituto ricorrente, in corso di realizzazione, finalizzato alla esecuzione di una scuola; nonché avverso l'invito alla liquidazione del contributo determinato in € 518.536,70.
...
Con il ricorso in epigrafe è stata impugnata la determinazione del contributo di urbanizzazione e di costruzione su un intervento edilizio dell’Istituto ricorrente, in corso di realizzazione, e finalizzato alla esecuzione di una scuola, con destinazione a dotazione territoriale, nell’ambito di un PUA convenzionato tra il Comune di Forlì, l’Istituto ricorrente e la parrocchia San Giovanni Battista di Coriano.
E’ stato anche impugnato l’invito alla liquidazione del contributo determinato in € 518.536,70.
Nel ricorso, in cui il ricorrente non articola espressamente puntuali motivi di diritto, si sostiene che il titolo edilizio è stato rilasciato ai soggetti attuatori con sospensione del pagamento del contributo di costruzione e che, in ragione della specifica destinazione dell’area Dotazione territoriale A, dovrebbe giocare l’esenzione prevista dalla seconda parte dell’art. 17 TU edilizia.
In data 17.03.2016 il ricorrente ha depositato memoria (sostenendo che la destinazione specifica ad opera di urbanizzazione secondaria di natura scolastica ha trovato fonte nella variante urbanistica approvata con deliberazione consiliare n. 67 del 2006, a sua volta costituente perfezionamento di una transazione tra Comune e Istituto diocesano).
Il ricorrente sostiene ancora che la norma regionale (art. 30 LR 31/2002) sarebbe recessiva rispetto al TU edilizia e si applicherebbe l’art. 17 di quest’ultimo.
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Il ricorso è infondato.
Ad avviso del Collegio può prescindersi dall’esame della preliminare eccezione di inammissibilità/improcedibilità del ricorso, formulata con riferimento alla clausola contrattuale di cui all’art. 6 della Convenzione 23.02.2009 -(secondo cui le parti riconoscono al parere della Regione natura vincolante e si impegnano ad osservare il contenuto senza nulla pretendere a titolo di risarcimento o altro indennizzo e rinunciando ad avanzare pretesa od opposizioni a qualunque titolo)– stante la manifesta infondatezza del ricorso.
In linea generale, occorre precisare che il contributo di costruzione posto a carico del costruttore trova causa nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle <sole ipotesi tassativamente previste dalla legge> da intendersi di stretta interpretazione (cfr., Cons. di St., Sez. V, 07.05.2013, n. 2467).
In base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la controversia sulla quantificazione del contributo di costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione della natura paratributaria del contributo (cfr., Tar Lombardia, sez. Brescia, 24.08.2012 n. 1467; Cons. St., sez. V, 14.12.1994 n. 1471)” con la conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni tributarie.
Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera legis, deve individuare il criterio in base al quale è stata disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti
” (TAR Liguria, Sez. I, 30.09.2014, n. 1401).
Nel caso di specie, nel predetto parere in data 27.05.2009, la Regione specifica che la disciplina di riferimento è l’art. 30 della LR n. 31 del 2002 che prevede, alla lettera e), l’esonero dal contributo di costruzione sia per la quota relativa al costo di costruzione che per la quota afferente agli oneri di urbanizzazione, <per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti e dalle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>.
La disposizione è sostitutiva dell’art. 17 del DPR 380/2001, come prevede l’art. 50 della LR 31/2002.
La Regione chiarisce ancora che -per beneficiare della gratuità- la norma richiede il concorso di due requisiti: uno di carattere oggettivo legato al tipo di opera; l’altro di carattere soggettivo relativo all’ente che esegue le opere.
Nel caso in oggetto, risulta in atti che non è stato evidenziato un rapporto giuridico tra l’Istituto e l’amministrazione comunale, non essendo stato conferito alcun mandato alla realizzazione per conto del Comune dell’opera scolastica in questione. L’eventuale convenzione tra il Comune e i gestori dei servizi educativi/scolastici, essendo finalizzata alla erogazione di benefici, non attiene al rapporto per la materiale esecuzione dell’opera e dunque non è rilevante per qualificare, sotto il profilo soggettivo, l’Istituto abilitato a costruire.
Infine, nel caso di specie, manca la previsione della cessione dell’opera al patrimonio comunale; dunque, viene meno la possibilità di qualificare l’opera stessa come opera di urbanizzazione, ai sensi del citato art. 30 LR 31/2002.
In conclusione, poiché la posizione illustrata, dalla quale la Sezione non ha motivo di discostarsi, è coerente con il principio di stretta interpretazione cui devono soggiacere i casi di esonero dal contributo di concessione (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 29.01.2015, n. 516), il ricorso deve essere respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 12.10.2016 n. 846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, si giustifica l’annullamento di titoli edilizi quando questi siano stati rilasciati in base ad un’errata rappresentazione della realtà da parte del richiedente (non importa se dolosa o colposa): fattispecie in cui la potestà sanzionatoria può esplicarsi senza che sia necessaria una specifica motivazione circa la prevalenza dell’interesse pubblico, dal momento che ogni provvedimento amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione di fatto e di diritto effettivamente esistente al momento della sua adozione.
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La (mera) erroneità della progettazione comporta, ai fini dell’annullamento del titolo edilizio formatosi sulla DIA:
   a) l’esplicitazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, come previsto dall’art. 3 della legge 241/1990;
   b) la ponderazione di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento, vale a dire le ragioni di interesse pubblico e gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, che l’art. 21-nonies della legge 241/1990 pone come parametro di valutazione della legittimità dell’esercizio del potere di autotutela.
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Nella specie vi è stata una violazione dei principi che regolano l’esercizio dell’autotutela amministrativa, ma anche del principio di proporzionalità, la quale “non deve essere considerata come un canone rigido ed immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa ed, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità”.
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Le ragioni opposte dal comune contrastano con il prevalente orientamento della giurisprudenza, secondo cui “l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati”.
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Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto, nei termini che seguono.
Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto che pur avendo commesso un errore progettuale (“quello di ritenere che l’area esterna ceduta fosse in diritto di superficie anziché ceduta in proprietà”, cfr. nota del 13.2.2012), nondimeno non sarebbe ravvisabile una difforme rappresentazione nelle tavole di progetto, né l’Amministrazione avrebbe tempestivamente contestato tale lacuna, così riuscendo a impedire che, a causa della persistenza di tale errore, il corsello di manovra del parcheggio venisse realizzato –come in effetto è accaduto– in corrispondenza di un’area ceduta al Comune di Seregno.
Tale motivo può essere esaminato congiuntamente al secondo, con cui si è dedotto che “il provvedimento impugnato (…) è palesemente stato assunto in difetto dei presupposti stabiliti dalla legge per l’annullamento di ufficio” (cfr. pag. 18).
Reputa il Collegio che tali censure siano fondate, e ciò, anzitutto, alla luce dell’esplicita ammissione del dirigente del servizio (costituente circostanza incontestata tra le parti ai sensi dell’art. 64, comma 2, del codice del processo amministrativo), il quale nell’impugnato provvedimento ha chiarito come “il corsello sia stato rappresentato come poi realizzato e cioè proprio sotto una parte dell'area comunale”.
È, in sostanza, provato che la progettazione elaborata dalla società ricorrente, pur essendo deficitaria, non abbia, però, dato luogo ad “alcun problema di opere realizzate difformemente rispetto a quanto autorizzato, né di falsa o errata rappresentazione negli atti” (cfr. pag. 10 del ricorso).
Il che prefigura una valutazione tecnica erronea, situazione non assimilabile a quella che, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, giustifica l’annullamento di titoli edilizi quando questi siano stati rilasciati in base ad un’errata rappresentazione della realtà da parte del richiedente (non importa se dolosa o colposa): fattispecie in cui la potestà sanzionatoria può esplicarsi senza che sia necessaria una specifica motivazione circa la prevalenza dell’interesse pubblico, dal momento che ogni provvedimento amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione di fatto e di diritto effettivamente esistente al momento della sua adozione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.08.2012, n. 4619; id., sez. IV, 24.12.2008, n. 6554).
Nella motivazione dell’impugnato provvedimento, invece, l’Amministrazione ha precisato, da un lato, che la società ricorrente avrebbe elaborato una “non esauriente rappresentazione dell’area di proprietà”, salvo, dall’altro, contestualmente ammettere che il corsello sia stato progettato (oltre che realizzato) al di sotto dell’area ceduta in proprietà al Comune.
Come ha recentemente chiarito il Consiglio di Stato, “l’errore tecnico (…), inficiando la validità della d.i.a., avrebbe consentito all’Amministrazione di intervenire sul titolo, adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio o entro il termine di decadenza previsto dall’art. 23, comma 6, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, oppure, scaduto infruttuosamente tale termine, soltanto ricorrendo le condizioni alle quali l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, subordina l’esercizio del potere di autotutela” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762).
Nel caso di specie, l’impugnato provvedimento è stato unicamente motivato sulla “falsa attestazione di conformità delle opere”: profilo inidoneo a sostanziare l’esercizio del potere di autotutela, potendo, invece, risultare esiziale ai sensi dell’art. 23, comma 6, del DPR 380/2001 per il deferimento del professionista all’autorità giudiziaria e al consiglio dell'ordine di appartenenza.
Invero, la (mera) erroneità della progettazione avrebbe dovuto imporre, ai fini dell’annullamento del titolo edilizio formatosi sulla DIA n. 506/2008:
   a) l’esplicitazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, come previsto dall’art. 3 della legge 241/1990;
   b) la ponderazione di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento, vale a dire le ragioni di interesse pubblico e gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, che l’art. 21-nonies della legge 241/1990 pone come parametro di valutazione della legittimità dell’esercizio del potere di autotutela.
Nulla di tutto ciò è, però, ravvisabile nell’impugnato provvedimento.
Né in contrario può rilevare la sussistenza, eccepita dal Comune di Seregno, di un “interesse pubblico, concreto ed ancora attuale alla conservazione del patrimonio comunale, comprensivo delle aree destinate a verde pubblico e parcheggi pubblici” (cfr. pag. 11 della memoria del 29.07.2016).
Si tratta di un pregiudizio potenziale e indimostrato, mentre è stato provato in corso di causa che la paventata lesione sarebbe circoscritta all’occupazione dell’area interrata (per l’estensione di circa 100 mq.).
Va, inoltre, osservato che mentre nella comunicazione di avvio del procedimento (25.01.2012) si è fatto espresso riferimento all’adozione di “successivi provvedimenti atti a ripristinare lo stato dei luoghi”, tale comminatoria non è stata, poi, trasfusa nel provvedimento finale: il che non consente neppure di comprendere quale sia, ad oggi, la posizione dell’Amministrazione circa la possibilità di prendere in esame la cessione a titolo oneroso dell’area illegittimamente occupata dalla società ricorrente, soluzione proposta a fini transattivi per la salvaguardia delle opere nel frattempo ultimate.
Alla luce delle concrete circostanze emerse in giudizio e della possibilità di rimediare all’errore progettuale, si può, pertanto, affermare che nella specie vi sia stata una violazione dei principi che regolano l’esercizio dell’autotutela amministrativa, ma anche del principio di proporzionalità, la quale “non deve essere considerata come un canone rigido ed immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa ed, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 26.02.2015, n. 964).
È, conseguentemente, fondato anche il terzo motivo del ricorso principale (riproposto nei motivi aggiunti), con cui la ricorrente ha dedotto il concorso colposo dell’Amministrazione comunale per non aver quest’ultima efficacemente esaminato le tavole progettuali, essendosi appurato che l’errore progettuale fosse palese e quindi tempestivamente riparabile, mentre la prima misura adottata dall’Amministrazione è consistita nell’emissione dell’ordinanza n. 217 del 21.10.2011, con cui si è disposta la sospensione dei lavori.
Il provvedimento impugnato con il ricorso per motivi aggiunti è, poi, riconducibile a un profilo connesso, nel senso che, come esposto dalla difesa dell’Amministrazione comunale, “il locale tecnico previsto fin dalla DIA del 2008 risultava (…) ampliato nelle sue dimensioni al fine di “ospitare” l’impianto di teleriscaldamento, il tutto realizzato sempre al di sotto dell’area pubblica” (cfr. pag. 3 della memoria del 29.07.2016).
Dall’esame degli atti è pacificamente emerso che l’impianto di teleriscaldamento non è stato previsto nel piano di lottizzazione, trattandosi di un’opera programmata a servizio dei residenti delle unità abitative realizzate dalla società ricorrente.
È, però, accaduto che la stessa ricorrente in data 09.05.2012 e il Comune di Seregno in data 05.06.2012 hanno richiesto alla Ge. s.r.l. (società partecipata dall’Amministrazione per la gestione del servizio energetico) dei chiarimenti in ordine alla situazione determinatasi in conseguenza dell’installazione del sopra citato impianto in un’area di proprietà comunale.
In riscontro a tali richieste la partecipata del Comune, con nota dell’11.06.2012, ha comunicato:
   a) che “l’eventuale rimozione del citato locale tecnico e il conseguente spostamento della rete di teleriscaldamento in questione determinerebbe inevitabilmente l’interruzione -per tutta la durata dei lavori a ciò necessari- di un servizio di pubblica utilità, la cui prestazione deve essere svolta senza soluzione di continuità, pena la produzione di evidenti disservizi e disagi nei confronti della collettività servita da tale attività tesa a soddisfare primarie esigenze sociali”;
   b) di aver in precedenza concluso degli specifici accordi con la società ricorrente “in merito alla collocazione delle due centrali termiche a servizio del territorio, (…) assunti al fine di minimizzare i costi di allacciamento praticabili nei confronti dell'utenza finale. In tale prospettiva, va rilevato che i due locali tecnici, uno a servizio del corpo principale di fabbrica e l'altro a servizio della palazzina costruita per essere successivamente ceduta all'amministrazione comunale, risultano praticamente prospicienti. Al contrario, qualora la centrale fosse stata posizionata sul lato ovest anziché sul lato est del fabbricato, ci sarebbe stato un aggravio di costi dovuto a maggiore estensione della rete”;
   c) che lo spostamento della stazione di teleriscaldamento non potrebbe che essere subordinato al preventivo assenso dall’Amministrazione, “trattandosi (…) di attività e oneri non riconducibili alla competenza e alla responsabilità” della stessa Ge.;
   d) che in occasione della realizzazione della rete di teleriscaldamento sono state fornite alla società ricorrente delle “indicazioni allo scopo di consigliare la possibilità di accedere al locale da pubblica via per evitare, in caso di emergenza, di dover intervenire in proprietà privata”;
   e) che, ancora, “le dimensioni del locale tecnico ubicato nel sottosuolo sono quelle indicate dai progettisti di Ge. s.r.l., risultando peraltro le stesse più ampie rispetto a quelle indicate in origine alla scrivente società. A tal ultimo proposito, si segnala che la richiesta di incrementare le dimensioni del predetto locale è legata a valutazioni relative alla necessità di collocare in loco n° 2 sottostazioni di scambio termico, oltre all'esigenza di assicurare la possibilità di effettuare in sicurezza future attività manutentive”.
Nell’impugnato provvedimento si è, però, sostenuto che le precisazioni espresse dalla società Ge. “non paiono pertinenti né valgono a superare la rilevata difformità del progetto al P.L. approvato”, tenuto conto che “le opere difformi sono state eseguite su proprietà comunale e ne impediscono il pieno godimento”.
Ad avviso del Collegio, neppure la motivazione del provvedimento di parziale annullamento del permesso di costruire n. 14/2009 –similmente a quanto rilevato con riguardo al provvedimento impugnato con il ricorso principale– è espressiva di una congrua ponderazione degli interessi coinvolti, soprattutto in ragione delle puntuali osservazioni tecniche contenute nella sopra citata comunicazione della Ge., nella quale, all’opposto, è stata prospettata la tutela di rilevanti interessi pubblici (sicurezza degli impianti, garanzia del pubblico servizio di riscaldamento).
Va, quindi, ritenuto che le ragioni opposte dal Comune di Seregno contrastino con il prevalente orientamento della giurisprudenza, secondo cui “l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 09.05.2012, n. 2683) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.10.2016 n. 1833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mandatario, paletti all'anticorruzione.
Le misure anticorruzione per salvaguardare la prosecuzione del rapporto contrattuale scattano solo se non sussistono le condizioni per accogliere la richiesta di sostituzione della mandataria.

Questo è il principio-guida che emerge dalla sentenza 14.09.2016 n. 4283 del TAR Campania-Napoli, Sez. I.
I giudici partenopei si sono interrogati sulla legittimità del comportamento della stazione appaltante che, in presenza di una richiesta di avvicendamento della mandataria (colpita da interdittiva antimafia) di una società consortile (aggiudicataria del servizio), aveva del tutto «ignorato» l'istanza formulata ai sensi dell'art. 37, comma 18 del codice dei contratti del 2006.
Il Comune infatti, procedendo per tutt'altra strada, richiedeva alla Prefettura dei provvedimenti straordinari ai sensi dell'art. 32, comma 10, legge n. 114 del 2014. Il prefetto, a sua volta, optava per la temporanea gestione della società con contestuale sospensione dell'esercizio del poteri di disposizione dei titolari dell'impresa e contestuale nomina di un amministratore straordinario. Tutti gli atti venivano impugnati.
Il collegio giudicante ha in primo luogo sottolineato che «in presenza di un'istanza di sostituzione della mandataria che si trovi in alcuna delle situazioni ostative alla prosecuzione del rapporto contrattuale, esiste un obbligo specifico per la stazione appaltante di attivare la verifica di applicabilità del meccanismo sostitutivo di cui all'art. 37, comma 18».
In secondo luogo, prosegue la sentenza, la fattispecie «si colora di ulteriore specialità, concernendo l'ipotesi in cui la conservazione del rapporto contrattuale si riferisca all'interesse di chi non sia stato colpito da un'informazione antimafia. In terzo luogo l'organo giudicante afferma che il criterio sostitutivo espulsivo, sollecitato dalla società consortile, deve ritenersi prevalente sulla misura straordinaria, perché tutela con maggiore efficacia l'interesse pubblico alla neutralizzazione di contaminazioni mafiose. Pertanto, e a chiusura del ragionamento, una volta richiesta la sostituzione del mandante o del mandatario da parte delle associate superstiti, la stazione appaltante ha prima di tutto l'obbligo di verificare la sussistenza delle condizioni per l'avvicendamento, così da tutelare sia l'interesse pubblico di fare salvo il rapporto contrattuale da contaminazioni mafiose, sia di proteggere l'interesse contrattuale di terzi contraenti presuntivamente estranei al rapporto amministrativo di pubblica sicurezza; solo ove tale verifica abbia dato esito negativo, o, comunque, sia mancata una proposta in tal senso, sarà possibile attivare una delle misure straordinarie di cui all'art. 32, e ciò sempre al fine di salvaguardare la prosecuzione del rapporto contrattuale» (articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016).
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MASSIMA
Punto centrale della controversia è quello relativo al primo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la deliberazione di indirizzo della Giunta comunale di -OMISSIS- n. 300 del 22.12.2015 che si qualifica, all’un tempo, come diniego di applicazione del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e come atto d’impulso del procedimento di applicazione alla società ricorrente della misura straordinaria di cui all’art. 32, comma 10, della legge n. 114/2014.
In particolare, occorre domandarsi della legittimità del comportamento assunto dalla stazione appaltante che, in presenza di una richiesta di sostituzione della mandataria della società consortile ai sensi dell’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, norma da ritenersi applicabile anche in fase di esecuzione a tale forma organizzativa, ha subordinato la verifica dei presupposti di operatività di tale meccanismo conservativo all’esito di un procedimento di applicazione di misure straordinarie, anche queste aventi la medesima funzione, ma di competenza di altra autorità.
L’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 prevede che «in caso di fallimento del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dall'appalto».
La norma è stata interpretata da condivisibile giurisprudenza, da cui non vi è ragione di discostarsi, nel senso che “
nel distinguere le due ipotesi (cioè quella di cui al comma 18 da quella di cui al comma 19, quest’ultima relativa alla sostituzione della mandante), solo se sussista la condizione secondo cui la mandante (o le mandanti) abbia di per sé tutti i requisiti necessari, è possibile la prosecuzione del rapporto; l'uso del verbo "può" non va inteso in accezione facultizzante per la stazione appaltante, ma esprime solo una eventualità -il possesso di tutti i requisiti in capo alla mandante- che potrebbe non verificarsi in concreto” (TAR Campania Napoli I Sezione 25.07.2011 n. 3953) .
Quanto alla ratio dell’istituto la richiamata giurisprudenza ha osservato «in ossequio alla giurisprudenza di questa Sezione (sent. n. 4408 del 2009, n. 1177 del 2010 e n. 7152 del 2010) dalla quale non vi sono motivi per discostarsi, che
la modificazione, ad opera del d.lgs. 113 del 2007, dei commi 18 e 19 dell'articolo 37 del d.lgs. 163 del 2006 risponde all'esigenza di garantire gli operatori economici che partecipano a gare pubbliche in formazione soggettivamente complessa dagli eventi che possono colpire gli altri componenti del raggruppamento, minimizzando i rischi di perdita della commessa pubblica aggiudicata. In questa prospettiva la distinzione fra gli eventi che colpiscono la mandataria (comma 18) e quelli che colpiscono la mandante (comma 19) non consiste nella concessione o meno di un potere in capo alla stazione appaltante di decidere sulla continuazione del rapporto contrattuale».
Pertanto,
in presenza di un’istanza di sostituzione della mandataria che si trovi in alcuna delle situazioni ostative alla prosecuzione del rapporto contrattuale, esiste un obbligo specifico per la stazione appaltante di attivare la verifica di applicabilità del meccanismo sostitutivo di cui alla citata disposizione.
Dal momento che la stazione appaltante ha ritenuto di soprassedere a tale obbligo, si deve verificare se tale sostanziale rifiuto trovi giustificazione nell’attivazione di un procedimento di applicazione delle misure straordinarie di cui all’art. 32 della legge 114 del 2014.
Tale disposizione stabilisce, ai primi due commi, che «1. Nell'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria proceda per i delitti di cui agli articoli 317 c.p., 318 c.p., 319 c.p., 319-bis c.p., 319-ter c.p., 319-quater c.p., 320 c.p., 322, c.p., 322-bis, c.p. 346-bis, c.p., 353 c.p. e 353-bis c.p., ovvero, in presenza di rilevate situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali attribuibili ad un'impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture, nonché ad una impresa che esercita attività sanitaria per conto del Servizio sanitario nazionale in base agli accordi contrattuali di cui all'articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30.12.1992, n. 502 ovvero ad un concessionario di lavori pubblici o ad un contraente generale, il Presidente dell'ANAC ne informa il procuratore della Repubblica e, in presenza di fatti gravi e accertati anche ai sensi dell'articolo 19, comma 5, lett. a), del presente decreto, propone al Prefetto competente in relazione al luogo in cui ha sede la stazione appaltante, alternativamente:
a) di ordinare la rinnovazione degli organi sociali mediante la sostituzione del soggetto coinvolto e, ove l'impresa non si adegui nei termini stabiliti, di provvedere alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa [appaltatrice] limitatamente alla completa esecuzione del contratto d'appalto ovvero dell'accordo contrattuale o della concessione;
b) di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa [appaltatrice] limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto ovvero dell'accordo contrattuale o della concessione.
2. Il Prefetto, previo accertamento dei presupposti indicati al comma 1 e valutata la particolare gravità dei fatti oggetto dell'indagine, intima all'impresa di provvedere al rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto coinvolto e ove l'impresa non si adegui nel termine di trenta giorni ovvero nei casi più gravi, provvede nei dieci giorni successivi con decreto alla nomina di uno o più amministratori, in numero comunque non superiore a tre, in possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità di cui al regolamento adottato ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 08.07.1999, n. 270. Il predetto decreto stabilisce la durata della misura in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto del contratto e comunque non oltre il collaudo ovvero dell'accordo contrattuale
».
Al comma decimo, l’art. 32 prevede altresì che «le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche nei casi in cui sia stata emessa dal Prefetto un'informazione antimafia interdittiva e sussista l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto ovvero dell'accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui all'articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159. In tal caso, le misure sono disposte di propria iniziativa dal Prefetto che ne informa il Presidente dell'ANAC. Nei casi di cui al comma 2-bis, le misure sono disposte con decreto del Prefetto, di intesa con il Ministro della salute. Le stesse misure sono revocate e cessano comunque di produrre effetti in caso di passaggio in giudicato di sentenza di annullamento dell'informazione antimafia interdittiva, di ordinanza che dispone, in via definitiva, l'accoglimento dell'istanza cautelare eventualmente proposta ovvero di aggiornamento dell'esito della predetta informazione ai sensi dell'articolo 91, comma 5, del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, e successive modificazioni, anche a seguito dell'adeguamento dell'impresa alle indicazioni degli esperti».
L’art. 32 configura, quindi, l’applicazione di misure straordinarie di tipo sostitutivo o in ipotesi di pendenza di un procedimento penale per alcuni tipi di reato, o a seguito dell’adozione di un’interdittiva antimafia; queste, a differenza dell’informazione o comunicazione antimafia, non privano l’impresa che ne sia destinataria della capacità giuridica di contrattare con l’amministrazione pubblica, limitandosi ad introdurre un nuovo assetto organizzativo di amministrazione, ad incisività graduale; differenza sostanziale è che mentre l’interdittiva comporta, di regola, la risoluzione del contratto, la misura straordinaria ne assicura invece la prosecuzione; in entrambi gli istituti è evidente il profilo comune di pubblico interesse di arginare la contaminazione mafiosa della controparte del soggetto pubblico; la differenza risiede nella maggiore considerazione dell’interesse privato coinvolto dall’azione autoritativa di pubblica sicurezza, che, nel caso dell’interdittiva, risulta completamente sacrificato, in caso di misure straordinarie viene invece parzialmente salvaguardato dalla possibilità di conservare il rapporto contrattuale.
E’ in tale quadro che deve essere collocato
il decimo comma dell’art. 32 che, nel disciplinare la relazione tra misura straordinaria ed interdittiva, rivela la piena compatibilità dei due istituti, subordinando la radicale efficacia della seconda alla possibilità di proseguire e completare l’esecuzione di un contratto attraverso l’applicazione all’impresa di alcuna delle misure di cui all’art. 32, primo comma.
In tal caso, si è in presenza di un potere discrezionale ad esclusiva iniziativa pubblica, i cui limiti sono rappresentati dalla ricorrenza di alcuna delle situazioni di cui all’art. 32, decimo comma, cioè l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto, ovvero dell'accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici.

La fattispecie posta all’attenzione del Tribunale, tuttavia, si colora di ulteriore specialità, concernendo l’ipotesi in cui la conservazione del rapporto contrattuale si riferisca all’interesse di chi non sia stato colpito da un’’informazione antimafia, come appunto gli altri mandanti (o mandatario) di un’A.T.I. non raggiunti da tale misura.
Qui, il mantenimento del rapporto contrattuale, oltre all’interesse pubblico al completamento del programma negoziale –sebbene non di formale emergenza come nelle ipotesi di cui all’art. 94 del d.lgs. 06.09.2011 n. 159- guarda anche all’interesse del terzo contraente incolpevole, di cui la norma rivela voler tutelare un presunto legittimo affidamento nella scelta dei propri partners. In tal caso, l’effetto sostanzialmente espulsivo del meccanismo di cui all’art. 37 commi 18 e 19 del d.lgs. 02.04.2006 n. 163 e la conservazione della titolarità soggettiva del rapporto, sebbene in parte qua, si trovano in una relazione di insanabile alternatività.
In linea di principio, il criterio sostitutivo espulsivo deve ritenersi prevalente sulla misura straordinaria, innanzitutto perché tutela con maggiore efficacia l’interesse pubblico alla neutralizzazione di contaminazioni mafiose, siccome estromette radicalmente i soggetti imprenditoriali che ne siano veicolo; in secondo luogo, viene tutelata l’autonomia negoziale degli altri associati di potersi affrancare dall’impresa sospetta; ancora, la sostituzione costituisce un obbligo della stazione appaltante ed una facoltà per le imprese superstiti; infatti, nel caso del mandatario colpito da interdittiva il recesso è consentito solo in caso di assenza delle condizioni di qualificazione (norma non modificata dal codice del contratti, ma comunque applicabile ratione temporis).
A coordinare i due istituti è una loro possibile collocazione di tipo diacronico, nel senso che la misura straordinaria è succedanea ed eventuale, rispetto ad una richiesta di applicazione del rimedio di cui all’art. 37; in altri termini, una volta richiesta la sostituzione del mandante o del mandatario da parte delle associate superstiti, la stazione appaltante ha innanzitutto l’obbligo di verificare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione del meccanismo di avvicendamento, così da tutelare sia l’interesse pubblico -cui è sottesa la stessa misura interdittiva- di fare salvo il rapporto contrattuale da contaminazioni mafiose, sia di assicurare tutela all’interesse contrattuale di terzi contraenti presuntivamente incolpevoli e comunque estranei al rapporto amministrativo di pubblica sicurezza; solo ove tale verifica abbia dato esito negativo, o, comunque, sia mancata una proposta in tal senso, sarà possibile attivare nei confronti dell’impresa sospetta una delle misure straordinarie di cui all’art. 32, sempre al fine di salvaguardare la prosecuzione del rapporto contrattuale.
Nel caso di specie, la stazione appaltante ha agito, dando un indirizzo esattamente opposto a quello sopra descritto, avendo, a parità di interesse pubblico, sacrificato l’interesse degli altri contraenti alla conservazione di un rapporto contrattuale, a cui sarebbe rimasta estranea la -OMISSIS-, in tal modo violando il principio generale di imparzialità dell’azione amministrativa.
Tale deliberazione ed i consequenziali provvedimenti dell’amministrazione comunale devono pertanto essere annullati.
Con riferimento agli impugnati provvedimenti prefettizi, rileva il Collegio che, in base alle precedenti considerazioni, la richiesta di sostituzione della mandataria, di cui la stazione appaltante non ha ancora verificato la sussistenza dei presupposti di legge, ha dato avvio ad un procedimento di competenza comunale la cui obbligatoria conclusione con un provvedimento espresso si pone in rapporto di necessaria pregiudizialità logica e giuridica rispetto all’attivazione del potere extra ordinem di competenza statale.
Pertanto, il Prefetto di Napoli, che, tra l’altro, era a conoscenza dell’istanza di sostituzione, non avrebbe potuto legittimamente esercitare il potere di applicazione di misure straordinarie nei confronti della società ricorrente –certamente maggiormente gravose per la sua immagine morale e commerciale- se non all’esito di una verifica negativa dei presupposti di operatività del meccanismo di cui all’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
Ne discende l’illegittimità derivata del provvedimento di applicazione della misura straordinaria, e quindi il relativo annullamento, tanto anche dal punto di vista della denunciata carenza di motivazione in ordine alla rappresentazione dei necessari presupposti normativi di applicabilità dell’istituto nel caso di specie.

EDILIZIA PRIVATAAncora di recente qualificata giurisprudenza di primo grado ha confermato che "in materia di annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”.
Invero, come è noto, la giurisprudenza ha tracciato uno spartiacque –proprio in materia di titoli edilizi– in punto di esercizio dell’autotutela, ed ha condivisibilmente ritenuto che laddove l’errore in cui è incorsa l’amministrazione procedente fosse stato indotto dalla condotta dell’istante (e non rileva se tale condotta fosse dolosa o semplicemente colposa, preordinata ovvero incolpevole) le complesse valutazioni di interesse pubblico, sottese in via di regola all’esercizio dei poteri di autotutela, non fossero necessarie (anche perché non vi sarebbe nessun affidamento qualificato da tutelare).
Il principio, è stato esposto con chiarezza in una recente decisione che nell’affermare il principio di diritto secondo cui se il permesso di costruire è stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa rappresentazione della realtà materiale, la p.a. è doverosamente tenuta ad esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto stesso ha chiarito che l’insegnamento giurisprudenziale prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità della p.a. in subiecta materia si azzera vanificando sia l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare sia il tempo trascorso, e ciò si verifica quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà, sicché -anche tenuto conto dell'’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241 e ss.mm. (statuente che “…Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”)- vanno disattese le doglianze di carattere formale/procedimentale prospettate.
Questa Sezione, ancor prima, aveva espresso il convincimento a tenore del quale “allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”.
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4.1. Invero, muovendo per le già chiarite ragioni dall’esame del ricorso in appello n. 4785/2012, in ordine logico appare prioritaria la disamina delle censure esaminabili.
4.2. A tale proposito si evidenzia che parte appellata:
   a) non ha proposto appello incidentale avverso i capi di sentenza a sé sfavorevoli;
   b) costituendosi in data 31.07.2012 ha dichiarato genericamente di volere riproporre i motivi non esaminati dal Tar, non riproponendone il contenuto, né indicando quali essi fossero;
   c) per costante giurisprudenza (tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4897) nel processo amministrativo l’esame dei motivi di primo grado assorbiti è consentito al giudice d’appello solo se è vi è stata la loro riproposizione dalla parte interessata, con la specifica indicazione delle censure che intende siano devolute alla cognizione del giudice di secondo grado, all’evidente fine di consentire a quest’ultimo una compiuta conoscenza delle relative questioni e, alle controparti, di contraddire consapevolmente sulle stesse; di conseguenza un rinvio, ove indeterminato, alle censure assorbite ed agli atti di primo grado che le contenevano, senza precisazione del loro contenuto, sarebbe inidoneo ad introdurre nel giudizio d’appello i motivi in tal modo evocati, trattandosi di formula insufficiente a soddisfare l’onere di espressa riproposizione;
   d) non ravvisando il Collegio motivi per discostarsi da tale orientamento, è evidente che l’atto di costituzione del 31.07.2012 è inidoneo a riproporre dette censure assorbite e che pertanto l’unico profilo devoluto alla cognizione del Collegio è rappresentato dall’atto di appello proposto dal Comune.
5. Esso è fondato in quanto:
   a) si deve muovere dal giudicato formatosi proprio sui capi rimasti inoppugnati della detta sentenza, laddove il Tar ha stabilito che è rimasta accertata l’esistenza di un falso presupposto di fatto posto a base della concessione originariamente rilasciata annullata in autotutela dal Comune con il provvedimento impugnato;
   b) l’esistenza di tale falso presupposto, aveva ingenerato l’errore del Comune che aveva rilasciato l’atto ampliativo, e l’errore era stato indotto dalla parte originaria istante;
   c) la sentenza è contraddittoria ed errata, in quanto:
      - muoveva dal convincimento, a più riprese affermato, che l’atto di autotutela dell’Amministrazione si fondasse su un caposaldo fattuale e giuridico corretto, in quanto la concessione ottenuta si fondava su un presupposto insussistente, e, quindi, su un dato falsamente rappresentato al Comune (il termine “falsamente” è qui utilizzato in termini oggettivi, non rilevando se ciò sia avvenuto per errore, superficialità, dolo etc.);
      - tanto ciò è vero che ha respinto tutte le censure proposte dalla originaria parte ricorrente di primo grado tese ad “aggredire” tale profilo motivazionale (e, si ripete, non essendo state articolate censure incidentali avverso detti capi della sentenza essi integrano giudicato);
      - sennonché, pur muovendo da tali presupposti (e, per incidens, pur non costituendo tali profili oggetto di esame diretto, il Collegio non può fare a meno di rilevare la persuasività, in parte qua, del ragionamento del Tar), ha poi del tutto obliato il condivisibile principio, ancora di recente affermato da qualificata giurisprudenza di primo grado (TAR Toscana, sez. III, 27.05.2015, n. 825), secondo il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”.
5.1. Invero, come è noto, la giurisprudenza ha tracciato uno spartiacque –proprio in materia di titoli edilizi– in punto di esercizio dell’autotutela, ed ha condivisibilmente ritenuto che laddove l’errore in cui è incorsa l’amministrazione procedente fosse stato indotto dalla condotta dell’istante (e non rileva se tale condotta fosse dolosa o semplicemente colposa, preordinata ovvero incolpevole) le complesse valutazioni di interesse pubblico, sottese in via di regola all’esercizio dei poteri di autotutela, non fossero necessarie (anche perché non vi sarebbe nessun affidamento qualificato da tutelare).
Il principio, è stato esposto con chiarezza in una recente decisione (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 01.12.2014, n. 2969) che nell’affermare il principio di diritto secondo cui se il permesso di costruire è stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa rappresentazione della realtà materiale, la p.a. è doverosamente tenuta ad esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto stesso ha chiarito che (cfr. ex plurimis anche TAR Puglia, Lecce, sez. I, 04.04.2006, n. 1831) l’insegnamento giurisprudenziale prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità della p.a. in subiecta materia si azzera vanificando sia l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare sia il tempo trascorso, e ciò si verifica quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà, sicché -anche tenuto conto dell'’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241 e ss.mm. (statuente che “…Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”)- vanno disattese le doglianze di carattere formale/procedimentale prospettate.
Questa Sezione, ancor prima, (Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 39) aveva espresso il convincimento a tenore del quale “allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa” (v. capi da 2.1. a 3 da intendersi richiamati nel presente elaborato) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2016 n. 3735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'interesse pubblico all'eliminazione dell'atto illegittimo è da considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele, erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo imputabile non già all'autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'amministrazione…”.
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Il contestato annullamento in autotutela, intervenuto circa tre anni e otto mesi dopo l’avvenuto rilascio del permesso a costruire, a differenza di quanto ritiene l’appellante non può considerarsi tardivo.
In primo luogo, il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, sulla base del principio “tempus regit actum”, non può trovare applicazione nella fattispecie in discussione, che riguarda un provvedimento adottato nel 2012.
Semmai, come il Comune non manca di segnalare, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine -ragionevole- entro il quale la Regione può annullare provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012.
In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado.
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... per la riforma della sentenza 23.05.2013 n. 2724 del TAR CAMPANIA–NAPOLI - SEZ. VIII,  resa tra le parti, concernente annullamento d’ufficio di permesso di costruire e ordine di ripristino dello stato dei luoghi;
...
6.4.1. Quanto al motivo dedotto sub V), imperniato essenzialmente su eccesso di potere per carenza di motivazione, omessa ponderazione degli interessi in gioco, esorbitanza del provvedimento di annullamento rispetto alle finalità sue proprie e tardività del disposto annullamento d’ufficio, anzitutto, come si è accennato sopra al p. 6.3., nel caso di rilascio di un permesso a costruire fondato su una rappresentazione non veritiera dello stato di fatto da parte del richiedente, appare evidente la sussistenza di una situazione permanente “contra ius”, nella quale la preminenza dell’interesse pubblico è tale per cui non occorre una specifica ed esplicita motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto, da contemperare con l’interesse privato, all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
L’interesse pubblico alla eliminazione dell’atto illegittimo va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica: conf., su fattispecie analoghe, riguardanti proprio annullamenti d’ufficio di concessioni edilizie, le sentenze Cons. Stato n. 3150 del 2012 e n. 6554 del 2004, alle quali si rinvia anche ai sensi degli articoli 74 e 88, comma 2, lett. d), del cod. proc. amm..
Bene quindi la sentenza impugnata:
- ha richiamato la giurisprudenza per la quale l'interesse pubblico all'eliminazione dell'atto illegittimo è da considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele, erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo imputabile non già all'autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'amministrazione…” (cfr. sent. appellata, p. 4.2.); e
- ha rilevato che il Comune, “nel disporre l'avversato annullamento d'ufficio, ha espressamente evidenziato che il De Iu., con la richiesta di realizzazione del parcheggio pertinenziale pervenuta in data 06.06.2007, prot. n. 6367, che ha prodotto il rilascio del permesso di costruire commissariale del 02.10.2008, ha, tra l'altro, dichiarato 'libera' l'area interessata, producendo un'erronea rappresentazione dello stato di fatto preesistente al rilascio dell'atto autorizzativo edilizio"; stato dei luoghi contrassegnato, come si è detto, da ingenti opere di sbancamento e di fondazione già eseguite.
A fronte di (dette opere), ha proseguito il Tar, “il ricorrente, nella domanda di permesso di costruire prot. n. 6367 del 06.06.2007, ha infedelmente o erroneamente rappresentato l'area di sedime come 'libera', così inducendo in errore l'amministrazione procedente circa la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 ai fini dell'applicabilità del regime derogatorio in materia di parcheggi pertinenziali…”.
Inoltre, il contestato annullamento in autotutela, intervenuto circa tre anni e otto mesi dopo l’avvenuto rilascio del permesso a costruire (anche se pare corretto ricordare che l’avviso di avvio del procedimento è stato comunicato al De Iu. alla fine del mese di marzo del 2012), a differenza di quanto ritiene l’appellante non può considerarsi tardivo.
In primo luogo, il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, richiamato dal signor De Iu. nella memoria conclusiva, sulla base del principio “tempus regit actum”, non può trovare applicazione nella fattispecie in discussione, che riguarda un provvedimento adottato nel 2012.
Semmai, come il Comune non manca di segnalare, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine -ragionevole- entro il quale la Regione può annullare provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012.
In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado (cfr., sulla ragionevolezza del tempo, di circa quattro anni –gennaio 2009/marzo 2005- entro il quale è stato disposto l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire assentito in modo illegittimo, la già citata sentenza Cons. Stato, sez. IV, n. 3150 del 2012).
Il profilo di censura attinente alla omessa analisi della possibilità di adottare atti diversi dall’annullamento in via di autotutela (ad esempio, la convalida), sembra poi travalicare i limiti del controllo giudiziale di legittimità demandato a questo giudice amministrativo sconfinando nel merito delle opzioni riservate all’autorità amministrativa.
6.4.2. Con riguardo ai profili di censura sviluppati con il VI motivo di appello:
- sulla omessa segnalazione, nella nota comunale del 28.03.2012 recante avviso di avvio del procedimento di annullamento, del profilo (di motivazione del provvedimento finale) relativo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi, con la conseguente affermata violazione degli articoli 7 e 10-bis della l. n. 241 del 1990, va condiviso il rilievo svolto nella sentenza di primo grado, al p. 5.1., laddove viene rilevato che “in sede di comunicazione di avvio del procedimento di annullamento d'ufficio, l'interessato era stato… reso adeguatamente avveduto della ipotizzata inconfigurabilità dell'area di intervento come 'libera' e delle logiche implicazioni della eventuale comprova di un simile assunto rispetto alla contrastante rappresentazione dello stato dei luoghi fornita con la domanda di permesso di costruire, prot. n. 6367, del 06.06.2007…il contenuto ellittico e fuorviante di quest'ultima è emerso, in maniera chiara e oggettiva, nel corso dell'analitica interlocuzione procedimentale col De Iu., la quale, siccome riguardata in funzione non solo delle prerogative difensive dell'interessato, ma anche dell'apporto collaborativo di quest'ultimo a favore dell'amministrazione, e in quanto ancorata ai canoni di celerità ed efficacia dell'azione amministrativa, ostativi ad una sua degenerazione in un interminabile e sterile confronto dialettico tra privato e autorità, è legittimamente approdata al definitivo e irreversibile convincimento di insussistenza del requisito di 'area libera' ex art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 e, quindi, di infedeltà, erroneità o insufficienza della difforme prospettazione offerta dal ricorrente”;
- quanto infine all’omesso coinvolgimento del commissario “ad acta” nel procedimento conclusosi con l’annullamento in via di autotutela del “permesso commissariale” dell’ottobre del 2008, è il caso di ribadire, con il Tar, che "il commissario “ad acta”, “nominato con decreto del presidente della Provincia di Caserta, prot. n. 41/pres., dell'08.07.2008 ha agito, ai sensi degli artt. 21, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 e 39 della l.r. Campania n. 16/2004, in qualità di organo sostitutivo del competente organo comunale…in virtù (della) disciplina (di cui al menzionato art. 39 della l.r. n. 16 del 2004, nella formulazione applicabile, “ratione temporis”, alla fattispecie in esame), il menzionato commissario ad acta non ha esercitato poteri diversi, concorrenti o supplementari (ad es., consultivi o di controllo), ma si è surrogato in quelli spettanti alla competente (e inadempiente) amministrazione comunale.
Di conseguenza, è da ritenersi che quest'ultima, nel riappropriarsi integralmente e nel riesercitare a pieno titolo i predetti poteri in sede di autotutela, abbia prescisso legittimamente -e cioè senza ledere il principio del 'contrarius actus'- dalla partecipazione procedimentale dell'organo sostitutivo promanante il provvedimento abilitativo posto in annullamento
” (così, in modo testuale, la sentenza impugnata, al p. 5.2.).
In conclusione, l’appello va respinto, con le rettifiche e le precisazioni motivazionale svolte sopra, e l’impugnata sentenza di rigetto del ricorso di primo grado va confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2016 n. 3403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di repressione degli abusi edilizi non è inciso dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 che prevede il limite temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto illegittimo affinché questo possa essere annullato.
E' inammissibile il ricorso presentato per l'annullamento del decreto adottato dal Presidente della Provincia avente ad oggetto "annullamento della Concessione Edilizia n. 60/2001 del Comune di Noale" per carenza d’interesse ed anche per un altro profilo distinto ed autonomo:
- nell’astratta ipotesi di accoglimento del ricorso il comune sarebbe obbligato in prima persona ad annullare la concessione edilizia di cui sopra in relazione al vincolo di accertamento (di non assentibilità dell’intervento) contenuto nella citata sentenza del Consiglio di Stato ed alla sussistenza del potere del comune di repressione degli abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico dell’edilizia.
Il potere di repressione degli abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico dell’edilizia non è inciso dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 che prevede il limite temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto illegittimo affinché questo possa essere annullato.
L’art. 27 del testo unico dell’edilizia costituisce infatti norma speciale che, in relazione alla necessaria tutela del territorio ed alla natura permanente degli illeciti edilizi, quand’anche assentiti da titolo edilizio, impone che sia assicurata in ogni tempo la vigilanza sul territorio con la conseguenza che sussiste in ogni tempo il potere del comune di annullare le concessione edilizie illegittime dallo stesso rilasciate.
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... per l'annullamento del decreto n. 2/2014 adottato dal Presidente della Provincia di Venezia il 14.01.2014 (notificato al Comune di Noale il successivo 19.02.2014), avente ad oggetto "annullamento della Concessione Edilizia n. 60/2001 del Comune di Noale".
...
Il comune di Noale rilasciava a Ma.Pe. e Ma.Pe. la concessione edilizia n. 60 del 31.05.2002 per la demolizione e costruzione di un fabbricato ad uso abitativo in via San Dono in fregio all’argine del fiume Marzenego.
Il Consiglio di Stato con sentenza n. 816 del 2012 ha annullato il decreto in data 11.06.2006 con cui la provincia di Venezia rifiutava di annullare la sopra richiamata concessione edilizia in conclusione a procedimento avviato dal consorzio di bonifica Dese Sile a tutela del rispetto del limite minimo di 4 metri dagli argini per le costruzioni.
Il Consiglio di Stato ha motivato la propria sentenza in relazione alla circostanza che la fascia di rispetto di cui all’art. 133, lett. a), del r.d. n. 368 del 1904 ha carattere assoluto e si applica anche nel caso di demolizione e ricostruzione di edificio esistente, come nel caso di specie e ha dunque riconosciuto che la concessione edilizia assentita dal comune di Noale riguardava effettivamente immobili posizionati all’interno della fascia di rispetto del fiume Marzenego, ha ritenuto quindi che l’intervento non poteva essere assentito e che la concessione edilizia doveva essere annullata.
Il collegio evidenzia che le conseguenze dell’accoglimento del ricorso sarebbero per il comune di Noale di adottare analoghi provvedimenti repressivi degli abusi edilizi (quand’anche assentiti da titolo edilizio) rispetto a quello impugnato e sulla base del secondo comma dell’art. 27 del testo unico dell’edilizia che impone specificamente al comune la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi nel caso di violazione delle norme urbanistiche e delle leggi che impongono l’inedificabilità.
L’atto di appello al Consiglio di Stato della sentenza del Tar Veneto n. 3879 del 2008 era stato notificato anche al comune di Noale che è stato parte nel giudizio di primo grado. Conseguentemente il comune di Noale deve ritenersi vincolato al contenuto della sentenza del Consiglio di Stato.
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso per carenza d’interesse perché:
- è stato già accertato nel separato giudizio che la sopra richiamata concessione edilizia non poteva essere rilasciata;
- il comune di Noale non può agire in giudizio per ottenere l’annullamento di un provvedimento che ha annullato una concessione edilizia che non poteva essere rilasciata ossia non può agire in giudizio per ottenere ciò che è stato espressamente denegato in un distinto giudizio passato in giudicato (divieto del ne bis in idem).
Tale motivo è da solo sufficiente per la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.
Fermo quanto sopra il ricorso è inammissibile per carenza d’interesse anche per un altro profilo distinto ed autonomo: nell’astratta ipotesi di accoglimento del ricorso il comune di Noale sarebbe obbligato in prima persona ad annullare la concessione edilizia di cui sopra in relazione al vincolo di accertamento (di non assentibilità dell’intervento) contenuto nella citata sentenza del Consiglio di Stato ed alla sussistenza del potere del comune di repressione degli abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico dell’edilizia.
Il potere di repressione degli abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico dell’edilizia non è inciso dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 che prevede il limite temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto illegittimo affinché questo possa essere annullato.
L’art. 27 del testo unico dell’edilizia costituisce infatti norma speciale che, in relazione alla necessaria tutela del territorio ed alla natura permanente degli illeciti edilizi, quand’anche assentiti da titolo edilizio, impone che sia assicurata in ogni tempo la vigilanza sul territorio con la conseguenza che sussiste in ogni tempo il potere del comune di annullare le concessione edilizie illegittime dallo stesso rilasciate.
È allora evidente che nessun interesse deriverebbe al comune di Noale dall’accoglimento del ricorso perché lo stesso comune dovrebbe poi procedere comunque ad annullare la concessione edilizia già annullata dalla provincia di Venezia.
Il ricorso è in conclusione inammissibile per carenza d’interesse (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.07.2016 n. 861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' noto che anche in materia di edilizia il potere di autotutela debba essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i loro effetti.
Neppure è invocabile l’eccezionale ampliamento che in materia edilizia la giurisprudenza riconosce alle amministrazioni, laddove reputa adeguata la dimostrazione dell’interesse pubblico ulteriore in caso di erronea rappresentazione dei fatti da parte dell’istante.

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In linea di diritto, è noto che anche in materia di edilizia il potere di autotutela debba essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i loro effetti (cfr. ex multis Tar Liguria n. 292/2015, Tar Lecce 2153/2013 e Tar Latina 215/2014).
Neppure è invocabile l’eccezionale ampliamento che in materia edilizia la giurisprudenza riconosce alle amministrazioni, laddove reputa adeguata la dimostrazione dell’interesse pubblico ulteriore in caso di erronea rappresentazione dei fatti da parte dell’istante (cfr. ancora di recente Tar Lazio n. 11660/2015).
Nella specie, al contrario, l’erronea (eventuale) valutazione è imputabile direttamente ad atti della stessa amministrazione, a partire dai certificati di destinazione urbanistica, mentre nessuna erronea rappresentazione dei luoghi e dei fatti è contestata a parte ricorrente (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.01.2016 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In via di principio, l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.

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Il Collegio non ignora il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui il provvedimento di annullamento di ufficio di un permesso di costruire, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato.
Anche nell’ipotesi di annullamento di un permesso di costruire va, cioè, riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto alla mero ripristino della legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Ciò premesso in via di principio, il Collegio nemmeno ignora l’indirizzo, altrettanto consolidato, in base al quale, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in autotutela a fronte della falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell’adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest’ultimo imputabile non già all’autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione.
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... per l'annullamento DISPOSITIVO N. 26 del 25/05/2012: ANNULLAMENTO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE DEL 02.10.2008.
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4. Dall’accertata infondatezza del primo motivo di impugnazione, così come dianzi scrutinato, discende logicamente l’infondatezza anche del quarto, a tenore del quale l’amministrazione resistente non avrebbe effettuato un’adeguata ponderazione né fornito un’adeguata motivazione circa la prevalenza dell’interesse pubblico al ritiro del titolo abilitativo edilizio annullato rispetto all’affidamento privato nella sua conservazione, consolidatosi nell’arco temporale trascorso tra il rilascio del predetto titolo e la sua rimozione in autotutela.
4.1. In proposito, occorre premettere, in via di principio, che l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
Venendo, dunque, alla fattispecie in esame, il Collegio non ignora il costante orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15), secondo cui il provvedimento di annullamento di ufficio di un permesso di costruire, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato.
Anche nell’ipotesi di annullamento di un permesso di costruire va, cioè, riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto alla mero ripristino della legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
4.2. Ciò premesso in via di principio, il Collegio nemmeno ignora l’indirizzo, altrettanto consolidato, in base al quale, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in autotutela a fronte della falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell’adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest’ultimo imputabile non già all’autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6554; sez. IV, 24.12.2008, n. 6554; 28.05.2012, n. 3150; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 03.11.2003, n. 2366; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2005, n. 686; TAR Liguria, Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027; 17.11.2006, n. 1550; 02.11.2011, n. 1509; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.02.2006, n. 2026; Salerno, sez. II, 24.01.2013, n. 171; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 05.02.2008, n. 129; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 04.03.2004, n. 115; 10.05.2005, n. 299; 10.04.2006, n. 238; 18.10.2008, n. 643).
Ebbene, sotto tale profilo, rileva che il Comune di Caiazzo, nel disporre l’avversato annullamento d’ufficio, ha espressamente evidenziato che il De Iu., “con la richiesta di realizzazione del parcheggio pertinenziale pervenuta in data 06.06.2007, prot. n. 6367, che ha prodotto il rilascio del permesso di costruire commissariale del 02.10.2008, ha, tra l’altro, dichiarato ‘libera’ l’area interessata, producendo un’erronea rappresentazione dello stato di fatto preesistente al rilascio dell’atto autorizzativo edilizio”.
Ed invero, –come acclarato retro, sub n. 3– a fronte di ingenti opere di sbancamento e di fondazione già eseguite, il ricorrente, nella domanda di permesso di costruire, prot. n. 6367, del 06.06.2007 ha infedelmente o erroneamente rappresentato l’area di sedime come ‘libera’, così inducendo in errore l’amministrazione procedente circa la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 ai fini dell’applicabilità del regime derogatorio in materia di parcheggi pertinenziali.
4.3. A quanto sopra è appena il caso di soggiungere che il preteso legittimo affidamento privato nella conservazione del titolo abilitativo edilizio conseguito è escluso, altresì, dalla circostanza che il De Iu. abbia ritardato l’ultimazione dei lavori assentiti, al punto da richiederne la proroga triennale con istanza del 30.01.2012, prot. n. 1117, evidentemente in attesa dell’esito del giudizio definito con sentenza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n. 1986 del 04.04.2012 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.4); esito processuale che, ove favorevole, gli avrebbe procurato la reviviscenza delle concessioni edilizie n. 188/1999, n. 78/2001 e n. 3/2003, abilitative alla costruzione di un edificio commerciale ed annullate d’ufficio con provvedimento del 20.07.2005, n. 77 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.2 e 2.3), in luogo della meno mabita ‘soluzione di ripiego’, costituita dalla riconversione delle strutture realizzate in parcheggio pertinenziale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2013 n. 2724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAFondandosi l’impugnato provvedimento su una motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di ciascun profilo su cui esso risulta incentrato avrebbe potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio del medesimo.
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... per l'annullamento DISPOSITIVO N. 26 del 25/05/2012: ANNULLAMENTO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE DEL 02.10.2008.
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2.1. Già in rito, il motivo in esame si rivela inammissibile per carenza di interesse.
Al riguardo, occorre premettere che il gravato annullamento d’ufficio risulta incentrato sui seguenti nuclei motivazionali (riproduttivi dei rilievi di cui alla nota della Regione Campania, prot. n. 400919, del 20.05.2011), tra loro distinti ed autonomi:
   a) inosservanza delle misure –impartite dall’art. 6, comma 7-bis, della l.r. Campania n. 19/2001– a salvaguardia dell’originario equilibrio arboreo dell’area sovrastante il parcheggio;
   b) mancata registrazione dell’“atto di vincolo” del parcheggio ad uso pertinenziale di immobili adiacenti;
   c) previsione di soli 7 posti auto riservati a parcheggio pertinenziale, in luogo dei 9 assentiti col permesso di costruire del 02.10.2008;
   d) insussistenza del carattere libero dell’area di intervento, richiesto dall’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001, ai fini del rilascio del permesso di costruire gratuito anche in deroga agli strumenti urbanistici;
   e) violazione delle distanze legali tra edifici contigui (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.10, 2.11 e 2.12).
Non vale ad elidere la superiore configurazione a guisa di motivazione plurima la circostanza –addotta da parte ricorrente– che il testo dell’adottato provvedimento in autotutela, dopo l’enunciazione dei singoli rilievi riportati sub a, b, c, d ed e, comunicati al De Iu. ai sensi dell’art. 7 della l. n. 241/1990, e dopo l’illustrazione delle controdeduzioni dell’interessato a ciascuno di essi, si appunti, in conclusione, sull’implausibilità di queste ultime, quanto, segnatamente, al requisito di “area libera” ex art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001, senza riconsiderare gli ulteriori profili in contestazione.
Una simile circostanza non denota, di per sé sola, il superamento –alla luce delle controdeduzioni presentate dal ricorrente– delle ragioni di annullamento d’ufficio, preannunciate con la nota del 28.03.2008, prot. n. 3506 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.11) e riportate sub a, b, c ed e, esigendosi, all’uopo, una espressa, ancorché succinta, indicazione di condivisibilità delle anzidette controdeduzioni.
Essa sta, piuttosto, a significare il carattere preminente ed assorbente della inconfigurabilità dell’area di intervento come “libera”, anche in considerazione delle connesse e risolutive implicazioni in termini falsa o erronea rappresentazione dello stato dei luoghi e, quindi, di interesse pubblico ‘in re ipsa’ alla rimozione del titolo abilitativo rilasciato in base ad esse.
Ciò posto, in rapporto al rilievo di insussistenza del carattere libero dell’area di intervento (d) quelli concernenti l’inosservanza delle misure a salvaguardia dell’originario equilibrio arboreo dell’area sovrastante il parcheggio (a), la mancata registrazione dell’“atto di vincolo” del parcheggio ad uso pertinenziale di immobili adiacenti (b), la previsione di soli 7 posti auto riservati a parcheggio pertinenziale, in luogo dei 9 assentiti (c) e la violazione delle distanze legali tra edifici contigui (e), costituiscono nuclei motivazionali del tutto autosufficienti e si rivelano, quindi, singolarmente suscettibili di sorreggere, di per sé, il disposto annullamento d’ufficio del titolo abilitativo edilizio emesso in favore del De Iu..
Fondandosi, l’impugnato provvedimento del 25.05.2012, n. 26 su una motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di ciascun profilo su cui esso risulta incentrato avrebbe potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio del medesimo (cfr., in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2882; 08.06.2007, n. 3020; sez. V, 28.12.2007, n. 6732; sez. IV, 10.12.2007, n. 6325; TAR Lazio, Roma, sez. II, 16.01.2007, n. 268; 28.03.2007, n. 2723; 04.05.2007, n. 3995; 02.07.2007, n. 5892; 01.08.2007, n. 7401; 03.10.2007, n. 9718; sez. I, 08.01.2008, n. 73; sez. II, 28.01.2008, n. 608; 10.03.2008, n. 2165; 23.04.2008, n. 3505; 14.05.2008, n. 4127; 01.07.2008, n. 6346; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 26.06.2007, n. 6252; Salerno, sez. II, 26.09.2007, n. 1918; Napoli, sez. III, 02.10.2007, n. 8744; sez. VIII, 05.03.2008, n. 1102; Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 313; Napoli, sez. I, 17.06.2008, n. 5943; sez. III, 09.09.2008, n. 10065; sez. V, 05.08.2008, n. 9774; sez. VII, 06.08.2008, n. 9861; sez. I, 07.10.2008, n. 13437; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30.11.2007, n. 6532; TAR Liguria, Genova, sez. II, 21.06.2007, n. 1188; sez. I, 29.11.2007, n. 1988; sez. II, 11.04.2008, n. 543; 26.11.2008, n. 2041; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 09.11.2007, n. 2032; 27.10.2008, n. 1847; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 17.06.2008, n. 314).
Una simile implicazione demolitoria risulta preclusa dalla circostanza che il disposto annullamento d’ufficio è rimasto inoppugnato nella parte motivazionale in cui rileva l’inosservanza delle misure a salvaguardia dell’originario equilibrio arboreo dell’area sovrastante il parcheggio (a), la mancata registrazione dell’“atto di vincolo” del parcheggio ad uso pertinenziale di immobili adiacenti (b), la previsione di soli 7 posti auto riservati a parcheggio pertinenziale, in luogo dei 9 assentiti (c) e la violazione delle distanze legali tra edifici contigui (e).
Le superiori considerazioni inducono, pertanto, a ravvisare la carenza di interesse di parte ricorrente all’accoglimento e, quindi, a predicare l’assorbimento del profilo di censura proposto avverso il nucleo argomentativo incentrato sulla inconfigurabilità dell’area di intervento come “libera” (d); nucleo argomentativo rispetto al quale rimangono distinti ed autonomi gli altri, riportati retro sub a, b, c ed e, e risultati inoppugnati (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.06.2007, n. 3020)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2013 n. 2724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA a) Giova rammentare che, a norma dell'art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti … tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici”; e che, a norma dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001, “la realizzazione di parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi, è soggetta a permesso di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti”.
Sia in base all’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 sia in base all’art. 6, comma 2, l.r. Campania n. 19/2001, ma nei limiti da essi dettati, i parcheggi pertinenziali possono, dunque, realizzarsi anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
   b) Con riferimento al’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, la giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle agevolazioni da esso contemplate, in considerazione delle finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente previste.
Ha, conseguentemente, statuito che la costruzione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, rimane assoggettata al regime urbanistico delle nuove costruzioni fuori terra.
La deroga agli strumenti urbanistici è, pertanto, da reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche–, se non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei fabbricati.
   c) Alla stregua di tali principi, e considerato che il ricorrente risulta aver progettato una nuova costruzione (almeno) parzialmente fuori terra, quest’ultima non avrebbe potuto sottrarsi ai parametri ed ai vincoli imposti dal vigente strumento urbanistico sull’area di intervento (ivi compresa la destinazione d’uso).
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In conclusione, la realizzazione di parcheggi pertinenziali è da intendersi possibile in deroga agli strumenti urbanistici solo nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre per le nuove costruzioni fuori terra –come, appunto, nel caso di specie–, anche se destinate a parcheggio, è da intendersi indefettibilmente imposta l’osservanza delle prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici vigenti.
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... per l'annullamento DISPOSITIVO N. 26 del 25/05/2012: ANNULLAMENTO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE DEL 02.10.2008.
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2.2. Fermo restando quanto osservato retro sub n. 2.1, il motivo di ricorso in scrutinio è infondato nel merito per le seguenti ragioni.
2.2.1. Innanzitutto, il fatto –rimarcato sia nella nota della Regione Campania, prot. n. 400919, del 20.05.2011 sia nel provvedimento del responsabile del Settore Politiche del territorio del Comune di Caiazzo n. 26 del 25.05.2012, ed emergente dalla documentazione fotografica allegata alla consulenza tecnica di parte depositata in giudizio dal ricorrente il 19.10.2012, nonché rimasto sostanzialmente incontestato ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.– che la struttura assentita con l’annullato permesso di costruire del 02.10.2008 fuoriuscisse dal piano di campagna (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.10) induce ad escludere in radice la sua riconducibilità al regime di favor dettato dal legislatore nazionale e regionale in materia di parcheggi.
   a) In proposito, giova rammentare che, a norma dell'art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti … tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici”; e che, a norma dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001, “la realizzazione di parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi, è soggetta a permesso di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti”.
Sia in base all’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 sia in base all’art. 6, comma 2, l.r. Campania n. 19/2001, ma nei limiti da essi dettati, i parcheggi pertinenziali possono, dunque, realizzarsi anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
   b) Con riferimento al’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, la giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle agevolazioni da esso contemplate, in considerazione delle finalità della legge e in relazione al suo carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori delle ipotesi normativamente previste (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2006, n. 1608).
Ha, conseguentemente, statuito che la costruzione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, rimane assoggettata al regime urbanistico delle nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2004, n. 1662; 29.03.2006 n. 1608; sez. IV, 11.11.2006, n. 6065; 26.09.2008 n. 4645; TAR Lazio, Roma, sez. I, 16.04.2008, n. 3259).
La deroga agli strumenti urbanistici è, pertanto, da reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano realizzati nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi, i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche–, se non vengano a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei fabbricati.
   c) Alla stregua di tali principi, e considerato che il ricorrente risulta aver progettato una nuova costruzione (almeno) parzialmente fuori terra, quest’ultima non avrebbe potuto sottrarsi ai parametri ed ai vincoli imposti dal vigente strumento urbanistico sull’area di intervento (ivi compresa la destinazione d’uso, la cui violazione ha già dato luogo all’annullamento d’ufficio delle concessioni edilizie n. 188/1999, n. 78/2001 e n. 3/2003 ed è stata giurisdizionalmente acclarata da TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 02.04.2007, n. 3051 e da Cons. Stato, sez. IV, 04.04.2012, n. 1986: cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.4).
   d) Come statuito da TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 08.06.2009, n. 3134; sez. VIII, 11.03.2010, n. 1383; 26.10.2011, n. 4945, a conclusioni diverse non può pervenirsi sulla base del dettato dell’art. 6 della l.r. Campania n. 19/2001.
La richiamata disciplina legislativa regionale ha dilatato, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto il profilo oggettivo, la portata dell'art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 (che consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali ai soli proprietari e non oltre l'area pertinenziale esterna al fabbricato).
In particolare, ha previsto il rilascio di un permesso di costruire gratuito per la costruzione, anche in deroga agli strumenti urbanistici, di parcheggi in aree (in origine) non pertinenziali, ma con un rapporto di pertinenzialità da determinarsi in una fase successiva (e cioè dopo la realizzazione delle opere e mediante l’acquisto dei box da parte dei soggetti abilitati), ed anche in favore di soggetti non proprietari di immobili e in mancanza di una immediata contiguità spaziale fra l’area destinata a parcheggio e gli immobili da quest’ultimo serviti (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV 30.04.2004, n. 7695).
Ha, quindi, consentito di individuare gli acquirenti dei posti auto, in regime di pertinenzialità, anche dopo la realizzazione dei parcheggi, contemplando, a tale scopo, la sottoscrizione di apposito atto d’obbligo.
Tuttavia, nonostante la dilatazione dei casi previsti, pure dalla descritta disciplina legislativa regionale devono ritenersi confermati i principi fondamentali delle disposizioni contenute nell’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, che ammette, bensì, la costruzione di parcheggi pertinenziali in deroga agli strumenti urbanistici, ma solo nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati preesistenti.
Siffatto approdo ermeneutico deve essere tenuto fermo, anche se il non perspicuo tenore dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 potrebbe suggerire, ove disancorato dal contesto normativo di riferimento, una diversa lettura, volta a ritenere possibile la costruzione di manufatti da destinare a parcheggi, in deroga agli strumenti urbanistici, in tutte le “aree libere, anche non di pertinenza”, non solo al piano terra o nel sottosuolo, ma anche in elevazione rispetto al piano di campagna.
Ed invero, una simile interpretazione ‘estensiva’ si pone in contrasto con i generali principi interpretativi, in virtù dei quali una disciplina normativa deve essere riguardata nel complesso delle sue disposizioni, nel contesto sistematico di riferimento e secondo canoni di logica.
Non può, quindi, prescindersi dalla considerazione che nei settori dell’urbanistica e dell’edilizia –come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale (sent. 01.10.2003, n. 303; 19.12.2003, n. 362; 28.06.2004, n. 196)– i poteri legislativi regionali sono riconducibili ad una competenza di tipo concorrente in tema di “governo del territorio”, ai sensi dell'art. 117, comma 3, Cost.. Conseguentemente, le Regioni possono regolamentare il settore con proprie leggi nel rispetto dei principi fondamentali posti dalle leggi statali.
Nella materia di parcheggi pertinenziali, la Regione Campania ha esercitato –come visto– il suo potere legislativo, e lo ha fatto nel rispetto dei principi dettati dalla normativa statale di riferimento, anche quando si è trattato di operare l’illustrato ampliamento, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo, della portata dell’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989. Tale ampliamento è, infatti, risultato conforme ai principi sulla pertinenzialità posti dalla legge statale; cosicché nelle correlative previsioni non è ravvisabile alcuna violazione dell'articolo 117 Cost. (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.03.2009, n. 1595).
Lo stesso non potrebbe dirsi, ove si accreditasse la cennata interpretazione ‘estensiva’ dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001, volta a ritenere assentibile tout court la realizzazione di immobili da destinare a parcheggi, in deroga agli strumenti urbanistici, in tutte le “aree libere, anche non di pertinenza”.
Siffatto approccio ermeneutico non determinerebbe (solo) l’ampliamento (certamente possibile) della disciplina di favore dettata dalla normativa statale, per agevolare (comunque entro limiti precisi) la realizzazione di parcheggi pertinenziali, ma determinerebbe lo svuotamento dei principi fondamentali contenuti nella l. n. 122/1989 –oltre che nel d.p.r. n. 380/2001–, ponendosi, quindi, in contrasto col quadro normativo di riferimento delle leggi in materia.
Una lettura dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001, che ritenesse possibile l’edificabilità, in deroga ad ogni prescrizione dettata dagli strumenti urbanistici e in qualsiasi zona del territorio comunale, di nuovi fabbricati fuori terra destinati a parcheggio finirebbe, infatti, per collidere insanabilmente con tutte le disposizioni di legge volte a garantire un armonioso ed ordinato sviluppo del territorio, le quali prevedono, a tal fine, il rispetto degli atti di programmazione urbanistica e di regolazione dell’attività edilizia.
Oltre a collidere con le disposizioni contenute nella legislazione statale di riferimento ed anche con la legislazione in materia urbanistica ed edilizia dettata dalla stessa Regione Campania, essa risulterebbe, peraltro, anche illogica: non è ipotizzabile che il legislatore regionale abbia inteso indiscriminatamente derogare ad ogni norma contenuta negli strumenti urbanistici (sulle destinazioni, anche pubbliche, delle aree, sui volumi, sulle superfici, sulle altezze, sulle distanze tra fabbricati, ecc.) per consentire la realizzazione in aree libere di nuove costruzioni da destinare a parcheggio, posponendo, quindi, una pluralità di interessi pubblici e privati rilevanti e tutelati dall’ordinamento ad un interesse che, seppur rilevante, non può, di certo, essere considerato sempre prioritario.
Giova, infine, soggiungere che la lettura ‘estensiva’ dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 potrebbe incentivare facili abusi, rendendo possibile la presentazione di istanze di sanatoria concernenti opere realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio (originariamente non destinate a parcheggio pertinenziale e solo surrettiziamente ‘adattate ex post a tale funzione) e nemmeno conformi ai vigenti strumenti urbanistici, con grave nocumento all’attività di vigilanza sull’uso del territorio esercitata dalle amministrazioni comunali.
   e) In conclusione, alla stregua di quanto dianzi osservato, l’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 deve interpretarsi –sul piano letterale e in coerenza col quadro sistematico di riferimento– nel senso che la locuzione “ovvero”, introduttiva dell’espressione “nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi”, assolva una funzione non già disgiuntiva (a guisa di sinonimo di ‘oppure’), bensì esplicativa e specificativa (a guisa di sinonimo di ‘ossia’) della precedente espressione “in aree libere”.
In questa plausibile prospettiva esegetica, la realizzazione di parcheggi pertinenziali è da intendersi possibile in deroga agli strumenti urbanistici solo nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre per le nuove costruzioni fuori terra –come, appunto, quella divisata dal De Iu.–, anche se destinate a parcheggio, è da intendersi indefettibilmente imposta l’osservanza delle prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici vigenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2013 n. 2724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.11.2016

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DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: Irragionevoli le Linee Guida sul Rup (13.11.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tutti gli errori della Corte dei conti sul fondo del salario accessorio (12.11.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: S. Cacace, La disciplina dei contratti pubblici dopo il d.lgs. n. 50 del 2016: motivi di esclusione e criteri di selezione (08.11.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Motivi di esclusione e criteri di selezione nella nuova disciplina comunitaria e nazionale. Introduzione. 2. I requisiti di ordine generale. 3. La capacità tecnica ed economica nella disciplina comunitaria. 4. La qualificazione nel decreto legislativo n. 50/2016: il sistema SOA ed i ratings. 5. La qualificazione nel decreto legislativo n. 50/2016: gli appalti di servizi e forniture. 6. Il documento di gara unico europeo ed il soccorso istruttorio.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Nuovo Codice dei contratti pubblici. A che punto siamo (ANCE di Bergamo, circolare 14.11.2016 n. 199).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 16.11.2016, "Direttive tecniche per la predisposizione, l’approvazione e l’attuazione dei progetti di gestione degli invasi" (deliberazione G.R. 24.10.2016 n. 5736).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 15.11.2016, "Settimo aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 10.11.2016 n. 11401).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli operatori economici sulla definizione dell’ambito soggettivo dell’art. 80 del d.lgs. 50/2016 e sullo svolgimento delle verifiche sulle dichiarazioni sostitutive rese dai concorrenti ai sensi del d.p.r. 445/2000 mediante utilizzo del modello di DGUE (Comunicato del Presidente del 26.10.2016 - www.anticorruzione.it).

APPALTI: Linee Guida n. 4, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici (determinazione 26.10.2016 n. 1097 - www.anticorruzione.it).

APPALTI: Linee guida n. 3, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni» (determinazione 26.10.2016 n. 1096 - www.anticorruzione.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Gli obblighi di pubblicazione nelle procedure di affidamento.
DOMANDA:
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 37 d.lgs. 33/2013 e 29 del d.lgs. 50/2016 sono soggetti a pubblicazione obbligatoria nella sezione "Amministrazione Trasparente" tutti gli atti relativi alle procedure di affidamento di servizi, lavori e forniture di beni.
Si chiede se siano compresi anche gli atti a valle delle procedure di appalto e quindi i contratti, siano esse scritture private che atti pubblici, o se con tale espressione il legislatore intenda riferirsi ai soli atti legati alle procedure di evidenza pubblica.
RISPOSTA:
Il recente decreto legislativo 97/2016 di “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza", correttivo della legge 190/2012 e del decreto legislativo 33/2013, in vigore dallo scorso 23 giugno, ha introdotto modifiche in tema di obblighi di pubblicazione concernenti i contratti di lavori, forniture e servizi.
L’art. 31 del d.lgs. 97/2016 ha modificato l’articolo 37 del d.lgs. 33/2013 “Obblighi di pubblicazione concernenti i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, che ora prevede -salvo quanto previsto dall’articolo 9-bis e gli obblighi di pubblicità legale- la pubblicazione: dei dati previsti dall’articolo 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n. 190: CIG, Struttura proponente, Oggetto del bando, Procedura di scelta del contraente, Elenco degli operatori invitati a presentare offerte, Aggiudicatario, Importo di aggiudicazione, Tempi di completamento dell’opera, servizio o fornitura, Data di ultimazione lavori, servizi o forniture, Importo delle somme liquidate degli atti e le informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (art. 29): “tutti gli atti delle amministrazioni relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture; gli atti relativi alle procedure per l’affidamento; il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all’esito delle valutazioni dei requisiti speciali; la composizione della commissione giudicatrice e i curricula dei suoi componenti; i resoconti della gestione finanziaria dei contratti al termine della loro esecuzione".
La pubblicazione dei contratti non è prevista, se non nei limiti degli elementi sopra specificati (corrispettivo, durata, ecc.) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso ad atti contenenti dati sensibili da parte di un consigliere comunale.
Il consigliere comunale ha diritto di ottenere tutte le notizie e le informazioni in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del suo mandato. L'esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi è soddisfatta dall'obbligo, gravante sull'amministratore locale, del segreto nei casi specificamente indicati dalla legge.
In ogni caso, l'amministrazione destinataria dell'istanza, cui spetta entrare nel merito della valutazione della richiesta, è tenuta a rispettare i principi di pertinenza e non eccedenza dei dati personali trattati e, quando la richiesta di accesso riguarda dati sensibili, la loro indispensabilità, consentendo nei singoli casi l'accesso alle sole informazioni che risultano indispensabili per lo svolgimento del mandato.

Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di accesso agli atti avanzata da un consigliere comunale e relativa ad un procedimento disciplinare riguardante un dipendente dell'Ente, atteso che tra la documentazione richiesta vi è anche un certificato medico.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, prevede che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto 'di ottenere dagli uffici, rispettivamente del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificatamente determinati dalla legge'.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio.
Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l'acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
[1]
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è quindi esercitato riguardo ai dati utili per l'esercizio del mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata all'interesse all'accesso del titolare di tale funzione pubblica, legittimandolo all'esame e all'estrazione di copia dei documenti che contengono le predette notizie e informazioni.
[2]
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini dell'esercizio del mandato.
Tale diritto, pur essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali, in quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate all'esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di attività di controllo politico-amministrativo ecc.). Il diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto riferito ad atti palesemente inutili ai fini dell'espletamento del mandato.
[3]
In relazione all'esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi, la giurisprudenza
[4] ha rilevato che tale necessità, per quanto riguarda il diritto di accesso di cui dispongono i consiglieri comunali, è soddisfatta dall'articolo 43, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge: 'Essendo, infatti, i consiglieri tenuti al segreto nel caso di atti riguardanti la riservatezza di terzi, non sussiste, all'evidenza, alcuna ragione logica perché possa essere loro inibito l'accesso ad atti riguardanti i dati riservati di terzi.' [5]
Tuttavia, come evidenziato dal Garante per la protezione dei dati personali,
[6] nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, quali sono quelli contenuti in un certificato medico, [7] 'l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'articolo 65, comma 4, lettera b), del Codice, [8] è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità [...] che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del consigliere comunale'.
Il Garante ha, altresì, affermato che 'l'amministrazione destinataria dell'istanza, cui spetta entrare nel merito della valutazione della richiesta -eventualmente sindacabile dal giudice amministrativo- essendo l'unico soggetto competente ad accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa del consigliere all'ottenimento delle informazioni ratione officii, è tenuta a rispettare i principi di pertinenza e non eccedenza dei dati personali trattati e, quando la richiesta di accesso riguarda dati sensibili, la loro indispensabilità, consentendo nei singoli casi l'accesso alle sole informazioni che risultano indispensabili per lo svolgimento del mandato (artt. 11 e 22 del Codice)'.
[9]
Ferme le considerazioni sopra svolte, ribadita l'ampia accezione del diritto di accesso del consigliere, come disciplinato dall'articolo 43 del decreto legislativo 267/2000 e delineato nella sua portata dalla giurisprudenza, sarà cura dell'Amministrazione vagliare l'indispensabilità e pertinenza per l'esercizio del munus del consigliere del certificato medico facente parte della documentazione afferente il procedimento disciplinare in riferimento, ai fini di una valutazione circa la sua ostensibilità.
Per completezza espositiva, si riporta, da ultimo, un parere espresso dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
[10] che distingue il caso in cui il procedimento disciplinare sia ancora in corso o sia pendente nei confronti del dipendente, da quello in cui questo si sia già concluso. La Commissione ha, infatti, limitato l'inaccessibilità alla prima ipotesi, relativa alla fase procedimentale e in particolare all'attività istruttoria, in cui è stata giustificata l'inaccessibilità temporanea alla documentazione in pendenza del relativo procedimento. In tal caso ha ritenuto sufficiente prevedere il differimento dell'esercizio del diritto di accesso alla fine del relativo procedimento.
Nel caso di procedimenti disciplinari già conclusi, la Commissione non ha, invece, ritenuto giustificata la sottrazione integrale all'accesso dei relativi atti. Infatti, essa ha rilevato l'opportunità di delimitare la fase procedimentale, soggetta alla tutela della riservatezza e quindi inaccessibile per ciò che riguarda i relativi documenti, individuando un momento finale oltre il quale si delinea una fase successiva che può dare luogo a provvedimenti dell'amministrazione da portare a conoscenza del destinatario e che, comunque, non può più ritenersi soggetta all'esigenza di tutela della riservatezza.
[11]
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994, n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei documenti da parte del consigliere spetta 'a qualunque cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono, a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione spettante ratione officii al consigliere comunale'. Più di recente, il principio è stato ripreso e confermato dal TAR Piemonte, sezione II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 5879.
[3] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza del 23.09.2014, n. 2363.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 04.05.2004, n. 2716. Nello stesso senso, tra le altre, TAR Veneto Venezia, sez. I, sentenza del 15.02.2008, n. 385 e TAR Lazio, Latina, sez. I, sentenza del 19.02.2013, n. 171. Si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell'11.12.2013, n. 5931 ove si afferma che. 'Il diritto del consigliere comunale o provinciale di avere accesso, ex art. 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, a tutte le informazioni che siano utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivanti da esigenze di riservatezza o privacy dei terzi, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto. L'art. 43, comma 2 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, prevede infatti che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto nel caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi'.
[5] Certa dottrina (G. Modesti, 'Il diritto di accesso da parte di un consigliere di un ente locale', articolo del 28.03.2007 reperibile sul sito: www.altalex.com) proprio con riferimento al fatto che l'istanza dei consiglieri non può essere disattesa in presenza di un opposto diritto alla riservatezza dei terzi, attesa la funzione del consigliere comunale che gli impone di rispettare il segreto nei casi previsti dalla legge, adduce, tra gli altri, quali esempi di richieste accessibili quelle afferenti 'i procedimenti e provvedimenti disciplinari, la documentazione sanitaria relativa ad un dipendente'.
[6] Relazione annuale 2004, pagg. 19-20, reperibile sul sito internet del Garante.
[7] Ai sensi dell'articolo 4, comma 1, del D.Lgs. 196/2003 per 'dati sensibili' si intendono: '[...] i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale' (art. 4, co. 1, lett. d)).
[8] Si tratta del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, recante 'Codice in materia di protezione dei dati personali'.
[9] Così, Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento del 25.07.2013, n. 369.
[10] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, parere del 22.10.2002.
[11] Su tale aspetto si veda, anche il parere rilasciato dai nostri Uffici del 28.10.2005 (prot. n. 17616)
(26.10.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAStop alla giungla dell'edilizia. Porticato, tettoia, veranda: stesso significato ovunque. In dirittura il decreto con il regolamento tipo: 42 definizioni valide in ogni comune.
Termini come porticato, tettoia o veranda avranno lo stesso significato in tutta Italia, grazie a un glossario con 42 definizioni che renderanno omogenei gli interventi edilizi. Il tutto all'interno di un regolamento edilizio tipo, che sostituirà le oltre 8 mila norme comunali e che sarà suddiviso in due parti: un capitolo dedicato ai principi generali e uno alle disposizioni regolamentari comunali.
Lo prevede la bozza di decreto del ministero delle infrastrutture che mette a punto il regolamento edilizio tipo, previsto nel 2014 dal decreto Sblocca Italia.
Dopo la sigla, ormai imminente, dell'accordo tra Stato, comuni e regioni sui contenuti e sulle modalità di attuazione (l'esame in Conferenza unificata è previsto il 3 ottobre), partirà la vera e propria fase di adeguamento. Le regioni avranno 180 giorni di tempo per recepire il regolamento edilizio tipo e stabiliranno le scadenze a cui i comuni si dovranno attenere per uniformarsi.
L'obiettivo del provvedimento messo a punto dai tecnici del ministro Graziano Delrio è appunto quello di uniformare e semplificare i regolamenti edilizi comunali, secondo un elenco ordinato delle varie parti valevole su tutto il territorio comunale (si veda anche altro articolo in pagina).
Doppio capitolo. Il regolamento edilizio tipo si articolerà in due parti:
- nella prima, denominata «principi generali e disciplina generale in materia edilizia», è richiamata e non riprodotta la disciplina generale dell'attività edilizia operante in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e regionale;
- nella seconda, rubricata «disposizioni regolamentari comunali in materia edilizia», è raccolta la disciplina regolamentare in materia edilizia di competenza comunale, la quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il territorio statale.
La prima parte. La prima parte dei regolamenti edilizi, al fine di evitare inutili duplicazioni di disposizioni nazionali e regionali, dovrà limitarsi a richiamare con apposita formula di rinvio, la disciplina relativa alle materia di seguito elencate, la quale opererà direttamente senza la necessità di un atto di recepimento nei regolamenti edilizi:
- le definizioni uniformi dei parametri urbanistici e edilizi;
- le definizioni degli interventi edilizi e delle destinazioni d'uso;
- il procedimento per il rilascio e la presentazione dei titoli abilitativi edilizi e le modalità di controllo degli stessi;
- la modulistica unificata edilizia, gli elaborati e la documentazione da allegare alla stessa;
- i requisiti generali edilizi (ad esempio servitù militari, accessi stradali e siti contaminati);
- la disciplina relativa agli immobili soggetti a vincoli e tutele di ordine paesaggistico, ambientale, storico culturale e territoriale;
- le discipline settoriali aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia, tra cui la normativa sui requisiti tecnici delle opere edilizie e le prescrizioni specifiche stabilite dalla normativa statale e regionale per alcuni insediamenti e impianti.
Per favorire la conoscibilità della disciplina generale dell'attività edilizia avente diretta e uniforme applicazione, i comuni provvedono alla pubblicazione del link nel proprio sito istituzionale.
La seconda parte. La seconda parte dei regolamenti edilizi, avrà per oggetto le norme comunali che attengono all'organizzazione e alle procedure interne dell'ente nonché alla qualità, sicurezza, sostenibilità delle opere edilizie realizzate, dei cantieri e dell'ambiente urbano, anche attraverso l'individuazione dei requisiti tecnici e integrativi complementari, rispetto alla normativa uniforme richiamata nella prima parte del regolamento edilizio.
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Ma non sarà possibile derogare ai singoli piani regolatori locali.
Regolamento edilizio uniforme, ma neutrale. La sua applicazione non deve spostare di un metro cubo le previsioni dei piani regolatori comunali, comunque si chiamino in giro per l'Italia. L'effetto di invarianza è una scelta obbligata, anche per rispetto alle autonomie locali nella determinazione delle scelte di pianificazione urbanistica del territorio.
Ma vediamo di illustrare la questione.
Lo schema di accordo della Conferenza unificata governo, regioni e comuni sul regolamento edilizio tipo si propone di dare seguito a quanto disposto dall'articolo 4, comma 1-sexies, del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001). Questa norma è stata inserita dal dl 133/2014 e ha aperto la strada all'adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. L'accordo in sede di Conferenza unificata ha valenza in tutta Italia, in quanto è stato dichiarato livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Il regolamento edilizio-tipo, che indica anche i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, dovrà essere adottato dal comuni. La finalità del regolamento-tipo è l'armonizzazione delle definizione dei tipi di intervento, come dei parametri edificatori. L'uniformità del linguaggio e delle definizioni è importantissima per scongiurare una babele semantica, che diventa incertezza delle posizioni giuridiche.
Per verificare se un certo intervento edilizio sia ammesso o meno molto spesso, se non sempre, occorre, infatti, verificare il vocabolario interno dei piani regolatori e delle norme di attuazione dei singoli enti e magari le definizioni cambiano da comune a comune, anche se ubicati in contesti territoriali omogenei. Dalla definizione di volume tecnico o di superficie o di altezza, ad esempio, può dipendere la possibilità edificatoria.
Il testo uniforme rende più semplice prevedere se un intervento sia realizzabile oppure no e a trarne beneficio saranno, in prima battuta, i professionisti chiamati ad asseverare Scia o a valutare la fattibilità di un permesso di costruire. Peraltro l'esigenza di uniformità riguarda anche l'interpretazione e l'attuazione della normativa edilizia, per le quali lo schema di accordo rinvia a linee guida di futura adozione.
In questa cornice una disposizione di massima importanza è quella ora collocata, nella bozza del provvedimento, all'articolo 2, comma 4, ai sensi del quale il recepimento delle definizioni uniformi inderogabili nel regolamento edilizio comunale non comporta la modifica delle previsioni dimensionali degli strumenti urbanistici vigenti, che continuano ad essere regolate dal piano vigente oppure dal piano adottato alla data di entrata di sottoscrizione dell'accordo in sede di conferenza unificata. La clausola neutralizza eventuali possibili effetti sostanziali derivanti dalla semplice adozione del vocabolario unico nazionale.
Il solo recepimento delle definizioni edilizie non può portare effetto di incremento o decremento delle dimensioni edificabili. D'altronde le scelte sul se, quanto e cosa edificare sono appannaggio della strumentazione urbanistica locale e non della normativa statale che stabilisce regole standard sulla produzione delle fonti regolamentari edilizie
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

COMPETENZE PROGETTUALIGeometri,, laurea triennale professionalizzante e abilitante. Obbligatorio, professionalizzante e abilitante.
Queste le caratteristiche principali del percorso di laurea triennale che sarà indispensabile per coloro che avranno intenzione di esercitare la professione di geometra.
Novità contenute nella proposta di legge (Atto Camera n. 4030) a firma della deputata Simona Malpezzi (Pd) che è stata illustrata ieri alla camera alla presenza del presidente del Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati, Maurizio Savoncelli e del presidente dell'ente di previdenza della categoria, Fausto Amadasi (si veda ItaliaOggi di ieri).
Nel corso dell'incontro è emerso come, al fine di rendere il percorso di laurea anche abilitante, il tirocinio professionale semestrale dovrà essere svolto all'interno dei tre anni. Così facendo, una volta avviato il nuovo iter, l'esame di Stato per l'abilitazione alla professione di geometra sarà gradualmente soppresso con del 28.09.2016 conseguente abbattimento dei costi per lo stato.
Soddisfatto della stesura finale del testo, il presidente Savoncelli ad avviso del quale «un percorso di laurea così strutturato contraddistinguerà il geometra nel panorama nazionale delle risorse tecniche professionali a disposizione del mondo economico e della società civile. Il geometra ha rivelato sempre nuove capacità di porsi in modo qualificato nel contesto nazionale e internazionale del mercato del lavoro, il tutto senza trascurare la normativa europea», ha concluso Savoncelli, «il futuro ci impone una formazione universitaria specifica per svolgere la libera professione in ambito transnazionale: è un preciso adempimento richiesto dalla Comunità europea per il 2020» (articolo ItaliaOggi del 29.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, allo studio un testo unico. Codice. La proposta arriverà alla Cabina di regia di Palazzo Chigi: i provvedimenti attuativi saranno organizzati per materia.
Un testo unico che tenga dentro tutte le norme di attuazione del Codice appalti. Per comporre un profilo definito di un quadro che, con l’avanzare dei provvedimenti dell’Anac e del Governo, comincia a farsi particolarmente frammentato.

È questa la novità più importante che verrà fuori dalle riunioni della Cabina di regia di Palazzo Chigi. Il gruppo di lavoro, presieduto dal capo dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio Antonella Manzione, non si occuperà solo della preparazione del correttivo, in calendario per aprile del 2017, ma cercherà anche di affrontare una questione che è emersa in questi primi cinque mesi di applicazione del Dlgs n. 50 del 2016: la difficoltà che gli operatori stanno riscontrando nel seguire l’avanzata della riforma.
L’abbandono del modello del regolamento unico ha portato un effetto collaterale negativo: il moltiplicarsi dei provvedimenti di attuazione e di integrazione del Codice. Sono, in tutto, più di cinquanta, a diversi livelli di avanzamento. I fronti principali riguardano il ministero delle Infrastrutture e l’Autorità anticorruzione. L’Anac, per la sua parte, ha approvato in via definitiva due linee guida (servizi di ingegneria e offerta economicamente più vantaggiosa) ma ne ha altre nove in “cottura”.
Il Mit, invece, ha in preparazione almeno altri dieci provvedimenti, che coinvolgono anche il ministero dell’Economia, i Beni culturali, la Giustizia, la Difesa. Tutti questi testi stanno assumendo le forme più diverse: decreti ministeriali, Dpcm e delibere. Insomma, seguire le novità che riguardano il Codice sta diventando complicato.
Da qui nasce l’idea che arriverà sul tavolo della Cabina di regia di Palazzo Chigi: preparare un testo unico sull’attuazione del Codice, che tenga dentro tutti i provvedimenti approvati a valle della riforma. In questo modo, imprese e professionisti avranno un riferimento certo e aggiornato, oltre che di semplice consultazione, perché sarà organizzato per materia. A questa novità si lavorerà in parallelo al decreto correttivo, da licenziare entro aprile 2017.
Anche se, sul fronte della Cabina di regia, va segnalato qualche ritardo. Dopo la pubblicazione a fine agosto del Dpcm che regola le sue modalità di composizione, il capo dell’ufficio legislativo ha inviato ai molti soggetti indicati dal decreto la richiesta di nominare il rappresentante previsto dalla legge: nella Cabina, infatti, siedono il ministero delle Infrastrutture, l’Economia, le Politiche europee, l’Anac, Regioni e Province autonome, l’Agenzia per l’Italia digitale, autonomie locali e Consip.
Qualcuno di questi, però, non ha ancora indicato il suo rappresentante. L’impasse, comunque, dovrebbe essere superata a breve
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATARegolamento edilizio allo start. Almeno un anno per adottarlo: Regioni e Comuni possono integrarlo.
Urbanistica. Pronto per l’ok in conferenza unificata a ottobre lo schema-tipo definito dalle Infrastrutture
In dirittura d'arrivo il regolamento edilizio unico comunale, il principale strumento di semplificazione promesso dal governo in materia edilizia.
Dopo le ultime limature al testo -con alcuni aspetti sull’entrata in vigore ancora aperti- lo schema di regolamento predisposto dalle Infrastrutture, sarà condiviso in una riunione tecnica convocata per il 3 ottobre, per essere poi calendarizzato, salvo improvvise resistenze dell’ultim’ora, nella prima riunione utile della conferenza unificata.
Pur essendo possibili ancora modifiche, l’impianto e il testo sono consolidati. Lo schema di accordo sul quale Regioni e Comuni saranno chiamati a dare l’intesa prevede 180 giorni di tempo -a partire dalla sottoscrizione dell’accordo in conferenza unificata- entro i quali le Regioni dovranno recepire lo schema di regolamento. A loro volta, ai Comuni vengono concessi altri 180 giorni per adottare il nuovo regolamento edilizio. Il termine di 180 giorni per gli enti locali scatta tacitamente allo scoccare del precedente termine fissato per le Regioni.
Dunque, ci vorrà un anno affinché il nuovo regolamento “atterri” nelle municipalità modificando la vita di cittadini, professionisti, tecnici della Pa, imprese e investitori immobiliari. Ma si tratta di un termine minimo, perché le Regioni, possono -entro i sei mesi a disposizione- intervenire per introdurre norme su materie di loro competenza (con impatto sull’attività edilizia comunale). E in questa occasione possono concedere una ulteriore scadenza agli enti locali per adeguare i loro regolamenti edilizi.
Per questa fase, l’attuale testo non indica scadenze, pertanto -sull’effettiva adozione delle nuove norme- si fa affidamento sulla responsabilità istituzionale delle amministrazioni. A parte l’incognita dei tempi di attuazione, anche il concetto di regolamento “unico” rischia di restare un principio cui tendere, ma che molto difficilmente sarà realizzato alla lettera. Non solo perché, come si diceva, le Regioni potranno inserire prescrizioni legate a norme specifiche; ma anche perché gli stessi enti locali potranno aggiungere elementi tecnici, oltre quelli indicati nello schema.
A parte queste incognite, lo schema che sarà presto approvato, segnerà un passo avanti “epocale” verso l'obiettivo della semplificazione. Il motivo è che saranno “estromessi” dai regolamenti edilizi tutti i richiami a norme statali (o a parte di esse) che gli enti locali hanno col tempo recepito nei loro schemi. Il nuovo testo potrà richiamare le norme sovraordinate solo attraverso un allegato che le elenca (allegato “B”).
Il compromesso raggiunto tra potere del legislatore statale e le autonomie territoriali e locali si sostanzia in un documento composto di tre elementi: lo schema vero e proprio; l’allegato “A”, con le 42 definizioni standard; l’allegato “B”, con la lista delle 120 norme statali che incidono sull’edilizia. Quest’ultimo elenco sarà certamente integrato da ciascuna regione.
In base all'accordo, si fanno salve «le previsioni dimensionali degli strumenti urbanistici vigenti, che continuano ad essere regolate dal piano vigente ovvero dal piano adottato alla data di sottoscrizione del presente accordo». Dunque, nessun impatto sulle previsioni di piano per Prg approvati o adottati
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAConteggio calore, la chance del riparto semplificato. Per la delibera in assemblea serve la relazione del tecnico.
Condominio. Gli ultimi passaggi in vista della scadenza del 31 dicembre prossimo.

Anche dopo l’integrazione del Dlgs 102/2014 da parte del Dlgs 141/2016, resta invariata la scadenza del prossimo 31 dicembre per dotare di contabilizzatori del calore gli impianti di riscaldamento centralizzati. Sono stati confermati la precedenza alla contabilizzazione diretta rispetto a quella indiretta e l’obbligo accessorio di termoregolazione in caso di contabilizzazione indiretta.
È anche confermato che in caso di impossibilità tecnica o non convenienza economica l’obbligo non sussiste ma, per evitare la sanzione, queste condizioni devono essere dimostrate da una relazione asseverata di un tecnico.
La prima indicazione operativa è che non cambia nulla di sostanziale dal punto di vista dell’iter di installazione. In effetti, non c’è mai stato alcun motivo ragionevole per ritardare i lavori, e la data di scadenza è stata fissata dalla Commissione Ue quattro anni fa. Chi ha sospeso i lavori potrebbe trovarsi ora in serie difficoltà a rispettare il termine del 31 dicembre prossimo ed esposto al rischio concreto di sanzioni.
È sconsigliabile anche prendere con leggerezza la strada della non convenienza economica. La norme tecnica En 15459, fra l’altro, chiede di considerare il valore residuo degli impianti alla fine del periodo di calcolo. Nel caso classico di impianto a colonne montanti, se si esegue un calcolo su dieci anni (vita dei ripartitori) si dovrà tener conto che dopo quest’arco di tempo le valvole termostatiche hanno ancora metà del valore nominale perché hanno durata di vita di 20 anni.
Il riparto
Circa il criterio di riparto, viene confermato il riferimento di base alla norma Uni 10200.
Il decreto 141/2016 ha aggiunto la facoltà (non l’obbligo) da parte dell’assemblea di adottare un criterio semplificato definito dalla legge, purché ricorrano determinate condizioni che devono essere comprovate dalla relazione asseverata di un tecnico abilitato.
Le possibili condizioni di accesso al “semplificato” sono due:
- la prima possibilità è che non sia applicabile la norma Uni 10200. Attualmente (con la norma Uni 10200:2013) ciò è vero solo per la contabilizzazione indiretta nelle case poco utilizzate (case vacanza e/o parzialmente occupate) in quanto non è determinata la quota di consumo involontario; ma la revisione della 10200 tratterà anche questo caso. A conti fatti, è una condizione che non sarà mai verificata e, tranne casi eccezionali, sarebbe legale ma irragionevole e iniquo applicare una quota a consumo di almeno il 70% in una casa poco abitata;
- la seconda possibilità è che ci siano «differenze di almeno il 50% fra i fabbisogni delle unità immobiliari». A prescindere dall’indeterminazione del criterio (a cosa si riferisce la quota del 50%?) e dal servizio a cui si applica (solo per riscaldamento o anche per acqua calda sanitaria? Insieme o separatamente?), in pratica questa condizione è quasi sempre verificata per il riscaldamento, tranne forse quei pochi casi in cui il tetto e le altre strutture orizzontali esposte siano state coibentate.
Se ricorre almeno una di queste due condizioni, si può adottare il seguente criterio: almeno il 70% (cioè dal 70 al 100%) va ripartito in base agli effettivi consumi volontari, cioè in proporzione alle letture degli apparecchi di contabilizzazione (Ur, unità di ripartizione, o kwh) senza alcuna correzione, neanche, per situazioni sfavorite; mentre il restante (dal 30% fino allo 0) può essere ripartito come desidera l’assemblea.
Operativamente, dopo aver installato la contabilizzazione, l’assemblea deve anche adottare un nuovo criterio di riparto conforme a legge e si trova a un bivio. Può utilizzare la Uni 10200, e allora non cambia nulla rispetto al passato. Altrimenti, deve chiedere a un tecnico abilitato (presumibilmente il progettista della contabilizzazione) di sottoscrivere la relazione asseverata –in cui dichiara che sussistono le condizioni– e poi deliberare di adottare il metodo semplificato, la quota da ripartire in base ai consumi effettivi (dal 70 al 100%) e infine il criterio di riparto del resto.
L’adozione del criterio di riparto semplificato può essere sensata per i classici impianti di riscaldamento a colonne montanti in edifici normalmente abitati, dove il 70% ha un significato statistico valido. Ma porta a risultati iniqui e in contrasto col principio dei consumi effettivi in tutti i casi in cui la quota di consumo volontario scenda sotto il 70% (case poco occupate, acqua calda sanitaria, moltissime reti a zone).
L’effetto è infatti quello di far pagare solo ad alcuni (in base alle letture dei contatori) il consumo di tutti (dispersioni) della rete. Le situazioni reali per cui si finisce in tribunale sono proprio così: conti astronomici ai pochi presenti nell’edificio, per eccesso di quota volontaria. Finora questi ultimi potevano difendersi, ora saranno salassati. Inoltre, nel caso della contabilizzazione diretta, che senso ha imporre una quota fissa per legge o delibera quando risulta dalle letture degli apparecchi?
Ad ogni modo, chi ha già installato i contatori e ripartito i costi secondo quanto previsto dal Dlgs 102/14 e dalla Uni 10200 nella stagione 2015/2016 non deve rifare nulla.
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«Letture», nel cambio va sempre garantita la continuità dei dati. La procedura. Dai quorum al gestore.
In materia di contabilizzazione e termoregolazione, il Dlgs 141/2016 ha apportato sostanziali modifiche al criterio di riparto della spesa del riscaldamento già disciplinata dal Dlgs 102/2014.
In primo luogo, è confermata l’applicazione della norma Uni 10200 (attualmente è in vigore la versione del 2015). Ma è stato introdotto un diverso criterio per la ripartizione della spesa, nel caso in cui nell’edificio vi siano differenze di fabbisogno energetico tra unità immobiliari del condomino superiori al 50 per cento. In questa circostanza il legislatore ritiene infatti che non sia obbligatorio il ricorso alla norma Uni 10200: non c’è però un obbligo di non adozione, ma una facoltà, la cui scelta spetta all’assemblea.
Le nuove disposizioni sono facoltative nei condomini o negli edifici polifunzionali in cui alla data di entrata in vigore delle modifiche (26.07.2016) si sia già provveduto all’installazione dei dispositivi di contabilizzazione (e, dove previsto, di termoregolazione) e alla relativa suddivisione delle spese.
Tutto ciò al fine di non prevedere nuovi oneri per i soggetti che hanno già provveduto in anticipo ad adeguarsi alla normativa. Pertanto, se l’assemblea ha già approvato gli interventi e modificato il criterio di ripartizione in base alla precedente formulazione dell’articolo 9, comma 5, lettera d), del Dlgs 102/2014, non viene imposto alcun obbligo.
Non è necessaria una delibera ad hoc per decidere di non modificare nulla. Sarà sufficiente continuare con le modalità già adottate, sempre che queste fossero conformi alla legge e quindi applicassero in toto la Uni 10200.
Diversamente, l’assemblea potrà valutare se non applicare la norma tecnica. In tal caso, dovrà essere preventivamente dato incarico a un tecnico abilitato affinché, effettuati i calcoli ai sensi delle norme Uni Ts 11300, possa accertare se vi siano le differenze di fabbisogno indicate dal legislatore quale limite. Solo in caso positivo potrà essere modificato il criterio di riparto.
Una volta effettuati i calcoli, occorre però un’ulteriore e successiva delibera. In assenza di chiarimenti, si ritiene che il quorum sia quello previsto dall’articolo 26, comma 5, della legge 10/1991: la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.
Qualche problema potrebbe però verificarsi prossimamente; quando, cioè, l’Uni emetterà un’altra revisione della norma 10200 (il che potrebbe avvenire entro fine 2016 o nei primi mesi del 2017).
L’assemblea potrà decidere anche di affidare a un diverso soggetto il servizio di lettura dei consumi rilevati dai contabilizzatori. Ma c’è bisogno innanzitutto di verificare la durata del contratto e se sia previsto un termine per la comunicazione della disdetta.
Al momento della sottoscrizione del contratto, ci si deve accertare che resti ferma la necessità di garantire la continuità nella misurazione del dato. Sarà anche opportuno verificare –quando viene affidato l’appalto per l’acquisto dei ripartitori– che non vi siano problemi nella gestione del software proprio in caso di sostituzione della società che effettua le letture
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2016).

SEGRETARI COMUNALIPlatea a tutto campo per gli incarichi di dirigente apicale. Riforma Madia. I nuovi vertici.
Alle posizioni organizzative che saranno assunte come dirigenti a tempo determinato con l’articolo 110 del Tuel potranno essere assegnati incarichi di dirigenti apicali? Che conseguenze determina l’inclusione dei dirigenti apicali nella dotazione organica dei singoli Comuni? Perché non viene precisato che a queste figure spettano i compiti di assistenza agli organi di governo? Ci sono margini perché per i dirigenti apicali siano previste sezioni speciali nell’albo dei dirigenti? Come mai i segretari di fascia C, che per diventare dirigenti dovranno sostenere uno specifico percorso selettivo, possono essere chiamati da subito come apicali anche nelle amministrazioni di maggiore dimensione?
Sono queste le principali domande che si pongono i segretari comunali e provinciali sullo schema del decreto attuativo sulla riforma della dirigenza pubblica. È evidente che dietro queste preoccupazioni c’è il timore di un “salto nel buio” e la delusione per l’effettivo esercizio della delega che dispone l’abolizione della figura dei segretari comunali.
A queste preoccupazioni si aggiungono ragioni di ostilità analoghe a quelle che una parte significativa dei dirigenti pubblici nutre nei confronti della riforma. Questa situazione, va detto, mette in ombra le scelte contenute nello schema di decreto con cui sono riprese indicazioni fornite dagli stessi segretari, quali la necessità che alla figura unitaria di vertice burocratico dell’ente siano assegnati compiti di amministrazione attiva, in particolare nella forma del coordinamento, e di controllo interno.
L’Anci Lombardia chiede che i titolari di posizione organizzativa nei piccoli Comuni possano essere nominati dirigenti apicali attraverso il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato ex articolo 110. A questa richiesta sono decisamente ostili i segretari comunali, che vedono in tal modo messo in discussione il proprio ruolo in queste realtà. Si tenga presente che tutto lascia credere che il numero dei dirigenti che si candiderà a partecipare alle selezioni per dirigenti apicali nei piccoli comuni sarà ridotto, sia per le scomodità connesse al doversi recare quotidianamente in realtà periferiche sia per i compiti nuovi che queste figure saranno chiamati a svolgere.
Nel testo attuale la possibilità di affidare l’incarico ai titolari di posizione organizzativa non è prevista, ma il timore che su spinta degli amministratori ciò possa realizzarsi è assai elevato.
Strettamente connessa è la preoccupazione prodotta dalla previsione che i segretari comunali, al pari dei dirigenti, siano assunti «dalle amministrazioni che conferiscono loro incarichi dirigenziali nei limiti delle dotazioni organiche». Si sottolinea che oggi molte amministrazioni non hanno in dotazione organica il segretario e si teme che ciò possa avere conseguenze negative sul conferimento ai segretari degli incarichi di dirigenti apicali. Va aggiunto poi che non c’è menzione, fra i compiti dei futuri dirigenti apicali, dell’assistenza alle riunioni degli organi di governo, che sono oggi un compito tipico dei segretari.
Il nuovo testo dell’articolo 13-bis del Dlgs 165/2001 prevede che con un regolamento possano essere istituite, all’interno degli albi dei dirigenti, «sezioni speciali per le categorie dirigenziali professionali e tecniche». I segretari chiedono che ciò si realizzi per i dirigenti apicali, mettendo in evidenza la peculiarità dei compiti di coordinamento e di direzione.
Tra le prospettive temute c’è poi l’ipotesi che i segretari di fascia C, che non sono inquadrati tra i dirigenti, possano essere chiamati a svolgere i propri compiti anche nei Comuni più grandi
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALa p.a. si fa green. Fondi per l'efficienza energetica. Firmato il decreto. Sul piatto 355 mln per il 2014-2020.
Gli edifici della pubblica amministrazione saranno più efficienti dal punto di vista energetico.

Il via libera ai finanziamenti, che prevedono uno stanziamento di 355 milioni di euro per il periodo 2014-2020, è arrivato con la firma da parte dei ministri dello sviluppo economico Carlo Calenda, dell'ambiente Gian Luca Galletti, delle infrastrutture, Graziano Delrio e dell'economia Pier Carlo Padoan, del decreto che definisce le modalità attuative del «Programma di riqualificazione energetica della p.a. centrale» finalizzato a efficientare almeno il 3% annuo della superficie utile del patrimonio edilizio dello Stato, in ottemperanza a quanto previsto dalla direttiva europea 2012/27.
A seguito dell'emanazione del provvedimento sarà possibile avviare i progetti che sono stati presentati nel biennio 2014-2015 dalle pubbliche amministrazioni centrali per un valore complessivo di 70 milioni di euro.
La lista di interventi ammessi al finanziamento è lunga: si va dall'isolamento termico alla sostituzione di infissi, dalla sostituzione di impianti di climatizzazione invernale alla riqualificazione degli impianti di illuminazione. Non si tratta, tuttavia, di un elenco tassativo perché come precisa la relazione di accompagnamento, è possibile includere anche «interventi di efficienza energetica diversi da quelli elencati purché gli stessi conseguano una riduzione dei consumi di energia».
Saranno finanziabili le spese, comprensive di Iva, strettamente connesse alla realizzazione degli interventi.
Le proposte di intervento, nelle forme previste dall'art. 5, comma 3 del dlgs 102/2014, dovranno essere trasmesse, esclusivamente in formato digitale, alla «Direzione generale per il mercato elettrico, le rinnovabili e l'efficienza» del ministero dello sviluppo economico, oppure tramite Pec all'indirizzo dgmereen.div07@pec.mise.gov.it. Le proposte dovranno essere trasmesse entro e non oltre il 30 giugno di ogni anno.
Gli interventi che riguardano contemporaneamente la riqualificazione dell'involucro e degli impianti tecnici e che garantiscono un risparmio energetico rispetto ai consumi annuali precedenti pari ad almeno il 50% saranno qualificati come «progetti esemplari» e potranno beneficiare di una priorità di finanziamento nella graduatoria fino ad un ammontare di spesa massimo del 20% delle risorse annualmente disponibili.
Il coordinamento e monitoraggio dello stato di avanzamento del programma sarà attribuito alla cabina di regia Mise-ministero dell'ambiente per l'efficienza energetica (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVICassazione, una circolare boccia le sentenze-fiume. Niente pronunce con sfoggio di diritto Avanza la redazione su moduli standard.
Il vademecum. Dal presidente Canzio gli input su come sfoltire le 107mila pendenze.

Un invito a smetterla con le sentenze-fiume, ma soprattutto con quelle pronunce di ampio e documentato sfoggio del diritto, ma di limitata efficacia pratica. Aumenta lo stock dei processi giacenti. E la Cassazione corre ai ripari dettando un vademecum per la redazione delle sentenze.
Lo mette nero su bianco il primo presidente Giovanni Canzio col decreto 14.09.2016 n. 136 diffuso ai consiglieri. Decreto che prende innanzitutto atto della crescita delle pendenze che ormai sono a quota 107.000, frutto di una durata media dei procedimenti del tutto irragionevole (3 anni e 5 mesi per le sezioni ordinarie; 5 anni e 5 mesi per la sezione tributaria; 1 anno e 8 mesi per la Sesta sezione, quella chiamata a “scremare” i giudizi”).
Allora, nell’assenza (almeno per ora) di misure più incisive, attese invano nel recente decreto legge sul pensionamento dei vertici della Cassazione stessa (si veda l’intervento pubblicato sul Sole 24 Ore di ieri), a muoversi è stato lo stesso Canzio nella convinzione «che le modalità di redazione dei provvedimenti possono costituire uno degli strumenti utili per consentire alla Corte di svolgere il proprio ruolo, sia mediante la chiarezza argomentativa delle decisioni, in primo luogo di quelle a valenza nomofilattica, sia mediante la differenziazione delle tecniche motivazionali».
Tanto più poi che questo tema ricorre da tempo in atti normativi, la riforma del processo civile (legge n. 69 del 2009), in progetti del ministero della Giustizia che, anche su questo punto, ha messo in campo un gruppo di lavoro, in protocolli magistrati avvocati (intesa Cassazione-Cnf del 17.12.2015).
A rafforzare ancora l’opportunità di un intervento c’è poi il fatto, sottolinea il decreto, che una parte maggioritaria dei procedimenti non richiede un intervento nomofilattico (ergo, per assicurare l’uniformità nell’applicazione del diritto): quelli che richiedono una pronuncia sul vizio di motivazione, quelli in cui la denuncia di vizi di legittimità si risolve nella prospettazione di una diversa valutazione del merito della controversia, quelli in cui la soluzione comporta l’applicazione di principi consolidati.
E allora, raccomanda Canzio, il “peso” in termini di esigenza di unità del diritto deve essere individuato e reso evidente; per tutti gli altri provvedimenti, in numero maggioritario appunto, vanno adottate tecniche più snelle di scrittura delle motivazioni. Così, l’esposizione dei fatti di causa può anche mancare del tutto, quando questi emergono dalle ragioni della decisione e quella dei motivi di ricorso omessa quando la censura risulta dallo stesso tenore della risposta della Corte.
Più praticamente le istruzioni invitano i consiglieri delle sezioni civili, analogamente a quanto sperimentato nel settore penale, a utilizzare, con aiuto del Ced della Corte, tecniche di redazione delle sentenze su moduli standard per specifiche questioni, siano queste ultime di natura processuale o sostanziale. Gli stessi moduli possono poi essere utilizzati, come parte delle motivazioni, nella redazione di sentenze più complesse.
Attenzione poi, ricorda la circolare, che la capacità di sintesi del magistrato anche attraverso la motivazione semplificata nella redazione dei provvedimenti giudiziari rappresenta un indice di valutazione del magistrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.201).

ATTI AMMINISTRATIVI: Cassazione, sentenze snellite. Motivazione semplificata e modelli-tipo di decisione. Decreto del primo presidente della Corte Canzio per uscire dall'emergenza ritardi.
Sentenze della Cassazione con motivazione semplificata, conformi a modelli-tipo e anche componibili, con moduli preconfezionati. E i giudici saranno valutati per la loro capacità di scrivere sentenze snelle.
La Cassazione ha il fiato corto e, sommersa da cascate di ricorsi, cerca di rimanere a galla cambiando il modo di scrivere le sentenze.
Con 30 mila ricorsi nuovi ogni anno, la giustizia è in cronico ritardo. Eppure bisogna fare in fretta, intervenendo dove si può.
Quindi: selezione dei ricorsi, facendo emergere quelli in cui la Corte è chiamata a esprimere un principio di diritto; argomentazioni ridotte all'essenziale; alt a divagazioni e concetti non direttamente collegati alla decisione; per i ricorsi senza problemi di interpretazione della legge (ma solo vizi di motivazione della pronunce di merito) la sentenza deve essere ridotta all'osso, con minuscola o nessuna esposizione dei fatti e dei motivi di ricorso enunciati dalle parti.

Il protocollo sulla stesura sintetica delle motivazioni arriva dal primo presidente della suprema corte, Giovanni Canzio, che, con il decreto 14.09.2016 n. 136, ha dettato alcune disposizioni per garantire chiarezza delle sentenze e tempi brevi di definizione dei processi al Palazzaccio.
Vediamo cosa cambia.
Primo punto: le sentenze devono essere chiare.
La Cassazione deve dire come si interpreta una norma e questo al fine di garantire l'applicazione uniforme in tutta Italia.
Questo significa che i singoli passaggi devono essere collegati tra loro e con il dispositivo: non ci devono essere motivazioni subordinate o formulazioni incidentali o pezzi fuori tema su questioni diverse e i richiami di altre sentenze devono essere precisi (da indicare gli estremi delle sentenze citate).
Secondo punto: bisogna spingere sull'acceleratore (per una sentenza di Cassazione si aspetta dai tre a cinque anni).
Le misure, a questo fine, sono diverse. Primo, distinguere i casi in cui la Cassazione deve dire quale sia la giusta interpretazione di una norma: questo aspetto deve risultare dal testo della sentenza e nell'oggetto dell'intestazione e la sentenza deve indicare il principio di diritto e spiegare come ci si arriva.
Poi, per i casi in cui la Cassazione deve valutare la logicità della motivazione della pronuncia di merito, si deve tagliare l'esposizione dei fatti di causa (fino a eliminarla se i fatti sono descritti in altra parte della sentenza) e non si devono dedicare pagine apposta alla elencazione dei motivi di ricorso.
Ci sono, ancora, provvedimenti particolarmente semplici e per questi la Cassazione elaborerà moduli su questioni specifiche sulla base di orientamenti consolidati: si tratta di pacchetti preconfezionati da sistemare nelle sentenze. Magari bastano a risolvere il caso e allora sarà sufficiente un veloce «copia e incolla» da un data base informatico. Oppure saranno un pezzo già pronto di una motivazione più estesa. In ogni caso si potrò fare più in fretta.
Peraltro ci vorrà sempre la sensibilità del magistrato per scegliere la tecnica redazionale commisurata alla complessità delle questioni.
Il presidente della Cassazione accompagna queste disposizioni con l'invito ai presidenti delle singole sezioni della Cassazione a predisporre provvedimenti tipo. I magistrati dovranno, poi, seguire corsi di formazione per apprendere tecniche di redazione semplificata. Infine i presidenti di sezione devono tenere conto, in sede di predisposizione del rapporto informativo relativo a ciascun magistrato, della capacità di redigere sentenze in forma sintetica, anche mediante motivazione semplificata. E il numero delle sentenze redatte dai consiglieri della sezione in forma semplificata deve essere contato ogni tre mesi e comunicato al primo presidente.
Parte ora una fase sperimentale per la stesura dei moduli giuridici per la composizione delle sentenze brevi. Peraltro non è la prima volta che la Cassazione si occupa di come devono scrivere i magistrati. Con la decisione n. 11508 del 03.06.2016, per esempio, la Suprema corte ha scritto il vademecum per i giudici di merito: anche qui esposizione succinta dei fatti di causa e niente ripetizioni (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

ENTI LOCALIEntra in vigore oggi il T.u. sulle partecipate.
Entra in vigore oggi, 23 settembre, il Testo unico in materia di partecipate (dlgs 175/2016). E inizia a decorrere la tabella di marcia delle scadenze che gli enti locali e le società dovranno rispettare per adeguarsi al decreto.
Entro il 23.03.2017 (sei mesi dall'entrata in vigore) dovrà essere approvata la delibera consiliare di revisione straordinaria delle partecipazioni detenute dagli enti locali. Adempimento, questo, obbligatorio anche in assenza di partecipazioni.

A ricordarlo è l'Anci che proprio in vista dell'entrata in vigore del T.u. ha predisposto un manuale operativo, integralmente scaricabile sul sito internet www.anci.it, al fine di offrire ai comuni un primo quadro di analisi e orientamento.
Nel testo del manuale, oltre alle note di lettura delle singole disposizioni del provvedimento, tutti i soggetti interessati possono trovare un pratico scadenzario dei vari adempimenti a carico dei comuni e degli amministratori delle società partecipate nonché un fac-simile di deliberazione del consiglio comunale per il piano di razionalizzazione previsto dall'articolo 24 del dlgs.
L'alienazione delle partecipazioni non in regola con il T.u. dovrà essere completata entro il 23.03.2018 (un anno dall'approvazione della delibera di revisione straordinaria), mentre a decorrere dal 2018 scatterà la razionalizzazione periodica che gli enti dovranno compiere con cadenza annuale.
Molti gli adempimenti anche a carico delle società. Entro il 23.03.2017 le società dovranno adeguarsi alle disposizioni del Testo unico e in particolare a quelle concernenti: il divieto dei dipendenti dell'ente controllante di essere amministratori e la onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti delle società controllanti che siano anche amministratori delle controllate.
Sempre entro il 23.03.2017 dovrà essere completata la ricognizione del personale in servizio per individuare eventuali eccedenze. L'elenco del personale in eccesso dovrà essere trasmesso alle regioni a cui spetterà gestire le procedure di mobilità (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

ENTI LOCALIBressa: in arrivo la legge su unioni e fusioni.
«Abbiamo pronta da un po' di mesi un'ipotesi di legge per favorire le unioni e le fusioni dei comuni», nel contempo bisogna mettere a regime il sistema economico delle vecchie province, «lavorando su strumenti finanziari per garantire servizi».

Lo ha sottolineato il sottosegretario agli affari regionali e autonomie, Gianclaudio Bressa, in Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale nel corso di un'audizione sulla finanza delle province.
«È iniziato in questi giorni», ha spiegato Bressa, «il confronto istituzionale con i comuni e le aree vaste, e il dialogo continuerà anche nelle prossime settimane in vista della legge di Stabilità, ma è del tutto evidente che dopo le annate decisamente straordinarie del 2015 e del 2016, per il 2017 sarà indispensabile mettere il sistema delle vecchie province a regime, lavorando sugli strumenti finanziari necessari per garantire i servizi a cui sono deputate».
In ogni caso Bressa ha sottolineato come per il 2016 la situazione del comparto province sia «di sostanziale equilibrio da un punto di vista delle entrate e delle uscite». Tutto questo grazie al decreto legge enti locali (dl 113/2016) che ha consentito di sostenere il taglio di 900 mila euro previsto per l'anno in corso, grazie all'erogazione di fondi aggiuntivi per la gestione dei 130 mila km di strade provinciali e degli oltre 5 mila istituti superiori. Inoltre, per far fronte ai fabbisogni è stata determinata una spesa «efficientata» di 2,4 miliardi necessari per garantire l'adempimento delle funzioni fondamentali.
«Ora però è necessario creare automatismi che stabilizzino la vita di questi enti», ha auspicato il sottosegretario, «soprattutto rispetto all'esito, che auspico positivo, del referendum confermativo. In caso di vittoria del sì infatti il tema delle attuali fonti di finanziamento delle province (Rc auto, Ipt, Tefa) rimane un problema aperto e da risolvere».
Bressa ha infine ammesso che la legge Delrio ha bisogno di un intervento di manutenzione legislativa «da incentrare soprattutto sulla governance delle province, sulla necessità di depoliticizzare le elezioni degli organi di governo, mettendo la governance nelle mani dei sindaci, e di responsabilizzarli non solo rispetto alle materie gestite, ma anche rispetto alla possibilità di variare le dimensioni dell'area vasta».
«Per questo il criterio dell'unione di comuni, a cui si lavora con una legge che sarà pronta dopo il referendum, costituirà strumento di grande utilità nella futura governance degli assetti territoriali», ha concluso il sottosegretario (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

TRIBUTI: Non profit, l'esenzione parziale Imu non costituisce un aiuto di stato. È il principio affermato dal tribunale Ue nella decisione sul recupero dell'Ici.
L'esenzione parziale Imu per gli enti non profit e il pagamento proporzionale rapportato all'utilizzo dell'immobile per le attività commerciali non costituiscono aiuti di Stato. Inoltre, gli enti non traggono alcun vantaggio per la loro attività commerciale rispetto alle imprese commerciali per il fatto che fruiscono dell'esonero parziale dal pagamento dell'imposta.

Così si è espresso il tribunale dell'Unione europea con le due sentenze emanate il 15 settembre scorso, con le quali ha respinto i ricorsi presentati contro la decisione della Commissione Ue, escludendo il recupero dell'Ici per le rate arretrate non pagate dagli enti ecclesiastici (si veda ItaliaOggi del 16.09.2016)
In primo luogo, rilevano i giudici europei, la normativa Imu «si applica solamente a enti che non possono essere considerati imprese ai fini dell'applicazione del diritto dell'Unione». Infatti, non fruiscono dei benefici fiscali «le attività che, per loro natura, si pongono in concorrenza con quelle di altri operatori del mercato che perseguono uno scopo di lucro».
Del resto, per il tribunale dell'Unione, «la legislazione italiana precisa che, in caso di utilizzazione promiscua di un immobile, è necessario calcolare il rapporto proporzionale dell'uso commerciale dell'immobile e applicare l'Imu alle sole attività economiche». Il fatto, poi, che un ente non commerciale abbia diritto all'esenzione parziale per una frazione dell'immobile, perché svolge al contempo attività economiche e non economiche, «non gli attribuisce alcun vantaggio quando esso esercita un'attività economica in quanto impresa».
Mentre per l'esenzione Ici l'immobile doveva avere una destinazione esclusiva, la disciplina Imu, che si applica anche alla Tasi, dà diritto all'esenzione anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista. L'agevolazione si applica solo sulla parte nella quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia identificabile. La parte dell'immobile dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta in catasto e la rendita produce effetti a partire dal 01.01.2013.
Nel caso in cui non sia possibile accatastarla autonomamente, l'agevolazione spetta in proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve risultare da apposita dichiarazione. Anche se è oltremodo difficoltoso individuare all'interno di uno stesso immobile, con un'unica rendita, la parte destinata a attività commerciali. Quindi nei casi in cui non possa essere frazionato, perché non è possibile individuare una parte che abbia autonomia funzionale e reddituale, è demandato al contribuente il compito di fissarne le proporzioni e certificare quale sia quella destinata a attività non commerciali. Per l'esenzione parziale contano la superficie e il numero dei soggetti che utilizzano le unità immobiliari per attività miste, commerciali e non commerciali.
In particolare, è necessario fare riferimento allo spazio, al numero dei soggetti nei confronti dei quali vengono svolte le attività con modalità commerciali o non commerciali e al tempo durante il quale l'immobile è destinato a un determinato uso. Se viene svolta un'attività diversa da quelle elencate dalla norma solo per un periodo dell'anno, per calcolare il tributo occorre conteggiare i giorni durante i quali l'immobile ha questa destinazione.
Va posto in rilevo, però, che le disposizioni sull'Imu non sono applicabili anche all'Ici per l'esenzione degli immobili posseduti dagli enti non commerciali. L'evoluzione della norma che riconosce l'agevolazione per una parte dell'immobile non può avere effetti retroattivi. Lo ha stabilito la Corte di cassazione (sentenza 4342/2015), che ha respinto al mittente l'istanza di esonero parziale per la vecchia imposta comunale relativamente a un immobile destinato a attività sanitaria.
Per i giudici di legittimità l'esenzione Ici era limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma in forma non commerciale. L'esenzione Imu e Tasi, invece, spetta se sugli immobili vengono svolte attività didattiche, ricreative, sportive, assistenziali, culturali e via dicendo con modalità non commerciali, anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVILa firma elettronica «certifica» la forma scritta. Il nuovo Cad. Nota del Consiglio nazionale del Notariato.
Numerose importanti novità di impatto civilistico, specialmente in tema di documento informatico, forma scritta e copie di atti, sono contenute nella legge di riforma del Codice dell’amministrazione digitale (Cad) contenuta dal decreto legislativo 26.08.2016, n. 179, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 settembre scorso.

Una prima lettura di questi aspetti è stata effettuata in una breve nota del Consiglio nazionale del Notariato diffusa ieri.
Il documento informatico
Il decreto legislativo 179/2016 introduce anzitutto una nuova nozione del concetto di «documento informatico», volta a salvaguardare la specificità del documento giuridicamente rilevante rispetto alla documentazione elettronica in generale.
Infatti, se qualsiasi contenuto (immagine, suono, testo, video anche in forma multimediale) può essere oggetto di rappresentazione digitale e, quindi, fruibile informaticamente e trasmissibile in via telematica, non di meno occorre distinguere tra oggetti che, per la loro forza rappresentativa, possono essere annoverati tra le prove documentali e quelli che invece rimangono in un ambito giuridicamente irrilevante.
Inoltre, nell’ambito dei documenti informatici giuridicamente rilevanti, è possibile ulteriormente distinguere:
- i documenti informatici contenenti rappresentazioni e riproduzioni che non si risolvono in un testo grafico;
- i documenti informatici contenenti un testo che sono diversamente disciplinati a seconda che siano privi di sottoscrizione o se siano sottoscritti con un qualche tipo di firma elettronica.
Forma scritta e firma elettronica
La nuova normativa attribuisce il valore di forma scritta al documento informatico sottoscritto con firma elettronica, a differenza della vecchia formulazione (sicuramente più equilibrata, secondo il Consiglio nazionale del Notariato), che lasciava al giudice libera valutazione sull’idoneità del documento sottoscritto con firma elettronica a integrare il requisito della forma scritta.
Infatti, all’interno del perimetro della firma elettronica rientrano varie fattispecie, molto diverse fra loro per caratteristiche tecniche, a cui non può essere attribuita la medesima valenza giuridica, per il solo fatto di non rientrare nelle più specifiche categorie di firma avanzata, digitale, qualificata.
Rimane, comunque, invariata, come nel testo previgente, la necessità di utilizzare la firma qualificata o digitale per i contratti per i quali la forma scritta è richiesta a pena di nullità.
In definitiva, all’interno del perimetro della «forma scritta», in cui ci si ritrova tutte le volte che sia presente un qualunque tipo di sottoscrizione elettronica, è in concreto il tipo di firma utilizzato che determina la valenza giuridica del documento. Nel caso di utilizzo di firma elettronica semplice si avrà, però, una sorta di forma scritta “minore” e che non è sufficiente a concludere contratti per cui essa sia richiesta a pena di nullità
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Atti pubblici informatici, niente firme scannerizzate.
Per la firma grafometrica degli atti pubblici informatici non va bene la scansione della sottoscrizione sul foglio di carta.

Lo spiega il Consiglio nazionale del notariato, in un documento diffuso ieri, che illustra le modifiche al Codice dell'amministrazione digitale (dlgs 82/2005) apportate dal dlgs 179/2016.
Il correttivo ha creato problemi interpretativa. Come quello dell'art. 21, c. 2-ter del Cad. La norma prevede che gli atti pubblici redatti su documento informatico sono sottoscritti dalle parti, in presenza del pubblico ufficiale, oltre che con firma digitale o avanzata o qualificata, anche con firma autografa acquisita digitalmente e allegata agli atti.
La questione, interpretativa e pratica, concerne proprio la firma autografa acquisita digitalmente. Nella circolare in commento, innanzi tutto, si sottolinea l'ambiguità della disposizione, per poi passare ad escludere tassativamente che la firma autografa possa essere acquisita con uno scanner. In effetti l'acquisizione della scansione della firma apposta su carta non integra un'ipotesi di firma elettronica.
Inoltre la scansione di per sé non garantisce un collegamento del file con il documento cartaceo. Anzi la scansione non è in grado di rilevare tutti i parametri della sottoscrizione autografa (tratto o forma grafica, pressione, velocità, direzione dei tratti).
La semplice scansione di un documento cartaceo acquisita informaticamente costituisce, invece, copia per immagine su supporto informatico di documento analogico. Lasciar passare la tesi della sufficienza della scansione rischia, si legge nella circolare di creare un mostro giuridico. Con la perdita delle caratteristiche della firma autografa si preclude definitivamente al firmatario l'esperimento della querela di falso.
Inoltre si avranno documenti pubblici senza firme autentiche: secondo i notai, una vera e propria assurdità. Altro rilievo riguarda lo Spid, il sistema pubblico di identità digitale: i notai precisano che la modalità «point and click», per cui si presume che chi usa le credenziali sia il vero interessato, sarà valida nei rapporti tra cittadino e p.a., ma non nei rapporti tra privati (articolo ItaliaOggi del 22.09.2016).

EDILIZIA PRIVATATerremoti, difendersi è possibile. Professionisti ad hoc per la messa in sicurezza degli edifici. I giovani dottori commercialisti sulle strategie da adottare per contrastare gli eventi sismici.
Sei aprile 2009, 29.05.2012 e 24.08.2016. Tre date recenti, di tre terremoti da non dimenticare, sulle quali ognuno dovrebbe riflettere, dedicando un po' di tempo affinché tragedie simili non si ripetano in un paese che si dice evoluto e al passo con i tempi. Come ha ricordato nella sua omelia il vescovo di Rieti, officiando i funerali delle vittime di Amatrice, «i terremoti esistono da quando esiste la Terra e l'uomo non era neppure un agglomerato di cellule
».
I paesaggi che vediamo e che ci stupiscono per la loro bellezza sono dovuti alla sequenza di terremoti. Le montagne si sono originate da questi eventi e racchiudono in loro l'elemento essenziale per la vita dell'uomo: l'acqua dolce. Senza terremoti non esisterebbero dunque le montagne e forse neppure l'uomo e le altre forme di vita. Il terremoto non uccide. Uccidono le opere dell'uomo». Sì, proprio le opere dell'uomo che, nonostante le statistiche e la consapevolezza di vivere in uno dei paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo (escluse Sardegna e Sud della Puglia), non riesce a costruire case e edifici sicuri che possano proteggere figli e famiglie dalla forza della natura. Quanto sangue dovrà essere versato ancora e quante lacrime dovranno scorrere, affinché si prenda atto di questo?
Si è parlato di «Casa Italia», un vasto programma di messa in sicurezza del paese che non si limita alle mura domestiche, ma va dalla messa in sicurezza delle abitazioni private all'adeguamento di tutti gli edifici pubblici, senza tralasciare le strutture ricettive, i beni archeologici e culturali e gli immobili adibiti a luoghi di lavoro.
Il terremoto ha scosso nuovamente la coscienza politica, come ogni tragedia sa fare, e se non altro ora i riflettori sono accesi sulla prevenzione, appurato che gestire l'emergenza post sisma e ripristinare l'agibilità sismica di edifici danneggiati e/o distrutti a seguito di un terremoto costa almeno 40 volte in più di una programmata messa in sicurezza preventiva.
Ci sono gli incentivi fiscali per il miglioramento sismico, è stato promesso di aumentarli, bene, anzi benissimo, ma in questo momento storico le famiglie italiane hanno bisogno di liquidità per rendere operativi gli interventi, e soprattutto vogliono sapere a chi affidarsi per realizzarli.
Ma chi progetta, dirige e certifica i lavori? Solo professionisti altamente specializzati e inseriti in un apposito elenco, gestito da un soggetto pubblico, che verifichi e monitori i corsi e le esperienze di ogni singolo tecnico; quest'ultimo dovrà garantire la propria attività con aggiornamenti professionali e polizze professionali adeguate.
Questo al fine di evitare che un ingegnere chimico o idraulico, magari in pensione, possa certificare progetti e lavori di miglioramento sismico, non avendo la minima preparazione. E qui ci addentriamo in uno dei problemi che attanaglia le professioni italiane, la specializzazione.
E chi esegue i lavori? Solo imprese specializzate, seguendo lo stesso criterio utilizzato per i professionisti. Non può esistere un miglioramento sismico senza che sia stata maturata esperienza sul campo, e questo lo può capire solo chi un terremoto lo ha vissuto sulla propria pelle.
Come affrontare la mancanza di liquidità? Una proposta semplice ma attuabile.
Il cittadino presenta un progetto, dà delle garanzie allo stato che si fa garante nei confronti delle banche, che potrebbero così erogare fondi, a tassi calmierati, dedicati esclusivamente ai lavori di miglioramento sismico. Tutte le spese per tali lavori dovrebbero essere detraibili.
Come sapere se un edificio è sicuro? Rendere definitivo il testo di legge in corso di approvazione in parlamento sul «Fascicolo del fabbricato», dove dovrebbero essere annotate le informazioni relative all'edificio di tipo identificativo, progettuale, strutturale, impiantistico, ambientale, con l'obiettivo di pervenire a un idoneo quadro conoscitivo a partire, ove possibile, dalle fasi di costruzione dello stesso, e dove andrebbero registrate le modifiche apportate rispetto alla configurazione originaria, con particolare riferimento alle componenti statiche, funzionali e impiantistiche. È necessario inoltre sapere a quale data risale l'ultima certificazione sismica.
Con questo strumento chi acquista conoscerebbe vita, morte e miracoli di ogni edificio, ed eviterebbe brutte sorprese. Vivendo a L'Aquila, ne ho viste di tutti i colori, di buona e di cattiva gestione dei fondi, di professionisti bravi e di altri mediocri, di professionisti improvvisati dotati di solo timbro professionale, e che mai avevano esercitato la professione, di piccoli artigiani che fino al 2009 fatturavano poche decine di migliaia di euro e che in pochi anni sono passati a fatturare diversi milioni di euro.
Oggi la politica deve avere il coraggio di rappresentare l'intero paese e di essere un'unica squadra; non esiste un modello «Friuli», né un modello «L'Aquila», né un modello «Emilia», ogni terremoto purtroppo porta dietro di sé tante storie diverse e tanti disagi diversi. Gemona non è Amatrice, né L'Aquila, né i piccoli centri emiliani, ma oggi la politica deve scavalcare l'ostacolo dell'appartenenza e seguire solo lo spirito e i valori dello sport; essendo aquilano scelgo come esempio quelli del rugby.
Come qualcuno ricorderà, dopo il terremoto del 1703, i colori della città di L'Aquila, il bianco e il rosso, diventarono il nero e il verde, per rappresentare simbolicamente il nero del lutto e il verde della speranza. Nel corso degli anni il nero e il verde sono diventati i colori ufficiali della squadra di rugby della città, vero simbolo dell'aquilanità e foriera di grandi campioni internazionali.
La politica dovrebbe iniziare a seguire questo percorso di valori: la disciplina, il rispetto, il sostegno, il sacrificio e lo spirito di squadra, solo per il bene del paese e magari indossare ideologicamente una maglietta «nero-verde», lasciando nella propria cantina quella della propria appartenenza politica.
L'Aquila, attualmente, è un laboratorio di nuove soluzioni costruttive, di restauro conservativo di beni vincolati, di cantieri innovativi come quello per la smart city, in teoria dovrebbe rappresentare l'Italia che cambia, l'Italia coesa, l'Italia che lavora, innova, che aggrega, che non polemizza, ma anzi costruisce e raggiunge con determinazione la propria meta: quella della ricostruzione; ma purtroppo non è così, la politica ha lasciato gli ostacoli sulla pista e ogni occasione è buona per polemizzare da un lato all'altro dello schieramento politico.
Amatrice come L'Aquila ha subito uno di quei placcaggi mozzafiato, che costringono ad abbandonare il campo, ma che certamente non precludono la possibilità, e soprattutto la voglia, di rimettersi le scarpette e giocare di nuovo, cercando di dimostrare di essere veramente all'altezza della competizione: determinazione ampiamente dimostrata dal loro primo cittadino.
Nei momenti di difficoltà, i rugbisti fanno una cosa molto semplice, si stringono in un cerchio, fanno il punto della situazione e giocano la partita con un unico obiettivo, la meta. Ad Amatrice, a L'Aquila e in tutti i territori colpiti da un sisma, così come nell'intero paese, non si riesce ancora a formare quella squadra coesa e unita che guarda con ambizione a un unico e limpido obiettivo, mettendo da parte le appartenenze politiche.
La ricostruzione di tutti i territori, nonché la volontà di fare prevenzione e mettere in sicurezza il paese, è e dovrà essere anche l'impegno di noi giovani per ricostruire delle basi solide al modello Italia, che evidentemente non è nemmeno più in grado di garantirci lavoro, futuro, stabilità e un adeguato sistema previdenziale. L'obiettivo deve essere quello di ricostruire un territorio, che tra mille difficoltà cerca lentamente di trovare una nuova dimensione, una nuova quotidianità, di fare prevenzione ove necessario, così come la meta dei giovani deve essere quella di ricostruire un paese logorato dal malaffare, piegato dall'assenza di visione strategica.
Il cambiamento non può che passare dai giovani che hanno la grinta e l'energia necessaria per imporre idee, competenze, passione e la grande capacità di essere pronti al cambiamento, e pertanto proporre un'economia della sicurezza e cioè un grande progetto nazionale che abbia l'obiettivo di assicurare un tetto sicuro a tutti generando una nuova e forte economia (articolo ItaliaOggi del 22.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIGare, commissioni interne sottosoglia Ue. Appalti. Il Consiglio di Stato boccia l’indicazione Anac sull’obbligo di nominare sempre un presidente esterno all’amministrazione.
No all’obbligo di nominare un presidente esterno nelle commissioni di gara per gli appalti sotto la soglia comunitaria o di «minore complessità».

Anche se indirizzata a garantire maggiore trasparenza nelle assegnazione degli appalti, il Consiglio di Stato boccia l'indicazione Anac secondo cui, anche negli appalti di lavori sotto i 5,2 milioni (209mila euro per i servizi) il presidente della commissione aggiudicatrice deve essere sempre un esperto indipendente dalla stazione appaltante.
Per Palazzo Spada questa indicazione «si pone in contrasto» con il nuovo codice degli appalti che impone commissioni esterne solo per gli appalti di rilevanza comunitaria. Per questo, si legge nel comunicato che accompagna il parere, «deve essere espunta dal testo».
Proprio perché riguarda un punto che ha sollevato molte obiezioni tra le Pa, è questa l'indicazione più importante del parere che una commissione speciale di Palazzo Spada ha rilasciato sulle linee guida Anac relative alla nomina delle commissioni giudicatrici.
Con il parere, il Consiglio di Stato boccia anche la scelta Anac di ricomprendere anche la valutazione delle offerte anomale tra i compiti della commissione e l’indicazione secondo cui i commissari interni alla Pa possono essere nominati soltanto se tra i dipendenti dell’amministrazione esiste un numero di iscritti all’albo tale da escludere la possibilità di individuarne in anticipo il nome.
D’altro canto Palazzo Spada riconosce alle linee guida sui commissari lo status di indirizzi «vincolanti», approvando la scelta di rendere obbligatoria l’iscrizione all'albo anche per i dipendenti della Pa candidati al ruolo di commissari. Anzi qui l'indicazione è di separare l’albo in una sezione dedicata ai membri interni alle amministrazioni e in un’altra destinata agli esperti esterni.
Il Consiglio di stato chiede poi all’Anac di precisare meglio l’oggetto delle copertura assicurativa richiesta ai commissari, ma boccia l’obiezione, sollevata da diverse grandi amministrazioni, secondo cui la nomina di commissari esterni finirebbe per «deresponzabilizzare le stazioni appaltanti, incidendo sui tempi e sulla stessa efficienza nella gestione delle procedure di gara». Per Palazzo Spada il fatto che i commissari siano nominati da un albo esterno non produce alcun effetto «sul sistema di attività e responsabilità dei componenti della commissione giudicatrice».
Tra i suggerimenti finali arriva poi quello di obbligare le stazioni appaltanti a rendere pubblici i compensi dei singoli commissari e il «costo complessivo» della procedura di nomina
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICILavori paralizzati nei comuni. Opere di manutenzione frenate dal nuovo codice appalti. In audizione l'Anci chiede correttivi e denuncia i ritardi nell'attuazione del dlgs 50.
Il nuovo codice appalti (dlgs 50/2016) sta paralizzando i lavori di manutenzione nei comuni. L'obbligo di procedere, prima della pubblicazione del bando, alla redazione del progetto esecutivo, sta ingessando i municipi, soprattutto quelli piccoli e medi che spesso sono privi di personale con competenze adeguate.
La conseguenza è che anche la semplice manutenzione degli edifici scolastici, o la copertura di una buca in strada, o ancora la sostituzione di un vetro o di una grondaia, sembrano essere diventate improvvisamente imprese titaniche per gli enti che infatti chiedono correttivi nei decreti attuativi del codice.

È quanto emerge dal documento consegnato dall'Anci in audizione presso le commissioni riunite ambiente della camera dei deputati e lavori pubblici del senato nell'ambito dell'indagine conoscitiva sullo stato di attuazione del codice. A rappresentare l'associazione guidata da Piero Fassino, l'assessore ai lavori pubblici del comune di Milano, Gabriele Rabaiotti, che ha puntato l'indice sui ritardi nell'attuazione delle nuove norme.
Il codice prevede infatti una mole di decreti attuativi (circa 65) che, come osservato anche dal Consiglio di stato, rischia di vanificare «nella moltiplicazione degli atti attuativi, l'obiettivo di una regolamentazione sintetica e unitaria, chiaramente conoscibile».
«A cinque mesi dall'entrata in vigore del dlgs (19.04.2016 ndr)», lamenta l'Anci, «registriamo un ritardo nella definizione dell'impianto di regole e princìpi sottesi alla riforma». A cominciare dal decreto sulle stazioni appaltanti, «non ancora emanato e determinante nelle scelte organizzative e gestionali dei comuni che ambiscono a essere autonomi».
Entrando nel merito del codice, l'Anci si mostra estremamente critica sulla scelta di abrogare l'art. 105 del regolamento di attuazione del precedente codice (dpr 207/2010) che consentiva, per i lavori di manutenzione, di prescindere dalla redazione del progetto esecutivo, permettendo di bandire la gara per l'affidamento con il livello di progettazione definitiva.
Questa scelta, secondo Rabaiotti, è stata deleteria perché, considerando che la stragrande maggioranza degli appalti di lavori banditi dalle stazioni appaltanti riguarda la manutenzione del loro patrimonio, «ha praticamente paralizzato la pubblicazione di appalti di lavori» in quanto le stazioni appaltanti prima di procedere alla pubblicazione del bando devono redigere il progetto esecutivo che «necessita di tempi di redazione più lunghi dei precedenti livelli».
E il problema è maggiormente avvertito nei comuni piccoli e medi che si sono trovati in alcuni casi «nell'impossibilità di progettare internamente per l'assenza di figure tecniche con competenze adeguate». Ci sono casi in cui, prosegue l'Anci, i lavori sono essenzialmente di manutenzione ordinaria «a chiamata», ossia al verificarsi dell'evento che causa l'obbligo di intervenire, ed è impossibile immaginare per questo tipo di lavori un progetto esecutivo.
«Si pensi alla manutenzione ordinaria degli edifici scolastici dove il progettista non sarà mai in grado di prevedere esattamente dove sarà necessario provvedere alla sostituzione di un vetro o dove si intaseranno i pluviali o dove ci sarà la perdita d'acqua e conseguentemente che tipo di vetro dovrà essere cambiato o che tipo di intervento dovrà essere realizzato per eliminare la perdita».
Come uscire dall'impasse? Una soluzione al problema, propone l'Anci, potrebbe essere l'inserimento nel decreto attuativo previsto dall'art. 23, comma 3, del codice di «un livello di progettazione esecutiva semplificata per le manutenzioni ordinarie del patrimonio dell'ente locale».
Anche sui collaudi emergono criticità perché, stante l'assenza del decreto attuativo previsto dall'art. 102, comma 8, del codice, non è possibile prevedere, per gli appalti di minore importo, il Certificato di regolare esecuzione.
La situazione appare invece meno critica per gli appalti di forniture e servizi. La maggior parte delle stazioni appaltanti, osserva l'Anci, sono infatti in grado, anche se con qualche difficoltà, di redigere i capitolati di gara. «La vera criticità per questi appalti», conclude l'Anci, «è rappresentata dall'obbligatoria programmazione biennale degli acquisti» (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALISIAE-Anci. Feste in piazza semplificate.
Siae e Anci hanno sottoscritto un nuovo accordo, interamente sostitutivo di quello del 2002, per regolamentare e semplificare la disciplina delle utilizzazioni musicali durante gli eventi, gratuiti e non, organizzati dai comuni.

Le principali novità riguardano l'estensione dell'accordo 06.09.2016 anche ad altri soggetti organizzatori, purché partecipati dai Comuni o che organizzano eventi per conto degli Enti Locali, la riduzione dal 50 al 35% della quota di contributi da prendere a riferimento per la base di calcolo, la possibilità per l'organizzatore di optare per un sistema forfettario, attraverso il pagamento di un importo aggiuntivo commisurato alla capienza del luogo in cui si svolge l'evento, un aumento, dal 10 al 15%, della riduzione concessa sui compensi fissi dovuti per le manifestazioni gratuite.
I Comuni potranno ottemperare agli obblighi connessi al diritto d'autore con una procedura semplificata e completamente online.
Inoltre, rispetto al passato sono previste ulteriori semplificazioni gestionali e dei significativi abbattimenti di costi per gli spettacoli organizzati dai Comuni (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016).
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Accordo Anci/Siae - Le novità per le manifestazioni di spettacolo organizzate dai Comuni.
È stato recentemente firmato dal presidente dell'Anci Piero Fassino e da quello della Siae, Filippo Sugar, il nuovo Accordo che disciplina le modalità di calcolo del diritto d'autore spettante per l'utilizzo delle opere "musicali", relativamente alle manifestazioni di spettacolo organizzate dai Comuni.
Il nuovo testo, che aggiorna il vecchio Accordo, firmato nel 2002, contiene diverse importanti novità.
Le novità
In primo luogo, viene introdotta una notevole semplificazione procedurale. Tutte le incombenze, dalla richiesta del “Permesso Spettacoli e trattenimenti” alla fornitura dei "programmi musicali", al pagamento del dovuto, potranno essere risolte sul portale www.siae.it (attraverso la piattaforma mioBorderò, previa registrazione sulla homepage).
Un'altra novità significativa riguarda l'estensione dell'accordo anche a ulteriori soggetti, a cui i Comuni affidano l'organizzazione degli eventi. Si può trattare di enti "partecipati", oppure di altri soggetti esterni, come società, cooperative e associazioni no profit. In questo modo l'ambito di applicazione dell'Accordo si estende alle modalità di organizzazione "in diretta", che per varie ragioni sono utilizzate sempre più di frequente.
Inoltre, rispetto al passato sono previsti degli abbattimenti dei costi per gli spettacoli organizzati dai Comuni. In particolare, il testo dell'Accordo contempla la riduzione dal 50% al 35% della quota di contributi e sovvenzioni ricevuti da soggetti terzi da prendere a riferimento per la base di calcolo del diritto d'autore, la possibilità per l'organizzatore di optare per un sistema forfettario, attraverso il pagamento di un importo aggiuntivo commisurato alla capienza del luogo in cui si svolge l'evento, e l'ampliamento degli spettacoli "minori" per cui si applicano le tariffe minime (che nel vecchio Accordo erano quelli con 2.500 euro massimo di spesa complessiva per l'evento, soglia che viene portata a 5.000 euro). Aumenta anche la riduzione concessa sui compensi fissi dovuti per le manifestazioni gratuite (cioè senza il pagamento di un biglietto), dal 10% al 15 per cento.
Infine, è ribadita l'esenzione dal pagamento per le opere di «pubblico dominio», ovvero per le "musiche della tradizione popolare" di autore anonimo, peraltro già prevista dalle leggi in vigore. Nel caso di utilizzazione di questi repertori, l'organizzatore deve presentare preventivamente alla Siae apposita attestazione al riguardo.
Il nuovo Accordo contiene dunque una disciplina dei criteri di calcolo del diritto d'autore più aggiornata, in un quadro di semplificazione procedurale che sicuramente porterà un notevole giovamento ai Comuni. Vengono recepite anche alcune delle istanze emerse nei mesi scorsi dai soggetti operanti nel settore, sintetizzate nel "Patto per la musica live", firmato a Milano il 24.10.2015.
E proprio nel capoluogo lombardo, nel mese di novembre, è previsto lo svolgimento di un seminario pubblico di presentazione del nuovo Accordo ai Comuni e agli operatori coinvolti (20.09.2016 - commento tratto da www.anci.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANei bilanci i costi di ripristino siti. Decreto Minambiente sui soggetti all'Aia.
Nella redazione dei bilanci delle imprese (e non dei bilanci delle amministrazioni pubbliche), entrano tra i costi anche quelli connessi al ripristino dei siti industriali dismessi soggetti ad Aia. Costi che solitamente non vengono considerati nel bilancio aziendale. D'ora in avanti gli imprenditori sono tenuti a prestare le dovute garanzie finanziare quando le attività del sito industriale ripristinato (a seguito di cessazione dell'attività) siano suscettibili di determinare una contaminazione del suolo o delle acque sotterranee.

È con il decreto 26.06.2016 n. 14 (registrato alla Corte dei conti il 26.05.206) che il ministero dell'ambiente in attuazione all'articolo 29-sexies, comma 9-septies, del dlgs 03.04.2006 n. 152 stabilisce i criteri nel determinazione le garanzie finanziarie da prestare per il ripristino dei siti industriali precedentemente dismessi.
Le installazione per le quali non è necessario presentare la relazione di riferimento non sono tenute a prestare le garanzie finanziarie. Sono escluse dall'applicazione della nuova normativa le installazioni che già prestano garanzie finanziarie utilizzabili allo scopo del ripristino ambientale (gestione di rifiuti o piani di bonifica in atto) e quelle non suscettibili di determinare contaminazioni significative (e per tale motivo già escluse dall'obbligo di caratterizzare lo stato iniziale del sito).
L'ammontare della garanzia finanziaria prestata dagli imprenditori industriali obbligati a redigere la relazione di riferimento è determinato in ragione delle categorie di attività condotte nell'installazione, dell'estensione del sito, della pericolosità e della quantità delle sostanze pericolose pertinenti, dal tipo di garanzia prestata nonché dal periodo residuo di vita utile.
In ogni caso l'ammontare della garanzia finanziaria deve consentire la valutazione nonché la progettazione del sito da ripristinare. Le garanzie finanziare si intendono accettate decorsi trenta giorni dalla data di effettiva acquisizione, salvo diverse indicazioni da parte dell'amministrazioni interessate (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Contributo di costruzione anche senza «manufatto». Oneri dovuti quando l’edificio viene soltanto trasformato.
Urbanistica. Modalità di versamento e riscossione indicate dalla giurisprudenza.

Ogni intervento che determina una trasformazione urbanistica ed edilizia è soggetto al rilascio di un titolo abilitativo, che comporta il pagamento di «un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione» (articolo 16 del Dpr 380/2001, salvo i casi di riduzione o esonero ex articolo 17). Ma a specificare le modalità con le quali il contributo deve essere versato (e riscosso da parte del Comune) è intervenuta spesso –e ancora di recente– la giurisprudenza.
I presupposti
La quota per oneri di urbanizzazione, che va versata al rilascio del titolo ma può essere rateizzata, riguarda sia le urbanizzazioni primarie (quali strade, reti energetiche, aree per parcheggi o verde attrezzato), sia quelle secondarie (come asili e scuole, centri sanitari, edifici per il culto, eccetera) ed è stabilita in riferimento alla cubatura realizzata, sia per le nuove costruzioni, che nei casi di ristrutturazione e/o cambio di destinazione d’uso che portano un aumento del carico urbanistico.
Come ha affermato il Consiglio di Stato (sentenza 260/2016), questa quota è dovuta per il solo rilascio del titolo, e non rileva se le opere di urbanizzazione sono già state realizzate. Mentre la quota riferita al costo di costruzione, anch’essa rateizzabile, è versata in corso d’opera e non oltre 60 giorni dalla fine dei lavori.
Le differenze
Sempre il Consiglio di Stato (2915/2016) evidenzia la differenza tra le due quote. La prima (oneri di urbanizzazione) ha la funzione di compensare la collettività per l’ulteriore carico urbanistico sulla zona causato dalla nuova attività edificatoria. La seconda quota (costo di costruzione) si configura quale compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore.
I giudici sottolineano che il concetto di “incremento valoriale” va inteso in modo dinamico e include anche le opere non strettamente riconducibili alla costruzione di un “manufatto edilizio”. Il contributo è quindi dovuto «in presenza di una “trasformazione edilizia” che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione» (nel caso in esame: il modellamento di un terreno per realizzare un campo da golf).
Secondo lo stesso Consiglio di Stato (1504/2015), inoltre, il fatto che la determinazione e liquidazione del contributo avvenga in occasione del rilascio del titolo edilizio preclude al Comune la possibilità di rideterminarlo in epoca successiva e richiedere conguagli, salvo che ciò non sia stato espressamente previsto in una clausola, oppure che l’interessato chieda –scaduto il primo– un nuovo titolo per completare con cambio di destinazione d’uso le opere assentite in origine.
I versamenti
I soggetti tenuti al pagamento del contributo sono l’intestatario del titolo o colui al quale il titolo viene volturato (e i relativi eredi), o chi esegue le opere di trasformazione urbana.
Circa l’acquirente dell’immobile, invece, si registrano alcuni divari interpretativi. Se una parte della giurisprudenza (Tar Campania-Salerno, 2453/2015) ha infatti escluso un’obbligazione in capo a chi compra il bene, un altro orientamento (Tar Campania-Napoli, 2170/2014) afferma al contrario che entrambi gli oneri costituiscono obbligazioni reali e quindi circolano insieme al relativo immobile, perché anche l’acquirente fruisce dei benefici derivanti dal titolo edilizio. Ne consegue che «tutti coloro che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli oneri in questione» (Consiglio di Stato, 6333/2011).
Scadenze e prescrizioni
Secondo l’articolo 42 del Dpr 380/2001, il mancato o ritardato pagamento dell’intero contributo o di una rata comporta il suo progressivo aumento fino al 40%, quando il ritardo supera i 240 giorni. Decorso questo termine, il Comune può procedere alla riscossione coattiva del credito, che comprenderà gli importi originariamente dovuti, le relative maggiorazioni, le sanzioni fissate dalle Regioni.
La richiesta di pagamento (e a maggior ragione la riscossione coattiva) può essere però avanzata dal Comune solo se non è trascorso il termine di prescrizione ordinario decennale, il quale –per pacifica giurisprudenza (da ultimo Tar Calabria-Catanzaro, 1579/2016)– decorre normalmente dal rilascio della concessione edilizia, tranne ipotesi particolari.
Infatti, nel caso di domanda di condono riguardante un immobile sottoposto a vincolo paesaggistico, il termine di prescrizione del diritto di credito vantato dal Comune (per oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione) inizia a decorrere soltanto dopo il parere formale dell’autorità preposta alla tutela del vincolo. Solo dopo questo parere la pratica edilizia può ritenersi definita sotto ogni profilo, e solo da tale momento è compiutamente determinabile l’entità dell’obbligazione che grava sul privato (Tar Lombardia-Milano, 1887/2015).
Nell’ipotesi in cui venga annullato il provvedimento che ha causato l’arresto dell’iter di rilascio del titolo, gli oneri concessori vanno quantificati secondo il regime vigente al momento della presentazione del ricorso e non in quello dell’effettivo rilascio del permesso: questo perché «il tempo necessario per pervenire ad una decisione nel merito non può andare a detrimento di chi ha ragione» (Tar Campania-Salerno, 2097/2012)
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIPer la Pa digitale allineamenti progressivi. Cad. L’entrata in vigore del decreto sospende l’obbligo di aggiornamento delle regole tecniche.
Dal 14 settembre sono entrate in vigore le modifiche al codice dell’Amministrazione digitale contenute nel decreto legislativo 179/2016 attuativo della riforma Madia. Per aggiornare e coordinare le regole tecniche già in vigore relative, tra le altre cose, a sistemi di conservazione, documenti informatici e pagamenti elettronici, l’articolo 61 del decreto 179 prevede l’adozione di un Dm del ministro per la Semplificazione entro il 14.01.2017.
Le regole tecniche, tuttavia, per espressa previsione normativa, restano comunque in vigore sino all’adozione del regolamento ministeriale. È stata per questo prevista per le Pa la sospensione dell’obbligo, decorrente dallo scorso 12 agosto, di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti alle regole del Dpcm 13.11.2014.

La sospensione introdotta dall’articolo 61 del decreto 179 vale quindi per tutte le amministrazioni che al 14.09.2016, e cioè alla data di entrata in vigore delle modifiche al Cad, non avevano ancora provveduto all’adeguamento. Resta comunque salva la facoltà di adeguarsi a queste regole prima dell’adozione del nuovo decreto ministeriale, così come accaduto per l’agenzia delle Entrate con l’adeguamento disposto con nota 129255 dell’08.08.2016.
Considerando comunque che le modifiche al Cad su tenuta e formazione di documenti informatici sono marginali, è assolutamente necessario e consigliato intraprendere quanto prima la strada dell’adeguamento attuando le regole in vigore così da limitare la portata degli interventi quando sarà disponibile il nuovo decreto. Le regole del Dpcm 13.11.2014 individuano e disciplinano infatti le caratteristiche e le procedure di formazione e chiusura del documento informatico, compreso quello amministrativo, ai fini del successivo trasferimento nel sistema di conservazione elettronica ove richiesto dalla natura e dalla tipologia dell’atto. Analoghe indicazioni riguardano le regole per generare copie per immagine di un documento analogico, per i documenti informatici e per le copie ed estratti informatici di documenti informatici.
Quanto al contenuto del decreto, il documento è informatico non solo se redatto e formato con idonei applicativi software ma anche se risulta dall’acquisizione della copia per immagine di un documento analogico o della copia informatica di un documento analogico. La registrazione informatica di transazioni o la presentazione telematica di dati attraverso moduli e formulari, così come la generazione o il raggruppamento di un insieme di dati provenienti da una o più basi dati, costituiscono ulteriori modalità di formazione del documento informatico. Analogamente il documento è informatico se ricevuto per via telematica o su supporto informatico. Il documento informatico va poi memorizzato in un sistema di gestione informatica dei documenti o di conservazione.
Una volta formato, il documento deve essere chiuso attraverso l’utilizzo di processi o strumenti informatici per renderlo immodificabile durante le fasi di tenuta, accesso e conservazione. L’immodificabilità di un documento informatico redatto digitalmente, e quindi la sua chiusura, viene ottenuta con la sua sottoscrizione con firma digitale o con firma elettronica qualificata da parte dell’autore, l’apposizione di una validazione temporale, il trasferimento a soggetti terzi con posta elettronica certificata con ricevuta completa, la memorizzazione su sistemi di gestione documentale con politiche di sicurezza o il versamento ad un sistema di conservazione da parte del gestore.
Per il documento informatico ricevuto telematicamente o risultante dall’acquisizione di un analogico, la chiusura coincide invece con la memorizzazione, da parte del gestore, nel sistema di gestione informatica dei documenti o nel sistema di conservazione. Mentre per il documento che deriva dalla registrazione di transazioni informatiche o dall’acquisizione telematica di dati la chiusura si ha al momento della registrazione dell’esito dell’operazione con misure per la protezione dell’integrità delle basi dati e per la produzione e conservazione dei log di sistema.
Alla chiusura del documento informatico deve essere associato un riferimento temporale e i metadati minimi generati durante la formazione quali l’identificativo univoco e persistente, la data di chiusura, l’oggetto, il soggetto che ha formato il documento, l’eventuale destinatario e l’impronta del documento informatico
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAContatori e valvole, condomini a rischio ritardo e sanzioni. Termoregolazione e contabilizzazione del calore: obbligo di adeguarsi entro il 31/12.
Allarme rosso sulla contabilizzazione del calore. Sembrano essere ancora troppi gli edifici condominiali che non si sono messi in regola con gli adempimenti in scadenza al 31 dicembre prossimo e le sanzioni, non certo miti, scatteranno fin dal giorno successivo.
La situazione è stata resa ancora più incerta dal ritardo con cui il legislatore è intervenuto a chiarire alcuni aspetti dubbi del dlgs n. 102/2014, con particolare riferimento alle modalità di suddivisione delle spese relative al consumo di calore e ai destinatari delle eventuali sanzioni.
Il nuovo dlgs n. 141/2016 è infatti stato pubblicato in G.U. solo lo scorso 25 luglio, entrando in vigore il giorno successivo.
Occorre realisticamente rendersi conto che i tempi necessari a mettere a norma l'impianto di riscaldamento centralizzato non sono certo brevi e che difficilmente un condominio che a oggi non abbia ancora fatto nulla in tal senso potrà rispettare la scadenza di fine anno. Infatti tra la prima assemblea condominiale chiamata a deliberare i necessari interventi sulla base di specifici progetti e l'adeguamento della centrale termica e il collaudo dell'impianto, per non dire poi dell'individuazione dei criteri di riparto dei consumi e degli eventuali interventi sulle singole unità immobiliari, può passare anche più di un anno.
Senza contare che, per alcune operazioni tecniche, occorre operare nel periodo compreso tra metà aprile e metà ottobre (ovvero a impianto termico spento) e che, vista l'enorme platea dei soggetti interessati, la rincorsa alla scadenza comporterà probabilmente maggiori difficoltà nel reperimento di tecnici disponibili e allungherà i tempi.
Termoregolazione e contabilizzazione del calore. Si calcola che nelle maggiori città italiane il 17% delle famiglie risieda in edifici costruiti prima del 1950, mentre il 60% di esse viva in immobili costruiti tra il 1950 e il 1989. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta quindi di edifici che presentano un costo energetico eccessivo e per molti versi ingiustificato. Di qui i numerosi interventi normativi introdotti dal legislatore a partire dagli anni 90 e, da ultimo, imposti a livello comunitario. Un ruolo importante gioca anche la legislazione regionale.
La normativa in questione prevede che in ogni condominio si proceda a verificare se sussista o meno l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore dell'impianto centralizzato. Questi ultimi non devono ritenersi necessari in senso assoluto, ma solo a condizione che i relativi interventi siano tecnicamente possibili e determinino un risparmio energetico per il condominio. Eventuali casi di impossibilità tecnica o di inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali devono però essere individuati in un'apposita relazione tecnica redatta dal progettista o da un tecnico abilitato.
Negli impianti costruiti fino al 1980, c.d. a distribuzione verticale, le singole unità immobiliari si servono dei montanti che raggiungono i locali di ogni piano dell'edificio posti sulla stessa colonna. In questi casi, come meglio evidenziato dal decreto correttivo, per la misurazione individuale del calore si può fare ricorso alla c.d. contabilizzazione indiretta, grazie all'installazione dei ripartitori di calore e delle valvole termostatiche su ogni singolo radiatore (sotto-contatori).
Dopo tale data, invece, le nuove tecniche costruttive hanno portato alla realizzazione dei c.d. impianti termici ad anello, nei quali è possibile intercettare la mandata e il ritorno per ogni unità immobiliare, rendendo quindi possibile la contabilizzazione diretta mediante l'inserimento, al punto di consegna, di un contatore di calore.
I soggetti interessati. Come anticipato, gli adempimenti di cui sopra vanno realizzati entro e non oltre il 31/12/2016. Si tratta, tuttavia, di un vero e proprio lavoro di equipe, che vede la necessaria collaborazione di più soggetti. Spetta in primo luogo all'amministratore condominiale affrontare la questione dell'adeguamento dell'impianto di riscaldamento centralizzato. Occorre infatti rivolgersi a un tecnico esperto del settore per verificare la tipologia di impianto esistente e gli interventi necessari per mettersi a norma (o, al contrario, per ottenere la dichiarazione scritta che vale l'esenzione dagli obblighi).
Andrà quindi ragionevolmente informata l'assemblea, per sensibilizzare ciascun condomino sul tema e ottenerne la collaborazione, per approvare modalità e tempi dell'intervento da svolgere, per individuare l'impresa specializzata nella contabilizzazione del calore da incaricare del lavori con accettazione del relativo preventivo e autorizzazione alla stipula del contratto, per stabilire i criteri di riparto dei consumi (si veda tabella) sulla base delle letture annuali che verranno comunicate all'amministratore dall' impresa.
Un altro soggetto che riveste un ruolo importante è poi il manutentore della centrale termica, che dovrà apportare alla stessa le necessarie e opportune modifiche per far sì che il nuovo sistema di contabilizzazione funzioni correttamente (lavaggio dell'impianto prima dell'installazione delle valvole, sostituzione delle pompe, bilanciamento dell'impianto ecc.). Fondamentale è poi la collaborazione dei condomini che oltre a essere i destinatari e i fruitori dell'intervento, sono anche i soggetti sui quali ricadono le sanzioni previste dalla legge in caso di inadempimento.
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L'inerzia si paga fino a 2.500 euro. Le conseguenze per gli inadempienti scatteranno a partire dal 01.01.2017.
Sanzioni sotto i riflettori. Per i condomini e gli amministratori che non abbiano ancora avviato o concluso l'articolata procedura necessaria ad adempiere agli obblighi sulla contabilizzazione del calore è consigliabile cominciare a prendere dimestichezza con le multe che verranno applicate a partire dall'01.01.2017 e che sono state modificate lo scorso luglio dal dlgs n. 141/2016. Cominciamo quindi a conoscere meglio cosa rischiano i condomini inadempienti e come fare a difendersi dalle ispezioni che scatteranno con il nuovo anno.
Le sanzioni. Occorre distinguere tra sanzioni ai proprietari delle unità immobiliari e sanzioni previste per il condominio (che, comunque, ricadranno generalmente anch'esse sui singoli condomini, anche se pro quota). Un'altra distinzione è legata poi alla tipologia dell'impianto di riscaldamento. Infatti, come visto in precedenza, vi sono gli impianti c.d. a distribuzione verticale, realizzati fino al 1980, e quelli c.d. ad anello, individuabili negli edifici più recenti.
Per i proprietari è quindi previsto che la mancata installazione, entro il 31/12/2016, rispettivamente di un sotto-contatore, per la contabilizzazione diretta, oppure di ripartitori di calore e valvole termostatiche per la c.d. contabilizzazione indiretta, possa comportare l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria variabile da 500 a 2.500 euro per ciascuna unità immobiliare. Anche il condominio alimentato da teleriscaldamento o da teleraffrescamento o da sistemi comuni di riscaldamento o raffreddamento, ma solo nel caso in cui non ripartisca le spese in conformità a quanto previsto da ultimo dal dlgs n. 141/2016, è soggetto alla medesima sanzione.
Una prima via di uscita per non incorrere nelle predette sanzioni è quella di ottenere da un tecnico abilitato una dichiarazione scritta che certifichi l'impossibilità o la non convenienza dell'intervento. Come si diceva in precedenza, sarebbe infatti buona norma che l'amministratore incaricasse per tempo un termotecnico per valutare se l'intervento di messa a norma sia necessario e, in questo caso, che tipo di operazioni porre in essere.
L'art. 16 del dlgs n. 102/2014, infatti, prevede espressamente che i predetti adempimenti non si applichino allorché risulti da una relazione tecnica di un progettista o di un tecnico abilitato che l'installazione del contatore individuale non è tecnicamente possibile o non è efficiente in termini di costi o non è proporzionata rispetto ai risparmi energetici potenziali oppure, nel caso di sistemi di rilevazione da applicare sui singoli corpi radianti, che l'intervento non è efficiente in termini di costi.
Per i condomini che a oggi non abbiano ancora avviato il procedimento per la messa a norma degli impianti quest'ultima potrebbe quindi essere una soluzione agevole e rapida per sottrarsi alle sanzioni, beninteso a condizione che ricorrano le condizioni previste dalla legge. Occorre in ogni caso osservare come l'accertamento delle stesse sia ampiamente rimesso alla discrezionalità del soggetto tecnico interpellato.
Il procedimento sanzionatorio e i possibili sconti. Competenti a vigilare sugli adempimenti di legge e, se del caso, a irrogare le sanzioni sono le regioni (e le province autonome di Trento e Bolzano), che potranno a loro volta delegare tali incombenti ad altri enti. Occorre a questo proposito evidenziare come le regioni gestiscano già le ispezioni volte a verificare periodicamente la manutenzione degli impianti termici degli edifici sulla base di quanto previsto dal dpr n. 74/2013.
Queste ultime, anzi, dovrebbero avere a propria disposizione un vero e proprio catasto informatico degli impianti termici alimentato con i rapporti periodici compilati dai tecnici manutentori e, quindi, non dovrebbero avere difficoltà a individuare gli edifici dotati di impianti di riscaldamento centralizzati. L'art. 16 del dlgs n. 102/2014 prevede infatti che le regioni e i loro delegati chiamati a svolgere gli accertamenti sulla tenuta a norma degli impianti termici eseguano, in occasione dei relativi sopralluoghi, anche la verifica del rispetto della normativa sulla contabilizzazione del calore.
Poiché si tratta di sanzioni amministrative, al procedimento di irrogazione si applicano le norme di cui alla legge n. 689/1981. La contestazione può essere immediata, a cura dell'ispettore procedente, oppure può essere successivamente notificata al trasgressore. Una volta accertata la violazione, quest'ultimo viene diffidato a provvedere alla regolarizzazione entro 45 giorni dalla contestazione immediata o dalla successiva notifica dell'atto.
Si tratta di una disposizione finalizzata a fare in modo che si colmi la lacuna riscontrata, anche perché il trasgressore avrà validi motivi per ottemperare. Infatti, in quest'ultimo caso, il medesimo potrà beneficiare del pagamento della sanzione nella misura minima di 500 euro, da versarsi entro 30 giorni dalla contestazione. Detto pagamento estingue il procedimento limitatamente alla violazione contestata e a condizione che sia stato posto in essere l'intervento dovuto.
Un'altra possibilità di ottenere una riduzione della sanzione è poi ricavabile dall'art. 16 della citata legge n. 689/1981, a mente del quale è ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo (quindi pari a mille euro), oltre alle spese del procedimento, entro il termine di 60 giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi sia stata, dalla notificazione degli estremi della violazione. In questo caso, a rigore, non è indispensabile realizzare l'intervento dovuto ai fini della decurtazione della sanzione.
Occorre infine tenere presente che la legge consente espressamente al soggetto che abbia ricevuto la contestazione di difendersi, anche mediante la produzione di memorie scritte e perizie tecniche, entro un termine che non potrà essere inferiore a 30 giorni, dinanzi al responsabile del procedimento, il nominativo del quale dovrà essere obbligatoriamente indicato nell'atto contenente la contestazione dell'illecito
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Condomini e amministratore, definiti i confini delle responsabilità.
Occorre evidenziare come il testo originario dell'art. 16 del dlgs n. 102/2014 prevedesse che la sanzione per la mancata installazione di sistemi di rilevazione in corrispondenza a ogni corpo radiante fosse a carico del condominio e dei «clienti finali» e che, per come era scritta, si ritenesse che per ogni violazione la stessa andasse comminata sia al primo che ai secondi (quindi con una sostanziale doppia imposizione ai singoli comproprietari). La norma in questione, invero alquanto discutibile, è stata quindi modificata nei termini anzidetti dal dlgs n. 141/2016.
In base alla precedente normativa era quindi ravvisabile una responsabilità congiunta di condominio e condomini. Quanto al primo, si sarebbe allora dovuto volta per volta verificare se la mancata attivazione fosse imputabile all'amministratore (che si fosse disinteressato dell'adempimento di legge), all'assemblea (che non avesse deliberato sulla questione) o ai singoli condomini (che non avessero consentito l'accesso ai propri locali ai tecnici incaricati).
Su quest'ultimo aspetto si evidenzia anche una recente sentenza della Corte di appello di Trento (sentenza n. 134 del 10/05/2016), che ha confermato il diritto dell'amministratore di ottenere un ordine giudiziale per l'ingresso dei termotecnici nell'unità immobiliare del condomino che si opponga all'installazione dei sistemi di rilevazione sui termosifoni. In precedenza si era pronunciato negli stessi termini il Tribunale di Pordenone con un'ordinanza cautelare del 24/09/2015.
Con la nuova formulazione del predetto art. 16 è invece soltanto il singolo condomino a essere direttamente sanzionabile in caso di inadempimento (salva la diversa responsabilità del condominio per non avere approvato i criteri di riparto dei consumi). Quest'ultima appare una scelta più ragionevole.
La responsabilità del condomino scatterà infatti sia nel caso in cui questi non provveda a fare installare il sotto-contatore o il dispositivo di rilevazione sui termosifoni allorché l'amministratore e l'assemblea si siano già attivati per tutti gli adempimenti precedenti (progetto tecnico, interventi sull'impianto comune, incarico dell'impresa specializzata nella contabilizzazione del calore ecc.) sia nel caso in cui detti adempimenti preliminari manchino del tutto o non siano stati realizzati nel termine del 31/12/2016.
In quest'ultima ipotesi, però, fermo restando che la sanzione sarà presumibilmente applicata a tutti i comproprietari che si trovano nella medesima situazione, questi ultimi potranno volta per volta rivalersi sull'amministratore condominiale ove dimostrino che ci sia stata una sua colpa esclusiva o concorrente nel mancato intervento sull'impianto di riscaldamento nei termini di legge (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAEscavo e dragaggio, nuovo iter. Caratterizzazione materiali prima dell'autorizzazione. Dal 21 settembre in vigore le norme sulle attività nei fondali e il riutilizzo dei materiali.
Operative dal 21.09.2016 le nuove regole per l'escavo di fondali marini e il riutilizzo dei relativi materiali al fine di interventi di miglioramento ambientale o ripristino territoriale dei luoghi interessati.
Dalla citata data entrano infatti in vigore i due paralleli regolamenti con cui il Minambiente detta, rispettivamente, le norme generali per l'immersione in mare di materiali da dragaggio e quelle speciali per poter effettuare analoghe operazioni di escavo e riutilizzo nei siti di interesse nazionale (c.d. «Sin»), ossia nelle aree ad inquinamento critico soggette a bonifica.
Con l'efficacia dei due neo decreti ministeriali (entrambi datati 15.07.2016, pubblicati sulla G.U. del 06/09/2016 e rubricati come 193 e 192) si avvia a completamento la riforma della disciplina sul riutilizzo dei materiali escavati; disciplina che sarà infatti a regime con l'atteso esordio sulla Gazzetta Ufficiale del dpr sulle terre e rocce provenienti, invece, da scavi del suolo.
Immersione in mare di materiali da scavo: il contesto normativo. Il nuovo dm 15.07.2016, n. 173 reca testualmente «modalità e criteri tecnici per l'autorizzazione all'immersione in mare dei materiali di escavo di fondali marini» ed arriva in attuazione dell'articolo 109 del dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale).
L'articolo in parola, collocato nella Parte del dlgs 152/2006 (la terza) dedicata alla tutela delle acque dall'inquinamento, individua a monte tipologie di materiali riutilizzabili in mare ed autorizzazioni necessarie, lasciando però al dicastero dell'ambiente la definizione delle modalità burocratiche e tecniche che devono informare l'agire degli operatori.
Le nuove regole tecniche. In ossequio al Codice ambientale, il dm 173/2016 detta così in primo luogo una nuova ed uniforme procedura per ottenere l'autorizzazione all'immersione in mare dei materiali provenienti da escavo di fondali o terreni litoranei emersi. E questo ridefinendo le regole tecniche che gli operatori dovranno utilizzare nella delicata fase di caratterizzazione e classificazione dei materiali prodromica alla presentazione della domanda di autorizzazione.
Sempre con il nuovo dm 173/2016 arrivano criteri nazionali unici per il riutilizzo dei materiali escavati nel ripristino delle coste interessate da erosione (c.d. ripascimento) o in ambienti delimitati (cd. conterminati, come le lagune).
Nel nuovo dm trovano altresì collocazione regole omogenee per la gestione dei materiali da dragaggio provenienti sia da aree portuali e marino costiere non comprese nei citati «Sin» che di quelle provenienti dai suddetti siti ma destinati all'utilizzo esterno (laddove l'utilizzo interno è invece disciplinato dal parallelo dm 172/2016).
Definito anche il passaggio dal vecchio al nuovo regime tecnico, laddove si prevede che dal 21/09/2016 le nuove norme ex dm 173/2016 sostituiranno le incompatibili e analoghe regole dettate dal pregresso dm 24.01.1996 (adottato sotto la storica ed oramai archiviata legge 319/1976, c.d. «Merli», sulla tutela delle acque). E proprio per supportare gli operatori alle prese con la nuova disciplina, Ispra, Cnr ed Iss, con supporto di Conisma (Consorzio Interuniversitario Scienze del Mare) e la partecipazione di Regioni ed Arpa, hanno nei giorni scorsi diramato una peculiare documentazione tecnica di supporto.
Reperibile sul sito internet dell'Ispra, la documentazione in parola guida alla raccolta delle informazioni sull'area interessata dalle operazioni e alla caratterizzazione/classificazione dei materiali, così come all'applicazione delle nuove modalità di escavo, trasporto e immersione dei materiali, fino al monitoraggio ambientale.
Dragaggio nelle Sin, il quadro normativo. Il citato e parallelo dm 15.07.2016, n. 172 reca invece «la disciplina delle modalità e delle norme tecniche per le operazioni di dragaggio nei siti di interesse nazionale, ad oggi circa 40, individuate in base all'articolo 252 del dlgs 152/2006. Le regole ministeriali arrivano questa volta in attuazione dell'articolo 5-bis, comma 6, della legge 84/1994.
Tale provvedimento, recante il «Riordino della legislazione in materia portuale», lo ricordiamo ad onor di completezza, sarà dal prossimo 15/9/2016 profondamente inciso, ad eccezione però proprio della parte sul dragaggio, dall'entrata in vigore delle modifiche in materia di autorità portuali ad esso arrecate dal dlgs 169/2016. L'articolo 5-bis in parola delinea a monte procedure autorizzative e possibili destinazioni dei materiali dragati in relazione al particolare stato dell'area interessata, dettando le condizioni che legittimano il loro diretto riutilizzo in sito.
Le nuove norme tecniche. In attuazione della legge 84/1994 il dm 172/2016 detta le regole da seguire per effettuare escavo, deposito, trasporto, trattamento e riutilizzo del materiale in parola. E questo disciplinando tutta la filiera delle operazioni, da presentazione del necessario progetto di dragaggio e conduzione degli escavi fino alla gestione dei materiali rinvenuti.
Tutto ciò sancendo, in linea con il quadro normativo sotteso, da un lato la riconduzione sotto il regime dei rifiuti ex dlgs 152/2006 delle attività svolte nell'inosservanza delle nuove regole e dall'altro mandando gradualmente in soffitta le incompatibili norme tecniche recate dal dm 07.11.2008.
Le altre novità sui materiali da scavo. Come accennato, l'ulteriore attesa novità in materia, sebbene con un campo di applicazione differente, è rappresentata dal debuttante dpr che riformulerà la gestione delle terre e rocce generate dallo scavo del suolo nel corso di realizzazione di opere.
Il provvedimento, licenziato in via definitiva dal governo il 14.07.2016 ed in attesa della pubblicazione sulla G.U., riscriverà le regole per gestire fuori dal regime dei rifiuti i materiali in parola o per riutilizzarli in siti oggetto di bonifica. E questo dettando semplificazioni burocratiche in fase autorizzativa ma imponendo il rispetto di precisi ed omogenei standard ambientali nello svolgimento di tutte attività interessate (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati senza segreti nell'albo. Tra le info, lingue conosciute, sito web, specializzazioni. Lo prevede il decreto 178/2016. Indicazioni approfondite anche per le società tra legali.
Nell'albo degli avvocati sarà pubblicato un vero e proprio curriculum vitae del professionista. Le informazioni da indicare, infatti, vanno dalle specializzazioni, alle lingue straniere conosciute, al sito web riconducibile all'avvocato, fino all'eventuale svolgimento di attività quali quelle di mediatore, difensore d'ufficio, cassazionista e così via.

Lo prevede, tra l'altro, il decreto 16/08/2016, n. 178, pubblicato in G.U. 213/2016, in vigore il 27/09/2016 (si veda ItaliaOggi del 13/09/2016).
Attualmente, le informazioni riportate su ciascun avvocato, per esempio, nella banca dati del Consiglio nazionale forense, sono: nome e cognome, luogo e data di nascita, codice fiscale, domicilio professionale con indirizzo, recapito telefonico e e-mail, data di prima iscrizione ed eventuale svolgimento di attività di cassazionista.
A queste, dovranno essere aggiunte: l'eventuale società tra avvocati di cui è socio, l'eventuale iscrizione all'elenco nazionale degli avvocati disponibili ad assumere le difese d'ufficio, l'eventuale svolgimento dell'attività di mediatore presso un organismo di mediazione, l'eventuale iscrizione in uno degli elenchi dei gestori della crisi tenuto da un organismo di composizione della crisi da sovrindebitamento, l'eventuale sospensione dall'esercizio professionale, le eventuali lingue straniere conosciute, l'eventuale indirizzo web dei siti riconducibili al professionista, all'associazione o alla società alla quale partecipi.
Inoltre, va inserita l'eventuale iscrizione all'elenco di avvocati per il patrocinio a spese dello stato, specificando il relativo settore e l'eventuale data di cancellazione. Invece, per quanto riguarda gli avvocati stabiliti, il decreto prevede che vengano indicati anche il titolo professionale di origine, nonché gli organi giurisdizionali dinanzi ai quali è abilitato a patrocinare nel paese di origine. È inserito poi il dato relativo all'avvenuta integrazione nella professione di avvocato.
Con decreto dirigenziale può essere poi previsto che albi, registri ed elenchi contengano informazioni accessorie. Il sistema informatico centrale, inoltre, alimenta gli elenchi utilizzando i dati contenuti nell'albo, oltre ai quali sono indicati, a seconda della tipologia di elenco: la denominazione dell'ente del quale l'avvocato è dipendente, l'area di specializzazione in cui è stato conseguito il titolo, qualifica e denominazione università o istituzione presso cui l'avvocato svolge la propria ricerca, data e causa di sospensione o radiazione, consiglio dell'ordine di iscrizione degli avvocati domiciliati nel circondario.
Per le società tra avvocati, invece, sono indicati: partita Iva, sede, elenco dei soci, nonché, per ciascun avvocato, il codice fiscale. Per le associazioni tra avvocati, infine, vanno indicati: l'eventuale partita Iva o codice fiscale, denominazione, sede, elenco degli associati con nome, cognome, luogo e data di nascita e codice fiscale di ciascun associato (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARIControlli a distanza, limiti del Garante. Senza accordo sindacale illegittimo il monitoraggio di mail e accessi al web dei dipendenti.
Lavoro. L’Authority: violati statuto dei lavoratori e regole sulla privacy, irrilevante che il software sia installato per la sicurezza informatica.

Anche in tempi di Jobs act, il controllo a distanza dei lavoratori deve tener conto di una serie di vincoli. E questo nonostante la recente riforma del lavoro sia intervenuta pure sull’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (la legge 300/1970), allargando le maglie dell’utilizzo di strumenti che si prestano anche a un monitoraggio dell’attività dei dipendenti. Mettendo, però, al contempo una serie di paletti, come la necessità di installare quegli apparecchi solo dietro un accordo sindacale o su autorizzazione della direzione territoriale del lavoro (si veda anche la scheda a fianco).
Ed è proprio facendo leva sul nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che il Garante della privacy (
provvedimento 13.07.2016 n. 303 - Trattamento di dati personali dei dipendenti mediante posta elettronica e altri strumenti di lavoro) ha bloccato l’iniziativa dell’università «Gabriele D’Annunzio» di Chieti e Pescara, che aveva messo in piedi un monitoraggio diffuso dell’attività dei propri dipendenti –docenti e personale tecnico– su internet.
Sono stati i dipendenti dell’ateneo a chiamare in causa il Garante, lamentando una doppia violazione: quella dello Statuto dei lavoratori e quella della regole sulla privacy.
L’università ha eccepito, nel corso dell’istruttoria, che l’attività di controllo delle comunicazioni elettroniche avveniva in modo episodico ed era mirata a rilevare software pirata o eventuali violazioni del diritto d’autore e che non riguardava le informazioni personali dei dipendenti.
Le risultanze dell’indagine del Garante hanno, invece, portato a ben diversi risultati. Si è, infatti, appurato che l’ateneo –attraverso il personale incaricato e gli amministratori di sistema– effettuava un trattamento dei dati personali di numerosi utenti della rete dell’università (non solo professori e personale amministrativo, ma anche studenti, dottorandi, specializzandi, assegnisti di ricerca, professori a contratto e visiting professor) e che i dati relativi al traffico internet –contenenti, tra l’altro, gli accessi alla rete e l’utilizzo della posta elettronica– venivano conservati per cinque anni.
Tale controllo era effettuato attraverso software che –ha sottolineato il Garante– non possono essere considerati «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa». Si trattava, infatti, di software utili per accrescere la sicurezza dell’azienda, ma non necessari al dipendente per svolgere il lavoro. Come tali, al di fuori del contesto delineato dal nuovo articolo 4 dello Statuto.
Per di più, si trattava di apparati tecnologici che operavano con modalità non percepibili dagli utenti, i quali non avevano, tra l’altro, ricevuto un’idonea informativa sul modo in cui l’ateneo utilizzava i loro dati personali. Per tutto questo l’iniziativa dell’università è stata ritenuta illecita e il Garante ha imposto di conservare i dati personali “registrati” per consentire la loro eventuale acquisizione da parte della magistratura
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2016).

APPALTIServizi non sostituibili, in gara. Stazioni appaltanti obbligate a consultare il mercato. Divieto di affidamento a trattativa privata nelle linee guida Anac all'esame del parlamento.
Vietato affidare a trattativa privata un appalto per forniture e servizi infungibili (non sostituibili) perché di proprietà di un solo operatore economico; necessario sondare sempre il mercato e dare conto nella motivazione dell'esito dell'indagine di mercato.

Sono questi alcuni dei contenuti delle linee guida approvate dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e trasmesse alle commissioni parlamentari per il parere (ancorché non prescritto).
Le linee guida dell'Autorità nascono dall'esigenza di tenere sotto controllo una tipologia di affidamenti connotati dall'esistenza di privative, dall'infungibilità dei prodotti o servizi da acquistare, dai costi eccessivi che potrebbero derivare dal cambio di fornitore.
Tutte situazioni che si verificano soprattutto nel settore sanitario, in quello delle acquisizioni di servizi e forniture informatiche, di servizi di manutenzione e nel campo degli acquisti di materiali di consumo per determinate forniture-macchinari; una parte di quel mercato (procedure negoziate senza bando di gara) che vale, dice la stessa Anac, 15 miliardi di euro (nel 2014), e che riguarda soprattutto le forniture.
Lo schema della determinazione, da adottare ai sensi dell'articolo 213, comma 2, del decreto 50/2016, riguarda quindi procedure che hanno ad oggetto beni o servizi infungibili perché, a causa di ragioni di tipo tecnico o di privativa industriale, non esistono possibili sostituti degli stessi, oppure a causa di decisioni passate da parte del contraente che lo vincolano nei comportamenti futuri o, infine, a seguito di decisioni strategiche da parte dell'operatore economico.
Premesso che l'applicazione delle procedure negoziate senza bando di gara costituisce una deroga alle procedure di affidamento enunciate nel Codice ed è consentita soltanto in caso di infungibilità del bene, l'Autorità ha chiarito che da un punto di vista giuridico ed economico, i concetti di infungibilità ed esclusività non sono sinonimi.
L'esclusiva attiene all'esistenza di privative industriali, mentre un bene o servizio è infungibile se è l'unico che può garantire il soddisfacimento di un certo bisogno. L'infungibilità può essere dovuta all'esistenza di privative industriali ovvero essere la conseguenza di scelte razionali del cliente o dei comportamenti del fornitore; l'effetto finale è comunque un restringimento della concorrenza, con condizioni di acquisto meno favorevoli per l'utente.
L'Anac ha chiarito che non esiste una soluzione unica per prevenire e superare fenomeni di infungibilità, ma è necessario procedere caso per caso al fine di trovare soluzioni in grado di favorire la trasparenza, la non discriminazione e l'effettiva concorrenza nel mercato.
Una volta individuata la fattispecie, la linea guida affronta il tema dell'affidamento e invita le stazioni appaltanti a procedere ad un'attenta programmazione e progettazione dei propri fabbisogni così da prevenire le conseguenze negative derivanti da acquisti effettuati per beni o servizi ritenuti infungibili ma che poi non lo sono.
Necessarie, poi, le consultazioni preliminari di mercato che devono essere svolte in ossequio ai principi di trasparenza e massima partecipazione, al fine di non falsare la concorrenza e i cui risultati devono essere riportati nella determina a contrarre. Per quel che riguarda il rischio di rimanere legati ad un unico fornitore (c.s. lock-in) l'Anac suggerisce alle stazioni appaltanti di prevedere che un singolo affidamento possa essere assegnato a due o più fornitori (multi-sourcing); oppure di agire sulle specifiche tecniche, mediante gare su standard e non su sistemi prioritari (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARIVersare alla p.a. sarà semplice. Grazie al sistema di pagamenti elettronici PagoPa. È una delle novità del nuovo Codice dell'amministrazione digitale varato dal governo.
Nel processo avviato da tempo per una riforma «in digitale» della pubblica amministrazione è stato aggiunto, di recente, un nuovo tassello: il 10.08.2016 il consiglio dei ministri ha approvato in esame definitivo il decreto legislativo che definisce le norme di attuazione per le modifiche al Codice dell'amministrazione digitale.

Si tratta dell'ok definitivo al nuovo Cad che porterà, per usare l'espressione adottata nel comunicato ufficiale del cdm, un «cambiamento strutturale» del rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione.
Per poter interagire con la p.a. ogni cittadino sarà dotato di due strumenti digitali che lo identificheranno in modo univoco: una identità digitale (Spid), che tramite accesso protetto lo farà accedere ai servizi erogati in rete dalle p.a., e un domicilio digitale, vale a dire un indirizzo on-line dove poter essere raggiunto, quando necessario, dalle p.a.
Le strade del cittadino e quella della p.a. hanno smesso di essere due parallele destinate a non incontrarsi e sempre nuovi strumenti vengono realizzati per gestire i flussi di informazioni tra i due attori co-protagonisti di questa storia.
Un altro esempio in questa direzione è il Sistema per i pagamenti elettronici verso le pubbliche amministrazioni, il cosiddetto PagoP.a., che tutti gli enti pubblici dovranno attivare entro la fine del 2016. L'adesione formale da parte delle p.a. alla nuova piattaforma dei pagamenti è già avvenuta, o per lo meno sarebbe dovuta avvenire, entro il 31.12.2015 in modo da avere a disposizione un anno di tempo, fino a dicembre 2016 appunto, per rendere operativi i primi servizi di pagamento gestiti tramite il PagoP.a.
Si tratta di un progetto ambizioso e impegnativo, per attuare il quale l'Agenzia per l'Italia digitale (Agid) ha realizzato una specifica infrastruttura tecnologica pubblica, il Nodo dei pagamenti-Spc, che sarà la strada attraverso la quale transiteranno i flussi dei pagamenti elettronici inviati dai cittadini alle p.a. e presi in carico dai gestori accreditati dei servizi di pagamento, principalmente banche e istituti di credito.
Due sono le tipologie di incassi gestibili tramite PagoPa. Sono possibili sia i pagamenti spontanei, per i quali il cittadino si attiva in modo autonomo effettuando un versamento a favore di una Pubblica amministrazione (ad esempio, per pagare il trasporto scolastico, una multa o un contributo di costruzione) sia i pagamenti su avviso inviato dall'ente (Tari/Tares, acquedotto ecc.).
Le imprese e i cittadini utilizzatori della piattaforma PagoPa potranno avvalersi di vari canali di pagamento: il pagamento sarà effettuato principalmente tramite il sito web della p.a. o attraverso le strutture messe a disposizione dalle banche accreditate nel nodo PagoPa (Sportelli fisici, Atm).
Per i cittadini il metodo di pagamento tramite PagoPa darà garanzia sulla correttezza degli importi da pagare e la sicurezza di una ricevuta immediata della transazione effettuata; inoltre resta a discrezione dell'utente la scelta del prestatore del servizio di pagamento (la banca) da utilizzare così come dello strumento di pagamento da adottare. Anche per la p.a. il sistema PagoPa si traduce in una serie di vantaggi, basti pensare alla velocizzazione nella riscossione degli incassi con gli esiti in tempo reale o alle riconciliazioni che vengono effettuate in modo automatico.
Per non rendere troppo onerosa l'attivazione dei servizi di incasso, le singole p.a. saranno libere di scegliere quali pagamenti far transitare tramite il sistema PagoPa in base agli specifici obiettivi che si daranno e alla risorse disponibili per l'attuazione del progetto.
A questo proposito l'ente può affidarsi a società specializzate per essere supportato nell'adesione al sistema PagoPa e nell'attivazione dei servizi di incasso, comprese le incombenze tecnico-funzionali. Inoltre, in un periodo di ridotta disponibilità economica, gli enti possono minimizzare i costi di avviamento e impostazione del sistema di pagamento, integrando nei propri siti soluzioni già sviluppate.
Alcune società infatti offrono gratuitamente le componenti tecnologiche per la connessione all'infrastruttura del Nodo dei pagamenti e l'attivazione dei servizi di incasso. I costi, in questo caso, sono legati ad una percentuale delle transazioni reali che avvengono nel Nodo. Si tratta quindi di un notevole vantaggio per l'ente che può usufruire di una soluzione PagoPa a costi minimi, liberandosi da ogni onere di impianto o investimento strutturale (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALINuovo regolamento di contabilità. Obbligatorio aggiornare le disposizioni alla riforma.
La radicalità delle modifiche apportate al sistema contabile e la dinamica di attuazione graduale hanno tenuto impegnati le ragionerie in molte attività: studiare le disposizioni; farle conoscere a colleghi e amministratori; adeguare gli strumenti. La verifica delle disposizioni regolamentari spesso è stata trascurata. Il rischio è di continuare ad ignorare la necessità di adeguamento, per poi ricorrere a qualche prodotto editoriale, traslato tout court nell'ente.

Aggiornare il regolamento alla nuova disciplina è un obbligo. Farlo perché ne scaturiscano utilità procedurali è un'opportunità. Scrivere disposizioni che modellano flussi gestionali e garantiscono legittimità all'azione è attività complessa di cui nutrire rispetto, da svolgere contemperando finalità e conseguenze operative. Si assiste spesso all'approvazione di regolamenti le cui disposizioni sono poi disapplicate.
Sono occasioni perse per ottimizzare l'organizzazione. Ma recano anche rischi rispetto alle responsabilità esercitate dalla struttura. In procedimenti per danno erariale, i comportamenti tenuti da chi rappresenta l'ente ed esercita scelte discrezionali, sono valutati alla luce di norme regolamentari, quando l'ordinamento a queste fa rinvio. Se i regolamenti non vengono aggiornati, presto non vengono citati nei provvedimenti e anziché rappresentare una garanzia della legittimità, nascondono insidie, espongono a responsabilità.
Vi sono poi ulteriori innovazioni nell'ordinamento contabile, di cui vanno vagliati gli impatti su procedure e organizzazione: la riforma dei controlli del dl n. 174/2012, la legge n. 243/2012, sul pareggio di bilancio. Quella del regolamento è la sede per sussumerle in un testo a valenza interna, funzionale a coordinare gli adempimenti e migliorare il modello organizzativo.
Nella stesura vi sono due cardini fondamentali: il valore che le disposizioni rivestono nella gerarchia delle fonti, evitando ridondanza, o contrasto, rispetto a fonti di rango superiore; la praticabilità operativa delle procedure che ne discendono, evitando l'ulteriore rischio che il corpo di norme risulti inadeguato, inapplicabile, lettera morta estranea ai processi di esercizio delle competenze istituzionali.
Occorre occupare solo lo spazio lascito libero dalle normative generali e scrivere regole semplici e attuabili. L'impresa non è agevole, ma i potenziali risultati in termini di trasparenza e ottimizzazione organizzativa meritano ogni sforzo (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016).

EDILIZIA PRIVATANuove regole antisismiche.
Più facili gli adeguamenti antisismici sugli edifici esistenti. Le azioni sismiche di progetto, si definiscono a partire dalla pericolosità sismica di base del sito di costruzione.
Questo è quanto si legge nelle nuove norme tecniche per le costruzioni, redatte dal ministero delle infrastrutture, che dovrebbero andare in Conferenza unificata per la fine di settembre. Poi una comunicazione di rito a Bruxelles. E, infine, la pubblicazione definitiva sotto forma di decreto ministeriale in Gazzetta Ufficiale.
Per strutture o elementi strutturali snelli di forma cilindrica, quali ciminiere, torri di telecomunicazioni o singoli elementi di carpenteria si deve tenere conto degli effetti dinamici indotti al distacco alternato dei vortici dal corpo investito dal vento. Tali effetti possono essere particolarmente severi quando la frequenza di distacco dei vortici uguaglia una frequenza propria della struttura, dando luogo a un fenomeno di risonanza.
In questa situazione le vibrazioni sono tanto maggiori quanto più la struttura è leggera e poco smorzata. Le norme si applicano a tutte le costruzioni e agli interventi atti a sostenere in sicurezza un corpo di terreno o di materiale con comportamento simile. In particolare ai muri, per i quali la funzione di sostegno è affidata al peso proprio del muro e a quello del terreno direttamente agente su di esso (per esempio, muri a gravità, muri a mensola, muri a contrafforti). Alle strutture miste, che esplicano la funzione di sostegno anche per effetto di trattamenti di miglioramento e per la presenza di particolari elementi di rinforzo e collegamento.
La scelta del tipo di opera di sostegno deve essere effettuata in base alle dimensioni e alle esigenze di funzionamento dell'opera, alle caratteristiche meccaniche dei terreni in sede e di riporto, al regime delle pressioni interstiziali, all'interazione con i manufatti circostanti, alle condizioni generali di stabilità del sito (articolo ItaliaOggi del 15.09.2016).

APPALTIAppalti senza gara, stretta Anac. Scelta motivata in delibera con i risultati di un’indagine di mercato.
Contratti pubblici. Pronte le Linee guida su beni e servizi offerti da un’unica impresa o protetti da copyright
Basta appalti senza gara con la scusa che a fornire quel software o quel particolare servizio di manutenzione, anche edile, è soltanto un’impresa.
L’Autorità Anticorruzione mette nel mirino una delle “prassi” più abusate dalle amministrazioni intenzionate ad aggirare le gare d’appalto a danno della concorrenza. Si tratta della deroga -concessa in via del tutto eccezionale anche dalle direttive Ue- per i cosiddetti beni e servizi «infungibili». Vale a dire i prodotti protetti da copyright o comunque nella disponibilità di un unico operatore. Aspetto che -quando le cose stanno davvero così- rende la gara un inutile spreco di tempo e risorse perché l'esito è scontato.
Purtroppo i fatti dimostrano che quando si scopre una scorciatoia è fatale che si tenda a percorrerla anche quando sarebbe vietato. Di qui la scelta dell’Anac di inserire in una nuova Linea guida, inviata per i consueti pareri a Consiglio di Stato e commissioni parlamentari, le istruzioni che le amministrazioni dovranno seguire per sfruttare le deroghe al codice appalti senza incorrere in contestazioni di legittimità degli affidamenti.
I numeri diffusi dall'Anac dicono che ogni anno in Italia si aggiudicano senza pubblicità appalti pubblici per 15 miliardi di euro. Non sempre questa scelta è motivata con il fatto che a garantire quel servizio (50% dei casi) , quel bene (40%) o addirittura un lavoro per un’opera pubblica (10% dei casi) sia una sola impresa, ma comunque gli episodi in cui questo accade non sono rari. Succede soprattutto nei settori delle forniture sanitarie e dell’informatica «ma una quota non trascurabile attiene ai servizi di riparazione e manutenzione», senza dimenticare il comparto rifiuti.
Cantone ricorda innanzitutto che il ricorso alla procedura negoziata senza bando è un’ipotesi del tutto eccezionale. Attivabile solo al ricorrere di alcune condizioni puntualmente riportate in questo “manuale” diretto a stazioni appaltanti e imprese.
L'Anac dice subito basta alle giustificazioni di “comodo” finora utilizzate per sfruttare la deroga all'obbligo di gara. «Poiché si tratta di una deroga è necessario che i presupposti per ricorrere alla stessa siano accertati con particolare rigore e debitamente motivati nella delibera a contrarre». La prima cosa da fare è accertare che il bene che si intende acquistare sia a disposizione di un unico operatore.
Riprendendo le considerazioni riportate nelle pronunce della Corte Ue, l’Anac chiarisce che «la stazione appaltante non può accontentarsi delle dichiarazioni presentate dal fornitore, ma deve verificare l'impossibilità a ricorrere a fornitori o soluzioni alternative attraverso consultazioni di mercato». E non solo in Italia, ma eventualmente scandagliando anche « i mercati esteri».
Per raggiungere l’obiettivo l’Anac chiede alle Pa uno sforzo di programmazione. Ma soprattutto chiarisce che va sfruttata a fondo una delle maggiori novità introdotte dal nuovo codice degli appalti: la possibilità di avviare consultazioni di mercato prima di bandire la gara. Una strada che prima era vietata. L'analisi serve a ridurre «l'asimmetria informativa» con le imprese e anche a evitare di trovarsi incastrati in fenomeni di «lock in». Cioè l'impossibilità di sostituire il fornitore al termine dell’appalto perché costerebbe troppo.
Prima di avviare la consultazione la Pa deve informare il mercato, pubblicando per almeno 15 giorni un avviso sul proprio sito (in home-page). L’avviso deve indicare nel dettaglio le esigenze dell'amministrazione e i costi attesi. I risultati dell'indagine di mercato vanno poi riportati nella delibera a contrarre, specificando anche le conclusioni che inducono alla trattativa privata.
Ultime indicazioni. Primo: non vale giustificare la decisione di evitare la gara sulla base di vecchie consultazioni. Secondo: nella delibera vanno anche riportati il valore stimato dell’affidamento e la sua durata. Che deve essere limitata, visto che scaturisce da una commessa affidata in deroga alle basilari regole di concorrenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIDomicilio digitale per i cittadini.
Gazzetta Ufficiale. In vigore da oggi la correzione al Codice dell’amministrazione digitale - Entro il 14.01.2017 il Dm di coordinamento con le attuali regole tecniche.

È in vigore da oggi il nuovo Cad – Codice dell’amministrazione digitale come modificato ed integrato dal Dlgs 179/2016, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale di ieri. Il testo finale del decreto risulta in parte modificato rispetto allo schema approvato in via preliminare dal Governo.
Di assoluta rilevanza sono comunque le novità dettate in materia di domicilio e identità digitale, documenti informatici, firme e pagamenti elettronici. L’articolo 61 del decreto 179 delega per questo a un apposito decreto del ministro per la Semplificazione, da adottarsi entro quattro mesi e cioè entro il 14.01.2017, l’aggiornamento e il coordinamento con il nuovo testo normativo delle regole tecniche a oggi vigenti, le quali comunque restano in vigore sino all’adozione del regolamento ministeriale.
Risulta perciò espressamente sospeso l’obbligo per le Pa di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti alle regole del Dpcm 13.11.2014, operative dal 12.08.2016, ma è fatta salva la facoltà delle amministrazioni di adeguarsi anteriormente al decreto, come accaduto per le Entrate con l’adeguamento disposto con nota n. 129255 dell’08.08.2016.
La digitalizzazione dei rapporti tra amministrazioni e cittadini si fonda innanzitutto sull’elemento del domicilio digitale definito, dalla nuova lettera n-ter) dell’articolo 1 del Cad, come l’indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato a norma eIdas che consente la prova del momento di ricezione. Il nuovo articolo 3-bis riconosce infatti ai cittadini la possibilità di indicare, al Comune di residenza, un domicilio digitale che costituisce il mezzo esclusivo di comunicazione da parte delle Pa.
A differenza di quanto previsto per imprese e professionisti, la titolarità di una casella di Pec non costituisce un obbligo per i cittadini. Un domicilio digitale sarà comunque messo a disposizione degli iscritti all’Anpr, secondo modalità individuate con decreto ministeriale.
Per digitalizzare i procedimenti, formazione, gestione e conservazione dei documenti devono avvenire in modalità informatica. Lo schema di decreto, modificando l’articolo 21 del Cad, riteneva soddisfatto il requisito della forma scritta di un documento informatico quando sottoscritto con firma elettronica, a prescindere dalla tipologia avanzata, qualificata o digitale utilizzata.
Il nuovo testo del Cad sembra fare sul punto un passo indietro reintroducendo il previgente comma 1 dell’articolo 21 secondo cui il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta ma resta liberamente valutabile in giudizio.
Inoltre ai sensi del comma 2, quando il documento viene sottoscritto con firma elettronica avanza, qualificata o digitale lo stesso ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile e quindi forma piena prova sino a querela di falso.
Infine, rispetto al testo dello schema del Cad, non è stata più recepita l’integrazione all’articolo 22, comma 3: non potevano infatti essere disconosciute le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali analogici quando realizzate mediante processi e strumenti tali da assicurare contenuto e forma identici previo raffronto o certificazione di processo.
Il nuovo testo dell’articolo 29 del Cad dispone su qualificazione ed accreditamento di prestatori di servizi fiduciari, gestori di posta certificata e conservatori, demandando a un apposito Dpcm l’individuazione di appositi requisiti, quali un capitale sociale graduato, in ragione dei livelli di servizi offerti, entro il limite massimo di cinque milioni di euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIAi cittadini domicilio digitale. Visite, tributi e pratiche scolastiche gestiti con un click. In Gazzetta Ufficiale (e in vigore da oggi) il dlgs che modifica il codice della p.a. hi-tech.
Arriva il «domicilio digitale» che permetterà di ricevere sulla propria casella di posta elettronica certificata notifiche e comunicazioni. I cittadini potranno indicare la propria casella al comune di residenza per facilitare le comunicazioni con le p.a. L'accesso sarà attraverso il pin unico (il sistema Spid), in collegamento con l'Anagrafe nazionale della popolazione residente.
E sempre attraverso Spid si potrà accedere ai servizi pubblici con un unico nome utente e un'unica password. Prenotare visite mediche, pagare tributi, iscrivere i propri figli a scuola saranno pratiche a portata di click, senza la necessità di dover memorizzare e conservare decine di password. Le pubbliche amministrazioni saranno obbligate ad accettare pagamenti attraverso i sistemi elettronici, inclusi gli strumenti di micro pagamento e il credito telefonico.
Gli enti che non si adegueranno alla rivoluzione digitale rischieranno di subire azioni collettive, vere e proprie class action, da parte dei cittadini. Le azioni collettive saranno attivabili non solo in caso di mancata erogazione dei servizi online, ma anche qualora gli standard dei servizi siano inferiori a quelli previsti dalla legge.

Sono solo alcune delle novità contenute nel decreto legislativo 26.08.2016, n. 179, recante «Modifiche e integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» pubblicato ieri sulla G.U. n.214 e in vigore da oggi.
Il decreto (si veda ItaliaOggi dell'11 agosto scorso) prevede anche che l'obbligo di dematerializzare i provvedimenti (e i procedimenti) amministrativi, che sarebbe dovuto entrare in vigore in agosto, slitti in attesa di un decreto della Funzione pubblica che dovrà riscrivere le regole tecniche. Fino a quel momento l'obbligo per gli enti pubblici di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti sarà sospeso. Ma chi lo vorrà potrà adeguarsi prima.
Tra le altre novità di rilievo, quella secondo cui le amministrazioni dovranno rendere disponibili agli utenti la connessione internet wi-fi presso i propri uffici. Quando gli uffici sono chiusi, la connessione sarà a disposizione di tutti i cittadini che potranno accedervi senza bisogno di particolari sistemi di autenticazione. Il governo è infatti tornato sui propri passi rispetto all'idea di rendere il servizio accessibile solo agli utenti Spid perché una scelta del genere avrebbe tagliato fuori i turisti, il cui accesso alla rete, invece, va incentivato.
E ancora, se sottoscritti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale e formati nel rispetto delle regole tecniche previste dal decreto, i documenti informatici faranno piena prova fino a querela di falso. Il dlgs estende l'ambito di applicazione del codice dell'amministrazione digitale alle società a controllo pubblico. Sono invece escluse le società quotate.
In quanto soggette al Cad, anche le società a controllo pubblico saranno obbligate ad accettare i pagamenti elettronici in qualsiasi forma, incluso l'utilizzo dei micropagamenti e del credito telefonico. La responsabilità della transizione al digitale sarà affidata a un unico ufficio dirigenziale assegnato a un responsabile dotato di adeguate competenze tecnologiche e manageriali (articolo ItaliaOggi del 14.09.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAPer le regole sul rumore rischio di una retromarcia. Norme in cantiere. Verso un nuovo intervento legislativo.
Il regolamento europeo 305/2011 (Cpr), sostitutivo della direttiva 89/106/EC (Cpd) sui prodotti da costruzione indica tra i sette requisiti essenziali di un edificio la protezione dal rumore. In Italia gli obblighi relativi a tale requisito sono espressi dal Dpcm del 05.12.1997 (in vigore dal 19.02.1998).
Questo, se da una parte ha dato impulso alla concreta attuazione del rispetto di tale requisito (dal 1998 ad oggi le prestazioni acustiche degli edifici si sono decisamente innalzate), dall’altra è affetto da errori d’impostazione. Serve quindi una nuova legislazione.

Su sollecitazione del ministero dell’Ambiente, l’Uni ha elaborato la norma tecnica Uni 11367:2010 sulla classificazione acustica delle unità immobiliari negli edifici. Tale norma potrebbe e dovrebbe essere recepita tale quale in una nuova legislazione. Invece sta circolando, senza mai essere stato reso ufficialmente pubblico, un progetto di Dlgs del ministero delle Attività produttive , giustificato sulla base della legge 161/2014, articolo 19, comma 2, lettera g). Sulla base del testo circolato in maniera ufficiosa tra gli addetti ai lavori va fatta una serie di osservazioni e critiche.
La legittimità del progetto di decreto è dubbia: le “procedure autorizzative” sembrerebbero essere quelle necessarie ad ottenere i titoli abilitativi (permesso di costruire, Scia, eccetera) e/o l’abitabilità. Dunque non potrebbero incidere sui valori limite dei requisiti acustici passivi.
Lo schema di decreto riprende solo in parte la Uni 11367 a cui dice di ispirarsi.
Il rispetto dei requisiti acustici passivi è obbligatorio solo per i nuovi edifici, cioè quelli realizzati dopo l’entrata in vigore del decreto (articolo 4). È opzionale per tutti gli altri. Questo implica un vero e proprio “colpo di spugna” sugli edifici realizzati sinora.
La classe di riferimento diviene la classe IV della Uni 11367, mentre la stessa norma Uni individua chiaramente la classe III (migliore della classe IV) come riferimento. La classe III è già meno restrittiva del vigente Dpcm del 1997. Dunque il nuovo decreto abbasserebbe i requisiti già vigenti per i nuovi edifici. Poco importa poi che all’art. 7 si indichi la classe III per i “valori di riferimento” del progetto: quelli che contano sono i valori riscontrati in fase di verifica, che sono quelli della classe IV. Anzi, così dicendo all’articolo 7, si ammette implicitamente che la messa in opera solitamente non rispetta il progetto. Le tabelle in pagina riassumono con chiarezza la situazione che si verrebbe a creare.
Nella bozza di decreto manca una chiara definizione di ristrutturazione, totale o parziale, e manca un’individuazione chiara dei relativi valori limite –ovvero della classe di prestazione– per le ristrutturazioni. Al massimo si dice (articolo 4) che devono essere «tali da evitare il peggioramento dei requisiti acustici preesistenti (...)». Se però l’atto di compravendita non riporta nulla (cosa probabilissima perché la classificazione obbligatoria entrerebbe in vigore solo dal 2016), nessun obbligo sussiste. Eppure basterebbe fare riferimento al Dpr 380/2001, articolo 3, che definisce gli interventi di recupero.
Nello schema di decreto la classificazione acustica deve essere riportata, nei soli casi previsti, per gli elementi edilizi. La classificazione complessiva di un’unità immobiliare, che è la cosa più facile da comprendere per il comune cittadino, è soltanto facoltativa: all’articolo 6, comma 2, punto k) si dice infatti che «può essere riportato anche l’indice unico di classificazione dell’unità immobiliare indicato dalla norma Uni 11367».
I Comuni non hanno più obblighi di controllo dei requisiti acustici passivi ma solo di richiedere attestazioni cartacee a costruttori e direttori lavori, rese come dichiarazione sostituiva di atto di notorietà (articolo 9).
Sono previste sanzioni (articolo 11: da 2mila a 50mila euro per unità immobiliare), tuttavia il loro l’impatto è molto ridotto a causa della non obbligatorietà della classificazione acustica per tutto quanto costruito sinora.
A fronte di tante criticità, un’unica nota positiva: nell’ultima versione circolata sono stati introdotti valori di riferimento per la riverberazione sonora e l’intelligibilità del parlato all’interno di scuole ed ospedali, più aggiornati di quelli vigenti. In conclusione, si potrebbe fare meglio, e molto più semplicemente: basterebbe recepire integralmente la norma Uni 11367, senza compromessi. Siamo ancora in tempo
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, elenchi e albi solo online. Decreto in gazzetta ufficiale.
Albi, elenchi e registri dei consigli dell'ordine degli avvocati solo in modalità online. Con un sistema informatico centrale, gestito dal Consiglio nazionale forense, che metterà a disposizione degli ordini territoriali le funzioni di recezione, accettazione e gestione dei dati e dei documenti informatici.
È quanto prevede, tra l'altro, il decreto 16.08.2016, n. 178, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 213 di ieri, che contiene il regolamento recante le disposizioni per la tenuta e l'aggiornamento di albi, elenchi e registri da parte dei Coa, nonché in materia di modalità di iscrizione e trasferimento, casi di cancellazione, impugnazioni dei provvedimenti adottati in tema dagli stessi Coa.
Il provvedimento, emanato dal ministero della giustizia in attuazione della riforma forense, entrerà in vigore il 27.09.2016. E a partire da tale data, il Cnf avrà due anni di tempo per realizzare il sistema informatico centrale. Mentre entro il 27.09.2017, il Cnf adotta, sentiti il garante per la protezione dei dati personali e i consigli dell'ordine territoriali, le specifiche tecniche del sistema online (architettura di funzionamento, flussi informativi, modalità di accesso, di interconnessione e interazione con i sistemi dei Coa, misure di sicurezza ecc).
Inoltre, il decreto prevede che, entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore, il ministero della giustizia è tenuto a stabilire le modalità telematiche e automatizzate per la trasmissione a via Arenula degli indirizzi e dei dati identificativi degli avvocati. Gli ordini territoriali, inoltre, devono tenere gli albi, il registro e gli elenchi esclusivamente con modalità informatiche, utilizzando il sistema informatico centrale.
I Coa che, alla data di entrata in vigore del decreto, dispongono già di sistemi informatici per la tenuta delle informazioni, possono continuare ad avvalersene, a condizione che, quando il Cnf realizzerà il sistema centrale, tali sistemi siano dotati di tutte le funzionalità prescritte dal regolamento e che abbiano basi di dati interconnesse con la base di dati del sistema centrale. Invece, i Coa che non dispongono di sistemi informatici si avvalgono esclusivamente del sistema informatico centrale e i documenti informatici contenenti la registrazione cronologica delle operazioni informatiche sono conservati per almeno tre anni.
Quanto alle informazioni che saranno indicate nell'albo degli avvocati, sono previsti: nome e cognome, codice fiscale, domicilio professionale, data di prima iscrizione, eventuale associazione tra avvocati o società tra avvocati, disponibilità ad assumere difese d'ufficio, iscrizione nell'albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, attività di mediatore, iscrizione in uno degli elenchi dei gestori della crisi, eventuale sospensione, lingue straniere conosciute indirizzo web si siti riconducibili, iscrizione all'elenco per il gratuito patrocinio, eventuale data di cancellazione (articolo ItaliaOggi del 13.09.2016).

ENTI LOCALISocietà, sui dipendenti il «cortocircuito» della mancata mobilità. Partecipate. Il personale nella riforma.
Il Testo unico sulle partecipate affronta in modo innovativo il tema della gestione del personale all’articolo 19. Meno convincente invece è come viene disciplinata la fase “transitoria”, stabilita all’articolo 25 e, marginalmente, dall’articolo 24, comma 9, relativo alla revisione straordinaria delle partecipazioni.
L’articolo 19 definisce un quadro completo del tema del personale, anzitutto estendendo ai lavoratori le tutele del mondo privato, compresi gli ammortizzatori sociali (articolo 19, comma 1). Del resto, fermi restando i principi di pubblicità e di trasparenza, questa è la cifra di tutto il Testo unico che, anche se con qualche prudenza di troppo, vuole spostare l’asse delle aziende pubbliche verso il mercato, soprattutto sul piano del loro funzionamento.
Restano punti fermi il reclutamento, che segue i principi pubblicistici (comma 2) anche se vengono attenuati i profili di danno erariale in caso di violazione della norma (comma 4), e il dovere delle amministrazioni socie di formulare atti di indirizzo anche sulle spese del personale (commi 5 e 6).
Per quanto riguarda il periodo transitorio, invece, il meccanismo individuato è molto lacunoso, a partire dal fatto che l’articolo 19, comma 9, limita la mobilità ex legge 147/2013 alle sole procedure già avviate.
Questo non può che avere effetti anche sull’efficacia di quanto immaginato all’articolo 25. La norma prevede la formazione di un elenco delle eccedenze di personale, da redigere secondo le modalità che verranno definite in un decreto del ministero del Lavoro (comma 1). Per i primi sei mesi saranno le Regioni a gestire questi elenchi e ad agevolare i processi di mobilità regionale, secondo le modalità stabilite dal decreto del ministero.
Però, una volta dichiarati eccedenti, e quindi licenziati, non si vede come queste persone possano essere assunte senza seguire le modalità di reclutamento previste dall’articolo 19, comma 2, e quindi ci si chiede cosa potranno fare in concreto le Regioni, visto che l’articolo 28 le priva dell’unico strumento oggi esistente, ovvero la mobilità introdotta dalla manovra 2014. Per altro, trattandosi di nuovi contratto di lavoro, chi verrà ricollocato lo sarà con un contratto a tutele crescenti, e non mantenendo il vecchio inquadramento.
A conferma che il legislatore è consapevole del fatto che il destino del personale eccedente è quello del licenziamento, il comma 3 prevede che, scaduti i sei mesi, spetti all’ Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro gestire gli elenchi (comma 3). Unica previsione a favore di queste persone è che, fino al 30.06.2018, le società a controllo pubblico non possano assumere a tempo indeterminato se non attingendo da questi elenchi. Un’arma spuntata, però.
Intanto fino all’approvazione del decreto ministeriale non esiste nessun vincolo. Successivamente le aziende potranno comunque assumere a tempo determinato, e a trovarsi in difficoltà saranno solo i dipendenti già a tempo determinato che avranno la sfortuna di esaurire i 36 mesi di contratto prima del 30 giugno 2018, perché non potranno essere riassunti nell’immediato.
Anche l’articolo 24, comma 9, interviene sul tema della tutela degli occupati stabilendo che, in caso di affidamento con procedura di evidenza pubblica di un servizio prima gestito da una società a controllo pubblico, il rapporto di lavoro è mantenuto con la subentrante in base all’articolo 2112 del Codice civile.
La collocazione del comma nell’articolo relativo alla revisione straordinaria delle partecipazioni lo rende però di limitata efficacia, visto che ne circoscrive gli effetti al periodo di questo unico piano e quindi entro il 2017
La norma sarebbe utile, invece, per regolare con chiarezza il passaggio del personale in quei servizi pubblici locali per i quali la tematica non è regolata dalle norme speciali. Sarebbe utile riprendere il tema nel Testo unico sui servizi pubblici, che affronta adesso il suo percorso parlamentare
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2016).

EDILIZIA PRIVATADistanze minime tra edifici, deroghe in sette Regioni. Su due leggi è atteso il giudizio della Corte costituzionale. Urbanistica. Lo scorso 15 luglio la Consulta ha dichiarato illegittima la norma marchigiana.
Sono sette le Regioni che hanno deciso di avvalersi della possibilità di derogare alla normativa statale sulle distanze minime tra gli edifici.
Attualmente sono però applicabili soltanto le disposizioni di quattro Regioni, perché le altre sono state impugnate dal Governo davanti alla Corte costituzionale, ritenendo che le deroghe non abbiano rispettato il tracciato consentito. Lo scorso 15 luglio, la Consulta ha già dichiarato l’incostituzionalità della normativa marchigiana.
Il rispetto dei limiti di distanza tra edifici, ma anche di densità edilizia (rapporto tra volume dell’immobile e superficie fondiaria dell’area) e di altezza, come anche il rispetto degli altri standard urbanistici (ad esempio, la dotazione di parcheggi o di verde), risulta agevole quando si tratta di realizzare una nuova urbanizzazione o un nuovo isolato.
Risulta più complicato, invece, quando si interviene sulle zone già costruite, per realizzare programmi di riqualificazione urbanistica o del patrimonio edilizio di parti della città, con l’abbattimento e la ricostruzione di interi edifici. In questi casi può diventare arduo ricostruire rispettando i termini previsti dal Dm Lavori pubblici 1444 del 02.04.1968, che definisce i parametri-regola per le singole zone omogenee in cui è suddiviso il territorio del Comune.
L’articolo 9 del Dm prevede che, per realizzare nei centri storici gli interventi di risanamento conservativo e di ristrutturazione, le distanze tra i nuovi edifici non debbano essere inferiori a quelle che c’erano tra gli immobili abbattuti. Mentre nelle altre zone edificate lo spazio minimo tra la parete di un edificio con finestra e quella dell’edificio di fronte deve essere di almeno 10 metri.
Potrebbe però accadere che il rispetto di queste regole ostacoli di fatto la riqualificazione dell’isolato di un quartiere di periferia, dove gli edifici da abbattere distano tra loro meno di 10 metri. E l’operazione diventa ancor più difficile dovendo rispettare anche i limiti di altezza e di densità, poiché non si può compensare la riduzione di un indice con l’aumento dell’altro.
Per favorire la realizzazione di programmi di questo tipo, nel 2013 il cosiddetto “decreto del fare” (Dl 98/2013) ha modificato il testo unico dell’edilizia (Dpr 308/1981), attribuendo alle Regioni la facoltà di derogare al rispetto delle distanze minime, per realizzare non interventi puntuali ma la riqualificazione urbana o del patrimonio edilizio esistente o il suo recupero funzionale.
La norma è oggetto di interpretazioni discordanti. Anche le Regioni che finora l’hanno applicata non si sono mosse tutte nella stessa direzione. In Friuli-Venezia Giulia si può derogare solo nelle zone territoriali BO, che vengono equiparate alle zone A, mentre l’Emilia-Romagna consente di ricostruire in deroga sulle aree di sedime del vecchio edificio.
La Toscana –oltre a rendere possibile, nei casi previsti dai piani operativi, la ricostruzione degli edifici con la stessa distanza esistente prima della demolizione (anche inferiore a 10 metri)– stabilisce una serie di altre eccezioni. Ad esempio, i Comuni possono prevedere nei Prg che gli ampliamenti degli immobili produttivi esistenti siano eseguiti venendo meno al rispetto delle distanze, se si osservano le norme di sicurezza e igiene; e soprattutto se i nuovi spazi servono per il mantenimento delle attività produttive e dell’occupazione.
I piani urbanistici comunali della Liguria possono abbassare il limite dei 10 metri, purché la distanza tra i fabbricati non crei particolari problemi al paesaggio e non comprometta un assetto urbanistico equilibrato; gli interventi devono essere fatti per promuovere la riqualificazione nelle aree urbane.
Anche la regione Veneto attribuisce allo strumento urbanistico comunale la facoltà di derogare ai limiti del Dm, e non solo per le distanze ma pure per altezze e densità edilizie: su questa previsione si deve però pronunciare la Corte costituzionale. L’attesa per il giudizio della Consulta è condivisa dall’Umbria, che ha deliberato di sostituire in toto con proprie norme la disciplina in materia di distanze, standard e zone territoriali omogenee contenute nel decreto 1444/1968.
Sulla legge delle Marche, invece, la sentenza (178/2016) è già arrivata: la Corte ha dato ragione al Governo nel ritenere che la Regione avesse oltrepassato i confini di sua competenza, ammettendo la deroga alle distanze minime anche per i singoli interventi realizzati al di fuori dei piani di riqualificazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAbiti, semplificazione a metà. Operazioni di recupero alleggerite solo tecnicamente. Nella legge antisprechi anche le norme per il trattamento dei rifiuti da abbigliamento.
Dal 14.09.2016 semplificazioni tecniche ma non burocratiche per riabilitare direttamente a beni i capi di abbigliamento usati che, non rispettando a monte determinate condizioni, sono da sottoporre a preventivo trattamento in quanto rifiuti.
Con l'entrata in vigore della legge 166/2016 sulla limitazione degli sprechi, acquistano infatti operatività anche le neo disposizioni sulla «distribuzione di articoli e accessori di abbigliamento usati a fini di solidarietà sociale», regole che alleggeriscono in alcuni casi le operazioni da effettuare per recuperare quelli costituenti rifiuti senza però parallelamente mitigare il regime autorizzatorio necessario per condurle.
Cessione abiti in disuso: beni o rifiuti. A fianco delle norme sulla redistribuzione di eccedenze alimentari e farmaci inutilizzati (si veda articolo a pagina 13), la legge 19.08.2016, n. 166 (G.U. 30.08.2016 n. 202) introduce con il suo articolo 14 una disciplina sulla cessione degli abiti in disuso da parte dei privati.
La nuova disciplina si muove su due fronti:
- da un lato, tracciando il confine tra l'abbigliamento che all'atto del trasferimento può continuare a sottostare alle regole dei veri e propri beni e gli articoli che invece devono essere sottoposti al severo regime dei rifiuti;
- dall'altro, riformulando alcune norme tecniche per il recupero di questi ultimi abiti-rifiuto al fine del loro successivo riutilizzo.
In relazione al confine beni/rifiuti, dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'articolo 14 della nuova legge emerge che costituiscono rifiuti gli articoli e gli accessori di abbigliamento usati che hanno una delle seguenti caratteristiche: non sono ceduti a titolo gratuito da privati direttamente presso le sedi operative dei «soggetti donatari» (soggetti coincidenti, nel tenore dell'articolo 2 della legge, sostanzialmente con le organizzazioni onlus); «non sono ritenuti idonei ad un successivo utilizzo» (evidentemente, laddove tale utilizzo non sia possibile «tal quale», ossia senza ricorrere ad un preventivo trattamento).
Tali ultimi abiti, specifica infatti espressamente la legge 166/2016 in coerenza con il quadro normativo preesistente, «sono gestiti in conformità alla normativa sui rifiuti di cui al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152».
Il recupero degli abiti costituenti rifiuto. La nuova legge introduce alcune semplificazioni tecniche sulle operazioni minime di recupero cui devono essere sottoposti gli indumenti-rifiuto per poter farli rientrare direttamente nel circuito dei beni (invece di utilizzarli come materie prime secondarie, cd. «mps», nel settore tessile).
L'alleggerimento arriva con una modifica dello storico dm Ambiente 05.02.1998, laddove tra le due operazioni di trattamento finalizzate a reimmettere direttamente gli articoli tessili nel ciclo di consumo quella dell'igienizzazione (che segue la selezione) diventa obbligatoria solo ove si renda necessaria per l'ottenimento degli standard microbiologici previsti dallo stesso regolamento.
Giuridicamente, la semplificazione arriva con la riformulazione della lettera a), punto 8.9.3 suballegato 1, allegato 1, al dm Ambiente 5 febbraio 1998 (recante le norme tecniche per il recupero di materia dai rifiuti non pericolosi), incidendo nei termini sopra esposti sulle citate operazioni (da inquadrarsi come «R3», in base al dlgs 152/2006) propedeutiche all'ulteriore fase del deposito degli abiti (la c.d. messa in riserva, «R13») finalizzato alla loro diretta reimmissione nel consumo.
Tale semplificazione tecnica, dalla legge 166/2016 finalizzata a «contribuire alla sostenibilità economica delle attività di recupero», non appare però essere sorretta da parallelo alleggerimento burocratico.
Il dm Ambiente 05.02.1998 nasce infatti storicamente (sotto il dlgs 22/1997, c.d. «decreto Ronchi», e in continuità sotto l'attuale dlgs 152/2006) per individuare i rifiuti non pericolosi sottoponibili, nel rispetto di determinate condizioni tecniche, a «procedure semplificate di recupero», ossia ad operazioni condizionate alla semplice comunicazione preventiva agli Enti territoriali di competenza in luogo della titolarità della più onerosa autorizzazione regionale.
Di fatto la portata derogatoria del dm Ambiente 05.02.1998 è stata però erosa dalla successiva modifica al provvedimento apportata dal dlgs 186/2006, che ha di fatto escluso dalla suddetta procedura semplificata i rifiuti per il cui recupero non sono dallo stesso dm individuati parametri quantitativi da rispettare. E nel pertinente allegato 4 del dm 5 febbraio 1998 non trovano infatti attualmente collocazione proprio i parametri quantitativi (massimi) relativi alle attività di recupero «R3» effettuate su indumenti-rifiuto da reimmettere direttamente nel ciclo di consumo. E questo a differenza delle analoghe operazioni effettuate su abiti-rifiuto da reimpiegare, invece come «mps» nell'industria del tessile.
Alla luce di ciò appare che le citate attività di recupero mirate alla immediata destinazione al consumo degli abiti potranno essere sì, ricorrendone le condizioni, eseguite in forma tecnicamente «abbreviata» (ossia prescindendo, ove non ritenuta necessaria, con evidente assunzione di responsabilità, dalla igienizzazione) ma non potranno comunque essere condotte in forma burocraticamente semplificata tramite mera comunicazione (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

SEGRETARI COMUNALINeo-segretari senza fine. Un biennio di formazione dopo il concorso. Molti i nodi per i futuri apicali con la riforma della dirigenza.
Un caotico futuro da eventuale dirigente apicale per i segretari comunali di fascia C e neo assunti.
Lo schema di decreto legislativo attuativo della riforma della dirigenza crea una notevole confusione nella disciplina transitoria e futura relativa ai segretari comunali in generale, ma in particolare per quelli non assimilati alla qualifica dirigenziale, a causa di una serie di ipotesi e sub ipotesi poco chiare.
Incarico da funzionari. La riforma prevede che sia i segretari comunali e provinciali già iscritti all'albo nazionale di cui all'articolo 98 del dlgs 267/2000 collocati nella fascia professionale C prevista dalle disposizioni contrattuali vigenti, sia i vincitori di procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso in carriera, già avviate alla data di entrata in vigore della legge 124/2015 sono immessi in servizio come funzionari per due anni effettivi (a meno che non ricevano l'incarico di dirigente apicale).
Si tratta di una previsione estremamente contraddittoria e confusa. I segretari comunali, pur in fascia C o neo-vincitori di concorso, sono reclutati per svolgere la funzione di segretari comunali, cioè ricoprire la sede di segreteria e fare il lavoro da segretari. La norma, in funzione dell'abolizione della figura del segretario comunale, pare introdurre un'ipotesi eccentrica: farli lavorare come funzionari, per due anni.
Ma, questo significa che persone formatesi per svolgere l'attività di segretario comunale, possano essere «dirottate» a funzioni diverse, messe in sostanza in uno specie di limbo per due anni, in attesa dell'inserimento nel ruolo dei dirigenti.
Periodo di «praticantato». Pare di capire che l'attività da funzionari avverrà nei ruoli degli enti locali. A tale scopo, lo schema prevede che gli enti presso i quali nei successivi due anni sarà disponibile un ufficio dirigenziale, possono chiedere alla Commissione competente al ruolo unico dei dirigenti locali di avere in assegnazione tali funzionari, presentando un progetto professionale e formativo di inserimento. Come se il concorso vinto a suo tempo non avesse valore ed occorra altra formazione allo scopo.
La Commissione competente abbinerà i progetti presentati dagli enti locali al numero dei segretari di fascia C e neo vincitori di concorso e verosimilmente metterà loro a disposizione i progetti e gli inserimenti formativi proposti dagli enti locali, così che i segretari di fascia C e i neo-vincitori possano scegliere l'ente presso il quale prestare servizio; a tale scopo, lo schema prevede una priorità per coloro che hanno maggiore anzianità nella fascia, scelgono l'amministrazione di destinazione.
Per facilitare la presa di servizio, la norma prevede che i soggetti interessati possano essere assegnati anche in soprannumero, e comunque nell'ambito delle risorse disponibili.
Laddove i progetti presentati dagli enti locali siano meno dei segretari di fascia C e dei neo-vincitori di concorso, coloro che non saranno immessi in servizio negli enti locali saranno, allora, assegnati alle amministrazioni statali, in applicazione dell'articolo 4, comma 3-quinquies, del dl 101/2013, convertito dalla legge 125/2013, a cura della Funzione pubblica. Si presume, dunque, che la Funzione pubblica, allora, disporrà anche le immissioni in servizio presso gli enti locali: sul punto la norma non è chiara e lascia aperta l'ipotesi che sia la Commissione che gestisce il ruolo a provvedere.
Qualifica dirigenziale. Al termine del biennio di lavoro prestato come funzionari, l'amministrazione presso la quale i segretari di fascia C e vincitori di concorso hanno operato trasmetterà alla Commissione per la gestione del ruolo una relazione sul servizio prestato, dotata di una valutazione di merito. Laddove questa sia positiva, l'amministrazione presso la quale il vincitore ha prestato servizio potrà immettere in ruolo il dipendente come dirigente: pertanto, acquisirà la qualifica dirigenziale e l'iscrizione nel Ruolo della dirigenza locale.
L'amministrazione che immette l'interessato in servizio potrà anche conferirgli un incarico dirigenziale senza l'espletamento della procedura comparativa prevista dalla riforma, in analogia a quanto previsto per l'immissione in servizio dei dirigenti dei concorsi che in futuro selezioneranno i dirigenti. Laddove la valutazione fosse negativa, l'interessato rimane in servizio presso l'ente per un altro anno: concluso quest'altro periodo di servizio l'amministrazione trasmette una nuova valutazione alla Commissione, competente.
Se positiva, vi sarà l'immissione in ruolo. Se ulteriormente negativa, l'interessato non è ammesso a nuova valutazione, e rimane in servizio come funzionario.
Dirigente apicale. Come si nota, il sistema non è preordinato a fare degli ex segretari di fascia C e dei neo vincitori del concorso dei «dirigenti apicali», figura chiamata a sostituire quella abolita del segretario. Tuttavia, lo schema prevede l'ipotesi che ai soggetti in argomento gli enti locali possano conferire direttamente, senza le trafile viste prima l'incarico di dirigente apicale.
Ciò consentirà loro l'inserimento nel Ruolo unico della dirigenza locale dopo avere ricoperto tale incarico per una durata complessiva non inferiore a 18 mesi (articolo ItaliaOggi del 10.09.2016).

ENTI LOCALI: Partecipate, via al countdown. Revisione straordinaria da completare entro marzo 2017. La pubblicazione del Testo unico Madia in G.U. fa partire il timing per la sforbiciata.
La stretta sulle società partecipate partirà il 23 settembre. Sarà questa la data spartiacque a partire dalla quale gli enti e le pubbliche amministrazioni dovranno scattare un'istantanea sugli assetti societari, individuando entro sei mesi le partecipazioni che dovranno essere alienate in quanto «fuori legge».
Gli enti avranno quindi tempo fino a fine marzo 2017 per portare a termine la revisione straordinaria delle partecipazioni. E un ulteriore anno per cedere quelle non in regola.

A far partire il conto alla rovescia per lo sfoltimento delle oltre 5 mila società partecipate ritenute a rischio dal governo, è la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di ieri (n. 210/2016) del Testo unico Madia approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri lo scorso 10 agosto (si veda ItaliaOggi dell'11 agosto).
Il T.u. in materia di società a partecipazione pubblica (dlgs 19.08.2016, n. 175) entrerà dunque in vigore decorsi i tradizionali 15 giorni di vacatio legis. Quindici giorni che dovranno servire alle pubbliche amministrazioni per mettersi in regola, prima che sia troppo tardi e si metta in moto la macchina che porterà entro sei mesi alla revisione straordinaria delle partecipazioni. Mentre quella periodica dovrà compiersi ogni anno a partire dal 2018. Ma quali saranno i requisiti necessari per sfuggire alla sforbiciata?
Le partecipazioni rimarranno consentite per la produzione di servizi di interesse generale (inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi), per la progettazione, realizzazione e gestione di opere pubbliche, per l'autoproduzione di beni o servizi strumentali e per servizi di committenza. Restano fuori dalla potatura anche le finanziarie regionali e le società che gestiscono spazi e eventi fieristici o impianti di risalita.
Il fatto di operare in questi settori «ammessi» non garantirà necessariamente la sopravvivenza delle società che potranno essere mantenute solo se rispettano precisi paletti. Dovranno essere dismesse le realtà che risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti, quelle che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali e quelle che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro.
Per le società diverse da quelle costituite per la gestione di servizi d'interesse generale, scatterà l'obbligo di dismissione in presenza di un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti. In caso di mancata ricognizione delle partecipate fuori legge o di mancata alienazione delle partecipazioni entro un anno, il socio pubblico vedrà congelati i propri diritti sociali e la partecipazione dovrà essere liquidata in denaro (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).

APPALTI: Maratona sul codice appalti. Da adottare altri 19 provvedimenti attuativi. In vigore: 3 su 60. I principali dossier all'esame di Parlamento, Governo e Anticorruzione dopo la pausa estiva.
Codice dei contratti pubblici all'attenzione del parlamento e del governo, alla ripresa dopo la pausa estiva, insieme a consumo del suolo, terre e rocce da scavo e decreti Madia; al momento in vigore tre dei 60 provvedimenti attuativi del codice dei contratti pubblici.

È questa in sintesi la situazione dei principali dossier relativi ai contratti pubblici sui quali si concentreranno parlamento, governo e Anac.
In sede parlamentare è in corso, e verrà conclusa a breve, un'indagine conoscitiva sull'attuazione del Codice, che verrà utilizzata dai componenti delle commissioni per acquisire elementi sulle criticità del decreto 50 anche ai fini dell'adozione prossima (comunque entro aprile 2017) del previsto decreto correttivo.
L'aula del senato dovrà poi esaminare a breve la proposta di istituzione di una commissione di inchiesta sulla corruzione negli appalti pubblici, mentre alla camera, in aula, si discuterà la proposta di legge sul sostegno e la valorizzazione dei comuni con meno di 5 mila abitanti. Al senato è sempre in discussione il disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo edificato, già approvato alla camera e per il quale verrà svolto un ciclo di audizioni in commissione.
Diversi sono poi gli atti di governo sui quali le commissioni dovranno esprimersi (dlgs sui servizi pubblici, i decreti Madia sulla Scia, il decreto sulle terre e rocce da scavo; è concluso invece l'esame del decreto sulle autorità portuali che deve uscire nella Gazzetta Ufficiale).
Sul fronte dell'attuazione del nuovo codice dei contratti pubblici (60 provvedimenti di attuazione in luogo di un regolamento generale, come era prima), va rilevato che dalla data di entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016) sono stati avviati gli iter per l'adozione di molti dei 19 provvedimenti che avrebbero dovuto essere emanati entro il 17.08.2016, mentre l'Autorità nazionale anticorruzione ha comunque concluso il lavoro (proposta, consultazione pubblica e invio proposte per i pareri) per quasi una decina di linee guida di cui tre dovrebbero essere in dirittura di arrivo, dopo i pareri del Consiglio di stato e delle commissioni parlamentari.
A oggi sono tre i decreti previsti dal codice, varati ed entrati in vigore: il primo è quello del ministro della giustizia, di concerto con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 17.06.2016 (su Guri n. 174 del 27/07/2016), il cosiddetto decreto Parametri per il calcolo dei corrispettivi a base di gara dei compensi per gli affidamenti di progettazione e altri servizi tecnici.
Si tratta di un provvedimento che cambia sensibilmente il quadro della situazione perché, diversamente da quanto aveva affermato l'Anac, non è vincolante per le stazioni appaltanti, ma lo possono applicare ai fini dell'individuazione dell'importo dell'affidamento se i parametri vengono ritenuti «motivatamente adeguati».
Il secondo atto in vigore è il decreto del ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare del 24.05.2016 (su Guri n. 131 del 07.06.2016) che prevede l'aumento progressivo della percentuale del 50 per cento del valore a base d'asta relativa all'obbligo del rispetto dei criteri ambientali minimi negli appalti pubblici per determinate categorie di servizi e forniture.
Infine, il terzo provvedimento adottato è quello che stabilisce la composizione e le modalità di funzionamento della cabina di regia presso la presidenza del consiglio dei ministri per l'attuazione del codice, per il monitoraggio delle criticità e per i report in sede europea (decreto del presidente del consiglio dei ministri 10.08.2016 pubblicato sulla Guri n. 203 del 31.08.2016 (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAPer ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
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E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
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Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, il C.G.A. ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso C.G.A. si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione.

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D. - È fondata l’eccezione di prescrizione ai sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981, sollevata col primo motivo di ricorso.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
E. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vedasi Tar Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vedansi, anche, Tar Lecce, III, 01.08.2016, n. 1313 e I, Sezione, 19.11.2015, n. 3351; Tar Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; Tar Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
F. - Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano (ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015 e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso C.G.A. si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 e da ultimo n. 490/2016 e data 05/05/2016) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 11.11.2016 n. 2599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Corte di Giustizia fornisce ulteriori precisazioni sul documento unico di regolarità contributiva e afferma la compatibilità col diritto comunitario della normativa italiana.
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Appalti pubblici – Requisiti di partecipazione – Documento unico di regolarità contributiva – Esclusione disposta in base alla normativa nazionale per irregolarità contributiva risultante al momento della partecipazione alla gara anche se successivamente sanata – Legittimità.
L’art. 45 della direttiva 2004/18/CE non osta ad una normativa nazionale che obbliga l’amministrazione aggiudicatrice ad escludere dall’appalto l’impresa a causa di una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussista alla data di scadenza del termine di partecipazione ad una gara d’appalto, anche se successivamente venuta meno alla data dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice e nonostante l’ente previdenziale, rilevato il mancato versamento, abbia omesso di invitare l’impresa alla regolarizzazione, come previsto dal diritto italiano, a condizione che l’operatore economico abbia la possibilità di verificare in ogni momento la regolarità della sua situazione presso l’istituto competente (1).
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(1) I. - La sentenza della Corte di giustizia UE è stata occasionata da una controversia avente ad oggetto un provvedimento di esclusione da una gara di appalto di un consorzio di società cooperative adottato dalla stazione appaltante dopo avere accertato, in sede di verifica del possesso dei requisiti di partecipazione, che una delle cooperativa non era in regola con il DURC alla data di scadenza del termine di presentazione delle domanda di partecipazione nonostante l’irregolarità fosse poi stata sanata entro la data di adozione del provvedimento di aggiudicazione.
Con ordinanza 11.03.2015 n. 1236 la IV sezione del Consiglio di Stato, adita in sede di appello per la riforma della sentenza reiettiva del gravame, ha rimesso alla Corte di Giustizia la seguente questione interpretativa: “Se l’articolo 45 della direttiva 2004/18, letto anche alla luce del principio di ragionevolezza, nonché gli articoli 49, 56 del TFUE, ostino ad una normativa nazionale che, nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia, consenta la richiesta d’ufficio della certificazione formata dagli istituti previdenziali (DURC) ed obblighi la stazione appaltante a considerare ostativa una certificazione dalla quale si evince una violazione contributiva pregressa ed in particolare sussistente al momento della partecipazione, tuttavia non conosciuta dall’operatore economico –il quale ha partecipato in forza di un DURC positivo in corso di validità– e comunque non più sussistente al momento dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio”.
La sezione remittente aveva evidenziato un paradosso presente nell’attuale normativa italiana laddove da un lato impone all’amministrazione di rinunciare alla migliore offerta, e correlativamente, in un’ottica concorrenziale, impedisce al migliore offerente di accedere all’aggiudicazione, anche ove oggettivamente non possa mettersi in dubbio, avuto riguardo alla storia dell’imprenditore ed ai suoi comportamenti passati, nonché alla peculiarità ed incolpevolezza della temporanea irregolarità rilevata, che egli sia un imprenditore corretto ed affidabile. Dall’altro, consente l’aggiudicazione ad un imprenditore che ha sempre manifestato irregolarità ed inadempienze, purché egli, al momento dell’offerta, si sia “messo in regola” con i requisiti previsti dal d.m. 24.10.2007. Tale quadro normativo inibirebbe altresì alle stazioni appaltanti l’autonoma ponderazione del caso concreto, sul presupposto che la descritta valutazione legale di “irregolarità” operante nell’ambito e per tutta la procedura di evidenza pubblica, sia garanzia di parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti alla gara.
II. - La Corte di Giustizia non condivide i dubbi espressi dal giudice nazionale e con la sentenza in rassegna ne illustra le ragioni.
Quanto alla compatibilità del diritto nazionale con l’art. 45 direttiva 2004/18/CE –nella parte in cui prevede l’esclusione dalla gara in caso di DURC irregolare alla data della partecipazione ad una gara d’appalto, anche qualora l’importo dei contributi sia poi stato regolarizzato prima dell’aggiudicazione o prima della verifica d’ufficio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice- la Corte fonda la propria risposta affermativa sui seguenti argomenti:
   a) l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18 lascia agli Stati membri il compito di determinare entro quale termine gli interessati devono mettersi in regola con i propri obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e possono procedere a eventuali regolarizzazioni a posteriori, purché tale termine rispetti i principi di trasparenza e di parità di trattamento;
   b) il potere di richiedere integrazioni documentali previsto dall’art. 51 della direttiva 2004/18 non può essere interpretato nel senso di consentire all’amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni dei documenti dell’appalto, debbono portare all’esclusione dell’offerente e comunque deve riferirsi a dati la cui anteriorità rispetto alla scadenza del termine fissato per presentare candidatura sia oggettivamente verificabile;
   c) tali conclusioni valgono anche qualora la normativa nazionale, come quella italiana, preveda che la questione se un operatore economico sia in regola con i propri obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali alla data della partecipazione ad una gara d’appalto, risulti determinata da un certificato rilasciato dagli istituti previdenziali e richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice, atteso che una tale modalità di accertamento è espressamente contemplata dell’art. 45, paragrafo 3, della direttiva 2004/18 in forza del quale le amministrazioni aggiudicatrici accettano come prova sufficiente che attesta che l’operatore economico non si trova nella situazione di irregolarità rispetto agli obblighi previdenziali, un certificato rilasciato dall’autorità competente dello Stato membro in questione e da cui risulti che tali requisiti sono soddisfatti;
   d) è irrilevante l’omesso preventivo avvio del procedimento di regolarizzazione previsto dall’art. 7, comma 3, d.m. 24.10.2007, e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, d.l. 21.06.2013 n. 69, a condizione che l’operatore economico abbia la possibilità di verificare in ogni momento la regolarità della sua situazione rispetto agli obblighi contributivi presso l’istituto competente; in tali casi egli non può opporre la dichiarazione, in buona fede, di una condizione di regolarità contributiva, certificata dall’ente e riferita ad un periodo anteriore alla presentazione dell’offerta, se, acquisendo le necessarie informazioni presso l’istituto competente, poteva verificare di non essere più in regola, per fatti sopravvenuti, con siffatti obblighi alla data della presentazione della sua offerta (cfr. in termini Cons. St., A.P., 05.05.2016, n. 10, in Riv. neldiritto, 2016, 1070, con nota di RASCIO, nonché oggetto della News US in data 31.05.2016).
Quanto al dubbio del giudice remittente circa la compatibilità con l’art. 45 della direttiva 2004/18 delle disposizioni nazionali che privano le stazioni appaltanti di qualsiasi margine di discrezionalità, vincolandole tassativamente a disporre l’esclusione dei partecipanti privi dei requisiti, alla data di presentazione delle offerte, la Corte di Giustizia osserva che l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18 non prevede un’uniformità di applicazione a livello dell’Unione delle cause di esclusione ivi indicate, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. Conclude pertanto che tale disposizione non obbliga gli Stati membri a lasciare un margine di discrezionalità alle amministrazioni aggiudicatrici a tale riguardo.
Sulla possibile portata discriminatoria tra le imprese stabilite in Italia e quelle stabilite in altri Stati membri della normativa nazionale nella parte in cui applica alle seconde norme di minor rigore, circa la prova del possesso dei requisiti generali di partecipazione, secondo quanto previsto dallo stesso art. 38, commi 4 e 5, d.lgs. n. 163 del 2006, la Corte si limita a constatare il difetto di rilevanza della questione nella causa principale stante la mancata partecipazione di imprese stabilite in altri stati membri.
Infine, si evidenzia come la Corte mostri di recepire il principio consolidato nella giurisprudenza della Plenaria in forza del quale i requisiti soggettivi non devono essere posseduti solo al momento della presentazione della domanda ed allo scadere del termine di presentazione previsto dal bando, ma devono perdurare per tutto lo svolgimento della procedura e fino alla stipula del contratto ovvero fino all’autorizzazione del sub appalto, con la conseguenza che và pronunciata la decadenza dall’aggiudicazione ove l’aggiudicatario, inizialmente in possesso del requisito lo perda prima della stipulazione del contratto (cfr. Cons. St., A.P., nn. 10 del 2016; 5 e 6 del 2016; 8 del 2015; 15 e 20 del 2013; 8 del 2012; 1 del 2010).
III. - In tema di documento unico di regolarità contributiva si vedano le menzionate Adunanze plenarie del Consiglio di Stato n. 5 e n. 6 del 2016, in Urbanistica e appalti, 2016, 787, con nota di CARANTA, nonché oggetto della News del 01.03.2016, e n. 10 del 2016.
Sulla disciplina del DURC nel nuovo codice degli appalti v. C.g.a., sez. riun., 24.05.2016, n. 922/2015.
Nel senso che la normativa italiana in materia di regolarità contributiva è conforme al diritto europeo, v. per ulteriori profili, Corte giust. comm. ue, sez. X, 10.07.2014, C-358/12, Consorzio Libor, in Urbanistica e appalti, 2014, 1170, con nota di PATRITO (Corte giust. comm. UE, Sez. IX, sentenza 10.11.2016 - C-199/15 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione ovvero concentrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio, principio già enunciato dalla Corte nella vigenza dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, e ritenuto ancora valido pur dopo l’emanazione del c.p.a., negandosi dalle SS. UU. che in detto codice la tutela risarcitoria sia configurata come un'autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva.
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4. Quanto alla domanda risarcitoria avanzata dalla ricorrente principale, la quale asserisce di avere subìto danni a causa del comportamento negligente del Comune di Forlì che aveva rilasciato i titoli edilizi poi annullati in sede giurisdizionale, va innanzitutto esaminata l’eccezione di inammissibilità della domanda stessa ‒per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo‒ sollevata dal Comune resistente.
La giurisprudenza ‒con qualche eccezione (si veda: TAR Lombardia – Milano, II, n. 218/2015)‒ è orientata per l’appartenenza della giurisdizione, in simili ipotesi, al giudice ordinario (si veda Cass., SS.UU., ord. n. 6595/2011; Idem, n. 1162/2015 ‒alla quale si rinvia per una compiuta disamina della problematica in questione‒ in cui si ribadisce il principio secondo il quale in tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione ovvero concentrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio, principio già enunciato dalla Corte nella vigenza dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, e ritenuto ancora valido pur dopo l’emanazione del c.p.a., negandosi dalle SS. UU. che in detto codice la tutela risarcitoria sia configurata come un'autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 08.11.2016 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ingiunzione deve essere rivolta a coloro che hanno la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano i responsabili dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione.
L’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.

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In merito all’esistenza di un affidamento tutelabile, anche in relazione al tempo trascorso, (…) non [si] può che ricordare come la protezione della detta situazione soggettiva passi attraverso l’accertamento di un comportamento, improntato ai canoni della lealtà e della salvaguardia tipici della buona fede, in capo al privato.
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Come già evidenziato in precedenza, l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio.
In relazione alla possibile acquisizione del bene al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, a prescindere dalla sua non attualità, va evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, deve attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva; in mancanza di ciò subisce certamente l’acquisizione del bene.
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4. Con la seconda censura si assume che le opere ritenute illegittime dal Comune con l’ordinanza impugnata, unitamente alla presenza dell’allevamento, sarebbero state già state realizzate in gran parte dal precedente detentore dell’area e non sarebbero imputabili agli odierni ricorrenti; comunque, il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione degli abusi, avrebbe creato un legittimo affidamento in capo ai ricorrenti al mantenimento delle opere realizzate.
4.1. La doglianza, ai limiti dell’ammissibilità, è infondata.
I ricorrenti affermano che le opere realizzate e la destinazione ad allevamento sarebbero riconducibili al precedente detentore dell’area, che le avrebbe legittimamente realizzate. A prescindere dalla circostanza che tali affermazioni sono totalmente sfornite di prova, va evidenziato come l’ordinanza impugnata si limiti a disporre la demolizione di quanto realizzato in difformità rispetto a ben individuati titoli edilizi (concessioni n. 46/99 e n. 46/99-bis).
Pertanto, una volta accertata la predetta difformità, l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e altri aspetti non rivestono alcun rilievo; in ogni caso appare del tutto illogico, oltre che poco veritiero, che un soggetto chieda una concessione edilizia per realizzare delle opere già esistenti e regolarmente assentite e l’ente pubblico destinatario della richiesta non si avveda dell’esistenza di atti che già autorizzano i predetti interventi.
4.2. La restante parte della censura appare altresì contraddittoria, allorché da una parte si asserisce l’estraneità dei ricorrenti agli abusi –che sarebbero stati commessi da un diverso soggetto– e dall’altra si invoca il legittimo affidamento per il trascorrere del tempo dal momento della realizzazione degli stessi.
Infatti, la proprietà dell’area è stata sempre in capo alla ricorrente Fo. e per tale ragione la stessa è tenuta, anche solo nella qualità di proprietaria, ad eseguire l’ordine di demolizione, come pure l’attuale affittuario sig. Ca.: infatti l’ingiunzione deve essere rivolta a coloro che hanno la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano i responsabili dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (cfr. TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588).
Con riguardo invece al legittimo affidamento dei ricorrenti in ordine alla conformità del loro comportamento, legato anche al trascorrere del tempo, va evidenziato che “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185; altresì, VI, 05.04.2012, n. 2038; VI, 27.03.2012, n. 1813; IV, 13.07.2011, n. 4254; V, 27.04.2011, n. 2497; V, 11.01.2011, n. 79).
Tale conclusione appare tanto più condivisibile laddove, come nel caso di specie, l’abuso risulta riconducibile alla stessa società destinataria del provvedimento di demolizione –in qualità di soggetto richiedente e di destinatario delle concessioni edilizie n. 46/99 e n. 46/99-bis– con il conseguente venir meno del presupposto del legittimo e incolpevole affidamento.
A tal proposito è stato evidenziato che “in merito all’esistenza di un affidamento tutelabile, anche in relazione al tempo trascorso, (…) non [si] può che ricordare come la protezione della detta situazione soggettiva passi attraverso l’accertamento di un comportamento, improntato ai canoni della lealtà e della salvaguardia tipici della buona fede, in capo al privato” (Consiglio di Stato, IV, 17.05.2012, n. 2852; altresì, 04.05.2012, n. 2592).
4.3. Pertanto, anche la sopra scrutinata censura va respinta.
5. Con la terza e la quarta doglianza, da trattare congiuntamente in quanto connesse, si assume l’estraneità della società Fo. alla commissione degli abusi e la illegittimità dell’eventuale sanzione dell’acquisizione del bene al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
5.1. Le doglianze sono infondate.
Come già evidenziato in precedenza, l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio.
In relazione alla possibile acquisizione del bene al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, a prescindere dalla sua non attualità, va evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, deve attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva; in mancanza di ciò subisce certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 16.03.2015, n. 728).
5.2. Ciò determina il rigetto anche delle predette censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le ipotesi di decadenza del permesso di costruire previste dalla legge sono tassative.
La decadenza del permesso di costruire è un provvedimento tipico che può legittimamente essere emanato soltanto in presenza delle due ipotesi tassativamente disciplinate dall’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, ossia nel caso di inutile decorso dei termini stabiliti dalla legge per l’inizio e la fine dei lavori, ovvero qualora sopravvengano previsioni urbanistiche contrastanti con il permesso rilasciato, purché i lavori non siano iniziati.
Ne deriva che non è consentito all’amministrazione comunale determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza automatica del permesso di costruire collegate alla mancata comunicazione del nominativo del direttore dei lavori e all’omessa trasmissione degli atti inerenti al rispetto della normativa antisismica.
Tale interpretazione del dato normativo è da ritenersi preferibile, nonostante qualche isolato orientamento contrario, non solo perché appare in linea con il principio di tipicità delle sanzioni amministrative (direttamente discendente dall’art. 97 Cost.), che impone ad ogni misura sanzionatoria il corrispondente fondamento nella legge, ma anche perché si profila più adeguata dal punto di vista logico-sistematico, atteso che per le omissioni contestate alla ricorrente circa la direzione dei lavori ed in ordine agli oneri di documentazione ai fini della normativa antisismica sono appositamente predisposti i sistemi sanzionatori (anche penali) rispettivamente contemplati dagli artt. 68 e ss. e dagli artt. 95 e ss. del d.P.R. n. 380/2001.
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... per l'annullamento della nota dirigenziale del Comune di Grumo Nevano prot. n. 2007-16079 del 13.11.2007, con la quale è stata disposta la decadenza del permesso di costruire n. 22/2002 del 07.04.2004 rilasciato alla ricorrente, nonché di ogni atto e/o provvedimento antecedente, conseguente e/o comunque connesso.
...
2. Ciò premesso, pregnante si palesa la censura con cui parte ricorrente denuncia la violazione del principio di tipicità delle sanzioni amministrative e dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, sottolineando che in materia edilizia la decadenza del permesso di costruire ha natura e connotazioni tipizzate, sicché sarebbe praticabile nelle sole ipotesi di decorso del tempo per l’inizio e l’ultimazione dei lavori, ovvero di entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Osserva il Collegio, in adesione ad un diffuso orientamento giurisprudenziale (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. III, 04.04.2013 n. 1870; TAR Puglia Bari, Sez. III, 14.01.2009 n. 33), che la decadenza del permesso di costruire è un provvedimento tipico che può legittimamente essere emanato soltanto in presenza delle due ipotesi tassativamente disciplinate dall’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, ossia nel caso di inutile decorso dei termini stabiliti dalla legge per l’inizio e la fine dei lavori, ovvero qualora sopravvengano previsioni urbanistiche contrastanti con il permesso rilasciato, purché i lavori non siano iniziati; ne deriva che non è consentito all’amministrazione comunale determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza automatica del permesso di costruire, come quelle nella specie individuate, collegate alla mancata comunicazione del nominativo del direttore dei lavori e all’omessa trasmissione degli atti inerenti al rispetto della normativa antisismica.
Tale interpretazione del dato normativo è da ritenersi preferibile, nonostante qualche isolato orientamento contrario (pure citato dalla difesa comunale), non solo perché appare in linea con il principio di tipicità delle sanzioni amministrative (direttamente discendente dall’art. 97 Cost.), che impone ad ogni misura sanzionatoria il corrispondente fondamento nella legge, ma anche perché si profila più adeguata dal punto di vista logico-sistematico, atteso che per le omissioni contestate alla ricorrente circa la direzione dei lavori ed in ordine agli oneri di documentazione ai fini della normativa antisismica sono appositamente predisposti i sistemi sanzionatori (anche penali) rispettivamente contemplati dagli artt. 68 e ss. e dagli artt. 95 e ss. del d.P.R. n. 380/2001.
2.1 Nella spiegata ottica, ossia nella necessità che sia comunicato (come avvenuto nella fattispecie) solo l’inizio dei lavori per evitare la sanzione decadenziale di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, deve essere letta anche la prescrizione contenuta al capo 13) del permesso di costruire, posto che, in virtù del succitato principio di tipicità, ai provvedimenti amministrativi non è dato individuare autonome fattispecie sanzionatorie, e quelle individuate non possono che essere considerate come giuridicamente irrilevanti e prive di ogni concreto effetto applicativo.
2.2 In sintesi, il gravato provvedimento decadenziale è stato emesso per ipotesi sanzionatorie non contemplate dalla legge.
Né convincono le obiezioni formulate al riguardo dalla difesa comunale, così riassumibili: a) la decadenza è sufficientemente motivata con riferimento alle riscontrate difformità dal permesso di costruire; b) la stessa trova adeguato supporto normativo nell’art. 14 del regolamento edilizio comunale, che commina tale sanzione per il caso di mancata comunicazione del direttore dei lavori.
Invero, è sufficiente replicare quanto segue con riferimento ad entrambi gli evidenziati profili:
   i) già si è chiarito che il provvedimento impugnato, pur richiamando alcune riscontrate difformità dal permesso di costruire, individua il proprio fondamento giustificativo esclusivamente negli omessi adempimenti partecipativi in merito al nominativo del direttore dei lavori ed alla documentazione ai fini antisismici: infatti, le ipotesi di difformità dal titolo edilizio trovano il proprio trattamento sanzionatorio negli artt. 31-34 e non nell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001;
   ii) l’art. 14 del regolamento edilizio comunale, recante alcune fattispecie speciali di decadenza della licenza/permesso di costruire (tra cui quella collegata alla mancata comunicazione del direttore dei lavori), essendo entrato in vigore nel lontano giugno 1973, in una cornice legislativa ben diversa da quella attuale, deve intendersi implicitamente abrogato dall’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, che ha regolato l’intera materia della decadenza del permesso di costruire attraverso la rimodulazione delle singole ipotesi sanzionatorie.
3. Alla luce di quanto esposto, appare conclamata l’illegittimità del gravato provvedimento di decadenza per violazione del principio di tipicità delle sanzioni amministrative e dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che il ricorso deve essere accolto con l’annullamento di tale atto, assorbite in ogni caso le rimanenti censure meno invasive quivi non esaminate (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 02.11.2016 n. 5026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer determinare il periodo di realizzazione degli abusi la relativa dimostrazione costituisce onere della parte che ha commesso l’abuso.
Si è affermato, infatti, che ricade sul privato l'onere della prova in ordine alla ultimazione delle opere edilizie, in quanto soltanto l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto.
In difetto di tali prove resta pertanto integro il potere dell'amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.

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1.7 Analogamente infondato è il secondo motivo con il quale si contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione e del diniego di annullamento in autotutela, in quanto a parere della ricorrente il Comune non avrebbe considerato la nuova data di ultimazione dei lavori, così come individuata in un periodo successivo al 1996.
1.8 Sul punto è dirimente constatare come la ricorrente non abbia fornito, nemmeno a seguito del proponimento del presente ricorso, una prova certa sulla data di ultimazione dei lavori, essendosi limitata, al contrario, ad addurre dichiarazioni contrastanti prive di un qualunque riscontro probatorio.
1.9 Nessun elemento è possibile desumere dalla documentazione fotografica in atti che, oltre ad essere stata allegata per la prima volta all’istanza di annullamento in autotutela del 02.08.2016, non è suscettibile di raggiungere il grado di certezza indispensabile per determinare il periodo di realizzazione degli abusi, circostanza quest’ultima la cui dimostrazione costituisce onere della parte che ha commesso l’abuso (Cons. Stato Sez. VI, 24.05.2016, n. 2179 e Cons. Stato Sez. VI, 27.07.2015, n. 3666).
2. Si è affermato, infatti, che ricade sul privato l'onere della prova in ordine alla ultimazione delle opere edilizie, in quanto soltanto l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto.
2.1 In difetto di tali prove resta pertanto integro il potere dell'amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria (Consiglio di Stato, sezione IV, 29.05.2014, n. 2782) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.11.2016 n. 1577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce orientamento consolidato che i parcheggi disciplinati dalla legge “Tognoli” -disposizione a carattere eccezionale, non estensibile anche alle aree agricole- possono essere realizzati solamente all’interno delle aree urbane.
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2.5 E’ infondato, da ultimo, anche il quarto motivo, in quanto costituisce orientamento consolidato che i parcheggi disciplinati dalla legge “Tognoli” -disposizione a carattere eccezionale, non estensibile anche alle aree agricole, come quella in esame (in questo senso TAR Toscana, 19.12.2000, n. 2533)- possono essere realizzati solamente all’interno delle aree urbane (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.11.2016 n. 1577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' onere del privato fornire la prova della data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione degli edifici dell'intero territorio a una certa data, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante lo stato dell'opera prima degli interventi eseguiti su di essa.
L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
Ai sensi dell'art. 63, comma 1 e dell'art. 64, comma 1 c.p.a., spetta al ricorrente l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano nella sua piena disponibilità e la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie deve essere posta sul privato, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto.

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È incontestato che vi sia assenza di un titolo abilitativo. Non si dà alcuna prova, né principio di prova del fatto che l’abuso edilizio sia risalente nel tempo.
Sarebbe stato onere del privato fornire la prova della data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione degli edifici dell'intero territorio a una certa data, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante lo stato dell'opera prima degli interventi eseguiti su di essa (cfr.: Tar Molise Campobasso I, 13.03.2015 n. 107).
L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
Ai sensi dell'art. 63, comma 1 e dell'art. 64, comma 1 c.p.a. spetta al ricorrente l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano nella sua piena disponibilità e la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie deve essere posta sul privato, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto (cfr.: Tar Campania Napoli IV, 03.02.2015 n. 748) (TAR Molise, sentenza 28.10.2016 n. 442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISulla estensione del diritto di accesso nei confronti di società a partecipazione pubblica che provvedono alla gestione di pubblici servizi è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale l'accesso agli atti del gestore del servizio pubblico, pur quando essi sono disciplinati dal diritto privato e comportano la giurisdizione ordinaria, «consente il perseguimento delle medesime finalità connesse all'accesso agli atti dell'amministrazione (e c'è una più diffusa conoscenza dei processi decisionali, lo stimolo a comportamenti ispirati ai canoni di diligenza, buona fede e correttezza, ad una deflazione delle controversie): vi è l'interesse pubblico all'effettuazione di scelte corrette da parte del gestore, quando esse siano finalizzate all'organizzazione efficiente ed alla qualità del servizio»".
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Come noto, l’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa”, al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa (art. 22, comma 2, L. 241/1990).
Sono pertanto accessibili, in linea di principio, “tutti i documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) che siano detenuti da una pubblica amministrazione e che concernano attività di pubblico interesse, “indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d). Sono sottratte all’accesso solo le categorie di documenti tassativamente previste dall’art. 24.
In base alla disciplina contenuta negli artt. 22 e ss. L n. 241/1990, il diritto di accesso può esercitarsi anche rispetto a documenti di natura privatistica in quanto l’attività amministrativa, soggetta all’applicazione dei principi di imparzialità e di buon andamento, è configurabile non solo quando l’Amministrazione esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa persegue le proprie finalità istituzionali e provvede alla cura concreta di pubblici interessi mediante un’attività sottoposta alla disciplina dei rapporti tra privati.
Va aggiunto che con l’entrata in vigore del D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, gli obblighi di trasparenza a carico delle pubbliche amministrazioni sono stati generalizzati e rafforzati con l’affermazione del principio di trasparenza, intesa quale “accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni”, nella prospettiva di assicurare “forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1).
Non costituisce ragione ostativa all’accesso la circostanza che la conoscenza dei documenti richiesti possa interferire con la tutela della riservatezza dei terzi, quando l’accesso venga esercitato al fine di “curare e difendere i propri interessi giuridici”, finalità rispetto alla quale la tutela della riservatezza dei terzi è recessiva, secondo quanto previsto dal citato art. 24, comma 7.
Le esigenze di riservatezza che possono impedire l’accesso rilevano limitatamente ai documenti in cui- vengono in rilievo dati “sensibili” o “giudiziari” dei controinteressati, nei sensi tassativamente precisati dall’art. 4, comma 1, lettere c)-e) del D.Lgs. n. 196/2003.
Quanto alla prova della “necessarietà” della conoscenza dei documenti per curare e difendere i propri interessi giuridici essa deve essere dimostrata su basi meramente presuntive, in relazione, cioè, all’“utilità” che il richiedente potrebbe presumibilmente ricavare dalla conoscenza dei documenti richiesti, da valutarsi in relazione alla situazione giuridica sottesa alla domanda di accesso e all’interesse dedotto dagli istanti.
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La legge subordina l’accessibilità del documento amministrativo ad un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
L’interesse (diretto, concreto ed attuale) è riferito al documento del quale si chiede l’ostensione; la “corrispondenza” è da intendersi invece quale nesso di strumentalità o anche semplicemente connessione con una situazione giuridica che l’ordinamento protegge attraverso la concessione di strumenti di tutela (non importa se essi siano giurisdizionali od amministrativi).
Come chiarito da consolidata giurisprudenza “La norma non richiede per l’ostensibilità del documento la pendenza di un giudizio, o la dichiarazione di volerlo proporre, né a fortiori autorizza valutazioni in ordine alla concreta utilità del documento rispetto alle ragioni difensive dell’istante, non foss’altro perché spesso è la stessa amministrazione ad essere indicata quale responsabile della lesione della posizione giuridica che l’istante vuol tutelare, sicché lasciare all’amministrazione il sindacato sull’utilità ed efficacia del documento in ordine all’esito della causa, significherebbe dare ad una parte del giudizio il dominio della causa”.
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Occorre distinguere tra attività legale anche esterna che si inserisce in un procedimento e quella che invece viene svolta nell’ambito del contenzioso.
Mentre nel primo caso il documento in cui si concreta l’attività legale anche esterna si inserisce nell’ambito di una istruttoria endoprocedimentale e confluisce nel provvedimento finale di tal che, fermi restando i rapporti di riservatezza tra l’autore del parere e l’Amministrazione che se ne serve, il documento frutto di tale attività legale esterna è soggetto all’accesso perché oggettivamente correlato ad un procedimento. Nel secondo caso, invece, i pareri legali -espressi nell’ambito di un contenzioso in corso- sono espressione della stessa posizione della P.A., la quale esercitando il proprio diritto di difesa protetto costituzionalmente, deve poter usufruire di una tutela non inferiore a quella di un qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento con esclusione dunque dall’accesso.
Ne deriva che sono coperti da segreto professionale gli scritti defensionali e i pareri extraprocedimentali degli avvocati, a salvaguardia della strategia processuale dell’ente pubblico, il cui ambito non si estende anche agli atti e ai contratti che l’amministrazione abbia eventualmente adottato sulla scorta di quegli scritti e di quei pareri.
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... per l'accertamento ai sensi dell’art. 116 c.p.a., della illegittimità del silenzio-rigetto serbato dalla Ba. s.p.a. Servizi Ambientali sull’istanza di accesso del 20.04.2016 alla documentazione relativa alla definizione del contenzioso ex lavoratori interinali e/o a termine.
...
7. Vanno preliminarmente trattate le eccezioni di ammissibilità sollevate dalla società resistente.
7.1 La Ba. spa eccepisce, in particolare, l’irricevibilità per essere stato il ricorso proposto quando ancora non era decorso il termine concesso per il riscontro dell’istanza e, dunque, prima della formazione del silenzio rifiuto.
In proposito, il Collegio ritiene di poter superare l’eccezione, prescindendo anche dalla valutazione della rinotifica del 09.06.2016 effettuata nei confronti di alcuni dei controinteressati, atteso il perdurare dell’inerzia della società resistente protratto ben oltre i termini per la formazione del silenzio rigetto, non risultando l’istanza riscontrata nemmeno in corso di causa.
7.2. Parimenti infondata è l’eccezione secondo cui legittimato passivo al ricorso sarebbe il Comune di Barletta.
In disparte l’atteggiamento inerte del Comune, intimato e non costituito nel presente giudizio, emerge che gli atti richiamati nella Delibera n. 20/2016, oggetto dell’istanza di accesso, o sono stati emessi da organi della società resistente o sono relativi a questioni che comunque la vedono direttamente interessata e dei quali non si può ragionevolmente escludere la detenzione.
7.3. Sulla estensione del diritto di accesso nei confronti di società a partecipazione pubblica che provvedono alla gestione di pubblici servizi è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, ai sensi del quale l'accesso agli atti del gestore del servizio pubblico, pur quando essi sono disciplinati dal diritto privato e comportano la giurisdizione ordinaria, «consente il perseguimento delle medesime finalità connesse all'accesso agli atti dell'amministrazione (e c'è una più diffusa conoscenza dei processi decisionali, lo stimolo a comportamenti ispirati ai canoni di diligenza, buona fede e correttezza, ad una deflazione delle controversie): vi è l'interesse pubblico all'effettuazione di scelte corrette da parte del gestore, quando esse siano finalizzate all'organizzazione efficiente ed alla qualità del servizio»" (Cons Stato, AD. Pl. n. 4 del 22.04.1999, Cons. St., Sez. III, sentenza del 10.03.2015, n. 1226; Cons. St., Ad. Pl. n. 5 del 05.09.2005; Cons. St., sez. IV, 05.09.2009, n. 4645).
8. Superate le questioni preliminari, il Collegio ritiene di dover delineare i limiti entro cui ai ricorrenti può essere riconosciuto il diritto di accesso, escludendo espressamente i pareri legali e gli atti defensionali relativi ai contenziosi pendenti tra la Ba. s.p.a. e i terzi controinteressati.
8.1. Come noto, l’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa”, al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa (art. 22, comma 2, L. 241/1990).
Sono pertanto accessibili, in linea di principio, “tutti i documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) che siano detenuti da una pubblica amministrazione e che concernano attività di pubblico interesse, “indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d). Sono sottratte all’accesso solo le categorie di documenti tassativamente previste dall’art. 24.
8.2. In base alla disciplina contenuta negli artt. 22 e ss. L n. 241/1990, il diritto di accesso può esercitarsi anche rispetto a documenti di natura privatistica in quanto l’attività amministrativa, soggetta all’applicazione dei principi di imparzialità e di buon andamento, è configurabile non solo quando l’Amministrazione esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa persegue le proprie finalità istituzionali e provvede alla cura concreta di pubblici interessi mediante un’attività sottoposta alla disciplina dei rapporti tra privati (cfr. 06.12.1999, n. 2046; vedi anche A.P. n. 4/1999).
8.3. Va aggiunto che con l’entrata in vigore del D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, gli obblighi di trasparenza a carico delle pubbliche amministrazioni sono stati generalizzati e rafforzati con l’affermazione del principio di trasparenza, intesa quale “accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni”, nella prospettiva di assicurare “forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 1).
8.4 Non costituisce ragione ostativa all’accesso la circostanza che la conoscenza dei documenti richiesti possa interferire con la tutela della riservatezza dei terzi, quando l’accesso venga esercitato al fine di “curare e difendere i propri interessi giuridici”, finalità rispetto alla quale la tutela della riservatezza dei terzi è recessiva, secondo quanto previsto dal citato art. 24, comma 7.
Le esigenze di riservatezza che possono impedire l’accesso rilevano limitatamente ai documenti in cui- vengono in rilievo dati “sensibili” o “giudiziari” dei controinteressati, nei sensi tassativamente precisati dall’art. 4, comma 1, lettere c)-e) del D.Lgs. n. 196/2003.
8.5. Quanto alla prova della “necessarietà” della conoscenza dei documenti per curare e difendere i propri interessi giuridici essa deve essere dimostrata su basi meramente presuntive, in relazione, cioè, all’“utilità” che il richiedente potrebbe presumibilmente ricavare dalla conoscenza dei documenti richiesti, da valutarsi in relazione alla situazione giuridica sottesa alla domanda di accesso e all’interesse dedotto dagli istanti.
9. Sulla base dei richiamati principi è possibile procedere con l’esame del ricorso in epigrafe.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno dedotto la titolarità di un rapporto sostanziale riconducibile al contenzioso promosso da soggetti che hanno intrattenuto rapporti di lavoro con la società resistente ed hanno prospettato l’eventualità che i documenti richiesti contengano informazioni utili alla tutela delle proprie pretese nell’ambito dei giudizi tuttora pendenti con la Ba. spa.
Sussiste pertanto l’interesse qualificato all’accesso, ritenendo il Collegio di poter prescindere dall’approfondimento delle peculiarità di ciascun giudizio pendente, sulle quali, peraltro, la società resistente ha genericamente argomentato.
La legge subordina l’accessibilità del documento amministrativo ad un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso. L’interesse (diretto, concreto ed attuale) è riferito al documento del quale si chiede l’ostensione; la “corrispondenza” è da intendersi invece quale nesso di strumentalità o anche semplicemente connessione con una situazione giuridica che l’ordinamento protegge attraverso la concessione di strumenti di tutela (non importa se essi siano giurisdizionali od amministrativi).
Come chiarito da consolidata giurisprudenza “La norma non richiede per l’ostensibilità del documento la pendenza di un giudizio, o la dichiarazione di volerlo proporre, né a fortiori autorizza valutazioni in ordine alla concreta utilità del documento rispetto alle ragioni difensive dell’istante, non foss’altro perché spesso è la stessa amministrazione ad essere indicata quale responsabile della lesione della posizione giuridica che l’istante vuol tutelare, sicché lasciare all’amministrazione il sindacato sull’utilità ed efficacia del documento in ordine all’esito della causa, significherebbe dare ad una parte del giudizio il dominio della causa” (Cons. Stato, sez. IV, sent. 429 del 29.01.2014).
Tra gli atti menzionati nella Delibera G.C. n. 20/2016 figurano atti relativi alla dotazione organica e al fabbisogno del personale per lo svolgimento del pubblico servizio da parte della società resistente, oltre a quelli specificamente riferiti ai contenziosi pendenti. Ne consegue che l’aver prestato attività lavorativa presso tale ente, unitamente alla pendenza dei contenziosi, rappresentano circostanze idonee a sostanziare un interesse giuridicamente rilevante e collegato ai documenti oggetto dell’istanza, sia pure con delle doverose precisazioni.
10. Occorre soffermarsi, in particolare, sui pareri legali, pure richiamati nel corpo della Delibera G.C. 20/2016.
Secondo consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, occorre distinguere tra attività legale anche esterna che si inserisce in un procedimento e quella che invece viene svolta nell’ambito del contenzioso. Mentre nel primo caso il documento in cui si concreta l’attività legale anche esterna si inserisce nell’ambito di una istruttoria endoprocedimentale e confluisce nel provvedimento finale di tal che, fermi restando i rapporti di riservatezza tra l’autore del parere e l’Amministrazione che se ne serve, il documento frutto di tale attività legale esterna è soggetto all’accesso perché oggettivamente correlato ad un procedimento. Nel secondo caso, invece, i pareri legali -espressi nell’ambito di un contenzioso in corso- sono espressione della stessa posizione della P.A., la quale esercitando il proprio diritto di difesa protetto costituzionalmente, deve poter usufruire di una tutela non inferiore a quella di un qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento con esclusione dunque dall’accesso (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, sezione III, 18.07.2013, n. 1914; TAR Sicilia, Palermo sezione I, 09.01.2012, n. 14).
Ne deriva che sono coperti da segreto professionale gli scritti defensionali e i pareri extraprocedimentali degli avvocati, a salvaguardia della strategia processuale dell’ente pubblico, il cui ambito non si estende anche agli atti e ai contratti che l’amministrazione abbia eventualmente adottato sulla scorta di quegli scritti e di quei pareri (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.2012, n. 734).
10.1. Nel caso in esame, l’accesso ai pareri legali richiamati nella D.G.C. 20/2016 non può essere consentito, in quanto deve escludersi il loro carattere “endoprocedimentale”, atteso che essi non sono richiamati nella motivazione di un provvedimento finale (conclusivo del procedimento) ma unicamente in una delibera della Giunta Comunale (n. 20 del 2016) volta ad approvare la successiva formalizzazione delle proposte transattive.
10.2. In questi limiti, pertanto, il diniego di accesso formatosi a seguito del silenzio rigetto è legittimo a va confermato.
11. Manifestamente inammissibile è la domanda, posta incidenter tantum, di dichiarazione di illegittimità della Delibera G.C. 20/2016, attesa la genericità e la irritualità della sua formulazione.
12. Conclusivamente, alla stregua di tutte le considerazioni fin qui svolte, ritiene il Collegio che il ricorso debba essere parzialmente accolto.
12.1. La Ba. spa va, pertanto, condannata a consentire l’accesso ai documenti richiesti con l’istanza del 18.04.2016, fatta eccezione per i pareri legali e gli eventuali atti defensionali coperti da segreto professionale.
13. L’accesso, nei limiti consentiti, dovrà avvenire mediante visione ed estrazione di copia integrale degli atti richiesti, nel termine di giorni 30 dalla comunicazione della presente sentenza o dalla sua notificazione se anteriore (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 11.10.2016 n. 1193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ignorare le risposte del giudice d’appello costa ventimila euro. Civile. Per abuso del processo.
Paga ventimila euro alla controparte per abuso del processo chi insiste in un ricorso palesemente infondato, ignorando le risposte del giudice d’appello.

Secondo la Corte di Cassazione - Sez. III civile (sentenza 29.09.2016 n. 19285) per aumentare l’effetto deterrente, alla sanzione da corrispondere alla parte vittoriosa il cliente potrebbe unire, previo un accertamento su chi ha fatto le scelte abusive, un’azione di responsabilità nei confronti del difensore.
Per la Suprema corte nel caso in cui la responsabilità sussista e l’assistito decida di farla valere nei confronti del suo avvocato, verrebbe a configurarsi un logico completamento «del presidio posto dal legislatore a una corretta utilizzazione dello strumento processuale
». Per i giudici della terza sezione civile così facendo si metterebbe in atto una specie di sanzione per via indiretta a carico della parte tecnica su iniziativa del cliente. Così facendo si raggiungerebbe un pieno effetto deflattivo/preventivo a tutela dell’adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale.
Per la Cassazione l’azione verso il legale è in linea con lo scopo dell’articolo 96 terzo comma del Codice di procedura civile, che affida all’iniziativa privata la riscossione delle somme dovute dall’avversario alla parte vittoriosa. La stessa Corte costituzionale (sentenza 152 del 2016) ha giudicato infondata la questione di illegittimità relativa alla previsione di destinare la sanzione alla controparte anziché allo Stato per l’offesa recata alla giurisdizione. Una previsione che non è in contraddizione con la natura pubblicistica dell’istituto, ma anzi rafforza l’effetto deterrente dello strumento deflattivo perché il privato può recuperare le somme dovute in virtù della condanna, con tempi più rapidi e con minori oneri a carico dello Stato.
La Cassazione non lascia scampo al legale con un’altra sentenza (19272) depositata ieri. Nel bocciare la tesi, considerata “surreale”, esposta in un ricorso “incomprensibile”, la Suprema corte sottolinea che il ricorrente -e per lui il suo difensore per il quale risponde- o conosceva l’insostenibilità dei motivi e malgrado questo li ha proposti, facendo scattare l’abuso del processo, oppure non ne era al corrente e dunque ha tenuto una condotta gravemente colposa.
Nell’ultima ipotesi mancherebbe, infatti, la giusta diligenza richiesta a chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata, come quella dell’avvocato in generale e del cassazionista in particolare. In questo caso la sanzione, parametrata alle spese dovute alla parte vittoriosa, è decisamente più contenuta: solo 3 mila euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi «104» anche al convivente. L’esclusione limita il diritto del disabile a ricevere assistenza.
Welfare. La Corte costituzionale boccia la norma che consente di assentarsi dal lavoro solo a coniuge e parenti.
I tre giorni di permesso al mese che consentono di assentarsi dal lavoro per assistere familiari con gravi handicap devono essere riconosciuti anche al convivente more uxorio e non solo al coniuge e ai parenti e affini.
Con la sentenza 23.09.2016 n. 213 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 che individua i fruitori dei permessi, in quanto non include i conviventi oltre ai familiari più stretti.
La questione affrontata dalla Consulta è stata sollevata dal tribunale di Livorno chiamato ad esprimersi sul caso di una lavoratrice dipendente che si è vista negare il permesso per assistere il convivente more uxorio affetto dal morbo di Parkinson. Questo perché la legge 104/1992 prevede quali fruitori dei permessi il coniuge o i parenti e affini entro il secondo grado (o entro il terzo grado se i genitori o il coniuge hanno almeno 65 anni, o siano deceduti o invalidi).
Punto centrale dell’argomentazione dei giudici costituzionali è che l’interesse primario della legge 104/1992, così come del congedo straordinario previsto dalla legge 151/2001, è «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare».
Inoltre il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, rientra a sua volta tra i diritti inviolabili garantiti dall’articolo 2 della Carta costituzionale, sia in quanto il soggetto come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Per quanto riguarda queste ultime, per formazione sociale si deve intendere ogni forma di comunità.
Di conseguenza, per la Consulta «è irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito…non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità». L’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 risulta illegittimo rispetto all’articolo 3 della Carta costituzionale non tanto perché non equipara coniuge e convivente, che hanno una condizione comunque diversa, ma perché costituisce una contraddizione logica dato che la norma vuole tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile, finalità che in questo caso costituisce l’elemento che unifica la situazione di assistenza da parte del coniuge o del familiare di secondo grado e quella fornita dal convivente.
Escludere quest’ultimo dai beneficiari dei permessi comporta, secondo i giudici, un’irragionevole compressione del diritto, costituzionalmente presidiato, del disabile a ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita «non in ragione di una carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato normativo rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio».
L’articolo 33, così come oggi formulato, viola quindi l’articolo 3 della Costituzione per irragionevolezza e gli articoli 2 e 32 per il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave sia come singolo che nella società. La Corte costituzionale, nel riconoscere il ruolo del convivente lo equipara a quello della prima cerchia dei soggetti che, in via ordinaria, possono fruire dei permessi, cioè il coniuge, il parente o l’affine entro il secondo grado
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIPer le impugnazioni il termine parte dal deposito ufficiale. Sezioni unite. La doppia data in sentenza.
Il termine lungo per l’impugnazione di una sentenza inizia a decorrere nel momento in cui questa viene ufficialmente depositata in cancelleria. Atto che coincide con l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico e con l’attribuzione del numero identificativo: una fase a partire dalla quale la sentenza è conoscibile per gli interessati che possono richiederne una copia autentica.

Con la sentenza 22.09.2016 n. 18569 le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione tornano sull’annoso problema creato dalla «sciagurata consuetudine», come definita dal Supremo collegio, di apporre una doppia data in calce alle sentenze civili. Non una mera irregolarità, ma una «patologia procedimentale grave» come affermato, questa volta dalla Consulta, che ha prodotto non poche conseguenze sulle posizioni giuridiche degli interessati, oltre a spaccare la giurisprudenza, malgrado la Cassazione si sia espressa più volte sul punto, anche a Sezioni unite.
I giudici tornano a farlo, avanzando però il «fondato sospetto che non sia sufficiente una stigmatizzazione in sede processuale di tale deprecabile consuetudine, ma si rendano forse necessari interventi ulteriori, quanto meno di carattere disciplinare». Le Sezioni unite si muovono sul solco tracciato dalla sentenza della Consulta (n.3 del 2015) che, pur giudicando non fondata la questione di legittimità contenuta nell’ordinanza di rinvio, ha delineato la strada per l’interprete.
Il vincolo è individuato nella conoscibilità dell’esistenza della sentenza e del suo deposito. Riconoscendo la decorrenza del termine per impugnare solo a partire dal compimento delle attività idonee ad assicurare la possibilità di venire a conoscenza della sentenza.
Azioni che le Sezioni unite individuano nell’inserimento nell’elenco cronologico e nell’attribuzione del numero identificativo. Nel caso in cui ci sia un’impropria scissione tra il momento del deposito e quello di pubblicazione, il giudice tenuto ad accertare la tempestività dell’impugnazione deve verificare il momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.2016).

TRIBUTIRiduzione Imu senza denuncia. Il proprietario ha diritto allo sconto se la situazione è nota al Comune. I giudici di legittimità rendono più agevole il taglio del 50% nel caso di immobili inagibili.
Il contribuente ha diritto alla riduzione a metà dell’Ici/Imu in presenza di fabbricato inagibile o inabitabile, anche se non ha presentato la denuncia, se tale situazione era già a conoscenza del Comune.

Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. V civile- nella sentenza 21.09.2016 n. 18453.
Ai fini Ici, l’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 504/1992, prevedeva una duplice procedura, alternativa, per il riconoscimento dell’agevolazione. In particolare, il proprietario poteva richiedere una perizia all’ufficio tecnico comunale, con spese a suo carico, oppure presentare dichiarazione sostitutiva di notorietà, attestante la sussistenza dei requisiti di legge. In entrambe le ipotesi, e ancor più ovviamente nella seconda di esse, il contribuente doveva presentare la denuncia annuale, allegando idonea documentazione.
Questa disciplina non è mutata con l’Imu, poiché il Dl n. 201/2011 ha recepito le regole Ici. I principi affermati dalla Cassazione devono dunque ritenersi tuttora validi.
Nella controversia in questione, il soggetto passivo si era autoridotto l’imposta, omettendo di denunciare lo stato di inagibilità al Comune, il quale aveva pertanto emesso avviso di accertamento per l’imposta non versata.
La difesa della parte privata si era incentrata, tra l’altro, sulla circostanza che l’effettiva situazione dell’immobile era in realtà comunque nota al Comune. La Cassazione ha accolto le ragioni del contribuente, ponendosi in linea di continuità con i precedenti in termini, a partire dalla sentenza n. 23531/2008.
È certamente degna di rilievo l’argomentazione utilizzata dalla Suprema Corte che ha fatto leva sui principi dello Statuto dei diritti del contribuente. Al contribuente, infatti, non può essere richiesta documentazione già in possesso della pubblica amministrazione. Si tratta peraltro di previsione espressiva del più ampio principio di collaborazione e buona fede nei rapporti tra Fisco e contribuente.
La Corte ha quindi concluso che nessuna altra prova avrebbe dovuto essere richiesta al contribuente. Il criterio di diritto affermato appare sacrosanto e ineccepibile. Non sono chiare però le circostanze concrete che dimostrerebbero l’intervenuta conoscenza dello stato di inagibilità dell’immobile. Si menziona in proposito la dichiarazione di variazione catastale in unità collabente presentata però dal soggetto passivo nel 2007, a distanza di anni da quello di competenza (2002). Viene anche richiamata una Ctu disposta nel corso del giudizio di appello riferito all’annualità 2001, ma anche questa non si vede come possa comprovare il fatto che il Comune non potesse non sapere dell’inagibilità già dall’anno d’imposta.
In altri precedenti, le conclusioni della Corte sono state più lineari. Si trattava infatti di situazioni in cui il Comune aveva emesso ordinanza di sgombero dell’immobile. Forse la strada più semplice, sotto il profilo giuridico, è quella di qualificare l’onere della dichiarazione Ici/Imu non come un elemento costitutivo del diritto all’agevolazione ma, più semplicemente, come un obbligo informativo. Il mancato assolvimento di tale obbligo, pertanto, non dovrebbe pregiudicare il diritto all’agevolazione ma tutt’al più comporterà l’irrogazione di una sanzione di carattere formale
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMail conservate con l’informativa. I dipendenti devono sapere che i messaggi vengono registrati sul server aziendale.
Privacy. La Cassazione sottolinea la necessità di autorizzazione preventiva, consenso individuale e informazioni per i controlli.
È illegittima l’installazione di apparecchi e software che consentono controlli approfonditi sulla posta elettronica, sulle telefonate e sulla navigazione internet del lavoratore, se non sono preventivamente esperite le procedure di autorizzazione (sindacale o amministrativa) previste dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori e se non sono rispettati gli ulteriori adempimenti previsti dal codice della privacy.

La
Corte di  Cassazione - Sez. I civile, con la sentenza 19.09.2016 n. 18302 (tratta da www.diritto-lavoro.com), ricostruisce le procedure che devono essere applicate per poter validamente utilizzare strumenti informatici di controllo a distanza sull’attività dei lavoratori. La decisione riguarda la versione dell’articolo 4 dello statuto vigente prima delle modifiche introdotte dal Dlgs 151/2015 (che ha sottratto gli “strumenti di lavoro” alle procedure di autorizzazione, con una formulazione che lascia aperti alcuni interrogativi applicativi), ma in larga misura è valida anche alla nuova versione della norma.
La vicenda interessa l’Istituto poligrafico zecca dello Stato, destinatario di un provvedimento del Garante della privacy con il quale è stato vietato il trattamento dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione internet, all’utilizzo della posta elettronica e alle utenze telefoniche chiamate dai dipendenti.
Il sistema informatico utilizzato dal datore di lavoro, infatti, non si limitava a vietare la navigazione su alcuni specifici siti internet (quelli non inerenti all’attività istituzionale dell’ente) ma memorizzava ogni accesso o tentativo di accesso alla rete, e conservava queste informazioni per un periodo variabile (da 6 a 12 mesi). Quanto alla posta elettronica, il software conservava sul server aziendale tutti i messaggi spediti e ricevuti dal dipendente, consentendo la loro visualizzazione agli amministratori del sistema. Anche le telefonate erano oggetto di registrazione e conservazione, quanto meno con riferimento ai numeri chiamati.
Il Garante non ha contestato questi sistemi nella loro interezza ma, piuttosto, ha censurato il fatto che fossero stati installati e utilizzati senza il rispetto delle procedure previste dalla legge: quindi, senza l’accordo sindacale (o, in mancanza, l’autorizzazione amministrativa) previsto dallo statuto dei lavoratori, senza l’acquisizione del consenso individuale e senza il rilascio delle informative previste dal codice della privacy.
La Cassazione rigetta l’impugnazione proposta contro tale provvedimento. La Corte ricorda, innanzitutto, che l’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, per costante giurisprudenza, trova applicazione ogni volta che un apparecchio consente il controllo a distanza dell’attività dei dipendenti, anche quando il datore di lavoro deve attuare i cosiddetti controlli difensivi.
Spetta al datore di lavoro, osserva la Corte, organizzarsi in modo tale da prevenire comportamenti illeciti dei dipendenti mediante l’utilizzo di strumenti leciti, evitando di svolgere un controllo diretto della prestazione lavorativa.
Se questo controllo non può essere evitato, anche solo come effetto indiretto, gli impianti sono utilizzabili solo previo accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza, previa autorizzazione amministrativa.
Queste autorizzazioni, prosegue la sentenza, costituiscono lo strumento indispensabile individuato dal legislatore per bilanciare i diritti del lavoratore (in primo luogo, quello alla riservatezza) e il diritto del datore di lavoro a proteggere i beni aziendali.
La violazione di tale principio comporta, secondo la Corte, anche la violazione dell’articolo 8 dello statuto, che vieta lo svolgimento di indagini sulle opinioni e sulla vita personale del lavoratore, anche se i dati raccolti non sono in concreto utilizzati.
La sentenza ribadisce inoltre l’importanza dell’informativa prevista dall’articolo 13 del codice della privacy: la mancata consegna di tale documento, infatti, rende illegittimo il trattamento e la conservazione dei messaggi di posta elettronica sul server aziendale
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.09.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAÈ un reato il car-tuning in piazza. Rumori.
Ascoltare musica a tutto volume in auto è un reato. E la punizione è un’ammenda salata.

La Corte di Cassazione - Sez. III penale (sentenza 15.09.2016 n. 38135) conferma la condanna per il reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone (articolo 659 del Codice penale) a carico di un fanatico del cosiddetto car-tuning: una passione per le modifiche alla propria auto che può anche indurre a comprare apparecchi stereo, fino a 1500 watt, che “sparano” le note a un’intensità di suono che supera la soglia della tollerabilità.
Inutile, per il patito del car-tuningmusicale” che aveva fatto ricorso contro le sentenze di merito che lo avevano già condannato, affermare che non c’erano le prove che fosse stato davvero lui ad alzare a dismisura il volume della radio, anche ricostruendo un quadro non del tutto inedito per molte città italiane: una piazza gremita di giovani dediti alla «frequente pratica del tunig» e molte auto con le portiere aperte.
In questo contesto il ricorrente riteneva che mancasse una prova certa che ad alzare il volume fosse stato lui. Ma questa censura comportava valutazioni di merito fuori dal raggio d’azione della Cassazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2016).

SICUREZZA LAVOROSicurezza del lavoro, responsabilità ampia per il subappaltatore. Appalti. In caso di ispezione.
In materia di sicurezza nei cantieri, la mera presenza del appaltatore-committente in occasione di un accesso ispettivo non costituisce ingerenza nell’esecuzione dei lavori eseguiti dal subappaltante (che avrebbe potuto comportare come conseguenza il mantenimento della qualifica di datore di lavoro), né tale ingerenza potrà desumersi dalla presenza di un socio preposto al cantiere.

A chiarirlo è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 15.09.2016 n. 37229, la quale ha accolto il ricorso del responsabile di un’impresa e del coordinatore per la sicurezza, già condannati in primo grado per la violazione del Decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro).
La vicenda trae origine da una visita degli ispettori di una Direzione provinciale del lavoro in un cantiere edile in cui operavano varie ditte specializzate. In particolare, gli ispettori avevano riscontrato delle irregolarità nella predisposizione del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc), in materia di controllo sull’idoneità dei piani operativi di sicurezza (Pos) di alcune imprese nel cantiere, nonché delle carenze nelle misure di sicurezza a salvaguardia dei lavoratori e dei terzi.
Il controllo di legittimità della sentenza del Tribunale, sollecitato dalla difesa del titolare dell’impresa ricorrente, non permetteva però alla Corte di cassazione di chiarire quale fosse in realtà la posizione di quest'ultima anche perché le imputazioni a suo carico riguardavano una responsabilità diretta, laddove era certo che i lavori venivano eseguiti da personale di altra ditta sulla base di un contratto di appalto. Neppure chiari risultavano, inoltre, i contenuti o l’esistenza di eventuale deleghe in materia di sicurezza da parte della società committente o appaltante nei confronti della società subappaltatrice.
La Cassazione ha comunque ribadito che in tema di prevenzione infortuni l’appaltatore che procede a subappaltare l’esecuzione delle opere, non perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro (ai fini degli obblighi della sicurezza), neppure se il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori, qualora eserciti un continua e costante ingerenza nella prosecuzione dei lavori.
Per quanto concerne la nomina del coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori, essa non esonera il committente e il responsabile dei lavori da responsabilità per la redazione del piano di sicurezza (e di coordinamento) e del fascicolo per la protezione dai rischi, nonché dalla vigilanza sul coordinatore medesimo in ordine all’effettivo svolgimento dell'attività di coordinamento e controllo sull'osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e coordinamento.
Del resto è ormai giurisprudenza costante -ricordano i giudici di legittimità- che la posizione di garanzia attribuita al committente e al responsabile dei lavori sia molto ampia in quanto comprende l’esecuzione dei controlli non solo formali, ma soprattutto sostanziali, in materia di sicurezza, per cui spetta al committente verificare che i coordinatori per la progettazione e l’esecuzione dell’opera adempiano agli obblighi incombenti su costoro nella materia della sicurezza.
La sentenza impugnata è stata quindi annullata dalla Corte di cassazione con rinvio al giudice di merito perché verifichi le reali responsabilità degli imputati, tenuto conto della formulazione delle contestazioni risultanti dal capo di imputazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2016).
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In tema di prevenzione degli infortuni, l’appaltatore che provvede a subappaltare l’esecuzione delle opere non perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro, neppure se il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori, continuando, invece, ad essere responsabile del rispetto della normativa antinfortunistica qualora eserciti una continua ingerenza nella prosecuzione dei lavori.
Ne consegue che, in tali ipotesi, non si può prescindere dal verificare se l’appaltatore, nell’ambito del contratto di appalto dallo stesso stipulato, abbia esercitato o meno una concreta ingerenza sulla esecuzione dei lavori appaltati ad altri, essendo necessario accertare se questi abbia o meno esercitato i poteri decisionali, presupposto della qualifica stessa di datore di lavoro
(tratta da www.dirittifondamentali.it). ...
...
2.1 Come precisato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema "In tema di prevenzione degli infortuni, l'appaltatore che procede a subappaltare l'esecuzione delle opere non perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro, neppure se il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori, ma continua ad essere responsabile del rispetto della normativa antinfortunistica, qualora eserciti una continua ingerenza nella prosecuzione dei lavori" (così Sez. 3^ 24.10.2013 n. 50996, Gerna, Rv. 258299): ne consegue che occorre sempre verificare se nell'ambito del contratto di appalto l'appaltatore eserciti o meno una ingerenza sulla esecuzione dei lavori appaltati ad altri.
...
3.1 In aggiunta a tali considerazioni, le quali certamente incidono sulla sussistenza della prova della responsabilità dell'odierno ricorrente va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema è concorde nel ritenere che "In tema di infortuni sul lavoro, la nomina del coordinatore per la progettazione o per l'esecuzione dei lavori non esonera il committente ed il responsabile dei lavori da responsabilità per la redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi, nonché dalla vigilanza sul coordinatore medesimo in ordine all'effettivo svolgimento dell'attività di coordinamento e controllo sull'osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento" (Sez. 4^ 28.05.2013 n. 37738, Gandolla ed altri, Rv. 256636), precisandosi anche che la posizione di garanzia attribuita al committente ed al responsabile dei lavori è molto ampia in quanto ricomprende l'esecuzione di controlli non solo formali, ma soprattutto sostanziali in materia di prevenzione, sicurezza del luogo di lavoro e salvaguardia della salute dei lavoratori, con la conseguenza che spetta al committente verificare che i coordinatori per la progettazione e l'esecuzione dell'opera adempiano agli obblighi incombenti su costoro nella materia in esame (Sez. 4^ 12.02.2015 n. 14012, Zambelli, Rv. 263014).

PUBBLICO IMPIEGODipendente in pensione solo con la motivazione. Ragioni da specificare se c’è la richiesta di restare.
Pubblico impiego. In caso di anzianità massima contributiva ma sotto il limite di età.
Rimane in servizio il dipendente pubblico che, pur avendo raggiunto l’anzianità massima contributiva di 40 anni, non ha ancora compiuto 65 anni di età.
Il principio è posto dalla Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con la sentenza 14.09.2016 n. 18099, e riguarda, nel caso specifico, un dipendente comunale. L’ente pubblico, in altri termini, non può collocare forzatamente a riposo il lavoratore limitandosi ad affermare che lo stesso «possiede i requisiti soggettivi ed oggettivi»: è invece necessaria un’adeguata, specifica motivazione per disattendere la richiesta di trattenimento in servizio.
Il datore di lavoro pubblico ha la “facoltà” (articolo 72, comma 11, del Dl 112/08) di risolvere il rapporto di lavoro al raggiungimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, ma tale facoltà deve esercitarsi, su richiesta dell’interessato e prima del compimento dell’età massima anagrafica, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, applicando principi di buona fede, correttezza, imparzialità e buon andamento.
La materia è stata approfondita e innovata con l’articolo 1, comma 5, del Dl 90/2014, secondo il quale la predetta facoltà di risolvere il rapporto di lavoro, in presenza della massima anzianità contributiva, non necessita di ulteriori motivazione se vi siano appositi criteri applicativi in un atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto degli organi di controllo.
Coordinando le previsioni dei Dl 112/2008, 78/2009 e 90/2014 con la circolare n. 2/2015 del ministro Madia per la semplificazione e la pubblica amministrazione, il quadro attuale esige che il recesso abbia una specifica motivazione, che può essere specifica sul dipendente oppure limitarsi a richiamare appositi criteri applicativi deliberati in atti generali di organizzazione. Ad esempio, potranno adottarsi i principi di armonizzazione nell’esodo di uomini e donne, che evitano discriminazioni, non bastando generici riferimenti a risparmi gestionali, al pubblico interesse o un richiamo alla necessità di riorganizzare la dotazione organica e ridurre il costo del personale.
Il dipendente che voglia rimanere in servizio pur avendo maturato l’anzianità massima contributiva di 40 anni, può quindi pretendere dall’amministrazione un’idonea motivazione, sulla quale poi poter esercitare un controllo di legalità circa l’appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita dall’ente datore di lavoro. A differenza dei casi normali di recesso (rimesso alla volontà di chi recede), i dipendenti della pubblica amministrazione, pur avendo un contratto di matrice privatistica, possono cioè esigere che il datore di lavoro pubblico rispetti i principi di legalità, imparzialità e buon andamento.
La Cassazione sottolinea quindi che l’ente pubblico datore di lavoro deve operare per ottenere la più efficace ed efficiente organizzazione. Si completa in questo modo, con riguardo alle soglie massime di anzianità (che restano i 65 anni, estensibili a 70 per i vertici di sanità, magistratura e docenza universitaria) un sistema di garanzia: va tutelato il diritto a raggiungere l’età pensionabile, vanno evitati i trattamenti discriminatori basati sull’età dei dimissionati (Cass. 06.06.2016 n. 11595) e ora si impone una specifica motivazione in atti organizzativi per superare la volontà del dipendente che voglia rimanere in servizio fino a 65 anni.
Non mancano peraltro le eccezioni, come il recente Dl 168/16 per i vertici della magistratura (fino a 72 anni), mentre il record spetta ad un alto magistrato, rimasto a Piazza Cavour (in doveroso risarcimento di carriera) fino ad 83 anni
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2016).

PUBBLICO IMPIEGOContratti a termine e Pa, limiti d’obbligo. Corte Ue. Ribadita la necessità per gli Stati di contenere numero e durata complessiva dei rinnovi.
È illegittima la normativa di uno Stato membro che non limita il numero e la durata complessiva dei rinnovi del contratto a tempo determinato: questo il principio affermato dalla Corte di giustizia europea, Sez. X, con la sentenza 14.09.2016 - causa C-16/15.
Tale principio si pone in assoluta continuità con la giurisprudenza precedente, e non sembra destinato a scalfire in alcun modo la tenuta della normativa italiana (Dlgs 81/2015), in quanto questa contiene già tutti quei limiti che la Corte individua come imprescindibili ai fini della compatibilità con il diritto comunitario (il contratto non può eccedere la durata massima di 36 mesi, compresi proroghe e rinnovi, e questi non possono essere in numero superiore a 5).
La vicenda riguarda la legislazione sul lavoro a tempo determinato vigente in Spagna; una lavoratrice impiegata da una struttura sanitaria pubblica mediante diversi contratti (un primo rapporto seguito da sette rinnovi, per una durata complessiva di oltre 4 anni) a tempo determinato, dopo la fine dell’ultimo rapporto, ha avviato una causa invocando l'eccessiva reiterazione dei contratti.
Il giudice spagnolo ha sollevato presso la Corte di giustizia europea la questione della compatibilità della legislazione spagnola con il diritto comunitario, nella parte in cui questa non limita i rinnovi dei contratti a termine.
La Corte di giustizia ricorda, innanzitutto, che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a termine persegue lo scopo specifico di limitare il ripetuto ricorso ai contratti o ai rapporti di lavoro a tempo determinato.
Per contenere questo fenomeno, l’accordo quadro individua tre possibili strumenti: l’individuazione di ragioni obiettive che giustificano il rinnovo, la fissazione di un tetto di durata massima complessiva dei contratti e, infine, la un limite massimo al numero dei rinnovi.
Gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità in merito a tali misure (possono scegliere di utilizzarne solo una, oppure usarle in combinazione tra loro), a condizione che sia effettivamente perseguito l’obiettivo di contenere in maniera efficace il numero di rinnovi.
Nel caso della legislazione spagnola, la Corte di giustizia europea ritiene che questi elementi non siano presenti, per diversi motivi.
Tale normativa non autorizza l’uso indiscriminato dei contratti a termine, perché ne consente l’utilizzo soltanto per esigenze di natura temporanea, congiunturale o straordinaria; tuttavia, la stessa disciplina risulta lacunosa, nella parte in cui consente di utilizzare i rapporti a tempo determinato per la realizzazione, in modo permanente e duraturo, di compiti nel servizio sanitario che appartengono alla normale attività del servizio ospedaliero ordinario.
Questa lacuna si sostanzia, secondo la sentenza, nella mancata fissazione di un limite massimo al numero (oppure alla durata) dei rinnovi: tale carenza contraddice, infatti, la premessa sulla quale si fonda l’accordo quadro comunitario, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
1) La clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.03.1999, che compare in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28.06.1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa osta a che una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, sia applicata dalle autorità dello Stato membro interessato in modo tale che:
   – il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi, nel settore pubblico sanitario, sia considerato giustificato da «ragioni obiettive» ai sensi di tale clausola poiché detti contratti sono basati su disposizioni di legge che consentono il rinnovo per assicurare la prestazione di specifici servizi di natura temporanea, congiunturale o straordinaria, mentre, in realtà, tali esigenze sono permanenti e durature;
   – non esista alcun obbligo per l’amministrazione competente di creare posti strutturali che mettano fine all’assunzione di personale con inquadramento statutario occasionale e che gli sia permesso di destinare i posti strutturali creati all’assunzione di personale «a termine», in modo tale che la situazione di precarietà dei lavoratori perduri, mentre lo Stato interessato conosce un deficit strutturale di posti per il personale di ruolo in tale settore.
2) La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che compare in allegato alla direttiva 1999/70, deve essere interpretata nel senso che essa non si oppone, in via di principio, ad una normativa nazionale che impone che il rapporto contrattuale termini alla data prevista dal contratto a tempo determinato e che si proceda alla liquidazione di ogni pagamento, senza che ciò escluda un’eventuale nuova nomina, a condizione che detta normativa non sia di natura tale da rimettere in causa l’obiettivo o l’efficacia pratica di tale accordo quadro, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
3) La Corte di giustizia dell’Unione europea è manifestamente incompetente a rispondere alla quarta questione proposta dallo Juzgado de lo Contencioso-Administrativo n. 4 de Madrid (tribunale amministrativo n. 4 di Madrid, Spagna).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIRecesso, committente in prima linea. Somministrazione irregolare. L’impugnazione stragiudiziale del licenziamento non va proposta all’appaltatore.
Se un contratto di appalto viene riqualificato come somministrazione irregolare di manodopera, tutti gli atti di gestione compiuti dall’appaltatore illecito devono intendersi riferiti al soggetto che in concreto ha utilizzato la prestazione lavorativa; pertanto, in caso di licenziamento intimato dall’appaltatore, l’impugnazione stragiudiziale dell’atto di recesso deve essere proposta (a pena di decadenza) nei confronti del committente che agisce di fatto come datore di lavoro, e non verso il somministratore.
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 13.09.2016 n. 17969) con questo principio di diritto ricostruisce il meccanismo di impugnazione che deve essere applicato da parte di un lavoratore quando questi intende rivendicare la costituzione di un rapporto di lavoro verso un soggetto diverso dal datore apparente e, allo stesso tempo, vuole impugnare il licenziamento intimato nei suoi confronti dal datore di lavoro formale.
La controversia sottoposta al vaglio di legittimità era stata avviata da un lavoratore licenziato da un’impresa appaltatrice. Il lavoratore, dopo il licenziamento, aveva impugnato in via stragiudiziale il recesso solo nei confronti del soggetto che formalmente agiva come datore di lavoro, senza coinvolgere il committente. Successivamente lo stesso lavoratore aveva chiesto l’accertamento della natura irregolare dell’appalto e la conseguente costituzione di un rapporto di lavoro a carico del committente. Questa domanda veniva accolta, mentre veniva respinta la richiesta, formulata dallo stesso lavoratore, di condannare il committente alla reintegra nel posto di lavoro.
Il tribunale di primo grado (con sentenza confermata in appello) motivava il rigetto di questa domanda invocando l’articolo 27 del decreto legislativo 276/2003; applicando la norma al caso di specie, secondo i giudici di merito, il lavoratore era decaduto dall’azione di impugnazione del licenziamento verso il committente, non avendo provveduto ad impugnare in via stragiudiziale l’atto nei confronti di tale soggetto nel termine di 60 giorni(l’impugnativa era stata inviata solo all’appaltatore, poi riconosciuto come falso datore di lavoro dalla sentenza).
La sentenza della Cassazione conferma le pronunce di merito, osservando che il testo della legge Biagi (in maniera difforme da quello della previgente disciplina, la legge 1369/1960) stabilisce espressamente che il soggetto che utilizza le prestazioni di un dipendente somministrato (sia in maniera regolare, tramite un’agenzia per il lavoro autorizzata dal Ministero, sia in maniera irregolare, tramite un appalto illecito) subentra attivamente e passivamente in tutti gli atti di gestione compiuti dal somministratore.
Con riferimento al licenziamento, osserva la Corte di cassazione, questo principio ha come diretta conseguenza che il recesso intimato dall’appaltatore va impugnato in via stragiudiziale nei confronti dell’utilizzatore effettivo della prestazione lavorativa entro i normali termini di legge (60 giorni dalla comunicazione del recesso); se questa impugnazione viene meno, il lavoratore decade dal diritto ad agire verso il soggetto che agisce formalmente come committente ma, dopo l’azione giudiziale, viene riconosciuto come datore di lavoro reale
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2016).

APPALTIPer gli appalti non valgono le vecchie fatture. Consiglio di Stato. Per dimostrare i requisiti servono i certificati di avvenuta esecuzione.
In caso di appalti di servizi e forniture, i requisiti di capacità tecnica ed economica non possono essere dimostrati con le fatture dei servizi svolti in passato, ma occorre presentare le certificazioni di avvenuta esecuzione che le stazioni appaltanti inseriscono direttamente nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici, a maggior ragione se è espressamente richiesto dal bando di gara.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2016 n. 3859, afferma l’inderogabilità del Dl 5/2012 di “semplificazione” degli appalti pubblici, quindi il divieto per gli operatori economici di utilizzare le sole fatture di esecuzione dei servizi prestati per le pubbliche amministrazioni anche dopo il 01.07.2014 -data di entrata in vigore della banca dati (comma 1, articolo 6-bis, Dlgs 163/2006)-, come concesso in via transitoria dall’allora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determina 111/2012).
In questo caso i giudici amministrativi hanno bocciato il ricorso di un Comune che, in una gara per l’affidamento quadriennale di un servizio di assistenza su scuolabus, aveva ritenuto legittimo concedere ad un’impresa, poi risultata aggiudicataria, la possibilità di presentare una documentazione alternativa nella fase di controllo sul possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa -articolo 48, Codice appalti– nonostante nel bando di gara (dicembre 2015) avesse ammesso soltanto l’uso delle certificazioni.
Il collegio, in linea con l’Adunanza plenaria (sentenza n. 9/2014), ha ribadito che «non è consentito all’amministrazione disapplicare le norme del bando di gara», cioè un «vincolo» che essa stessa si è data per gli affidamenti, e che per la stessa ragione «nemmeno la concorrente può sottrarsi alle norme di lex specialis, quand’anche richiesta in tal senso dalla stazione appaltante, perché l’effetto disapplicativo di norme regolanti la procedura di gara si realizzerebbe comunque».
I citati indirizzi dell’Autorità nazionale anticorruzione, spiega la sentenza, avevano in realtà riconosciuto agli operatori solo una «facoltà…in via transitoria» per la fase di avvio del sistema informatico “Avcpass”, per cui, anche in questo caso, il Comune avrebbe dovuto attenersi alla «prescrizione puntuale» fissata nel bando e «senza consentire alternative»: i concorrenti sorteggiati in fase di controllo avrebbero dovuto cioè fornire –entro i 10 giorni imposti dalla normativa– esclusivamente la richiesta «certificazione rilasciata dai committenti con indicazione di periodi ed importi di svolgimento dei servizi».
La sentenza precisa che quando, come accaduto nel caso in esame, la prova di questi requisiti non è data con «l’unico mezzo per essi previsto», l’esclusione dell’impresa -con incasso della cauzione provvisoria e segnalazione all’Anac– è «l'unica conseguenza applicabile» poiché l’ormai riconosciuta perentorietà del termine concesso per rispondere alla richiesta della stazione appaltante non ammette “sanatorie”. Al contrario, infatti, la prova tardiva violerebbe «il canone generale della par condicio tra i concorrenti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
3. Deve innanzitutto premettersi che
per pacifica giurisprudenza il bando di gara costituisce un vincolo dal quale anche la stazione appaltante non può sottrarsi, nel senso che al pari dei concorrenti anche l’amministrazione è inderogabilmente tenuta ad applicare le disposizioni che essa stessa si è data per la procedura di affidamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 25.04.2014, n. 9, § 6.2.1).
Venendo quindi al caso di specie, come correttamente evidenziato dal Tribunale amministrativo, i sopra richiamati artt. 12 e 13 del bando di gara prevedono che la commissione giudicatrice procede tra l’altro ad «effettuare il sorteggio pubblico di cui all’art. 48 del D. Lgs.vo n. 163/2006», e che i concorrenti sorteggiati devono a tal fine «presentare la certificazione rilasciata dai committenti con indicazione di periodi ed importi di svolgimento dei servizi»; l’art. 12 prevede inoltre che nel caso in cui «tale prova non sia fornita (…)si procederà all’esclusione del concorrente dalla gara».
E’ quindi pacifico, perché non contestato nemmeno dal Comune di Recco o dall’aggiudicataria C.S.P., che
a fronte della richiesta di comprova dei requisiti quest’ultima si è limitata a produrre le fatture relative ai servizi precedentemente svolti, mediante inserimento nella banca dati nazionale dei contratti pubblici ex 6-bis, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 (sistema informatico “AVCpass”, gestito dall’Autorità nazionale anticorruzione), in luogo della certificazione prevista dall’art. 13 del bando sopra richiamata.
4. Ciò precisato, al fine di confutare le censure contenute nel presente appello deve innanzitutto essere ritenuta irrilevante la circostanza che la richiesta di comprova non indicasse come mezzi di prova la sola certificazione, ma anche le fatture relative ai servizi, perché come poc’anzi chiarito, non è consentito all’amministrazione disapplicare le norme del bando di gara.
Del pari, per la medesima ragione nemmeno la concorrente può sottrarsi alle norme di lex specialis, quand’anche richiesta in tal senso dalla stazione appaltante, perché l’effetto disapplicativo di norme regolanti la procedura di gara si realizzerebbe comunque.
5. Tanto meno in contrario possono essere richiamati gli “indirizzi” dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (ora appunto Autorità nazionale anticorruzione) formulati nella determinazione n. 111 del 20.12.2012.
In realtà, la facoltà prevista da questo provvedimento di inserire nella banca dati ex art. 6-bis del codice di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 è riconosciuta in via transitoria agli operatori economici nella fase di avvio del sistema informatico applicativo AVCpass (art. 6, comma 2, della determinazione).
Per contro, nel caso di specie, il Comune di Recco aveva dettato nel bando di gara una prescrizione puntuale, che imponeva ai concorrenti sorteggiati ai sensi del più volte citato art. 48 del previgente codice di comprovare i requisiti di capacità tecnica ed economica mediante «certificazione rilasciata dai committenti con indicazione di periodi ed importi di svolgimento dei servizi», senza consentire alternative.
6. Inoltre, poiché in modo altrettanto puntuale l’art. 48 è richiamato dal bando (art. 12), perde di rilievo ogni assunto fondato sull’inapplicabilità alla procedura di affidamento in contestazione delle disposizioni contenute nel codice, al di là di quelle richiamate dall’art. 20, in quanto avente ad oggetto un servizio previsto dall’allegato II B.
Sul punto deve precisarsi che le censure del Comune di Recco traggono origine dal fatto che il giudice di primo grado ha ritenuto che l’esclusione della C.S.P. si fonda sulla violazione degli artt. 41 e 42 d.lgs. n. 163 del 2006.
Tali critiche sono fondate, ma esse colgono un errore motivazionale che non incide sulla conformità a diritto della decisione finale e che è dunque suscettibile di correzione in appello. Infatti, l’esclusione di quest’ultima concorrente avrebbe dovuto essere disposta non già in applicazione di tali disposizioni, ma dell’art. 48 e degli artt. 12 e 13 del bando di gara, dal cui combinato era consentita modalità alternativa che quella di comprovare il possesso dei requisiti speciali di partecipazione mediante l’esibizione dei certificati rilasciati dal committente.
7. L’esclusione dalla gara è poi l’unica conseguenza applicabile all’ipotesi, poi concretamente verificatasi, in cui la prova dei requisiti non sia stata data con l’unico mezzo per essi previsto, senza possibilità di regolarizzazione mediante il potere di soccorso istruttorio della stazione appaltante.
Infatti, in forza del richiamo all’art. 48 operato dal bando, è applicabile il termine di 10 giorni previsto da tale disposizione ed il carattere perentorio che la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ad esso attribuito (da ultimo: Sez. V, 15.03.2016, n. 1032), con conseguente impossibilità di sanare le conseguenze derivanti dal suo infruttuoso decorso integrale.
Peraltro -come sopra rilevato- lo stesso bando di gara, ed in particolare l’art. 12, prevede in modo espresso l’esclusione nel caso in cui non sia fornita del possesso dei requisiti di capacità tecnica ed economica mediante attraverso certificazioni dei servizi di cui al successivo art. 13.
Pertanto, la sanzione espulsiva non discende solo da una disposizione di legge che il Comune odierno appellante ha ritenuto di richiamare in via di autovincolo, ma anche attraverso un’ulteriore ed autonoma previsione inserita nella normativa di gara.
8. Alla luce di tutto quanto sinora rilevato, le conseguenze derivanti dallo spirare del termine assegnato per la comprova dei requisiti non possono nemmeno essere sanate in considerazione del fatto che l’aggiudicataria ha poi prodotto le certificazioni attestanti lo svolgimento dei servizi dichiarati ai fini della propria qualificazione nella procedura di gara in contestazione.
Se infatti fosse consentita la prova tardiva ne risulterebbe violato il canone generale della par condicio tra i concorrenti ad una procedura di affidamento di contratti pubblici, alla cui realizzazione è preordinato il carattere perentorio del termine previsto dal comma 1 del più volte citato art. 48 (sul punto si vedano i principi affermati, con riguardo al comma 2 di tale disposizione, in estensione rispetto a quelli già invalsi con riguardo al comma 1, dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, nella sentenza 25.02.2014, n. 10).
9. In conseguenza del rigetto dell’appello il Comune di Recco è tenuto a rifondere all’originaria ricorrente Fo.Ex..

ATTI AMMINISTRATIVI: E' senz’altro vero che l’accesso agli atti non può costituire uno strumento di controllo generalizzato sull’operato della P.a. come lo stesso legislatore si è premurato di rimarcare con l’art. 24, comma 3, della legge 241/1990.
Una finalità di questo tipo, oltre ad essere estranea alla logica della trasparenza nei rapporti tra singolo cittadino e potere pubblico -che il legislatore ha inteso rafforzare attraverso l’istituto dell’accesso agli atti e ai documenti della P.a.– finisce con il compromettere l’interesse ad un corretto ed efficiente funzionamento degli uffici e degli organi della P.a., messo in pericolo dalla necessità di soddisfare ad oltranza istanze di accesso agli atti indiscriminate.
E’, però, altrettanto vero che l’accesso agli atti è disegnato, nel nostro ordinamento giuridico, quale “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2, della legge 241/1990).
Per questa sua particolare fisionomia, l’accesso agli atti non può soffrire limitazioni che non siano espressamente contemplate dalla legge.

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La P.a. destinataria di un’istanza di accesso agli atti non può esercitare alcun sindacato forte sulla pertinenza dei documenti richiesti in visione o in copia, rispetto ad un giudizio in corso, nel cui ambito il richiedente ha necessità di difendersi.
Essa deve limitarsi a verificare se gli atti o i documenti richiesti appartengano, eventualmente, alle categorie sottratte all’accesso in via legislativa o regolamentare, ai sensi dell’art. 24 della legge 241/1990; o, ancora, può legittimamente ricusare di offrire in visione atti il cui accesso viene richiesto al conclamato fine di esercitare attività meramente ostruzionistica o emulativa (il che accade, ad es., quando si chiede di accedere a tutti gli atti senza alcuna specificazione ulteriore).
Ma, al di fuori delle ipotesi citate, a fronte di un’istanza di accesso agli atti motivata dalla necessità di difendere in giudizio una propria situazione giuridica soggettiva, non spetta alla P.a. la valutazione circa l’estraneità o meno di quegli atti o dei documenti richiesti al giudizio medesimo.

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... per l'annullamento del rifiuto opposto dal Comune di Miggiano e, nella specie, dal Responsabile del Settore Tecnico e del SUAP, ing. An.Ca., a mezzo nota prot. n. 5857 del 12.11.2015, trasmessa a mezzo pec del 16.12.2105, sull'istanza di accesso agli atti del 29.10.2015, acquisita agli atti dell'ente in data 30.10.2015, prot. n. 5678
...
Il ricorso è fondato ed è meritevole di accoglimento.
Il Collegio ritiene di dover precisare che è senz’altro vero che l’accesso agli atti non può costituire uno strumento di controllo generalizzato sull’operato della P.a., come ha sottolineato la difesa del Comune di Miggiano, e come lo stesso legislatore si è premurato di rimarcare con l’art. 24, comma 3, della legge 241/1990.
Una finalità di questo tipo, oltre ad essere estranea alla logica della trasparenza nei rapporti tra singolo cittadino e potere pubblico -che il legislatore ha inteso rafforzare attraverso l’istituto dell’accesso agli atti e ai documenti della P.a.– finisce con il compromettere l’interesse ad un corretto ed efficiente funzionamento degli uffici e degli organi della P.a., messo in pericolo dalla necessità di soddisfare ad oltranza istanze di accesso agli atti indiscriminate.
E’, però, altrettanto vero che l’accesso agli atti è disegnato, nel nostro ordinamento giuridico, quale “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2, della legge 241/1990).
Per questa sua particolare fisionomia, l’accesso agli atti non può soffrire limitazioni che non siano espressamente contemplate dalla legge.
In questa prospettiva, il Collegio reputa di dover rimarcare che la P.a. destinataria di un’istanza di accesso agli atti non può esercitare alcun sindacato forte sulla pertinenza dei documenti richiesti in visione o in copia, rispetto ad un giudizio in corso, nel cui ambito il richiedente ha necessità di difendersi.
Essa deve limitarsi a verificare se gli atti o i documenti richiesti appartengano, eventualmente, alle categorie sottratte all’accesso in via legislativa o regolamentare, ai sensi dell’art. 24 della legge 241/1990; o, ancora, può legittimamente ricusare di offrire in visione atti il cui accesso viene richiesto al conclamato fine di esercitare attività meramente ostruzionistica o emulativa (il che accade, ad es., quando si chiede di accedere a tutti gli atti senza alcuna specificazione ulteriore).
Ma, al di fuori delle ipotesi citate, a fronte di un’istanza di accesso agli atti motivata dalla necessità di difendere in giudizio una propria situazione giuridica soggettiva, non spetta alla P.a. la valutazione circa l’estraneità o meno di quegli atti o dei documenti richiesti al giudizio medesimo.
Questa considerazione risulta corroborata, con riguardo al caso di specie, dall’elevato tecnicismo del giudizio che si svolge innanzi al G.a., nel corso del quale è ben possibile, come nella specie, contrastare l’iniziativa assunta con il ricorso principale, a mezzo di domanda incidentale che amplia considerevolmente il thema decidendum.
La ricorrente ha, peraltro, correttamente spiegato che la necessità di accedere agli atti concernenti il possesso, da parte della Sa.Sa. s.r.l., dei requisiti strutturali sorgeva in vista della predisposizione di un ricorso incidentale, ossia di una domanda finalizzata non solo a contrastare le affermazioni in fatto e in diritto della ricorrente principale, ma anche al fine di contestare in radice la sua partecipazione alla gara.
In uno scenario di questo genere, è illogico ammettere che la P.a. possa stabilire se un atto o un documento richiesto con istanza di accesso sia o meno pertinente ad un giudizio già in corso o da incardinare, perché un controllo di questo tipo comprimerebbe oltre i limiti della ragionevolezza e del buon senso il diritto di accesso agli atti del cittadino.
Il Comune di Miggiano ha respinto, nella specie, la domanda di accesso agli atti della ricorrente, sufficientemente motivata dalla necessità di difendersi in giudizio nei confronti di altra struttura socio sanitaria, formulando una indebita valutazione di pertinenza degli atti richiesti al giudizio stesso.
Un contegno siffatto non è consentito ed è senz’altro illegittimo.
La nota di risposta del Comune di Miggiano alla richiesta di accesso agli atti del 30.10.2015 va pertanto annullata.
Consegue da tanto che lo stesso Comune di Miggiano deve consentire l’accesso agli atti per come richiesto dalla ricorrente, permettendo l’estrazione di copia dei medesimi, nel termine di giorni trenta dalla presente decisione (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 12.09.2016 n. 1425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare con sole garanzie bancarie. Giochi. Per la Corte Ue la procedura è legittima.
La Corte di giustizia dell’Unione Europea chiarisce la differenza tra appalti e concessioni di servizi, esaminando il ricorso di un imprenditore che intendeva partecipare alla gara di gestione di agenzie di gioco.
La sentenza 08.09.2016 - C-225/15 separa infatti gli appalti di servizi, oggetto della direttiva 2004/18 e del Dlgs 163/2006, dalle concessioni di servizi, oggetto della direttiva 2014/24/Ue e dall’articolo 3, comma 1, lettere ss), Dlgs 50 del 2016.
La differenza è nel corrispettivo, il quale nell’appalto di servizi è versato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi. Invece, nel caso di concessione di servizi, il corrispettivo della prestazione consiste nel diritto di gestire il servizio, o da solo o accompagnato da un prezzo. Soprattutto, è diverso il trasferimento del rischio, il quale nella concessione di servizi passa a carico dell’impresa. Con questa logica, la gestione delle sale da gioco è una concessioni di servizi, perché non viene remunerata dall’amministrazione aggiudicatrice (lo Stato), ed inoltre perché il concessionario sopporta integralmente il rischio connesso all’esercizio dell’attività di raccolta e trasmissione delle scommesse.
Una seconda questione decisa dalla Corte di Lussemburgo riguarda la rigidità dei requisiti di capacità economica e finanziaria per partecipare ad una gara di sale giochi. Le Finanze, con il “bando Monti” del 2012, richiedeva attestazioni di affidabilità rilasciate da almeno due istituti bancari, comprovanti capacità economica e finanziaria milionaria.
Di norma, le capacità economiche finanziarie possono essere provate con bilanci e dichiarazioni concernenti il fatturato globale di vari esercizi, oltre che con le predette «idonee dichiarazioni bancarie»: ma nel caso specifico, la delicatezza dell’attività di raccolta scommesse aveva indotto ad un bando di gara che chiedeva unicamente dichiarazioni bancarie. Ai giudici comunitari è stato quindi chiesto, da parte della magistratura di Palmi che giudicava l’imputato di un’abusiva sala giochi, se fosse legittimo limitare la dimostrazione della capacità economiche finanziarie attraverso i soli canali bancari.
Rispetto alle altre gare (di concessione e di appalto di servizi) emergeva infatti il dubbio di un’eccessiva rigidità e quindi di illegittima restrizione della concorrenza. L’orientamento comunitario è stato favorevole alla tesi del Governo, ritenendo che la richiesta di proporzionate garanzie bancarie non eccedesse quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito. Quest’ultimo, nel settore dei giochi d’azzardo, legittima infatti una particolare severità, con restrizioni alla libertà di partecipazione.
Le referenze bancarie, quindi, rimangono determinanti per l’affidabilità dell’impresa, perché rispecchiano la qualità dei rapporti in atto, la correttezza e puntualità nell’adempimento degli impegni assunti, l’assenza di situazioni passive, e ciò anche se gli istituti bancari non sono tenuti a fornire elementi sulla effettiva consistenza economica e finanziaria dei concorrenti (Consiglio Stato, 5704/2015).
In ogni caso, non basta che l’istituto bancario dichiari che il soggetto «gode di buona moralità» (Tar Palermo, 14216/2010), perché, come sottolinea Anac (parere precontenzioso 135/2014) l’istituto di credito dovrebbe confermare che l’impresa intrattiene rapporti affidati ed ha capacità economico finanziarie per far fronte agli impegni scaturenti dalla partecipazione ad una procedura ad evidenza pubblica
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
  
1) La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi e, in particolare, il suo articolo 47 devono essere interpretati nel senso che una normativa nazionale che disciplina il rilascio di concessioni nel settore dei giochi d’azzardo, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, non rientra nel loro ambito di applicazione.
   2) L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una disposizione nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che impone agli operatori che intendono rispondere ad una gara diretta al rilascio di concessioni in materia di giochi e di scommesse l’obbligo di comprovare la propria capacità economica e finanziaria mediante dichiarazioni rilasciate da almeno due istituti bancari, senza ammettere la possibilità di dimostrare tale capacità anche in altro modo, sempreché la disposizione di cui trattasi sia conforme ai requisiti di proporzionalità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

URBANISTICA: Il potere di pianificazione territoriale deve essere correlato ad un concetto di urbanistica che non è limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (relativamente ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che è volto a perseguire obiettivi economico-sociali della comunità locale, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in relazione alle diverse tipologie di edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente tutelati.

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Avuto riguardo quindi alle caratteristiche e alla valenza dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di una importante, strategica porzione del territorio comunale sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in un più complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o meno una tipizzazione del genere di quella richiesta (ndr:
richiesta di approvazione di una variante diretta a veder realizzato una grande struttura commerciale) deve essere conforme al complesso di scelte da effettuarsi nella sede dello strumento urbanistico secondo criteri di sufficienza e congruità, rispetto alle quali la posizione del privato, per quanto meritevole in sé di apprezzamento, si appalesa senz’altro recessiva.
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Le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica di carattere generale costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed irragionevolezza.
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4.3. I profili di doglianza dedotti dalla parte appellante appaiono meritevoli di positivo apprezzamento.
Tutti i motivi accolti in prime cure, infatti, o sono inammissibili -perché impingono il merito di valutazioni e scelte di politica urbanistica ampiamente discrezionali al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito previsti dall’art. 134 c.p.a. (cfr. Ad. plen., n. 5 del 2015)– o sono infondati, alla stregua delle risultanze istruttorie documentali versate in atti.
4.4. Il Collegio deve innanzitutto qui richiamare principi già espressi dalla giurisprudenza di questa Sezione in relazione all’esercizio del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in tal modo effettuate.
Questa Sezione con sentenza del 10.05.2012 n. 2710 (successivamente riconfermata nelle sue motivazioni) ha già avuto modo di osservare che il potere di pianificazione territoriale deve essere correlato ad un concetto di urbanistica che non è limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (relativamente ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che è volto a perseguire obiettivi economico-sociali della comunità locale, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in relazione alle diverse tipologie di edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente tutelati (cfr. di recente, Sez. IV, n. 2221 del 2016).
Tanto premesso in linea generale, con riferimento alla fattispecie all’esame, la richiesta di approvazione di una variante diretta a veder realizzato una grande struttura commerciale va interessare una zona del territorio comunale, quella costituita dall’area dell’ex zuccherificio particolarmente sensibile per le gestione dell’intero territorio comunale posta com’è in una posizione strategica per la città di Fano (alle porte sud ), nei pressi della foce del fiume Metauro, nelle vicinanze del mare e luogo altresì di grande valenza ambientale.
Avuto riguardo quindi alle caratteristiche e alla valenza dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di una importante, strategica porzione del territorio comunale sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in un più complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o meno una tipizzazione del genere di quella richiesta da ma.Po. S.r.l. deve essere conforme al complesso di scelte da effettuarsi nella sede dello strumento urbanistico secondo criteri di sufficienza e congruità, rispetto alle quali la posizione del privato, per quanto meritevole in sé di apprezzamento, si appalesa senz’altro recessiva (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5478 del 2008).
Se così è, tornando alla fattispecie all’esame deve darsi atto che la motivazione di negare la chiesta variazione di destinazione, come resa dal Consiglio Comunale di Fano attraverso le dichiarazioni di voto dei componenti dell’assemblea consiliare appare rispettosa dei su riportati principi giurisprudenziali dai quali il Collegio non ha motivo di discostarsi.
Invero, dalle articolate dichiarazioni di voto costituenti la motivazione per relationem della delibera per cui è causa, il Consiglio comunale ha formulato considerazioni che hanno riguardato due fondamentali aspetti della disciplina pianificatoria:
   a) quello relativo alle problematiche urbanistiche afferenti l’intero territorio comunale in relazione alle quali, coerentemente alle impostazioni generali del Piano l’assemblea comunale ha espresso la volontà di procedere ad una più generale riconsiderazione della disciplina riguardante la più vasta zona territoriale costituita dall’area ex zuccherificio ;
   b) quello riguardante la tematica commerciale lì dove ha il Consiglio comunale ha privilegiato le forme di commercio, quelle c.d. “di vicinato” rispetto al commercio di massa, il tutto nell’ambito di una nuova visione dell’assetto dell’area diretta a promuovere le variegate valenze del luogo e a superare le esigenze d’impresa.
Ora le valutazioni espresse dall’Organo consiliare non solo non sono generiche ed apodittiche, ma costituiscono parte consustanziale di una motivazione “politica” pienamente consentita oltre ché giustificata perché coerente con il complesso di scelte urbanistiche interessanti lo sviluppo di una “significativa” parte del territorio comunale, rimesse, come tali alla discrezionalità del massimo organo comunale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 8682 del 2010).
All’uopo è sufficiente richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale per cui le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica di carattere generale (come quella qui in rilievo) costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed irragionevolezza, qui non rinvenibili (Cons. Stato, Sez. IV, n. 7492 del 2010).
Infine, vale qui far rilevare come non ricorra una particolare situazione che abbia creato aspettativa o affidamento in favore della Società richiedente la variazione urbanistica in contestazione, non potendo certo discendere una aspettativa giuridicamente qualificata dalla interlocuzione infra procedimentale e dalla esistente destinazione produttiva impressa all’area, come richiesto dalla Società originariamente ricorrente ed erroneamente pure sostenuto dal TAR (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. n. 9006 del 2009) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.09.2016 n. 3806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAppalti con principio di rotazione. Tar di Palermo. Annullato un contratto per servizi concluso con l’affidatario precedente.
Nelle procedure negoziate a cui può partecipare un numero limitato di operatori economici, il principio di rotazione è tutt’altro che marginale: al contrario, proprio l’accesso “filtrato” dalla stazione appaltante secondo una propria soglia economico-finanziaria e tecnico-organizzativa è una «garanzia minima» che si concilia con le regole di trasparenza e concorrenzialità ed è tale da vietare l’invito anche al gestore uscente pur se idoneo e affidabile.
Anche il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 27.07.2016 n. 1916, interviene nell’ampio dibattito sull’equilibrio tra massima partecipazione delle imprese e rischio di rendite di posizione negli appalti pubblici, promuovendo un’interpretazione «rigorosa» della disciplina sulla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara (comma 6, articolo 57, Dlgs 163/2006, ex Codice appalti).
Queste norme prevedono la selezione delle aziende «sulla base di informazioni…desunte dal mercato, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, concorrenza, rotazione», quindi la scelta di «almeno tre…, se sussistono in tale numero soggetti idonei».
I giudici hanno così annullato un contratto per la raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani che una centrale unica di committenza aveva sottoscritto con un precedente gestore (affidatario con due proroghe) anziché con una delle altre imprese “invitate”.
Accogliendo la tesi di una di queste, il Tar ha spiegato che in questi casi la prescrizione sull’avvicendamento delle ditte con i requisiti per avere rapporti con la Pa «non è banale o secondario, e costituisce la garanzia minima affinché possa essere ritenuta compatibile con le regole di trasparenza e concorrenzialità, che presidiano il settore degli appalti pubblici, una procedura che, in sé, contiene significative deroghe all’ordinario criterio di aggiudicazione degli appalti».
Ciò, come precisato, pur se parte della giurisprudenza -non citata, ma tra la più recente si veda la sentenza del Tar Lazio n. 3319/2016- non ha ritenuto la rotazione una regola assoluta prevalente che a priori esclude i gestori uscenti se stata accertata la trasparenza della procedura selettiva.
Per la Sezione, questo principio «anche dalla piena lettura della norma…si affianca a quello di trasparenza e di parità di trattamento, e non può essere eluso per il rispetto degli altri concorrenti principi che devono essere seguiti», a maggior ragione in questi casi dove la rotazione «assume un valore ancor più pregnante a fronte del limitato numero di ditte». Perciò, anche a voler condividere l'interpretazione normativa più estensiva, «difficilmente potrebbero essere ritenute rispettate le garanzie minime previste dalle norme di legge in materia».
Nella sentenza si è sottolineato che la mancata rotazione dell’affidatario in queste gare non può essere dettata dall’insuccesso della pubblicazione dell’avviso sull’albo pretorio: è sempre illegittima sia perché questa pubblicità ha una «limitata efficacia» sia perché la Pa, dopo l’invito e prima dell’affidamento, conosce il numero delle manifestazioni d’interesse ricevute. Nel caso in questione, oltre a quella dell’ex gestore non più ammissibile, erano due, cioè un «esiguo numero non...idoneo a consentire il pieno rispetto alle garanzie di legge»
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2016).

TRIBUTIÈ illegittimo l’avviso della Tarsu che non individua le aree tassabili. L’atto deve spiegare perché non è attendibile la denuncia del contribuente.
È nullo per difetto di motivazione l’avviso di accertamento Tarsu che non consente di individuare con precisione le aree tassabili.
L’affermazione proviene dalla Ctp di Bari, nella sentenza 21.07.2016 n. 2533/10/2016 (presidente Drago, relatore Di Paola).
Dalla lettura della narrativa della sentenza emerge in effetti una procedura di controllo del Comune non del tutto lineare. Si parte invero da un accertamento Tarsu per omessa dichiarazione a fronte del quale il contribuente rileva che, al contrario, la dichiarazione sarebbe stata presentata. A monte di questo accertamento vi era un sopralluogo effettuato dai vigili urbani allo scopo di determinare le superfici delle aree esterne ai locali.
L’esito del sopralluogo tuttavia aveva determinato maggiori estensioni soggette a prelievo non solo esterne ma anche interne, relative, cioè, ai locali utilizzati per l’attività. A tutto ciò si aggiunga che l’amministrazione comunale aveva già proceduto a rivedere parzialmente in via di autotutela l’entità delle superfici inizialmente rilevate.
Alla luce di tale complessa dinamica accertativa, non vi è dubbio che fosse indispensabile rappresentare chiaramente negli atti di imposizione l’ammontare finale della pretesa tributaria. Così verosimilmente non è stato, atteso che il collegio barese afferma che «la lettura dell’atto di accertamento non consente in alcun modo di comprendere a quale tipologia di superficie faccia riferimento l’Amministrazione comunale, avuto riguardo in primo luogo all’esistenza di precedenti denunce delle superfici tassabili».
Inoltre, anche il verbale redatto dai vigili «non fornisce dati comprensibili o non equivoci sull’oggetto e sull’esito del controllo eseguito». In estrema sintesi, non era dato individuare con chiarezza la materia controversa. La conclusione è stata l’annullamento totale dell’atto impugnato.
In proposito, vale osservare che sebbene il prelievo sui rifiuti non si articoli in termini molto complicati da rappresentare, tuttavia richiede che alcune indicazioni siano rese con una certa precisione. Ciò, tanto più in presenza di un contribuente che ha presentato una denuncia iniziale. Proprio in tema di aree scoperte, va ricordato che mentre le aree operative sono tassate, quelle pertinenziali e accessorie sono invece escluse da imposizione. E non è sempre facile differenziare le relative destinazioni d’uso. A ciò si aggiunga la nota esclusione delle superfici degli operatori economici che producono in prevalenza rifiuti speciali che richiede l’accertamento e la descrizione della destinazione d’uso delle aree stesse.
Occorre infine abbandonare la concezione tradizionale della motivazione come mera “rovocatio ad opponendum", secondo cui, se il contribuente si è comunque difeso, l’atto è valido. Secondo l’ultimo orientamento di Cassazione, infatti, la motivazione deve consentire ex ante di comprendere la ragioni della pretesa, prima ancora di leggere il ricorso del contribuente (Cassazione, sentenza 24024/2015)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2016).

TRIBUTIAi coniugi con case in due città il sindaco non può chiedere l’Imu. Non rileva che per l’abitazione principale la legge si riferisca a un unico nucleo familiare.
L’esenzione Imu e Tasi per l’abitazione principale si applica anche a due immobili posseduti dai coniugi, purché si trovino in Comuni diversi e, oltre alla residenza anagrafica, in ciascuno corrisponda anche il dato sostanziale della abitualità della dimora.

A riguardo, è irrilevante –come stabilito dalla Ctp di Brescia con sentenza 14.07.2016 n. 605/2/2016 (presidente e relatore Chiappani)– il fatto che la legge consideri “prima casa” l’immobile in cui vivono «il possessore e il suo nucleo familiare».
Nel caso in questione, una contribuente aveva ricevuto alcuni avvisi di accertamento ai fini Imu e Tasi, con cui il Comune chiedeva il pagamento delle imposte, non riconoscendo l’applicazione del beneficio per abitazione principale. Il nucleo familiare, infatti, godeva già di tale agevolazione in riferimento a un altro immobile, posseduto dal marito e ubicato in un Comune diverso.
La contribuente ha impugnato gli atti impositivi davanti alla Ctp, richiamando l’articolo 13, comma 2, del Dl 201/2011. La norma prevede l’esenzione d’imposta per l’abitazione principale, intesa quale immobile in cui il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. L’unica eccezione prevista riguarda l’ipotesi in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito dimora e residenza in abitazioni diverse, ma che sono situate nel territorio dello stesso Comune: ipotesi in cui l’esenzione si applica per un solo immobile.
Nella situazione in esame, il Comune si è costituito in giudizio sostenendo che l’immobile della contribuente non poteva qualificarsi ai fini Imu/Tasi come abitazione principale, proprio perché il marito già fruiva dell’agevolazione per un’altra casa, in un Comune diverso.
Il collegio bresciano ha però accolto le ragioni della contribuente, annullando gli atti impositivi. I giudici hanno innanzitutto rilevato la presenza di entrambe le condizioni previste dalla legge: cioè un’immobile adibito a “dimora abituale” e nel quale era stata trasferita anche la “residenza anagrafica”. Secondo la commissione, quindi, l’esenzione dall’imposta non poteva essere contestata, pur se il coniuge della contribuente usufruiva già della stessa agevolazione in un altro Comune.
La norma non esclude infatti la possibilità di più “abitazioni principali” del nucleo familiare (ad esempio, per esigenze lavorative dei coniugi), purché tali abitazioni non siano ricomprese nel medesimo territorio comunale.
Questa interpretazione è stata peraltro fornita anche dal Mef, in risposta a un quesito di Telefisco 2014, ribadendo che l’esenzione si applica quando i coniugi abbiano stabilito l’abitazione principale in due Comuni diversi (si veda anche la circolare 3/DF del 2012).
È ininfluente che la legge faccia riferimento a un unico nucleo familiare. In quest’ultimo rientrano i soggetti che compongono la “famiglia anagrafica”, cioè persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, eccetera, che coabitano e hanno dimora abituale nelle stesso Comune. Ma tale famiglia può essere formata anche da una sola persona, e ciascun coniuge può costituirne una propria, distinta, nell’ambito di Comuni diversi.
È tuttavia importante, per l’esclusione Imu e Tasi, che alla residenza anagrafica presso l’abitazione principale corrisponda anche l’abitualità della dimora
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAServitù pubblica su un’area privata destinata a fiere. Beni comuni. Il Tar Lazio.
Il continuato e prevalente uso di uno spazio condominiale da parte di un’indeterminata collettività di persone determina il sorgere di una servitù pubblica di passaggio sull’area condominiale.

Questo il principio espresso dal TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, nella recente sentenza 08.07.2016 n. 7858.
Il caso è quello di un condominio che concedeva in locazione un’area sottostante al portico condominiale a un’associazione, che periodicamente la utilizzava per esposizione e vendita di oggettistica e piccolo antiquariato amatoriale, a cura di autonomi rivenditori.
Tali manifestazioni, erano regolarmente autorizzate dal Comune che, per un certo periodo, considerando l’occupazione ricadente su area privata, non aveva preteso canoni a titolo di Cosap. Successivamente, però,veniva richiedeva il pagamento dei canoni per l’occupazione del suolo, sostenendo che sull’area condominiale in questione si era formata una servitù pubblica di passaggio.
Secondo l’associazione –che ricorreva al Tar- tali richieste erano ingiustificate perché il passaggio pedonale e il collegamento alla via pubblica erano assicurati dal marciapiede esterno al portico che non veniva utilizzato per gli eventi autorizzati. Il Comune però si difendeva confermando la legittimità del suo operato in ragione della servitù di pubblico passaggio formatasi sull’area in questione, senza l’opposizione della collettività condominiale.
Questa tesi è stata confermata dal Tar, che ha ricordato come un’area privata possa ritenersi destinata a pubblico passaggio quando tale uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale e non quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto all’area utilizzata.
Pertanto, nel caso di portico soggetto a pubblico passaggio, si è chiaramente in presenza di una servitù di uso pubblico, che non trova la sua ragione di esistere nel soddisfacimento dell’utilità di un fondo “dominante”, trattandosi piuttosto di un peso imposto sopra un fondo privato per l’utilità di una collettività generalizzata di individui. In tal senso, nemmeno la presenza di un marciapiede contiguo al porticato vale, di per sé, a mettere in dubbio il diritto spettante alla generalità dei cittadini di utilizzare il portico stesso, di fatto usato da tutti i passanti.
In altre parole, l’interesse della collettività dovrà inquadrarsi non tanto nel raggiungimento di un fondo dominante, quanto piuttosto nell’uso stesso del porticato, fruendo anche di utilità, quali il riparo da eventi metereologici, uso di locali, accesso ai negozi. E l’esistenza di un affitto commerciale non esclude la servitù pubblica sull’area, in quanto tale contratto di locazione non è in contrasto con l’assoggettabilità del bene alla Cosap, che è destinata a compensare la diminuzione dell’area di passaggio subita dalla collettività per l’apposizione di arredi da parte del conduttore
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.09.2016).
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MASSIMA
2. Il ricorso è infondato per le seguenti ragioni.
2.1. La vicenda controversa verte sulla assoggettabilità a concessione/canone Cosap degli spazi sottostanti i porticati dei palazzi insistenti ai lati di Piazza Augusto Imperatore, rientranti nella asserita disponibilità della ricorrente in quanto locati dalla stessa con contratto sottoscritto con la proprietà condominiale, riguardo i quali secondo la medesima non sussisterebbe servitù di pubblico passaggio.
La questione è già stata affrontata dalla sezione con sentenza n. 10183 del 2014 che pronunciandosi sugli stessi luoghi e sui medesimi presupposti, non ha negato l'esistenza della servitù di passaggio sui portici di Piazza Augusto Imperatore, ma ha rilevato la non adeguata dimostrazione da parte di Roma Capitale dell'esistenza di tale titolo.
Tale sentenza è stata riformata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 3446 del 2015 dove si è affermato che
i Portici di Piazza Augusto Imperatore sono idonei a soddisfare l'uso pubblico garantendo alla cittadinanza l'utilità sociale costituita dal libero passaggio sull'area, sulla quale non sono state mai apposte barriere o segnali volti ad impedire il libero passaggio, garantendo nel concreto da tempo lunghissimo e per fatto notorio (non smentito dalla ricorrente), con continuità, il transito libero ed indiscriminato da parte della generalità dei cittadini (elementi caratterizzanti la c.d. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione della servitù di uso pubblico, cfr. Cass. Civ., sez. II n. 4597/2001; idem, n. 6924/2001; Cons. Stato, sez. V, 14.02.2012, n.728).
L'Amministrazione ha comprovato ulteriori circostanze a sostegno della dimostrazione della sussistenza della servitù di pubblico passaggio sull' area in questione e cioè la specifica pronuncia sull'esistenza della servitù di pubblico passaggio, con sentenza del Tribunale civile di Roma n. 3045/2010 del 10.02.2010, che ha affermato l'assoggettabilità alla Cosap dei portici di piazza Augusto Imperatore.
Aggiunge poi la difesa capitolina che gli esercizi di somministrazione attivati nei locali commerciali insistenti sui predetti porticati hanno sempre richiesto all'Amministrazione il rilascio di apposito provvedimento concessorio di eventuale Osp, con corresponsione dei relativi canoni sulla base di quanto prescritto in materia dal regolamento Cosap.
Del resto le opposte circostanze dedotte dalla parte ricorrente non appaiono sufficienti a contrastare gli elementi probatori addotti dall'Amministrazione a sostegno dell'esistenza di una servitù di pubblico passaggio:
- disponibilità dell'area in forza del contratto di locazione stipulato con la proprietà condominiale;
- occupazione solo dello spazio sotto i portici e non del marciapiede demaniale, destinato al libero passaggio pedonale;
- la circostanza che la ricorrente provveda direttamente alla cura, la pulizia e la manutenzione dello spazio in questione, sottratto alla gestione dell'AMA.
Sulla base dell'orientamento della giurisprudenza, infatti,
l'unica circostanza che sia in grado di escludere che su di un'area privata possa sorgere un diritto d'uso in favore della collettività ed invece una utilità limitata ai soli frontisti proprietari sarebbe l'oggettiva interruzione dell'area medesima da parte del suo proprietario o la apposizione di segni esteriori riconducibili alla volontà dello stesso di voler continuare a disporre del bene in via esclusiva (cancelli, catene, cartelli, ecc.), circostanze non sussistenti nella specie, laddove per fatto notorio l’area è destinata alla libera circolazione pedonale da parte della comunità indifferenziata dei cittadini, circostanza non smentita dalla ricorrente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.12.2006, n. 7601; idem, cit. n. 3446 del 2015).
Né varrebbe obiettare, come invece inteso dalla ricorrente, che l'esistenza di un affitto commerciale sia elemento escludente la sussistenza della servitù pubblica sull’area, ciò in quanto tale contratto di locazione è tra l’altro successivo alla formazione della servitù e comunque non è in contrasto con l'assoggettabilità del bene alla Cosap, atteso che può ritenersi che sia destinata a compensare la diminuzione dell'utilitas di passaggio subita dalla collettività per l'apposizione di arredi sull'area.
Del resto proprio l'applicazione della concessione, ai sensi della disciplina regolamentare in materia, da parte dell'Amministrazione contempera i diversi interessi pubblici e privati coinvolti nella medesima fattispecie quali la tutela architettonica, l'ambiente, la viabilità, l'esercizio del diritto di proprietà.

AMBIENTE-ECOLOGIAEmissioni moleste, il reato non è escluso se sono occasionali. Il caso. Le indicazioni su odori e vapori.
La Corte di Cassazione (Sez. III penale, sentenza 27.02.2012 n. 7605) ha già affrontato l’annoso problema dei rapporti di vicinato con particolare riguardo alle immissioni di odori e vapori molesti. Il caso riguardava l’attività di un panificio che provocava emissioni di vapore e di fumo sino a imbrattare un condominio vicino.
La Corte aveva ritenuto di configurare a carico del titolare del panificio la responsabilità penale per la violazione dell’articolo 674 del Codice penale «in quanto l’agente, a prescindere dal superamento o non dei limiti di emissione, è, comunque, tenuto ad adottare tutte le cautele necessarie per evitare fuoriuscite di gas , vapori o di fumo atti ad imbrattare o molestare le persone. Il prevenuto, quale titolare dell’esercizio in questione assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti che gli sono addebitabili, non risultando che abbia fatto nulla per reprimere o limitare le emissioni di fuliggine oleosa prodotta quotidianamente dal suo panificio».
Ma non basta: nella sentenza si legge anche che «si osserva che l’evento di molestia non si ha solo nei casi di emissioni inquinanti in violazione dei limiti di legge, in quanto non è sufficiente che le stesse siano vietate da speciali norme giuridiche, ma è sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.».
La stessa Cassazione, con la recente sentenza 15.06.2016 n. 24817, sullo stesso tema ha affermato un principio analogo, cassando la sentenza di un Giudice per le indagini poreliminari che aveva prosciolto l’imputato (che aveva bruciato occasionalmente della plastica): «Il G.I.P. ha prosciolto l’imputato perché non sussisterebbe il reato in quanto la condotta non avrebbe carattere permanente, ma (solo) occasionale (...). Tale conclusione non è per nulla condivisibile e disattende quanto pacificamente affermato dalla Corte di Cassazione, secondo cui il reato di getto di cose pericolose, di cui all’art. 674 cod. pen., ha di regola carattere istantaneo e solo eventualmente permanente. La permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni sono connesse all’esercizio di attività economiche legate al ciclo produttivo (sentenza 2598/1997), mentre con riguardo specifico all’emissione molesta di gas, vapori o di fumo, la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen., è un reato non necessariamente, ma solo eventualmente permanente».
Secondo la Corte, quindi, il reato sussiste anche con un solo atto mediante il quale si provoca un’emissione molesta. Ma l’idoneità della condotta a produrre emissioni moleste deve essere dimostrata
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione (ovvero concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
Pertanto, qualora si tratti di provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo è colui che, a seguito di una fondata richiesta, si è visto ingiustamente negare o ritardare il provvedimento richiesto; qualora si tratti di provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile si configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al medesimo giudice è soltanto colui che è portatore dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio direttamente pregiudicati dal provvedimento contro il quale ha proposto ricorso.

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Il potere di condanna al risarcimento dei danni
, già attribuito al giudice amministrativo a far tempo dal d.lgs. n. 80/1998, come modificato dalla legge n. 205/2000, è volto a rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, ma anche (ove configurabile) quella della riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando la necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario.
Il risarcimento del danno ingiusto non costituisce perciò una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello classico demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
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Nella specie deve essere affermata la giurisdizione del giudice ordinario, considerato che la società attrice non ha contestato la legittimità dei provvedimenti con i quali il Comune ha disposto l'annullamento del permesso di costruire e la demolizione del fabbricato da essa realizzato nelle more, ma ha fondato la propria domanda esclusivamente sulla condotta, asseritamente colpevole per grave negligenza, con la quale il Comune aveva ingenerato in essa attrice l'affidamento sulla legittimità dell'atto amministrativo ed il conseguente incolpevole convincimento di potere procedere all'edificazione
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Nella specie, pertanto,
manca una qualsiasi controversia sulla legittimità di atti o provvedimenti amministrativi dalla quale possa farsi derivare una giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di risarcimento del danno.
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Ritenuto in fatto e in diritto
- che, con citazione del 09.04.2013, la s.p.a. Pe. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Rieti, il Comune di Fiano Romano per sentirlo condannare al risarcimento dei danni da essa subiti in conseguenza della condotta illecita dell'amministrazione comunale che, con grave negligenza, aveva certificato l'assenza di vincoli paesaggistici su un'area di proprietà dell'attrice ed aveva rilasciato per detta area un permesso di costruire, poi da essa stessa riconosciuto illegittimo per la mancanza del nulla osta della Sovrintendenza, così ingenerando nell'attrice l'affidamento sulla legittimità dell'atto amministrativo e l'incolpevole convincimento di potere procedere all'edificazione, come in concreto era avvenuto;
- che, in particolare, l'attrice deduceva quanto segue:
   a) il rilascio del permesso di costruire era dipeso dall'errore originariamente commesso dall'ente territoriale nel riportare sulla cartografia ufficiale il perimetro dell'area interessata dal vincolo paesaggistico relativo alla Valle del Tevere, errore non rilevato nel momento del rilascio del permesso edilizio e neppure successivamente nel corso dell'attività di verifica dell'esatta portata del vincolo, svolta anche su richiesta del giudice amministrativo, e ciò sino all'08.06.2009 quando per la prima volta il Comune aveva dato atto del proprio errore, dopo che nell'ambito di un procedimento di riesame la Regione Lazio aveva attestato l'incidenza del vincolo sull'area in questione.
Il Comune, quindi, con distinti provvedimenti del 15.06.2009, aveva annullato il permesso di costruire ed aveva ordinato la demolizione dell'edificio già costruito ed ultimato; infine, soltanto con delibera del consiglio comunale del 05.07.2010, il Comune aveva corretto l'individuazione sugli elaborati di PRG del vincolo paesaggistico della Valle del Tevere;
   b) il Consiglio di Stato con la sentenza n. 6372/2012 aveva definitivamente accertato la legittimità dell'annullamento del permesso di costruire e dell'ordinanza di demolizione;
- che il Comune di Fiano propone regolamento preventivo per sentir dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo -ai sensi degli artt. 7, 30, comma 6, e 133, comma 1, lett. f), del codice del processo amministrativo- deducendo che «il petitum sostanziale contenuto nell'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado e nelle correlate allegazioni delle parti consiste in una richiesta di risarcimento dei danni, che avrebbe subito la soc. Pe. in conseguenza di tutta una serie di atti e provvedimenti amministrativi adottati dal Comune di Fiano Romano in relazione alla costruzione di un edificio di proprietà della società»; pertanto, secondo il ricorrente, la pronunzia sulla domanda comporterebbe quella sulla legittimità dell'intero procedimento amministrativo che, originato dal Comune di Fiano Romano con il rilascio del permesso di costruire, aveva visto l'intervento di atti e provvedimenti sia della Regione Lazio sia della Sovrintendenza;
- che la s.p.a. Pe. resiste con controricorso, deducendo che la domanda di risarcimento dei danni non è fondata sull'illegittimo esercizio di un potere autoritativo da parte della p.a., ma sul colpevole affidamento da questa ingenerato con un provvedimento favorevole, successivamente annullato;
- che entrambe le parti hanno presentato memoria;
- che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, con riferimento alla disciplina già dettata dall'art. 34 del d.lgs. n. 80/1998 in materia urbanistica ed edilizia, il seguente principio: «
in tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione (ovvero concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio. Pertanto, qualora si tratti di provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo è colui che, a seguito di una fondata richiesta, si è visto ingiustamente negare o ritardare il provvedimento richiesto; qualora si tratti di provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile si configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al medesimo giudice è soltanto colui che è portatore dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio direttamente pregiudicati dal provvedimento contro il quale ha proposto ricorso» (Cass. s.u. ord. 23.03.2011, n. 6594. Conff. Cass. s.u. ordd. 23.03.2011, n. 6595 e 6596; Cass. s.u. ord. 07.03.2005, n. 4805 nonché in materia di pubblici servizi Cass. s.u. ord. 04.10.2012, n. 16948);
- che a tale giurisprudenza deve essere data continuità anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 104/2010, applicabile nella specie;
- che, infatti, le disposizioni invocate dal Comune ricorrente non configurano la tutela risarcitoria come un'autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Il potere di condanna al risarcimento dei danni, già attribuito al giudice amministrativo a far tempo dal d.lgs. n. 80/1998, come modificato dalla legge n. 205/2000, è volto, infatti, a rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, ma anche (ove configurabile) quella della riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando la necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario.
Il risarcimento del danno ingiusto non costituisce perciò una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello classico demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
In questo stesso binario si colloca l'art. 30, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010, secondo cui «
può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività' amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria»; una diversa conclusione non è giustificata dal prosieguo della disposizione, secondo cui «nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi», considerato che il successivo art. 133, comma 1, lett. f), devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia», richiedendo perciò che la controversia attenga ad atti o provvedimenti e non semplicemente a comportamenti.
Al riguardo la norma ha evidentemente recepito l'insegnamento di Corte cost. 28.04.2004, n. 204 che aveva dichiarato l'illegittimità, per contrasto con gli artt. 24, 25, 100, 102, 103, 111 e 113 della Costituzione, dell'art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998 (come sostituito dall'art. 7, lettera b, della legge n. 205/2000), nella parte in cui prevedeva la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi per oggetto "gli atti, i provvedimenti e i comportamenti", anziché soltanto "gli atti e i provvedimenti" delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, perché la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non può estendersi anche ai "comportamenti", e cioè a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita alcun pubblico potere;
- che, pertanto,
nella specie deve essere affermata la giurisdizione del giudice ordinario, considerato che la società attrice non ha contestato la legittimità dei provvedimenti con i quali il Comune di Fiano Romano ha disposto l'annullamento del permesso di costruire e la demolizione del fabbricato da essa realizzato nelle more, ma ha fondato la propria domanda esclusivamente sulla condotta, asseritamente colpevole per grave negligenza, con la quale il Comune aveva ingenerato in essa attrice l'affidamento sulla legittimità dell'atto amministrativo ed il conseguente incolpevole convincimento di potere procedere all'edificazione.
Nella specie, pertanto,
manca una qualsiasi controversia sulla legittimità di atti o provvedimenti amministrativi dalla quale possa farsi derivare una giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di risarcimento del danno.
P.Q.M.
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rimette le parti, anche per le spese del regolamento, innanzi al Tribunale di Rieti (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 22.01.2015 n. 1162).

ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la giurisdizione è del G.O..
Con tre ordinanze “gemelle” depositate il 23.03.2011, in sede di regolamento di giurisdizione,
la Corte di Cassazione devolve alla giurisdizione del G.O. il risarcimento del danno derivante dalla lesione dell’affidamento incolpevole nella (apparente) validità dell’esercizio della funzione pubblica, in ossequio ai principi di buona fede, correttezza e solidarietà che regolano il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione.
Nella prima pronuncia (ordinanza 23.03.2011 n. 6594), il caso di specie sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguarda la richiesta di risarcimento dei danni per aver confidato il ricorrente nell’apparente legittimità di una concessione edilizia –in seguito alla quale erano stati avviati i lavori per la costruzione dei manufatti– successivamente annullata, in via di autotutela, dalla pubblica amministrazione.
«Il proprietario o il titolare di altro diritto reale» non può invocare la tutela risarcitoria per ottenere il ristoro dei danni derivanti dalla perdita della facoltà di edificare, verificatasi in seguito all’annullamento d’ufficio della concessione edilizia, secondo la Cassazione. Sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se il ricorrente volesse dolersi dell’illegittimità di qualche atto della procedura (ad esempio, del provvedimento di ritiro) e, contestualmente o successivamente, dei danni da esso derivanti.
In tal caso, lo strumento risarcitorio sarebbe, conformemente al dictum della Consulta (sentenze n. 292 del 2000 e 281 del 2004), «ulteriore e di completamento» rispetto al rimedio classico demolitorio, giustificando la concentrazione di entrambe le tutele dinnanzi al giudice amministrativo.
«Una volta intervenuto legittimamente l’annullamento della concessione edilizia può rilevare esclusivamente una diversa situazione, sulla quale fondare il risarcimento del danno». In altre parole, il danno che il ricorrente ha subito è imputabile ad una condotta scorretta della parte pubblica, consistita «nell’emissione di atti favorevoli, poi ritirati [..] in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimità ed orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare» e, pertanto, passibile di risarcimento dinnanzi al giudice ordinario, avendo la situazione giudica fatta valere in giudizio la consistenza di diritto soggettivo.
Non si tratta di un danno contra ius, ossia privo di una causa di giustificazione, giacché l’operato della parte pubblica è formalmente legittimo.
Ciò che la Cassazione mira a tutelare è l’affidamento del ricorrente che, senza sua colpa, ha confidato nella validità (poi venuta meno) della condotta della pubblica amministrazione, la quale è tenuta a rispettare «principi generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza».
Il caso di specie oggetto della seconda pronuncia (ordinanza 23.03.2011 n. 6595) è, in parte, analogo a quello deciso nella prima. I ricorrenti chiedono il risarcimento dei danni derivanti da una condotta scorretta della parte pubblica, consistente nell’attestazione (rivelatasi, in seguito, errata) che il fondo da essi acquistato fosse «libero da pesi ed altri oneri», nonché potenzialmente edificabile e nel rilascio di una concessione edilizia –sulla quale era stata iniziata la costruzione dell’immobile– successivamente annullata dal giudice amministrativo, che ne aveva acclarato l’illegittimità.
«Il provvedimento che aveva concesso il diritto a edificare e che, perché illegittimo, è stato legittimamente posto nel nulla, rileva per il titolare dello ius aedificandi esclusivamente quale mero comportamento degli organi che hanno provveduto al suo rilascio, integrando così, ex art. 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito per violazione del principio del neminem laedere, [...] per avere tale atto, con la sua apparente legittimità, ingenerato nel destinatario l’incolpevole convincimento (fondato sull’affidamento in ordine alla legittimità dell’atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell’azione amministrativa) di potere legittimamente procedere all’edificazione».
La terza pronuncia (ordinanza 23.03.2011 n. 6596) rafforza il principio di diritto suggellato nelle prime due. Secondo la Cassazione, si radica la giurisdizione del giudice ordinario sulla richiesta di risarcimento di danni cagionati dalla lesione dell’affidamento generato dall’adozione di un provvedimento favorevole, poi annullato in forza di una statuizione giurisdizionale.
Il ricorrente, infatti, non ha contestato l’illegittimità dell’aggiudicazione ma si è limitato ad «imputare» alla pubblica amministrazione di averlo indotto «a sostenere delle spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine quadriennale previsto dal contratto stipulato a seguito della gara».
Le fattispecie in esame si connotano per la condotta colposa della parte pubblica che, dapprima, ha indotto a far assumere il terzo un certo contegno e, in seguito, ne ha cagionato l’arresto, integrando gli estremi di un danno passibile di risarcimento dinnanzi al giudice ordinario, non venendo in rilievo –ai fini di un legittimo radicamento della giurisdizione amministrativa esclusiva– né un provvedimento amministrativo illegittimo né i diritti patrimoniali consequenziali.
Con lo stesso spirito che ha alimentato il dibattito sulla c.d. pregiudiziale amministrativa, sulla carenza di potere e sulla teoria dei diritti incomprimibili, la Corte di Cassazione si preoccupa esclusivamente di garantire una tutela piena ed effettiva alle situazioni sostanziali dedotte in giudizio, anche a costo di travalicare gli incerti e frastagliati confini del riparto di giurisdizione e di plasmare le categorie giuridiche civilistiche per adeguarle alle peculiarità del diritto amministrativo (commento tratto da www.amministrazioneincammino.luiss.it).
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MASSIMA
1. La giurisdizione dell'AGO viene sostenuta dai ricorrenti con riguardo al principio neminem laedere violato dal Comune, responsabile ex art. 2043 cod. civ. per condotta omissiva, consistente in difetto di verifica del vincolo di asservimento insistente sul terreno, e commissiva, integrata dal rilascio errato della concessione edilizia, come accertato dal giudice amministrativo, secondo un titolo, un comportamento illecito (l'inosservanza di condotte doverose), incidente sui diritti soggettivi patrimoniali dei ricorrenti. Il riparto di giurisdizione dovrebbe perciò seguire il petitum sostanziale proprio della domanda.
I ricorrenti chiedono, quindi, la declaratoria della giurisdizione dell'AGO.
2. Il Collegio ritiene che il regolamento debba essere accolto, con dichiarazione della giurisdizione del giudice ordinario, per le seguenti considerazioni.
2.1. In base agli artt. 103 e 113 Cost.,
il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione. Ciò significa che la giurisdizione amministrativa presuppone un contrasto tra il ricorrente e la pubblica amministrazione con riferimento ad un agire di quest'ultima che ha, evidentemente, pregiudicato il primo.
L'accesso alla giustizia amministrativa, in altri termini, presuppone l'esistenza di una controversia sul legittimo esercizio di un potere autoritativo.

Allorquando sussista tale controversia, nelle materie di giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo è attribuita la giurisdizione in ordine alla domanda di risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica (art. 35 d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000).
Peraltro, con tale disposizione,
il legislatore, se ha inteso rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, ma anche quella del risarcimento del danno (ove configurabile), non ha tuttavia individuato una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo (Corte cost., sent. n. 281 del 2004).
L'attribuzione a tale giudice della tutela risarcitoria per effetto della illegittimità degli atti amministrativi costituenti esercizio di potere autoritativo costituisce, quindi, uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello classico, di tipo demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è poi chiarito che l
a possibilità per il soggetto danneggiato dall'agire autoritativo della pubblica amministrazione di ottenere il risarcimento del danno successivamente alla proposizione di una azione demolitoria non determina il venir meno, nelle materie di giurisdizione esclusiva, della giurisdizione amministrativa (v., di recente, Cass., S.U., n. 5025 del 2010; Cass. S.U., n. 26023 del 2008).
Il presupposto perché si possa predicare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, tuttavia, anche nel caso in cui l'azione di danno venga svolta autonomamente e successivamente rispetto alla domanda volta alla rimozione del provvedimento illegittimo, è che il danno di cui si chiede il risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione sia causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo.
In altri termini,
perché possa affermarsi la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad una domanda di danni è necessario che la causa pètendi dell'azione di danno, tanto se introdotta contestualmente all'azione demolitoria, quanto nel caso in cui venga introdotta successivamente, sia la illegittimità dell'agire della pubblica amministrazione.
Invero, come si è prima rilevato,
la giurisdizione amministrativa postula una controversia sulla legittimità o no dell'agire autoritatívo della pubblica amministrazione.
2.3.
Diverso è il caso in cui, come nella specie, la parte che agisce per ottenere il risarcimento del danno dalla pubblica amministrazione non faccia valere, quale causa patendi della propria domanda, la illegittimità di un provvedimento amministrativo, ma la lesione dell'affidamento indotto dalla esistenza di una certificazione amministrativa (attestazione di edificabilità di un suolo in una determinata misura) ovvero di un atto amministrativo del quale si presume la legittimità (concessione edilizia) e rispetto al quale, quindi, nessun interesse ad ottenerne la rimozione sarebbe configurabile in capo a chi assume di aver subito il danno.
Invero,
sia nell'uno che nell'altro caso la lesione del diritto soggettivo e la relativa fonte di danno scaturiscono non dalla illegittimità della attestazione o della concessione edilizia, ma dal fatto che tali atti siano intervenuti e che altri ne abbiano posto in discussione la legittimità provocandone l'annullamento in sede giurisdizionale, o che la pubblica amministrazione, agendo in autotutela, li abbia annullati.
Nella prospettiva del soggetto che assume di avere subito una lesione ad un proprio diritto soggettivo, dunque, non si ravvisa la condizione perché la domanda risarcitoria possa essere attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: difetta, infatti, quella controversia in ordine alla legittimità del provvedimento amministrativo rispetto alla quale la domanda di danni si porrebbe come consequenziale.
Ciò che invece rileva è l'affidamento riposto dall'interessato sia nella esattezza della attestazione relativa alla attitudine edificatoria del fondo da lui acquistato -proprio per l'esistenza di tale attestazione-, sia della legittimità della concessione edilizia.
Il titolare dello ius aedificandi, invero, una volta che sia stato privato di tale diritto in via giurisdizionale a seguito del ricorso di altro soggetto che sia insorto contro detto provvedimento, e una volta che sia stata definitivamente accertata la illegittimità della concessione, non ha altro atto da impugnare rispetto al quale la tutela risarcitoria possa essere consequenziale e quindi attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Il provvedimento che aveva concesso il diritto ad edificare e che, perché illegittimo, è stato legittimamente posto nel nulla, rileva per il titolare dello ius aedificandi esclusivamente quale mero comportamento degli organi che hanno provveduto al suo rilascio, integrando così, ex art. 2043 cod. civ., gli estremi di un atto illecito per violazione del principio del neminem laedere, imputabile alla pubblica amministrazione in virtù del principio di immedesimazione organica, per avere tale atto, con la sua apparente legittimità, ingenerato nel destinatario l'incolpevole convincimento (fondato sull'affidamento in ordine alla legittimità dell'atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell'azione amministrativa) di potere legittimamente procedere all'edificazione.
In mancanza di un atto impugnabile, dunque, chi si è visto annullare, su iniziativa di altri, la concessione edilizia ha l'esclusiva possibilità di invocare un'unica tutela risarcitoria che, non essendo collegata alla impugnabilità di un atto, non può essere attratta nell'ambito di operatività della giurisdizione esclusiva e può trovare fondamento unicamente nell'affidamento riposto nel provvedimento a sé favorevole.
Si è infatti ripetutamente affermato che
la violazione del principio del neminem laedere da parte della Pubblica Amministrazione è ravvisabile in comportamenti tanto attivi quanto omissivi ogni qual volta essa venga meno al dovere d'improntare lo svolgimento delle funzioni demandatele sia ai principi costituzionali in punto d'imparzialità correttezza e buon andamento, sia alle norme di legge ordinaria in punto di celerità efficienza efficacia e trasparenza, sia ai principi generali dell'ordinamento in punto di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza (Cass., S.U., n. 1852 del 2009; Cass. n. 19286 del 2009, ed ivi ulteriori riferimenti), ipotesi che, in particolare, può verificarsi anche ove fornisca al privato notizie inesatte od ingeneri in esso fallace affidamento (Cass., n. 19286 del 2009, cit.; Cass. n. 27154 del 2008; Cass. 17831 del 1007; Cass. n. 2424 del 2004).
2.4. Con specifico riferimento al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in riferimento a domande risarcitorie proposte nei confronti della pubblica amministrazione, per i profili che qui rilevano, si è in particolare affermato che «
spetta al giudice ordinario conoscere della domanda con cui il privato, acquirente di un terreno sul quale era stata rilasciata una concessione edilizia e successore nella titolarità del permesso di costruire, chieda la condanna del Comune al risarcimento dei danni da esso subiti in seguito al rilascio, in favore del proprio dante causa, di una concessione edilizia ritenuta illecita dal giudice penale (in un procedimento penale per il reato, tra l'altro, di cui all'art. 20, lettera c, della legge 28.02.1985, n. 47) ed illegittima in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato promosso dal proprietario confinante, ma sulla cui piena regolarità egli abbia fatto invece affidamento per l'esecuzione del programma di costruzione dell'edificio. Detta domanda, infatti, non rientra nel campo applicativo dell'art. 34 del d.lgs. 31.03.1988, n. 80, né sollecita la tutela di un situazione configurabile come diritto patrimoniale consequenziale, giacché non postula alcun accertamento sull'esercizio del potere amministrativo (autoritativo) in materia urbanistica ed edilizia, che ha portato al rilascio della concessione edilizia, ma, sul presupposto che questa resti caducata, ascrive al comportamento del Comune convenuto la responsabilità per la sopravvenuta impossibilità di realizzare il programma costruttivo
» (Cass., S.U. n. 4805 del 2005).
In tale pronuncia si è esclusa la configurabilità di un diritto patrimoniale consequenziale, perché la domanda era riferita ai comportamenti (asseritamente illeciti) riferibili all'ente pubblico e perché l'annullamento dell'atto concessorio non era chiesto ma, in ipotesi, subìto dalla attrice nel giudizio civile, la quale, rispetto a quell'annullamento, risultava anzi controinteressata; il che escludeva la stessa possibilità di ravvisare l'esigenza di concentrare la tutela demolitoría e quella risarcitoria dinanzi allo stesso giudice, allo scopo di evitare che la parte, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, dovesse poi adire il giudice ordinario per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali, compreso il risarcimento del danno.
In altra pronuncia, si è affermato che
spetta al giudice ordinario conoscere della domanda risarcitoria, proposta, a titolo di garanzia, nei confronti di un Comune per i danni subiti dall'acquirente di un immobile incluso in piano di lottizzazione dichiarato illegittimo (in sede giurisdizionale amministrativa), che abbia agito, in via principale, per l'annullamento della compravendita nei riguardi della parte venditrice.
Detta domanda, infatti, non rientra nel campo applicativo dell'art. 34 del d.lgs. 31.03.1998, n. 80
(come modificato dall'art. 7 della legge 21.07.2000, n. 205), né sollecita la tutela di una situazione configurabile come diritto patrimoniale consequenziale, giacché non postula alcun accertamento sull'esercizio del potere amministrativo autoritativo in materia urbanistica ed edilizia, che ha portato all'approvazione del piano comunale di lottizzazione, ma, sul presupposto che quest'ultimo resti caducato, ascrive al comportamento del Comune chiamato in causa la responsabilità per gli effetti conseguenti alla sopravvenuta impossibilità di realizzare il programma costruttivo (Cass., S.U. n. 11932 del 2010).
Ed ancora, in un giudizio in cui era stato convenuto un comune per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del rilascio, a causa di un errore commesso dal dirigente dell'ufficio, di una certificazione urbanistica attestante la qualità edificatoria tout court di un'area risultata edificabile soltanto in minima parte, con conseguente impossibilità di realizzare il preventivato intervento edilizio, queste Sezioni Unite, nel ritenere che la controversia esulasse dal campo (della gestione del territorio ex art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998) riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, hanno osservato che
il rilascio della certificazione urbanistica erronea -che aveva indotto la società ad acquistare il terreno nella falsa rappresentazione della legittimità di un intervento edilizio relativo all'intera area- integrasse gli estremi "non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione (e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese" (Cass., S.U., n. 23679 del 2009).
2.5. Alle ipotesi ora richiamate è assimilabile la domanda risarcitoria in relazione alla quale è stato proposto il presente regolamento di giurisdizione, atteso che,
nella specie, ciò che viene in rilievo è l'affidamento riposto dai ricorrenti nella attendibilità della attestazione circa la edificabilità dell'area che intendevano acquistare (e che proprio per l'esistenza di detta certificazione essi si sono indotti ad acquistare) e nella legittimità della concessione edilizia rilasciata sul presupposto della esattezza di quei parametri (ancorché, nel caso di specie, da organo incompetente, come accertato in via definitiva dai giudici amministrativi).
In sostanza,
anche in questo caso non era ravvisabile un atto o provvedimento amministrativo della cui illegittimità i ricorrenti avrebbero potuto dolersi e rispetto al quale avrebbero potuto agire, una volta accertata la illegittimità, per le consequenziali statuizioni risarcitorie.
3. Di quanto si è osservato sin qui si può offrire come conclusione questa sintesi.
In base agli artt. 103 e 113 Cost.,
il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione.
La giurisdizione amministrativa è dunque ordinata ad apprestare tutela cautelare, cognitoria ed esecutiva contro l'agire della pubblica amministrazione, manifestazione di poteri pubblici, quale si è concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere è stato esercitato ha visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio interesse sostanziale o la sua fruizione.
Dei poteri che al giudice amministrativo è stato dato di esercitare per la tutela degli interessi sacrificati dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione, dal d.lgs. n. 80 del 1998 in poi, ha iniziato a far parte anche il potere di condanna al risarcimento del danno, in forma di completamento o sostitutiva: risarcimento che è perciò volto a contribuire ad elidere le conseguenze di quell'esercizio del potere che si è risolto in sacrificio illegittimo dell'interesse sostanziale del destinatario dell'atto.
Casi come quello odierno non prospettano un'esigenza di tutela quale quella appena delineata.
La parte che agisce in giudizio non è stata destinataria di un provvedimento ablatorio, di un comportamento silenzioso mantenuto su una domanda di provvedimento favorevole o del diniego di un tale provvedimento, atti o comportamenti di cui avrebbe potuto avere ragione di postulare l'illegittimità e sollecitare di tale illegittimità l'affermazione con l'ulteriore eventuale ristoro del danno che quella illegittimità gli avesse provocato.
Invero, nel caso in esame, la parte che, per valutare la convenienza di acquistare un terreno l'aveva chiesta, ha ottenuto dalla pubblica amministrazione una certificazione sulla sua condizione edilizia e il contenuto di questa certificazione l'ha soddisfatta; ha acquistato il terreno e ha poi ottenuto il rilascio di una concessione edilizia conforme al contenuto preventivato come possibile in base a quella certificazione.
Questa situazione di fatto non era tale da sollecitare alcuna esigenza di tutela contro un agire illegittimo della pubblica amministrazione.
L'esigenza di tutela -risarcitoria e solo di tale tipo- affiora in questo come in analoghi casi per l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole e non richiede che per ottenere il risarcimento la parte domandi al giudice amministrativo un accertamento a proposito della illegittimità del comportamento tenuto dall'amministrazione, perché questo accertamento essa ha invece interesse a contrastarlo nel giudizio di annullamento da altri provocato e può solo subirlo.
La parte che invoca la tutela risarcitoria non postula dunque un esercizio illegittimo del potere, consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la colpa che connota un comportamento consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per pronunzia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimità e orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare.
4. Il ricorso va quindi accolto, dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 23.03.2011 n. 6595).

AGGIORNAMENTO ALL'08.11.2016

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SILENZIO-ASSENSO
anche in materia paesaggistica!!

     Forse, solo oggi ed a distanza di più di un anno dall'introduzione dell'art. 17-bis nella L. n. 241/1990 -ad opera dell'art. 3 della L. 07.08.2015 n. 124 (in vigore dal 28.08.2015 - c.d. riforma Madia)- gli addetti ai lavori hanno avuto consapevolezza della reale dirompente novità.
     Invero, negli ultimi tempi sono divenuti di dominio pubblico alcuni contributi qualificati che hanno spiegato la ratio della novella catturando l'attenzione, inevitabilmente, soprattutto per quanto concerne il codice dei beni culturali. Ma andiamo con ordine.
     Dapprima ricordiamo cosa dispone il nuovo art. 17-bis:

Art. 17-bis. Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici
(articolo introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015)

   1. Nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell'amministrazione procedente. Il termine è interrotto qualora l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso, l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
   2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali coinvolte nei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento.
   3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
   4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi in cui disposizioni del diritto dell'Unione europea richiedano l'adozione di provvedimenti espressi.

     A seguito della pubblicazione in G.U. della legge de qua si sono avuti i primi commenti (qui già pubblicati a suo tempo) che riportiamo nel prosieguo per una migliore intelligibilità della questione:

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Neo-attività con silenzio-assenso e limiti all'autotutela p.a..
Certezza sulle regole da seguire per avviare un'attività imprenditoriale. Individuando con precisione i procedimenti per i quali serve la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), quelli per i quali vige il silenzio-assenso e quelli per i quali serve autorizzazione espressa. Comunicando ai soggetti interessati i tempi entro i quali si forma il silenzio-assenso.

Questo è l'obiettivo della legge 07.08.2015, n. 124, recante «deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13.08.2015, n. 187).
Il testo affida al governo oltre 15 deleghe da adottare entro termini che vanno da 90 a 180 giorni e da 12 a 18 mesi. Tuttavia, ci sono delle misure che si possono definire auto-applicative, come la definizione di un meccanismo per il silenzio-assenso tra amministrazioni con tempi certi, per cui dopo 30 giorni, massimo 90, in caso di mancata risposta, si intende ottenuto il via libera.
Nuove norme sul silenzio-assenso. L'articolo 3 della legge della riforma della Pa, rubricato «silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici» aggiunge alla legge n. 241/1990 l'articolo 17-bis, rubricato «silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici».
Nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti sono tenuti a comunicare il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell'amministrazione procedente.
Il termine è interrotto qualora l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso, l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
Autotutela. Ennesima modifica all'articolo 19 della legge n. 241/1990. Dovrà essere fissato un tempo massimo per il potere di agire in autotutela da parte delle pubbliche amministrazioni. L'amministrazione competente avrà 60 giorni per intervenire in caso di Scia (30 giorni per la Scia edilizia) successivamente potrà intervenire in autotutela (al massimo entro 18 mesi) quando il provvedimento è illegittimo. Dopo 18 mesi non si potrà più cambiare idea. Il limite temporale non si applica se l'autotutela consegue a fatti costituenti reati accertati con sentenze passate in giudicato (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Silenzio-assenso, ritardi da motivare. Riforma Madia. Stop alla dilatazione dei tempi di risposta sugli atti amministrativi senza il dettaglio dei motivi.
Le esigenze istruttorie vanno formulate entro il termine dei 30 giorni.
Le amministrazioni pubbliche e i gestori di servizi pubblici devono rendere il loro assenso, nulla osta o atto di concerto entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento su cui debbono esprimersi, ma possono interrompere i termini solo esplicitando in dettaglio le loro esigenze istruttorie.
Il nuovo articolo 17-bis della legge n. 241/1990 (introdotto dall’articolo 3 della legge 124/2015) non consente più ai soggetti pubblici ai quali è richiesta l’espressione di un consenso su un atto amministrativo di dilatare i tempi di risposta, obbligandoli a specificare le ragioni che richiedono un approfondimento istruttorio.
La disposizione disciplina la gestione nell’ambito del procedimento dei nulla osta, degli assensi e degli atti di concerto, distinguendola chiaramente da quella dei pareri e da quella delle valutazioni tecniche (regolate rispettivamente dagli articoli 16 e 17 della legge 241/1990).
Le amministrazioni pubbliche (in particolare gli enti locali) devono quindi adeguare le loro eventuali disposizioni regolamentari alla nuova previsione e, in caso di confliggenza, disapplicare la norma regolamentare, se essa determina minori garanzie rispetto a quanto stabilito dall’articolo 17-bis, vigente dal 28 agosto.
Per evitare equivoci è necessario che le amministrazioni rilevino all’interno dei procedimenti le tipologie di nulla osta, nonché di atti di assenso e di concerto che devono essere rilasciati da altre amministrazioni o da soggetti gestori di servizi pubblici sulla base di disposizioni di legge o regolamentari, al fine di evitare confusione con i pareri e con le valutazioni tecniche, ma anche per analizzare compiutamente i passaggi sub-procedimentali che possono permettere l’utilizzo del silenzio-assenso (una volta scaduto il termine di trenta giorni).
Qualora l’amministrazione pubblica o il soggetto gestore di servizi pubblici chiamati a rilasciare il nulla osta o gli atti similari rappresentino esigenze istruttorie o richieste di modifica, le devono motivare e formulare in modo puntuale entro lo stesso termine di trenta giorni.
La disposizione prevede in questo caso l’interruzione del termine e pertanto l’amministrazione procedente deve elaborare tempestivamente gli elementi istruttori richiesti e il nuovo schema di provvedimento, poiché dal ricevimento di questi da parte dell’amministrazione o del soggetto gestore che deve rendere il nulla osta o atto similare decorrono nuovamente i trenta giorni.
In tal caso, l’assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
Il silenzio assenso (previsto dal comma 2 dell’articolo 17-bis) si applica sia in caso di decorso del termine ordinario sia in caso di decorso del termine ricalcolato dopo l’interruzione per approfondimenti istruttori.
I termini sono modulati in novanta giorni (salvo che disposizioni di legge specifiche non stabiliscano tempistiche diverse) quando i nulla osta nonché gli atti di assenso o di concerto devono essere resi da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche: se tali termini decorrono senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Anche in tal caso gli enti responsabili dei procedimenti devono ricomporre dettagliatamente il quadro normativo, in modo tale da rilevare l’effettivo collegamento tra l’atto di assenso e uno dei particolari interessi pubblici preminenti.
Le previsioni dell’articolo 17-bis non si applicano invece quando normative comunitarie richiedano l’adozione di provvedimenti espressi
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: S. Bigolaro, La legge di riforma della pubblica amministrazione (124/2015) e i procedimenti edilizi: due le norme direttamente applicabili, o forse una (14.10.2015 - tratto da http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. de Leonardis, Il silenzio-assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull’art. 17-bis introdotto dalla cd. riforma Madia (21.10.2015 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La previsione del silenzio assenso in materia ambientale nei procedimenti tra pubbliche amministrazioni. – 2. La prima criticità: incoerenza con l’art. 20, quarto comma, l. 241/1990. – 3. La seconda criticità: il contrasto con le sentenze della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale. – 4. La terza criticità: la mancata valutazione delle organizzazioni amministrative preposte alla tutela. – 5. Spunti conclusivi.

EDILIZIA PRIVATADai vincoli nascosti un’insidia sugli edifici pubblici e privati. Nel perimetro tutti gli stabili con più di 70 anni. Immobili tutelati. Limitazioni non inserite nella pianificazione.
Non solo edifici storici e di pregio: i vincoli culturali possono gravare in modo automatico (e poco evidente) anche su immobili “ordinari”, semplicemente perché costruiti più di 70 anni fa e di proprietà, ad esempio, di una fondazione o di una Onlus. Dunque, anche sugli edifici privati (a determinate condizioni) possono scattare tutele rafforzate previste dal Codice dei beni culturali.
Il nostro ordinamento prevede una serie di vincoli che, a vario titolo, possono incidere sul diritto di proprietà, limitando o inibendo l’edificazione e lo svolgimento di lavorazioni edilizie.
Tra i più noti, si ricordano i vincoli di carattere paesaggistico, i vincoli culturali derivanti da dichiarazione espressa di interesse e i vincoli di carattere sovranazionale derivanti dall’inclusione di determinate aree o immobili nella lista del patrimonio dell’umanità (Unesco world heritage List). Altre limitazioni possono poi derivare dall’inclusione degli immobili all’interno delle cosiddette fasce di rispetto, ossia dalla contiguità del bene con determinate infrastrutture: aeroporti, strade, cimiteri o pozzi.
Ma mentre questi vincoli sono piuttosto semplici da individuare perché emergono dagli atti di pianificazione comunale e sovracomunale (piano regolatore generale, piani paesaggistici eccetera), negli altri casi, l’identificazione dello speciale regime di tutela di un immobile può non essere così semplice perché non è “mediata” da strumenti di pianificazione urbanistica, ma di fatto dettata in modo automatico. E dunque spesso «nascosto». Questo avviene appunto per i vincoli di tutela culturale.
Il Codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004) all’articolo 10 qualifica come beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, salvo che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili.
Dunque il Codice tutela tutti i beni mobili e immobili che abbiano una certa anzianità e, al tempo stesso, siano di proprietà di determinati soggetti. E attenzione: non si tratta solo di soggetti pubblici (Stato, Regioni, Comuni eccetera) ma anche di altri enti o istituti pubblici (quali le agenzie fiscali, l’Inps o le autorità portuali). E persino di soggetti privati, a condizione che siano realtà senza fine di lucro (fondazioni, onlus, associazioni). Tutti gli immobili oltre i 70 anni appartenenti a questa ampia gamma di soggetti sono vincolati.
Il vincolo però è temporaneo. I beni sono infatti tutelati, in via preventiva e cautelare, fino a quando non sia stata effettuata la verifica circa l’effettiva sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico da parte degli organi ministeriali, a seguito della quale l’interesse culturale del bene potrà essere o meno confermato.
Ma questa tacita classificazione incide largamente sulla circolazione di questi immobili e ha notevole rilevanza, anche per le dismissioni e valorizzazioni del patrimonio pubblico.
Il Codice prevede infatti che, sino all’esperimento della verifica di interesse culturale, questi beni siano inalienabili. Una volta terminata la verifica, si porranno invece due possibili scenari: se il bene è effettivamente riconosciuto come culturale, lo stesso potrà essere venduto, ma solamente previo rilascio di una autorizzazione ministeriale (e salvo che, in esito alla verifica, sia stato ritenuto inalienabile). Se, per contro, il bene non è riconosciuto come di interesse culturale, potrà essere liberamente alienato, secondo le procedure previste per i beni pubblici (gara e sdemanializzazione, se occorrente).
Il percorso per la dismissione e valorizzazione del patrimonio pubblico è quindi ricco di insidie, peraltro non lievi, dato che il Codice sanziona le alienazioni e gli atti giuridici compiuti contro i divieti o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da esso prescritte, con la nullità.
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VINCOLO CULTURALE DI LEGGE
Immobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico e che siano opera di autore non vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni fa
Articolo 10, commi 1 e 5, Dlgs n. 42/2004

VINCOLO CULTURALE ESPRESSO
Riguarda i beni dichiarati di interesse culturale con vincolo espresso. Per gli immobili si tratta di:
- cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1 dell’articolo 10;
- cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante
Articolo 10, comma 3, Dlgs n. 42/2004

VINCOLO PAESAGGISTICO
Se dichiarate di notevole interesse:
- cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica;
- ville, giardini e parchi che si distinguono per la loro non comune bellezza;
- complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto estetico e tradizionale;
- bellezze panoramiche.
Sono comunque di interesse paesaggistico per legge i territori espressamente elencati all’articolo 142 del Dlgs 42/2004
Articoli 136 e 142 Dlgs 42/2004

VINCOLO UNESCO
Interessa il patrimonio culturale e quello naturale, come definiti nella Convenzione
Convenzione di Parigi del 16.11.1972

FASCIA DI RISPETTO STRADALE
Distanza dal confine stradale da rispettare nell’aprire canali, fossi o nell’eseguire qualsiasi escavazione, nonché nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni o negli ampliamenti
Codice della strada (Dlgs n. 285/1992) - Regolamento (Dpr n. 495/1992).

FASCIA DI RISPETTO AEROPORTUALE
Distanza dal perimetro dell’aeroporto da rispettare per la realizzazione di ostacoli
Rd n. 327/1942

FASCIA DI RISPETTO CIMITERIALE
Distanza da rispettare per costruire nuovi edifici intorno ai cimiteri
Rd n. 1265/1934 - Dpr n. 285/1990

FASCIA DI RISPETTO POZZI
Porzione di territorio da sottoporre a vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata
Dlgs n. 152/2006
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L’autorizzazione è necessaria per ogni intervento. Beni culturali. Il nulla osta della Soprintendenza.
Il Codice dei beni culturali subordina l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali all’autorizzazione del soprintendente.
Anche il mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali deve essere comunicato al soprintendente affinché lo stesso verifichi la compatibilità dell’uso con le finalità di conservazione e con il carattere storico-artistico del bene.
La realizzazione di un qualunque intervento edilizio su un bene vincolato presuppone, quindi, il positivo esperimento di un procedimento di valutazione da parte del soprintendente. La disciplina dettata dal Codice è piuttosto semplice: a seguito della presentazione del progetto, al soprintendente è assegnato un termine di 120 giorni per esprimere l’autorizzazione.
Questo termine può essere sospeso nel caso la soprintendenza chieda chiarimenti o altri elementi integrativi necessari per formare il proprio giudizio. La Soprintendenza ha altresì la facoltà di svolgere gli accertamenti di natura tecnica che ritenga necessari. Anche in questo caso il termine di 120 giorni viene sospeso.
Tenuto conto della rilevanza dei valori giuridici in discussione, il Codice non dispone che dall’eventuale silenzio dell’amministrazione possa conseguire un automatico effetto autorizzatorio.
Decorso infruttuosamente il termine, il richiedente può però diffidare la soprintendenza a provvedere e, se la stessa non dovesse azionarsi nemmeno nei 30 giorni successivi al ricevimento della diffida, può agire avanti al competente tribunale amministrativo, richiedendo l’accertamento dell’obbligo di provvedere.
L’autorizzazione resta ferma per cinque anni dal rilascio. Ma, se i lavori non iniziano entro questo termine, il soprintendente è legittimato a integrare il titolo con nuove prescrizioni o a variare quelle già impartite al fine di conformare il provvedimento alle nuove conoscenze eventualmente sopravvenute nel campo della conservazione.
La procedura di autorizzazione si inserisce nel contesto di cui all’articolo 5 del Dpr 380/2001 e, pertanto, è lo sportello unico per l’edilizia comunale che dovrebbe acquisire l’autorizzazione dalla soprintendenza, una volta ricevuta un’istanza di rilascio di titolo edilizio su un bene culturale.
Nel caso in cui sia lo sportello unico a richiedere l’autorizzazione alla Soprintendenza (e non, invece, nel caso in cui il privato si dovesse rivolgere direttamente all’amministrazione), peraltro, potrebbe risultare applicabile l’articolo 17-bis della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge di riforma della Pa (la n. 124/2015), in forza del quale l’eventuale silenzio della soprintendenza verrebbe qualificato come assenso al progetto, sebbene in merito possano sorgere perplessità.
 
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Prelazione pubblica anche dopo la vendita. Le cessioni. Subentro garantito.
In tempi di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico potrebbe sembrare incoerente, ma la vigente normativa garantisce allo Stato la facoltà di subentrare agli acquirenti dei beni culturali, comprandoli, in via di prelazione, allo stesso prezzo indicato nell’atto di vendita.
Gli articoli 59 e seguenti del Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42/2004), disciplinano in dettaglio la procedura speciale. La prelazione presuppone l’esistenza di un negozio traslativo del bene culturale, già perfezionato, efficace e, tuttavia, subordinato alla condizione sospensiva del mancato esercizio del diritto di prelazione.
Il procedimento ha inizio con la denuncia di avvenuta alienazione alla quale deve provvedere, entro trenta giorni dall’atto, l’alienante (o l’acquirente, in caso di trasferimento nell’ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare o in forza di sentenza ovvero l’erede o il legatario, in caso di successione a causa di morte).
La denuncia è presentata al soprintendente del luogo dove si trovano i beni e deve contenere l’identificazione e sottoscrizione delle parti, con il relativo domicilio, l’identificazione dei beni, oltre a natura e condizioni dell’atto di trasferimento.
Il ministero può esercitare la prelazione entro 60 giorni dal ricevimento della denuncia, mediante provvedimento espresso da notificare all’alienante e all’acquirente.
La proprietà del bene passa allo Stato, che sarà tenuto a corrispondere all’alienante il medesimo prezzo stabilito nell’atto di compravendita, dalla data dell’ultima notifica.
L’esercizio della prelazione, ovviamente, caduca la vendita presupposta. Il Codice, peraltro, prevede che, in via subordinata e sussidiaria rispetto allo Stato, la prelazione possa essere esercitata anche da parte della regione e degli altri enti pubblici territoriali nel cui ambito si trova il bene. Una volta ricevuta la denuncia, il soprintendente ne deve difatti dare immediata comunicazione a questi soggetti.
Se interessati, regione e gli altri enti pubblici territoriali possono formulare al ministero una proposta motivata di prelazione, sostenuta da idonea copertura finanziaria, che indichi le finalità proposte per la valorizzazione culturale del bene.
Il ministero può dunque rinunciare all’esercizio della prelazione e trasferirne la facoltà all’ente interessato.
L’ente assume quindi il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica ad alienante ed acquirente entro sessanta giorni dalla denuncia.
Anche in questo caso, la proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica.
Tale complesso di norme, seppur in questo periodo sia raramente attuato, completa la tutela dei beni culturali sotto il profilo della ingerenza pubblica nella libera circolazione degli stessi. Si tratta di uno strumento utile a garantire il conseguimento di rilevanti interessi pubblici, quali la conservazione e la fruizione collettiva dei beni che costituiscono l’imponente patrimonio culturale del nostro Paese (articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Autotutela e silenzio, procedimenti rivisti. Numerose le modifiche contenute nella delega p.a..
La legge n. 124/2015 contenente «deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (c.d. legge Madia) persegue l'obiettivo ambizioso di riorganizzare profondamente le strutture e le funzioni delle p.a., in tutte le loro articolazioni.
La legge prevede una serie di norme di immediata applicazione, ma contiene anche numerose deleghe legislative al governo ad adottare vari decreti legislativi. In questo disegno riformatore si collocano specifici interventi diretti a modificare, in alcuni aspetti, la disciplina generale del procedimento e dell'atto amministrativo, racchiusa nella legge n. 241/1990.
Anche per la modifica della legge n. 241/1990 gli strumenti normativi utilizzati risultano diversificati. Importanti innovazioni contenute nella legge n. 124/2015 sono state immediatamente operanti e in vigore dal 28.08.2015. Si tratta dell'art. 3 (che ha introdotto il nuovo art. 17-bis, riguardante il «silenzio tra pubbliche amministrazioni») e dell'art. 6 (relativo, letteralmente, all'autotutela, ma riguardante nello specifico gli istituti della Scia, dell'annullamento e della sospensione d'ufficio).
Per materie ritenute di elevata difficoltà la tecnica utilizzata è quella della delega al governo. Così avviene all'art. 2, in tema di conferenza dei servizi, all'art. 4 relativo all'introduzione di norme per la semplificazione e l'accelerazione dei procedimenti amministrativi e all'art. 5 con il quale si delega il governo a procedere a una precisa individuazione dei procedimenti oggetto di Scia o di silenzio assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge n. 241/1990, nonché di quelli per i quali è necessaria l'autorizzazione espressa.
Alcuni di tali decreti legislativi dovrebbero essere oggetto di un primo esame nel consiglio dei ministri che si terrà in data odierna, dove si prevede che approderà un pacchetto contenente una decina di decreti attuativi della riforma Madia. Obiettivo dichiarato è quello di semplificare e rendere più chiari gli adempimenti richiesti ai cittadini e accelerare le procedure amministrative al fine di sostenere la crescita economica.
Gli schemi di ciascun decreto legislativo saranno successivamente trasmessi alle camere per l'espressione dei pareri delle commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari e della commissione parlamentare per la semplificazione, che si pronunciano nel termine di 60 giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto legislativo può essere comunque adottato (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Consiglio di Stato ha reso il parere sul decreto sulla conferenza di servizi (Schema di decreto legislativo recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”).
I punti principale del parere del Consiglio di Stato sulla conferenza dei servizi.
1. La norma di delega e lo schema di decreto legislativo
La delega contenuta nell’art. 2 della legge n. 124 del 2015 mira a riformare integralmente la conferenza di servizi, il principale istituto di semplificazione in caso di procedimenti complessi, che richiedono una valutazione contestuale tra plurimi interessi, sia pubblici sia privati, in vista di un risultato finale unitario.
La delega si fonda su alcuni principi innovativi (accanto ad altri confermativi della disciplina vigente), fra i quali:
• la riduzione delle ipotesi in cui la conferenza di servizi è obbligatoria;
• la possibilità di limitare l’obbligo di presenziare alle riunioni della conferenza ai soli casi di procedimenti complessi;
• la partecipazione in conferenza di un rappresentante unico, anche per le amministrazioni statali;
• l’espressa introduzione del potere di autotutela;
• le nuove modalità di superamento del dissenso, che assume ora la forma di un’opposizione dinanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Lo schema si compone di due Titoli:
• il Titolo I opera la completa riformulazione degli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241;
• il Titolo II contiene, invece, le disposizioni di coordinamento fra tale disciplina generale e la normativa di settore che regola lo svolgimento della conferenza di servizi.
2. Il contenuto del parere reso dal Consiglio di Stato: aspetti generali.
L’importanza della formazione, della comunicazione istituzionale, del monitoraggio.
Il Consiglio di Stato rileva che la disciplina della conferenza di servizi è stata modificata in tutte le legislature e da quasi tutti i Governi dal 1990 ad oggi; auspica che il futuro decreto legislativo si riveli più efficace dei molteplici interventi legislativi precedenti, ma ritiene altresì necessario chiedersi se, dopo tanti tentativi, la soluzione non possa risiedere anche in interventi ulteriori e di tipo diverso rispetto a quello dell’(ennesima) novella della legge n. 241.
Il parere auspica che, oltre alla semplificazione procedimentale conseguibile con il nuovo testo, si debba perseguire una semplificazione sostanziale, che si concretizzi in politiche pubbliche capaci di regolare e graduare i diversi interessi, allo scopo di rendere più agevole la loro composizione.
È necessario poi adottare misure ‘non normative’ di sostegno alla riforma:
- la prima riguarda il ‘fattore umano’, che ricopre un ruolo fondamentale per il successo della riforma. Occorrono amministratori professionalmente ‘capaci’ e in grado di condurre il processo decisionale verso decisioni corrette, tempestive e non incentrate solo su profili giuridico-amministrativi: appare dunque indispensabile un programma formativo ad hoc, che ben potrebbe essere affidato alla supervisione della riformata Scuola nazionale dell’amministrazione (SNA);
- occorre altresì che il Governo si impegni in un’opera di comunicazione istituzionale delle potenzialità dei nuovi strumenti e di diffusione della cultura del cambiamento, rivolta agli amministratori, ma anche agli operatori privati;
- è necessario, infine, che la fase di implementazione della riforma in atto venga accompagnata da adeguate misure di monitoraggio delle prassi applicative, ricorrendo allo strumento della verifica di impatto della regolamentazione (VIR).
3. La partecipazione del privato alla conferenza di servizi.
Il parere rileva l’opportunità di reintrodurre in modo espresso nel nuovo testo la possibilità per il privato di partecipare attivamente ai lavori della conferenza, con pieno accesso ai relativi atti (facoltà che è invece prevista dall’attuale art. 14-ter).
4. I rapporti fra la nuova conferenza di servizi e le valutazioni ambientali (VIA e VAS).
Si suggerisce di operare un più adeguato raccordo fra la disciplina della conferenza di servizi e la disciplina speciale in tema di valutazioni ambientali (VIA e VAS), in particolare estendendo le previsioni di cui al nuovo art. 14 anche alle ipotesi di progetti sottoposti a VIA statale (mentre l’attuale formulazione esclude in modo espresso tale possibilità).
5. La possibilità di far eseguire l’istruttoria da organismi privati.
Il parere ritiene utile riproporre la previsione di cui all’attuale art. 14-ter, secondo cui l’amministrazione procedente può far eseguire l’attività istruttoria prodromica alle decisioni della conferenza anche da altri organi della P.A. o da istituti universitari, ponendo i relativi oneri economici a esclusivo carico del privato richiedente che vi consenta.
6. Tempi certi e responsabilizzazione del privato e della P.A.
Il Consiglio di Stato condivide la ratio acceleratoria sottesa alla formulazione del nuovo art. 14-bis (Conferenza semplificata); occorre però, al contempo, responsabilizzare anche il privato richiedente imponendo la presentazione di istanze complete e ben istruite.
7. Conferenza in modalità ‘sincrona’ e ‘asincrona’, ‘semplificata’ e ‘simultanea’: un necessario chiarimento.
Il parere raccomanda di chiarire se sussista una distinzione, ovvero un rapporto di specialità fra le ipotesi di conferenza “in forma simultanea” e quelle “in modalità sincrona”.
8. Il ‘rappresentante unico’ delle amministrazioni statali: alcuni necessari chiarimenti.
Una delle principali innovazioni della riforma è il rappresentante unico delle amministrazioni statali. La Commissione speciale esprime il proprio favore per una disciplina che appare bilanciata, prevedendo:
- da un lato, una regolazione flessibile del rapporto tra rappresentante unico e amministrazioni statali;
- dall’altro, la possibilità di partecipazione e di intervento, ma senza diritto di voto, delle altre amministrazioni.
Il parere rappresenta però l’esigenza:
- di specificare chi dispone la nomina del rappresentante unico a livello periferico (per quello centrale c’è il Presidente del Consiglio);
- di evitare che il rappresentante unico (nell’ambito di decisioni assunte a maggioranza) risulti sistematicamente in minoranza;
- di chiarire meglio quanti sono i rappresentanti unici per gli enti, o i livelli, locali.
9. Il ritiro in autotutela della determinazione conclusiva.
Il parere condivide l’impostazione secondo cui l’amministrazione rimasta inerte durante la conferenza di servizi non possa poi sollecitare l’adozione del ritiro in autotutela della determinazione conclusiva (art. 14-quater). Occorrerebbe, tuttavia, temperare tale soluzione nei casi in cui la richiesta di autotutela non si fondi su ragioni di opportunità, bensì su ragioni di legittimità.
10. La funzionalizzazione delle modalità di componimento del dissenso.
Per quanto riguarda l’art. 14-quinquies, circa i rimedi per le amministrazioni dissenzienti, il parere raccomanda al Governo di:
- reintrodurre l’obbligo di un dissenso che sia espresso in sede di conferenza di servizi, pertinente, motivato e costruttivo;
- valutare se sia funzionale risolvere sempre al livello centrale la procedura di componimento e se ciò corrisponda davvero ai principi di sussidiarietà e del ‘minimo mezzo’.
11. Le modifiche al T.U. edilizia: rapporti con la disciplina del silenzio-assenso.
Per quanto riguarda l’art. 2 dello schema di decreto, recante modifiche al T.U. edilizia del 2001, il Consiglio di Stato invita a valutare se sia sempre indispensabile indire una conferenza di servizi anche nelle ipotesi in cui si potrebbe fare applicazione nuovo articolo 17-bis della legge n. 241 del 1990 (in tema di silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici).
12. Il coordinamento con la disciplina in tema di autorizzazione paesaggistica.
In relazione all’art. 6 dello schema di decreto, il parere raccomanda di introdurre correttivi per evitare il rischio che il parere del Soprintendente sia espresso a ridosso dello spirare del termine di conclusione della conferenza (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 07.04.2016 n. 890 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’imprecisione nella Scia non blocca l’attività. Adempimenti. L’ente decide lo stop solo per dati non veritieri sui requisiti o pericoli per salute e ambiente.
Il decreto legislativo di attuazione dell'articolo 5 della legge 124/2015, che sarà a breve pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ha come obiettivo prioritario la semplificazione della procedura della Scia (segnalazione certificata di inizio attività) recentemente modificata con l'articolo 6 della legge 124.
Le novità più significative possono essere così sintetizzate. L'ente competente a ricevere la Scia (Comune, Camera di Commercio e così via) il quale, in sede di controllo, da effettuarsi tassativamente entro sessanta giorni, riscontra la carenza di requisiti previsti dalla legge speciale relativa alla attività intrapresa, deve intervenire in due modi se la carenza può essere regolarizzata dal privato:
- se la Scia contiene attestazioni non veritiere circa i requisiti posseduti o se l'attività comporta pericoli per i cosiddetti interessi sensibili come l'ambiente, la salute, i beni culturali l'ente deve decidere la sospensione dell'attività intrapresa;
- negli altri casi in cui la Scia non è conforme a legge l'ente deve prescrivere al privato le misure per la sua regolarizzazione, ma l'attività non viene sospesa.
Nel caso di Scia carente dei requisiti, il dipendente pubblico è responsabile della eventuale omissione dei provvedimenti inibitori da assumere entro sessanta giorni; non è però chiarita la natura di questa responsabilità.
Nei rispettivi siti gli enti destinatari della Scia devono pubblicare i moduli unificati (a livello nazionale) contenenti le notizie da dichiarare e i documenti da allegare.
I moduli sono adottati dai ministeri per le attività di loro competenza e dalla conferenza Stato-Regioni per le attività produttive e l'edilizia.
Considerato che questi moduli non saranno disponibili a breve il decreto impone agli enti di pubblicare nel sito (si ritiene da subito) l'elenco dei requisiti e della documentazione per ciascuna delle attività.
Da tempo però parecchi enti pubblicano moduli da essi elaborati che spesso soddisfano queste nuove prescrizioni.
Le novità collegate alla pubblicità sono due: l'ente può chiedere al privati notizie e documenti solo se il contenuto della Scia e dei documenti già inviati non corrispondono a quelli pubblicati nel sito; l'omessa pubblicazione nel sito e la richiesta di ulteriori notizie e documenti costituiscono illecito disciplinare punito con la sospensione dal servizio e la privazione della retribuzione da tre giorni a sei mesi.
Nel sito deve essere indicato anche lo “sportello unico” al quale va presentata la Scia e questo può avere più sedi per favorire l'accesso nel territorio. Dovrebbe coincidere con il Suap (sportello unico attività produttive) ma un chiarimento si impone visto anche il silenzio della relazione illustrativa su questo tema importante.
Il decreto legislativo aggiunge l'articolo 19-bis da applicare alla Scia che riguarda le attività economiche quando le norme di settore impongono anche l'ottenimento di attestazioni e simili o atti di assenso e simili rilasciati da enti diversi da quello che riceve la Scia.
È una tematica complessa che dovrà essere coordinata con l'articolo 17-bis (silenzio assenso tra Pubbliche amministrazioni) e l'articolo 14 (conferenza di servizi) della legge 241/1990.
Il decreto fissa le regole per due situazioni:
- se una attività è soggetta a Scia non solo dell'ente competente ma anche a altre Scia connesse (per esempio nell’edilizia o ambientale) o ad attestazioni di altri enti (per esempio vigili del fuoco) il privato può iniziare subito l'attività e il primo ente deve inviare la Scia agli altri enti che devono controllare gli aspetti di loro competenza;
- se per una attività soggetta a Scia occorre ottenere atti di “assenso” di altre Pa il privato deve, assieme all'invio della Scia, trasmettere anche la domanda per il rilascio di questo atto. L'inizio effettivo della attività soggetta a Scia in questo caso è subordinato all'assenso, unico caso di deroga al principio dell'immediata efficacia della Scia.
Con il nuovo articolo 18-bis si attua una definizione organica dello strumento della ricevuta rilasciata con la presentazione sia della Scia della domanda.
Viene precisato che: la data della protocollazione della ricevuta deve essere sempre quella della presentazione(ricezione) della Scia e della domanda; questi atti producono effetto anche senza il rilascio della ricevuta purché presentati all'ufficio competente; la ricevuta indica il termine entro cui l'ente deve rispondere (nel caso della Scia va inteso che l'ente dopo i sessanta giorni deve comunicare l'esito della verifica?)
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

     Poi, è intervenuto un 1° contributo qualificato del Consiglio di Stato col parere 13.07.2016 n. 1640 (ed altri contributi/commenti):

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: F. Aperio Bella, Il silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (il nuovo art. 17-bis della l. n. 241 del 1990) (08-09.04.2016 - tratto da www.diritto-amministrativo.org).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il problema dell’applicazione dell’art. 17-bis agli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili – 3. I rapporti tra l’art. 17-bis e la conferenza di servizi – 4. Il nodo del rispetto delle autonomie regionali – 5. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni.
I punti principali del parere del Consiglio di stato sul silenzio-assenso tra Pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, l. n. 241 del 1990) (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 13.07.2016 n. 1640).
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L’importanza del ricorso ai quesiti nella fase attuativa della riforma
Il Consiglio di Stato, in occasione del primo dei quesiti riguardanti l’attuazione della riforma di cui alla legge n. 124 del 2015, sottolinea l’efficacia del metodo seguito dal Governo di procedere tramite la proposizione di quesiti sul funzionamento pratico della riforma, confermando:
- l’importanza cruciale della attuazione ‘in concreto’ della riforma;
- l’utilità della funzione consultiva del Consiglio di Stato concepita come sostegno in progress a un progetto istituzionale, piuttosto che a singoli provvedimenti.
Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra amministrazioni pubbliche: il silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’
Il parere della Commissione speciale rileva come l’art. 17-bis, introducendo il nuovo istituto del silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’, ponga una seconda regola generale –dopo quella prevista dall’art. 21-nonies nei rapporti tra cittadino e PA– che stavolta riguarda i rapporti ‘interni’ tra amministrazioni, quale che sia l’amministrazione coinvolta e quale che sia la natura del procedimento pluristrutturato.
Infatti, la nuova disposizione prevede che il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che non esterni alcuna volontà, è equiparato ope legis ad un atto di assenso e non preclude all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo.
Il silenzio-assenso come sanzione e rimedio all’inerzia amministrativa
La Commissione speciale evidenzia come il nuovo strumento di semplificazione confermi la natura “patologica” del silenzio amministrativo, sia nel rapporto verticale (tra amministrazione e cittadino), sia nel rapporto orizzontale (tra amministrazioni co-decidenti).
Il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza l’inerzia dell’amministrazione coinvolta, ancorché non fisiologica, tanto da ricollegarvi la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei rimedi: la definitiva perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Il triplice fondamento del nuovo silenzio-assenso
Il fondamento del nuovo silenzio-assenso è triplice:
- eurounitario, individuato nel “principio della tacita autorizzazione” (ovvero la regola del silenzio-assenso) introdotto dalla cd. direttiva Bolkestein (considerando 43; art. 13, par. 4);
- costituzionale, rinvenibile nel principio di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., inteso nell’ottica di assicurare il ‘primato dei diritti’ della persona, dell’impresa e dell’operatore economico;
- sistematico, con riferimento al principio di trasparenza (anch’esso desumibile dall’art. 97 Cost.) che ormai, specie dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, informa l’intera attività amministrativa come principio generale.
Ambito di applicazione soggettivo
Il parere risolve alcuni dubbi interpretativi. Il Consiglio di Stato ritiene l’art. 17-bis applicabile anche a:
   1) Regioni ed enti locali
Va, infatti, intensificata ogni forma di coordinamento istituzionale volta a garantire un’applicazione omogenea delle nuove regole di semplificazione nel rispetto della loro autonomia organizzativa.
   2) Organi politici
L’art. 17-bis si applica a tali organi sia quando essi adottano atti amministrativi o normativi che quando sono chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta comunque denominati nell’ambito di procedimenti per l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza di altre Amministrazioni. In tal caso, è la natura dell’atto da adottare (amministrativo o normativo) che rileva, e non la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare della competenza “interna” nell’ambito della pubblica Amministrazione coinvolta.
   3) Autorità indipendenti
Rispetto ad esse non emergono ragioni di incompatibilità con la particolare autonomia di cui godono, anche in considerazione della natura amministrativa ormai ad esse pacificamente riconosciuta.
   4) Gestori di beni e servizi pubblici
L’art. 17-bis si applica ai gestori di beni e servizi anche quando siano titolari del procedimento (e debbano acquisire l’assenso di altre amministrazioni) e non solo quando siano chiamati a dare l’assenso nell’ambito di procedimento di altre Amministrazione.
A favore di tale conclusione, viene richiamata la nozione (di matrice comunitaria ed ormai accolta dalla prevalente giurisprudenza) “oggettiva” e “funzionale” di pubblica Amministrazione, in virtù della quale si considera pubblica Amministrazione ogni soggetto che, a prescindere dalla veste formale-soggettiva, sia tenuto ad osservare, nello svolgimento di determinate attività o funzioni, i principi del procedimento amministrativo.
Ambito di applicazione oggettivo
Il parere affronta, altresì, delicate questioni interpretative concernenti anche l’ambito di applicazione oggettivo del nuovo istituto.
   1) Applicabilità agli atti normativi
Secondo la Commissione speciale, la norma si applica anche ai procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi in virtù di un espresso dato testuale: il primo periodo del comma 1 contiene un esplicito riferimento ai procedimenti per l’adozione degli atti normativi
   2) Applicabilità a procedimenti relativi a interessi pubblici primari
La formulazione testuale del comma 3 consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso.
L’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili dovrà poi essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto. In tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale, troverà applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che esclude dal suo campo di applicazione gli interessi sensibili).
   3) Rapporto con gli artt. 16 e 17 legge n. 241/1990
Gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre amministrazioni da acquisire (al di là del nomen iuris) nella fase istruttoria, mentre l’art. 17-bis fa riferimento ad atti da acquisire nella fase decisoria, dopo che l’istruttoria si è chiusa.
In base a tali considerazioni, la Commissione speciale ritiene che la disposizione sia applicabile anche ai pareri vincolanti e non, invece, a quelli puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della legge n. 241 del 1990.
   4) Il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato
L’applicabilità della norma ai soli casi di atti che hanno natura codecisoria esclude, che il silenzio-assenso possa sostituire atti che si collocano in un momento successivo a quello della decisione, riguardando la fase costitutiva dell’efficacia del provvedimento: è il caso del c.d. ‘bollino’ della Ragioneria Generale dello Stato, previsto dall’art. 17, comma 10, della legge 31.12.2009, n. 196, un atto con funzione di controllo, che si colloca dopo l’esaurimento della fase decisoria ed è necessario per l’integrazione dell’efficacia di provvedimenti già adottati.
   5) Non applicabilità ai procedimenti ad iniziativa di parte tramite sportello unico
Il parere esclude che il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni possa operare nei casi in cui l’atto di assenso sia chiesto da un’altra pubblica amministrazione non nel proprio interesse, ma nell’interesse del privato (destinatario finale dell’atto) che abbia presentato la relativa domanda tramite lo sportello unico.
Non incide sull’applicabilità del nuovo istituto la circostanza, del tutto irrilevante, che l’istanza il privato la presenti direttamente o per il tramite di un’Amministrazione che si limita ad un ruolo di mera intermediazione, senza essere coinvolta, in qualità di autorità co-decidente, nel relativo procedimento.
Rapporti con la conferenza di servizi
Secondo il parere, il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa è quello secondo cui l’art. 17-bis trova applicazione nel caso in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di assensi da parte di più Amministrazioni opera la conferenza di servizi.
La Commissione speciale suggerisce in alternativa, al fine di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17-bis, la soluzione secondo cui il silenzio-assenso di cui all’art. 17-bis operi sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e prevenga la necessità di convocare la conferenza di servizi.
Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle Amministrazioni interpellate, e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza appositamente convocata.
La disciplina del superamento del disaccordo
Il parere segnala –de jure condendo– che la disciplina del superamento del disaccordo prevista dall’art. 17-bis, comma 2, secondo periodo, solleva alcune perplessità:
In primo luogo, non risulta appropriata la sedes materiae: la norma disciplina un meccanismo sostitutivo che presuppone il dissenso espresso, che, dunque, non si applica per definizione nelle ipotesi di silenzio-assenso che costituiscono l’oggetto specifico dell’art. 17-bis.
In secondo luogo, il riferimento testuale alle “modifiche da apportare allo schema del provvedimento” non tiene conto dell’eventualità che il Presidente del Consiglio possa risolvere il conflitto senza modificare lo schema del provvedimento, ma recependolo integralmente la posizione dell’Amministrazione procedente.
Formazione del silenzio-assenso e firma del provvedimento
Secondo il parere è sufficiente da parte dell’Amministrazione procedente l’invio formale del testo non ancora sottoscritto, in vista della successiva eventuale sottoscrizione di un testo condiviso (nell’ipotesi in cu l’Amministrazione interpellata esprima un assenso espresso).
Nel caso in cui l’Amministrazione interpellata rimanga silente, il provvedimento potrà essere sottoscritto soltanto dall’Amministrazione procedente, dando atto nelle premesse o in calce al provvedimento dell’invio dello schema di provvedimento e del decorso del termine per il silenzio-assenso.
Autotutela
Successivamente all’adozione del provvedimento finale (adottato sulla base del silenzio-assenso dell’Amministrazione interpellata), l’autotutela soggiace alla regola del contrarius actus.
Nel caso in cui il provvedimento finale non sia stato ancora adottato, il parere esclude che, formatosi il silenzio-assenso, l’Amministrazione inerte possa superarlo esercitando il potere di autotutela unilaterale.
Secondo il parere, infatti, il termine di trenta giorni (o il diverso termine per le Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili) ha natura perentoria e, dunque, la sua scadenza fa venire meno il potere postumo di dissentire (anche in autotutela) (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISilenzio-assenso a 360°. Ma l'istituto non può essere un alibi per la p.a.. Parere del Consiglio di stato sulla riforma Madia. Limiti all'autotutela.
Il silenzio-assenso si applica a 360 gradi. Sia nei confronti di regioni ed enti locali, sia quando su un provvedimento debbano pronunciarsi autorità indipendenti o gestori di servizi pubblici o ancora organi politici. Dopo 30 giorni di inerzia , il silenzio sarà equiparato al concerto, assenso o nulla osta da acquisire. E la p.a. non avrà più potere di dissentire, impedendo l'adozione dell'atto attraverso lo strumento dell'autotutela.
Perché se così fosse il silenzio-assenso diventerebbe «un atto di natura meramente provvisoria, suscettibile di essere neutralizzato da un ripensamento unilaterale fino all'adozione del provvedimento finale».
Tuttavia, il silenzio-assenso non può essere la regola. Né nei rapporti tra p.a. e cittadino, né in quelli tra amministrazioni chiamate a esprimere il proprio nulla osta su un provvedimento.
Soprattutto nei rapporti tra amministrazioni concertanti, il silenzio-assenso è un rimedio «patologico» ma necessario perché «nessuna p.a. può avere più il potere di bloccare un procedimento» non esprimendo la propria posizione su un atto specifico.

Nell'articolato parere 13.07.2016 n. 1640 il Consiglio di Stato si è espresso sulla portata applicativa della novità contenuta nella delega Madia (legge n.124f2015) che ha introdotto nella legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241/1990) l'art. 17-bis sul silenzio-assenso anche nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.
A interpellare palazzo Spada è stato l'Ufficio legislativo della Funzione pubblica che sollevato diversi dubbi interpretativi in relazione all'ambito di applicazione dell'istituto, ai rapporti tra silenzio-assenso e conferenza dei servizi e all'esercizio del potere di autotutela.
La commissione speciale, costituita ad hoc dal Consiglio di stato per l'esame dei quesiti, ha riconosciuto che la regola del silenzio-assenso trova fondamento nel diritto europeo, nella Costituzione e nel principio di trasparenza.
Perché non è ammissibile paralizzare l'attività della p.a semplicemente non esprimendo la propria opinione su un atto specifico. Tuttavia, ha ammonito palazzo Spada, «una pronuncia espressa resta sempre preferibile: permane una valenza fortemente negativa del silenzio-assenso (sia tra amministrazione e cittadino, sia tra amministrazioni co-decidenti), ma esso resta comunque una soluzione migliore dell'inerzia totale».
Nel rispondere ai quesiti del dicastero di Marianna Madia, il Consiglio di stato ha esteso l'applicabilità dell'istituto a una molteplicità di fattispecie applicative, tutte accumunate dal fatto di riguardare atti di natura co-decisoria. La stessa cosa, tuttavia, non può dirsi per gli atti che si collocano in un momento successivo a quello della decisione, quali per esempio la bollinatura della Ragioneria generale dello stato. Il bollino della Rgs, ha chiarito il Consiglio di stato, «è infatti un atto con funzione di controllo che si colloca dopo l 'esaurimento della fase decisoria ed è necessario per l'integrazione dell'efficacia dei provvedimenti già adottati».
Non sfuggono alla regola del silenzio-assenso nemmeno le amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili (beni culturali, salute dei cittadini), a cui si applicano i termini previsti dalla normativa di settore o , in mancanza, il termine di 90 giorni (articolo ItaliaOggi del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Bombardelli, Il silenzio-assenso tra amministrazioni e il rischio di eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali (Urbanistica e appalti n. 7/2016).
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L’art. 17-bis della L. 07.08.1990, n. 241 introduce l’istituto del silenzio-assenso per l’adozione di provvedimenti normativi ed amministrativi nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nullaosta di altre PP.AA. o di gestori di beni o servizi pubblici e questi non vengano rilasciati entro un termine prefissato.
Si tratta di uno strumento di semplificazione procedimentale molto problematico, anche perché è prevista la sua applicazione nei casi in cui l’atto di assenso debba essere rilasciato da amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili.
Nel presente commento vengono considerate le principali criticità di questo istituto.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Berti Suman, Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, legge n. 241/1990): dovere di istruttoria e potere di autotutela - Commento al parere n. 1620/2016 del Consiglio di Stato su alcuni problemi applicativi dell’articolo 17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall’articolo 3 della legge 07.08.2015, n. 124 (01.09.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’art. 17-bis: “nuovo paradigma” nei rapporti tra pubbliche amministrazioni – 3. Il rapporto con gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990 – 4. Silenzio-assenso ed interessi sensibili: giurisprudenza costituzionale e europea – 4.1. (segue) un caso recente: l’Adunanza Plenaria sulla perdurante vigenza del meccanismo del silenzio-assenso nel procedimento relativo al nulla osta dell’Ente Parco – 5. Il difetto di istruttoria (e di motivazione) nella formazione del silenzio-assenso – 6. Il potere di autotutela – 7. Brevi considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Marzano, Silenzio-assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato (05.10.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario:
Sezione prima. 1. Un ‘manifesto’ per la funzione consultiva del Consiglio di Stato nel processo di attuazione della legge n. 124 del 2015. – 2. Sul nuovo ruolo del Consiglio di Stato nella policy di riforma della pubblica Amministrazione. – 3. La ‘nuova amministrazione’ nella visione del Consiglio di Stato, dopo la riforma cd. Madia. Dequotazione del procedimento e riduzione degli interessi all’esito del processo di semplificazione.
Sezione seconda. 4. Il parere del Consiglio di Stato sull’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e la genesi di questa disposizione. – 4.1 L’ambito di applicazione soggettivo del silenzio-assenso tra Amministrazioni. – 4.2 L’ambito di applicazione oggettivo; rapporti con gli artt. 16 e 17 della legge sul procedimento amministrativo e tutela degli interessi sensibili. – 4.3 Art. 17-bis e coordinamento tra Amministrazioni; l’esclusione dell’applicazione in caso di Sportello unico. – 4.4 Formazione del silenzio assenso, dissenso tardivo e autotutela.
Sezione terza. 5. La portata dell’art. 17-bis della legge sul procedimento amministrativo. Il rapporto ‘orizzontale’ tra (due sole) Amministrazioni co-decidenti; il coordinamento progressivo in ragione della complessità della decisione - 5.1 Il rapporto con la conferenza di servizi – 6. Silenzio-assenso e tutela degli interessi sensibili – 6.1 Art. 17-bis e cogestione dell’interesse paesaggistico – 7. Il dissenso tra Amministrazioni e gli obblighi di leale collaborazione.

     Ebbene, è proprio nel parere del Consiglio di Stato che, con riferimento al tema specifico dell’applicazione dell’articolo 17-bis, è menzionata la circolare interpretativa adottata in data 10.11.2015 dal MIBACT (recte: nota 10.11.2015 n. 27158 di prot. dell'Ufficio Legislativo, pubblicizzata dal Segretariato Generale con circolare 20.11.2015 n. 40), che ha (già) affrontato alcune delle problematiche esposte nella richiesta di parere da parte della "Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Ufficio legislativo" di cui alla nota prot. n. 207/16/UL/P in data 31.05.2016.
     Ecco, di seguito, l'interessante disamina della portata dell'art. 17-bis da parte del MIBACT, tra l'altro redatta molti mesi or sono e solamente oggi di dominio pubblico sol perché richiesta specificatamente da parte di un tecnico comunale che ringraziamo:

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici - art. 3 della legge n. 124 del 07.08.2015, recante Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, pubblicata nella G.U. n. 187 del 13.08.2015 - indirizzi interpretativi e applicativi (MIBACT, circolare 20.11.2015 n. 40).
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Come è noto, l'art. 3 della legge n. 124 del 07.08.2015, recante Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, ha introdotto, nel testo della legge 07.08.1990, n. 241, l'articolo aggiuntivo 17-bis, in tema di Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici.
Anche all'esito dell'incontro con i Soprintendenti, svoltosi con la partecipazione dell'On.le Sig. Ministro lo scorso 26 ottobre, si ritiene utile e opportuno trasmettere, con la nota circolare in allegato, appositi indirizzi interpretativi e applicativi relativi alle suddette novità normative. (...continua).

alla quale ha fatto seguito la risposta al quesito formulato dalla Città metropolitana di Milano:

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso ex art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e procedimenti di autorizzazione paesaggistica di cui agli artt. 146 e 167 del decreto legislativo n. 42 del 2004 (MIBACT, nota 19.01.2016 n. 1293 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 310749 del 14.12.2015 con la quale codesta Città metropolitana pone alcune questioni concernenti l'applicabilità dell'istituto del silenzio-assenso, introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015, ai procedimenti paesaggistici disciplinati dal codice di settore. (...continua).

seguita, ulteriormente, dalla nota di precisazioni -sempre dell'Ufficio Legislativo- proprio in relazione al parere 13.07.2016 n. 1640 del Consiglio di Stato:

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici - art. 17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 3 della legge 07.08.2015, n. 124 - parere n. 1640 del 2016 reso dal Consiglio di Stato - precisazioni alla nota circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (MIBACT, nota 20.07.2016 n. 21892 di prot.).
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A seguito del recente parere n. 1640 del 13.07.2016 reso dal Consiglio di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, in tema di silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, si ritiene necessario fornire alcune precisazioni in merito alla nota circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (diffusa agli uffici ministeriali da codesto Segretariato con circolare n. 40 del 20.11.2015) con la quale questo Ufficio ha reso noti i primi orientamenti applicativi dell'istituto, introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015.
Al riguardo, per comodità di esame, si seguirà qui di seguito, per quanto necessario, lo stesso ordine espositivo adottato nella circolare del 2015. (...continua).

QUINDI??

     Beh, la cosa più significativa è che il silenzio-assenso si applica al procedimento di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. n. 42/2004, circa il termine di 45 gg. a disposizione della Soprintendenza per esprimere il proprio parere obbligatorio e vincolante, e non anche al rilascio della compatibilità paesaggistica ex art. 167 relativamente al termine di 90 gg. in capo, sempre, alla Soprintendenza.
     Detto altrimenti, scaduto il termine di 45 gg. la Soprintendenza NON può più dire la propria con "carta che canta" sicché si concretizza l'assenso di parte (sullo schema di provvedimento finale ricevuto da pare dell'ente competente a provvedere: in parole povere SI oppure NO) ma NON anche l'autorizzazione paesaggistica (siccome sostenuto da qualcuno).
     Invero, il provvedimento di autorizzazione paesaggistica non può essere acquisito con il silenzio-assenso ex art. 17-bis proprio perché è il provvedimento finale, chiesto e ottenuto dal privato, mentre l’art 17-bis si applica esclusivamente ai rapporti tra pubbliche amministrazioni.
     Al verificarsi della fattispecie de qua i funzionari istruttori della Soprintendenza devono, comunque, prestare molta attenzione onde non incorre in responsabilità personali. Infatti, proprio il MIBACT (Ufficio Legislativo) osserva quanto segue: "Permane dunque la necessità -anche nei casi di possibile operatività del silenzio-assenso- di avviare e completare il procedimento, sia in fase istruttoria, sia nella fase di acquisizione degli interessi, pubblici e privati, in esso coinvolti, sia (infine) nella fase di ponderazione e valutazione in funzione della decisione (fase decisoria). La legge, nell'introdurre il silenzio-assenso, autorizza esclusivamente la deroga all'obbligo di adozione di un atto conclusivo formale, espresso e motivato, ma non esonera in alcun modo l'amministrazione dall'obbligo e dalla responsabilità di procedere e istruire i singoli affari di sua competenza.".
     LasciandoVi il piacere di leggere e scoprire le novità argomentative di cui alla circolare suddetta nonché successiva nota di precisazioni, pochi giorni or sono la Regione Lazio si è posta tre interrogativi in merito alla novella legislativa di cui due trovano risposta nella citata circolare ministeriale.
     Ecco la nota regionale rivolta all'Ufficio Legislativo del MIBACT:

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di parere in merito all'art. 3 della legge 124/2015 "Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi pubblici" (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 538538 di prot.).

     Comunque, restiamo nell'attesa di conoscere la risposta del MIBACT: chissà mai che sortiscano ulteriori elementi di valutazione.
08.11.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Decreto legislativo 30.06.2016, n. 127, recante "Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124", pubblicato in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 162 del 13.07.2016 - nota circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 27.07.2016 n. 22539 di prot.).
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Sommario: I. Introduzione; 2. I decreti legislativi che intervengono sui moduli procedimentali e organizzativi dell'agire della pubblica amministrazione: in particolare, il riordino della disciplina della conferenza dei servizi; 3. Modalità di svolgimento delle conferenze di servizi; 4. Rappresentante unico di governo; 5. Decisione della conferenza di servizi - effetti procedurali ed efficacia sostanziale; 6. Procedimento di opposizione ('dissenso qualificato'); 7. Disposizioni di coordinamento fra la disciplina generale e le varie discipline settoriali che regolano lo svolgimento de/la conferenza dei servizi.

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici - art. 17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 3 della legge 07.08.2015, n. 124 - parere n. 1640 del 2016 reso dal Consiglio di Stato - precisazioni alla nota circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (MIBACT, nota 20.07.2016 n. 21892 di prot.).
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A seguito del recente parere n. 1640 del 13.07.2016 reso dal Consiglio di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, in tema di silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, si ritiene necessario fornire alcune precisazioni in merito alla nota circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (diffusa agli uffici ministeriali da codesto Segretariato con circolare n. 40 del 20.11.2015) con la quale questo Ufficio ha reso noti i primi orientamenti applicativi dell'istituto, introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015.
Al riguardo, per comodità di esame, si seguirà qui di seguito, per quanto necessario, lo stesso ordine espositivo adottato nella circolare del 2015. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Sponsorizzazione di beni culturali — articolo 120 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 — articoli 19 e 151 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - nota circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 09.06.2016 n. 17461 di prot.).
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Sommario: 1. Premessa - 2. Rinvio per le nozioni generali alle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G.U. 12.03.2013, n. 60 - 3. La semplificazione (in sintesi) - 4. Proposta di sponsorizzazione; vaglio preliminare e favor per l'accoglimento - 5. La pubblicazione dell'avviso sul sito istituzionale - 6. La ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale - 7. Scelta dello sponsor - 8. Stipula del contratto di sponsorizzazione - 9. La disciplina di cui all'art. 151 - 10. Modalità contabili e regime fiscale (cenni) - 11. Le forme speciali di partenariato pubblico-privato nel campo dei beni culturali.

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Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell'ottica di favorire il sostegno all'azione pubblica in campo culturale e la realizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, semplifica notevolmente le procedure relative all'acquisizione di sponsor per interventi di tutela e valorizzazione dei beni culturali, in attuazione di uno specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega.
In considerazione delle novità apportate dal nuovo codice rispetto alla precedente disciplina, esplicitata nelle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G. U. 12.03.2013, n. 60, si ritiene opportuno fornire, con la nota circolare allegata, i primi indirizzi applicativi utili per facilitare e incoraggiare il ricorso a tale istituto da parte degli uffici ministeriali.
In particolare, si prendono in considerazione i profili concernenti la semplificazione delle procedure, la valutazione preliminare della proposta di sponsorizzazione e il favor per l'accoglimento, la pubblicazione dell'avviso sul sito istituzionale (del quale viene fornito un modello), la ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale, la scelta dello sponsor, la stipula del contratto di sponsorizzazione, la disciplina di cui all'articolo 151 in tema di sponsorizzazione di beni culturali e di partenariato pubblico-privato nel campo dei beni culturali, fornendo alcuni cenni riguardo al regime contabile. Vengono inoltre evidenziate quali parti (consistenti in sostanza nelle nozioni di carattere generale) delle citate Linee guida conservano validità ed efficacia anche a seguito dell'introduzione della nuova procedura semplificata.
La successiva diramazione della circolare, a cura di codesto Segretariato, ai competenti uffici centrali, unitamente alla diffusione, da parte dei medesimi uffici, di ulteriori e specifici indirizzi operativi agli uffici periferici, assicurerà la pronta e corretta applicazione delle nuove procedure, al fine dell'auspicabile potenziamento dell'istituto della sponsorizzazione. (...continua).

APPALTI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Oggetto: Decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - nota circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 18.05.2016 n. 15163 di prot.).
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Sommario: 1. Introduzione - 2. Ambito di applicazione e fase transitoria - 3. Riduzione del numero delle stazioni appaltanti e centrali di committenza - 4. Qualificazione delle stazioni appaltanti - 5. Soglie di rilevanza comunitaria e servizi aggiuntivi - 6. Contratti sotto soglia - 7. Procedure d'urgenza - 8. Programmazione  e progettazione - 9. Incentivi per funzioni tecniche - 10. Commissioni di gara - 11. Subappalto - 12. Avvalimento - 13. Procedura di verifica preventiva dell'interesse archeologico - 14. Disciplina comune applicabile ai contratti pubblici relativi ai beni culturali - 15. Sponsorizzazione di beni culturali e forme speciali di partenariato - 16. Altre forme di interesse.

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Come è noto, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale — Serie Generale — n. 91 del 19.04.2016, il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 recante: "Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11, recante: "Deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture".
Si ritiene utile e opportuno trasmettere, con la nota circolare in allegato, appositi indirizzi interpretativi e applicativi, relativi alla nuova disciplina che innova in misura significativa, rispetto al passato, le norme in materia di procedure di evidenza pubblica e di contratti pubblici. (...continua).

LAVORI PUBBLICIOggetto: D.P.C.M. 29.08.2014 n. 171, art. 16, comma 2, lett. o) - Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane - "Attività di vigilanza sulla realizzazione delle opere d'arte negli edifici pubblici ai sensi della legge 29.07.1949, n. 717 e successive modificazioni" (MIBACT, nota 10.12.2015 n. 2798 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici - art. 3 della legge n. 124 del 07.08.2015, recante Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, pubblicata nella G.U. n. 187 del 13.08.2015 - indirizzi interpretativi e applicativi (MIBACT, circolare 20.11.2015 n. 40).
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Come è noto, l'art. 3 della legge n. 124 del 07.08.2015, recante Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, ha introdotto, nel testo della legge 07.08.1990, n. 241, l'articolo aggiuntivo 17-bis, in tema di Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici.
Anche all'esito dell'incontro con i Soprintendenti, svoltosi con la partecipazione dell'On.le Sig. Ministro lo scorso 26 ottobre, si ritiene utile e opportuno trasmettere, con la nota circolare in allegato, appositi indirizzi interpretativi e applicativi relativi alle suddette novità normative. (...continua).

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAPer tagliare i boschi basta l'autorizzazione forestale.
La preservazione nel tempo dei boschi e foreste nella loro complessiva integrità costituisce lo scopo sia della protezione forestale che di quella paesaggistica generale. In vista di questo obiettivo, la legge statale, sottoponendo a vincolo, tutti i boschi prevede che il taglio colturale e le altre operazioni ammesse possono essere compiute con autorizzazione forestale senza che sia necessaria l'autorizzazione paesaggistica.

Lo ha precisato l'Ufficio Legislativo del Ministero dei beni culturali con il nota 08.09.2016 n. 25553 di prot..
Per lo speciale valore tutelato paesaggisticamente di boschi e foreste, il legislatore prevede un regime derogatorio ridotto e rimesso al controllo dell'autorità forestale, ma solo ove il bosco o foresta sia tutelato come elemento morfologico del territorio, da salvaguardare nei suoi elementi identificativi.
Qualora il territorio boschivo sia tutelato anche con specifico provvedimento che ne riconosca il notevole interesse pubblico per ragioni di carattere paesaggistico-culturale, gli interventi forestali, già compatibili con la tutela dei caratteri morfologici tutelati per legge, richiedono la valutazione della loro compatibilità con lo specifico valore paesaggistico espressamente riconosciuto e tutelato nel provvedimento, mediante ricorso alla previa autorizzazione paesaggistica».
Nel caso specifico, la questione verte sulla necessità di autorizzare preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del codice del paesaggio, interventi di taglio colturale in un complesso forestale vincolato non solo ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del medesimo codice.
Nel caso in questione, in particolare, la Soprintendenza ha adottato un'ordinanza di sospensione lavori ritenendo invece che gli interventi di taglio colturale siano sottratti alla previa autorizzazione paesaggistica, anche nell'ipotesi di bosco tutelato con specifico provvedimento adottato ai sensi dell'art. 136 del codice di settore (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: SARDEGNA, bosco del Marganai — Ente Foreste della Sardegna — autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi sottoposti a tutela, oltre che ex lege, in forza di specifico provvedimento (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 08.09.2016 n. 25553 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. n. 4703 del 19.02.2016 con la quale la Direzione generale Belle arti e paesaggio chiede conferma del proprio orientamento, espresso in adesione alla competente Soprintendenza, circa la necessità di autorizzare preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del codice di settore, interventi di taglio colturale nel complesso forestale del Marganai, vincolato non solo ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del medesimo codice, ma anche con specifico provvedimento adottato in data 13.02.1978, che ne ha riconosciuto il notevole interesse pubblico, non ritenendo applicabile a tale fattispecie il regime derogatorio speciale previsto dall'art. 149, comma 1, lett. c), del codice.
Nel caso in questione, in particolare, la Soprintendenza ha adottato un'ordinanza di sospensione lavori in data 24.09.2015, contestata dall'Ente Foreste della Sardegna, che ritiene invece che gli interventi di taglio colturale siano sottratti alla previa autorizzazione paesaggistica, anche nell'ipotesi di bosco tutelato con specifico provvedimento adottato ai sensi dell'art. 136 del codice di settore.
Al riguardo, nel condividere l'orientamento della Direzione, si precisa quanto segue. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedimenti di rinnovo delle dichiarazioni di interesse culturale pregresse, emanate ai sensi delle leggi nn. 36 del 1909 e 1089 del 1939, del decreto legislativo n. 490 del 1999 e del d.P.R. n. 283 del 2000 per autorizzazioni all'alienazione - parere (MIBACT, nota 06.05.2016 n. 13589 di prot.).
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Si riscontra la nota di codesto Segretariato prot. 4896 del 16.07.2015, con la quale si chiedono chiarimenti circa la necessità di procedere al rinnovo della dichiarazione di interesse culturale, mediante la procedura di verifica prevista dall'art. 12 del codice di settore, per gli immobili di proprietà dei soggetti di cui al comma 1 dell'art. 10 del codice, per i quali sussiste già un provvedimento adottato ai sensi delle previgenti leggi in materia, al fine del rilascio dell'autorizzazione all'alienazione.
Al riguardo, codesto Ufficio evidenzia che, se da un lato il comma 2, lettera a), dell'art. 54 del codice richiede la conclusione del procedimento di verifica per poter autorizzare l'alienazione, dall'altro l'interpretazione analogica dell'art. 128, riferito ai beni privati, potrebbe far ritenere non necessaria la preventiva verifica in caso di provvedimento dichiarativo adottato con decreto ai sensi della legge n. 1089 del 1939, e leggi successive, regolarmente trascritto presso la competente Agenzia del territorio.
Al riguardo, si rappresenta quanto segue. (...continua).

UTILITA'

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anci Lombardia presenta le "Linee guida anticorruzione" con e-book, dispense, video e seminario (04.11.2016 - link a www.anci.lombardia.it).
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Scarica subito:
- Linee guida per la prevenzione della anticorruzione
- Linee guida
per la prevenzione della anticorruzione - SINTESI

APPALTI: CALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA: I CINQUE METODI.
Modelli esemplificativi di esclusione automatica delle offerte ai sensi dell’art. 97, co. 2, del D.lgs. 50/2016, Codice dei contratti pubblici (ANCE, ottobre 2016).

SICUREZZA LAVORO: Lavori in prossimità di linee elettriche aeree - Valutazione del rischio e misure di prevenzione (INAIL, ottobre 2016).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Assunzioni e mobilità regioni e enti locali (nota 10.10.2016 n. 51991 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 03.11.2016, "Determinazioni in ordine alla domiciliazione bancaria della tassa automobilistica" (deliberazione G.R. 31.10.2016 n. 5749).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 28.10.2016, "Determinazioni in merito alla concessione di contributi a enti, istituzioni, associazioni, comitati che promuovono iniziative e manifestazioni di rilievo regionale, anche a carattere internazionale - approvazione linee guida" (deliberazione G.R. 24.10.2016 n. 5722).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 28.10.2016, "Individuazione dei divieti temporali di utilizzazione agronomica nella stagione autunno vernina 2016/2017 in applicazione del d.m. 25.02.2016" (decreto D.G. 25.10.2016 n. 10607).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 27.10.2016 n. 252 "Regolamento recante norme per la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti amministrativi, a norma dell’articolo 4 della legge 07.08.2015, n. 124" (D.P.R. 12.09.2016 n. 194).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 27.10.2016 n. 252 "Approvazione delle Linee Guida sui valori di assorbimento del campo elettromagnetico da parte delle strutture degli edifici" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 05.10.2016).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 26.10.2016 n. 251 "Modelli e linee guida relativi alla procedura per la presentazione della domanda di concessione per l’accesso ai finanziamenti per gli interventi di rimozione o di demolizione delle opere o degli immobili realizzati in aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato ovvero dei quali viene comprovata l’esposizione a rischio idrogeologico in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 22.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 21.10.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.09.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 04.10.2016 n. 136).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.10.2016 n. 245 "Modifica del decreto 30.01.2015 relativo a «Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva» (DURC)" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 23.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 42 del 18.10.2016, "Modifica degli articoli 2, 9, 10, 11, 18 e 22, nonché dell’allegato C-bis del regolamento regionale 27.07.2009, n. 2 «Contributi alle unioni di comuni lombarde, in attuazione dell’articolo 20 della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali)»" (regolamento regionale 14.10.2016 n. 8).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 17.10.2016 n. 243 "Modalità attuative del credito d’imposta per interventi di bonifica dei beni e delle aree contenenti amianto" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2016, "L.r. 31/2008, art. 56, comma 6 – servizi ambientali dei consorzi forestali – approvazione delle modalità di accesso ai contributi" (decreto D.S. 07.10.2016 n. 9853).

INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 11.10.2016 n. 238, "Condizioni essenziali e massimali minimi delle polizze assicurative a copertura della responsabilità civile e degli infortuni derivanti dall’esercizio della professione di avvocato" (Ministero della Giustizia, decreto 22.09.2016).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.M. di modifica del DM 30.01.2015 – DURC “on-line” (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 02.11.2016 n. 33).
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Con la circolare n. 33 del 02.11.2016 la Direzione generale per l’Attività Ispettiva fornisce indicazioni operative a seguito della pubblicazione del D.M. 23.02.2016.
La circolare prende in esame le modifiche apportate al D.M. 30/01/2015, recante la disciplina del DURC online, che hanno riguardato, in particolare, due articoli del Decreto: l’art. 2, che definisce l’ambito soggettivo e oggettivo della verifica e l’art. 5, che detta regole specifiche per le imprese sottoposte a procedura concorsuale.

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: Competenze professionali architetti e ingegneri civili sugli edifici vincolati - Punto della situazione e iniziative del Consiglio Nazionale dopo le ultime sentenze - considerazioni (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 28.10.2016 n. 818).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni - risposta al quesito in merito allo svolgimento dei corsi base (modulo A, B e C) per le figure professionali di RSPP e ASPP con modalità di formazione a distanza (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 25.10.2016 n. 18/2016).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo alla applicazione dell’art. 109 (recinzione di cantiere) del D.Lgs. 81/2008 nel caso di cantieri stradali (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 25.10.2016 n. 12/2016).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni - risposta al quesito in merito agli oneri delle visite mediche ex art. 41 del d.lgs. n. 81/2008 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 25.10.2016 n. 14/2016).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo alla possibilità di considerare come costo per la sicurezza l’utilizzo di una piattaforma elevabile mobile in sostituzione di un ponteggio fisso (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 25.10.2016 n. 13/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Credito d’imposta per gli interventi di bonifica e rimozione dell’amianto (ANCE di Bergamo, circolare 21.10.2016 n. 191).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Pubblicazione Linee Guida ANAC n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, recanti 'Indirizzi generali sull'affidamento dei servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria' - considerazioni (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 13.10.2016 n. 812).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le modifiche al Codice dell'Amministrazione Digitale (C.A.D.). Commento alle novità di interesse notarile (Consiglio Nazionale del Notariato, 03.10.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Trattamento di dati personali dei dipendenti mediante posta elettronica e altri strumenti di lavoro (Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 13.07.2016 n. 303).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Oggetto: parere in merito a GPS da installare su autovetture aziendali e chiarimenti in relazione alla nuova formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione interregionale del Lavoro di Milano, nota 10.05.2016 n. 5689 di prot.).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Trattenuta del 2,5% sulla retribuzione del personale in regime di TFR - Facciamo un po' di chiarezza (CSA di Milano, nota 05.10.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl risparmio gonfia le risorse locali. Parere Aran sul Ccnl del 1999.
Le economie di spesa derivanti da processi di razionalizzazione e riorganizzazione possono essere destinate all'incremento della parte variabile del fondo delle risorse decentrate anche senza essere necessariamente vincolate al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività.

Lo ha affermato l'Aran con un recente parere 16.09.2016 n. RAL-1867 che chiarisce la portata dell'art. 15, comma 4, del Ccnl dell'01/04/1999.
Tale disposizione prevede che «gli importi possono essere resi disponibili solo a seguito del preventivo accertamento delle effettive disponibilità di bilancio create a seguito di processi di razionalizzazione e riorganizzazione delle attività ovvero espressamente destinate all'ente al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e di qualità».
Secondo l'Aran, tale formulazione individua due ipotesi ben distinte. Da un lato, l'ente può avere conseguito «effettive disponibilità di bilancio create a seguito di processi di razionalizzazione e riorganizzazione delle attività»; dall'altro, può destinare risorse espressamente finalizzate «al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e di qualità».
La seconda ipotesi indubbiamente si lega al conseguimento di specifici obiettivi di produttività e di qualità, individuati e definiti in via preventiva, cui è stato legato un apposito stanziamento in bilancio con tale specifica destinazione. Nella prima ipotesi, al contrario, il possibile incremento delle risorse decentrate è subordinato solo all'accertamento della sussistenza di disponibilità finanziarie di bilancio conseguenti a processi di riorganizzazione e razionalizzazione delle attività preventivamente individuati ed attivati dagli enti, senza che siano richiesti o prescritti specifici obiettivi di produttività o di qualità.
Tale accertamento, volto a verificare l'esistenza effettiva delle economie, spetta al nucleo di valutazione o al servizio di controllo interno e, sottolinea Anac, proprio per le finalità ad esso attribuite, può intervenire solo «a consuntivo», cioè a conclusione dei processi di riorganizzazione o di razionalizzazione delle attività. Solo in tale momento, le risorse si rendono effettivamente disponibili e sono successivamente spendibili per gli incentivi a favore del personale. In entrambi le ipotesi, naturalmente, vale il tetto massimo dell'1,2% su base annua del monte salari dell'anno 1997, esclusa la quota relativa alla dirigenza.
L'indicazione è molto utile, anche se numerose amministrazioni si trovano davanti a ben più complesse questioni. Da un lato, devono tenere conto del nuovo blocco della contrattazione decentrata imposto dal comma 236 della l. 208/2015, che costringe a contenere il fondo entro il valore complessivo del 2015 (c.d. tetto massimo) ed a ridurlo proporzionalmente alla riduzione del personale in servizio, sempre rispetto al 2015.
Dall'altro, pesano le indicazioni della Corte dei conti, la quale ha affermato che il contratto decentrato deve essere sottoscritto nell'anno di riferimento, smentendo quanto affermato dai nuovi principi contabili, che invece ammettono la sottoscrizione anche nell'anno successivo (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).
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TESTO
Sistema di classificazione/Trattamento economico accessorio/Risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività/
Qualora un ente abbia conseguito un’economia di spesa determinata da processi di razionalizzazione e riorganizzazione posti in essere, le relative disponibilità di bilancio possono essere destinate all’incremento delle risorse decentrate variabili di cui all’art. 15, comma 2, del CCNL dell’01.04.1999, nei limiti quantitativi ivi previsti, senza essere necessariamente vincolate al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene che la soluzione debba essere individuata partendo dal dato formale del testo dell’art. 15, comma 4, del CCNL dell’01.04.1999, secondo il quale “Gli importi ……. possono essere resi disponibili solo a seguito del preventivo accertamento .... delle effettive disponibilità di bilancio create a seguito di processi di razionalizzazione e riorganizzazione delle attività ovvero espressamente destinate all’ente al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e di qualità”.
Tale disciplina contrattuale, ai fini del possibile incremento delle risorse decentrate variabili, si articola in due distinte ipotesi:
a) “.... delle effettive disponibilità di bilancio create a seguito di processi di razionalizzazione e riorganizzazione delle attività”;
b) “espressamente destinate all’ente al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e di qualità”.
La seconda ipotesi (lett. b), indubbiamente, si lega al conseguimento di specifici obiettivi di produttività e di qualità, individuati e definiti in via preventiva, cui è stato legato un apposito stanziamento in bilancio con tale specifica destinazione (sotto tale ultimo aspetto la disciplina è simile a quella del successivo art. 15, comma 5, del medesimo CCNL dell’01.04.1999).
Nella prima ipotesi, invece, al possibile incremento delle risorse decentrate (sempre entro il tetto massimo dell’1,2% su base annua del monte salari dell’anno 1997, esclusa la quota relativa alla dirigenza), data la mancanza di indicazioni espresse in tal senso nella previsione contrattuale e considerata la distinzione contenutistica intercorrente con la diversa fattispecie considerata alla lett. b), possono essere destinate le disponibilità finanziarie di bilancio conseguenti a processi di riorganizzazione e razionalizzazione delle attività preventivamente individuati ed attivati dagli enti
Non sono, quindi, richiesti o prescritti specifici obiettivi di produttività o di qualità.
Spetta al nucleo di valutazione o al servizio di controllo interno l’accertamento della esistenza delle effettive disponibilità di bilancio dei singoli enti derivanti dai processi di razionalizzazione o riorganizzazione.
E’ evidente, peraltro, che tale accertamento, proprio per le finalità ad esso attribuite, può intervenire solo “a consuntivo”, cioè a conclusione dei processi di riorganizzazione o di razionalizzazione delle attività.
Solo a seguito di tale accertamento le risorse di cui si tratta si rendono effettivamente disponibili e sono successivamente spendibili per gli incentivi a favore del personale (parere 16.09.2016 n. RAL-1867 - link a www.aranagenzia.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: Indagini di mercato obbligatorie nelle procedure negoziate senza bando (06.11.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenza: alla lobby-Anci interessa solo lo spoil system (05.11.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI SERVIZI: C. D’Aries e S. Glinianski, In house sempre più subordinato ai controlli interni (04.11.2016 - tratto da www.upel.va.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Colucci, Tende parasole. Il diritto di veduta non deve comportare un sacrificio eccessivo del diritto del confinante (03.11.2016 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: Muro di contenimento di terrapieno e distanze dal confine - Se il dislivello tra terreni è artificiale il muro di contenimento deve essere considerato una costruzione e quindi deve rispettare la distanza dal confine di tre metri (01.11.2016 - link a www.laleggepertutti.it).

APPALTI: R. De Nictolis, Le procedure di scelta del contraente (28-29.10.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Due parole sullo “stato dell’arte”. - 2. Principi di delega innovativi ed impatto sulle procedure di gara. - 3. Quante sono le procedure di gara? - 4. Principio di tassatività, procedure aperte, ristrette, negoziate. - 5. La procedura negoziata senza bando. - 6. Le consultazioni preliminari di mercato. - 7. Che ne è dell’appalto concorso e dell’appalto integrato? - 8. Incarichi e concorsi di progettazione. - 9. Le procedure sotto soglia. - 9.1. Sotto soglia in generale. - 9.2. Incarichi di progettazione e assimilati sotto soglia. - 9.3. Gli affidamenti di somma urgenza e per emergenze di protezione civile. - 10. Le negoziazioni dirette con l’originario affidatario. - 11. L’affidamento del subappalto. - 12. Lo scorrimento di graduatoria. - 13. Conclusioni: sono quaranta o forse più…good luck.

EDILIZIA PRIVATA: Procedimenti amministrativi semplificati per rilevanti insediamenti produttivi (27.10.2016 - tratto da www.iposa.it).

APPALTI: E. Gaz, La nuova disciplina delle concessioni (25.10.2016 - link a www.lexitalia.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti: scheda autocontrollo attività e compiti del Rup in forniture e servizi (22.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

VARI: R. D'Isa, Le donazioni (17.10.2016 - tratto da https://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenza: il pudore del Consiglio di stato sul diritto all’incarico (16.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sblocco del turn over: promessa vuota, periodicamente in auge (16.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali, una riforma nel caos (15.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Modello di liquidazione della prestazione contrattuale redatto in forma trasparente (10.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Marzano, Silenzio-assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato (05.10.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario:
Sezione prima. 1. Un ‘manifesto’ per la funzione consultiva del Consiglio di Stato nel processo di attuazione della legge n. 124 del 2015. – 2. Sul nuovo ruolo del Consiglio di Stato nella policy di riforma della pubblica Amministrazione. – 3. La ‘nuova amministrazione’ nella visione del Consiglio di Stato, dopo la riforma cd. Madia. Dequotazione del procedimento e riduzione degli interessi all’esito del processo di semplificazione.
Sezione seconda. 4. Il parere del Consiglio di Stato sull’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e la genesi di questa disposizione. – 4.1 L’ambito di applicazione soggettivo del silenzio-assenso tra Amministrazioni. – 4.2 L’ambito di applicazione oggettivo; rapporti con gli artt. 16 e 17 della legge sul procedimento amministrativo e tutela degli interessi sensibili. – 4.3 Art. 17-bis e coordinamento tra Amministrazioni; l’esclusione dell’applicazione in caso di Sportello unico. – 4.4 Formazione del silenzio assenso, dissenso tardivo e autotutela.
Sezione terza. 5. La portata dell’art. 17-bis della legge sul procedimento amministrativo. Il rapporto ‘orizzontale’ tra (due sole) Amministrazioni co-decidenti; il coordinamento progressivo in ragione della complessità della decisione - 5.1 Il rapporto con la conferenza di servizi – 6. Silenzio-assenso e tutela degli interessi sensibili – 6.1 Art. 17-bis e cogestione dell’interesse paesaggistico – 7. Il dissenso tra Amministrazioni e gli obblighi di leale collaborazione.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Bombardelli, Il silenzio-assenso tra amministrazioni e il rischio di eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali (Urbanistica e appalti n. 7/2016).
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L’art. 17-bis della L. 07.08.1990, n. 241 introduce l’istituto del silenzio-assenso per l’adozione di provvedimenti normativi ed amministrativi nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nullaosta di altre PP.AA. o di gestori di beni o servizi pubblici e questi non vengano rilasciati entro un termine prefissato.
Si tratta di uno strumento di semplificazione procedimentale molto problematico, anche perché è prevista la sua applicazione nei casi in cui l’atto di assenso debba essere rilasciato da amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili.
Nel presente commento vengono considerate le principali criticità di questo istituto.

APPALTI: M. Lipari, Il pre-contenzioso (08.07.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario.
1. Il sistema della tutela giurisdizionale e il nuovo “pre-contenzioso” in materia di contratti pubblici. Dalle direttive al codice, attraverso la legge delega n. 11/2016.
2. La tutela giurisdizionale e la soluzione precontenziosa delle controversie nelle tre direttive del 2014. La salvezza delle procedure di ricorso di cui alla direttiva n. 865/665/CEE. La protezione dell’interesse legittimo del cittadino-contribuente al corretto svolgimento della procedura.
3. I criteri della legge delega: rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale (ADR); razionalizzazione del processo di cui all’art. 120 CPA.
4. Gli ADR nella fase di affidamento: dal sistema classico dei ricorsi amministrativi e del ricorso straordinario all’informativa preventiva dell’intento di proporre ricorso. Le incertezze del legislatore.
5. L’autotutela richiesta alla stessa stazione appaltante e la parabola (poco felice) dell’art. 243-bis del vecchio codice degli appalti.
6. Il nuovo ruolo dell’ANAC nel sistema. Il controllo concreto sulle patologie delle procedure di affidamento. La concentrazione dei poteri. Il rischio di inflazione del pre-contenzioso.
7. L’ambito temporale di applicazione della nuova disciplina e il regime transitorio “graduale” riferito alle sole procedure avviate a partire dal 20 aprile 2016.
8. Il nuovo sistema dei “pareri di precontenzioso” e delle “raccomandazioni vincolanti” dell’ANAC (art. 211 del d.lgs. n. 50/2016). Il difficile raccordo con la tutela giurisdizionale.
9. Due ipotesi distinte accomunate nell’art. 211: il concetto ampio di “precontenzioso”.
10. La criticabile assimilazione fra le due ipotesi e la necessità di esaminare autonomamente l’ipotesi del precontenzioso in senso stretto (la risoluzione delle “questioni” affidata all’ANAC).
11. Il “vecchio” precontenzioso facoltativo nel codice degli appalti n. 163/2006 e nel regolamento ANAC del 02.09.2014.
12. Le novità della disciplina di rango legislativo.
13. L’iniziativa delle parti –anche disgiunta– di avvio del procedimento precontenzioso.
14. La legittimazione alla richiesta e la titolarità dell’iniziativa.
15. Il coordinamento con la tutela giurisdizionale e i termini per la proposizione del ricorso.
16. La decisione. La natura giuridica e il contenuto del “parere” di precontenzioso dell’ANAC.
17. L’obbligo di attenersi alla decisione dell’ANAC e il carattere “vincolante” del parere.
18. La struttura decisoria del “parere motivato”. Il dovere della stazione appaltante di attuare la pronuncia dell’ANAC. Assenza di discrezionalità e contenuti conformativi del parere.
19. Il significato della nuova efficacia vincolante del parere dell’ANAC. La dimensione oggettiva dell’efficacia e il suo perimetro soggettivo.
20. Nel nuovo ordinamento esiste ancora spazio per il parere “totalmente non vincolante” dell’ANAC?
21. Il termine per la pronuncia del parere ANAC e il suo inutile decorso. Il problema del raccordo con la tutela giurisdizionale.
22. Gli strumenti giuridici per l’attuazione del parere vincolante dell’ANAC. La necessaria mediazione di un provvedimento attuativo della stazione appaltante. La problematica applicabilità del giudizio di ottemperanza
23. Il problema dello stand still processuale e della tutela cautelare. L’applicabilità delle regole flessibili del regolamento ANAC.
24. L’impugnabilità in sede giurisdizionale del parere vincolante dell’ANAC.
25. La compatibilità degli istituti di ADR con la Costituzione. La natura indisponibile delle posizioni di interesse legittimo. La necessaria previsione del sindacato giurisdizionale sulla pronuncia precontenziosa.
26. La condanna alle spese della parte soccombente dinanzi all’ANAC, in caso di ulteriore rigetto del ricorso giurisdizionale.
27. Il regolamento dell’ANAC sul precontenzioso non vincolante e i dubbi sulla sua base normativa. Il potere di disciplinare il procedimento nel nuovo quadro sistematico del decreto n. 50/2016. L’applicazione “residuale” del CPA.
28. La sorte del regolamento di autorganizzazione dell’ANAC. La perdurante vigenza delle disposizioni non incompatibili con il nuovo assetto normativo.
29. I problemi del raccordo con la tutela giurisdizionale. L’impugnazione del parere di rigetto, dell’originario provvedimento contestato e dell’eventuale atto di adeguamento adottato dalla stazione appaltante.
30. Le nuovissime “raccomandazioni vincolanti” di cui al comma 2 dell’art. 211. Contenuto della disciplina e aspetti problematici.
31. I presupposti sostanziali per l’esercizio del potere di intervento dell’ANAC. Il nodo dell’ambito delle scelte discrezionali riservate all’Autorità.
32. La natura e il fondamento del potere esercitato dall’ANAC: le conseguenze sulla disciplina applicabile al procedimento.
33. L’impugnazione giurisdizionale della “raccomandazione vincolante” positiva. La portata del rinvio all’art. 120: termini della notificazione del ricorso e decorrenza. Ulteriori criticità dei pareri di precontenzioso e delle raccomandazioni vincolanti dell’ANAC.
34. È possibile impugnare dinanzi al TAR la determinazione “negativa”, con cui l’ANAC, dopo l’avvio formale del procedimento, esclude la sussistenza di vizi della procedura?
35. La sollecitazione all’intervento sanzionatorio proposta dai soggetti “interessati” e il silenzio dell’ANAC. Vi è un obbligo di provvedere dell’Autorità?
36. Il problema della tutela precontenziosa dei cittadini titolari di un “interesse legittimo in qualità di contribuenti a un corretto svolgimento delle procedure di appalto”. Un dovere di pronuncia dell’ANAC? La legittimazione all’esposto degli operatori economici decaduti dal potere di proporre ricorso.
37. Il mancato adeguamento delle stazioni appaltanti alla raccomandazione vincolante dell’ANAC: gli strumenti di tutela dei terzi interessati.
38. La tutela procedimentale personale del dirigente responsabile della violazione.
39. La raccomandazione dell’ANAC e il provvedimento della stazione appaltante: il problema del coordinamento con la disciplina generale del procedimento; i limiti sostanziali dell’annullamento di ufficio.
40. La segnalazione di illegittimità della procedura formulata dall’operatore economico decaduto dal ricorso giurisdizionale (e dalla richiesta di parere di cui all’art. 211, comma 1).
41. Il potere di intervento dell’ANAC sulle situazioni consolidate: il caso della cristallizzazione del provvedimento definitivo di esclusione e di ammissione e la ratio del rito “superspeciale”.
42. Le segnalazioni qualificate provenienti dal giudice amministrativo ai sensi della “Legge Severino”. Un dovere puntuale di pronuncia dell’ANAC.
43. Il rapporto tra il procedimento di precontenzioso e il contestuale giudizio. La “litispendenza impropria” tra i due procedimenti previsti dal comma 1 e dal comma 2.
44. Il rapporto (problematico) tra le due ipotesi dell’art. 211. Il doppio volto dell’ANAC: giudice imparziale delle controversie e Pubblico Ministero persecutore delle illegittimità delle stazioni appaltanti.
45. Una possibile ipotesi di coordinamento: l’alternatività assoluta tra i rimedi precontenziosi disciplinati, rispettivamente, dal comma 1 e dal comma 2 dell’art. 211. La prevalenza dei procedimenti officiosi dell’ANAC.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: F. Aperio Bella, Il silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (il nuovo art. 17-bis della l. n. 241 del 1990) (08-09.04.2016 - tratto da www.diritto-amministrativo.org).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il problema dell’applicazione dell’art. 17-bis agli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili – 3. I rapporti tra l’art. 17-bis e la conferenza di servizi – 4. Il nodo del rispetto delle autonomie regionali – 5. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: S. Bigolaro, La legge di riforma della pubblica amministrazione (124/2015) e i procedimenti edilizi: due le norme direttamente applicabili, o forse una (14.10.2015 - tratto da http://venetoius.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI SERVIZI E FORNITURE: Oggetto: Indicazioni operative alle stazioni appaltanti in materia di pubblicazione del programma biennale degli acquisti di beni e servizi e del programma triennale dei lavori pubblici sul sito informatico dell’Osservatorio, ai sensi dell’art. 21, comma 7, del d.lgs. 50/2016 (comunicato del Presidente 26.10.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Oggetto: Regolamento per il rilascio dei pareri di precontenzioso di cui all’art. 211, comma 1, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 e modalità di trattazione delle istanze pregresse :
comunicato del Presidente 05.10.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
regolamento 05.10.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Oggetto: Indicazioni operative in merito alle modalità di calcolo della soglia di anomalia nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso (comunicato del Presidente 05.10.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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A seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti e delle concessioni (d.lgs. n. 50/2016) l’Autorità ha ricevuto numerose richieste di chiarimenti in merito alle modalità di calcolo delle soglie di anomalia nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso e per questo ha ritenuto opportuno fornire delle indicazioni operative.

APPALTI: Non è il prezzo che fa l'opera. Da applicare l'offerta economicamente più vantaggiosa. Le novità contenute nelle linee guida dell'Anac sui criteri di aggiudicazione degli appalti.
Il criterio del prezzo più basso come strumento derogatorio ed eccezionale nell'aggiudicazione degli appalti; privilegiata la scelta del contraente sulla base del rapporto qualità-prezzo; rating di legalità valutabile in sede di offerta, ma senza discriminare le imprese estere o di nuova costituzione; possibile la gara con il prezzo fisso ma con adeguata motivazione e previa indagine di mercato; valutabili in sede di offerta elementi soggettivi del concorrente per verificarne l'affidabilità.

Sono questi alcuni dei punti contenuti nelle linee guida sui criteri di aggiudicazione approvate in questi giorni in via definitiva dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) (determinazione 21.09.2016 n. 1005 - Linee Guida n. 2, di attuazione del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa”), a conclusione dell'iter dei pareri.
Nel documento ci si sofferma sulla possibilità di utilizzare il criterio del prezzo più basso che oggi rappresenta un'eccezione rispetto alla regola di aggiudicare l'appalto sulla base del rapporto qualità-prezzo.
A tale possibilità si può ricorrere quando si tratti di lavori di importo fino a un milione, o quando il servizio o la fornitura ha caratteristiche standardizzate, cioè nei casi in cui le condizioni di svolgimento della prestazione non sono modificabili dalla stazione appaltante o rispondono a determinate norme nazionali, europee o internazionali. In sostanza, per questi appalti la variabilità delle caratteristiche qualitative è praticamente nulla e da qui discende l'utilizzabilità del criterio del prezzo più basso.
A parte questi casi, le amministrazioni sono chiamate ad applicare il criterio del rapporto qualità-prezzo (criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, Oepv) vincolante per i servizi di ingegneria e architettura di valore superiore a 40 mila euro, per i servizi di ristorazione e per quelli a elevata intensità di manodopera.
Le linee guida Anac ribadiscono la generale indicazione di distinzione fra requisiti di ammissione alla gara e criteri di valutazione dell'offerta, ma precisano che per determinati appalti è ammesso dall'ordinamento nazionale ed europeo prendere in considerazione elementi di carattere soggettivo nella misura in cui non siano stati già valutati in sede di ammissione alla gara e, quindi, siano tali da misurare dal punto di vista qualitativo e non quantitativo, per esempio, l'affidabilità del concorrente.
Per quel che riguarda il rating di legalità valutabile in sede di offerta, l'Anac ha messo in evidenza il rischio di turbativa della concorrenza (il rating non può essere concesso a imprese estere, a quelle con un fatturato inferiore a 2 milioni o costituite da meno di due anni). La soluzione suggerita da Anac sarebbe quella di inserire negli atti di gara gli elementi previsti dal regolamento Agcm per acquisire il rating. Richiamato anche in queste linee guida, così come in quelle n. 1/2016 sui servizi di ingegneria e architettura (delibera 937 del 14.09.2016), il suggerimento di inserire criteri di valutazione che valorizzino gli elementi di innovatività dell'offerta.
Con riguardo alla possibilità di prevedere il prezzo fisso, l'Anac ha chiarito che tale possibilità va adeguatamente motivata e deve seguire una «esaustiva indagine di mercato» che abbia a oggetto gli affidamenti da parte di altre stazioni appaltanti.
L'Anac ha invitato poi a limitare il peso del prezzo quando si vogliono contenere ribassi eccessivi che comprometterebbero la qualità o quando si intende valorizzare i profili qualitativi; viceversa il prezzo può assumere un peso percentuale più elevato se le condizioni di mercato sono tali che la qualità dei prodotti offerta è sostanzialmente analoga (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIOScuole, sisma, dissesti: sì ad affidamenti in deroga. Anche col nuovo codice la somma urgenza non viene meno.
Legittimi, anche dopo il nuovo codice dei contratti pubblici, gli affidamenti di importo inferiore alla soglia Ue dei 5,2 milioni di euro di lavori disposti in somma urgenza e con procedura negoziata per l'edilizia scolastica, la prevenzione sismica e contro il dissesto idrogeologico.
Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il parere 19.09.2016 reso in risposta ad un quesito posto dalle Strutture di missione della presidenza del Consiglio per il coordinamento e l'impulso nell'attuazione di interventi di riqualificazione dell'edilizia scolastica e contro il dissesto idrogeologico per lo sviluppo delle infrastrutture idriche.
Nel quesito si faceva riferimento alla disciplina riguardante gli interventi affidabili in regime di somma urgenza di cui all'articolo 9 del decreto legge 133/2014 (Sblocca Italia) convertito nella legge 164/2014.
La norma stabilisce infatti che per gli interventi di importo compreso fino alla soglia comunitaria, le stazioni appaltanti possano derogare a diverse norme del codice dei contratti pubblici a condizione che di fosse in presenza di casi di «estrema urgenza».
La stessa norma prevede che costituisce «estrema urgenza», la situazione conseguente ad apposita ricognizione da parte dell'ente interessato che certifica come indifferibili gli interventi, anche su impianti, arredi e dotazioni, funzionali relativi a alla messa in sicurezza degli edifici scolastici di ogni ordine e grado e a quelli dell'alta formazione artistica, musicale (Afam), comprensivi di nuove edificazioni sostitutive di manufatti non rispondenti ai requisiti di salvaguardia della incolumità e della salute della popolazione studentesca e docente; la stessa disciplina è poi previsto che si applichi sia alla mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici del territori, sia all'adeguamento alla normativa antisismica e alla tutela ambientale e del patrimonio culturale.
Le deroghe previste riguardano i termini di presentazione delle domande di partecipazione e delle offerte, ma anche la possibilità di affidare lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria, a cura del responsabile del procedimento, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza e rotazione e secondo la procedura negoziata con invito a dieci operatori economici (che diventano cinque per la messa in sicurezza degli edifici scolastici).
La disposizione prevede anche che sia l'Anac ad effettuare un attento controllo su questi appalti (anche con verifiche a campione) e proprio per questo l'Autorità ha emanato un comunicato nel febbraio 2015 per disciplinare le modalità di verifica dei dati che le stazioni appaltanti sono tenute ad inviare a valle degli affidamenti. Il punto che veniva posto era se la disciplina del decreto Sblocca Italia del 2014 potessero essere sempre applicate anche dopo l'entrata in vigore del nuovo codice.
L'Anac dà il suo via libera affermando che si tratta di normativa «vigente che coniuga, alle esigenze di celerità, i principi cardine della normativa sui contratti pubblici prevedendo comunque, nonostante il carattere di estrema urgenza, una forma semplificata di procedura competitiva» (articolo ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIGare, i giovani portano premi. Bonus ai gruppi con progettisti abilitati da meno di 5 anni. Nelle prima linea guida Anac sul Codice appalti anche indicazioni sui corrispettivi.
Premi ai raggruppamenti di progettisti con professionisti abilitati da meno di cinque anni. Requisito di fatturato alternativo alla polizza assicurativa. Decreto ministeriale del 17.06.2016 come riferimento per la stima dei corrispettivi a base di gara. Selezione tecnica prima dell'apertura delle offerte economiche.

Sono questi alcuni dei punti della prima linea guida Anac attuativa del codice dei contratti pubblici (Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria”) approvata dal Consiglio dell'Autorità con determinazione 14.09.2016 n. 973, che da oggi dovrebbe essere pubblicata sul sito www.anticorruzione.it, dopo la sigla apposta dal presidente dell'Autorità Raffaele Cantone. Seguirà poi la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
La linea guida n. 1/2016 contiene quindi indicazioni operative per le stazioni appaltanti, ancorché non vincolanti come ha precisato il Consiglio di Stato, che di fatto colmano il vuoto lasciato dall'abrogazione del dpr 207/2010 (in particolare dagli articoli da 250 a 270). Fra i punti di rilievo dell'articolato documento, le indicazioni ai committenti sulla stima dei corrispettivi a base di gara, per i quali l'ANAC precisa che «fino a quando, in attuazione del disposto di cui all'art. 24, comma 8, il ministro della giustizia non avrà approvato le nuove tabelle dei corrispettivi, come previsto dallo stesso art. 216, comma 6, occorre fare riferimento ai criteri fissati dal decreto del ministero della giustizia 17.06.2016».
Si tratta del decreto che approva le tabelle dei corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle prestazioni di progettazione adottato ai sensi dell'art. 24, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Nel decreto di giugno è però previsto (art. 1, comma 3) che i corrispettivi da esso fissati «possono essere utilizzati dalle stazioni appaltanti, ove motivatamente ritenuti adeguati, quale criterio o base di riferimento ai fini dell'individuazione dell'importo dell'affidamento».
Ad una prima lettura, sembrerebbe quindi che l'Anac, riprendendo i contenuti della legge delega che portò al decreto 50/2016, abbia in qualche modo forzato, prevedendo l'obbligo, sia il contenuto della norma del decreto 50 sia quella del decreto 17.06.2016, sulla base di una norma di legge che prevede tale obbligo.
E' infatti l'articolo 5 della legge 134/2012 a stabilire che «si applicano i parametri individuati con il decreto».
Quel che è certo è che su questo aspetto il legislatore dovrebbe fare chiarezza, per evitare contenziosi e garantire omogeneità di comportamenti da parte delle stazioni appaltanti.
La linea guida richiama la necessità di assicurare la qualificazione del progettista anche nei casi di appalto integrato(ormai relativo ai soli «settori speciali»). La linea guida si occupa anche di incentivare la presenza di giovani professionisti attraverso l'obbligo di inserire negli atti di gara un incremento convenzionale premiante in fase di aggiudicazione per chi inserisce nei gruppi di concorrenti il giovane professionista; previste anche indicazioni per inserire criteri di valutazione che valorizzino gli elementi di innovatività delle offerte presentate.
Il riferimento per il fatturato globale viene esteso, rispetto all'allegato XVII del decreto 50/2016, ai migliori tre anni del quinquennio per un importo complessivo non superiore al doppio del valore della gara e le amministrazioni potranno prevedere in alternativa «un livello di adeguata copertura assicurativa contro i rischi professionali per un importo percentuale fissato in relazione al costo di costruzione dell'opera».
In fase di valutazione delle offerte l'Anac suggerisce di valutare di inserire una soglia di punteggio tecnico superata la quale si aprono le offerte economiche (articolo ItaliaOggi del 22.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALI: L’Anac: nelle gare di progettazione largo ai parametri. Codice degli appalti. Per ingegneri e architetti.
Si aggiunge un altro tassello al complesso puzzle disegnato per l'attuazione del codice degli appalti. L’Autorità anticorruzione ha approvato in via definitiva le linee guida per l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura. Una bussola fondamentale per le amministrazioni, che potranno cosi farsi guidare dagli indirizzi dell’Anac per la definizione dei bandi e la gestione delle gare, senza correre il rischio di incorrere in contestazioni di legittimità degli affidamenti.
Le linee guida per l’assegnazione dei servizi di progettazione (determinazione 14.09.2016 n. 973 - Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria”) sono il primo atto di indirizzo -tra gli 11 su cui ha finora messo mano l’Anac- arrivati al traguardo del via libera definitivo, dopo il passaggio in Consiglio di Stato (
parere 02.08.02016 n. 1767) e l’esame delle commissioni parlamentari competenti. Rispetto alla bozza varata in prima battuta a fine giugno dal Consiglio dell’Autorità il testo definitivo introduce alcune novità, ma in larga parte conferma l'impianto generale messo anche in consultazione tra gli operatori.
Rimane innanzitutto l'indicazione-chiave relativa al calcolo dei compensi da porre a base delle gare. Il riferimento sono i "parametri" contenuti nel Dm Giustizia del 17.06.2016 che ha aggiornato il vecchio Dm 143/2013. Per l’Autorità usare le tabelle del decreto per determinare gli onorari di ingegneri e architetti è d’obbligo, anche se su questo punto il codice appalti parla di facoltà per le amministrazioni, lasciando evidentemente aperta la porta anche ad altre strade.
Per rafforzare la propria interpretazione, facendo in qualche modo propria un’istanza dei professionisti, l’Authority ricorda quanto previsto dal primo decreto sulle liberalizzazioni (Dl 1/2012) da cui è derivata l’abolizione delle tariffe professionali. In quel decreto, il riferimento ai «parametri» stabilito dal ministero per la Giustizia per determinare i compensi viene infatti imposto come obbligo, allo scopo di evitare comportamenti troppo disomogenei tra le Pa. Con l'avvertenza, però, che i compensi posti a base di gara non devono mai superare l'importo dei vecchi minimi.
Le linee guida confermano poi una serie di misure destinate a favorire la massima partecipazione alle gare. Innanzitutto si ribadisce la possibilità per le amministrazioni di sostituire la richiesta di un fatturato minimo con una copertura assicurativa contro i rischi professionali calcolata in percentuale rispetto al costo delle opere da progettare. Il fatturato minimo non potrà comunque mai superare il doppio dell'importo a base di gara. Lo stesso dicasi per il numero di personale tecnico necessario all'esecuzione del servizio.
Una novità riguarda i giovani professionisti. Per aprire le porte del mercato pubblico anche a chi si è appena affacciato alla professione, l’Anac chiede alle amministrazioni di prevedere sempre criteri di valutazione capaci di valorizzare «gli elementi di innovatività delle offerte presentate».
Non è una decisione presa sull’onda del terremoto che ha distrutto Amatrice il 24 agosto (visto che era presente anche nelle prime versioni del documento) ma va certamente in direzione di aumentare il grado di sicurezza di costruzione degli edifici l’indicazione alle Pa di inserire nei bandi la richiesta di prevedere sempre la presenza di un geologo nel gruppo di progettazione.
Rispetto alle linee guida varate a giugno è stata però aggiunta la possibilità per le stazioni appaltanti di bandire una gara ad hoc per individuare il professionista cui affidare la relazione geologica, distinta dalla procedura necessaria ad assegnare l'incarico di progettazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2016).

APPALTIAffidatari con scelta dettagliata. Per la procedura negoziata basta motivazione in sintesi. Il parere del Consiglio di stato sulle linee guida Anac sugli appalti di lavori e servizi.
Le linee guida Anac per gli appalti di lavori, forniture e servizi sotto la soglia Ue non sono vincolanti e le amministrazioni possono discostarsene; già sufficientemente dettagliata la disciplina del codice dei contratti; obbligo di motivazione sintetica per la scelta della procedura negoziata ma motivazione dettagliata per la scelta dell'affidatario.

È quanto afferma il Consiglio di Stato nel parere 02.08.02016 n. 1767 emesso dalla commissione speciale sulle linee guida che l'Anac, come già avvenuto per le altre linee guida, ha inviato a palazzo Spada, pur non obbligata.
Dopo avere apprezzato che l'Autorità abbia comunque ritenuto opportuno trasmettere l'atto per un parere, i giudici chiariscono in premessa che le linee guida sull'affidamento dei contratti pubblici sotto-soglia
(determinazione 14.09.2016 n. 973 - Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria”) «possono essere annoverate tra le linee guida dell'Anac non vincolanti, le quali sono anch'esse atti amministrativi generali», con conseguenziale «applicazione dello statuto del provvedimento amministrativo e perseguono lo scopo di fornire indirizzi e istruzioni operative alle stazioni appaltanti»; da ciò deriva, si legge nel parere, l'opportuno minore rigore nell'enucleazione dell'indirizzo impartito all'amministrazione.
Inoltre le stazioni appaltanti si potranno discostare dalle linee guida con un «atto che contenga una adeguata e puntuale motivazione, anche a fini di trasparenza, che indichi le ragioni della diversa scelta amministrativa». Per la commissione speciale esiste già nel nuovo codice una disciplina dettagliata in materia di affidamento di contratti di importo inferiore alla soglia comunitaria (articolo 36) che non necessita, pertanto, di linee di indirizzo di carattere «integrativo», che appesantirebbero inutilmente il quadro regolatorio.
Questa tesi viene supportata dalla disciplina transitoria prevista all'art. 216 che, in attesa delle linee guida, indica come si debbano regolare le stazioni appaltanti (scelta degli affidatari tramite elenchi o attraverso indagini di mercato con pubblicità di almeno 15 giorni e richiesta di requisiti minimi). Nel merito, il Consiglio di stato dà atto della «meritevole e non facile opera di bilanciamento tra esigenze di semplificazione e doveroso rispetto, in ogni caso, dei principi di concorrenza, trasparenza, non discriminazione, pubblicità e proporzionalità», ma evidenzia alcune criticità.
In particolare viene segnalato che appare poco conciliabile col principio di semplificazione, «imporre uno stringente onere motivazionale finanche “in merito alla scelta della procedura seguita”, come nel caso degli affidamenti al di sotto di 40.000» e si suggerisce che si distingua far fase di scelta della procedure (onere motivazionale sintetico) e scelta dell'aggiudicatario (onere di dettagliata motivazione).
Si suggerisce poi di fare chiarezza fra «preliminare indagine, semplicemente esplorativa del mercato», «indagine di mercato» e «consultazioni preliminari di mercato» previste dall'art. 66 del codice (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZI: Oggetto: Indicazioni operative anche alla luce del nuovo codice degli appalti e concessioni (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) per l’affidamento del cd. “servizio luce” e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni, compreso l’efficientamento e l’adeguamento degli impianti di illuminazione pubblica (comunicato del Presidente 14.09.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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A seguito di numerose segnalazioni ricevute dall’Anac in merito all’affidamento del servizio di efficientamento ed adeguamento normativo degli impianti di pubblica illuminazione, da parte di Amministrazioni comunali, con modalità non rispondenti al dettato normativo, è stato predisposto il Comunicato del Presidente del 14 settembre scorso: Indicazioni operative anche alla luce del nuovo codice degli appalti e concessioni (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) per l’affidamento del cd. “servizio luce” e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni, compreso l’efficientamento e l’adeguamento degli impianti di illuminazione pubblica.

APPALTI SERVIZI: Contratti socio-sanitari, tracciabili anche i privati. Richiesta di Anac al governo contro le infiltrazioni malavitose.
Obbligo di tracciabilità finanziaria anche per i contratti stipulati nel settore dei servizi socio-sanitari gestiti dalle strutture sanitarie private per evitare infiltrazioni malavitose.

È quanto ha chiesto l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con l'Atto di segnalazione al Governo e al Parlamento 07.09.2016 n. 958 (Atto di segnalazione al Governo e al Parlamento concernente la proposta di estensione degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari, previsti dall’art. 3 della legge 13.08.2010, n. 136, ai servizi sanitari e sociali erogati da strutture private accreditate), inviato ai presidenti di camera e senato e al ministro dell'interno e della salute.
Sul tema dei contratti affidati in questo settore, e quindi con riferimento alle sovvenzioni o contributi erogati a soggetti del terzo settore per lo svolgimento di attività d'interesse sociale ritenute utili per la collettività, l'Anac aveva stabilito (delibera del 20.01.2016, n. 32) che la disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari si applicasse anche agli acquisti e agli affidamenti di servizi sociali, nonché agli affidamenti alle cooperative sociali di tipo B ex art. 5 della legge 381/1991.
Diverso era ed è, invece, il regime per i servizi erogati in regime di accreditamento, che non sono stati invece richiamati nell'ambito di applicazione degli obblighi di tracciabilità (determinazione Anac n. 4/2011). L'Anac si è quindi posta il problema di verificare se non fosse opportuno mutare orientamento e ritenere applicabili gli obblighi di tracciabilità anche quando l'acquisizione dei servizi socio-sanitari venga effettuata, per la specialità del settore, con modalità diverse rispetto a quelle disciplinate dalla normativa specifica sui contratti pubblici di matrice europea (cioè non a evidenza pubblica).
L'Autorità, nell'atto di segnalazione, parte dalla considerazione che gli strumenti introdotti dall'art. 32 del dl 90/2012, estesi dalla legge di Stabilità 2016 al settore sanitario, sono stati intesi come «misure di natura cautelare, preordinati, quindi a evitare che a fronte di indagini giudiziarie su fatti illeciti connessi alla gestione del contratto pubblico, si possano verificare ritardi o pregiudizi nella prestazione di servizi, soprattutto laddove si tratti di servizi indifferibili, come quelli socio-sanitari».
L'obbligo di tracciabilità si caratterizza infatti come rimedio «straordinario, destinato a operare a fronte di un'accertata inefficacia dei presidi di legalità esistenti nel prevenire, nel caso concreto, l'illecito».
L'Anac ha precisato che in relazione all'esigenza di un rafforzamento delle misure di controllo della spesa con finalità di ordine pubblico anche nel delicato settore dei servizi socio-sanitari gestiti dai privati, «appare certamente opportuno che gli obblighi di tracciabilità siano applicabili anche ai servizi sanitari e sociali erogati da strutture private accreditate».
In questo modo si potrebbe anticipare, il più a monte possibile, la soglia di prevenzione, creando meccanismi che consentano di intercettare i fenomeni di intrusione criminale nei flussi finanziari provenienti dagli enti pubblici. Una tale scelta risulterebbe del tutto giustificato, ha detto Anac a governo e parlamento, «dalla constatazione che anche in questo settore, come in quello degli appalti pubblici, frequentemente le infiltrazioni della criminalità organizzata finiscono per saldarsi con i fenomeni corruttivi e di mala gestio della cosa pubblica». Occorre però un intervento normativo (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

APPALTI: Gare Cipe col vecchio codice. Regole 2006 se la procedura è in capo al comitato. Una delibera dell'Anac interviene a chiarire su una richiesta delle Infrastrutture.
Si applica ancora il codice dei contratti pubblici del 2006 alle grandi infrastrutture inserite in programmazione e la cui procedura approvativa sia in capo al Cipe; una volta conclusa la fase di approvazione i bandi di gara per l'affidamento dei lavori dovranno invece rispettare il nuovo codice dei contratti pubblici, ivi compresa la possibilità di affidamento a contraente generale.

È l'Anac (con il Parere sulla Normativa 07.09.2016 n. 924 - rif. AG 35/16/AP  reso nota nei giorni scorsi) ad intervenire, su richiesta del ministero delle infrastrutture, in merito alla disciplina applicabile alle opere infrastrutturali già inserite all'interno dell'XI Allegato infrastrutture al Def 2013.
Per queste opere, che fanno riferimento alla programmazione legata all'abrogata «legge obiettivo», la procedura approvativa (e in particolare l'acquisizione della Via) è infatti iniziata prima dell'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e quindi si trattava di stabilire se la disciplina applicabile fosse quella prevista dal decreto 50/2016 o la precedente che faceva riferimento agli articoli 161 e seguenti del decreto 163/2016.
L'Anac propende per l'applicazione del codice del 2006 che, di fatto, comporta che sia il Cipe ad approvare i progetti e a provvedere all'attestazione della compatibilità ambientale. Al ministero delle infrastrutture competono, oltre alle attività tecnico-amministrative per la progettazione, lo svolgimento dell'istruttoria al Cipe e la proposta di assegnazione delle risorse; il tutto attraverso la Struttura tecnica di missione.
In base alle nuove norme del decreto 50/2016 gli interventi che fanno parte di atti programmatori già approvati, fra cui, afferma l'Anac, rientrano anche quelli di cui all'allegato infrastrutture al Def 2013 (in base ad una apposita norma transitoria del nuovo codice), sono infatti oggetto di valutazione da parte della nuova struttura tecnica di missione (la cosiddetta project review), al fine del loro inserimento nel dpp, il documento pluriennale di pianificazione.
Ma per quel che riguarda le norme applicabili occorre tenere presente, dice l'Anac nel parere, che se la Via è stata già avviata alla data di entrata in vigore del decreto 50 (19.04.2016), essa verrà conclusa «in conformità alle disposizioni e alle attribuzioni di competenza vigenti all'epoca del predetto avvio».
Analoga disciplina viene peraltro stabilita per le varianti. Come ipotizzato dal ministero delle infrastrutture, per l'affidamento dei lavori sarà invece necessario applicare il nuovo codice che, va ricordato, contempla sempre l'affidamento a contraente generale, strumento che qualche amministrazione sta tentando di utilizzare anche per superare il divieto di appalto integrato (o meglio, l'obbligo di appaltare lavori sulla base di un progetto esecutivo) al fine di portare a termine la progettazione esecutiva e realizzare i lavori di opere ferme al progetto definitivo.
Si tratta di una prassi per adesso isolata: alla gara di giugno scorso del comune molisano di Carovilli, che utilizzò il contraente generale per una scuola da due milioni di euro, è seguito a fine agosto un bando, questa volta da 22 milioni, del provveditorato interregionale per le opere pubbliche di Lazio, Abruzzo e Sardegna per progettazione e realizzazione dei lavori di ristrutturazione, trasformazione ed ampliamento degli impianti tecnologici delle sedi della Sogei.
Evidentemente l'eliminazione dei vincoli di importo previsti nel precedente codice per il ricorso al contraente generale stanno dando adito ad un utilizzo improprio di una figura contrattuale nata per ben altre finalità, fin dalla direttiva europea 89/440 (articolo ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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Infrastrutture strategiche – approvazione progetti - regime transitorio
I progetti delle infrastrutture strategiche già inserite negli strumenti programmatori approvati, e per i quali la procedura di VIA è già iniziata al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, sono approvati secondo la disciplina previgente. Le procedure e i contratti per i quali i bandi sono pubblicati successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, rientrano nell’ambito di applicazione del nuovo codice.
Artt. 161 e segg. e 182 e segg. d.lgs. 163/2006; artt. 200, 201 co. 9, 214 e 216 d.lgs. 50/2016

APPALTI SERVIZI - TRIBUTITasse locali, niente bandi su misura. Delibera anac.
Niente bandi su misura sui tributi locali. Il bando per l'affidamento della attività di accertamento e riscossione ordinaria e coattiva di imposte locali (nel caso di specie imposta comunale sulla pubblicità, diritto sulle pubbliche affissioni e tassa occupazione spazi e aree pubbliche) non può prevedere tra i requisiti per la partecipazione il possesso di un fatturato minimo pari al triplo dell'importo posto a base d'asta, in quanto ciò lede i princìpi posti a tutela della libera concorrenza e del mercato.

Lo ha affermato l'Anac nella delibera 31.08.2016 n. 921 con cui l'Autorità anticorruzione ha bacchettato la condotta del comune di Castelvetro di Modena (Mo).
Illegittimo anche il requisito richiesto di avere in corso di esecuzione da almeno cinque anni l'attività di gestione di entrate identiche a quelle oggetto del disciplinare, nonché quelle sull'organico minimo e sull'ambito territoriale di attività.
Si tratta, in tutti i casi, di «restrizioni sproporzionate e limitative della concorrenza». Nel mirino anche l'onerosità dell'aggio e le modalità di computo del valore della concessione (articolo ItaliaOggi del 15.09.2016).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIRinnovo del contratto, la rotazione va motivata. Se l'impresa già affidataria è esclusa dalla procedura negoziata.
Legittimo applicare il principio di rotazione per non invitare il titolare del contratto alla procedura di rinnovo, ma la scelta deve essere motivata.

È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con il Parere sulla Normativa 31.08.2016 n. 917 - rif. AG 33/16/AP diffuso in questi giorni.
In particolare, all'Autorità veniva chiesto di esprimersi in relazione alla possibilità di escludere dalla procedura negoziata la ditta già affidataria del precedente contratto, in applicazione del criterio di rotazione previsto nel nuovo codice dei contratti all'articolo 36, comma 2, lett. b), che ha riprodotto una disposizione già presente nel precedente e abrogato codice del 2006 (art. 125, comma 11, dlgs 163/2006).
Sul punto la disciplina vigente non si esprime con chiarezza, ma si limita a specificare che l'amministrazione aggiudicatrice proceda alla «previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti». Da ciò non si ricava che il precedente affidatario del contratto debba essere necessariamente escluso dalla procedura negoziata.
La delibera fa presente che, in sede giurisprudenziale, da una parte si è affermato che è consentito alla stazione appaltante di invitare soggetti diversi dal precedente aggiudicatario e, dall'altro, che l'invito rivolto anche al precedente aggiudicatario e l'eventuale affidamento del contratto a quest'ultimo non inficia l'affidamento.
Si trattava quindi di chiarire se invocare l'applicazione del principio di rotazione per non invitare il titolare del contratto potesse essere legittimo; anche su questo l'Anac fa riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di stato che si è espresso nel senso che se anche in base al criterio di rotazione all'amministrazione non è imposto di invitare il precedente affidatario del servizio, «costituisce regola di buona amministrazione quella di prendere atto della circostanza che, laddove questi richieda di partecipare non v'è ragione alcuna che legittimi l'amministrazione a non rispondere chiarendo le ragioni del mancato invito (foss'anche richiamando la norma di legge, in teoria)».
Da questo, la delibera fa discendere che è sempre facoltà dell'amministrazione di non invitare l'impresa già affidataria del precedente contratto in virtù della mera applicazione del criterio di rotazione, fatti salvi casi particolari in cui l'esclusione dell'impresa non sarebbe legittima in quanto non coerente con le modalità di espletamento della procedura o con l'oggetto del contratto in affidamento (es. il precedente affidatario è uno dei pochi operatori economici sul mercato in grado di eseguire correttamente il contratto nello specifico settore di riferimento).
Tutto questo però deve poggiare su una adeguata motivazione, per cui la delibera chiude affermando che applicando il criterio di rotazione nella procedura negoziata per gli affidamenti di servizi e forniture di valore inferiore alla soglia comunitaria, è possibile non invitare l'operatore economico affidatario del precedente contratto, fermo restando che la scelta compiuta deve essere motivata ove l'operatore economico escluso chieda di partecipare alla selezione (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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Cause di esclusione – Carichi pendenti
La pendenza di un procedimento penale a carico dell’operatore economico interessato a partecipare alla procedura di gara non è circostanza idonea a ritenere configurata una causa di esclusione ex art. 80, d.lgs. 50/2016.
Art. 80, d.lgs. 50/2016
...
Procedura negoziata per affidamenti sotto soglia - Principio di rotazione – Esclusione dalla procedura dell’aggiudicatario del precedente contratto
L’applicazione del criterio di rotazione nella procedura negoziata per gli affidamenti di servizi e forniture di valore inferiore alla soglia comunitaria consente all’amministrazione aggiudicatrice di non invitare l’operatore economico affidatario del precedente contratto, fermo restando che la scelta compiuta deve essere motivata ove l’operatore economico escluso chieda di partecipare alla selezione.
Art. 36, comma 2, lett. b), d.lgs. 50/2016

APPALTI: Lavori in house, regole per l'affidamento diretto. Chiarimenti dell'Anac in mancanza dell'elenco delle società.
Ammessi gli affidamenti diretti in house anche in assenza dell'elenco delle società in house e dell'atto Anac che definisce i requisiti di iscrizione; necessario il rispetto delle condizioni previste dalla normativa europea sul «controllo analogo», recepiti dall'articolo 5 del codice dei contratti pubblici.

È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anti corruzione nel comunicato del Presidente 03.08.2016 siglato dal presidente Raffaele Cantone, che contiene «Chiarimenti sull'applicazione dell'art. 192 del Codice dei contratti», pubblicato il 7 settembre sul sito web dell'Anac.
I chiarimenti derivano dal fatto che ancora non è stato pubblicato dall'Autorità l'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti delle proprie società in house, previsto dal comma 1 dell'articolo 192 del decreto legislativo 50/2016 (il nuovo codice dei contratti pubblici). In questo contesto all'Autorità è stato posto il quesito se fosse possibile procedere ad affidamenti diretti in assenza della presentazione della domanda di iscrizione nell'elenco.
La norma del Codice prevede infatti che, prima, l'Anac fissi con proprio atto i criteri per l'iscrizione nell'elenco, poi che le amministrazioni formulino le domande e infine che la stessa Anac verifichi l'esistenza dei requisiti in capo alle amministrazioni richiedenti. Una volta ammessa nell'elenco la stazione appaltante potrà «sotto la propria responsabilità» effettuare affidamenti diretti all'ente strumentale in possesso dei requisiti per l'affidamento in house.
L'Autorità preliminarmente ha affermato che prima di arrivare all'emanazione dei criteri dovrà effettuare «la previa analisi dell'incidenza delle disposizioni del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica sulla disciplina dei requisiti identificativi dell'istituto dell'in house providing»; quindi ci vorrà ancora tempo.
Nel merito, si ammette la possibilità di procedere ad affidamenti in house, partendo dalla considerazione che la norma del codice presuppone l'istituzione dell'elenco e l'adozione dell'atto dell'Autorità, ma «non vale a istituire, nel diverso attuale contesto (in cui l'elenco e i criteri non ci sono, ndr), la pregiudizialità dell'inoltro della domanda rispetto alla possibilità di effettuare affidamenti in house».
Inoltre, ha precisato l'Autorità, tenuto che l'iscrizione all'elenco comunque non ha efficacia costitutiva ma meramente dichiarativa dell'iscrizione, l'affidamento diretto alle società in house può essere effettuato, «sotto la propria responsabilità, dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori in presenza dei presupposti legittimanti definiti dall'art. 12 della direttiva 24/2014/Ue e recepiti nei medesimi termini nell'art. 5 del dlgs n. 50 del 2016 e nel rispetto delle prescrizioni di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 192, a prescindere dall'inoltro della domanda di iscrizione».
Quindi in presenza dei requisiti del «controllo analogo», se l'80% delle attività della società controllata è svolto per la controllante e se non vi siano partecipazioni di privati nella società controllata (ad eccezione dei casi in cui la nostra normativa lo preveda) (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: Donazioni in denaro.
La causa liberale (funzione per la quale un soggetto arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro soggetto) si presume incompatibile con la capacità giuridica riconosciuta agli enti locali, salvo vi sia un'espressa autorizzazione di legge o una chiara compatibilità con gli scopi istituzionali.
Viene, dunque, in rilievo la previsione contenuta nell'art. 16, c. 1, della L.R. 1/2006, in base alla quale «Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali.».

L'Associazione Intercomunale chiede di conoscere se un Comune possa utilizzare propri fondi di bilancio per effettuare una donazione in denaro verso il Fondo fuori bilancio gestito dalla Protezione civile regionale per l'emergenza terremoto del Centro Italia, considerato che la Corte dei conti - Sez. giurisdizionale regionale per il Friuli Venezia Giulia
[1] afferma (trattando, però, una fattispecie del tutto diversa da quella oggetto di quesito [2]) che «la beneficienza si fa con il denaro proprio e non con il denaro pubblico».
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, ricordare che l'attività di consulenza giuridico-amministrativa alla quale è preposto questo Ufficio è finalizzata a fornire un'illustrazione degli istituti giuridici nell'ambito dei quali sono riconducibili le specifiche fattispecie prospettate, fermo restando che compete all'amministrazione procedente determinarsi in ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
Un tanto premesso, si segnala che la Corte dei conti - Sez. regionale di controllo per la Campania
[3] rileva che, dalla consolidata e risalente giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di 'donazione' da parte di enti pubblici, si ricava un principio fondamentale: pur non esistendo un divieto o una norma che preveda l'incapacità a donare da parte degli enti pubblici, la donazione, in ogni caso, non può integrare una mera 'liberalità'.
Considerato che la Corte di cassazione afferma che gli enti pubblici, per i loro fini istituzionali, sono incapaci di porre in essere atti di donazione e di liberalità che non costituiscono mezzi per l'attuazione di detti fini, il giudice contabile osserva che la liberalità, anche quando teoricamente ammessa, lo è «soltanto in funzione dell'interesse pubblico con essa perseguito».
Detto altrimenti -prosegue la Corte dei conti- «la causa liberale, funzione per la quale un soggetto dell'ordinamento arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro soggetto, si presume incompatibile con la capacità giuridica riconosciuta agli enti pubblici, in particolare agli enti locali, salvo vi sia un'espressa autorizzazione di legge o una chiara compatibilità con gli scopi istituzionali».
La Corte dei conti rileva, conseguentemente, che la capacità giuridica degli enti pubblici va «ritagliata sugli scopi e sui limiti che la legge stabilisce in relazione alla loro esistenza e al loro agire», pena l'integrazione di abusi ed elusione di limiti di legge, comportanti ricadute sia sul piano della validità degli atti, sia su quello della responsabilità dei soggetti agenti.
Quanto ai predetti scopi e limiti, essi si rinvengono nell'art. 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n. 1, che (analogamente a quanto dispone l'art. 13, comma 1
[4], del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267) stabilisce che «Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali».
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[1] Sentenza 11.06.2014, n. 47.
[2] Utilizzo di fondi destinati ai gruppi consiliari del Consiglio regionale.
[3] Deliberazione 06.10.2014, n. 205.
[4] «Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze»
(07.11.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Quesito: Buongiorno, l'incentivo per la progettazione interna per il personale delle Pubbliche Amministrazioni, di cui all'art 113 del D.lgs. 50/2016 è ancora previsto? Ci sono "discordanze" nelle funzioni previste al comma 1 e 2 del citato articolo.
Risposta: L'incentivo alla progettazione previsto all'art. 92 del precedente Codice degli Appalti D.lgs. 163/2006 è stato definitivamente abolito con l'approvazione del nuovo Codice D.lgs. n. 50, entrato in vigore il 19 aprile scorso.
L'attuale art. 113, co. 1, elenca tutte le attività che sono poste in essere per la realizzazione di un opera e, in sintonia con il 163/2006, stabilisce che gli oneri fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Al comma 2 dello stesso articolo, invece, vengono elencate quelle "funzioni tecniche" svolte dai dipendenti pubblici (attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo del bando e dell'esecuzione dei contratti, di direzione lavori e di collaudo) che vengono remunerate, mantenendo l'impianto del 163/2006, attraverso un fondo che le amministrazioni pubbliche destinano nella misura massima del 2% sull'importo dei lavori posti a base di gara.
Appare evidente dalla lettura del testo che, diversamente da quanto previsto dalla precedente normativa all'art. 90, nel nuovo codice è scomparsa la progettazione interna.
Si conclude, segnalando che non sembrano esserci "discordanze" tra il comma 1 e il comma 2 dell'art. 113 oggetto dell'analisi almeno per quanto riguarda la questione della progettazione interna e la remunerazione ad essa assegnata (tratto dalla newsletter 04.11.2016 n. 168 di http://asmecomm.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori. Applicabilità art. 5, comma 9, d.l. 95/2012 convertito in l. 135/2012. Presidente di Consorzio tra enti locali e status di pensionato.
A seguito della novella operata dalla l. 124/2015, qualora si tratti di una carica in un organo di governo di ente pubblico, i soggetti in quiescenza possono essere nominati alla suddetta carica anche per una durata superiore a un anno, ferma restandone la gratuità.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di conferire, a titolo gratuito, la carica di Presidente di un Consorzio tra enti locali ad un lavoratore pubblico collocato in quiescenza, stante la vigenza delle norme previste dall'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014 e dall'art. 17, comma 3, della l. 124/2015.
Con successiva precisazione e integrazione l'Amministrazione istante ha posto la questione se la prescrizione imposta dalla normativa statale (cariche in organo di governo delle amministrazioni pubbliche a lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza purché a titolo gratuito) non si applichi agli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, che ha potestà primaria nell'ambito dell'indennità di carica degli amministratori locali.
La predetta disposizione statale, com'è noto, sancisce il divieto, per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 di attribuire, a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, incarichi di studio e di consulenza. Alle richiamate amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis
[1], del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 125/2013.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni sopra indicate sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
[2], l'art. 6 del d.l. 90/2014 ha introdotto nuove disposizioni in materia di incarichi a soggetti in quiescenza, volte ad evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per attribuire a soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle amministrazioni stesse.
Premesso un tanto, si osserva che il Consorzio di cui trattasi rientra nel novero delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, configurandosi quale consorzio tra enti locali
[3]. In linea generale, in ordine alla possibilità di conferire cariche in organi di governo (nella fattispecie, l'assunzione della carica di Presidente del Consorzio) a lavoratori collocati in quiescenza, si osserva che il legislatore ha assunto una posizione negativa e restrittiva, in virtù del divieto esplicitamente sancito dal richiamato articolo 6, comma 1, del d.l. 90/2014.
Una espressa deroga al suddetto divieto è contemplata nel medesimo articolo, laddove è ammesso il conferimento di cariche in organi di governo per i 'componenti delle giunte degli enti territoriali'. Si rappresenta, a tal proposito, che in tale locuzione non sembra possano ricomprendersi i consorzi tra enti locali.
Si rileva infatti che si considerano enti territoriali solo quelli per la cui esistenza il territorio è un elemento costitutivo essenziale, e non semplicemente l'ambito spaziale che ne delimita la sfera d'azione.
Come anticipato, la norma di cui si discute prevede un'eccezione e cioè che gli incarichi, le cariche e le collaborazioni oggetto del divieto possano essere attribuiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, la durata non può essere superiore a un anno, ferma la gratuità.
Con riferimento al caso di specie, si osserva che, a seguito della novella operata dalla l. 124/2015, qualora si tratti di una carica in un organo di governo di ente pubblico, i soggetti in quiescenza possono essere nominati alla suddetta carica anche per una durata superiore a un anno, ferma restandone la gratuità
[4].
Per quanto concerne l'ulteriore problematica sottoposta, si conferma l'applicabilità della norma in oggetto agli enti locali della nostra Regione. Si precisa infatti che le disposizioni statali in esame esulano dall'ambito della disciplina delle indennità di carica degli amministratori locali
[5], atteso che le stesse stabiliscono prescrizioni ostative della possibilità di conferire incarichi a soggetti collocati in quiescenza, ponendo la gratuità dell'incarico quale necessario presupposto per il superamento di tale preclusione.
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[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Cfr. art. 1 dello Statuto. In particolare, è un consorzio per la gestione associata di servizi non economici (persegue fini assistenziali) ex art. 31, comma 8 ed art. 2, comma 2, del d.lgs. 267/2000.
[4] Come chiarito con circolare n. 4/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione.
[5] In relazione al quale la Regione Friuli Venezia Giulia ha potestà legislativa primaria ai sensi dell'art. 4, comma 1-bis, dello Statuto e dell'art. 14 del d.lgs. 9/1997
(03.11.2016 -
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APPALTI SERVIZI: Quesito: Nell'affidamento del servizio raccolta RSU la pubblicazione del bando sulla piattaforma digitale dell'Anac è obbligatoria?
Risposta: L'art. 29 del D.lgs. n. 50/2016 recante "Principi di trasparenza" stabilisce al comma 1 "Tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture, nonché alle procedure per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione, di concorsi di idee e di concessioni, compresi quelli tra enti nell'ambito del settore pubblico di cui all'articolo 5, ove non considerati riservati ai sensi dell'articolo 53 ovvero secretati ai sensi dell'articolo 162, devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente" con l'applicazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33".
Al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell'articolo 120 del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali.
E' inoltre pubblicata la composizione della commissione giudicatrice e i curricula dei suoi componenti. Nella stessa sezione sono pubblicati anche i resoconti della gestione finanziaria dei contratti al termine della loro esecuzione.
Al comma 2 la stessa disposizione precisa inoltre che "Gli atti di cui al comma 1, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 53, sono, altresì, pubblicati sul sito del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sulla piattaforma digitale istituita presso l'ANAC, anche tramite i sistemi informatizzati regionali, di cui al comma 4, e le piattaforme regionali di e-procurement interconnesse tramite cooperazione applicativa".
Si ritiene pertanto dovuta la pubblicazione del bando di gara sulla piattaforma Anac (tratto dalla newsletter 28.10.2016 n. 167 di http://asmecomm.it).

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di parere in merito all'art. 3 della legge 124/2015 "Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi pubblici" (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 538538 di prot.).

APPALTI SERVIZI: Quesito: Nell'espletamento della gara per l'affidamento di servizi di igiene urbana, indetta attraverso la Centrale Asmel Consortile, è pervenuta una richiesta di chiarimento nella apposita sezione "forum" della piattaforma telematica, relativa al computo della cauzione provvisoria.
Posso accordare la richiesta di riduzione dell'importo calcolato sul 2% del base d'asta, a fronte del possesso della ditta del certificato ISO90001? A quali condizioni?

Risposta: L'art. 93 del D.Lgs. n. 50/2016 stabilisce che "l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia provvisoria" pari al 2 per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente".
Detto importo può essere ridotto nei casi elencati nel successivo comma 7. In particolare, è prevista una riduzione "del 50 per cento per gli operatori economici ai quali venga rilasciata, da organismi accreditati, ai sensi delle norme europee della serie UNI CEI EN 45000 e della serie UNI CEI EN ISO/IEC 17000, la certificazione del sistema di qualità conforme alle norme europee della serie UNI CEI ISO9000".
La disposizione continua poi elencando altri casi in cui è possibile cumulare uno "sconto" sulla importo della garanzia da versare.
Pertanto, laddove gli operatori concorrenti dimostrino concretamente il possesso della richiamata certificazione potranno beneficiare della riduzione della cauzione provvisoria (tratto dalla newsletter 13.10.2016 n. 165 di http://asmecomm.it).

LAVORI PUBBLICI: Quesito: Il comune dove svolgo l'attività di Rup ha deciso di indire una gara, in modalità telematica attraverso la piattaforma della Centrale Asmel Consortile, avente ad oggetto lavori di ristrutturazione, da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso.
Nella redazione del bando, posso inserire una clausola di esclusione automatica delle offerte anomale, laddove il numero delle stesse risulti inferiore a 10?

Risposta: L'art. 97 del nuovo Codice Appalti regola la disciplina delle offerte anormalmente basse. In particolare, al comma 8 l'articolo precisa che "per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi inferiori alle soglie di cui all'articolo 35, la stazione appaltante può prevedere nel bando l'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2. In tal caso non si applicano i commi 4, 5 e 6. Comunque la facoltà di esclusione automatica non è esercitabile quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci."
L'ultimo inciso risolve il dubbio!
La Stazione Appaltante deve obbligatoriamente valutare la congruità delle proposte collocate al di sopra della soglia di anomalia, cosi come individuata dal comma 2 della norma richiamata, senza possibilità di inserire una clausola che preveda illegittimamente l'esclusione automatica delle offerte anomale, se in numero inferiore a 10 (tratto dalla newsletter 06.10.2016 n. 164 di http://asmecomm.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Quesito: Sono stato nominato Rup per l'affidamento di un incarico di progettazione che il mio comune intende assegnare attraverso la piattaforma della Centrale Asmel Consortile.
Quali parametri devo adoperare per calcolare il compenso del progettista?

Risposta: Il nuovo decreto del ministero della Giustizia del 17.06.2016, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 174 dello scorso 27 luglio, fissa i parametri da adottare nella stima degli importi da porre a base delle gare di progettazione.
Invero, il nuovo Decreto-Parametri riprende il contenuto del precedente Dm n. 143 del 2013, adeguandolo però alle prescrizioni del vigente Codice Appalti.
L'art. 24, del d.lgs. n. 50/2016, in materia di progettazione esterna ed interna alle amministrazione aggiudicatrici, richiede al comma 8 che "il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, approva, con proprio decreto, da emanare entro e non oltre sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente codice, le tabelle dei corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle prestazioni e delle attività di cui al presente articolo e all'articolo 31, comma 8".
Tale obbligo è stato adempiuto con la pubblicazione del decreto contenente le tariffe professionali che, in ogni caso, è d'obbligo precisare, non sono vincolanti per le Stazioni Appaltanti.
Tale affermazione trova conferma nella stessa norma codicistica, nei termini in cui il Legislatore stabilisce che i "predetti corrispettivi possono essere utilizzati dalle stazioni appaltanti, ove motivatamente ritenuti adeguati quale criterio o base di riferimento ai fini dell'individuazione dell'importo dell'affidamento.
Ne consegue che il Decreto richiamato non introduce prescrizioni tassative, ma rappresenta un valido strumento per i Rup nella determinazione di un giusto compenso dell'attività prestata professionista in favore dell'Ente (tratto dalla newsletter 29.09.2016 n. 163 di http://asmecomm.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nel nuovo quadro normativo introdotto dal D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, il 2% dell’importo posto a base di gara non è più destinato alla remunerazione della fase della progettazione, bensì a beneficio delle fasi della programmazione della spesa per investimenti, della predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi, allo scopo di incentivare la realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con i costi previsti dal progetto.
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Alla luce del quadro normativo vigente e dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie,
la Sezione ritiene, pertanto, che tra le attività escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione rientrino tutti i lavori di manutenzione sia ordinaria che straordinaria
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1. Con nota n. 94 del 2016 il Consiglio delle Autonomie Locali della Sardegna ha trasmesso alla Sezione regionale di controllo la deliberazione n. 6 del 2016 con la quale rimette alla Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, la richiesta di parere del Commissario Straordinario della Provincia di Cagliari in merito alla possibilità di riconoscere incentivi per la progettazione, ai sensi dell’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. 163/2006, introdotto, in sede di conversione, dall’art. 13-bis della legge n. 114 del 2014, per lo svolgimento di attività di manutenzione straordinaria.
Il Commissario Straordinario della Provincia di Cagliari chiede, in particolare, se in base alla lettera dell’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. 163/2006, introdotto dall’art. 13-bis della legge n. 114 del 2014 ... tra le attività escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione rientrino, oltre ai lavori di manutenzione ordinaria, anche quelli di manutenzione straordinaria.
...
4. Si richiama brevemente il quadro normativo di riferimento. L’art. 13 del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. n. 114/2014, ha abrogato i commi 5 e 6 dell’art. 92.
Il successivo articolo 13-bis ha aggiunto, all’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, il comma 7-bis, che istituisce un apposito fondo per la progettazione e l’innovazione e demanda ad un regolamento dell’ente la determinazione della percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, ai sensi del successivi commi 7-ter e 7-quater, per l’80 per cento ai compensi incentivanti (da suddividere tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori) e per il 20 per cento all’acquisto, da parte dell’ente, di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo, nonché all’ammodernamento ed all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006 demanda al potere regolamentare di ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
5. La questione oggetto della richiesta di parere del Commissario Straordinario della Provincia di Cagliari è stata recentemente affrontata dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti con deliberazione 23.03.2016 n. 10, che, in sede di questione di massima, sollevata a seguito di contrasto interpretativo tra più Sezioni, ha enunciato il seguente principio di diritto: "la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria".
La Sezione delle Autonomie ha rilevato che "alla luce del quadro normativo di riferimento appare evidente come il legislatore, con le disposizioni di cui trattasi, sia intervenuto a modificare profondamente la disciplina degli incentivi alla progettazione, ridefinendone gli ambiti di operatività, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo. In riferimento al primo aspetto, è stato limitato l’ambito dei destinatari del nuovo fondo istituito dal citato art. 13-bis, confinandolo, innanzitutto, alle figure professionali espressamente individuate dalle norme ... e a vantaggio esclusivo dei soggetti che abbiano effettivamente svolto attività di progettazione non rientranti fra le competenze della qualifica funzionale ricoperta, al fine di riconoscere un differenziale retributivo connesso al maggior carico di lavoro e di responsabilità assunto dai dipendenti dei ruoli tecnici, per lo svolgimento di tali attività. Sotto il profilo oggettivo, nell’ottica del contenimento delle dinamiche retributive del personale, è stato ridotto del 50 per cento il tetto massimo riconoscibile a favore di ogni singolo dipendente, prima individuato nel trattamento economico annuo lordo".
La Sezione delle Autonomie ha sottolineato "come le disposizioni introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirino non solo ad una finalità di contenimento della spesa ma anche ad una sua razionalizzazione. In quest’ultima prospettiva si collocano, infatti, la finalizzazione del fondo non più alla mera incentivazione, bensì alla progettazione ed all’innovazione, con destinazione della quota del 20% alle dotazioni infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo. Alla medesima finalità appare diretta la previsione di una graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri collegati anche a tempi e costi previsti nel progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo alla riduzione delle risorse destinate al fondo. ... La disposizione vigente, con espressione inequivoca, esclude dagli incentivi alla progettazione l’attività di manutenzione, da intendersi, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 05.10.2010, n. 207, come combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative volte a mantenere o a riportare un’opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal progetto. Tale esclusione prescinde da eventuali differenziazioni fra manutenzione ordinaria e straordinaria".
La Sezione delle Autonomie ha osservato che “la chiara formulazione dell’art. 93, comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad altri criteri per così dire sussidiari, che finirebbero inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio). Disposizioni quelle in esame che escludono tout court la riconoscibilità dell’incentivo alla progettazione nei confronti di tutte le attività qualificabili come manutentive, senza differenziazioni di sorta ed a prescindere dalla progettazione, che, come è stato già precisato, risulta strettamente connessa alla realizzazione degli interventi di manutenzione straordinaria. Qualora, infatti, l’art. 93, comma 7-ter, avesse voluto circoscrivere la non remunerabilità alle sole prestazioni tecniche relative ad interventi di manutenzione ordinaria, peraltro già pacificamente ammessa in via pretoria, avrebbe dovuto espressamente disporre in tal senso (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit). Oltre a ciò deve osservarsi che, ove limitata ai soli interventi di manutenzione ordinaria, la novella introdotta dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 sarebbe risultata priva di concreta portata innovativa rispetto al regime antecedente, anche in termini di risparmio di spesa”.
6. La Sezione di controllo per la Sardegna evidenzia che, successivamente al deposito della citata pronuncia della Sezione delle Autonomie, è entrata in vigore, in data 19.04.2016, la disposizione di cui all’art. 113 del D.Lgs. 18/04/2016, n. 50 -“Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”– che prevede che: “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. ...
”.
Dalla lettura della norma emerge chiaramente che,
nel nuovo quadro normativo introdotto dal D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, il 2% dell’importo posto a base di gara non è più destinato alla remunerazione della fase della progettazione, bensì a beneficio delle fasi della programmazione della spesa per investimenti, della predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi, allo scopo di incentivare la realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con i costi previsti dal progetto.
7. Alla luce del quadro normativo vigente e dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie,
la Sezione ritiene, pertanto, che tra le attività escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione rientrino tutti i lavori di manutenzione sia ordinaria che straordinaria (Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna, parere 18.10.2016 n. 122).

APPALTI: La transazione non permette il debito fuori bilancio. Corte dei conti.
Il Comune chiamato al pagamento di un debito dopo aver chiuso una controversia con un accordo di «negoziazione assistita», evitando cioè di definire la questione nelle aule dei tribunali, non può far ricorso al debito fuori bilancio, ma deve ricorrere alla procedura ordinaria di spesa poiché la somma dovuta non rientra nelle tipologie di debito disciplinate dal Tuel (articolo 194) e perché l’evento è stato previsto dall’ente sia nei modi sia nei tempi.
A precisarlo è la Corte dei conti nel parere 05.09.2016 n. 164 della Sezione di controllo per la Sicilia, rispondendo a un Comune che chiedeva di considerare nella nozione più ampia di debito fuori bilancio anche il titolo esecutivo derivato dalla cosiddetta «convenzione di negoziazione» prevista in determinate materie dalla riforma del processo civile (articolo 3 del Dl 132/2014, convertito in legge 162/2014) –obbligatoria per il risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti e per il pagamento a qualsiasi titolo di somme purché fine a 50mila euro e per liti per cui non è prevista la «mediazione obbligatoria»-, così come riconosciuto in diversi casi di transazione dalla stessa giurisprudenza contabile, da quella della stessa sezione isolana (delibera 38/2014), a quelle del Piemonte (delibera 20/2015) e della Lombardia (delibera 396/2015).
La Corte ha spiegato che proprio questi stessi pareri, in particolare la delibera 396/2015 dei magistrati contabili lombardi, hanno affermato che in questi casi le uniche tipologie di debito ammissibili sono quelle definite dal legislatore nell’ordinamento sugli enti locali.
Come noto, nel caso in cui derivino da sentenze esecutive; dalla necessità di coprire il disavanzo di consorzi aziende speciali e istituzioni; dalla quella di ricapitalizzare società di capitali create dallo stesso ente locale per l’esercizio dei servizi pubblici locali; da procedure d’esproprio o di occupazione d’urgenza per opere di pubbliche utilità; per acquisire beni e servizi necessari ma non programmati nel bilancio di previsione né riconducibili a emergenze.
Nella delibera si è ribadito che proprio per la tassatività dei casi che legittimano il riconoscimento del debito fuori bilancio, che di fatto violano la regola di previsione di spesa e impegno contabile, si è ritenuto di non equiparare «gli accordi diretti a comporre una controversia» alle sentenze esecutive e in generale al concetto di «sopravvenienza passiva» richiamata dal Tuel perché «presuppongono la decisione dell’ente di pervenire a un accordo con la controparte, per cui è possibile prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento».
Secondo la Corte, questo principio non vale soltanto per gli accordi transattivi ma anche per quello che deriva dalla negoziazione assistita come nel caso in esame poiché questa procedura prevede che le parti, supportate dai rispettivi avvocati, si impegnino a cooperare in buona fede e con lealtà per chiudere la lite in via amichevole.
La tesi, secondo i magistrati contabili, è valida anche se per il legislatore questo patto «costituisce titolo esecutivo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale» (articolo 5, comma 1): questo infatti resta pur sempre «rimesso alla disponibilità delle parti che consensualmente decidono di comporre e regolare i rispettivi interessi senza rimettersi alla decisione di un terzo» e ha le stesse funzioni di un contratto di transazione che consente al debitore di valutarne la convenienza economica rispetto all’incertezza del giudizio e al contenzioso in ballo concordando i tempi e i modi per liquidare il debito, quindi di fatto di programmarne la spesa al contrario di quanto dettato dalla procedura per i debiti fuori bilancio
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2016).
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MASSIMA
Con la nota in epigrafe, il Sindaco del comune di Licata ha chiesto un parere relativo alla legittimità del riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194 del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, a fronte di un titolo esecutivo costituito dall’accordo che compone la controversia a seguito dell’espletamento della procedura di negoziazione assistita prevista dall’ art. 2 e seguenti del decreto legge 12.09.2014, n.132, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 10.11.2014, n. 162.
Il Sindaco ha premesso che la suddetta procedura di negoziazione assistita si inserisce nel più ampio quadro dei mezzi di risoluzione alternativa delle controversie, ossia degli strumenti atti a consentire una composizione stragiudiziale delle liti con finalità deflattive del contenzioso giudiziario: l’accordo raggiunto dalle parti, da ricondursi funzionalmente al contratto di transazione, determinando l’insorgere di un titolo esecutivo nei confronti dell’ente, ha posto il problema della possibilità o meno di considerare il debito dell’Ente quale sopravvenienza passiva rientrante nella più ampia nozione di “debito fuori bilancio”, il cui riconoscimento è disciplinato dall’art. 194 del Tuel, nei casi previsti dal comma 1, lett. a-b-c-d-e.
In tal senso il Sindaco del Comune di Licata ha citato la giurisprudenza della Corte dei conti formatasi sulla questione e, segnatamente, i pareri espressi dalla Sezione di controllo per la Regione siciliana (delibera n. 38/2014/PAR), della Sezione regionale di controllo del Piemonte (delibera n. 20/2015/PAR), dalla Sezione regionale di controllo della Lombardia (n. 396/2015/PAR).
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Nel merito, la Sezione rileva che la tematica oggetto della richiesta di parere è stata già diffusamente affrontata da altre Sezioni di controllo della Corte dei conti, né vi sono ragioni per discostarsi dall’indirizzo interpretativo delineato dalle deliberazioni sopracitate.
In particolare, la Sezione di controllo per la Lombardia, con la deliberazione n. 396 del 28 ottobre 2015, dopo aver precisato che i debiti fuori bilancio costituiscono obbligazioni pecuniarie assunte in violazione dei principi contabili e delle disposizioni di legge che regolano i procedimenti di spesa negli enti locali, sorte in assenza di specifica previsione di spesa e del conseguente impegno contabile, le quali si manifestano come sopravvenienze passive che l’ente -al ricorrere di determinati presupposti- è tenuto a “riconoscere” nel proprio bilancio, ha ribadito la tassatività delle tipologie di debiti fuori bilancio previste dall’art. 194 del TUEL, imputabili all’ente mediante apposita deliberazione consiliare, articolate delle seguenti fattispecie:
a) sentenze esecutive;
b) coperture di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni;
c) ricapitalizzazione di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente.
La giurisprudenza contabile ha più volte affermato il carattere tassativo della predetta elencazione, escludendo, in particolare, che gli accordi diretti a comporre una controversia potessero essere assimilati alle sentenze esecutive, ai fini del riconoscimento di un debito fuori bilancio.
Si è evidenziato, al riguardo, che “l’accordo transattivo non può essere ricondotto al concetto di sopravvenienza passiva e dunque alla nozione di debito fuori bilancio sottesa alla disciplina in questione. Gli accordi transattivi, infatti, presuppongono la decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con la controparte, per cui è possibile prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento. Pertanto con riferimento agli accordi transattivi l’Ente può attivare le ordinarie procedure contabili di spesa, rapportando ad esse l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli accordi stessi” (Cfr. Corte Conti, Sezione Piemonte, delibere n. 383 del 2013 e n. 20 del 2015, Sezione Calabria, delibera n. 406 del 03.08.2011).
Le medesime argomentazioni possono essere sostenute anche riguardo all’accordo concluso a seguito di una procedura di negoziazione assistita, introdotta dal decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla legge 10 novembre 2014, n. 162.
L’art. 3, del decreto legge sopra citato, subordina la procedibilità della domanda giudiziale in determinate materie al previo esperimento della predetta procedura, consistente nell’invito rivolto all’altra parte di stipulare una convenzione di negoziazione assistita.
Quest’ultima, come espressamente affermato dal precedente art. 2, comma 1, del medesimo decreto legge, consiste in un accordo con il quale le parti si impegnano a cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati.
La cooperazione concordata per effetto della predetta convenzione può, pertanto, portare alla conclusione di un accordo che compone la controversia fra le parti e a cui l’art. 5, comma 1, del decreto legge citato attribuisce l’efficacia di titolo esecutivo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.
Tale accordo, in quanto rimesso alla disponibilità delle parti che consensualmente decidono di comporre e regolare i rispettivi interessi senza rimettersi alla decisione di un terzo, può essere ricondotto funzionalmente al contratto di transazione che, qualora abbia buon esito, consente al debitore di concordare (e quindi di prevedere) i tempi e i modi della prestazione dovuta allo stesso modo della transazione, rimanendo pertanto escluso il carattere di sopravvenienza passiva che legittima il riconoscimento del debito fuori bilancio.
Questa Sezione ritiene di poter affermare -in linea con la giurisprudenza della Corte formatasi in proposito- che l’accordo concluso a seguito di negoziazione assistita, al pari di ogni altro accordo transattivo, non essendo riconducibile alle ipotesi tassative di cui all’art. 194 del TUEL non può costituire il titolo per il riconoscimento di un debito fuori bilancio, con la conseguenza che gli oneri scaturenti dallo stesso, nella misura in cui siano prevedibili e determinabili dal debitore, devono essere contabilizzati secondo le ordinarie procedure di spesa.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, mobilità pigliatutto. Tutto il budget assunzionale per assorbire gli esuberi. La tesi della Corte conti e la lettura restrittiva di palazzo Vidoni creano ansia negli enti.
I comuni avrebbero dovuto destinare l'intero budget assunzionale 2015 e 2016 all'assorbimento dei lavoratori in esubero delle province (e della Croce Rossa) e non solamente un parte di esso.

Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti Puglia, ma è del tutto intempestivo, visto che i giochi sono ormai quasi ovunque chiusi. E la forzatura della Funzione pubblica, che considera ancora congelate le risorse inserite nella piattaforma anche nelle regioni in cui si è completata la ricollocazione, rischia di creare inaccettabili disparità di trattamento. Ma l'Anci tranquillizza: il problema dovrebbe risolversi nel giro di qualche settimana.
Tutto nasce dalla legge Delrio, per molti versi rivelatasi un fiasco, specie se non dovesse passare il referendum costituzionale. Essa ha messo a dieta le province, sottraendo loro funzioni e relativo personale. I lavoratori in eccedenza non collocabili a riposo sono stati destinati a comuni e regioni, che a tal fine si sono visti imporre un blocco alle altre nuove assunzioni, fatta eccezione per i soli vincitori di concorso. Più precisamente, a essere vincolate sono state le capacità assunzionali 2015 e 2016, derivanti dalle cessazioni 2014 e 2015.
Il dubbio era se tale capacità dovesse essere automaticamente e integralmente destinata alla ricollocazione del personale dichiarato soprannumerario, oppure se dovesse esserlo nei limiti delle risorse che ciascun ente, nella propria autonomia, avesse stabilito di destinare alle assunzioni, come rilevabili dalla programmazione triennale del fabbisogno di personale: in questo secondo caso, se l'ente non aveva programmato assunzioni, non sarebbe stato tenuto ad assorbire nel proprio organico nessuna nuova unità.
La sezione regionale di controllo pugliese, nel recente parere 28.07.2016 n. 142 ha sposato la prima tesi. Peccato che, come detto, nel frattempo i buoi siano già usciti tutti dalla stalla. La realtà è che molti comuni si sono furbescamente rifatti alla seconda lettura e oggi si trovano ad avere ancora dei margini per assumere.
Per le altre amministrazioni, invece, al danno si è aggiunta la beffa. Secondo la Funzione pubblica, infatti, anche nelle regioni in cui il blocco è stato o verrà rimosso a seguito del completamento per percorso di ricollocazione, le disponibilità già inserite nel portale continuano a essere congelate.
Ciò pare, tuttavia, in aperto contrasto con la normativa, specie dopo che il comma 234 della legge di stabilità 2016 (legge 208/2015) ha espressamente previsto il ripristino delle ordinarie capacità assunzionali «nel momento in cui nel corrispondente ambito regionale è stato ricollocato il personale interessato» dalla mobilità. La lettura ministeriale pare, dunque, priva di fondamento e foriera di disparità di trattamento, finendo per penalizzare proprio chi è stato più ligio.
Ma dall'Anci arriva un messaggio rassicurante: quello della Funzione pubblica è un atteggiamento di prudenza, visto che è stato autorizzato lo sblocco anche in alcune regioni in cui ancora ci sono poche unità di personale non ricollocate. Per cui l'indicazione è di dare per buono lo sblocco del turnover, che dovrebbe essere confermato nelle prossime settimane (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità verso gli enti non è finanziariamente neutra.
La mobilità dei dipendenti pubblici verso gli enti locali non può più considerarsi neutra sul piano finanziario e va computata ai fini del saldo di finanza pubblica.

Il dl 113/2016, convertito nella legge 160/2016 come noto sblocca le mobilità dei dipendenti degli enti locali nelle regioni nelle quali sia stato ricollocato il 90% per cento del personale soprannumerario delle province.
Il quesito che si pongono molti comuni è se la mobilità venga ripristinata secondo gli abituali criteri di natura finanziaria e se, dunque, incida o meno sulle risorse disponibili per le assunzioni, che all'ingrosso sono il 25% del costo delle cessazioni dell'anno 2015 (ma è il 100% per gli enti con un rapporto spesa di personale/spese correnti migliore del 25), o il 75% per i comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, oltre ai resti assunzionali del triennio 2012-2014, per la parte del 2014 non già utilizzata per la ricollocazione del personale soprannumerario.
Laddove la mobilità venisse considerata ancora «neutra» sul piano finanziario, le mobilità non consumerebbero le risorse assunzionali. In caso contrario, si ribalterebbe in maniera radicale il sistema.
Sul punto, la Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Lombardia con il parere 27.04.2016 n. 127 si è pronunciata in senso contrario, ritenendo che l'assunzione conseguente alla procedura di mobilità incida sul budget assunzionale. È da specificare che la sezione Lombardia si era pronunciata prima dello sblocco delle mobilità operata dalla legge di conversione del decreto enti locali, in piena vigenza, quindi, del congelamento disposto dalla legge 190/2014.
Tuttavia, una serie di disposizioni normative degli ultimi tempi, non coordinate tra loro ma tutte convergenti verso un'unica indicazione, portano a ritenere che non vi sia più spazio per la neutralità delle assunzioni.
In particolare, si tratta delle disposizioni che modificano il patto di stabilità, abbandonato nel 2016 per passare all'equilibrio di bilancio garantito dal saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali.
Nella logica del vecchio patto di stabilità a competenza mista, che mischiava spese correnti a pagamenti in conto capitale, aveva un senso considerare neutre, cioè non incidenti sui flussi, le mobilità, considerando che esse non incidono sulla spesa pubblica complessiva: esse, infatti, comportano lo spostamento della spesa relativa al trattamento economico del dipendente trasferito dall'ente di provenienza a quello di destinazione.
Nel momento in cui, però, le spese finali concorrono a garantire l'equilibrio con le entrate finali, poiché all'acquisizione di personale in mobilità corrisponde comunque un incremento della spesa corrente per l'ente destinatario, risulta difficile considerare la mobilità non influente sul piano finanziario, così da essere «neutra».
E cadono anche le ragioni dell'equivoco che da anni, sul piano della qualificazione delle mobilità come «neutre» sul piano finanziario, hanno fatto considerare alla giurisprudenza contabile ed anche amministrativa che dette mobilità non siano assunzioni. Una teoria, questa, in ogni caso da rigettare: la mobilità è solo un procedimento di reclutamento diverso dal concorso pubblico finalizzato all'assunzione dall'esterno dei ruoli della p.a., perché implica il passaggio diretto di un dipendente da un ente all'altro.
Ma, l'ente ricevente costituisce necessariamente col dipendente passato un nuovo rapporto di lavoro, mediante la stipulazione del contratto di lavoro individuale o il suo semplice adattamento alla nuova realtà lavorativa (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: L’Adunanza plenaria pronuncia in tema di contratto di avvalimento nelle gare pubbliche.
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Contratti della P.A. - Avvalimento - Contratto di avvalimento - Contenuto - Artt. 49, d.lgs. n. 163 del 2006 e 88, d.P.R. n. 207 del 2010 - In relazione all'art. 47, par. 2, Direttiva 2004/19/CE - Individuazione.
L’art. 49, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e l’art. 88, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, in relazione all’art. 47, par. 2 della Direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento in ipotesi in cui una parte dell’oggetto del contratto di avvalimento, pur non essendo puntualmente determinata fosse tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò anche in applicazione degli artt. 1346, 1363 e 1367 cod. civ..
In siffatte ipotesi, neppure sussistono i presupposti per fare applicazione della teorica c.d. del ‘requisito della forma/contenuto’, non venendo in rilievo l’esigenza (tipica dell’enucleazione di tale figura) di assicurare una particolare tutela al contraente debole attraverso l’individuazione di una specifica forma di ‘nullità di protezione’
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 04.11.2016 n. 23 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa conferenza di servizi, rappresentando un modulo procedimentale di semplificazione, consente la valutazione complessiva e sincronica degli interessi pubblici coinvolti sia da parte dell’amministrazione procedente (portatrice del cd. interesse pubblico primario), sia da parte delle altre amministrazioni pubbliche coinvolte (portatrici dei cd. interessi pubblici secondari).
La conferenza di servizi, dunque, non costituisce solo un “momento” di semplificazione dell’azione amministrativa (come indicato dalla rubrica del Capo IV della legge n. 241/1990, nel cui ambito sono previsti gli artt. da 14 a 14-quinquies ad essa dedicati), ma anche e soprattutto un momento di migliore esercizio del potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione, attraverso una più completa e approfondita valutazione degli interessi pubblici (e privati) coinvolti, a tal fine giovandosi dell’esame dialogico e sincronico degli stessi.
In altre parole, la valutazione tipica dell’esercizio del potere discrezionale (e la scelta concreta ad essa conseguente) si giova proprio dell’esame approfondito e contestuale degli interessi pubblici, di modo che la stessa, ove avvenga in difetto di tutti gli apporti normativamente previsti, risulta illegittima perché viziata da eccesso di potere per difetto di istruttoria, che si riverbera sulla completezza ed esaustività della motivazione.

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3. La sentenza oggetto del presente ricorso ha rilevato:
- per un verso (respingendosi un primo ordine di censure dell’appellante ED.), che, ai fini della V.INC.A. (valutazione di incidenza ambientale), obbligatoria nel caso di specie, ai sensi dell’art. 5 DPR n. 357/1997 e dell’art. 4, co. 4, l.reg. Puglia n. 11/2001 “non risulta sia stato acquisito né il parere della Soprintendenza né quello dell’Ufficio parchi, ossia dell’ente gestore del S.I.C.”, non potendosi peraltro “postulare l’invocato assorbimento nel provvedimento di V.INC.A. di valutazioni che non sono state espresse nel relativo subprocedimento” (pag. 11);
- per altro verso (in accoglimento di un secondo ordine di censure dell’appellante ED.), che “è incontestato e inconfutabile che i parerei sono stati acquisiti al di fuori della conferenza di servizi”, della cui convocazione la stessa richiesta di parere rivolta alla Soprintendenza faceva espressa riserva, nel caso in cui non fossero superati i rilievi in ordine ai tralicci di sostegno della linea 380 kw. (pag. 11).
Da tale ultima osservazione, e dunque dal rilievo che “i due pareri avrebbero dovuto essere acquisiti nella sede procedimentale tipica di valutazione” (pag. 12), la sentenza conclude riconoscendo la fondatezza della censura dell’appellante, “relativa all’omessa riconvocazione della conferenza di servizi, oggetto di espressa riserva nella nota dirigenziale, con ciò dunque manifestando la consapevolezza dell’esigenza di ricondurre eventuali problematiche ostative al rilascio all’autorizzazione unica al luogo procedimentale tipizzato e ineludibile” (pag. 12).
4. Da ciò consegue che “l’esame dei profili di criticità espressi dai due pareri” va ricondotto “nell’alveo della riconvocando conferenza di servizi”, di modo che gli stessi possano essere “assoggettati a più puntuale e dialogico esame” (pag. 13), e, in conclusione, che va disposta “la rinnovazione del procedimento e la riconvocazione della conferenza di servizi” (pag. 13).
In definitiva, l’accoglimento del ricorso instaurativo del giudizio di I grado (per effetto della riforma della sentenza impugnata conseguente all’accoglimento dell’appello), e, dunque, l’annullamento del diniego di autorizzazione unica è avvenuto per ragioni “procedimentali”, e precisamente per il difetto di acquisizione dei pareri sopramenzionati nella sede tipica e legittima della conferenza di servizi.
E ciò in quanto la conferenza di servizi, rappresentando un modulo procedimentale di semplificazione, consente la valutazione complessiva e sincronica degli interessi pubblici coinvolti sia da parte dell’amministrazione procedente (portatrice del cd. interesse pubblico primario), sia da parte delle altre amministrazioni pubbliche coinvolte (portatrici dei cd. interessi pubblici secondari).
La conferenza di servizi, dunque, non costituisce solo un “momento” di semplificazione dell’azione amministrativa (come indicato dalla rubrica del Capo IV della legge n. 241/1990, nel cui ambito sono previsti gli artt. da 14 a 14-quinquies ad essa dedicati), ma anche e soprattutto un momento di migliore esercizio del potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione, attraverso una più completa e approfondita valutazione degli interessi pubblici (e privati) coinvolti, a tal fine giovandosi dell’esame dialogico e sincronico degli stessi.
In altre parole, la valutazione tipica dell’esercizio del potere discrezionale (e la scelta concreta ad essa conseguente) si giova proprio dell’esame approfondito e contestuale degli interessi pubblici, di modo che la stessa, ove avvenga in difetto di tutti gli apporti normativamente previsti, risulta illegittima perché viziata da eccesso di potere per difetto di istruttoria, che si riverbera sulla completezza ed esaustività della motivazione.
Proprio in coerenza con queste valutazioni (come si evince dai passi riportati), la sentenza ha riconosciuto l’illegittimità dell’atto impugnato con il ricorso instaurativo del giudizio di I grado.
Ma, al contempo, sono proprio queste le ragioni che –una volta riconvocata la conferenza di servizi– rendono non solo legittima, ma indispensabile, una valutazione nuova e complessiva di quanto oggetto della conferenza medesima.
D’altra parte, se le amministrazioni il cui parere è stato acquisito successivamente alla conferenza, fossero tenute meramente a “replicare” detto parere in una conferenza solo a tal fine convocata, escludendosi la possibilità di un esame rinnovato delle problematiche dedotte in conferenza, ne conseguirebbe la sostanziale inutilità dello stesso rilievo del vizio procedimentale, prospettandosi, all’esito, una mera replica di quanto già (sia pure irritualmente) espresso.
Alla luce di quanto esposto, non può convenirsi con la ricorrente, laddove essa censura che –a fronte del giudicato- l’amministrazione regionale procedente “ha nuovamente convocato la conferenza di servizi sollecitando tutti gli enti convocati all’espressione dei pareri di competenza sul progetto nella sua interezza, in tal modo consentendo l’ingresso nel procedimento di apporti istruttori già acquisiti o comunque l’illegittimo esame degli stessi”.
Come si è detto, il giudicato formatosi attiene solo all’obbligo di rinnovare il procedimento, a partire dalla riconvocazione della conferenza di servizi, senza alcun vincolo o limitazione all’esame degli atti ed alle valutazioni da esprimersi in tale ambito (sulla esatta individuazione del bene della vita assicurato da un giudicato procedimentale e sui vincoli per la successiva azione amministrativa, si vedano, in senso conforme, le conclusioni cui è pervenuta Ad. plen. n. 11 del 2016) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.11.2016 n. 4601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Linee guida ANAC “indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c) del codice (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 03.11.02016 n. 2286).

INCARICHI PROGETTUALI: Schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti recante “definizione dei requisiti che devono possedere gli operatori economici per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria e individuazione dei criteri per garantire la presenza di giovani professionisti, in forma singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di progettazione, concorsi di progettazione e di idee, ai sensi dell’art. 24, commi 2 e 5, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 03.11.02016 n. 2285).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Linee guida dell’ANAC relative alle procedure negoziate senza pubblicazione di un bando di gara nel caso di forniture e servizi ritenuti infungibili (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 03.11.02016 n. 2284).

LAVORI PUBBLICI: Schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di approvazione delle linee guida recanti "Il Direttore dei lavori: modalità di svolgimento delle funzioni di direzione e controllo tecnico, contabile e amministrativo dell'esecuzione del contratto" e "Il Direttore dell'Esecuzione: modalità di svolgimento delle funzioni di coordinamento, direzione e controllo tecnico-contabile dell'esecuzione del contratto" (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 03.11.02016 n. 2282).

EDILIZIA PRIVATALa circostanza che l’Amministrazione comunale non si sia mai avveduta, nei plurimi atti emessi con riguardo all’immobile di cui si discute e nei quarantatre anni decorsi dalla sua costruzione, dell’abusività del medesimo non vale per sé sola a rendere illegittimo il provvedimento sanzionatorio qui gravato.
Invero, costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato quello per cui «anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive costituisce atto dovuto, non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore, poiché il potere di ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile».
In definitiva, il lungo lasso di tempo intercorso e l’esistenza di atti dell’Amministrazione che implicitamente presupponevano la legittimità dell’edificazione di per sé non sono preclusivi dell’esercizio da parte del Comune del potere sanzionatorio.

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Quanto al terzo motivo di impugnazione, con cui si lamenta il superamento del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, in quanto avviato nel luglio 2015 e portato a termine nel gennaio 2016, va osservato che, in assenza di una norma che qualifichi espressamente come perentorio detto termine, ad esso va attribuita funzione meramente acceleratoria.
Tanto più che tale conclusione è coerente con l’affermata imprescrittibilità del potere di repressione degli illeciti edilizi, in quanto finalizzato alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio.
Ne consegue che il suo superamento non determina la consumazione del potere, e non comporta l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato, ma solo consente l’attivazione dei rimedi contro l’inerzia dell’Amministrazione.
Nemmeno assurge a causa di illegittimità la prospettata attivazione del procedimento sanzionatorio al solo scopo di paralizzare la richiesta risarcitoria avanzata dal ricorrente nei confronti del Comune in altro giudizio, come dimostrerebbe la scelta di adottare l’ordine di demolizione qui impugnato proprio a ridosso dell’udienza di discussione di detta altra causa.
Invero, trattandosi di atto vincolato, il provvedimento sanzionatorio non può essere viziato da eccesso di potere, in particolare per sviamento.
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L’Amministrazione comunale, prima di ordinare la demolizione del fabbricato, avrebbe dovuto spiegare perché ha ritenuto di non applicare la sanzione pecuniaria alternativa ex articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n. 19/2009.
E tale obbligo di motivazione è, nel caso di specie, particolarmente incisivo, tenuto conto che la sanzione dell’abuso interviene a quarantatre anni di distanza dalla sua commissione, e tenuto altresì conto che la violazione contestata è stata qualificata come variazione essenziale solamente a partire dalla entrata in vigore dell’articolo 8 L. n. 47/1985, ovverosia successivamente alla realizzazione del fabbricato medesimo.
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Invero, sottoposta al vaglio di legittimità di questo Tribunale è l’ordinanza-ingiunzione n. 1/2016 del 20.01.2016 con la quale il Comune di Pinzano al Tagliamento ha ordinato al signor Gi.De.Ba. la demolizione del fabbricato costruito sul mappale n. 257 del Foglio 13, in quanto realizzato con ubicazione e orientamento diversi da quelli a suo tempo assentiti.
Sono infondati i primi tre motivi di impugnazione, salvo quanto si dirà con riferimento al quarto motivo di impugnazione.
Quanto al primo e al secondo motivo, la circostanza che l’Amministrazione non si sia mai avveduta, nei plurimi atti emessi con riguardo all’immobile di cui si discute e nei quarantatre anni decorsi dalla sua costruzione, dell’abusività del medesimo non vale per sé sola a rendere illegittimo il provvedimento sanzionatorio qui gravato.
Dalla documentazione versata in atti emerge che in data 14.04.1973 era stata autorizzata l’edificazione di un fabbricato ad uso ricovero per bestiame sul mappale 87 del foglio 13 con il lato lungo con orientamento lungo la direttrice nord-sud, emerge altresì detto fabbricato è stato realizzato sul mappale 85 (da cui origina l’attuale mappale 257) e con il lato lungo ruotato lungo la direttrice est-ovest. Il manufatto risulta, dunque, non conforme al titolo abilitativo.
Ora l’allegazione di parte ricorrente, che successivamente sia stata approvata una variante al titolo edilizio che abilitava le modifiche poi effettuate e di cui probabilmente si è persa traccia in conseguenza degli eventi sismici del 1976, così da spiegare perché mai in precedenza si sia contestato alcuna irregolarità, rimane allo stato una congettura priva di riscontro.
Parimenti, la circostanza che in precedenza l’Amministrazione comunale non abbia rilevato alcuna irregolarità non vale a superare, men che mai per fatti concludenti, la difformità del fabbricato a uso stalla dal titolo edilizio.
D’altro canto, costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato, e al quale questo Collegio senz’altro aderisce, quello per cui «anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive costituisce atto dovuto, non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore, poiché il potere di ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile» (così, testualmente, C.d.S, Sez. V, sentenza n. 3435/2016).
In definitiva, il lungo lasso di tempo intercorso e l’esistenza di atti dell’Amministrazione che implicitamente presupponevano la legittimità dell’edificazione di per sé non sono preclusivi dell’esercizio da parte del Comune del potere sanzionatorio.
Quanto al terzo motivo di impugnazione, con cui si lamenta il superamento del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, in quanto avviato nel luglio 2015 e portato a termine nel gennaio 2016, va osservato che, in assenza di una norma che qualifichi espressamente come perentorio detto termine, ad esso va attribuita funzione meramente acceleratoria.
Tanto più che tale conclusione è coerente con l’affermata imprescrittibilità del potere di repressione degli illeciti edilizi, in quanto finalizzato alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. IV, sentenza n. 1823/2016).
Ne consegue che il suo superamento non determina la consumazione del potere, e non comporta l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato, ma solo consente l’attivazione dei rimedi contro l’inerzia dell’Amministrazione (cfr., TAR Abruzzo–Pescara, sentenza n. 160/2016; TAR Molise, sentenza n. 449/2015).
Nemmeno assurge a causa di illegittimità la prospettata attivazione del procedimento sanzionatorio al solo scopo di paralizzare la richiesta risarcitoria avanzata dal ricorrente nei confronti del Comune in altro giudizio (segnatamente, quello iscritto al n. 459/2011 di R.G.), come dimostrerebbe la scelta di adottare l’ordine di demolizione qui impugnato proprio a ridosso dell’udienza di discussione di detta altra causa.
Invero, trattandosi di atto vincolato, il provvedimento sanzionatorio non può essere viziato da eccesso di potere, in particolare per sviamento (cfr., TAR Sardegna, Sez. II, sentenza n. 398/2016; TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, sentenza n. 1397/2016).
  E’ di contro fondato il quarto motivo di impugnazione.
Stabilisce, infatti, l’articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n. 19/2009 che in caso di intervento edilizio realizzato in assenza di permesso di costruire, in difformità da esso o con variazioni essenziali l’Autorità può applicare la sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria quando ricorra anche una sola delle seguenti condizioni:
   a) che l’intervento risalga a prima della L. n. 765/1967 ovvero sia stato eseguito in conseguenza di calamità naturali per le quali è stato dichiarato lo stato di emergenza;
   b) che gli immobili siano conformi alla disciplina urbanistica vigente o a quella vigente al momento dell’intervento edilizio e poi non siano più stati modificati;
   c) che gli immobili siano in possesso del certificato di abitabilità o agibilità ovvero siano in regola, nello stato di fatto in cui si trovano all’atto dell’accertamento, con le leggi di settore applicabili, nonché con gli obblighi di natura fiscale e tributaria.
Ora risulta per tabulas che la costruzione del fabbricato a uso ricovero animali sia stato a suo tempo assentito perché conforme alla disciplina urbanistica allora vigente e non risulta che il mappale sul quale è stato realizzato il fabbricato avesse una diversa qualificazione, né risulta che nelle more sia stato sottoposto a modifiche. Sicché paiono integrati i presupposti di cui alla su richiamata lettera b) del comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Né, d’altro canto, la difesa del Comune, per contrastare la domanda risarcitoria formulata dal ricorrente, ha sostenuto che l’attuale disciplina urbanistica non consenta di realizzare esattamente ove ora si trova un fabbricato analogo a quello per cui è causa. Sicché anche per questa via risulta soddisfatta la condizione posta dalla precitata lettera b).
Il che di per sé è sufficiente per poter applicare nel caso in esame la sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, ponendosi come alternative le ipotesi enucleate al comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Nondimeno, poiché la questione è oggetto di specifica censura da parte del ricorrente, va osservato come nella fattispecie concreta risulti integrata pure l’ipotesi sub lettera c) del comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Il ricorrente non nega di non aver mai richiesto il rilascio del certificato di abitabilità per l’immobile de quo. E, tuttavia, il Collegio concorda che quando esso venne costruito non vi fosse un obbligo di verifica di salubrità dei locali.
Vero è, infatti, che all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i locali, quale quello di cui qui si discute, destinati al ricovero di animali. Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi o per quelli che subiscono delle modifiche tali da giustificare una verifica delle relative condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato.
Ne consegue, in primo luogo, che risulta inutilizzabile l’argomento della mancata richiesta da parte dell’interessato di rilascio del certificato di abitabilità/agibilità, portato dal Comune a sostegno del provvedimento sanzionatorio adottato; e, in secondo luogo, che la circostanza non è di per sé ostativa all’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa.
In conclusione l’Amministrazione comunale, prima di ordinare la demolizione del fabbricato, avrebbe dovuto spiegare perché ha ritenuto di non applicare la sanzione pecuniaria alternativa ex articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n. 19/2009.
E tale obbligo di motivazione è, nel caso di specie, particolarmente incisivo, tenuto conto che la sanzione dell’abuso interviene a quarantatre anni di distanza dalla sua commissione, e tenuto altresì conto che la violazione contestata è stata qualificata come variazione essenziale solamente a partire dalla entrata in vigore dell’articolo 8 L. n. 47/1985, ovverosia successivamente alla realizzazione del fabbricato medesimo (cfr., C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 2512/2015).
L’ordinanza-ingiunzione di demolizione impugnata viene, pertanto, annullata, per difetto di motivazione su tale specifico punto.
Non spetta, tuttavia, a questo Giudice stabilire, così come pretende il ricorrente, l’ammontare della sanzione pecuniaria alternativa, ostandovi il divieto di cui all’articolo 34, comma 2, Cod. proc. amm., di pronuncia su poteri dell’Amministrazione non ancora esercitati.
Peraltro, l’accoglimento del quarto motivo di ricorso, determina il non esame della domanda risarcitoria formulata dal ricorrente con il quinto motivo, per il caso in cui, in esecuzione del provvedimento gravato, egli fosse stato costretto a demolire il fabbricato in discussione per poi ricostruirlo identico  (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 03.11.2016 n. 497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: All'epoca di costruzione del manufatto operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i locali, quale quello di cui qui si discute, destinati al ricovero di animali.
Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi o per quelli che subiscono delle modifiche tali da giustificare una verifica delle relative condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato.
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E’ di contro fondato il quarto motivo di impugnazione.
Stabilisce, infatti, l’articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n. 19/2009 che in caso di intervento edilizio realizzato in assenza di permesso di costruire, in difformità da esso o con variazioni essenziali l’Autorità può applicare la sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria quando ricorra anche una sola delle seguenti condizioni:
   a) che l’intervento risalga a prima della L. n. 765/1967 ovvero sia stato eseguito in conseguenza di calamità naturali per le quali è stato dichiarato lo stato di emergenza;
   b) che gli immobili siano conformi alla disciplina urbanistica vigente o a quella vigente al momento dell’intervento edilizio e poi non siano più stati modificati;
   c) che gli immobili siano in possesso del certificato di abitabilità o agibilità ovvero siano in regola, nello stato di fatto in cui si trovano all’atto dell’accertamento, con le leggi di settore applicabili, nonché con gli obblighi di natura fiscale e tributaria.
Ora risulta per tabulas che la costruzione del fabbricato a uso ricovero animali sia stato a suo tempo assentito perché conforme alla disciplina urbanistica allora vigente e non risulta che il mappale sul quale è stato realizzato il fabbricato avesse una diversa qualificazione, né risulta che nelle more sia stato sottoposto a modifiche. Sicché paiono integrati i presupposti di cui alla surrichiamata lettera b) del comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Né, d’altro canto, la difesa del Comune, per contrastare la domanda risarcitoria formulata dal ricorrente, ha sostenuto che l’attuale disciplina urbanistica non consenta di realizzare esattamente ove ora si trova un fabbricato analogo a quello per cui è causa. Sicché anche per questa via risulta soddisfatta la condizione posta dalla precitata lettera b).
Il che di per sé è sufficiente per poter applicare nel caso in esame la sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, ponendosi come alternative le ipotesi enucleate al comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Nondimeno, poiché la questione è oggetto di specifica censura da parte del ricorrente, va osservato come nella fattispecie concreta risulti integrata pure l’ipotesi sub lettera c) del comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Il ricorrente non nega di non aver mai richiesto il rilascio del certificato di abitabilità per l’immobile de quo. E, tuttavia, il Collegio concorda che quando esso venne costruito non vi fosse un obbligo di verifica di salubrità dei locali.
Vero è, infatti, che all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i locali, quale quello di cui qui si discute, destinati al ricovero di animali. Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi o per quelli che subiscono delle modifiche tali da giustificare una verifica delle relative condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 03.11.2016 n. 497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICostituisce approdo oramai consolidato della giurisprudenza la sussunzione della responsabilità della pubblica Amministrazione per atto amministrativo illegittimo nel paradigma della responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 Cod. civ., con il conseguente assoggettamento della tutela risarcitoria al corrispondente regime civilistico.
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Quanto al termine di proposizione dell’azione, nel caso di specie, essendo l’atto generatore del danno (i.e. l’atto amministrativo illegittimo) e l’introduzione del relativo giudizio caducatorio anteriori all’entrata in vigore del nuovo Codice di rito, l’azione di risarcimento del danno, ancorché proposta ai sensi del D.Lgs. n. 104/2010, non è assoggettata al termine decadenziale di 120 giorni ma a quello di prescrizione di 5 anni.
Con il superamento della teoria della pregiudiziale amministrativa, non risultando più necessario l’annullamento dell’atto presupposto per ottenere il risarcimento del danno, il dies a quo del termine prescrizionale coincide con la data di adozione del provvedimento amministrativo o –ove diversa– dalla data nella quale questo ha prodotto effetti nella sfera giuridica del destinatario.
Detto termine, ai sensi degli articoli 2943 e 2945 Cod. civ., è, tuttavia, interrotto con la proposizione dell’azione di annullamento avanti al Giudice amministrativo, in quanto manifestazione della volontà del destinatario di reagire alla lesione subita, e rimane sospeso per tutta la durata del giudizio, tornando a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza.

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L’accoglimento della domanda risarcitoria passa necessariamente per la prova da parte di colui che si assume danneggiato dall’azione della pubblica Amministrazione della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, e segnatamente del danno ingiusto, dell’elemento soggettivo in capo all’assunto danneggiante e del nesso di causalità tra la condotta del danneggiante e il nocumento patito dal danneggiato.
Con riguardo all’elemento soggettivo, va precisato che esso –al di fuori delle cause che hanno a oggetto procedure per l’affidamento di pubblici appalti– non è assorbito nella illegittimità dell’atto medesimo, ma consiste nella colpa o nel dolo dell’Amministrazione procedente.
In particolare, l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano risulta integrato quando l’adozione e l’esecuzione dell’atto amministrativo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi. Cosicché la responsabilità della Amministrazione può essere affermata solamente quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l’imperizia nell’assunzione del provvedimento viziato.
Al contrario, la suddetta responsabilità va esclusa laddove sia ravvisabile un errore scusabile per via di un contrasto giurisprudenziale, della complessità della vicenda fattuale, per l’incertezza o la novità della normativa da applicarsi.
Procedendo nella disamina degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, va ricordato che il nesso di causalità tra condotta e evento è regolato dagli articoli 40 e 41 Cod. pen., in forza dei quali esso sussiste se, ferme restando le altre condizioni, l’evento non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita (cd. teoria della condicio sine qua non), e sempre che, con una valutazione ex ante, l’evento non appaia una conseguenza del tutto inverosimile della condotta medesima (cd. teoria della causalità adeguata).
Una volta accertata la sussistenza del nesso di causalità, non tutti i danni prodotti dalla condotta illecita sono risarcibili, ma solamente le perdite subite e i guadagni non realizzati che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2056 e 1223 Cod. civ., costituiscono conseguenza diretta e immediata dell’illecito, ovverosia quelli che non appaiono del tutto inverosimili, così come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale.

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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor Gi.De.Ba. agisce per l’ottemperanza della sentenza di questo Tribunale n. 698/2010, divenuta definitiva, e per il risarcimento del danno patito.
Con la precitata pronuncia è stata annullata la nota del Sindaco del Comune di Pinzano al Tagliamento contenente il parere contrario alla modifica della destinazione d’uso -da rurale ad attività ricettivo-agrituristica– del fabbricato di proprietà dell’odierno ricorrente, per contrarietà alle misure di salvaguardia del Piano stralcio per la sicurezza idraulica del medio e basso corso del Fiume Tagliamento adottato dall’Autorità di Bacino.
L’annullamento giudiziale è intervenuto per un duplice ordine di ragioni, e precisamente:
- perché la delibera di adozione del su richiamato Piano stralcio era stata nelle more annullata dal Tribunale Superiore delle Acque;
- perché le misure di salvaguardia del Piano non vietavano ogni intervento edilizio, in particolare non vietavano gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro o di risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia (esclusa la demolizione costruzione) senza aumento di superficie coperta e di volume dei fabbricati esistenti.
Il Comune resistente si oppone alle domande avversarie evidenziando l’abusività del fabbricato di controparte, per il quale, infatti, è stata adottata ordinanza-ingiunzione di demolizione.
Su tale specifico punto, il Collegio deve dare atto che questo Giudice con decisione assunta nella medesima camera di Consiglio e in corso di pubblicazione, in accoglimento di due distinti ricorsi promossi dal signor Ba., ha annullato il summenzionato provvedimento sanzionatorio.
Con questa precisazione il ricorso è fondato nei termini che si vanno a indicare.
Quanto alla domanda di ottemperanza, verificato che risultano sussistere tutti presupposti di cui agli articoli 112 e ss. Cod. proc. amm., si ordina al Comune di Pinzano al Tagliamento di dare esecuzione alla sentenza di questo Tribunale n. 698/2010, provvedendo sulla domanda il cambio di destinazione d’uso da rurale ad attività ricettivo-agrituristica del fabbricato di proprietà del ricorrente, nel termine di giorni 30 (trenta) decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione, ovvero dalla sua notificazione a cura di parte se anteriore.
Per il caso di perdurante inerzia dell’Amministrazione comunale oltre il prefissato termine, si nomina sin da ora, ai sensi dell’articolo 114, comma 4, lettera d), Cod. proc. amm., il commissario ad acta, designandolo nella persona del dirigente del settore pianificazione del territorio del Comune di Pordenone, o di altro dipendente del medesimo Comune di Pordenone con qualifica non inferiore a quella di funzionario, da lui delegato, affinché compia –previa sollecitazione di parte- nel termine di giorni 30 (trenta), decorrente dalla suddetta sollecitazione, tutti gli atti necessari in luogo del Comune di Pinzano al Tagliamento, con riserva di liquidazione del compenso –a carico del bilancio dell’Amministrazione inottemperante- in esito alla presentazione, da parte del medesimo commissario, di un’istanza che documenti l’attività espletata.
Quanto alla domanda risarcitoria, va preliminarmente delibata l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla difesa di parte resistente con riguardo ai danni verificatisi anteriormente al 27.09.2006, ovverosia anteriormente al quinquennio ex articolo 2947, comma 1, Cod. civ., decorrente dal perfezionamento per il Comune resistente del ricorso introduttivo del presente giudizio.
Ora, costituisce approdo oramai consolidato della giurisprudenza, anche di questo Tribunale amministrativo (cfr. sentenza n. 526/2015) la sussunzione della responsabilità della pubblica Amministrazione per atto amministrativo illegittimo nel paradigma della responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 Cod. civ., con il conseguente assoggettamento della tutela risarcitoria al corrispondente regime civilistico.
Quanto al termine di proposizione dell’azione, nel caso di specie, essendo l’atto generatore del danno (i.e. l’atto amministrativo illegittimo) e l’introduzione del relativo giudizio caducatorio anteriori all’entrata in vigore del nuovo Codice di rito, l’azione di risarcimento del danno, ancorché proposta ai sensi del D.Lgs. n. 104/2010, non è assoggettata al termine decadenziale di 120 giorni, ma a quello di prescrizione di 5 anni (cfr., C.d.S., Ad. pl., sentenza n. 6/2015).
Con il superamento della teoria della pregiudiziale amministrativa, non risultando più necessario l’annullamento dell’atto presupposto per ottenere il risarcimento del danno, il dies a quo del termine prescrizionale coincide con la data di adozione del provvedimento amministrativo o –ove diversa– dalla data nella quale questo ha prodotto effetti nella sfera giuridica del destinatario (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 66/2016).
Detto termine, ai sensi degli articoli 2943 e 2945 Cod. civ., è, tuttavia, interrotto con la proposizione dell’azione di annullamento avanti al Giudice amministrativo, in quanto manifestazione della volontà del destinatario di reagire alla lesione subita, e rimane sospeso per tutta la durata del giudizio, tornando a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 679/2014; C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 2856/2014).
Orbene, risulta per tabulas che il diniego di cambio di destinazione d’uso reca la data del 21.09.1998; che l’atto lesivo è stato tempestivamente impugnato nel termine decadenziale di 60 giorni; che in data 14.10.2010 è stata depositata la sentenza di annullamento; che il ricorso introduttivo del presente giudizio risarcitorio è stato portato dal ricorrente alla notifica in data 26.09.2011.
Pertanto, non si è maturata alcuna prescrizione del risarcimento dei nocumenti arrecati al signor Ba. dal suddetto diniego.
Nondimeno, l’accoglimento della domanda risarcitoria passa necessariamente per la prova da parte di colui che si assume danneggiato dall’azione della pubblica Amministrazione della ricorrenza nel caso di specie di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, e segnatamente del danno ingiusto, dell’elemento soggettivo in capo all’assunto danneggiante e del nesso di causalità tra la condotta del danneggiante e il nocumento patito dal danneggiato (cfr., TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 411/2014; C.d.S., Sez. III, sentenza n. 3707/2015).
L’illegittimità dell’atto amministrativo non è più in discussione in quanto definitivamente accertata con la sentenza di cui qui si chiede l’ottemperanza.
Con riguardo all’elemento soggettivo, va precisato che esso –al di fuori delle cause che hanno a oggetto procedure per l’affidamento di pubblici appalti– non è assorbito nella illegittimità dell’atto medesimo, ma consiste nella colpa o nel dolo dell’Amministrazione procedente (cfr., C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 1099/2015).
In particolare, l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano risulta integrato quando l’adozione e l’esecuzione dell’atto amministrativo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi. Cosicché la responsabilità della Amministrazione può essere affermata solamente quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l’imperizia nell’assunzione del provvedimento viziato. Al contrario, la suddetta responsabilità va esclusa laddove sia ravvisabile un errore scusabile per via di un contrasto giurisprudenziale, della complessità della vicenda fattuale, per l’incertezza o la novità della normativa da applicarsi (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 1272/2015).
Ebbene, nessuna delle suvviste esimenti ricorre nel caso di specie.
Vero è, infatti, che, come risulta documentalmente, l’Amministrazione comunale si fosse inizialmente pronunciata favorevolmente rispetto al progettato cambio di destinazione d’uso per cui è causa, e che il successivo mutamento di posizione non fosse affatto giustificato dalle sopravvenute misure di salvaguardia del Piano stralcio di tutela idraulica, il quale non vietava qualsivoglia intervento edilizio, ma solamente quelli di nuova edificazione e quelli sui fabbricati esistenti che comportavano l’aumento della superficie coperta e del volume.
La ricostruzione fattuale emergente dalla stessa sentenza che qui si chiede di ottemperare, evidenzia come sarebbe stata sufficiente un’ordinaria attività istruttoria per concludere il procedimento con un provvedimento coerente con la disciplina posta, sia pure provvisoriamente, dal Piano urbanistico sovraordinato. Non richiedeva, infatti, una complessa attività di accertamento la verifica se il cambio di destinazione d’uso progettato dal signor Ba. comportasse o meno l’aumento della superficie coperta e del volume, così come non richiedeva una difficile attività di ricostruzione ermeneutica l’apprezzamento che il Piano stralcio dettava una disciplina differenziata per gli interventi edilizi sui fabbricati esistenti a seconda, per l’appunto, che comportassero o meno l’aumento della superficie coperta e del volume.
E la leggerezza del Comune è ancora più grave se si considera che nel frattempo l’interessato aveva ottenuto un finanziamento pubblico per realizzare l’intervento, che il diniego di cambio di destinazione d’uso ostava alla conservazione di detto beneficio, e che di tanto l’Amministrazione era informata. Anzi, risulta documentalmente che lo stesso Ente regionale deputato all’erogazione del contributo, proprio al fine di evitare la decadenza dal beneficio, sollecitava l’Ente comunale a verificare se l’intervento progettato dal signor Ba. non rientrassi tra quelli esclusi dal vincolo del Piano di sicurezza idraulica, senza che –a quanto consta– il Comune di Pinzano al Tagliamento si sia peritato di verificare la circostanza.
Né certo esime il Comune da responsabilità la circostanza, particolarmente valorizzata dalla difesa di parte resistente, che il fabbricato per cui è causa fosse privo del certificato di abitabilità/agibilità in quanto mai richiesto.
Deve, infatti, considerarsi che detto fabbricato risale al 1973.
Ora, all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i locali destinati al ricovero di animali. Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi o per quelli che subiscono delle modifiche tali da giustificare una verifica delle relative condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato. Viceversa, era ed è obbligo del ricorrente, una volta mutata la destinazione d’uso del proprio fabbricato in ricettivo-agrituristica, chiedere e ottenere il certificato di agibilità.
Procedendo, pertanto, nella disamina degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, va ricordato che il nesso di causalità tra condotta e evento è regolato dagli articoli 40 e 41 Cod. pen., in forza dei quali esso sussiste se, ferme restando le altre condizioni, l’evento non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita (cd. teoria della condicio sine qua non), e sempre che, con una valutazione ex ante, l’evento non appaia una conseguenza del tutto inverosimile della condotta medesima (cd. teoria della causalità adeguata).
Una volta accertata la sussistenza del nesso di causalità, non tutti i danni prodotti dalla condotta illecita sono risarcibili, ma solamente le perdite subite e i guadagni non realizzati che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2056 e 1223 Cod. civ., costituiscono conseguenza diretta e immediata dell’illecito, ovverosia quelli che non appaiono del tutto inverosimili, così come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (cfr., ex plurimis, Cass. civ., Sez. III, sentenza n. 21086/2015) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 03.11.2016 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fabbricato per cui è causa è privo del certificato di abitabilità/agibilità in quanto mai richiesto. Invero, deve considerarsi che detto fabbricato risale al 1973.
Ora, all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i locali destinati al ricovero di animali. Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi o per quelli che subiscono delle modifiche tali da giustificare una verifica delle relative condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato. Viceversa, era ed è obbligo del ricorrente, una volta mutata la destinazione d’uso del proprio fabbricato in ricettivo-agrituristica, chiedere e ottenere il certificato di agibilità.
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Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor Gi.De.Ba. agisce per l’ottemperanza della sentenza di questo Tribunale n. 698/2010, divenuta definitiva, e per il risarcimento del danno patito.
Con la precitata pronuncia è stata annullata la nota del Sindaco del Comune di Pinzano al Tagliamento contenente il parere contrario alla modifica della destinazione d’uso -da rurale ad attività ricettivo-agrituristica– del fabbricato di proprietà dell’odierno ricorrente, per contrarietà alle misure di salvaguardia del Piano stralcio per la sicurezza idraulica del medio e basso corso del Fiume Tagliamento adottato dall’Autorità di Bacino.
L’annullamento giudiziale è intervenuto per un duplice ordine di ragioni, e precisamente:
- perché la delibera di adozione del su richiamato Piano stralcio era stata nelle more annullata dal Tribunale Superiore delle Acque;
- perché le misure di salvaguardia del Piano non vietavano ogni intervento edilizio, in particolare non vietavano gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro o di risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia (esclusa la demolizione costruzione) senza aumento di superficie coperta e di volume dei fabbricati esistenti.
Il Comune resistente si oppone alle domande avversarie evidenziando l’abusività del fabbricato di controparte, per il quale, infatti, è stata adottata ordinanza-ingiunzione di demolizione.
Su tale specifico punto, il Collegio deve dare atto che questo Giudice con decisione assunta nella medesima camera di Consiglio e in corso di pubblicazione, in accoglimento di due distinti ricorsi promossi dal signor Ba., ha annullato il summenzionato provvedimento sanzionatorio.
Con questa precisazione il ricorso è fondato nei termini che si vanno a indicare.
Quanto alla domanda di ottemperanza, verificato che risultano sussistere tutti presupposti di cui agli articoli 112 e ss. Cod. proc. amm., si ordina al Comune di Pinzano al Tagliamento di dare esecuzione alla sentenza di questo Tribunale n. 698/2010, provvedendo sulla domanda il cambio di destinazione d’uso da rurale ad attività ricettivo-agrituristica del fabbricato di proprietà del ricorrente, nel termine di giorni 30 (trenta) decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione, ovvero dalla sua notificazione a cura di parte se anteriore.
Per il caso di perdurante inerzia dell’Amministrazione comunale oltre il prefissato termine, si nomina sin da ora, ai sensi dell’articolo 114, comma 4, lettera d), Cod. proc. amm., il commissario ad acta, designandolo nella persona del dirigente del settore pianificazione del territorio del Comune di Pordenone, o di altro dipendente del medesimo Comune di Pordenone con qualifica non inferiore a quella di funzionario, da lui delegato, affinché compia –previa sollecitazione di parte- nel termine di giorni 30 (trenta), decorrente dalla suddetta sollecitazione, tutti gli atti necessari in luogo del Comune di Pinzano al Tagliamento, con riserva di liquidazione del compenso –a carico del bilancio dell’Amministrazione inottemperante- in esito alla presentazione, da parte del medesimo commissario, di un’istanza che documenti l’attività espletata.
Quanto alla domanda risarcitoria, va preliminarmente delibata l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla difesa di parte resistente con riguardo ai danni verificatisi anteriormente al 27.09.2006, ovverosia anteriormente al quinquennio ex articolo 2947, comma 1, Cod. civ., decorrente dal perfezionamento per il Comune resistente del ricorso introduttivo del presente giudizio.
Ora, costituisce approdo oramai consolidato della giurisprudenza, anche di questo Tribunale amministrativo (cfr. sentenza n. 526/2015) la sussunzione della responsabilità della pubblica Amministrazione per atto amministrativo illegittimo nel paradigma della responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 Cod. civ., con il conseguente assoggettamento della tutela risarcitoria al corrispondente regime civilistico.
Quanto al termine di proposizione dell’azione, nel caso di specie, essendo l’atto generatore del danno (i.e. l’atto amministrativo illegittimo) e l’introduzione del relativo giudizio caducatorio anteriori all’entrata in vigore del nuovo Codice di rito, l’azione di risarcimento del danno, ancorché proposta ai sensi del D.Lgs. n. 104/2010, non è assoggettata al termine decadenziale di 120 giorni, ma a quello di prescrizione di 5 anni (cfr., C.d.S., Ad. pl., sentenza n. 6/2015).
Con il superamento della teoria della pregiudiziale amministrativa, non risultando più necessario l’annullamento dell’atto presupposto per ottenere il risarcimento del danno, il dies a quo del termine prescrizionale coincide con la data di adozione del provvedimento amministrativo o –ove diversa– dalla data nella quale questo ha prodotto effetti nella sfera giuridica del destinatario (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 66/2016).
Detto termine, ai sensi degli articoli 2943 e 2945 Cod. civ., è, tuttavia, interrotto con la proposizione dell’azione di annullamento avanti al Giudice amministrativo, in quanto manifestazione della volontà del destinatario di reagire alla lesione subita, e rimane sospeso per tutta la durata del giudizio, tornando a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 679/2014; C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 2856/2014).
Orbene, risulta per tabulas che il diniego di cambio di destinazione d’uso reca la data del 21.09.1998; che l’atto lesivo è stato tempestivamente impugnato nel termine decadenziale di 60 giorni; che in data 14.10.2010 è stata depositata la sentenza di annullamento; che il ricorso introduttivo del presente giudizio risarcitorio è stato portato dal ricorrente alla notifica in data 26.09.2011.
Pertanto, non si è maturata alcuna prescrizione del risarcimento dei nocumenti arrecati al signor Ba. dal suddetto diniego.
Nondimeno, l’accoglimento della domanda risarcitoria passa necessariamente per la prova da parte di colui che si assume danneggiato dall’azione della pubblica Amministrazione della ricorrenza nel caso di specie di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, e segnatamente del danno ingiusto, dell’elemento soggettivo in capo all’assunto danneggiante e del nesso di causalità tra la condotta del danneggiante e il nocumento patito dal danneggiato (cfr., TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 411/2014; C.d.S., Sez. III, sentenza n. 3707/2015).
L’illegittimità dell’atto amministrativo non è più in discussione in quanto definitivamente accertata con la sentenza di cui qui si chiede l’ottemperanza.
Con riguardo all’elemento soggettivo, va precisato che esso –al di fuori delle cause che hanno a oggetto procedure per l’affidamento di pubblici appalti– non è assorbito nella illegittimità dell’atto medesimo, ma consiste nella colpa o nel dolo dell’Amministrazione procedente (cfr., C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 1099/2015).
In particolare, l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano risulta integrato quando l’adozione e l’esecuzione dell’atto amministrativo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi. Cosicché la responsabilità della Amministrazione può essere affermata solamente quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l’imperizia nell’assunzione del provvedimento viziato. Al contrario, la suddetta responsabilità va esclusa laddove sia ravvisabile un errore scusabile per via di un contrasto giurisprudenziale, della complessità della vicenda fattuale, per l’incertezza o la novità della normativa da applicarsi (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 1272/2015).
Ebbene, nessuna delle suvviste esimenti ricorre nel caso di specie.
Vero è, infatti, che, come risulta documentalmente, l’Amministrazione comunale si fosse inizialmente pronunciata favorevolmente rispetto al progettato cambio di destinazione d’uso per cui è causa, e che il successivo mutamento di posizione non fosse affatto giustificato dalle sopravvenute misure di salvaguardia del Piano stralcio di tutela idraulica, il quale non vietava qualsivoglia intervento edilizio, ma solamente quelli di nuova edificazione e quelli sui fabbricati esistenti che comportavano l’aumento della superficie coperta e del volume.
La ricostruzione fattuale emergente dalla stessa sentenza che qui si chiede di ottemperare, evidenzia come sarebbe stata sufficiente un’ordinaria attività istruttoria per concludere il procedimento con un provvedimento coerente con la disciplina posta, sia pure provvisoriamente, dal Piano urbanistico sovraordinato. Non richiedeva, infatti, una complessa attività di accertamento la verifica se il cambio di destinazione d’uso progettato dal signor Ba. comportasse o meno l’aumento della superficie coperta e del volume, così come non richiedeva una difficile attività di ricostruzione ermeneutica l’apprezzamento che il Piano stralcio dettava una disciplina differenziata per gli interventi edilizi sui fabbricati esistenti a seconda, per l’appunto, che comportassero o meno l’aumento della superficie coperta e del volume.
E la leggerezza del Comune è ancora più grave se si considera che nel frattempo l’interessato aveva ottenuto un finanziamento pubblico per realizzare l’intervento, che il diniego di cambio di destinazione d’uso ostava alla conservazione di detto beneficio, e che di tanto l’Amministrazione era informata. Anzi, risulta documentalmente che lo stesso Ente regionale deputato all’erogazione del contributo, proprio al fine di evitare la decadenza dal beneficio, sollecitava l’Ente comunale a verificare se l’intervento progettato dal signor Ba. non rientrassi tra quelli esclusi dal vincolo del Piano di sicurezza idraulica, senza che –a quanto consta– il Comune di Pinzano al Tagliamento si sia peritato di verificare la circostanza.
Né certo esime il Comune da responsabilità la circostanza, particolarmente valorizzata dalla difesa di parte resistente, che il fabbricato per cui è causa fosse privo del certificato di abitabilità/agibilità in quanto mai richiesto.
Deve, infatti, considerarsi che detto fabbricato risale al 1973.
Ora, all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i locali destinati al ricovero di animali. Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi o per quelli che subiscono delle modifiche tali da giustificare una verifica delle relative condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato. Viceversa, era ed è obbligo del ricorrente, una volta mutata la destinazione d’uso del proprio fabbricato in ricettivo-agrituristica, chiedere e ottenere il certificato di agibilità.
Procedendo, pertanto, nella disamina degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, va ricordato che il nesso di causalità tra condotta e evento è regolato dagli articoli 40 e 41 Cod. pen., in forza dei quali esso sussiste se, ferme restando le altre condizioni, l’evento non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita (cd. teoria della condicio sine qua non), e sempre che, con una valutazione ex ante, l’evento non appaia una conseguenza del tutto inverosimile della condotta medesima (cd. teoria della causalità adeguata).
Una volta accertata la sussistenza del nesso di causalità, non tutti i danni prodotti dalla condotta illecita sono risarcibili, ma solamente le perdite subite e i guadagni non realizzati che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2056 e 1223 Cod. civ., costituiscono conseguenza diretta e immediata dell’illecito, ovverosia quelli che non appaiono del tutto inverosimili, così come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (cfr., ex plurimis, Cass. civ., Sez. III, sentenza n. 21086/2015) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 03.11.2016 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, sin da tempi risalenti, è stato affermato il principio per cui “l’obbligatorietà del parere della commissione edilizia è limitata alle sole questioni che interessano l’attuazione, sotto il profilo tecnico, di uno specifico progetto costruttivo in relazione alla vigenza di prescrizioni generali e speciali nella materia edilizio-urbanistica”; da tale principio si è fatto discendere il corollario secondo il quale “è legittimo il diniego di concessione edilizia in assenza del parere della commissione edilizia comunale, qualora tale diniego si basi esclusivamente su ragioni giuridiche”.
L’attualità di tale insegnamento è presidiata da solide ragioni logiche: laddove infatti non vi siano problematiche di fattibilità dell’intervento progettato, ma l’unico dubbio da risolvere si incentri su problematiche di natura giuridica non avrebbe senso appesantire il procedimento richiedendo l’apporto di un organo squisitamente tecnico, quale è la Commissione Edilizia, né tampoco l’assenza di tale apporto tecnico potrebbe viziare alcunché.

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3. Accertato quindi che l’unica questione da scrutinare riposa nella fondatezza delle censure contenute nell’appello principale, osserva il Collegio che questo è all’evidenza fondato, sia in punto di fatto, che in punto di diritto, in quanto:
   a) sotto il profilo fattuale, il parere era stato espresso dalla Commissione Edilizia in data 19.04.2000, in termini favorevoli “a condizione che vengano forniti i chiarimenti richiesti nel parere del Settore Edilizia Privata con riferimento alla titolarità e diritti ed alle condizioni poste nel parere regionale”; la carenza del parere della Commissione Edilizia, avuto riguardo al segmento procedimentale culminato nel diniego espresso recante prot. n. 398 del 05.04.2002 medio tempore emesso dal Comune di Genova in realtà non sussiste, posto che il diniego suddetto (impugnato dalla odierna parte appellata) è stato emesso in sede di riesame della prima dichiarazione di improcedibiltà e, quindi, in seno ad un unico procedimento (la fase del riesame inequivocabilmente “accedeva” al primo procedimento) ed a fronte di un quadro normativo rimasto immutato;
   b) inoltre, deve osservarsi che il primo parere espresso dalla Commissione Edilizia in data 19.04.2000, in termini favorevoli “condizionati” aveva già provveduto a perimetrare, in fatto, quale fosse l’unico profilo ostativo individuabile, ed esso era certamente non tecnico, ma giuridico, in quanto riposava nella legittimazione e titolarità dell’area;
   c) all’ultima considerazione formulata, se ne lega un’altra, dirimente, e da sola idonea a supportare l’accoglimento dell’appello: per costante giurisprudenza, sin da tempi risalenti (tra le tante si vedano Cons. Stato, sez. V, 17.12.1984, n. 921; id., 29.01.1999, n. 77) è stato affermato il principio per cui “l’obbligatorietà del parere della commissione edilizia è limitata alle sole questioni che interessano l’attuazione, sotto il profilo tecnico, di uno specifico progetto costruttivo in relazione alla vigenza di prescrizioni generali e speciali nella materia edilizio-urbanistica”; da tale principio si è fatto discendere il corollario secondo il quale “è legittimo il diniego di concessione edilizia (nella specie, in sanatoria) in assenza del parere della commissione edilizia comunale, qualora tale diniego si basi esclusivamente su ragioni giuridiche”;
   d) l’attualità di tale insegnamento è presidiata da solide ragioni logiche: laddove infatti non vi siano problematiche di fattibilità dell’intervento progettato, ma l’unico dubbio da risolvere si incentri su problematiche di natura giuridica (e così, incontestatamente, era nel caso di specie) non avrebbe senso appesantire il procedimento richiedendo l’apporto di un organo squisitamente tecnico, quale è la Commissione Edilizia, né tampoco l’assenza di tale apporto tecnico potrebbe viziare alcunché (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2016 n. 4578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
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L
’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Si è dedotto, pertanto, che soltanto laddove “le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato”.

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1. L’appello è infondato e va respinto.
2. Va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità, in quanto nell’atto di impugnazione sono sufficientemente specificate le ragioni di critica alla motivazione della sentenza.
3. Nel merito, si osserva che:
   a) per incontroversa giurisprudenza (tra le tante vedasi Cons. Stato, sez. III, 14.04.2015, n. 2411) “l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo”;
   b) la tesi secondo cui l’appellante si era limitata solamente ad eseguire lavori di manutenzione straordinaria sul manufatto preesistente (consistiti nella posa in opera di pareti e di coperture esterne in lamiera sorrette da strutture di sostegno in ferro) e senza aumento di volumetria, oltre ad essere a sproposito ed intempestivamente proposta nell’odierno grado di appello (semmai l’appellante avrebbe dovuto contestare la ritenuta natura abusiva in primo grado) e quindi inammissibile in quanto resa in spregio del divieto di motivi “nuovi” ex art. 104 del c.p.a. e 345 c.p.c. sarebbe comunque priva di prova, in quanto soltanto labialmente affermata, ed inaccoglibile, in quanto lo spazio in oggetto era prima aperto, e solo attraverso detti lavori è stato creato un incremento volumetrico;
   c) né in primo grado, né in appello, è stata documentata la pertinenzialità di ogni singolo garage a singoli immobili adibiti ad abitazione, ed in ogni caso, la tesi sarebbe inaccoglibile, in quanto per incontroversa giurisprudenza penale (cfr. Cass. pen., sez. III, 09.12.2004, n. 5465; id., 15.03.1994) “in materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia e assoggettata a quello dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede. Pertanto è priva di un oggettivo nesso di ‘strumentalità funzionale’ la costruzione di una parte di edificio in ampliamento e adiacente a quello principale, benché destinato ad autorimessa, in quanto è evidente che tale vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto all’immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso” (Cass. pen., sez. III, 06.12.1989, Cameran, in C.E.D. Cass., n. 183106);
   d) quanto all’ultima censura, rammenta il Collegio che per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393) “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si è dedotto, pertanto, che soltanto laddove “le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato”.
Nel caso di specie, il numero dei garages abusivi, e la loro consistenza, impedisce di ritenere l’abuso di modesta entità, per cui correttamente è stato ritenuto dal Tar che il Comune non era tenuto a fornire nessuna ulteriore motivazione in punto di pubblico interesse alla rimozione delle opere suddette.
L’appellante, poi avrebbe ben potuto presentare domanda di sanatoria (si rammenta che il processo di primo grado venne sospeso con ordinanza collegiale n. 83 del 2004 proprio per la pendenza dei termini per la proposizione dell’istanza di condono a i sensi del d.l. 269 del 2003), per cui i supposti –e comunque non dirimenti ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005- vizi infraprocedimentali del provvedimento impugnato comunque nessun danno in concreto gli avrebbero cagionato, sotto tale profilo.
4. Conclusivamente, l’appello deve essere integralmente respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2016 n. 4577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer incontroversa giurisprudenza penale “in materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia e assoggettata a quello dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede.
Pertanto è priva di un oggettivo nesso di ‘strumentalità funzionale’ la costruzione di una parte di edificio in ampliamento e adiacente a quello principale, benché destinato ad autorimessa, in quanto è evidente che tale vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto all’immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso”.

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1. L’appello è infondato e va respinto.
2. Va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità, in quanto nell’atto di impugnazione sono sufficientemente specificate le ragioni di critica alla motivazione della sentenza.
3. Nel merito, si osserva che:
   a) per incontroversa giurisprudenza (tra le tante vedasi Cons. Stato, sez. III, 14.04.2015, n. 2411) “l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo”;
   b) la tesi secondo cui l’appellante si era limitata solamente ad eseguire lavori di manutenzione straordinaria sul manufatto preesistente (consistiti nella posa in opera di pareti e di coperture esterne in lamiera sorrette da strutture di sostegno in ferro) e senza aumento di volumetria, oltre ad essere a sproposito ed intempestivamente proposta nell’odierno grado di appello (semmai l’appellante avrebbe dovuto contestare la ritenuta natura abusiva in primo grado) e quindi inammissibile in quanto resa in spregio del divieto di motivi “nuovi” ex art. 104 del c.p.a. e 345 c.p.c. sarebbe comunque priva di prova, in quanto soltanto labialmente affermata, ed inaccoglibile, in quanto lo spazio in oggetto era prima aperto, e solo attraverso detti lavori è stato creato un incremento volumetrico;
   c) né in primo grado, né in appello, è stata documentata la pertinenzialità di ogni singolo garage a singoli immobili adibiti ad abitazione, ed in ogni caso, la tesi sarebbe inaccoglibile, in quanto per incontroversa giurisprudenza penale (cfr. Cass. pen., sez. III, 09.12.2004, n. 5465; id., 15.03.1994) “in materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia e assoggettata a quello dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede. Pertanto è priva di un oggettivo nesso di ‘strumentalità funzionale’ la costruzione di una parte di edificio in ampliamento e adiacente a quello principale, benché destinato ad autorimessa, in quanto è evidente che tale vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto all’immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso” (Cass. pen., sez. III, 06.12.1989, Cameran, in C.E.D. Cass., n. 183106);
   d) quanto all’ultima censura, rammenta il Collegio che per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393) “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si è dedotto, pertanto, che soltanto laddove “le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato”.
Nel caso di specie, il numero dei garages abusivi, e la loro consistenza, impedisce di ritenere l’abuso di modesta entità, per cui correttamente è stato ritenuto dal Tar che il Comune non era tenuto a fornire nessuna ulteriore motivazione in punto di pubblico interesse alla rimozione delle opere suddette.
L’appellante, poi avrebbe ben potuto presentare domanda di sanatoria (si rammenta che il processo di primo grado venne sospeso con ordinanza collegiale n. 83 del 2004 proprio per la pendenza dei termini per la proposizione dell’istanza di condono a i sensi del d.l. 269 del 2003), per cui i supposti –e comunque non dirimenti ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005- vizi infraprocedimentali del provvedimento impugnato comunque nessun danno in concreto gli avrebbero cagionato, sotto tale profilo.
4. Conclusivamente, l’appello deve essere integralmente respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2016 n. 4577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ritiene che ai fini della esenzione prevista dall’art. 16, comma 1, del d.p.r. 380 del 2001 a tale titolo debbano ricorrere due requisiti.
In primo luogo oggetto dell’attività edilizia deve essere un’opera annoverabile fra quelle di urbanizzazione secondaria ai sensi dell’art. 4, comma 2, della L. 847 del 1964 (che ne elenca la tipologia).
In secondo luogo la realizzazione della stessa deve avvenire in attuazione di una specifica previsione di uno strumento urbanistico generale o attuativo. Non è sufficiente, a tal fine, che l’opera sia semplicemente consentita dal il p.r.g. ma è necessario che il piano regolatore ne preveda la localizzazione in una zona destinata alle infrastrutture essenziali la cui realizzazione è normalmente riservata alla mano pubblica.
La norma, non si riferisce solo alle ipotesi in cui, sulla base di una convenzione di lottizzazione i privati, realizzino le opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri per poi cederle alla p.a., ma abbraccia anche i casi nei quali le infrastrutture pubbliche, per la cui realizzazione sarebbe stato normalmente necessario un procedimento espropriativo, in base alla previsione di piano, possano essere da essi gestite in regime di convenzionamento secondo un modello ispirato al principio di sussidiarietà che ha trovato avallo anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Anche in tali fattispecie, infatti, la realizzazione dell’opera assolve alle esigenze infrastrutturali programmate nell’ambito dei piani urbanistici o territoriali e, quindi, non integra il presupposto del debito contributivo che è dato dalla creazione di nuovo carico urbanistico andando, anzi, a coprire la necessità di nuove opere indotta dall’espansione urbana.

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L'obbligo contributivo previsto dall’art. 16 del D.P.R. 380 del 2001 deriva direttamente dalla legge e non è suscettibile di negoziazione alcuna.
Un eventuale atto convenzionale che ne preveda il versamento al di fuori delle ipotesi in cui esso è legalmente dovuto risulta, quindi, privo di causa e, quindi, nullo.
Lo stesso deve dirsi qualora analoga previsione sia contenuta nel permesso di costruire. Tale atto, infatti, non può imporre al suo destinatario obbligazioni pecuniarie che non trovano giustificazione nella disciplina legale. La previsione del versamento del contributo in esso eventualmente contenuta non ha, quindi, carattere costitutivo ma meramente ricognitivo.
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La S.r.l. Sa., premesso:
a) di essere proprietaria di un’area sita in comune di Arezzo lungo il viale ... fatta oggetto di una variante al p.r.g. finalizzata alla realizzazione a sua cura e spese di un edificio destinato ad ospitare la casa di cura Poggio del Sole, gestita in regime di accreditamento dalla omonima società sua controllata, ed alla contestuale realizzazione di una residenza protetta per soggetti portatori di handicap previa cessione al comune del relativo terreno;
b) di aver stipulato per la realizzazione della predetta clinica una convenzione urbanistica con il comune di Arezzo con la quale si è impegnata, fra l’altro, a pagare gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ed il contributo di costruzione ad essa relativi;
c) di essersi avveduta dopo il pagamento della prima rata di poter beneficiare della esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione prevista dall’art. 16, comma 1, del D.P.R. 380 del 2001 per le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti e per le opere di urbanizzazione eseguite anche da privati in attuazione degli strumenti urbanistici;
d) di non aver tuttavia ottenuto dal comune di Arezzo l’autorizzazione all’esonero del contributo;
tanto premesso la Sa. S.r.l. chiede che l’adito Tribunale, previo annullamento in parte qua del permesso di costruire e della convezione urbanistica, laddove prevedono il pagamento del contributo, dichiari la non debenza dello stesso disponendo la restituzione dei ratei corrisposti.
Il ricorso è fondato nella parte in cui afferma che la clinica sia esente da contributo in quanto opera di urbanizzazione da realizzarsi in attuazione degli strumenti urbanistici.
La giurisprudenza ritiene che ai fini della esenzione prevista dall’art. 16, comma 1, del d.p.r. 380 del 2001 a tale titolo debbano ricorrere due requisiti.
In primo luogo oggetto dell’attività edilizia deve essere un’opera annoverabile fra quelle di urbanizzazione secondaria ai sensi dell’art. 4, comma 2, della L. 847 del 1964 (che ne elenca la tipologia).
In secondo luogo la realizzazione della stessa deve avvenire in attuazione di una specifica previsione di uno strumento urbanistico generale o attuativo. Non è sufficiente, a tal fine, che l’opera sia semplicemente consentita dal il p.r.g. ma è necessario che il piano regolatore ne preveda la localizzazione in una zona destinata alle infrastrutture essenziali la cui realizzazione è normalmente riservata alla mano pubblica (Cons. Stato, IV, 595/2016; TAR Brescia n. 1111/2014; TAR Firenze 1596/2014; TAR Milano 4672/2009).
La norma, non si riferisce solo alle ipotesi in cui, sulla base di una convenzione di lottizzazione i privati, realizzino le opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri per poi cederle alla p.a., ma abbraccia anche i casi nei quali le infrastrutture pubbliche, per la cui realizzazione sarebbe stato normalmente necessario un procedimento espropriativo, in base alla previsione di piano, possano essere da essi gestite in regime di convenzionamento secondo un modello ispirato al principio di sussidiarietà che ha trovato avallo anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale (nella nota sentenza n. 179 del 1999).
Anche in tali fattispecie, infatti, la realizzazione dell’opera assolve alle esigenze infrastrutturali programmate nell’ambito dei piani urbanistici o territoriali e, quindi, non integra il presupposto del debito contributivo che è dato dalla creazione di nuovo carico urbanistico andando, anzi, a coprire la necessità di nuove opere indotta dall’espansione urbana.
Nel caso di specie l’istruttoria disposta dal Collegio ha consentito di appurare che la variante urbanistica in forza della quale la clinica è stata realizzata classificava la relativa area nell’ambito delle zone F destinate ad infrastrutture di interesse generale in cui sono ammessi solamente servizi per l’assistenza socio-sanitaria e similari.
Le n.t.a. di zona prevedono altresì che l’intervento sulle predette aree debba essere riservato in via principale alla p.a., essendo ammessa l’iniziativa privata solo previa redazione di una specifica convenzione regolante il regime giuridico del suolo nonché le modalità e le forme di utilizzazione del bene che ne garantiscano la funzione pubblica.
Il comune di Arezzo nelle sue difese sostiene che l’esonero dal contributo non potrebbe essere concesso non essendo stata stipulata fra le parti una convenzione che disciplini le modalità di uso della struttura, assicurando che essa conservi la sua destinazione pubblica.
L’osservazione è infondata e, in ogni caso, prova troppo.
Alla luce di quanto sopra detto un uso meramente privato della clinica (e cioè per l’offerta di servizi sanitari che non rientrano nel servizio sanitario nazionale) non sarebbe consentito dalla destinazione urbanistica ad essa attribuita dal p.r.g. che si riferisce ad infrastrutture di interesse generale. Qualora un tale utilizzo dovesse verificarsi esso integrerebbe un abuso edilizio passibile di sanzione.
A ciò si aggiunga che Sa. ha stipulato con il comune di Arezzo un accordo ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990 che richiama espressamente la predetta variante trasfondendone i contenuti nell’ambito di una disciplina convenzionale dalla quale scaturiscono reciproci diritti ed obblighi. Con la conseguenza che un eventuale uso dell’immobile difforme dalla sua destinazione urbanistica integrerebbe oltre che un abuso edilizio anche un inadempimento contrattuale.
Peraltro, qualora la tesi del comune di Arezzo fosse fondata ne conseguirebbe non tanto il venir meno del diritto all’esonero dal contributo quanto la illegittimità tout court dello stesso permesso di costruire in quanto rilasciato senza le garanzie previste dalle n.t.a. relative alla zona F.
Il Comune di Arezzo eccepisce altresì che anche nell’ipotesi in cui l’obbligo contributivo non trovasse base legale lo stesso dovrebbe, comunque, considerarsi esistente in quanto previsto dal menzionato accordo.
Anche tale eccezione deve essere respinta.
Infatti, l’obbligo contributivo previsto dall’art. 16 del D.P.R. 380 del 2001 deriva direttamente dalla legge e non è suscettibile di negoziazione alcuna.
Un eventuale atto convenzionale che ne preveda il versamento al di fuori delle ipotesi in cui esso è legalmente dovuto risulta, quindi, privo di causa e, quindi, nullo.
Lo stesso deve dirsi qualora analoga previsione sia contenuta nel permesso di costruire. Tale atto, infatti, non può imporre al suo destinatario obbligazioni pecuniarie che non trovano giustificazione nella disciplina legale. La previsione del versamento del contributo in esso eventualmente contenuta non ha, quindi, carattere costitutivo ma meramente ricognitivo.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto con assorbimento degli altri motivi di censura (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.11.2016 n. 1570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa piantumazione ex novo o il rinfoltimento di una siepe in zona agricola non danno certo luogo ad un intervento di rilievo edilizio (e men che mai a problematiche connesse alla tipologia dei materiali usati), ma pongono eventualmente questioni connesse alla necessità di garantire fasce di rispetto della sede stradale.
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Il tratto della recinzione realizzato ex novo (
costituita da paletti in cemento e rete metallica plastificata) richiede(va) il previo titolo autorizzativo.
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1. Il sig. Ma. -coltivatore diretto e imprenditore agricolo a titolo principale- impugna il provvedimento con il quale il Comune di Gradara gli ha ingiunto la demolizione delle seguenti opere realizzate in assenza dei necessari titoli autorizzativi sul terreno agricolo di sua proprietà ricadente in Via Ghetto, angolo Strada vicinale Treponti:
- capanno in legno appoggiato su platea in cemento, avente dimensioni di m 4,10 x 6,00 x 2,75-2,35h;
- container avente dimensioni di m 6,85 x 2,45 x 2,40h;
- tettoia di collegamento fra i due suddetti manufatti, avente dimensioni di m 3,10 x 5,00 x 2,10h;
- recinzione costituita da paletti in cemento e rete metallica plastificata, sul cui lato interno è stata piantumata una siepe di cipressi;
- riporto di terreno finalizzato alla realizzazione di un piazzale pianeggiante utilizzato come parcheggio di mezzi agricoli (vedasi anche la documentazione fotografica allegata alla relazione istruttoria depositata in giudizio dal Comune in data 12/01/2016).
2. Il ricorso è affidato ai seguenti motivi:
- violazione degli artt. 3 e 31 T.U. n. 380/2001, degli artt. 146, 147 e 149 D.Lgs. n. 42/2004, degli artt. 3 e 8 L.R. Marche n. 13/1990, dell’art. 41-septies L. n. 1150/1942. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di motivazione, manifesta contraddittorietà e illogicità (il ricorrente, in sintesi, evidenzia che: le prime tre opere di cui è stata ingiunta la demolizione non sono stabilmente infisse al suolo e soddisfano esigenze temporanee dell’azienda agricola; quanto alla recinzione, l’intervento è consistito per la gran parte nella sostituzione di una recinzione preesistente e nell’infittimento della siepe anch’essa preesistente; il livellamento del piazzale non ha implicato alcuna sostanziale modifica dell’assetto territoriale e, comunque, si tratta di intervento a suo tempo assentito dal Comune; tutti gli interventi sono conformi al PRG e alla L.R. n. 13/1990 e sono assentibili anche ex post dal punto di vista paesaggistico).
3. Con ordinanza n. 218/2015 il Tribunale ha accolto la domanda cautelare, fissando per la trattazione del merito l’udienza del 15.04.2016 e disponendo istruttoria a carico del Comune.
La trattazione della causa è stata poi differita al 21.10.2016, stante la pendenza del procedimento di autorizzazione all’esecuzione di lavori di costruzione di un manufatto accessorio e di miglioramento ambientale complessivo dell’area, avviato dal ricorrente con istanza presentata in data 14/03/2016.
Alla pubblica udienza del 21 ottobre la causa è passata in decisione.
4. Il ricorso merita accoglimento solo in parte, come si dirà infra.
Va in premessa evidenziato che, non avendo parte ricorrente comunicato al Tribunale lo stato attuale e/o (se già intervenuto) l’esito del procedimento di autorizzazione all’esecuzione degli interventi di sistemazione complessiva dell’area, il ricorso va esaminato nel merito.
Questa puntualizzazione si rende necessaria anche alla luce di quanto evidenziato a pagina 3 della memoria difensiva depositata dal sig. Ma. in data 15.03.2016: in effetti, anche a voler ammettere che il lotto non abbia esaurito la volumetria ammessa dal PRG e dalla L.R. n. 13/1990, ciò non rende di per sé legittime le opere realizzate sine titulo, ma consente per l’appunto di conseguire la sanatoria (laddove, naturalmente, ne sussistano i presupposti) oppure il rilascio di un atto che autorizzi ex novo la costruzione dei manufatti accessori ritenuti indispensabili per la conduzione del fondo.
Sempre in premessa va osservato che, con riguardo ai profili paesaggistici, il ricorrente sostiene in maniera apodittica e unilaterale la conformità delle opere de quibus con il vincolo paesaggistico ex D.M. 31/07/1985 insistente sull’area. Tale conformità, laddove esistente, non può ovviamente che essere affermata dalla competente Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio delle Marche e non certo dall’autore dell’abuso edilizio.
5. Ciò detto, il ricorso va respinto con riguardo alle seguenti opere:
- capanno, container e tettoia di collegamento fra i predetti manufatti;
- livellamento del piazzale,
mentre va accolto con riguardo alla siepe e, parzialmente, per quanto concerne la recinzione.
6. Partendo proprio dalla siepe, l’accoglimento del ricorso discende dalla duplice considerazione che:
- nel provvedimento impugnato il Comune ha considerato solo i profili urbanistico-edilizi degli abusi in parola;
- la piantumazione ex novo o il rinfoltimento di una siepe in zona agricola non danno certo luogo ad un intervento di rilievo edilizio (e men che mai a problematiche connesse alla tipologia dei materiali usati), ma pongono eventualmente questioni connesse alla necessità di garantire fasce di rispetto della sede stradale. Ma poiché nel provvedimento non si fa menzione di tale profilo, in parte qua il ricorso va accolto.
Quanto alla recinzione, il ricorso va accolto limitatamente alla parte che è stata oggetto di semplice sostituzione della recinzione preesistente.
Al riguardo va solo evidenziato che nel provvedimento il Comune non ha spiegato la ragione per la quale l’intervento si pone in contrasto con l’art. 82 delle NTA per ciò che concerne i materiali utilizzati e che in questa sede l’amministrazione non ha confutato l’affermazione del ricorrente circa la parziale preesistenza della recinzione.
Il tratto della recinzione realizzato ex novo richiedeva invece il previo titolo autorizzativo, il che è comprovato dagli stessi argomenti spesi a pagina 5, ultimo periodo, del ricorso (laddove il ricorrente si limita ad evidenziare che la recinzione insiste su un tratto di strada vicinale chiusa dopo 150 metri dall’incrocio e non trafficata e che la rete metallica e la siepe sono state collocate in perfetto allineamento con le piante già esistenti. Tali circostanze, però, non hanno alcuna rilevanza ai fini edilizi e paesaggistici) (TAR Marche, sentenza 02.11.2016 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è rilevante la modalità con la quale un manufatto è infisso al suolo al fine di stabilire se si è in presenza di opere precarie e temporanee (le quali non abbisognano quindi del titolo edilizio) o, al contrario, di stabili trasformazioni del territorio.
Ciò che rileva è l’uso oggettivo del manufatto che il proprietario o l’autore dell’intervento abbiamo posto in essere dopo la sua realizzazione.
A voler diversamente opinare si darebbe la possibilità indiscriminata di eludere gli indici edificatori previsti dal PRG, e ciò mediante la posa in opera di casette prefabbricate, container, roulottes, camper, etc., ossia di opere che non sono ancorate al suolo nello stesso modo degli edifici tradizionali ma che, opportunamente collocate ed eventualmente nel tempo “rinforzate”, finiscono per assolvere alle medesime finalità (se non residenziali, certamente accessorie alla residenza – magazzini, garages, legnaie, etc.).
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7. Per il resto, invece, le doglianze formulate in ricorso non possono trovare condivisione.
7.1. La giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, V, n. 3321/2000 e VI, n. 2842/2014; Cass. pen., III, n. 36040/2012) ha ormai da tempo chiarito che non è rilevante la modalità con la quale un manufatto è infisso al suolo al fine di stabilire se si è in presenza di opere precarie e temporanee (le quali non abbisognano quindi del titolo edilizio) o, al contrario, di stabili trasformazioni del territorio. Ciò che rileva è l’uso oggettivo del manufatto che il proprietario o l’autore dell’intervento abbiamo posto in essere dopo la sua realizzazione.
A voler diversamente opinare si darebbe la possibilità indiscriminata di eludere gli indici edificatori previsti dal PRG, e ciò mediante la posa in opera di casette prefabbricate, container, roulottes, camper, etc., ossia di opere che non sono ancorate al suolo nello stesso modo degli edifici tradizionali ma che, opportunamente collocate ed eventualmente nel tempo “rinforzate”, finiscono per assolvere alle medesime finalità (se non residenziali, certamente accessorie alla residenza – magazzini, garages, legnaie, etc.).
Nella specie, come del resto ammesso in ricorso e confermato anche nella citata memoria difensiva del 15 marzo 2016, le opere in argomento esistono da alcuni anni e sono utilizzate dal sig. Ma. per la ordinaria conduzione del fondo, ergo le stesse non possono essere qualificare come opere precarie e temporanee, essendo destinate a dare un’utilità prolungata nel tempo. E, del resto, il fatto stesso che sia stata richiamata la possibilità della sanatoria postuma dimostra che il ricorrente ha interesse a conservarne l’uso anche in futuro.
Le opere in questione, poi, sviluppano anche volumetria, il che rileva ai sensi dell’art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42/2004.
7.2. Discorso analogo va fatto, in generale, per l’intervento di livellamento del piazzale, dovendosi ulteriormente precisare che lo stesso:
- dà luogo a trasformazione permanente del suolo (e dunque necessitava di titolo abilitativo);
- non può dirsi autorizzato permanentemente con la presa d’atto del Comune di cui alla nota prot. n. 1685 del 26/2/2011, la quale aveva efficacia autorizzativa di due anni, come è giusto che sia per opere dichiaratamente temporanee (si veda l’istanza presentata a suo tempo dal ricorrente documento - allegato n. 3 al ricorso);
- ai sensi e per gli effetti dell’art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42/2004, non ha sviluppato alcuna volumetria.
8. In conclusione, il ricorso va accolto solo in parte (TAR Marche, sentenza 02.11.2016 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl presupposto espressamente richiesto dall’art. 36 DPR 380/2001 per potersi conseguire il permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate senza il previo rilascio del necessario titolo edilizio, è che “l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda” (cd. “doppia conformità”).
Ed infatti in giurisprudenza è stato univocamente chiarito come la norma sia diretta a sanare opere solo formalmente abusive e non sia suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, per cui non basterebbe, per poterne fruire, la sola conformità delle opere alla strumentazione urbanistica vigente all’epoca di proposizione dell’istanza di accertamento.
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Corollario di tanto è che il permesso di costruire in sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché altrimenti, in contrasto appunto con l’art. 36 DPR 380/2001, postulerebbe non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì -eventualmente– solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato a tali prescrizioni.
Ulteriore e ovvia conseguenza del descritto quadro giuridico è, altresì, l’inapplicabilità della normativa posta dall’art. 15 DPR 380/2001 in tema di termini per l’inizio e il completamento dei lavori assentiti con permesso di costruire, nonché delle conseguenze del loro mancato rispetto (proprio perché, per definizione, non può esservi alcun lavoro ulteriore a farsi).

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Questione centrale da dirimere nel presente giudizio è quella relativa alla assoggettabilità, o meno, del permesso di costruire n. 88/2013, rilasciato ai ricorrenti, alla disciplina di cui all’art. 15, co. 1 e 2, DPR 380/2001 (“1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. 2. Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.”), atteso che il Comune di Trentola Ducenta, con il provvedimento impugnato a mezzo del ricorso introduttivo, ha dichiarato la decadenza di detto titolo edilizio applicando appunto la citata disposizione (nonché richiamando anche quella analoga posta dall’art. 15 del Regolamento Edilizio comunale, ma avente evidentemente rango secondario), sulla base dei seguenti assunti: “- che ad un anno dal rilascio non è pervenuta agli atti di ufficio la dovuta comunicazione di inizio e fine lavori; - che a seguito di apposito sopralluogo tecnico al protocollo comunale n. 4/U.T.C. del 13.04.2015 si è riscontrata la presenza di opere non conformi al Permesso di Costruire in Sanatoria n. 88/2013; - che la decadenza disciplinata dall’art. 15 del R.E.C. discende automaticamente dalla circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori e quindi è un effetto dell’inerzia dell’interessato”.
A fronte di tale operato, i ricorrenti sostengono che, trattandosi di un permesso di costruire in sanatoria, ovvero volto a legalizzare opere ormai realizzate, non avrebbe alcun senso o funzione applicare una disposizione riguardante specificamente lavori assentiti con titolo edilizio ordinario e ancora da farsi; tanto più che in tal senso deporrebbe anche la collocazione sistematica della norma (visto che l’art. 15 è inserito nel Titolo II, inerente i "Titoli abilitativi", al Capo II, rubricato "Permesso di Costruire"; mentre l’art. 36 è inquadrato nel Titolo IV, intitolato alla "Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, responsabilità e sanzioni", al Capo II, dedicato alle "Sanzioni", del D.P.R. 380/2001).
Di contro, il Comune di Trentola Ducenta, nelle proprie difese, sostiene la legittimità dell’operato del proprio Ufficio Urbanistica, deducendo che, in realtà, il Permesso di Costruire n. 88/2013 non sarebbe stato rilasciato secondo lo schema ordinario previsto dall’art. 36 DPR 380/2001, bensì si sarebbe trattato di un più complesso provvedimento, autorizzante anche l’esecuzione di lavori necessari a rendere l’immobile conforme alla disciplina urbanistica, o comunque impositivo di prescrizioni necessarie per il conseguimento della sanatoria (ed all’uopo fa riferimento agli esiti di un sopralluogo effettuato in data 13.04.2015, evidenzianti la sussistenza di più difformità rispetto appunto al permesso di costruire n. 88/2013).
La tesi difensiva del Comune non può essere condivisa.
Invero, va premesso che il presupposto espressamente richiesto dall’art. 36 DPR 380/2001 per potersi conseguire il permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate senza il previo rilascio del necessario titolo edilizio, è che “l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda” (cd. “doppia conformità”); ed infatti in giurisprudenza è stato univocamente chiarito come la norma sia diretta a sanare opere solo formalmente abusive e non sia suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, per cui non basterebbe, per poterne fruire, la sola conformità delle opere alla strumentazione urbanistica vigente all’epoca di proposizione dell’istanza di accertamento (cfr. TAR Calabria-Reggio Calabria n. 861 del 25.08.2015; TAR Campania-Napoli n. 4717 dell’08.10.2015; TAR Campania-Napoli n. 2004 dell’08.04.2015; TAR Campania-Napoli n. 1690 del 20.03.2014; TAR Campania-Napoli n. 3153 del 03.07.2012; TAR Campania-Napoli n. 17398 del 10.09.2010).
Corollario di tanto è che il permesso di costruire in sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché altrimenti, in contrasto appunto con l’art. 36 DPR 380/2001, postulerebbe non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì -eventualmente– solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato a tali prescrizioni (cfr. TAR Liguria n. 45 del 15.01.2016; TAR Liguria n. 1003 del 16.12.2015; TAR Liguria n. 995 del 03.12.2015; TAR Campania-Napoli n. 1527 del 12.03.2015; TAR Campania-Salerno n. 1017 del 28.05.2014; TAR Campania-Salerno n. 1034 del 02.05.2013; TAR Lazio-Latina n. 1004 del 20.12.2012; TAR Lombardia-Milano n. 7311 del 22.11.2010).
Ulteriore e ovvia conseguenza del descritto quadro giuridico è, altresì, l’inapplicabilità della normativa posta dall’art. 15 DPR 380/2001 in tema di termini per l’inizio e il completamento dei lavori assentiti con permesso di costruire, nonché delle conseguenze del loro mancato rispetto (proprio perché, per definizione, non può esservi alcun lavoro ulteriore a farsi).
Quanto alla concreta fattispecie in esame, va detto che è indiscutibile che il permesso di costruire n. 88/2013, a differenza di quanto sostenuto dal Comune di Trentola Ducenta, sia stato rilasciato “in sanatoria”, ai sensi dell’art. 36 DPR 380/2001, sia perché è con riferimento a tale norma che la relativa richiesta è stata presentata in data 05.06.2013, con il prot. n. 6945 (cfr. copia dell’istanza e allegata relazione tecnica); sia perché quest’ultima riguardava opere già realizzate e interessate da una precedente ordinanza demolitoria (la n. 1 del 17.01.2013, come riportato nell’ordinanza di demolizione oggetto di gravame a mezzo dei motivi aggiunti); sia perché tanto appare riconosciuto nello stesso Permesso di Costruire, oltre che nei successivi atti del Comune di Trentola Ducenta (e, in particolare in quelli in questa sede impugnati).
Orbene, pur non essendo ben chiaro se con il rilascio del permesso di costruire in parola fossero state anche imposte particolari ed essenziali prescrizioni riguardanti ulteriori attività edilizie da porsi in essere ad opera degli interessati, ovvero di quali prescrizioni in concreto si trattasse, per quel che qui interessa va detto che l’eventuale apposizione di prescrizioni, per un verso, stante il principio di tipicità degli atti amministrativi, non avrebbe potuto snaturare il provvedimento adottato (così che, al massimo, avrebbe potuto trattarsi di imposizioni del tutto secondarie e accessorie); e, per altro verso, che la loro presenza avrebbe potuto eventualmente incidere sulla legittimità del titolo (determinando la sussistenza di un vizio suscettibile di determinare l’esercizio dei poteri di autotutela), ma non certo costituire il presupposto per applicarsi l’art. 15 DPR 380/2001 al di fuori della sua portata. In altre parole, o per le opere di cui era stata chiesta la sanatoria era sussistente, al momento del rilascio del Permesso di Costruire n. 88/2013, la cd. “doppia conformità”, per cui, a prescindere dall’apposizione di eventuali prescrizioni (di carattere necessariamente solo accessorio e marginale), la P.A. non avrebbe potuto intervenire utilizzando la decadenza prevista dall’art. 15 DPR 380/2001 al fine di sanzionare il mancato rispetto appunto delle prescrizioni; oppure la cd. “doppia conformità” non era riscontrabile, per essere le prescrizioni apposte essenziali e decisive proprio per la sanatoria, ed allora la P.A., senza poter intervenire applicando la citata decadenza ex art. 15 DPR 380/2001, al più avrebbe potuto, in presenza dei presupposti di legge, annullare il titolo, poiché erroneamente rilasciato senza che vi fosse la cd. “doppia conformità”: in entrambe le ipotesi, come si vede, in ogni caso non vi sarebbe stato spazio per dichiarare una decadenza del titolo edilizio in applicazione dell’art. 15 cit., per mancata esecuzione di lavori oggetto di “prescrizioni”.
La determinazione n. 8 - n. 294 d'ordine reg. gen. del 29.04.2015 dell'Ufficio Urbanistica della Città di Trentola Ducenta, avente ad oggetto la decadenza della validità del permesso di costruire in sanatoria n. 88/2013, è pertanto illegittima secondo quanto lamentato dai ricorrenti in ricorso introduttivo; e per tale ragione la stessa va annullata.
L’acclarata illegittimità della determinazione n. 8 - n. 294 d'ordine reg. gen. del 29.04.2015 dell'Ufficio Urbanistica della Città di Trentola Ducenta riverbera, poi, effetti decisivi quanto all’impugnazione –interposta a mezzo dei motivi aggiunti– dell’ordinanza demolitoria n. 26 del 06.07.2015 sopravvenuta in corso di giudizio, con cui il responsabile dell’Area Urbanistica del Comune di Trentola Ducenta ha ingiunto ai ricorrenti la demolizione di opere qualificate come abusive.
Invero, l’unico presupposto su cui è fondata l’ingiunzione di demolizione suddetta (come evincibile dal suo testo) è proprio l’intervenuta decadenza del permesso di costruire in sanatoria n. 88/2013, in conseguenza del cui venir meno il Comune di Trentola Ducenta ha ritenuto abusive le opere per il tramite dello stesso in precedenza assentite: è chiaro, perciò, che, in via derivata, in conseguenza dell’illegittimità (e del disposto annullamento giurisdizionale) dell’unico atto presupposto, deriva l’illegittimità anche dell’ordinanza demolitoria in parola, per cui anche di essa va disposto l’annullamento.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.10.2016 n. 5010 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla legittimità di un provvedimento interdittivo antimafia per traffico illecito di rifiuti, di cui all'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Il disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di rifiuti, di cui all'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, costituiscono, già di per se stessi, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente esposti al malaffare e, sempre più di frequente, al concreto pericolo di infiltrazioni delle associazioni criminali di stampo camorristico.
Non a caso, infatti, l'art. 84, c. 4, lett. a), del d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informativa, sono desunte, tra l'altro, dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio o che recano una condanna, anche non definitiva, per taluni dei delitti di cui all'art. 51, c. 3-bis, c.p.p., tra i quali figura, espressamente, il delitto previsto dall'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 28.10.2016 n. 4557 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: La relazione geologica deve essere allegata, dai concorrenti ad una procedura di affidamento di un appalto integrato, al progetto esecutivo presentato in sede di gara se contenente integrazioni o modifiche al progetto definitivo posto a base di gara.
Le concorrenti ad una procedura di affidamento di un appalto integrato di progettazione e lavori devono allegare al progetto esecutivo presentato in sede di gara la relazione geologica se contenente integrazioni o modifiche alla corrispondente relazione facente parte del progetto definitivo posto a base di gara.
Peraltro si precisa che in caso di modifiche o integrazioni di tale rilievo l'esclusione dalla gara può essere giustificata non già dall'integrazione della lex specialis ad opera di quella regolamentare contenuta nel d.P.R. n. 207 del 2010 e relativa ai livelli di progettazione in materia di appalti pubblici di lavori, ma per la carenza di un elemento essenziale dell'offerta.
Pertanto, non è condivisibile l'orientamento giurisprudenziale a mente del quale le relazioni specialistiche allegate al progetto, ivi compresa la relazione geologica devono essere elaborate a cura dei concorrenti in sede di offerta tecnica nell'ambito di una procedura di affidamento di un appalto integrato anche a prescindere da uno specifico obbligo imposto dal bando (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.10.2016 n. 4553 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PATRIMONIO: Sussiste la giurisdizione del g.o. per la controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto la ristrutturazione di un impianto sportivo comunale, nonché la sua successiva gestione: presupposti.
Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto l'integrale ristrutturazione ed ampliamento di un impianto sportivo comunale (come è, nel caso di specie), nonché la sua successiva gestione pluriennale, ove, nella comparazione tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti preminente e tale da identificare il vero oggetto del contratto, la realizzazione delle opere rispetto alla gestione degli impianti, che, per il canone richiesto, assume rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato dell'impresa, la remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l'interesse dell'amministrazione al funzionamento dei servizi sportivi.
Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa alla fase di esecuzione di una convenzione avente ad oggetto la costruzione e la ristrutturazione di un complesso immobiliare destinato ad area termale, nonché l'affidamento in gestione al concessionario dell'offerta al pubblico degli impianti e servizi relativi, previa corresponsione al comune di un canone annuo, non avendo rilievo la precedente distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell'opera (o di costruzione e gestione congiunti), sussistendo piuttosto l'unica categoria della concessione di lavori pubblici, nella quale la gestione funzionale ed economica dell'opera non costituisce più un accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2016 n. 4539 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Presupposti per l'applicazione del nuovo rito appalti ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a.
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Contratti della P.A. – Aggiudicazione – Impugnazione – Rito – Art. 120, commi 2 bis e 6 bis, c.p.a. – Applicazione – Presupposti.
I commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., introdotti dall’art. 204 del nuovo Codice dei contratti pubblici, non si applicano se non si è perfezionato l'iter procedimentale previsto dal suddetto Codice, e quindi se le determinazioni della Commissione di gara sono contenute in verbali pubblicate sul sito della stazione appaltante e non sul profilo del comune committente, come prescritto dal nuovo Codice.
Peraltro, seppure l'art. 120 c.p.a., nella sua attuale formulazione, è norma processuale, con la conseguenza che dovrebbe affermarsi la sua immediata applicazione, non appare ragionevole l’estensione del rigoroso regime, dalla stessa previsto in ordine ai ristretti termini di decadenza, a provvedimenti di ammissione adottati più di 30 giorni prima della sua entrata in vigore, con conseguente spostamento del dies a quo a tale data.

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Fermo restando la necessità di un maggiore approfondimento nella fase di merito, non sembrerebbe fondata l’eccezione di irricevibilità sollevata dalla controinteressata, la quale sostiene che, in base al disposto dell’art. 120, comma 6-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, comma 1, lettera d), del d.lgs.vo n. 50 del 18.04.2016, costituente norma processuale, il provvedimento di ammissione contenuto nel verbale del 19.01.2016 avrebbe dovuto essere impugnato entro il termine perentorio di 30 giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione.
Sembra, infatti, al collegio che, indipendentemente dalla complessa questione dell’applicabilità di tale disposizione a una gara bandita sulla base del previgente d.lgs.vo n. 163 del 2006, non appare ragionevole l’estensione del rigoroso regime dalla stessa previsto a provvedimenti di ammissione adottati più di 30 giorni prima della sua entrata in vigore con conseguente spostamento del dies a quo a tale data.
Nel merito, il ricorso è assistito da adeguato fumus boni juris in quanto la controinteressata sembrerebbe priva del requisito tecnico richiesto dal bando quanto meno con riferimento alla parte riferita alla gestione di “centri comunali di raccolta, presso uno o più comuni con popolazione cumulativamente non inferiore a 10.000 abitanti”.
Tale disposizione sembrerebbe, infatti, richiedere la gestione di almeno un centro di raccolta posto a servizio di una popolazione pari ad almeno 10.000 abitanti appartenenti a uno o più Comuni.
La controinteressata ha, invece, gestito più centri di raccolta riferiti a Comuni con popolazione inferiore a tale limite dimensionale.
Ritiene, pertanto, il collegio che, tenuto conto dell’esigenza di evitare l’interruzione del servizio, alle esigenze cautelari prospettate dalla parte ricorrente può darsi adeguata tutela senza sospendere gli effetti degli atti e fissando l’udienza per la trattazione del merito del ricorso (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, ordinanza 28.10.2016 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della P.A. – Gara – Documentazione – Omessa allegazione di copia del documento d’identità all’autocertificazione e mancata apposizione della data al curriculum professionale – Soccorso istruttorio - Possibilità.
Ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, costituiscono irregolarità sanabili a seguito del c.d. soccorso istruttorio, e non determinano quindi l’esclusione del concorrente dalla gara, l’omessa allegazione di copia del documento d’identità all’autocertificazione e la mancata apposizione della data al curriculum professionale versato nella documentazione allegata alla domanda di partecipazione.
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II – Il ricorso è ammissibile e fondato.
III - Il ricorso rientra nel “rito appalti”, di cui all’art. 120 comma sesto del c.p.a. e come tale appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi nella specie di procedura inquadrabile tra quelle finalizzate all’acquisizione di servizi, di cui all’art. 36, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 50/2016 (nuovo Codice degli appalti).
Ciò si evince dagli elementi quali la qualificazione giuridica di “selezione per l’acquisizione di servizi”, data dalla stessa Amministrazione nell’avviso pubblico, il carattere della prestazione richiesta, la coerenza della procedura attivata con la normativa sulle procedure semplificate di appalto per l’affidamento sotto-soglia di servizi, di cui al citato art. 36, comma 2, lett. b), del Codice degli appalti.
IV - Tale considerazione radica, come già detto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e rende ammissibile il ricorso, anche nelle sue forme espresse, ad eccezione del contributo unificato versato dalla parte ricorrente per la causa che, tuttavia, può essere regolarizzato in via postuma.
V – A prescindere dalle questioni di ammissibilità del gravame –peraltro genericamente sollevate ed eccepite dall’Amministrazione resistente– il ricorso è fondato nell’ultimo motivo.
IV - Invero, le censure d’illegittimità dell’ammissione della controinteressata alla procedura selettiva, sono da ritenersi inattendibili, atteso che le irregolarità dell’autocertificazione e del curriculum vitae -prodotti dalla controinteressata nella sua documentazione– sembrerebbero sanabili in sede di soccorso istruttorio e non sarebbero causa di esclusione del candidato. Invero, l’art. 83, comma nono, del Codice degli appalti (D.Lgs. n. 50/2016) prevede che costituiscano irregolarità essenziali non sanabili in sede di soccorso istruttorio “le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa”.
A tenore della stessa normativa, “le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica”.
Si può, pertanto, ritenere ininfluenti, ai fine della legittimità della procedura, la mancata allegazione di copia del documento d’identità e la mancata datazione del curriculum professionale.
Nondimeno, il fatto –non contestato dall’Amministrazione resistente- che la commissione di gara abbia fissato i sub-criteri di valutazione dei titoli, solo dopo aver preso visione della documentazione dei titoli delle concorrenti, unitamente al fatto che la valutazione dei titoli ha influito e pesato in modo determinante nella redazione della graduatoria finale, evidenzia un profilo di eccesso di potere e di violazione dei principi di trasparenza e imparzialità, che inficia non solo l’esito della gara ma l’intera procedura.
La determinazione a posteriori di una ponderazione degli elementi valutativi dei titoli delle concorrenti, in ipotesi, ha potuto influenzare la valutazione stessa e ciò vìola i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (cfr.: Tar Puglia Bari I, 06.09.2011 n. 1295) (TAR Molise, sentenza 28.10.2016 n. 444 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati edilizi, l'esecuzione dell'ordine di demolizione, impartito dal giudice a seguito dell'accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è escluso dall'alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo perché l'ordine di demolizione, avendo carattere reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi, con la sola conseguenza che l'avente causa, se estraneo all'abuso, potrà rivalersi nei confronti del dante causa, o dei suoi eredi, a seguito dell'avvenuta demolizione.
Infatti l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato
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Ne consegue che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, legittimamente adottato, deve essere eseguito nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa.
Pertanto,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti di qualunque acquirente dal condannato, stante la preminenza dell'interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del condannato.

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RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 09.02.2015, il Tribunale di Trapani rigettava la richiesta di Gi.Co., diretta ad ottenere la revoca o la sospensione dell'ordine di demolizione di opere abusive, quale pronunzia consequenziale ad una sentenza di condanna del Tribunale di Trapani, sez. distaccata di Alcamo, divenuta irrevocabile il 07.07.2004.
Il Tribunale affermava che l'ordine, avendo la sanzione natura reale, avrebbe esplicato effetto nei confronti di chiunque avesse la disponibilità del manufatto, né avrebbe potuto ostare alla demolizione l'acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale, in assenza di elementi idonei ad affermare l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento dell'opera.
2. Ricorre per cassazione Gi.Co., svolgendo un unico motivo. Assume il ricorrente che, avendo egli dato prova della cessione a terzi del manufatto, sarebbe stato onere del giudice dell'esecuzione disporre la citazione dell'attuale proprietario, anche al fine di verificare le istanze amministrative ai fini della sanatoria dell'abuso. Ed infatti, l'immobile era stato trasferito a tale Ro.Co., con decreto del giudice dell'esecuzione civile il 02.10.2007.
Nel suo parere, reso per iscritto, il Procuratore Generale ha sollecitato il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Questa Corte ha recentemente ribadito il principio di diritto secondo il quale,
in tema di reati edilizi, l'esecuzione dell'ordine di demolizione, impartito dal giudice a seguito dell'accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è escluso dall'alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo [Sez. 3, n. 42699 del 23/10/2015, Curcio, Rv. 265193; Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802] perché l'ordine di demolizione, avendo carattere reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi, con la sola conseguenza che l'avente causa, se estraneo all'abuso, potrà rivalersi nei confronti del dante causa, o dei suoi eredi, a seguito dell'avvenuta demolizione.
Infatti l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato (ex multis, Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175).
Ne consegue che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, legittimamente adottato, deve essere eseguito nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa (Sez. 3, n. 39322 del 13/07/2009, Berardi, ed altri Rv. 244612).
Pertanto,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti di qualunque acquirente dal condannato, stante la preminenza dell'interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del condannato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.10.2016 n. 45433).

APPALTIDeve ribadirsi l’assunto di diritto per cui la riscontrata violazione (totale assenza dell'impegno di un fideiussore a garantire l'esecuzione del contratto) non risulta suscettibile di successivo recupero attraverso l’invocato meccanismo del soccorso istruttorio in ragione della sua intima connessione con la formulazione dell’offerta e (proprio per questa ragione) della sua espressa imposizione normativa a pena di esclusione (art. 75, comma 8, del d.l.vo 2006 n. 163).
Sul punto il Collegio ritiene di dover sottolineare il diverso regime che astringe le irregolarità relative alla cauzione provvisoria (non potendosi in tal caso senz’altro escludere il concorrente che abbia presentato una siffatta cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre irregolarità) dalla diversa ipotesi, quale verificatasi nel caso di specie, di mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a rilasciare la fideiussione definitiva che, differentemente dalla prima, integra una causa testuale di esclusione, coerente con il canone della tassatività in ragione della sua stretta connessione strutturale e funzionale con la formulazione dell’offerta.

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Occorre ribadire che la violazione ora indicata è sanzionata con l'esclusione dall'art. 75, comma 8, del Cod. dei contratti, dal quale è previsto come corredo necessario dell'offerta e riflette le esigenze sottese alla previsione dell'art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006 n. 163.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che:
   1) l'art. 75, comma 1, del d.l.vo n. 163 del 2006 prevede che l'offerta è corredata da una garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente e il successivo comma 6 indica che la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo. L'art. 75, comma 8, invece, prevede che l'offerta è altresì corredata, "a pena di esclusione", dall'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui all'art. 113, qualora l'offerente risultasse affidatario;
   2) la diversa formulazione delle due norme consente di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata presentazione della cauzione provvisoria, al contrario dell'impegno per la cauzione definitiva, previsto "a pena di esclusione", che garantisce l'impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica, in caso di omissione, l'esclusione dalla gara;
   3) insomma, la diversa formulazione letterale del comma 6, in relazione al comma 8, dell'art. 75 rende evidente l'intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria e non la mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a garantire l'esecuzione del contratto, impegno ben più consistente, essendo riferito all'integrale adempimento delle obbligazioni contrattuali.
Ne consegue che la giurisprudenza, con argomentazioni e conclusioni qui pienamente condivise, ha ammesso che, “mentre la norma sulla cauzione provvisoria va intesa nel senso che la stazione appaltante non può escludere il concorrente che abbia presentato una cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre irregolarità, dovendosi consentire, in tali casi, in applicazione del c.d. soccorso istruttorio di cui all'art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, la regolarizzazione della cauzione prodotta, al contrario la mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia per l'esecuzione del contratto integra una causa testuale di esclusione, coerente con il canone della tassatività posto dall'art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006 n. 163”.
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Il ricorso –sia nella dimensione finale al conseguimento dell’aggiudicazione della gara de qua, sia nell’ottica strumentale della ripetizione dell’intera procedura– è infondato e va respinto per le ragioni che seguono, di talché può prescindersi dall’esame del gravame incidentale.
Quanto al primo profilo ed in relazione alle censure volte a contestare la disposta esclusione dell’offerta dell’odierna ricorrente, deve ribadirsi l’assunto di diritto, già enucleato in sede di decisione sull’istanza cautelare, per cui la riscontrata violazione (totale assenza dell'impegno di un fideiussore a garantire l'esecuzione del contratto) non risulta suscettibile di successivo recupero attraverso l’invocato meccanismo del soccorso istruttorio in ragione della sua intima connessione con la formulazione dell’offerta e (proprio per questa ragione) della sua espressa imposizione normativa a pena di esclusione (art. 75, comma 8, del d.l.vo 2006 n. 163).
Sul punto, pur nella riscontrata diversità di approcci ermeneutici, il Collegio ritiene di dover sottolineare il diverso regime che astringe le irregolarità relative alla cauzione provvisoria (non potendosi in tal caso senz’altro escludere il concorrente che abbia presentato una siffatta cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre irregolarità) dalla diversa ipotesi, quale verificatasi nel caso di specie, di mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a rilasciare la fideiussione definitiva che, differentemente dalla prima, integra una causa testuale di esclusione, coerente con il canone della tassatività in ragione della sua stretta connessione strutturale e funzionale con la formulazione dell’offerta.
Premesso in fatto che non è contestato che la ricorrente, in sede di presentazione dell'offerta, abbia omesso di presentare la garanzia de qua e che, a differenza dei precedenti da essa citati, non si tratta (anche) di una non corretta presentazione in termini di misura del quantum correlata alla cauzione provvisoria, occorre ribadire che la violazione ora indicata è sanzionata con l'esclusione dall'art. 75, comma 8, del Cod. dei contratti, dal quale è previsto come corredo necessario dell'offerta e riflette le esigenze sottese alla previsione dell'art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006 n. 163.
La stessa lex specialis di gara (punto A.4) –lungi, secondo la non condivisibile prospettazione di parte ricorrente, dallo smentire tale ricostruzione– limita l’attività di postuma regolarizzazione alle sole situazioni di “difformità” (non riconducibili alla diversa ipotesi di radicale carenza) ed in relazione soltanto a quanto previsto “ai fini della presentazione per il deposito cauzionale”.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che:
1) l'art. 75, comma 1, del d.l.vo n. 163 del 2006 prevede che l'offerta è corredata da una garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente e il successivo comma 6 indica che la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo. L'art. 75, comma 8, invece, prevede che l'offerta è altresì corredata, "a pena di esclusione", dall'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui all'art. 113, qualora l'offerente risultasse affidatario;
2) la diversa formulazione delle due norme consente di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata presentazione della cauzione provvisoria, al contrario dell'impegno per la cauzione definitiva, previsto "a pena di esclusione", che garantisce l'impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica, in caso di omissione, l'esclusione dalla gara (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 01.02.2012, n. 493);
3) insomma, la diversa formulazione letterale del comma 6, in relazione al comma 8, dell'art. 75 rende evidente l'intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria e non la mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a garantire l'esecuzione del contratto, impegno ben più consistente, essendo riferito all'integrale adempimento delle obbligazioni contrattuali (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 19.04.2013, n. 3983; TAR Lazio Roma, sez. III, 20.11.2013, n. 9939; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 19.03.2013, n. 647; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 23.12.2013, n. 2595).
Ne consegue che la giurisprudenza (cfr. da ultimo TAR Lazio-Roma, sez. II, 30/11/2015, n. 13503), con argomentazioni e conclusioni qui pienamente condivise, ha ammesso che, “mentre la norma sulla cauzione provvisoria va intesa nel senso che la stazione appaltante non può escludere il concorrente che abbia presentato una cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre irregolarità, dovendosi consentire, in tali casi, in applicazione del c.d. soccorso istruttorio di cui all'art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, la regolarizzazione della cauzione prodotta, al contrario la mancata presentazione dell'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia per l'esecuzione del contratto integra una causa testuale di esclusione, coerente con il canone della tassatività posto dall'art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006 n. 163”.
Nel caso che occupa, non si verte in un'ipotesi di necessità di successiva regolarizzazione della garanzia, in quanto, al momento della presentazione dell'offerta, questa si manifestava priva del necessario corredo e non invece accompagnata da una garanzia insufficiente.
Dalle letture ermeneutiche sopra riportate si può far discendere, dunque, per quanto qui interessa, che l'esclusione è giustificata dall'incompletezza dell'offerta (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 27.10.2016 n. 4988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Va premesso in punto di diritto che se è vero che in ordine all’apprezzamento discrezionale —insindacabile nel merito— la cognizione del Giudice Amministrativo deve ritenersi piena (in conformità all’indirizzo giurisprudenziale formatosi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 09.04.1999, n. 601, in cui si chiarisce come il sindacato giurisdizionale non possa essere limitato ad un esame estrinseco della valutazione discrezionale, secondo i noti parametri di logicità, congruità e completezza dell’istruttoria, dovendo invece l’oggetto del giudizio estendersi alla esatta valutazione del fatto, secondo i parametri della disciplina nella fattispecie applicabile), nondimeno ciò deve aver luogo senza prescindere dalla priorità che deve essere accordata alle scelte dell’Amministrazione, ove di tali scelte —pur opinabili— sia comunque pienamente comprensibile la logica interna, sulla base di circostanze di fatto non smentite da chi vi abbia interesse, o di mere affermazioni difensive, che non possono costituire di per sé principio di prova, su questioni scientificamente complesse.
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Parimenti infondata si presenta la seconda serie di doglianze volte a conseguire, in un’ottica strumentale di interesse alla ripetizione della gara in presenza di sue soli partecipanti, l’esclusione dell’offerta dell’odierna controinteressata per significativa divergenza della stessa rispetto ai requisiti tecnici richiesti dai documenti di gara.
Al riguardo va premesso in punto di diritto che se è vero che in ordine all’apprezzamento discrezionale —insindacabile nel merito— la cognizione del Giudice Amministrativo deve ritenersi piena (in conformità all’indirizzo giurisprudenziale formatosi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 09.04.1999, n. 601, in cui si chiarisce come il sindacato giurisdizionale non possa essere limitato ad un esame estrinseco della valutazione discrezionale, secondo i noti parametri di logicità, congruità e completezza dell’istruttoria, dovendo invece l’oggetto del giudizio estendersi alla esatta valutazione del fatto, secondo i parametri della disciplina nella fattispecie applicabile); nondimeno ciò deve aver luogo senza prescindere dalla priorità che deve essere accordata alle scelte dell’Amministrazione, ove di tali scelte —pur opinabili— sia comunque pienamente comprensibile la logica interna, sulla base di circostanze di fatto non smentite da chi vi abbia interesse, o di mere affermazioni difensive, che non possono costituire di per sé principio di prova, su questioni scientificamente complesse (cfr. di recente Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 23/03/2016, n. 1196).
Orbene, nella specie, con riguardo alle dedotte difformità rispetto sia al requisito della risoluzione della proiezione (4K) che di illuminazione della struttura, si rileva di contro come per un verso non vi sia alcun diretto ed evidente contrasto con quanto indicato nel disciplinare, soddisfacendo l’offerta dell’odierna controinteressata i parametri tecnici minimi ivi indicati; e, per altro verso, la contestazione si risolva in una soggettiva gradazione di profili qualitativi che, in assenza di profili di erroneità o evidente irragionevolezza, tendono a risolversi in un’inammissibile sostituzione delle valutazioni operate dalla pubblica amministrazione.
In definitiva il ricorso principale va respinto di talché non vi è interesse alla disanima delle censure formulate, in chiave esclusivamente paralizzante, in sede di ricorso incidentale che pertanto va dichiarato improcedibile (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 27.10.2016 n. 4988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare.
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1. E’ fondato ed assorbente delle altre censure il secondo motivo di gravame con il quale è denunciata la violazione dei principi del favor partecipationis, di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza dell'azione amministrativa, nonché affermata la doverosa applicazione del soccorso istruttorio.
1.1. La statuizione del TAR è invero conforme alle indicazioni dettate in funzione nomofilattica dalle Adunanze Plenarie, 20.03.2015, n. 3 e 02.11.2015, n. 9.
In particolare, al tempo della decisione di prime cure, l’Adunanza plenaria n. 3 del 2015 aveva chiarito che in tutti gli appalti (anche in quelli di lavori) vi era l’obbligo, a pena di esclusione, di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza, specificando altresì che essi costituivano un elemento essenziale dell’offerta e che, quindi, la loro mancata indicazione non era sanabile mediante il soccorso istruttorio.
L’Adunanza plenaria n. 9 del 2015 aveva inoltre affermato che tale principio, stante la natura dichiarativa e non costitutiva dell’interpretazione giurisprudenziale, avrebbe dovuto valere anche per gare in cui la fase di presentazione delle offerte si fosse esaurita prima della pubblicazione dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2015.
1.2. Nelle more del giudizio d’appello si è tuttavia nuovamente pronunciata l’Adunanza Plenaria, affrontando, in particolare, i profili della compatibilità con il diritto dell’Unione Europea della soluzione adottata con la sentenza n. 9 del 2015. All’esito di una compiuta ed approfondita ricognizione dei principi comunitari, essa ha ritenuto che “l’automatismo dell’effetto escludente si ponga in contrasto con i principi di certezza del diritto, tutela dell’affidamento, nonché con quelli, che assumono particolare rilievo nell’ambito delle procedure di evidenza pubblica, di trasparenza, proporzionalità e par condicio”.
Muovendo dal recente indirizzo della Corte di giustizia (Sesta Sezione, sentenza 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo), ha, per quanto qui rileva, concluso con il seguente principio di diritto “per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare…”.
2. Il collegio ritiene che non vi siano motivi per discostarsi da tale autorevole e recente arresto.
3. Ne consegue, in riforma della sentenza gravata, il rigetto del ricorso introduttivo di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.10.2016 n. 4527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza formatasi sulla norma statale (art. 34 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380) ha chiarito che “…il primo atto del procedimento per la repressione di abusi edilizi è costituito dalla diffida dell'autorità comunale al responsabile dell'opera, perché demolisca, adeguandosi spontaneamente all'ordine di ripristino della legalità edilizia, restando all'amministrazione la successiva scelta della sanzione pecuniaria o della demolizione, in ragione delle concrete esigenze della fattispecie"; con la conseguenza che l'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria…”.
Inoltre, la giurisprudenza ha affermato che la sanzione pecuniaria va applicata “soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione” e che “il privato sanzionato con l’ordine di demolizione per la costruzione di un’opera edilizia abusiva non può invocare l’applicazione in suo favore dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), che comporta l’applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l’ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull’utilizzazione del bene residuo, perché per impedire l’applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell’edificio, consistente in una menomazione dell’intera stabilità del manufatto”.
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3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e falsa applicazione degli artt. 80 e sss. della legge provinciale n. 13 del 1997 e per eccesso di potere, sotto i profili della erroneità della motivazione, del travisamento dei fatti e del difetto istruttorio.
Il ricorrente afferma che il Comune di San Pancrazio avrebbe dovuto, anziché ordinare la demolizione delle opere, limitarsi ad applicare una sanzione amministrativa, come previsto dall’art. 83, comma 2, della legge provinciale n. 13 del 1997, visto che “risulta pacifico che le opere di cui si chiede la demolizione non può avvenire senza pregiudizio per la parte eseguita in conformità”.
La censura non è fondata.
L’art. 83 della legge provinciale n. 13 del 1997 (“Opere eseguite in parziale difformità dalla concessione”), così recita: “1. Le opere eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo, e comunque non oltre 120 giorni, fissato dalla relativa ordinanza del sindaco. Dopo tale termine sono demolite a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il sindaco applica una sanzione pari al doppio del costo di costruzione, stabilito in base all'articolo 73 della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio estimo provinciale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale
”.
Osserva il Collegio che la norma citata suddivide il procedimento amministrativo in due fasi distinte: una prima fase (disciplinata dal comma 1), avente natura vincolata, nella quale il Sindaco diffida il responsabile a demolire le opere eseguite in parziale difformità alle concessioni edilizie, e una successiva fase, avente natura discrezionale, in cui, su richiesta del responsabile e previa dimostrazione da parte dello stesso del requisito dell’impossibilità di demolire le opere senza recare pregiudizio alle parti eseguite in conformità, il Sindaco applica la sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione, stabilito in base all’art. 73 della stessa legge.
La giurisprudenza formatasi sulla corrispondente norma statale (art. 34 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380), di pari tenore per quanto concerne il procedimento da seguire, ha chiarito che “…il primo atto del procedimento per la repressione di abusi edilizi è costituito dalla diffida dell'autorità comunale al responsabile dell'opera, perché demolisca, adeguandosi spontaneamente all'ordine di ripristino della legalità edilizia, restando all'amministrazione la successiva scelta della sanzione pecuniaria o della demolizione, in ragione delle concrete esigenze della fattispecie"; con la conseguenza che l'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria…” (cfr. TAR Brescia, Sez. I, 27.07.2011, n. 1205).
Inoltre, la giurisprudenza ha affermato che la sanzione pecuniaria va applicata “soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912) e che “il privato sanzionato con l’ordine di demolizione per la costruzione di un’opera edilizia abusiva non può invocare l’applicazione in suo favore dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), che comporta l’applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l’ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull’utilizzazione del bene residuo, perché per impedire l’applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell’edificio, consistente in una menomazione dell’intera stabilità del manufatto” (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 15.04.2016, n. 1038; nello stesso senso, Tar Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.01.2015, n. 43, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.02.2015, n. 759 e TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, 27.05.2013, n. 5277).
Orbene, considerato che il provvedimento impugnato concerne la prima fase del procedimento repressivo (art. 83, comma 1, L.P. n. 13/1997) la censura del ricorrente non è pertinente.
In ogni caso, qualora il ricorrente intenda far valere all’Amministrazione comunale l’applicazione dell’art. 83, comma 2 della citata legge provinciale n. 13/1997, può presentare al Comune di San Pancrazio un’apposita istanza, corredata dalla documentazione idonea a dimostrare, sul piano tecnico, che la demolizione delle parti eseguite in difformità dalle concessioni edilizie non può avvenire senza pregiudizio delle parti eseguite in conformità. Spetterà poi all’Amministrazione comunale valutare tale prova e decidere sulla relativa istanza del ricorrente (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 26.10.2016 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUna pronuncia di decadenza di un permesso di costruire, in particolare allorquando consegua ad una comunicazione di avvio dei lavori e si fondi sulla qualificazione difforme tra le parti di opere eseguite, debba necessariamente essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, senza che a ciò osti la natura vincolata del provvedimento di decadenza.
Come ha chiaramente rilevato il Consiglio di Stato “riferendosi la misura di decadenza ad un titolo in virtù del quale sono comunque iniziate e si sono realizzate opere, una comunicazione di avvio del procedimento in cui fossero adeguatamente precisati i presupposti che inducevano l’amministrazione a ritenere invece il mancato inizio sarebbe stata in grado (oltre a fornire un adeguato preavviso a chi aveva confidato di operare secondo diritto in virtù della copertura fornita dal permesso e del silenzio tenuto dall’Amministrazione….) di avviare un utile contraddittorio sui presupposti del provvedimento e di consentire alla stessa amministrazione di fornire un’adeguata motivazione a supporto della sua azione”.
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Nella specie la comunicazione di avvio del procedimento di decadenza è mancata, così come è mancata la comunicazione dei motivi ostativi rispetto all’istanza di variante.
Né appare che la violazione delle norme procedimentali di cui agli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 possa essere supplita dalla indicazione contenuta nel provvedimento gravato nella quale si afferma che “le eventuali osservazioni e/o memorie scritte inerenti il procedimento in oggetto dovranno essere depositate entro e non oltre 10 gg. dal ricevimento della presente”; il senso della previsione non è chiaro, essendo contenuto non in atto endo-procedimentale emesso nel corso del procedimento, bensì nel provvedimento finale, assunto al termine del procedimento, così che le osservazioni e memorie eventualmente presentate dal privato non avrebbero possibilità alcuna di essere valutate nel procedimento che è ormai chiuso, potendo al più condurre ad una rivalutazione nell’ambito di nuovo e successivo procedimento di autotutela.

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Nella declaratoria di decadenza del permesso di costruire, ove l'assunto è contenuto -peraltro- in motivazione assai sintetica secondo cui non vi sarebbe stato avvio dei lavori in quanto i pilastri di fondazione, pur effettivamente rinvenuti, non corrisponderebbero al progetto assentito, la motivazione non pare sufficiente a negare che vi sia stato un “inizio dei lavori”, ai sensi dell’art. 15 del DPR n. 380 del 2001, giacché non risulta una inerzia totale, indice di mancanza di volontà di dar corso ai lavori assentiti, ma semmai una difformità tra opere assentite e opere realizzate, che potrà condurre al altri provvedimenti dell’Amministrazione ma non ad una pronuncia di decadenza. 
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7 – Con il secondo e decimo motivo, che devono essere congiuntamente esaminati, i ricorrenti contestano il gravato provvedimento per violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale (artt. 7 e art. 10-bis della legge n. 241 del 1990) e contestano altresì la previsione contenuta dell’atto inerente alla possibile presentazione di memorie e documenti dopo l’emanazione dell’atto stesso.
Le censure sono fondate.
Ritiene in primo luogo il Collegio che una pronuncia di decadenza di un permesso di costruire, in particolare allorquando consegua ad una comunicazione di avvio dei lavori e si fondi sulla qualificazione difforme tra le parti di opere eseguite, com’è nella specie, debba necessariamente essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, senza che a ciò osti la natura vincolata del provvedimento di decadenza.
Come ha chiaramente rilevato il Consiglio di Stato “riferendosi la misura di decadenza ad un titolo in virtù del quale sono comunque iniziate e si sono realizzate opere, una comunicazione di avvio del procedimento in cui fossero adeguatamente precisati i presupposti che inducevano l’amministrazione a ritenere invece il mancato inizio sarebbe stata in grado (oltre a fornire un adeguato preavviso a chi aveva confidato di operare secondo diritto in virtù della copertura fornita dal permesso e del silenzio tenuto dall’Amministrazione….) di avviare un utile contraddittorio sui presupposti del provvedimento e di consentire alla stessa amministrazione di fornire un’adeguata motivazione a supporto della sua azione” (Cons. Stato, sez. III, 04.04.2013, n. 1870).
Nella specie la comunicazione di avvio del procedimento di decadenza è mancata, così come è mancata la comunicazione dei motivi ostativi rispetto all’istanza di variante.
Né appare che la violazione delle norme procedimentali di cui agli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 possa essere supplita dalla indicazione contenuta nel provvedimento gravato nella quale si afferma che “le eventuali osservazioni e/o memorie scritte inerenti il procedimento in oggetto dovranno essere depositate entro e non oltre 10 gg. dal ricevimento della presente”; il senso della previsione non è chiaro, essendo contenuto non in atto endo-procedimentale emesso nel corso del procedimento, bensì nel provvedimento finale, assunto al termine del procedimento, così che le osservazioni e memorie eventualmente presentate dal privato non avrebbero possibilità alcuna di essere valutate nel procedimento che è ormai chiuso, potendo al più condurre ad una rivalutazione nell’ambito di nuovo e successivo procedimento di autotutela; si aggiunga che il richiamo alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4823 del 2015, contenuto nella memoria difensiva comunale a suffragio della condotta dell’ufficio, è anch’esso non convincente, quella pronuncia affermando la necessaria emanazione di atto formale di decadenza, che per quanto meramente dichiarativo ha comunque la funzione di far chiarezza nei rapporti tra le parti, ma non essendo da intendere come giustificativa di un contraddittorio “dopo il provvedimento”, bensì nell’utilità in sé del provvedimento anche meramente dichiarativo in quanto emesso in esito allo svolgimento di un contradditorio (previo) tra le parti.
8 – Con il quarto motivo i ricorrenti censurano il provvedimento gravato, sul rilievo della insussistenza dei presupposti per la declaratoria di decadenza del titolo edilizio.
La censura è fondata.
Osserva il Collegio che non appare nella specie convincente l’assunto dell’Amministrazione, contenuto peraltro in motivazione assai sintetica, secondo cui non vi sarebbe stato avvio dei lavori, in quanto i pilastri di fondazione, pur effettivamente rinvenuti, non corrisponderebbero al progetto assentito.
Ciò non pare sufficiente a negare che vi sia stato un “inizio dei lavori”, ai sensi dell’art. 15 del DPR n. 380 del 2001, giacché non risulta una inerzia totale, indice di mancanza di volontà di dar corso ai lavori assentiti, ma semmai una difformità tra opere assentite e opere realizzate, che potrà condurre al altri provvedimenti dell’Amministrazione ma non ad una pronuncia di decadenza.
Ciò anche per la mancanza di articolata motivazione in ordine alla tempistica di realizzazione delle opere rinvenute e alla conseguente dimostrazione della inerzia di parte ricorrente dopo l’assentimento del permesso di costruire n. 14 del 2012 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 25.10.2016 n. 1537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare: solo la mancata dimostrazione del pagamento del contributo Anac comporta l’esclusione.
Ancorché il mancato pagamento del contributo previsto dell'art. 1, commi 65 e 67, della l. 23.12.2005, n. 266, costituisca causa di esclusione, l’estromissione dalla gara si giustifica solamente nei casi in cui il versamento della somma prescritta sia stato completamente omesso ma non qualora esso sia stato eseguito modalità diverse da quelle impartite dall'Autorità stessa.
Di tale principio è stata fatta applicazione anche in una fattispecie nella quale il partecipante non aveva indicato nella ricevuta il codice GIG identificativo della gara alla quale il contributo si riferiva
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Il ricorso per motivi aggiunti è fondato.
Il Collegio concorda con i pareri più volte espressi dalla Autorità Anticorruzione in base ai quali ancorché il mancato pagamento del contributo previsto dell'art. 1, commi 65 e 67, della l. 23.12.2005, n. 266, costituisca causa di esclusione, l’estromissione dalla gara si giustifica solamente nei casi in cui il versamento della somma prescritta sia stato completamente omesso ma non qualora esso sia stato eseguito modalità diverse da quelle impartite dall'Autorità stessa (parere di precontenzioso n. 199 del 20/11/2013).
Di tale principio è stata fatta applicazione anche in una fattispecie nella quale il partecipante non aveva indicato nella ricevuta il codice GIG identificativo della gara alla quale il contributo si riferiva (Parere n. 156 del 20.12.2007).
Nel caso di specie la ricorrente non ha omesso di versare il contributo né ha mancato di fornire alla stazione appaltante la relativa dimostrazione ma ha semplicemente indicato nella ricevuta prodotta un codice GIG errato in quanto corrispondente ad un lotto di gara diverso.
Tale errore, tuttavia, non pregiudicava l’idoneità della documentazione prodotta a comprovare l’avvenuto pagamento in quanto era facilmente intuibile (con l’uso della normale diligenza) che l’indicazione di un diverso codice identificativo si dovesse attribuire ad un errore materiale in quanto lo stesso contrassegnava una procedura di aggiudicazione riferita alla fornitura di un prodotto che la Ip. nemmeno commercializza ed alla quale la stessa non ha, conseguentemente, partecipato.
Del resto Es., qualora avesse avuto in proposito dei dubbi, ben avrebbe potuto chiarire la questione esercitando i poteri di soccorso istruttorio senza per questo violare il principio della par condicio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.10.2016 n. 1545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza è costante nell’affermare che “allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni”.
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi e più di recente ha ribadito che “In caso di provvedimento plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente” ed inattaccabile.

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3.1. Con il primo si duole che l’annullamento in autotutela della dia del 02.04.2007 e il rigetto delle predette istanze di accertamento di conformità e di autorizzazione alla riduzione in pristino non sia stato preceduto dalla comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10–bis, L. n. 241/1990, privando l’interessata del prescritto contradittorio procedimentale.
2.3. La doglianza è infondata in fatto e va disattesa.
Risulta, infatti, dal corpo del provvedimento che la Mo. sia più volte intervenuta nel corso del procedimento preordinato all’adozione del provvedimento impugnato.
Invero si dà in esso atto che l’istante presentava richiesta di riesame del provvedimento dell’U.T.C. prot. 10462 del 05.05.2009 con cui le si comunicava il parere contrario della Commissione edilizia di cui al verbale n. 16 del 28.04.2009, secondo il quale non risultava l’esistenza sul fondo di alcuna preesistenza edilizia.
La ricorrente presentava, dunque, richiesta di riesame il 07.05.2009, prot. 10761, allegando invece la “sussistenza, su terreno acquistato in atto del 2005, di un manufatto non censito in catasto”.
Di poi, sempre il provvedimento all’esame, dà ulteriormente atto di una nuova richiesta di riesame in autotutela presentata dall’interessata il 16.09.2009 prot. 13765.
Contrariamente a quanto assume la ricorrente nessuna lesione delle garanzie partecipative ovvero privazione delle stesse è dato, dunque, al Collegio ravvisare a carico del provvedimento impugnato.
3.1. Il secondo mezzo, con il quale si lamenta, tra l’altro, travisamento dei fatti, sostenendosi che non è esatto che sul terreno de quo non esistesse un precedente manufatto, ad avviso del Collegio è inammissibile per difetto di interesse poiché la avversata circostanza non è la sola ragione di diniego della richiesta sanatoria, che, come ben si evince dal provvedimento, si fonda, oltre che sulla contestata inesistenza di precedente manufatto, su una pluralità di motivi (esistenza sull’area dei vincoli ex d.lgs. n. 42 del 2004 e di c.d. zona rossa ex L. R. n. 21/2003 nonché a quelli di cui alla L. n. 374/1991, Perimetrazione del Parco nazionale del Vesuvio – zona “2”; non qualificabilità degli interventi come manutenzione ordinaria o straordinaria e conseguente divieto di accertamento della compatibilità paesaggistica ex art. 167, co. 5, D.lgs. n. 42 del 2004; sottoposizione dell’intero territorio comunale al rischio sismico - S9 -).
3.2. Al riguardo giova rammentare che la giurisprudenza è costante nell’affermare che “allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005, n. 2767; in termini anche TAR Liguria, Sez. I, 17.03.2006, n. 252; TAR Basilicata, Sez. I, 28.6.2010, n. 456).
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 09.07.2012 n. 3300 e TAR Campania-Napoli, Sez. III, 27.09.2013 n. 4450) e più di recente ha ribadito che “In caso di provvedimento plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente” (TAR Campania-Napoli, sez. III, 22/10/2015, n. 4972) ed inattaccabile (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tra gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti a permesso di costruire e pertanto sanzionabili a norma dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi dell'art. 10, d.P.R. n. 380 citato comma 1, lett. c), gli interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici.
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4.1. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta che erroneamente il Comune ha ingiunto la demolizione del fabbricato in questione, avendo ella realizzato lavori che al più rientrerebbero nella categoria edilizia della ristrutturazione che non porta ad un organismo edilizio diverso dal precedente e che pertanto è sono soggetti al regime della D.I.A. ex art. 22, D.P.R. n. 380 del 2001.
La conseguenza che da tale assunto l’esponente fa discendere è l’applicazione ai suoi interventi edilizi, della sola sanzione pecuniaria prescritta per opere eseguite in assenza di d.i.a. dall’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
4.2. Ad avviso del Collegio tale doglianza è infondata, e va pertanto disattesa, anzitutto per assenza di prova in ordine all’asserita natura, dei lavori in controversia, di ristrutturazione senza creazione di un organismo edilizio diverso dal precedente sostenuta dalla deducente.
Rimarca, anzi il Collegio, che dalla stessa produzione della parte ricorrente emergono elementi di prova di opposto segno, militanti nel senso che il fabbricato edificato a seguito della demolizione e ricostruzione del “comodo rurale preesistente sul fondo”, consista in un quid novi ossia in un edificio diverso dal preesistente, quanto meno in termini di maggior volume ed incrementata superficie.
Invero, dalla relazione tecnica allegata all’istanza di ripristino dello stato dei luoghi presentata al Comune il 28.10.2008 (doc. 6 del ricorso), si evince che le tabelle “superfici e volumi” raffigurano prima dell’intervento (pag. 4 relazione cit.) un “comodo rurale” avente, prima dell’intervento, una superficie coperta totale pari a mq. 65, 10 ed un volume totale pari a mc. 198,56, mentre la medesima tabella sullo “stato attuale” post intervento (pag. 8, relazione cit.) descrive un immobile avente una superficie coperta totale di mq. 94,88, ossia incrementata di circa 30 mq. rispetto a quella preesistente.
Non può quindi sostenersi l’identità del manufatto, con il che è provata la sua assoggettabilità non a d.i.a. ma a permesso di costruire.
Dalla rilevata infondatezza in fatto della prospettazione di parte ricorrente consegue l’infondatezza della censura anche in diritto alla luce del combinato disposto di cui agli artt. 10, comma 1 (che stabilisce la necessità del permesso di costruire), lett. c) (che definisce gli interventi di ristrutturazione edilizia soggetti al permesso di costruire) e 33 (che stabilisce la relativa sanzione) del Testo Unico sull’edilizia.
Soccorre al riguardo la giurisprudenza del Tribunale, secondo cui “Tra gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti a permesso di costruire e pertanto sanzionabili a norma dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi dell'art. 10, d.P.R. n. 380 citato comma 1, lett. c), gli interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici” (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 16.07.2013 n. 3708 ).
Tuttavia nella specie, come si è detto, è da escludere che l’intervento in questione fosse di ristrutturazione edilizia che presuppone la dimostrazione di una demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma del manufatto preesistente (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pacifica giurisprudenza predica che il reclamato giudizio ed accertamento sulla fattibilità tecnica della demolizione costituisce incombente della fase esecutiva dell’ordine demolitorio, la quale scatta solo ove il destinatario dello stesso non esegua l’ingiunzione a demolire impartita dal Comune.
In argomento la Sezione ha da tempo sancito che “La valutazione circa la possibilità di dar corso alla sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, disciplinata dall'art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva all'atto di diffida a demolire. Conseguentemente, l'esito negativo di tale valutazione non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della fase di esecuzione in danno”.
Tale opzione è stata poi seguita in giurisprudenza, essendosi ribadito che “La sanzione ripristinatoria costituisce il rimedio ordinario di reazione contro l'abuso edilizio, mentre l'applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva rappresenta solo un'ipotesi subordinata, come si evince dalla normativa di riferimento (oggi, art. 33 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001)”.
L’orientamento di questo Tribunale è pacificamente attestato sulla delineata esegesi, avendo anche di recente affermato, in termini anche più rigorosi, che “L'ingiunzione di demolizione costituisce, anche rispetto alla fattispecie di cui all'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, la prima e obbligatoria fase del procedimento repressivo: la norma in argomento individua, infatti, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria. Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell'ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino”.
Il rassegnato indirizzo corrisponde ormai ad una tesi diffusa in giurisprudenza: “Il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria”.

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5.1. Con il quarto motivo la deducente si duole che quand’anche dovesse invece ritenersi l’intervento per cui è causa da ascrivere alla categoria della ristrutturazione edilizia con creazione di un organismo diverso, il Comune avrebbe dovuto sanzionarlo in forza non dell’art. 31 bensì dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che non possa essere irrogata la sanzione della demolizione qualora “il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile” senza pregiudizio della parte conforme.
L’impugnata ordinanza è dunque illegittima perché adottata senza il previo accertamento della fattibilità tecnica della demolizione senza pregiudizio della parte di opera conforma.
5.2. A parere del Collegio tale doglianza –a parte ogni considerazione sull’inapplicabilità dell’art. 33, invocato dalla ricorrente in via subordinata- è comunque infondata in diritto siccome contraddetta da pacifica giurisprudenza, espressa anche dalla Sezione, che predica che il reclamato giudizio ed accertamento sulla fattibilità tecnica della demolizione costituisce incombente della fase esecutiva dell’ordine demolitorio, la quale scatta solo ove il destinatario dello stesso non esegua l’ingiunzione a demolire impartita dal Comune.
In argomento la Sezione ha da tempo sancito che “La valutazione circa la possibilità di dar corso alla sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, disciplinata dall'art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva all'atto di diffida a demolire. Conseguentemente, l'esito negativo di tale valutazione non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della fase di esecuzione in danno” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 10.05.2010 n. 3420).
Tale opzione è stata poi seguita in giurisprudenza, essendosi ribadito che “La sanzione ripristinatoria costituisce il rimedio ordinario di reazione contro l'abuso edilizio, mentre l'applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva rappresenta solo un'ipotesi subordinata, come si evince dalla normativa di riferimento (oggi, art. 33 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001)” (TAR Puglia-Bari, Sez. III, 04.04.2013, n. 471).
5.3. L’orientamento di questo Tribunale è pacificamente attestato sulla delineata esegesi, avendo anche di recente affermato, in termini anche più rigorosi, che “L'ingiunzione di demolizione costituisce, anche rispetto alla fattispecie di cui all'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, la prima e obbligatoria fase del procedimento repressivo: la norma in argomento individua, infatti, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria. Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell'ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 17.04.2015 n. 2203).
Il rassegnato indirizzo corrisponde ormai ad una tesi diffusa in giurisprudenza: “Il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 31.10.2014, n. 2648) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha coerentemente precisato che “Alle opere abusive realizzate prima della modifica dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 introdotta dall'art. 27, comma 1, d.lgs. 24.03.2006 n. 157 rimane applicabile il regime previgente, che consentiva all'Amministrazione di scegliere tra la rimessione in pristino e il risarcimento del danno ambientale”.
Si è anche condivisibilmente puntualizzato che “Per gli immobili in area vincolata, anche l'art. 33, comma 3, D.P.R. n. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia pur indicando criteri e modalità diretti a ricostruire l'originario organismo edilizio”.
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6.1. Con il quinto motivo, con cui si rubrica violazione ed omessa applicazione dell’art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, la ricorrente sostiene che l’Autorità competente avrebbe dovuto operare una scelta, preceduta dalla necessaria istruttoria, tra la sanzione demolitoria e quella pecuniaria, poiché l’art. 167, D.Lgs. n. 42 del 2004 ha previsto, per gli abusi compiuti in zone vincolate, l’alternativa tra la riduzione in pristino e il pagamento di un’indennità commisurata alla maggior somma tra il danno ambientale arrecato all’immobile e il profitto conseguito mediante l’abuso.
6.2. Ritiene il Collegio che la censura sia infondata, e vada pertanto disattesa, poiché la propugnata necessità di scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria vigeva per gli interventi abusivamente realizzati, su immobili vincolati, prima della modifica dell’invocata norma, operata con il d.lgs. n. 156 del 24.03.2006.
Il testo della norma in analisi, oggi, non consente né legittima alcuna scelta, ma obbliga senz’altro l’autorità procedente a comminare la demolizione dell’opera abusiva.
Il primo comma dell’art. 167, d.lgs. n. 42/2004 nel vigente testo, ratione temporis applicabile all’abuso per cui è causa siccome realizzato nel 2007, stabilisce infatti che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”.
Segnala il Collegio che sul punto la giurisprudenza ha coerentemente precisato che “Alle opere abusive realizzate prima della modifica dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 introdotta dall'art. 27, comma 1, d.lgs. 24.03.2006 n. 157 rimane applicabile il regime previgente, che consentiva all'Amministrazione di scegliere tra la rimessione in pristino e il risarcimento del danno ambientale” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, 05.10.2015, n. 1246).
Si è anche condivisibilmente puntualizzato che “Per gli immobili in area vincolata, anche l'art. 33, comma 3, D.P.R. n. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia pur indicando criteri e modalità diretti a ricostruire l'originario organismo edilizio” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 06.02.2014 n. 785) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto dell’accertamento di conformità è disciplinato dall'art. 36 del T.U., che consente la presentazione dell’istanza di conservazione fino alla scadenza dei termini di cui all’art. 31, comma 3, 33, comma 1, e 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, concependo dunque l’stanza di sanatoria come successiva alla notifica dell’ordine di demolizione.
In presenza di un opera abusivamente realizzata l’Amministrazione deve, quindi, senz’altro procedere ad ordinarne la demolizione, non essendo tenuta a una preventiva valutazione della sanabilità della stessa senza che l’interessato abbia presentato l’istanza di sanatoria, la cui produzione è rimessa esclusivamente ad una libera scelta del destinatario dell’ordinanza di demolizione, il quale potrebbe avere interesse a demolire l’opera piuttosto che sopportare gli oneri economici derivanti della presentazione di un’istanza di sanatoria

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7.1. Con il sesto ed ultimo mezzo la deducente si duole che il provvedimento impugnato non sia stato preceduto dall’istruttoria tesa a verificare la previa sanabilità dell’opera abusivamente realizzata.
7.2. La censura non persuade il Collegio e va disattesa, non sussistendo a carico dell’autorità Comunale che abbia accertato l’esecuzione di opere abusive, alcun previo onere di valutazione della loro sanabilità in assenza di apposita istanza dell’interessato.
La Sezione ha da tempo affermato il delineato principio precisando al riguardo che “Coerentemente, invero, l’istituto dell’accertamento di conformità è disciplinato dal successivo art. 36 del T.U., che consente la presentazione dell’istanza di conservazione fino alla scadenza dei termini di cui all’art. 31, comma 3, 33, comma 1, e 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, concependo dunque l’stanza di sanatoria come successiva alla notifica dell’ordine di demolizione. In presenza di un opera abusivamente realizzata l’Amministrazione deve, quindi, senz’altro procedere ad ordinarne la demolizione, non essendo tenuta a una preventiva valutazione della sanabilità della stessa senza che l’interessato abbia presentato l’istanza di sanatoria, la cui produzione è rimessa esclusivamente ad una libera scelta del destinatario dell’ordinanza di demolizione, il quale potrebbe avere interesse a demolire l’opera piuttosto che sopportare gli oneri economici derivanti della presentazione di un’istanza di sanatoria” (TAR Campania-Napoli Sez. III, 09.07.2012, n. 3302) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn virtù del principio di tassatività delle cause di esclusione, il superamento delle dimensioni dell’offerta (non rileva se in forma cartacea o digitale) non può costituire, di per sé, motivo per l’estromissione dalla procedura dell’impresa che non vi si sia attenuta.
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Devono, le norme del bando, essere interpretate secondo il senso fatto palese dal loro testo e non ricercando significati impliciti ed assegnando la prevalenza la principio del favor partecipationis e all’affidamento dei concorrenti.
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considerato che:
- come rilevato da controparte il chiarimento menzionato dalla ricorrente non risulta pubblicato sul sistema telematico START e, dunque, non poteva essere conosciuto dagli altri concorrenti e, comunque, tale limite non era imposto a pena di esclusione dalla lex specialis di gara;
- inoltre è consolidato ormai l’orientamento della giurisprudenza secondo cui, in virtù del principio di tassatività delle cause di esclusione, il superamento delle dimensioni dell’offerta (non rileva se in forma cartacea o digitale) non può costituire, di per sé, motivo per l’estromissione dalla procedura dell’impresa che non vi si sia attenuta (Cons. di Stato sez. V, 21.06.2012 n. 3677; TAR Abruzzo, L'Aquila, 01.06.2016 n. 344; TAR Emilia-Romagna, sez. I, 18.12.2014 n. 1242);
- in ogni caso non risulta dimostrato che la maggiore ampiezza del file utilizzato dalla controinteressata abbia determinato la possibilità di una più incisiva illustrazione dell’offerta a cui di conseguenza sarebbe stata, per tale sola ragione, attribuito il miglior punteggio;
- d’altra parte neppure la legge di gara sembra suscettibile di univoca interpretazione riferendo alternativamente il limite in parola “ad esempio all’offerta economica, alla domanda di partecipazione e scheda di rilevazione relativa i requisiti di ordine generale” dovendo perciò le norme del bando essere interpretate secondo il senso fatto palese dal loro testo e non ricercando significati impliciti ed assegnando la prevalenza la principio del favor partecipationis e all’affidamento dei concorrenti (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.05.2016 n. 1889; TAR Emilia-Romagna, Parma 30.06.2016 n. 223);
ritenuto che:
- il ricorso risulta perciò, per tali profili, sprovvisto di fondamento mentre gli altri motivi, una volta che sia confermata l’aggiudicazione si palesano inammissibili per carenza di interesse;
- in ogni caso, per le ragioni già esposte, non può ritenersi che il sistema di gara attraverso la piattaforma START abbia alterato gli esiti della procedura dal momento che, a fronte dell’inesistenza di una clausola di esclusione, il sistema non avrebbe potuto rifiutare di “caricare” un file di dimensioni maggiori di quelle indicate nella lettera d’invito, spettando alla commissione di gara ogni valutazione in merito (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 24.10.2016 n. 1524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche la semplice realizzazione di un soppalco, pur senza modifiche volumetriche, determina un incremento della superficie utile calpestabile, con necessità di permesso di costruire e conseguente configurabilità del reato edilizio.
Ed invero, questa Corte ha affermato che
le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso.
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L'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
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5. Tanto premesso, è sufficiente, nell'affrontare il primo motivo, ripercorrere sinteticamente la motivazione della sentenza impugnata per rendersi conto dell'inammissibilità dei relativi profili di doglianza.
Dall'istruttoria era infatti emerso quanto segue:
a) all'interno dell'immobile di proprietà dell'imputato era stato creato -in difformità della d.i.a. presentata, che aveva per oggetto opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, con sostituzione del solaio preesistente- un nuovo piano ammezzato, suddiviso in due stanze e due bagni mediante realizzazione di un soppalco "intermedio" -così definito dal tecnico comunale assunto quale teste ex art. 603 c.p.p. all'udienza tenutasi davanti alla Corte d'appello- nella realizzazione di una scala interna che conduceva al soppalco medesimo e di due finestre, definite come "luci" dal predetto tecnico, nonché, soprattutto, di un innalzamento del solaio di copertura preesistente;
b) il tecnico, sentito dalla Corte d'appello al fine di fornire gli opportuni chiarimenti rispetto a quanto era stato argomentato nella sentenza assolutoria del primo giudice, aveva precisato categoricamente:
   - che il solaio di copertura era stato innalzato, rispetto alla posizione originaria indicata nei grafici allegati al progetto, di 50 cm; che dai resti del solaio preesistente, ancora presenti sui luoghi al momento dell'accertamento, era stato possibile accertare che nei grafici la quota del solaio esistente era stata falsamente rappresentata ad un'altezza di 80 cm., maggiore rispetto a quella effettivamente esistente prima dei lavori, cosicché alla fine l'altezza del nuovo solaio di copertura risultava di fatto maggiore di 130 cm. rispetto a quello originario;
   - che la maggiore altezza di 25 cm. del nuovo solaio realizzato, la quale aveva tratto in inganno il primo giudice, non lo era rispetto alla posizione del solaio originario così come indicata nei grafici, bensì rispetto all'altezza del solaio dell'edificio viciniore.
Pertanto, precisavano i giudici di appello, la sopraelevazione del solaio di copertura realizzata -anche a voler limitare ai soli 50 cm. indicati in contestazione- unitamente all'apertura delle due luci ed alla creazione del solaio intermedio (opere che nel loro insieme avevano permesso di ricavare all'interno dell'immobile due nuove stanze e due bagni) si presentava idonea ad integrare i reati oggetto di contestazione.
6. La Corte d'appello, in particolare, con riferimento al reato edilizio, ha correttamente ricordato come, secondo la giurisprudenza di questa Corte
anche la semplice realizzazione di un soppalco, pur senza modifiche volumetriche, determina un incremento della superficie utile calpestabile, con necessità di permesso di costruire e conseguente configurabilità del reato edilizio; ed invero, questa Corte ha affermato che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011 - dep. 21/12/2011, Truppi, Rv. 251637; fattispecie relativa proprio alla realizzazione di un soppalco all'interno di un'unità immobiliare nella quale questa Corte ha affermato che per la sua esecuzione è necessario il permesso di costruire o, in alternativa, la denuncia di inizio attività).
7. I giudici di appello hanno poi correttamente affrontato il tema, sollevato e sostanzialmente replicato nel primo motivo di ricorso, relativo alla applicabilità della novella introdotta con il decreto-legge n. 133 del 2014; a tal proposito correttamente la Corte d'appello evidenzia la irrilevanza di tale modifica legislativa rispetto al caso in esame, non essendovi stata solo creazione di nuova superficie utile interna mediante la realizzazione di un solaio intermedio, ma anche l'apertura di luci ed una sopraelevazione del solai di copertura preesistente pari ad almeno 50 cm; vi è stato dunque, in aggiunta al mero aumento di superficie utile, anche un aumento di volumetria e una modifica dei prospetti.
A tal proposito correttamente richiamando la Corte territoriale la giurisprudenza di questa Corte secondo cui
l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014 - dep. 11/07/2014, Limongi, Rv. 259905, relativa a fattispecie in cui l'intervento era consistito, come nel caso in esame, nella realizzazione di alcune "luci" su di una parete verso l'esterno).
8. Afferma dunque correttamente la Corte d'appello come nel caso in esame si rientri nell'ambito di quegli interventi di ristrutturazione edilizia per i quali è necessario il permesso di costruire anche a seguito delle modifiche introdotte dal predetto decreto-legge n. 133 del 2014; sul punto, inoltre, correttamente i giudici d'appello evidenziano come il predetto aumento di volumetria fosse ostativo anche a far rientrare quanto realizzato nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria, così confutando la identica doglianza riproposta in sede di ricorso per cassazione; a tal proposito la Corte d'appello confuta la tesi difensiva secondo cui detto aumento volumetrico non sussisterebbe a seguito di una d.i.a. in precedenza presentata, nell'intero immobile all'interno del quale si trova anche la proprietà dell'imputato nel quale è stata innalzata la quota del calpestio di 25 cm., motivo per cui l'aumento di altezza del solaio di copertura avrebbe compensato la volumetria conseguente all'innalzamento del piano di calpestio.
Trattasi di doglianza suggestiva ma infondata, come correttamente evidenziato dai giudici d'appello, in quanto la formulazione dell'art. 10, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, si riferisce alla volumetria complessiva esistente al momento dell'intervento e non a quella esistente in un qualsiasi altro precedente momento della vita del fabbricato e che però, al momento del nuovo intervento da effettuare, si era già ridotta, come appunto avvenuto nel caso in esame; puntualizza correttamente peraltro la Corte d'appello come, nel caso di specie, vi fosse stata anche la modifica dei prospetti a seguito della realizzazione delle luci, e ciò stato sarebbe sufficiente a rendere necessario il permesso di costruire anche in base al novellato articolo 10 del testo unico dell'edilizia (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente. Invero, il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite.
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L'applicabilità dell'art. 131-bis, c.p. non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, tenuto conto della contemporanea violazione di più disposizioni della legge penale (art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004; art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001).
Infatti, è stato affermato da questa Corte che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi"), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola.

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9. La Corte d'appello, poi, passa a esaminare la questione della configurabilità del reato paesaggistico, osservando come, per la realizzazione di tali interventi, sarebbe stata necessaria anche l'autorizzazione richiesta dall'art. 146 del decreto Urbani; precisano i giudici d'appello correttamente come i lavori di ristrutturazione edilizia non rientrano tra quelli per i quali l'articolo 149 esclude la necessità di tale autorizzazione; del resto, prosegue la Corte d'appello, nel caso in esame risultava accertato come le opere realizzate non fossero solo prettamente interne, essendo infatti consistite anche in una sopraelevazione ed in una apertura di luci, donde le stesse si presentavano astrattamente idonee ad alterare lo stato dei luoghi, incidendo sul loro aspetto esteriore in senso fisico ed estetico e modificando di conseguenza i valori paesaggistici.
A tal proposito correttamente la Corte d'appello evidenzia come
il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente. Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (da ultimo: Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 - dep. 16/03/2015, Murgia, Rv. 263289).
...
12. Quanto, poi, alla dedotta violazione di legge per omessa applicazione dell'art. 131-bis c.p., oggetto del secondo motivo, osserva questa Corte come la Corte d'appello, con argomentazione del tutto corretta ed immune da vizi, escluda la particolare tenuità del fatto, osservando come in virtù della edificazione mediante l'insieme delle sopra descritte opere di un nuovo piano abitabile non potrebbe parlarsi di offesa di particolare tenuità; a tal proposito, confutando l'argomentazione difensiva secondo cui l'altezza del soppalco pari a 2,30 m. ne escluderebbe l'abitabilità essendo l'altezza minima pari a 2,70 m., i giudici di appello correttamente evidenziano come di fatto l'altezza realizzata fosse assolutamente sufficiente a garantire l'utilizzo a fini abitativi del soppalco -come comprovato anche dalla presenza dei due bagni-, sicché il mancato raggiungimento dell'altezza minima di legge ne avrebbe sì escluso l'agibilità, ma non escludeva che ci si trovasse di fronte ad un abuso edilizio che costituiva manifestazione del disinteresse di chi aveva abusivamente edificato a rispettare le prescrizioni di legge riguardo alle altezze.
A ciò, peraltro,
va aggiunto che l'applicabilità dell'art. 131-bis, c.p. non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, tenuto conto della contemporanea violazione di più disposizioni della legge penale (art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004; art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001): ed infatti, è stato affermato da questa Corte che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi"), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (da ultimo: Sez. 5, n. 26813 del 28/06/2016, Grosoli, Rv. 267262) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319).

EDILIZIA PRIVATA: Soccorre l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale le perizie giurate depositate da una parte non sono dotate di efficacia probatoria nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di avere accertato, ad esse potendosi solo riconoscere valore di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo, il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice, delle quali pertanto egli, da un lato, non è obbligato in nessun caso a tenere conto e, per converso, ove ritenga di farvi riferimento, deve motivarne adeguatamente la forza probatoria che intende loro assegnare.
Infatti, per principio giurisprudenziale consolidato, l'onere della prova circa la data di realizzazione dell'immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l'abuso e solo la deduzione, da parte di quest'ultimo, di concreti elementi a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all'amministrazione.
È stata infatti esclusa la possibilità che l’autore dell’abuso comprovi la data di ultimazione delle opere facendo ricorso alla testimonianza.
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Quanto alle dichiarazioni giurate rese dai signori Se. e Di Ma. in ordine alle dimensioni originarie del rudere (vedi produzione D’Onise ottobre 2014), considerate nel complessivo contesto fattuale non possono essere prese in considerazione, trattandosi di dichiarazioni identiche, laconiche, e comunque assolutamente non idonee a consentire l’identificazione certa di preesistenze edilizie, le quali, come è noto, necessitano di prove certe in ragione dell’impatto che la loro legittimazione ha sul carico urbanistico della zona, a maggior ragione se trattasi di zona come quella in questione ove l’edificazione è sostanzialmente inibita.
Va ribadito, al proposito, che sia la perizia giurata che le dichiarazioni giurate di terzi non vincolano il Collegio sul piano probatorio.
Al riguardo, invero, soccorre l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale le perizie giurate depositate da una parte non sono dotate di efficacia probatoria nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di avere accertato, ad esse potendosi solo riconoscere valore di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo, il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice, delle quali pertanto egli, da un lato, non è obbligato in nessun caso a tenere conto e, per converso, ove ritenga di farvi riferimento, deve motivarne adeguatamente la forza probatoria che intende loro assegnare (Tar Lazio, sez. III-quater, 23.01.2014 n. 855; in argomento anche Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2009 n. 2579).
Infatti, per principio giurisprudenziale consolidato, l'onere della prova circa la data di realizzazione dell'immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l'abuso e solo la deduzione, da parte di quest'ultimo, di concreti elementi a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all'amministrazione (cfr. TAR Campania Napoli sez. III, 20.04.2016 n. 1957; id., sez. VI, 17.09.2015 n. 4565; Tar Toscana, sez. III, 14.05.2014 n. 795; Cons. St., sez. IV, 13.01.2010, n. 45; id, sez. V, 09.11.2009, n. 6984).
È stata infatti esclusa la possibilità che l’autore dell’abuso comprovi la data di ultimazione delle opere facendo ricorso alla testimonianza (TAR Umbria, I, 30.08.2013, n. 462; Tar Lazio−Roma, III, 02.05.2013, n. 4383) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 19.10.2016 n. 4774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, anche ove costituenti pertinenze o volumi tecnici, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione.
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5. Quanto al secondo motivo (realizzazione di una tettoia di 50 mq che, secondo la ricorrente, non sarebbe passibile di demolizione), esso va respinto in quanto è evidente che essa comporta una rilevante alterazione dei profili paesaggistici in zona vincolata e, come tale, non può essere mantenuta in assenza di autorizzazione dell’autorità competente (ex plurimis, TAR Napoli sez. VI 22.10.2015 n. 4931), a prescindere dal fatto che il regolamento edilizio, all’art. 3, consenta la realizzazione di tettoie fino al 30% della Superficie non residenziale.
Infatti, per giurisprudenza costante, le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, anche ove costituenti pertinenze o volumi tecnici, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione (permesso di costruire che, nel caso di specie, era necessario) (cfr. TAR Napoli (Campania) sez. VI 16.06.2016 n. 3027)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 19.10.2016 n. 4774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel procedimento di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, il parere della Commissione Edilizia Comunale non è necessario, in assenza di una espressa previsione normativa e in considerazione della specialità del procedimento.
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6. Va respinto anche il quarto motivo (mancanza del parere della Commissione edilizia), in quanto per giurisprudenza consolidata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, il parere della Commissione Edilizia Comunale non è necessario, in assenza di una espressa previsione normativa e in considerazione della specialità del procedimento (ex plurimis, TAR Lazio, sez. II, 14.10.2015 n. 11660; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.03.2015 n. 1399) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 19.10.2016 n. 4774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di dati di fatto, quali aumenti volumetrici e mutamenti della sagoma realizzati in zona vincolata, va ribadito che l'ordinanza di demolizione resa in applicazione del severo regime di cui all’art. 27 D.P.R. 280/2001 è da ritenersi provvedimento doveroso e, in tal senso, rigidamente vincolato.
Invero, in forza dell'art. 27, co. 2, D.P.R. 380/2001 «il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, (…) nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa. …»).

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L'ordine di demolizione, vincolato come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza che occorra, per la piana applicazione della normativa sopra citata (art. 27 D.P.R. 380/2001) alcuna altra precisazione.
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Ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
Va ribadito che l'art. 27 citato, in presenza di manufatti realizzati in zona sottoposta a vincolo, rende doverosa la demolizione d'ufficio di tutti gli interventi realizzati sine titulo e non solamente degli interventi realizzati senza permesso di costruire.
Il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, a nulla rilevando la loro natura pertinenziale dal punto di vista civilistico.
Il vincolo imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude, in assenza del relativo titolo, qualsiasi nuova edificazione.
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8. I motivi da sei a nove, avendo ad oggetto il reiterato ordine di demolizione, possono essere esaminati di seguito e congiuntamente.
In essi si censura la motivazione del provvedimento perché priva di riferimento all’interesse pubblico all’eliminazione in concreto delle opere abusive (sesto motivo), perché comunque si tratterebbe di opere pertinenziali (settimo motivo), perché sarebbero comunque volumi tecnici (ottavo motivo) e perché avrebbe dovuto comunque applicarsi la sanzione pecuniaria ex art. 33 TUED (nono motivo).
In primo luogo, deve rilevarsi che legittimamente la demolizione è stata disposta ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. 380/2001.
Le opere, infatti, sono state edificate in area classificata come zona F, parco territoriale e altre attrezzature e impianti a scala urbana e territoriale, sottozona Fal, aree agricole, dalla variante generale al Prg approvata con DPGRC n. 323 del 11.06.2004 (BURC n. 29 del 14.06.2004), disciplinata dagli artt. 45 e 46, e ricade in ambito 32 Camaldoli, art. 162; l'intervento rientra nel piano territoriale paesistico di Agnano-Camaldoli come zona PI, protezione integrale, e ricade nel perimetro del parco regionale metropolitano delle colline di Napoli approvato con delibera della Giunta regionale della Campania n. 855 del 10.06.2004 (BURC n. 36 del 26.07.2004) come zona B, riserva generale.
Ebbene, in presenza di simili dati di fatto (aumenti volumetrici e mutamenti della sagoma realizzati in zona vincolata), va ribadito che, come rilevato nello stesso provvedimento impugnato, l’ordinanza di demolizione resa in applicazione del severo regime di cui all’art. 27 D.P.R. 280/2001 è da ritenersi provvedimento doveroso e, in tal senso, rigidamente vincolato (cfr. art. 27, co. 2, D.P.R. 380/2001, cit. «il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, (…) nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa. …»).
8.1. In merito all’invocato difetto di motivazione anche in rapporto alla tutela dell’affidamento e all’interesse pubblico alla demolizione va, poi, ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l'ordine di demolizione, vincolato come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 3614/2016; id., sez. VI, 15.07.2016 n. 3555; Cons. St., sez. IV, 28.06.2016 n. 2908).
Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza che occorra, per la piana applicazione della normativa sopra citata (art. 27 D.P.R. 380/2001) alcuna altra precisazione.
8.2. Si lamenta, poi, la mancata considerazione della natura pertinenziale delle opere.
Sul punto basti ribadire che ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (ex plurimis, TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.03.2016 n. 1167).
In ogni caso, la natura pertinenziale delle opere avrebbe potuto riguardare la sola tettoia, ma non certamente i due grossi ampliamenti di 50 mq oggetto della domanda di sanatoria.
8.3. Identico discorso in ordine alla natura assertivamente tecnica dei volumi realizzati in mancanza di titolo.
Al di là del fatto che tale natura è indimostrata, va ribadito che l'art. 27 citato, in presenza di manufatti realizzati in zona sottoposta a vincolo, rende doverosa la demolizione d'ufficio di tutti gli interventi realizzati sine titulo e non solamente degli interventi realizzati senza permesso di costruire. Il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, a nulla rilevando la loro natura pertinenziale dal punto di vista civilistico. Il vincolo imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude, in assenza del relativo titolo, qualsiasi nuova edificazione (TAR Campania Napoli, sez. VI, 10.03.2015 n. 1444)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 19.10.2016 n. 4774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, TUED) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso.
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8.4. L’ultima censura è quella riportata al sub IX relativa alla mancata valutazione dell’impossibilità di procedere alla demolizione senza pregiudicare la statica dei volumi residuali e applicando, quindi, la sanzione pecuniaria.
Essa è infondata per diversi ordini di ragioni che sono state già fatte propria dalla Sezione nella sentenza 4065/2016 e che è opportuno riproporre.
In primo luogo, si osserva che l’argomento si sostanzia nell’invocare l’applicazione dell’art. 33 D.P.R. 380/2001 nella parte in cui, appunto, impedisce la demolizione allorché non sia possibile senza pregiudizio per la parte legittima del fabbricato.
Sennonché, l’applicabilità dell’art. 33 D.P.R. 380/2001 va esclusa, essendosi fatta, come si è detto, doverosa applicazione dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 che prevede sempre e comunque la demolizione senza che si debbano effettuare ulteriori valutazioni.
Peraltro, come pure è stato sovente affermato da questo Tribunale amministrativo, per gli immobili in area vincolata, anche l’art. 33, al co. 3, D.P.R. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia pur «indicando criteri e modalità diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio» (v. TAR Campania, sez. VI, n. 785/2014).
Inoltre, quand’anche si ritenesse astrattamente applicabile la particolare eccezione all’applicazione della sanzione demolitoria secondo quanto argomentato dalla parte ricorrente, la censura sarebbe egualmente infondata.
Va ribadito, infatti, che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, TUED) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso (ex multis, v. TAR Napoli, sez. IV, n. 3120/2015, nonché id., sez. VII, 14.06.2010 n. 14156)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 19.10.2016 n. 4774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Legittima la rimozione del dirigente per incompatibilità ambientale.
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la sentenza 18.10.2016 n. 21030, ha affermato che,
in materia di pubblico impiego, è legittima l'assegnazione del dirigente a settori o mansioni diverse rispetto a quelli finora svolti nei casi di incompatibilità ambientale; nel caso in esame i giudici di legittimità hanno ritenuto legittimo il trasferimento di un comandante della Polizia Municipale per problemi legati ad abusi edilizi nell'immobile di sua proprietà.
Il fatto
Un dipendente pubblico aveva citato in giudizio il Comune di cui era dipendente per far dichiarare l'illegittimità della sanzione disciplinare di sospensione di 10 giorni dal servizio nonché della rimozione dalle funzioni di comandante della Polizia e della contestuale assegnazione alla Direzione del settore Affari sociali; sia il Tribunale, sia la Corte d'Appello avevano rigettato la richiesta del dipendente comunale.
L'analisi della Cassazione
Tra i diversi motivi del ricorso in Cassazione il dipendente comunale denuncia anche la violazione e falsa applicazione dell'articolo 72 del Dlgs 165/2001, lamentando che la Corte territoriale avrebbe errato nel qualificare il provvedimento di assegnazione di nuove mansioni come trasferimento per incompatibilità ambientale, previsto dall'abrogato articolo 32 del Tu 3/1957.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso dell'ex comandante dei vigili trasferito ad altro settore, ritiene corretto il comportamento del Comune perché quest'ultimo ha, tra i suoi poteri, anche quello di trasferire il dipendente che ha violato i doveri fondamentali della prestazione lavorativa ledendo l'immagine e la dignità della pubblica amministrazione. Per i giudici di legittimità il motivo è inammissibile perché il ricorrente non precisa se, e in quale atto processuale, la questione relativa alla qualificazione del trasferimento sia stata, e in quali termini, sottoposta all'esame della Corte territoriale.
La Cassazione rileva che il dipendente ricorrente aveva allegato la sua inamovibilità, deducendola dalla "unicità" del corpo di Polizia municipale.
La Cassazione ritiene che il motivo sia, comunque, infondato in quanto l'attuazione dei principi di cui all'articolo 97 della Costituzione può legittimare l'assegnazione a settori o mansioni diverse del pubblico dipendente nei casi di situazioni di fatto di incompatibilità ambientale, che, se pure prescindono da ragioni punitive o disciplinari e sono riconducibili in via sistematica all'articolo 2103 del codice civile, si distinguono dalle ordinarie esigenze di assetto organizzativo, in quanto costituiscono esse stesse causa di disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per sé, un'obiettiva esigenza di modifica e spostamento di settore organizzativo o del luogo di lavoro.
I giudici di legittimità evidenziano che tale esigenza è stata ravvisata dalla Corte territoriale, che ha accertato, che l'affidamento delle mansioni già svolte non era più possibile, in ragione della accertata sopravvenuta incompatibilità ambientale dello svolgimento da parte del dipendente, alle funzioni di vigile urbano.
Il dipendente ricorrente, inoltre, in uno dei motivi di ricorso, denuncia illogica, omessa e insufficiente motivazione, per non avere la Corte territoriale spiegato le ragioni del mancato esercizio dei poteri istruttori in ordine alla modifica delle mansioni.
In particolare, secondo il dipendente ricorrente, la Corte territoriale avrebbe errato nella parte in cui ha ritenuto di accogliere il motivo di censura relativo alla presunta non equivalenza delle mansioni, anche sotto la prospettazione della impossibilità di valutare le differenze tra i concreti compiti della figura del Comandante del corpo di Polizia municipale e quelli di istruttore amministrativo, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe potuto individuare detti compiti dall'esame dello statuto del Comune.
Tale motivo, per la Cassazione, è infondato in quanto la Corte territoriale ha, infatti, affermato sulla scorta di un accertamento, che le mansioni di istruttore direttore amministrativo, categoria D, erano di rilievo e prestigio pari a quelle svolte in precedenza e che l'assenza di precise allegazioni non consentiva alcuna indagine ulteriore sulla dedotta dequalificazione e sulle diverse competenze professionali proprie dei nuovi compiti rispetto a quelli propri della qualifica di Comandante della Polizia municipale (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).
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MASSIMA
27. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, c. 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 72 del D.Lgs. 165 del 2001 ed omessa motivazione su un punto decisivo e rilevante della controversia, lamentando che la Corte territoriale avrebbe errato nel qualificare il provvedimento di assegnazione di nuove mansioni come trasferimento per incompatibilità ambientale, istituto previsto dall'abrogato art. 32 del T.U. 3/1957.
28. Il motivo è inammissibile perché il ricorrente non precisa se, ed in quale atto processuale, la questione relativa alla qualificazione del trasferimento sia stata, ed in quali termini, sottoposta all'esame della Corte territoriale (cfr. decisioni richiamate nei punti 16 e 25 di questa sentenza).
Va rilevato che dalla lettura della sentenza si evince che l'odierno ricorrente aveva allegato la sua inamovibilità, deducendola dalla "unicità" del corpo di P.M. (cfr. decisioni richiamate nei punti 16 e 25 di questa sentenza).
29. Il motivo è, comunque, infondato in quanto
l'attuazione dei principi di cui all'art. 97 Cost. può legittimare l'assegnazione a settori o mansioni diverse del pubblico dipendente nei casi di situazioni di fatto di incompatibilità ambientale, che, se pure prescindono da ragioni punitive o disciplinari e sono riconducibili in via sistematica all'art. 2103 c.c., si distinguono dalle ordinarie esigenze di assetto organizzativo, in quanto costituiscono esse stesse causa di disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per sé, un'obiettiva esigenza di modifica e spostamento di settore organizzativo o del luogo di lavoro (Cass. SSUU 16102/2009; Cass. 4265/2007, in tema di mutamento della sede di lavoro).
Esigenza ravvisata dalla Corte territoriale, che ha accertato, con statuizione non censurata, che l'affidamento delle mansioni già svolte non era più possibile, in ragione della accertata sopravvenuta incompatibilità ambientale dello svolgimento da parte del Pa. delle funzioni di Vigile Urbano.

APPALTI SERVIZI: Il valore della concessione non può essere computato con riferimento al c.d. "ristorno" e cioè al costo della concessione, che è un elemento del tutto eventuale, ma deve essere calcolato sulla base del fatturato.
Il valore della concessione non può essere computato con riferimento al c.d. "ristorno" e cioè al costo della concessione, che è un elemento del tutto eventuale, ma deve essere calcolato sulla base del fatturato generato dal consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio di distribuzione automatica.
La correttezza di detto criterio di calcolo risulta confermata dalla previsione contenuta nella direttiva 2014/23/UE che ha stabilito all'art. 8, c. 2, rubricato "soglia e metodo di calcolo del valore stimato delle concessioni" che "…. Il valore di una concessione è costituito dal fatturato totale del concessionaria generato per tutta la durata del contratto, al netto dell'IVA, stimato dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi. Tale valore stimato è valido al momento dell'invio del bando….".
Inoltre, il c. 3 stabilisce che il valore della concessione deve essere calcolato secondo un metodo oggettivo specificato nei documenti della concessione, indicando poi gli stessi elementi di valutazione, consentendo alle imprese di poter verificare anche i criteri utilizzati dalla stazione appaltante per la sua commisurazione. Detta disposizione è stata recepita nell'art. 167 del D.Lgs. n. 50/2016 (non applicabile al caso di specie ratione temporis).
Pertanto, nel caso di specie, il valore della concessione non può essere ancorato ad un parametro -quello del canone di concessione- non rispondente alla previsione normativa recata dall'art. 29 del D.Lgs. 163/06, né può ritenersi che la stima del fatturato possa essere demandata al concorrente anziché all'amministrazione, né che possa essere desunta sulla base degli elementi contenuti nel capitolato speciale, perché in questa particolare tipologia di servizio è difficile dall'esterno compiere attendibili previsioni di stima, in quanto i fattori che incidono sui flussi di cassa dipendono da una molteplice varietà di condizioni, relative all'ubicazione delle strutture ospedaliere, alla collocazione dei distributori automatici, alle abitudini dell'utenza, alla localizzazione di altri punti di ristoro nell'ambito della stessa struttura ospedaliera, all'accesso di utenti esterni, e così via, tali da non consentire ai concorrenti di stimare in modo attendibile il fatturato sulla base dei soli elementi indicati nel capitolato speciale (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.10.2016 n. 4343 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAEssendo il mercato degli spazi pubblici destinati agli impianti pubblicitari contingentato, è necessaria la sottoposizione a procedure pubbliche e trasparenti di ogni tipo di attribuzione ai privati di utilità economicamente appetibili.
Inoltre, anche se si attribuisse la prevalenza al momento privatistico dell’attività di prestazione di servizi pubblicitari, ritenendo che essa sia interamente soggetta a regime autorizzatorio, il modulo della gara pubblica appare lo stesso necessario, alla luce dell'art. 12 della direttiva n. 123 del 2006 (direttiva Bolkestein), secondo la quale, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una certa attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzia di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.

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... per l'annullamento della nota PG 125618/2012 del 21/02/2012 emessa dal Comune di Milano – Settore pubblicità, con cui sono state rigettate le domande di autorizzazione all’installazione di n. 51 impianti pubblicitari bifacciali opachi di m. 2,70x2.
...
Con ricorso depositato il 17.05.2012 Nu.Sp. S.r.l., società operante nel settore della pubblicità e affissioni, impugnava il diniego di cui in epigrafe, deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi:
- motivazione soltanto apparente, in quanto l’affermazione del Comune -secondo cui in assenza di una concessione del suolo pubblico non vi potrebbe essere autorizzazione all’esposizione pubblicitaria ricadente su di esso- contrasterebbe con il fatto che Nu.Sp. S.r.l. aveva chiesto la predetta concessione di suolo pubblico contestualmente all’autorizzazione negata;
- carenza di motivazione e difetto di istruttoria, in relazione all’assenza di allegazione del preventivo nulla-osta ambientale alle istanze di autorizzazione, in quanto secondo la società ricorrente tale nulla-osta sarebbe in realtà il parere previsto dall’art. 153 del d.lgs. n. 42/2004, da acquisire pertanto di ufficio da parte dell’amministrazione procedente;
- in generale, violazione dei canoni e principi di correttezza, buona fede e imparzialità.
Si è costituito il Comune di Milano, che ha chiesto il rigetto del ricorso, e la causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 21.09.2016.
Il ricorso è infondato.
Il diniego del provvedimento impugnato si fonda su una pluralità di autonomi motivi ostativi al rilascio dell’autorizzazione richiesta.
In particolare, il Comune resistente ha reiterato nel provvedimento finale quanto già argomentato nel preavviso di diniego, con riferimento alla necessità di espletamento di apposita procedura ad evidenza pubblica quale criterio base per l’assegnazione di spazi/mezzi pubblicitari riconducibili “alla totalità indistinta di beni (immobili) pubblici”.
L’amministrazione resistente ha esplicitamente basato tale affermazione sul combinato disposto degli artt. 4, comma 21, 8 e 16 del regolamento comunale sulla pubblicità vigente all’epoca dell’istanza, precisando nel diniego impugnato che sarebbe stato “riduttivo” limitare tali disposizioni soltanto all’ambito della “concessione del servizio di pubblicità esterna”.
A fronte della suddetta argomentazione, la ricorrente, ritenendo erroneamente che l’amministrazione abbia abbandonato in sede di stesura del provvedimento definitivo l’assunto della necessità di una procedura di gara per il rilascio delle concessioni, ha appuntato inizialmente le sue censure sugli altri motivi di rigetto, censurando solo genericamente il motivo ostativo fondamentale (esistenza di norme del regolamento comunale implicanti l’obbligatorietà di una procedura concorsuale).
Nella memoria di replica depositata in data 28.07.2016, peraltro, la difesa della ricorrente ha così precisato il suo motivo di ricorso: “l'art. 16 è, innanzitutto, sistematicamente collocato nel Regolamento comunale sulla Pubblicità, in una apposita rubrica totalmente separata e che nulla ha a che vedere con la disciplina dell'autorizzazione all'installazione degli impianti pubblicitari specificamente prevista dall'art. 4. L'articolo in esame è, infatti, chiaramente volto a disciplinare il caso della cd. concessione del servizio di Pubblicità esterna, che investe, nella sua formulazione, la facoltà, e non l'obbligo, per l'amministrazione di concedere a soggetti individuati a seguito dell' espletamento di una gara ad evidenza pubblica la possibilità di installare appositi impianti pubblicitari o di utilizzare quelli di proprietà comunale; tutto questo senza escludere l'ordinaria modalità di rilascio delle autorizzazioni, essendo espressamente prevista dalla norma citata la facoltà di affidare in "concessione" una parte del territorio comunale, tramite, per l'appunto, dei "lotti", potendo permanere, in tutta evidenza, per le altre porzioni territoriali la disciplina generale dettata dall'art. 4 (…)”.
Sul punto, il Collegio ritiene di dovere ribadire, condividendolo, l’orientamento già espresso da questo Tribunale nella sentenza n. 1261/2015, secondo cui, “essendo il mercato degli spazi pubblici destinati agli impianti pubblicitari contingentato, è necessaria la sottoposizione a procedure pubbliche e trasparenti di ogni tipo di attribuzione ai privati di utilità economicamente appetibili. Inoltre, anche se si attribuisse la prevalenza al momento privatistico dell’attività di prestazione di servizi pubblicitari, ritenendo che essa sia interamente soggetta a regime autorizzatorio, il modulo della gara pubblica appare lo stesso necessario, alla luce dell'art. 12 della direttiva n. 123 del 2006 (direttiva Bolkestein), secondo la quale, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una certa attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzia di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.
Ne consegue che non ha pregio l’argomentazione della società ricorrente secondo cui per ottenere l’autorizzazione richiesta sarebbe bastato depositare i documenti previsti dalla specifica “check-list” all’uopo predisposta dall’amministrazione.
Dovendosi dunque ritenere accertata la legittimità e l’autonoma lesività del motivo di diniego afferente alla necessità, per rilasciare l’autorizzazione richiesta, di una previa procedura concorsuale per la concessione degli spazi pubblici da destinare agli impianti, risultano inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse o comunque assorbite le ulteriori doglianze della ricorrente volte a chiedere l’annullamento del provvedimento impugnato sotto altri profili.
Resterebbe in ogni caso preclusa la possibilità per Nu.Sp. s.r.l. di ottenere un provvedimento favorevole a fronte delle sue richieste di autorizzazione.
Il ricorso è dunque complessivamente da respingere, con spese del giudizio che seguono la soccombenza, e che sono liquidate come da dispositivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.10.2016 n. 1871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl condomino è portatore di un interesse tutelato alla conservazione e al corretto uso, anche sotto il profilo estetico, della cosa comune, e possiede pertanto la legittimazione a dolersi delle alterazioni che possano incidere negativamente sul valore dello stesso agendo a difesa dei diritti ed interessi, esclusivi e comuni, inerenti all’edificio condominiale.
Ciò vale anche nell'ambito di una controversia, come quella all’esame, che ha ad oggetto la richiesta di annullamento del provvedimento che legittima il mantenimento della struttura abusivamente realizzata che i ricorrenti hanno interesse a che non sia regolarizzata perché peggiorativa della fisionomia dell’edificio.
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I ricorrenti e la controinteressata sono condomini in un edificio ricompreso in un’area soggetta a vincolo paesaggistico, sito al Lido di Venezia con affaccio sulla laguna, costituito da un corpo centrale di cinque piani e da due ali laterali di quattro piani, in una delle quali vi è l’appartamento di proprietà della controinteressata che ha una terrazza che funge da lastrico solare degli appartamenti sottostanti.
La controinteressata ha realizzato sulla propria terrazza una pompeiana con una struttura metallica schermata da reti anch’esse metalliche dalla maglia di un centimetro a copertura dell’intera terrazza.
Alcuni condomini nell’assemblea condominiale hanno manifestato contrarietà al mantenimento di tale struttura ritenendola peggiorativa dell’aspetto dell’edificio e di ostacolo alla vista panoramica dagli altri appartamenti.
A seguito della segnalazione al Comune da parte dei vicini della presenza dell’intervento abusivo, la controinteressata il 03.11.2015 ha presentato un’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, rispetto alla quale la commissione edilizia integrata il 18.01.2016 ha espresso parere contrario, ritenendo che il manufatto per tipologia, materiali e posizione sia tale da provocare “un’alterazione sostanziale dei profili paesaggistici del contesto in cui si inserisce, data anche la posizione strategica del panorama a partire dal bacino di San Marco antistante S. Elena”.
Nello stesso senso si è espressa la Soprintendenza in seno alla conferenza di servizi svoltasi il 29.01.2016, osservando che la struttura “percettivamente si presenta come una volumetria che modifica l’alternanza tra vuoti e pieni del fabbricato alterando i valori paesaggistici dell’area tutelata visibile dalla laguna”.
Successivamente la controinteressata ha chiesto un riesame in autotutela della determinazione negativa deducendo di soffrire di una forma di fobia per le cavallette dimostrata da una certificazione medica e precisando che il mantenimento della struttura le avrebbe consentito di poter continuare ad accedere alla terrazza con la sicurezza di proteggersi dalla presenza degli insetti.
La Soprintendenza con parere reso nell’ambito della conferenza di servizi del 31.03.2016, si è espressa favorevolmente all’accertamento della compatibilità paesaggistica nei seguenti termini “-OMISSIS-”.
Il Comune con provvedimento del 21.04.2016, ha quindi rilasciato l’autorizzazione paesaggistica, disponendo il pagamento dell’indennità risarcitoria e della sanzione pecuniaria dovuta perché i lavori sono stati eseguiti in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Il parere vincolante della Soprintendenza ed i provvedimenti del Comune sono impugnati da un gruppo di condomini con il ricorso in epigrafe per le seguenti censure:
   I) violazione dell’art. 167, commi 1, 2, 3, 4 e 5 e dell’art. 181 nonché dell’art. 27 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, perplessità, illogicità e contraddittorietà manifeste perché è stata riconosciuto l’accertamento della compatibilità paesaggistica al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, in base a valutazioni che esulano dalla tutela degli interessi paesaggistici che sono gli unici che deve perseguire la Soprintendenza;
   II) illogicità, contraddittorietà, carenza di istruttoria e di motivazione perché, quand’anche fosse da ammettere una qualche forma di discrezionalità e comparazione tra una pluralità di interessi in capo alla Soprintendenza, sarebbe mancata comunque l’acquisizione di documentazione idonea a dimostrare univocamente l’effettiva necessità di una struttura come quella realizzata e la mancanza di valide alternative;
   III) violazione degli artt. 1117 e 1127 c.c., difetto di istruttoria e di motivazione perché il Comune ha irrogato solamente una sanzione pecuniaria senza disporre la rimozione della struttura nonostante fosse a conoscenza che la stessa insiste su parti comuni del condominio, in quanto realizzata sul lastrico solare, e che vi era l’espresso dissenso degli altri condomini al suo mantenimento.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dei beni ed attività culturali, il Comune di Venezia e la controinteressata, eccependo gli ultimi due l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione e di interesse, e tutti concludendo per la reiezione del ricorso.
Alla Camera di consiglio del 28.09.2016, fissata per l’esame della domanda cautelare, avvisate le parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., la causa è stata trattenuta in decisione.
Il Comune e la controinteressata eccepiscono il difetto di legittimazione ed interesse dei ricorrenti perché gli stessi rappresentano una minoranza di condomini dissenzienti rispetto alla maggioranza che in assemblea condominiale si è espressa favorevolmente, e perché l’ubicazione dei loro appartamenti è tale da escludere la sussistenza di un’effettiva riduzione della vista del paesaggio a causa della presenza della struttura.
Tali eccezioni non possono essere accolte.
Il condomino infatti è portatore di un interesse tutelato alla conservazione e al corretto uso, anche sotto il profilo estetico, della cosa comune, e possiede pertanto la legittimazione a dolersi delle alterazioni che possano incidere negativamente sul valore dello stesso agendo a difesa dei diritti ed interessi, esclusivi e comuni, inerenti all’edificio condominiale (ex pluribus cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, 26.05.2011, n. 258; Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 06.06.2006, n. 6747; Tar Liguria, 07.04.2006, n. 355).
Ciò vale anche nell'ambito di una controversia come quella all’esame che ha ad oggetto la richiesta di annullamento del provvedimento che legittima il mantenimento della struttura abusivamente realizzata che i ricorrenti hanno interesse a che non sia regolarizzata perché peggiorativa della fisionomia dell’edificio (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.10.2016 n. 1135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di accertamento della compatibilità paesaggistica di un intervento abusivo l’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio non può svolgere un’opera di comparazione e bilanciamento tra gli interessi coinvolti graduando il proprio giudizio a seconda delle conseguenze che l’eventuale rimozione dell’opera abusiva può determinare per gli interessati.
Come è stato anche recentemente chiarito, l’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio non può esercitare valutazioni proprie della discrezionalità amministrativa, che è connotata dalla necessità di svolgere un’attività di comparazione e di bilanciamento tra una pluralità di interessi in concreto implicati nell’azione amministrativa, ma deve svolgere valutazioni strettamente espressive di discrezionalità tecnica che è caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse.
La Soprintendenza non può pertanto attenuare la tutela del paesaggio, che è il bene alla cui cura è preposta, comparandolo con interessi confliggenti di altra natura.
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I ricorrenti e la controinteressata sono condomini in un edificio ricompreso in un’area soggetta a vincolo paesaggistico, sito al Lido di Venezia con affaccio sulla laguna, costituito da un corpo centrale di cinque piani e da due ali laterali di quattro piani, in una delle quali vi è l’appartamento di proprietà della controinteressata che ha una terrazza che funge da lastrico solare degli appartamenti sottostanti.
La controinteressata ha realizzato sulla propria terrazza una pompeiana con una struttura metallica schermata da reti anch’esse metalliche dalla maglia di un centimetro a copertura dell’intera terrazza.
Alcuni condomini nell’assemblea condominiale hanno manifestato contrarietà al mantenimento di tale struttura ritenendola peggiorativa dell’aspetto dell’edificio e di ostacolo alla vista panoramica dagli altri appartamenti.
A seguito della segnalazione al Comune da parte dei vicini della presenza dell’intervento abusivo, la controinteressata il 03.11.2015 ha presentato un’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, rispetto alla quale la commissione edilizia integrata il 18.01.2016 ha espresso parere contrario, ritenendo che il manufatto per tipologia, materiali e posizione sia tale da provocare “un’alterazione sostanziale dei profili paesaggistici del contesto in cui si inserisce, data anche la posizione strategica del panorama a partire dal bacino di San Marco antistante S. Elena”.
Nello stesso senso si è espressa la Soprintendenza in seno alla conferenza di servizi svoltasi il 29.01.2016, osservando che la struttura “percettivamente si presenta come una volumetria che modifica l’alternanza tra vuoti e pieni del fabbricato alterando i valori paesaggistici dell’area tutelata visibile dalla laguna”.
Successivamente la controinteressata ha chiesto un riesame in autotutela della determinazione negativa deducendo di soffrire di una forma di fobia per le cavallette dimostrata da una certificazione medica e precisando che il mantenimento della struttura le avrebbe consentito di poter continuare ad accedere alla terrazza con la sicurezza di proteggersi dalla presenza degli insetti.
La Soprintendenza con parere reso nell’ambito della conferenza di servizi del 31.03.2016, si è espressa favorevolmente all’accertamento della compatibilità paesaggistica nei seguenti termini “-OMISSIS-”.
Il Comune con provvedimento del 21.04.2016, ha quindi rilasciato l’autorizzazione paesaggistica, disponendo il pagamento dell’indennità risarcitoria e della sanzione pecuniaria dovuta perché i lavori sono stati eseguiti in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Il parere vincolante della Soprintendenza ed i provvedimenti del Comune sono impugnati da un gruppo di condomini con il ricorso in epigrafe per le seguenti censure:
   I) violazione dell’art. 167, commi 1, 2, 3, 4 e 5 e dell’art. 181 nonché dell’art. 27 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, perplessità, illogicità e contraddittorietà manifeste perché è stata riconosciuto l’accertamento della compatibilità paesaggistica al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, in base a valutazioni che esulano dalla tutela degli interessi paesaggistici che sono gli unici che deve perseguire la Soprintendenza;
   II) illogicità, contraddittorietà, carenza di istruttoria e di motivazione perché, quand’anche fosse da ammettere una qualche forma di discrezionalità e comparazione tra una pluralità di interessi in capo alla Soprintendenza, sarebbe mancata comunque l’acquisizione di documentazione idonea a dimostrare univocamente l’effettiva necessità di una struttura come quella realizzata e la mancanza di valide alternative;
   III) violazione degli artt. 1117 e 1127 c.c., difetto di istruttoria e di motivazione perché il Comune ha irrogato solamente una sanzione pecuniaria senza disporre la rimozione della struttura nonostante fosse a conoscenza che la stessa insiste su parti comuni del condominio, in quanto realizzata sul lastrico solare, e che vi era l’espresso dissenso degli altri condomini al suo mantenimento.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dei beni ed attività culturali, il Comune di Venezia e la controinteressata, eccependo gli ultimi due l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione e di interesse, e tutti concludendo per la reiezione del ricorso.
Alla Camera di consiglio del 28.09.2016, fissata per l’esame della domanda cautelare, avvisate le parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., la causa è stata trattenuta in decisione.
Il Comune e la controinteressata eccepiscono il difetto di legittimazione ed interesse dei ricorrenti perché gli stessi rappresentano una minoranza di condomini dissenzienti rispetto alla maggioranza che in assemblea condominiale si è espressa favorevolmente, e perché l’ubicazione dei loro appartamenti è tale da escludere la sussistenza di un’effettiva riduzione della vista del paesaggio a causa della presenza della struttura.
Tali eccezioni non possono essere accolte.
Il condomino infatti è portatore di un interesse tutelato alla conservazione e al corretto uso, anche sotto il profilo estetico, della cosa comune, e possiede pertanto la legittimazione a dolersi delle alterazioni che possano incidere negativamente sul valore dello stesso agendo a difesa dei diritti ed interessi, esclusivi e comuni, inerenti all’edificio condominiale (ex pluribus cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, 26.05.2011, n. 258; Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 06.06.2006, n. 6747; Tar Liguria, 07.04.2006, n. 355).
Ciò vale anche nell'ambito di una controversia come quella all’esame che ha ad oggetto la richiesta di annullamento del provvedimento che legittima il mantenimento della struttura abusivamente realizzata che i ricorrenti hanno interesse a che non sia regolarizzata perché peggiorativa della fisionomia dell’edificio.
Nel merito il ricorso è fondato per le assorbenti censure di cui al primo e terzo motivo.
Il Comune e la controinteressata ritengono che in sede di accertamento della compatibilità paesaggistica di un intervento abusivo l’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio possa ed anzi debba svolgere un’opera di comparazione e bilanciamento tra gli interessi coinvolti graduando il proprio giudizio a seconda delle conseguenze che l’eventuale rimozione dell’opera abusiva può determinare per gli interessati.
Questo ordine di idee non può essere condiviso.
Come è stato anche recentemente chiarito (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 23.07.2015, n. 3652; cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.06.2013, n. 3205), l’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio non può esercitare valutazioni proprie della discrezionalità amministrativa, che è connotata dalla necessità di svolgere un’attività di comparazione e di bilanciamento tra una pluralità di interessi in concreto implicati nell’azione amministrativa, ma deve svolgere valutazioni strettamente espressive di discrezionalità tecnica che è caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse.
La Soprintendenza non può pertanto attenuare la tutela del paesaggio, che è il bene alla cui cura è preposta, comparandolo con interessi confliggenti di altra natura.
Alla luce di tale principio l’illegittimità dell’atto impugnato emerge dalla semplice lettura della motivazione del parere della Soprintendenza nel quale l’Amministrazione, pur ribadendo in modo espresso il proprio giudizio circa l’incompatibilità sotto il profilo paesaggistico della struttura, ha optato per il suo mantenimento facendo riferimento alle condizioni soggettive e di salute della controinteressata.
Anche il terzo motivo, con il quale i ricorrenti lamentano sotto il profilo edilizio l’irrogazione della sola sanzione pecuniaria, è fondato.
Infatti a fronte del conclamato dissidio tra condomini circa l’intervento che riguarda parti comuni dell’edificio, l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto prendere atto del difetto di un titolo di godimento legittimante la realizzazione e la sanabilità della struttura, disponendone la demolizione (Tar Campania, Salerno, Sez. I, 09.05.2014, n. 905).

Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.10.2016 n. 1135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Omissioni di atti d'ufficio: è nulla l'archiviazione senza avviso al querelante che ne ha fatto richiesta.
Il delitto di omissione di atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto.
Ne consegue che il soggetto privato assume la posizione di persona offesa dal reato ed è, pertanto, legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione formulata dal P.m.
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Invero,
l'omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa, che ne abbia fatto richiesta determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma quinto, cod. proc. pen., del decreto di archiviazione emesso "de plano", il quale è impugnabile con ricorso per cassazione nel termine ordinario di quindici giorni, decorrente dal momento in cui l'interessato ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento.
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1. Con il decreto impugnato il G.i.p. del Tribunale di Velletri ha disposto l'archiviazione del procedimento contro ignoti per il reato di cui all'art. 328 cod. pen. originato dalla querela sporta da Patrizi Mario il 29.07.2015.
2. Avverso il decreto di archiviazione propone ricorso il Pa., che ne eccepisce la nullità per omessa notifica alla persona offesa della richiesta di archiviazione e conseguente violazione del contraddittorio.
Il ricorrente deduce di aver espressamente richiesto ai sensi dell'art. 408, comma 3, cod. proc. pen. di essere informato della richiesta di archiviazione, di non aver ricevuto alcun avviso e di aver appreso in modo del tutto casuale dell'emissione del decreto di archiviazione, affetto da nullità per violazione dell'art. 178, lett. c), cod. proc. pen.
3. Il ricorso è tempestivo e fondato.
Premesso che il delitto di omissione di atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto, ne consegue che il soggetto privato assume la posizione di persona offesa dal reato ed è, pertanto, legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione formulata dal P.m. (Sez. 2, n. 17345 del 29/03/2011, Carota e altri, Rv. 250077), come nella fattispecie.
Ed è principio consolidato che
l'omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa, che ne abbia fatto richiesta determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma quinto, cod. proc. pen., del decreto di archiviazione emesso "de plano", il quale è impugnabile con ricorso per cassazione nel termine ordinario di quindici giorni, decorrente dal momento in cui l'interessato ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento (Sez. 5, n. 38758 del 25/05/2015, Rv. 265670).
Conseguentemente, il decreto impugnato va annullato senza rinvio e gli atti vanno trasmessi al P.m. presso il Tribunale di Velletri per l'ulteriore corso (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 13.10.2016 n. 43372).

APPALTI: I contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta.
In tema di attività jure privatorum della Pubblica Amministrazione vige il principio secondo cui i contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la quale assolve una funzione di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il contenuto del programma negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria.
Ciò comporta non solo l'esclusione della possibilità di desumere l'intervenuta stipulazione del contratto da una manifestazione di volontà implicita o da comportamenti meramente attuativi, ma anche la necessità che, salvo diversa previsione di legge, l'intera vicenda negoziale sia consacrata in un unico documento, contenente tutte le clausole destinate a disciplinare il rapporto.
Tale principio trova applicazione non soltanto alla conclusione del contratto, ma anche all'eventuale rinnovazione dello stesso, a meno che la stessa non sia prevista come effetto automatico da un'apposita clausola, nonché alle modificazioni che le parti intendano in seguito apportare alla disciplina concordata, le quali devono pertanto risultare da un atto posto in essere nella medesima forma del contratto originario, richiesta anche in tal caso ad substantiam, non potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante l'adozione di pratiche difformi da quelle precedentemente convenute, ancorché le stesse si siano protratte nel tempo e rispondano ad un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca successiva (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 13.10.2016 n. 20690 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI Il protrarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non rende illegittima ex se la procedura di gara.
Il protrarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non rende illegittima ex se la procedura di gara, in quanto, come afferma la costante giurisprudenza, il principio di continuità e di concentrazione delle operazioni non è di tale assolutezza e rigidità da determinare sempre e comunque, laddove vulnerato, l'illegittimità degli atti di gara, soprattutto allorquando, come nel caso di specie, la procedura, per la complessità delle operazioni valutative, per l'elevato numero dei concorrenti (inizialmente 29) o per altre obiettive circostanze di rilievo (tra le quali, nel caso di specie, anche l'attività svolta dall'Autorità Nazionale Anticorruzione), si protragga nel corso di numerose sedute.
Sebbene le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell'azione amministrativa postulino che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità, tale principio è infatti soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l'espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta o in poche sedute ravvicinate.
La mancata indicazione nei verbali di operazioni singolarmente svolte per la custodia delle buste, tra una seduta e la successiva, non costituisce ex se causa di illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato -o siano quanto meno siano dalla ricorrente forniti adeguati e ragionevoli indizi, nel caso di specie, mancanti- che la documentazione di gara sia stata effettivamente manipolata negli intervalli tra un'operazione e l'altra (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.10.2016 n. 4199 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Denuncia dei lavori e presentazione dei progetti di costruzioni in zone sismiche - Zone a basso indice sismico - Autorizzazione per l'inizio dei lavori da parte del Genio civile - Normativa antisismica - Artt. 36, 44, 83, 93, 94 e 95 D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001, non assume alcun rilievo la circostanza che la zona sede dei lavori fosse, in ipotesi, inclusa tra quelle a basso indice sismico.
L'art. 83, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, che rimanda al decreto interministeriale con il quale vengono definiti i criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche, non pone alcuna distinzione in merito alle cd. "categorie" delle zone medesime (Sez. 3, n. 8175, del 21/01/2016, Piscella; Sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Marini).
Ciò in quanto si tratta di una normativa finalizzata, comunque, a garantire l'esercizio del controllo preventivo da parte della Pubblica amministrazione, e in particolare del Genio Civile, sull'attività edificatoria che si svolge in dette zone, in ragione della particolare situazione determinante un pericolo astratto di pregiudizio per la pubblica incolumità (in termini Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, lavine; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo ed altro).
Sicché il reato deve ritenersi integrato a prescindere dalle menzionate categorizzazioni (Cass. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Marini) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2016 n. 42061 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della configurabilità del reato di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001, non assume alcun rilievo la circostanza che la zona sede dei lavori fosse, in ipotesi, inclusa tra quelle a basso indice sismico.
Infatti, l'art. 83, comma 2 del D.P.R. n. 380 del 2001, che rimanda al decreto interministeriale con il quale vengono definiti i criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche, non pone alcuna distinzione in merito alle cd. "categorie" delle zone medesime.
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4. Tanto premesso deve ritenersi che il primo motivo di ricorso sia manifestamente infondato.
La sentenza impugnata, infatti, ha dato adeguatamente conto, con motivazione immune da vizi logici, delle ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti i requisiti della contravvenzione contestata al capo b).
Nel dettaglio, gli imputati lamentano per un verso che la sentenza di primo grado non avrebbe considerato che il Comune di Mongiuffi Melia era stato qualificato come "sismico di II^ categoria", sicché l'autorizzazione dell'ufficio del Genio civile sarebbe stata necessaria soltanto ove la volumetria del manufatto fosse stata superiore ai 450 m3, circostanza nella specie non ricorrente; e, per altro verso, che l'Ufficio del Genio civile avesse rilasciato autorizzazione per gli interventi in questione, in data 11/09/1991, a favore di Le.Lo., padre e dante causa di Pa.Lo..
Per quanto attiene alla prima questione, tuttavia, va ribadito che
ai fini della configurabilità del reato di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001, non assume alcun rilievo -contrariamente alle argomentazioni dei ricorrenti- la circostanza che la zona sede dei lavori fosse, in ipotesi, inclusa tra quelle a basso indice sismico.
Infatti,
l'art. 83, comma 2 del D.P.R. n. 380 del 2001, che rimanda al decreto interministeriale con il quale vengono definiti i criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche, non pone alcuna distinzione in merito  alle cd. "categorie" delle zone medesime (Sez. 3, n. 8175, del 21/01/2016, Piscella, non massimata; Sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo, non massimata; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Morini, Rv. 250369).
Ciò in quanto si tratta di una normativa finalizzata, comunque, a garantire l'esercizio del controllo preventivo da parte della Pubblica amministrazione, e in particolare del Genio Civile, sull'attività edificatoria che si svolge in dette zone, in ragione della particolare situazione determinante un pericolo astratto di pregiudizio per la pubblica incolumità (in termini Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Iovine, Rv. 238007; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo ed altro, Rv. 237376).
Sicché il reato deve ritenersi integrato a prescindere dalle menzionate categorizzazioni (così Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Morini, Rv. 250369).
Quanto al secondo profilo, anche a voler prescindere dal fatto che nella sentenza impugnata si fa unicamente riferimento all'avvenuto rilascio della concessione edilizia e non anche dell'autorizzazione da parte del Genio civile richiesta dalla normativa antisismica, deve in ogni caso osservarsi come l'intervento attuato al secondo piano (terzo fuori terra) del manufatto fosse stato eseguito, secondo quanto accertato dalla sentenza impugnata, al di fuori della previsione del titolo abitativo rilasciato nel 1991, il quale riguardava soltanto i primi due piani fuori terra.
Peraltro, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, secondo la deposizione dibattimentale del funzionario del Genio civile, arch. Ba., in relazione all'intervento edilizio in questione non era stato, comunque, riscontrato alcun preavviso di lavori presso il competente ufficio del Genio civile, né, tanto meno, risultava rilasciato alcun titolo autorizzativo.
Ne consegue, pertanto, che, anche sotto tale aspetto, la censura dedotta dai ricorrenti appare manifestamente infondata (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2016 n. 42061 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: Sul sistema di organizzazione del servizio idrico per ambiti territoriali ottimali.
Il singolo Comune non è più competente e legittimato a costituire in proprio alcuna società o struttura consortile a cui affidare, con gara o meno, la gestione del servizio idrico.
Il sistema di organizzazione del servizio idrico per ambiti territoriali ottimali ha tratto origine dalla legge Galli (05.01.1994 n. 36, poi sostituita dal d.lgs. 152/2006, che disciplina la materia agli artt.147 e ss.): questa, nell'ottica del superamento della frammentazione della gestione del servizio idrico integrato, ha stabilito l'obbligatorietà della definizione di ambiti territoriali ottimali in cui confluiscono tutti i comuni e ha individuato le Regioni come soggetti competenti a delimitare gli ambiti territoriali ottimali e a disciplinare le forme e i modi della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale.
Spetta all'ATO individuare la figura gestoria più opportuna mediante la quale provvedere all'erogazione del servizio idrico integrato, sicché il singolo Comune non è più competente e legittimato a costituire in proprio alcuna società o struttura consortile a cui affidare, con gara o meno, la gestione del servizio idrico (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 05.10.2016 n. 1229 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Reati edilizi e diritto comunitario - Ordine di demolizione e diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio - Disciplina la c.d. demolizione d'ufficio - Giurisprudenza CEDU - Artt. 27, 29, 31, 44, lett. b) e e), d.P.R. 380/2001 - Art. 181, comma 2, d.lgs. 42/2004.
In tema di reati edilizi, non sussiste alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini, che, in motivazione, ha osservato che dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
Del resto, la Corte di Strasburgo ha di recente ribadito la legittimità 'convenzionale' della demolizione, allorquando, valutandone la compatibilità con il diritto alla abitazione, ha affermato che anche se il suo unico scopo è quello di garantire l'effettiva attuazione delle disposizioni normative che gli edifici non possono essere costruiti senza autorizzazione, la stessa può essere considerata come diretta a ristabilire lo stato di diritto; salvo il rispetto della proporzionalità della misura con la situazione personale dell'interessato, la Corte, richiamando quanto previsto dall'art. 8, § 2, della Convenzione e.d.u., ha ritenuto che, nel contesto in esame, la misura può essere considerata come rientrante nella "prevenzione dei disordini", e finalizzata a promuovere il "benessere economico del paese" (Corte EDU, Sez. V, 21/04/2016, Ivanova e Cherkezov vs. Bulgaria).
Altrettanto importante appare l'affermazione della laddove esclude che l'ordine di demolizione contrasti con l'art. 1 del protocollo n. 1 (protezione della proprietà), con la precisazione che l'ordine, emesso dopo un ragionevole lasso di tempo dopo la sua edificazione (per un precedente, cfr. il caso Hamer c. Belgio, deciso il 27.11.2007, n. 21861/03), ha l'obiettivo di garantire il ripristino dello "status quo ante", così ristabilendo l'ordine giuridico violato dal comportamento dell'autore dell'abuso edilizio, e di scoraggiare altri potenziali trasgressori (§ 75).
Ordine di demolizione di un immobile abusivo - Autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso - Obbligo di fare - Tutela del territorio - Esclusione della prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
Ordine 'giudiziale' di demolizione - Natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio - Revocabilità - Effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) - Irrevocabilità della sentenza - Competenza del P.M. ad eseguire l'ordine di demolizione.
L'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep. 2011), D'Avino; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
È pacifica, altresì, la competenza del P.M. ad eseguire l'ordine di demolizione disposto con la sentenza di condanna.
Ordine di demolizione - Finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio - Diversa natura e finalità delle pene principali - Applicazione analogica della norma sulla prescrizione - Esclusione.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono, infatti, di individuare un elemento di identità tra i due "casi" che consenta un'applicazione analogica della norma sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene 'principali' hanno una natura lato sensu 'repressiva', ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla tutela collettiva di un bene pubblico (Cass. Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela; Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi).
Ordine di demolizione dell'opera abusiva - Natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio - Trasferimenti di proprietà del bene da demolire - Competenza del P.M.
L'ordine di demolizione dell'opera abusiva, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo del territorio, provvedimenti amministrativi con esso assolutamente incompatibili (Cass., Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Curcio).
La natura reale della demolizione, dunque, implica che l'esecuzione della sanzione prescinde dalla titolarità del diritto di proprietà, e, di conseguenza, la stessa competenza del P.M. rimane inalterata, anche in caso di trasferimenti di proprietà del bene da demolire, derivando dalla competenza istituzionale, stabilita in via generale dall'art. 655 cod. proc. pen., che individua l'organo della pubblica accusa come il soggetto incaricato dell'esecuzione dell'ordine di demolizione emanato in sede giurisdizionale (in termini, Sez. 3, n. 9139 del 07/07/2000, Del Duca).
C.d. demolizione d'ufficio - A prescindere dall'individuazione di responsabili - Finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario assetto del territorio - Differenza tra art. 27 e 31 d.P.R. 380/2001 - Acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune e demolizione 'in danno' a spese dei responsabili dell'abuso.
In materia urbanistica, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001 disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul solo presupposto della presenza sul territorio di un immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario assetto del territorio.
Mentre, l'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Reati edilizi - Opere abusive - Richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di demolizione - Istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Poteri e verifiche del giudice dell'esecuzione.
In tema di reati edilizi, il giudice dell'esecuzione investito della richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento amministrativo e, in particolare:
a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura, che può determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel caso di un suo rapido esaurimento (Sez. 3, n. 47263 del 25/09/2014, Russo).
Natura amministrativa della demolizione - Potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa - Esclusione dell'estinzione della sanzione per il decorso del tempo o per la prescrizione quinquennale - Giurisprudenza.
La giurisprudenza di legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno costantemente ribadito la natura amministrativa della demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (Cass., Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo; Sez. 3, n.37906 del 22/05/2012, Mascia; Sez. 6, n. 6337 del 10/3/1994, Sorrentino; si vedano anche Sez. U., n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monter).
In tale quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela); ed altresì è stata negata l'estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita dall'art. 28 L. 24.11.1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva ("il diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"), mentre l'ordine di demolizione integra una sanzione 'ripristinatoria', che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio (Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2016 n. 41498 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La prelazione sui Beni Vincolati spetta al Consiglio e non alla Giunta.
La giurisprudenza ha osservato, al riguardo:
- “L’atto con il quale, ai sensi dell’art. 62, comma 3, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, viene esercitato il potere di prelazione, rientrando nella materia degli “acquisti ed alienazioni immobiliari” di cui all’art. 42, comma 2, t.u. 28.08.2000 n. 267, appartiene alla competenza del Consiglio comunale”;
- "L’art. 42, comma 2, lett. l), d.lgs. 18.08.2000 n. 267, attribuisce espressamente al Consiglio comunale la competenza in materia di “acquisti ed alienazioni immobiliari” senza alcuna eccezione, pertanto è competente il consiglio anche in ipotesi di deliberazione di acquisto a seguito di esercizio della prelazione da parte del ministero per i beni culturali ed ambientali in favore dell’ente locale”;
- “È illegittima la delibera con cui la giunta municipale ha deciso di esercitare, ai sensi dell’art. 48 d.P.R. n. 327/2001, la prelazione sugli immobili oggetto di una richiesta di retrocessione, considerato che, ai sensi dell’art. 42 d.lgs. n. 267/2000, l’esercizio del diritto di prelazione, previsto dall’art. 48 d.P.R. n. 327/2001, rientra negli acquisti immobiliari di competenza del consiglio comunale”.

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... per l’annullamento:
   A) del decreto del Dirigente del Settore Servizi Tecnici della Provincia di Salerno, n. 2659 dell’11.02.2005, notificato il 14.02.2005, con il quale è stata esercitata –dalla Provincia di Salerno– la prelazione per l’acquisto dell’immobile denominato “Convento Santa Maria di Costantinopoli” e dell’annesso terreno;
   B) della deliberazione della Giunta Provinciale di Salerno, n. 102 del 04.02.2005, con cui è stato deliberato il predetto esercizio di prelazione;
   C) di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali, ivi compresa, ove occorra e nella parte d’interesse, della deliberazione della Giunta Provinciale di Salerno, n. 1040 del 30.12.2004, nonché della nota, n. 35633 del 29.11.2004, a firma del Soprintendente per i B.A.P.P.S.A.D. di Salerno e Avellino;
...
Osserva il Tribunale che, ai sensi dell’art. 62 d.l.vo 42/2004, nel testo vigente ratione temporis:
1. Il soprintendente, ricevuta la denuncia di un atto soggetto a prelazione, ne dà immediata comunicazione alla regione e agli altri enti pubblici territoriali nel cui ambito si trova il bene. Trattandosi di bene mobile, la regione ne dà notizia sul proprio Bollettino Ufficiale ed eventualmente mediante altri idonei mezzi di pubblicità a livello nazionale, con la descrizione dell’opera e l’indicazione del prezzo.
2. La regione e gli altri enti pubblici territoriali, nel termine di trenta giorni dalla denuncia, formulano al Ministero la proposta di prelazione, corredata dalla deliberazione dell’organo competente che predisponga, a valere sul bilancio dell’ente, la necessaria copertura finanziaria della spesa.
3. Il Ministero, qualora non intenda esercitare la prelazione, ne dà comunicazione, entro quaranta giorni dalla ricezione della denuncia, all’ente interessato. Detto ente assume il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica all’alienante ed all’acquirente entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia medesima. La proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica.
4. Nei casi di cui all’articolo 61, comma 2, i termini indicati al comma 2 ed al comma 3, primo e secondo periodo, sono, rispettivamente, di novanta, centoventi e centottanta giorni dalla denuncia tardiva o dalla data di acquisizione degli elementi costitutivi della denuncia medesima
”.
Ai sensi dell’art. 61 cpv. dello stesso d.l.vo, in particolare: “2. Nel caso in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta, la prelazione è esercitata nel termine di centottanta giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa ai sensi dell’articolo 59, comma 4”.
Tale disciplina va coordinata, al fine di individuare l’organo dell’ente pubblico territoriale, competente a deliberare la proposta di prelazione, predisponendo la necessaria copertura finanziaria della spesa, con l’art. 42 del d.l.vo 267/2000, e in particolare con il comma 2, lett. l), secondo cui: “2. Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari”.
La giurisprudenza ha osservato, al riguardo: “L’atto con il quale, ai sensi dell’art. 62, comma 3, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, viene esercitato il potere di prelazione, rientrando nella materia degli “acquisti ed alienazioni immobiliari” di cui all’art. 42, comma 2, t.u. 28.08.2000 n. 267, appartiene alla competenza del Consiglio comunale” (TAR Perugia (Umbria), Sez. I, 10/04/2013, n. 221); conforme Consiglio di Stato, Sez. IV, 24/06/2002, n. 3430: “L’art. 42, comma 2, lett. l), d.lgs. 18.08.2000 n. 267, attribuisce espressamente al Consiglio comunale la competenza in materia di “acquisti ed alienazioni immobiliari” senza alcuna eccezione, pertanto è competente il consiglio anche in ipotesi di deliberazione di acquisto a seguito di esercizio della prelazione da parte del ministero per i beni culturali ed ambientali in favore dell’ente locale”; si tenga presente anche TAR Napoli (Campania), Sez. V, 14/02/2008, n. 846: “È illegittima la delibera con cui la giunta municipale ha deciso di esercitare, ai sensi dell’art. 48 d.P.R. n. 327/2001, la prelazione sugli immobili oggetto di una richiesta di retrocessione, considerato che, ai sensi dell’art. 42 d.lgs. n. 267/2000, l’esercizio del diritto di prelazione, previsto dall’art. 48 d.P.R. n. 327/2001, rientra negli acquisti immobiliari di competenza del consiglio comunale”.
Nella specie (in disparte l’eccepito difetto di giurisdizione del G.A. circa il dedotto tardivo esercizio della prelazione, trattandosi d’aspetto non dirimente), la decisione di “avvalersi del diritto di prelazione per l’acquisto del bene culturale”, rappresentato dal Convento di Santa Maria di Costantinopoli in Olevano sul Tusciano, e dall’annesso terreno circostante, è stata illegittimamente assunta, anziché dal Consiglio, dalla Giunta Provinciale di Salerno, con l’impugnata deliberazione, n. 102 del 04.02.2005, la quale si presenta, per di più, anche carente della predisposizione della necessaria copertura finanziaria della spesa, a valere sul bilancio dell’ente, essendo evidente come il rinviare, in detta deliberazione, la stessa copertura alla futura accensione di un apposito mutuo, non appare affatto rispettoso del precetto legislativo (a tacer d’altro, l’espressione “a valere sul bilancio dell’ente” indica la necessità della previsione di un apposito capitolo di spesa esistente, piuttosto che futuro e incerto, come nella specie).
A fortiori è illegittimo l’atto dirigenziale gravato che –in esecuzione della prefata delibera giuntale, affetta da incompetenza– ha quindi decretato l’esercizio del diritto di prelazione in oggetto.
Né, tampoco, le superiori conclusioni possono essere revocate in dubbio, perché, come sostenuto dalla difesa dell’Amministrazione Provinciale, essendo ancora pendente il termine, cd. lungo, di giorni centottanta (emergente dal combinato disposto degli artt. 61 cpv. – 62, comma 4, d.l.vo 42/2004), per l’esercizio della prelazione, da parte dell’organo consiliare, e rappresentando –la delibera giuntale in oggetto– esecuzione del piano triennale dei lavori pubblici, adottato con delibera di G. P. n. 1040/2004 (il quale, relativamente al 2005, prevedeva una disponibilità di € 300.000,00 per acquisti e restauri di beni culturali in Olevano sul Tusciano), entrambe le condizioni, previste dall’art. 62, comma 2, d.l.vo 42/2004, per il legittimo esercizio della prelazione, sarebbero potute dirsi, nella sostanza, rispettate.
La circostanza, in particolare, che il termine cd. lungo fosse ancora pendente –e che, quindi, la Provincia avrebbe potuto, in tesi, ancora adottare, eventualmente, un atto, con effetti sostanzialmente sananti della delibera giuntale, viziata da incompetenza– oltre che costituire implicita ammissione della sussistenza del vizio in questione, nulla toglie, evidentemente, all’illegittimità di quest’ultima, sotto tale profilo; d’altronde, la circostanza che il piano triennale dei LL. PP. prevedesse l’indicata disponibilità finanziaria (ma, genericamente, per acquisti di beni culturali in Olevano, piuttosto che per l’acquisizione dello specifico bene immobile de quo) finisce per il contrastare, chiaramente, con la volontà, pure espressa dall’ente, di voler accendere uno specifico mutuo, per detto acquisto.
Del resto, non sono state segnalate al Tribunale, dopo l’adozione dell’ordinanza che ha regolato la fase cautelare del presente giudizio, deliberazioni del Consiglio Provinciale, che andassero nei sensi, indicati nella memoria difensiva dell’ente.
In aderenza alle superiori considerazioni, da ritenersi assorbenti degli ulteriori profili di censura, il ricorso va accolto e gli atti impugnati vanno annullati (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 04.10.2016 n. 2234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati in materia di normativa antisismica - Pericolosità delle costruzioni - Configurabilità delle contravvenzioni - Artt. 32, lett. a), 44, 64, 65, 71, 72, 93, 94 e 95 d.lgs. n. 380/2001 T.U.E. - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto le contravvenzioni puniscono inosservanze formali e la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone (Cass. Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007; Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012; Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015).
Intervento edilizio in zona sismica - Titolo abilitativo - Direzione di professionista abilitato.
In materia urbanistica, anche dopo la entrata in vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 qualsiasi intervento edilizio, ad eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, ove eseguito in zona sismica, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014; Sez. 3, n. 28514 del 29/05/2007; Sez. 3, n. 45958 del 26/10/2005).
Opere realizzate nelle zone sismiche - Adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico - Irrilevanza della natura precaria dell'intervento.
Il reato antisismico, inoltre, sussiste nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015).
Zona sismica - Trasformazione di un balcone in veranda - Permesso di costruire - Necessità - Pertinenza - Esclusione - Un balcone costituisce parte integrante dello stabile - Assenza di funzione autonoma.
La trasformazione di un balcone, anche di modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 15/01/2014; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007).
Con riferimento alla realizzazione di un balcone, tale opera pur non rientrando tra gli interventi di manutenzione straordinaria, comporta aumento della superficie utile e mutamento dell'aspetto del fabbricato ed è, quindi, soggetta a permesso di costruire.
Essa esula, altresì, dalla nozione di pertinenza, poiché, mentre quest'ultima deve essere autonoma, il balcone costituisce parte integrante dello stabile (Sez. 3, n. 2627 del 20/05/1988, dep. 17/02/1989, Rv. 180562; Sez. 3, n. 42892 del 24/10/2008, Rv. 241542) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2016 n. 41151 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Volume tecnico di rilevante ingombro - Realizzazione senza permesso di costruire - Configurabilità del reato edilizio ex art. 44, c. 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione senza permesso di costruire di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni integra il reato edilizio previsto dall'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2016 n. 41151 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, la giurisprudenza aveva riconosciuto che, in materia di SCIA, l'amministrazione può ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non conforme alla vigente normativa una volta spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio, esercitando un potere di autotutela sui generis (perché non avente ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l'ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio.
Era pertanto indispensabile, affinché tale potere potesse dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa intervenisse “entro un termine ragionevole”.
Il legislatore, quindi, aveva individuato il limite temporale per disporre l'annullamento d'ufficio secondo un parametro indeterminato ed elastico che doveva essere adattato alle circostanze del caso concreto, finendo per lasciare al sindacato del giudice amministrativo il compito di valutare, anche in relazione alla complessità degli interessi coinvolti ed al loro consolidamento, la congruità del termine intercorso tra l'adozione del provvedimento di autotutela e l’atto originario.
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L’art. 21-nonies citato prevede, nell’attuale formulazione, un preciso sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, laddove stabilisce che il potere di annullamento d’ufficio non può comunque essere esercitato oltre “diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
Pur trattandosi di previsione non applicabile ratione temporis, essa assume sicuro rilievo, come già rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, per individuare il termine “ragionevole” entro il quale può essere legittimamente esercitato il potere di autotutela.
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L’applicazione dei principi in materia di autotutela comporta che l’amministrazione dia conto, nell’atto di annullamento degli effetti della SCIA, delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati.
Nella fattispecie, l’atto impugnato è motivato con esclusivo riferimento ai pretesi vizi di legittimità che inficerebbero la SCIA, senza alcun riferimento agli interessi coinvolti nella fattispecie.
Il Comune, quindi, non ha indicato le ragioni di interesse pubblico che avrebbero giustificato l’annullamento della SCIA, nonostante il potere di autotutela sia stato esercitato dopo che i suoi effetti si erano consolidati da oltre due anni e il privato, in conseguenza, aveva maturato un affidamento qualificato al riguardo.
Ne deriva la sussistenza del vizio motivazionale denunciato con il secondo motivo di ricorso.
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... per l'annullamento del provvedimento 14/07/2014, prot. n. 27921/20977, a firma del responsabile del Settore edilizia privata, avente ad oggetto annullamento in autotutela della SCIA 11/11/2011 presentata per intervento di frazionamento e parziale mutamento di destinazione d’uso del fabbricato di via ... n. 14, nonché per la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno.
...
1) E’ controversa la legittimità del provvedimento in data 14.07.2014, con cui il Comune di Andora ha disposto, per i motivi ivi indicati, l’annullamento in autotutela degli effetti della SCIA presentata l’11.11.2011 per un intervento di frazionamento e parziale mutamento di destinazione d’uso del fabbricato di proprietà della Società ricorrente.
2) Con il primo motivo di ricorso, l’esponente denuncia la violazione delle regole di correttezza dell’azione amministrativa, in relazione al notevole ritardo con cui è stato esercitato il potere di autotutela.
La SCIA, infatti, era stata presentata in data 11.11.2011, mentre l’impugnato provvedimento di annullamento d’ufficio è stato adottato il 14.07.2014.
La difesa comunale si oppone alla censura in quanto, nella fattispecie, non vi sarebbe stato alcun affidamento del privato meritevole di tutela, dal momento che l’ordine di non effettuare l’intervento edilizio era stato impartito già con nota del 15.12.2011 e l’erroneo richiamo normativo ivi contenuto sarebbe stato indotto dalle contraddizioni emergenti dalla documentazione presentata dalla Società.
Inoltre, l’Amministrazione resistente rileva che i lavori non hanno preso avvio nel breve periodo di applicabilità del d.l. n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011, sicché la SCIA, avente ad oggetto un intervento non compatibile con la normativa sopravvenuta, avrebbe perso ogni carattere di attualità.
La censura è fondata.
Anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, la giurisprudenza aveva riconosciuto che, in materia di SCIA, l'amministrazione può ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non conforme alla vigente normativa una volta spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio, esercitando un potere di autotutela sui generis (perché non avente ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l'ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 29.07.2011, n. 15).
Era pertanto indispensabile, affinché tale potere potesse dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa intervenisse “entro un termine ragionevole”.
Il legislatore, quindi, aveva individuato il limite temporale per disporre l'annullamento d'ufficio secondo un parametro indeterminato ed elastico che doveva essere adattato alle circostanze del caso concreto, finendo per lasciare al sindacato del giudice amministrativo il compito di valutare, anche in relazione alla complessità degli interessi coinvolti ed al loro consolidamento, la congruità del termine intercorso tra l'adozione del provvedimento di autotutela e l’atto originario.
Tanto precisato, non dubita il Collegio che, nel caso di specie, l’ampio lasso di tempo (oltre 30 mesi) trascorso dal consolidamento della SCIA fosse più che sufficiente a generare un affidamento qualificato in capo al privato, anche perché si trattava di un intervento edilizio non complesso e non confliggente con eventuali interessi di terzi.
Va soggiunto che l’art. 21-nonies citato prevede, nell’attuale formulazione, un preciso sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, laddove stabilisce che il potere di annullamento d’ufficio non può comunque essere esercitato oltre “diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
Pur trattandosi di previsione non applicabile ratione temporis, essa assume sicuro rilievo, come già rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, per individuare il termine “ragionevole” entro il quale può essere legittimamente esercitato il potere di autotutela (Cons. Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762; idem, 10.12.2015, n. 5625).
I rilievi della difesa comunale non valgono ad escludere, infine, la sussistenza di un affidamento particolarmente qualificato in capo al privato in quanto, a fronte della chiara indicazione contenuta nel frontespizio della SCIA, non potevano nutrirsi ragionevoli dubbi in ordine alla normativa applicabile nella fattispecie.
L’ipotetico fraintendimento generato da alcune contraddittorietà emergenti dalla documentazione allegata alla SCIA, comunque, non poteva giustificare il grave ritardo con cui, oltre due anni dopo la comunicazione di avvio del relativo procedimento, è stato adottato il provvedimento finale.
Non rileva, infine, il mancato avvio dei lavori (peraltro contestato dalla parte ricorrente), poiché l’affidamento del privato discende direttamente dal consolidamento degli effetti della SCIA e dal successivo decorso del tempo.
Il provvedimento impugnato, in conclusione, è illegittimo e deve essere annullato in quanto adottato ben oltre il termine ragionevole entro il quale deve ritenersi consentito l’esercizio del potere di autotutela.
3) L’applicazione dei principi in materia di autotutela comporta che l’amministrazione dia conto, nell’atto di annullamento degli effetti della SCIA, delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati (cfr., fra le ultime, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.02.2016, n. 355).
L’atto impugnato è motivato con esclusivo riferimento ai pretesi vizi di legittimità che inficerebbero la SCIA, senza alcun riferimento agli interessi coinvolti nella fattispecie.
Il Comune di Andora, quindi, non ha indicato le ragioni di interesse pubblico che avrebbero giustificato l’annullamento della SCIA, nonostante il potere di autotutela sia stato esercitato dopo che i suoi effetti si erano consolidati da oltre due anni e il privato, in conseguenza, aveva maturato un affidamento qualificato al riguardo.
Ne deriva la sussistenza del vizio motivazionale denunciato con il secondo motivo di ricorso (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 03.10.2016 n. 970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, riguardante i "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, al comma 1, che per le zone A le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, per i nuovi edifici ricadenti in altre zone la distanza debba essere quella minima assoluta di metri 10 tra pareti finestre e pareti di edifici antistanti, e per le zone C, sia "altresì prescritta" la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto.
Al comma 3, poi, prevede che "
qualora le distanze fra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa", essendo "ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche".
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Appare coerente con il dato normativo l'assunto del P.M. ricorrente secondo cui la disposizione dell'ultimo comma sopra evidenziata debba applicarsi anche a tali diverse zone: da un lato la formulazione generale di una disposizione posta "a chiusura" dell'articolo e riferita testualmente alle distanze "come sopra computate", ivi dovendo intendersi dunque in esse comprese anche le distanze per le "altre zone", non può lasciare dubbi sulla sua portata onnicomprensiva e, dall'altro, anche sotto il profilo sistematico, non si comprenderebbe perché, come sostenuto dall'ordinanza impugnata, per le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati (tale essendo le zone D come definite dall'art. 2 del d.m. cit.), tale norma di chiusura (che ragguaglia come detto la distanza a quella raggiunta in altezza dal fabbricato più alto) non dovrebbe essere applicabile.
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L'art. 9 cit. prevede, segnatamente in ipotesi di costruzione di nuovi edifici ricadenti in altre zone, che "la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all'altezza del fabbricato finitimo più alto, se questo sia maggiore di 10 metri", restando così confermata la valenza generale del comma 2 dell'art. 9 cit..

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RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Salerno ha proposto ricorso avverso l'ordinanza in data 16/09/2015 del Tribunale di Salerno che, in accoglimento dell'istanza di riesame, ha annullato il decreto di sequestro preventivo del G.i.p. del 13/08/2015 di due fabbricati in corso di costruzione per i reati di cui agli artt. 323 c.p. e 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
In particolare l'addebito edilizio muove dal presupposto della illegittimità delle opere edili per il fatto che i fabbricati sarebbero stati realizzati a 10,60 metri di distanza tra loro come assentito dal permesso di costruire, mentre avrebbero dovuto essere realizzati ad una distanza di 22 metri pari alla loro altezza in forza della disposizione di cui all'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968.
Con un unico motivo contesta l'assunto del provvedimento impugnato secondo cui il ragguaglio della distanza tra edifici, che comunque non può mai essere inferiore a 10 metri, alla altezza massima raggiunta dagli stessi troverebbe applicazione unicamente con riferimento ai nuovi fabbricati da costruire nelle zone territoriali omogenee di tipo C, mentre nelle altre zone l'unico limite sarebbe quello appunto di 10 metri previsto dall'art. 9 n. 2 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 indipendentemente dall'altezza degli edifici.
Al contrario, secondo il ricorrente, l'obbligo di osservare tale distanza dovrebbe trovare applicazione con riferimento alla zona A, alla zona C, e anche per i nuovi edifici, nella specie tali essendo quelli oggetto di sequestro situati in zona D, ricadenti in altre zone.
Aggiunge che la possibilità di applicazione di distanze inferiori sarebbe previsto dall'art. 9 unicamente nel caso di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano-volumetriche, mentre nel Comune di Pontecagnano non sono stati ancora approvati i piani particolareggiati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è fondato.
L'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, riguardante i "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, al comma 1, che per le zone A le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, per i nuovi edifici ricadenti in altre zone la distanza debba essere quella minima assoluta di metri 10 tra pareti finestre e pareti di edifici antistanti, e per le zone C, sia "altresì prescritta" la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto.
Al comma 3, poi, prevede che "
qualora le distanze fra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa", essendo "ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche".
Ciò posto, ed incontestato che, nella specie, si abbia riguardo a costruzioni effettuate in zona D (e dunque edifici posti, secondo la dizione dell'art. 9, comma 1, n. 2, "in altre zone" nel senso di zone appunto diverse dalla zona A e dalla zona C espressamente richiamate rispettivamente dai nn. 1 e 3 del comma 1),
appare coerente con il dato normativo l'assunto del P.M. ricorrente secondo cui la disposizione dell'ultimo comma sopra evidenziata debba applicarsi anche a tali diverse zone: da un lato la formulazione generale di una disposizione posta "a chiusura" dell'articolo e riferita testualmente alle distanze "come sopra computate", ivi dovendo intendersi dunque (anche in ragione dell'ulteriore espresso richiamo ai "precedenti commi" sia pure ai fini di chiarire lo spazio di operatività della deroga prevista per i piani particolareggiati o le lottizzazioni convenzionate) in esse comprese anche le distanze per le "altre zone", non può lasciare dubbi sulla sua portata onnicomprensiva e, dall'altro, anche sotto il profilo sistematico, non si comprenderebbe perché, come sostenuto dall'ordinanza impugnata, per le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati (tale essendo le zone D come definite dall'art. 2 del d.m. cit.), tale norma di chiusura (che ragguaglia come detto la distanza a quella raggiunta in altezza dal fabbricato più alto) non dovrebbe essere applicabile.
Del resto il censurato, dal Tribunale, risultato di omogeneità cui si giungerebbe per effetto della generalizzata applicazione dell'ultimo comma, lungi dall'essere il frutto di una distorsione interpretativa (secondo l'ordinanza impugnata erroneamente propugnata dal consulente del P.M.), sarebbe a ben vedere, in realtà, l'esito della stessa volontà del legislatore che a tale omogeneità ha peraltro derogato laddove, come già visto, ha previsto la possibilità di distanze inferiori a quelle indicate nei commi 1 e 2 nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano-volumetriche.
Né in senso contrario possono condurre le citata, dal Tribunale, sentenze del Tar Lombardia n. 671 e 1429 del 2012 posto che anzi, secondo quanto affermato dal Cons. di Stato nella più recente pronuncia di Sez. 4, n. 2130 del 17/03/2015,
l'art. 9 cit. prevede, segnatamente in ipotesi di costruzione di nuovi edifici ricadenti in altre zone, che "la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all'altezza del fabbricato finitimo più alto, se questo sia maggiore di 10 metri", restando così confermata la valenza generale del comma 2 dell'art. 9 cit. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.09.2016 n. 40694).

INCARICHI PROFESSIONALI: L’avvocato che trascina il cliente in causa lo risarcisce.
Condanna esemplare: fino a 20mila euro a carico dell’avvocato che spinge il cliente a impugnare la sentenza sfavorevole pur non avendo possibilità di successo.
«…E noi facciamo appello; che tanto ci daranno sicuramente ragione» potrebbe dirti un avvocato poco professionale e scorretto. Tanto poi, chi perde è il cliente ed è quest’ultimo a pagare. Invece no: secondo una sentenza di ieri della Cassazione
[1], l’avvocato che spinge l’assistito inesperto a fare opposizione contro la sentenza sfavorevole è tenuto a risarcirgli i danni. Danni che possono arrivare anche a 20.000 euro.
Una pronuncia che imporrà, d’oggi in poi, ad ogni legale scrupoloso, di “mettere tutto per iscritto” e far firmare, al cliente, una liberatoria con cui, avvisandolo dei rischi connessi all’appello o al ricorso per cassazione, lo esonera da ogni responsabilità. In questo modo, quantomeno, dinanzi a un foglio scritto, l’assistito avrà la possibilità e tutto il tempo per meditare su una scelta delicatissima: chi soccombe, infatti, nel giudizio di impugnazione può essere condannato non solo alle spese processuali, ma anche a sanzioni economiche particolarmente elevate.
Si tratta, nelle intenzioni della sentenza in commento, di un valido effetto deterrente contro le facili impugnazioni: una sorta di sanzione per via indiretta a carico del legale (su iniziativa del cliente) per essere questi un soggetto esperto e, in quanto tale, tenuto a sapere quando l’impugnazione è pretestuosa o meno.
Da oggi, quindi, pagheranno anche gli avvocati? Non così facilmente.
Secondo la Cassazione, presupposto per rivalersi contro il proprio avvocato è che: I) sia stato quest’ultimo a insistere e a fare, sostanzialmente, la scelta definitiva dell’impugnazione; II) e che il ricorso sia palesemente infondato.
Prove che devono essere fornite ovviamente dall’assistito e che difficilmente potranno essere offerte se il legale è stato previdente da farsi autorizzare per iscritto, facendosi firmare un liberatoria. Mentre, quando ciò non avviene, si potrebbe profilare il rischio di doppia condanna: la prima, alle spese processuali, nei confronti del cliente; la seconda, in via di rivalsa, nei confronti dell’avvocato
[2].
In questo modo si consente al privato di recuperare le somme dovute alla controparte grazie alla condanna del professionista, con tempi più rapidi e con minori oneri a carico dello Stato.
Sempre ieri, ma in un’altra sentenza, la stessa Cassazione ha avuto modo di ribadire la possibilità dell’azione di risarcimento dei danni contro l’avvocato che conosceva o doveva conoscere l’infondatezza e la temerarietà dell’opposizione e che, nonostante ciò, abbia spinto il cliente alla causa. In tale ipotesi, scatta il cosiddetto abuso del processo per la sua condotta gravemente colposa.
Il presupposto della richiesta di risarcimento, da parte dell’assistito, è la violazione di una regola fondamentale posta dal codice civile in tema di esecuzione dei contratti (ivi compreso quello tra professionista e cliente): la giusta diligenza nell’esercizio del mandato cui è chiamato ad adempiere chi svolge una prestazione professionale altamente qualificata, come quella dell’avvocato (commento tratto da e link a www.laleggepertutti.it).
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[1] Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 29.09.2016 n. 19285
[2] Il tutto in linea con lo scopo dell’art. 96, co. 3, cod. proc. civ.

PUBBLICO IMPIEGO: Legge 104 anche ai conviventi. Permessi retribuiti per assistere il compagno con handicap. Per la Corte costituzionale l'esclusione è illegittima: conta la salute psico-fisica del disabile.
Diritto ai permessi retribuiti dal lavoro anche per assistere il convivente portatore di handicap. Non solo per il coniuge o gli stretti parenti.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 23.09.2016 n. 213, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
La norma bocciata, in effetti, concede il diritto a permessi retribuiti al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, o entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
La disposizione, dunque, non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità.
Nel caso specifico si trattava della dipendente di una azienda sanitaria che ha chiesto il riconoscimento dei permessi per poter assistere il proprio compagno affetto dal morbo di Parkinson e che si è opposta alla richiesta di restituzione del valore delle ore di permesso fruite in un primo tempo su autorizzazione, poi revocata, della stessa Asl.
La Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto di fruire dei permessi anche tra conviventi.
La legge 104/1992, spiega la Consulta, intende favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare e, quindi, l'interesse primario è assicurare la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito.
Il permesso mensile retribuito è, dunque, in rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla legge n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap.
La salute psico-fisica del disabile è, tra l'altro, un diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'articolo 32 della Costituzione.
A questo punto la sentenza rileva che il diritto alla salute psico-fisica, comprensivo della assistenza e della socializzazione, è garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale.
Tra le formazioni sociali c'è anche la convivenza more uxorio. È questa la ragione per cui è irragionevole che nell'elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità.
Ormai è principio consolidato nella giurisprudenza della Consulta quello per cui la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude l'equiparazione rispetto a istituti specifici in presenza di situazioni analoghe.
In questo caso l'elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall'esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo.
Altrimenti ci troveremmo di fronte a un assurdità: la minore tutela del disabile deriverebbe non dal fatto che non ci sono persone a lui legate affettivamente, ma solo per il fatto che il rapporto affettivo sia qualificato dal rapporto di parentela o di coniugio (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).

APPALTICommissari, conta qualificata esperienza. Per il cds la durata è secondaria.
L'esperienza di un commissario di gara di una gara di appalto pubblico va accertata nel concreto dal punto di vista qualitativo e non soltanto con riferimento alla durata dell'esperienza nel settore oggetto della gara.

Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 20.09.2016 n. 3911 che ha precisato alcuni profili di particolare interesse riguardanti la nomina dei commissari di gara e la loro esperienza.
Preliminarmente, rispetto al tema dei compiti affidati alla commissione di gara, i giudici richiamano l'articolo 83, comma 4 del previgente decreto 163/2006 che limita la discrezionalità della commissione aggiudicatrice nella specificazione dei diversi elementi di valutazione dell'offerta e del peso da attribuire ad essi, escludendo ogni facoltà per la stessa d'integrare il bando, unica sede in cui devono essere fissati criteri, pesi ed eventuali sub-criteri o sub-pesi di valutazione.
In ordine, invece, alla portata applicativa del comma 2 dell'articolo 84 del previgente codice, secondo cui «la commissione, nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto», il Consiglio di stato affronta una questione particolare ma di rilievo, cioè se la previsione secondo cui i commissari devono essere esperti del settore significhi fare riferimento ad una esperienza da considerare dal solo punto di vista cronologico, nel senso che l'esperienza necessaria potrà dirsi sussistente solo se maturata nell'ambito di un arco temporale minimo, ovvero se riguardi un dato di carattere qualitativo e sostanziale, nel senso che un'esperienza particolarmente qualificata, pur se concentrata in un ambito temporale limitato, possa comunque soddisfare il richiamato requisito.
La sentenza opta per la seconda soluzione. Per cui, per verificare se il commissario di gara sia realmente esperto, non si deve guardare ad un periodo temporale bensì ad elementi sostanziali che dimostrino l'effettiva esperienza del commissario ancorché recente o ristretta in un periodo limitato di tempo. Non conta quindi l'anzianità ma la qualificata esperienza, anche se limitata nel tempo (articolo ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5. Con il terzo motivo di appello la Mi.Te. lamenta che i primi Giudici abbiano erroneamente respinto il primo motivo di ricorso, con il quale si era lamentata l’illegittima composizione della Commissione giudicatrice, i cui componenti non garantirebbero professionalità dotate dei necessari requisiti di esperienza per espletare al meglio il delicato ruolo di Commissario.
L’appellante ritiene di poter condividere l’orientamento richiamato dal TAR, secondo cui il requisito dell’esperienza enunciato dall’articolo 84, comma 2 del previgente ‘Codice’ dei contratti non vada inteso in senso –per così dire– ‘atomistico’, ma vada riferito alla Commissione nel suo complesso.
Tuttavia, la stessa appellante sottolinea che risulti quanto mai rilevante ai fini del decidere la pressoché totale mancanza di esperienza che caratterizzava almeno due dei tre membri della Commissione.
5.1. Il motivo non può trovare accoglimento.
Si tratta qui di chiarire, in relazione alle peculiarità del caso in esame, la portata applicativa del comma 2 dell’articolo 84 del previgente ‘Codice dei contratti’, secondo cui “la commissione, nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto”.
Ancora più in particolare si tratta di chiarire se la previsione secondo cui i Commissari devono essere ‘esperti’ del settore stia ad individuare in modo necessario un dato di tipo cronologico (nel senso che l’esperienza necessaria potrà dirsi sussistente solo se maturata nell’ambito di un arco temporale minimo), ovvero un dato di carattere qualitativo e sostanziale nel senso che un’esperienza particolarmente qualificata, pur se concentrata in un ambito temporale limitato, possa comunque soddisfare il richiamato requisito).
Ad avviso del Collegio la questione deve essere risolta nel senso della seconda delle richiamate opzioni.
La ratio della disposizione dinanzi richiamata è certamente quella di garantire che i membri assicurino una competenza tecnica specifica e ragguagliata alla tipologia delle prestazioni che si intendono affidare. Ciò, al fine di assicurare che il giudizio espresso dai membri della Commissione risulti il più possibile pertinente in relazione al contenuto specifico delle offerte presentate.
Ora, non può dubitarsi della piena pertinenza della posizione professionale e dei percorsi formativi dei membri della commissione in relazione al contenuto della gara per cui è causa, laddove si consideri
- che il Presidente, Ing. Co.Bi., è il Direttore della Divisione casa della M. s.p.a. e che, in tal veste, coordina le attività di gestione di un patrimonio abitativo composto da oltre 38mila unità. L’Ing. Bi. risulta altresì in possesso di rilevanti certificazioni nel settore del Project management e riveste il ruolo di responsabile unico del procedimento nell’ambito di contratti di appalto nel settore delle pulizie;
- che l’arch. Da.Ca. è responsabile della sede territoriale Nord-Est della Divisione Casa di M. s.p.a. (e in tale veste ha il compito di controllare l’attività prestata dai fornitori per l’area territoriale di competenza, anche nel campo delle pulizie) e vanta specifica esperienza nella qualità di Commissario di gara;
- che il terzo membro, arch. Ve.Pi. è responsabile dei servizi generali delle sedi della M. s.p.a., ha curato gli atti di gara di decine di procedure e vanta un curriculum formativo del tutto compatibile con l’oggetto della gara per cui è causa (la stessa ha infatti conseguito un Master in ‘Economia e finanza delle costruzioni e del mercato immobiliare’ e un Master per la formazione di ‘Tecnici del controllo della qualità e della gestione della sicurezza del cantiere’).
Ad avviso del Collegio, quindi,
la qualifica di ‘esperto nello specifico settore’ cui inerisce l’appalto può essere riconosciuta –ed auspicabilmente– nel caso di prolungata esperienza nel settore in parola, ma può essere parimenti riconosciuta nelle ipotesi in cui –come nel caso in esame– risulti una particolare significatività e qualità delle esperienze formative e professionali vantate da ciascun Commissario.

TRIBUTI: La notifica dell'avviso va ben motivata. Cassazione.
Anche la notifica dell'avviso di accertamento al contribuente irreperibile deve essere ben motivata.

La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza 19.09.2016 n. 18352, procede a consolidare l'orientamento secondo cui, per il caso della notifica dell'avviso di accertamento ad un contribuente che si è reso irreperibile, il messo notificatore deve ampiamente giustificare la mancata notifica nelle mani del contribuente, documentando tutta la procedura di notifica eseguita.
Il ricorso era stato presentato poiché la Ctr aveva ritenuto corretta la notifica dell'atto, ai sensi dell'art. 60 del dpr 600/1973 per il caso del contribuente irreperibile. Tuttavia, in cassazione il contribuente ha lamentato che proprio in virtù di tale norma la notifica deve avvenire solo in via residuale, previa specifica ricerca nel comune dove è situato il domicilio fiscale per verificare che il trasferimento non sia in realtà un mero cambio di indirizzo nello stesso comune.
In tale ipotesi (c.d. irreperibilità assoluta), pur non richiedendosi «nuove e ulteriori ricerche», è pur sempre necessario nonché «sufficiente che il messo notificatore non reperisca il contribuente perché sconosciuto all'indirizzo indicato»; presupposto che, invece, non è risultato attestato nel caso di specie (articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).
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MASSIMA
4. Il primo motivo risulta meritevole di accoglimento.
5. I giudici di secondo grado si sono invero limitati ad affermare che "l'Ufficio ha dimostrato che la notifica dell'avviso di accertamento è stata effettuata regolarmente" —perciò confermando la statuizione di inammissibilità del ricorso in quanto tardivo, stante il ritenuto perfezionamento della notifica, ai sensi dell'art. 60, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 600/1973, in data 30.12.2009 ("ottavo giorno successivo alla data di affissione all'albo comunale")— quando invece la relata di notifica, appositamente trascritta in ricorso (pag. 7 e s.), recava solo la seguente attestazione: "Deposito di atto ai sensi dell'art. 60 lettera "e" D.P.R. 600/1973. In data odierna, il sottoscritto ho notificato l'atto dell'Agenzia delle Entrate di Roma 2, ai sensi dell'art. 60 lettera "e" del DPR 600/1973 e dell'art. 171 del Divo 196/2003, deposita copia dell'atto in busta chiusa presso la Casa Comunale di Roma affiggendo l'avviso di deposito all'Albo Provinciale di Roma", senza alcuna indicazione circa il fatto che il destinatario della notifica fosse ivi risultato "sconosciuto", né tantomeno delle ricerche all'uopo effettuate, la valutazione della cui sufficienza sarebbe spettata poi al giudice di merito, ai fini della ritualità notifica dell'atto impositivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e)" (v. Cass. n. 24082/2015; cfr. Cass. n. 22796/2015).
6.
Costituisce infatti ius receptum di questa Corte il principio per cui "la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dal D.P.R. 29.09.1973, n. 600, art. 60, va effettuata secondo il rito previsto dall'art. 140 c.p.c., quando siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all'art. 60 cit., lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel comune dov'è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso comune" (da ultimo, Cass. sez. V, n. 7523/2016; conf. Cass. nn. 6886/2016, 25436/2015, 23332/2015, 24260/2014, 14030/2011, 20425/2007, 7268/2002); in questa seconda ipotesi (cd. irreperibilità assoluta), pur non richiedendosi "nuove ed ulteriori ricerche", è pur sempre necessario nonché "sufficiente che il messo notificatore non reperisca il contribuente perché sconosciuto all'indirizzo indicato" (Cass. sez. V, n. 23588/2015 e n. 8676/2015, con riguardo alla dicitura "sconosciuto"; conf. Cass. 25272/2014, 17064/2006, 906/2002, 8071/1995); presupposto che, come visto, non risulta invece attestato nel caso di specie.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARISu e-mail e web controlli snelli. Strumenti di lavoro da censire. Dal Garante della privacy le indicazioni sul nuovo art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
Posta elettronica, internet e software applicativi sono strumenti di lavoro. In base all'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, come riscritto dal Jobs Act, non hanno, quindi, bisogno dell'accordo sindacale o dell'autorizzazione amministrativa per essere utilizzati.

A chiarirlo è il Garante per la privacy con provvedimento 13.07.2016 n. 303 diffuso con la newsletter del 15 settembre (si veda ItaliaOggi del 16 settembre).
Attenzione, però a non esagerare. Non sono strumenti di lavoro, secondo il Garante, gli apparati e gli applicativi che non toccano le mansioni, e con i quali, in background, costantemente ed indiscriminatamente si filtrano, monitorano, controllano e tracciano gli accessi a internet e alla posta elettronica.
Controlli a distanza e oneri del datore di lavoro. Dopo il Jobs act, l'etichetta «strumenti di lavoro» semplifica la vita ai datori di lavoro, i quali, se dallo strumento deriva la possibilità di un controllo del lavoratori, non devono preoccuparsi di fare accordi sindacali o di chiedere l'autorizzazione alle direzioni territoriali del lavoro.
Il censimento dei beni strumentali è onere del datore di lavoro. E, proprio per individuare i casi in cui si possano effettuare controlli in modo «semplificato», o, al contrario, si debba procedere con l'iter sindacale, dovrà essere effettuato al più presto all'interno delle aziende.
Il censimento, o «check-list», degli strumenti di lavoro mira, dunque, a dare risposta a una serie di domande: tra gli strumenti che si utilizzano per le prestazioni lavorative, quanti di questi danno la possibilità di raccogliere dati sui lavoratori? Ci sono beni strumentali (materiali o immateriali) non utilizzati dal lavoratore per la prestazione lavorativa dai quali deriva la possibilità sempre di raccogliere dati sui lavoratori, e che finalità hanno? In azienda si utilizzano strumenti per la rilevazione degli accessi e delle presenze?
La ripartizione dei beni strumentali aziendali nelle categorie indicate indirizza, poi, a diversi adempimenti, più, o meno, complicati.
Nel corso dell'approvazione del Jobs act, in sede di audizione parlamentare, Antonello Soro, presidente del Garante, aveva specificato che i controlli realizzati mediante tali strumenti beneficiano dell'esonero dalla procedura autorizzativa solo nella misura in cui siano effettuati utilizzando le normali funzionalità degli apparecchi forniti in dotazione, appunto, per rendere la prestazione e non inserendo specifici sistemi modificativi dei dispositivi, finalizzati al controllo personale del lavoratore.
Non potrebbe, dunque, avvalersi dell'esonero il datore di lavoro che intenda dotare di particolari software atti al monitoraggio del lavoratore i dispositivi (il pc o il telefono) forniti al dipendente per ragioni di servizio.
Le indicazioni del Garante. Entrando nel dettaglio, nel provvedimento citato, il Garante ha chiarito che sono strumenti di lavoro solo i servizi, software o applicativi strettamente funzionali alla prestazione lavorativa, anche sotto il profilo della sicurezza.
Rientrano nella definizione di strumento di lavoro il servizio di posta elettronica offerto ai dipendenti con attribuzione di un account personale e gli altri servizi della rete aziendale, fra cui anche il collegamento a siti internet.
Costituiscono parte integrante di questi strumenti i sistemi di logging per il corretto servizio di posta elettronica, ma con conservazione dei soli dati esteriori, contenuti nella cosiddetta «envelope» del messaggio, per una breve durata non superiore ai sette giorni; lo stesso vale per i sistemi di filtraggio anti-virus che rilevano anomalie di sicurezza nelle postazioni di lavoro o sui server per l'erogazione dei servizi di rete; idem per sistemi di inibizione automatica di contenuti in rete inconferenti con il lavoro, senza registrazione dei tentativi di accesso.
Invece, come accennato, non possono essere considerati strumenti di lavoro gli apparati e i sistemi software che consentono, con modalità non percepibili dall'utente (in background) e in modo del tutto indipendente rispetto alla normale attività, operazioni di monitoraggio, filtraggio, controllo e tracciatura costanti ed indiscriminati degli accessi a internet o al servizio di posta elettronica.
Ci sono poi altri strumenti come firewall o sistemi antintrusione, agenti su base statistica o con il ricorso a sorgenti informative esterne, che, non comportando un trattamento di dati dei dipendenti, sono fuori dal campo di applicazione dell'articolo 4 dello Statuto.
I dati raccolti mediante i controlli sugli strumenti di lavoro possono essere utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (quindi anche per fini disciplinari), purché sia data al lavoratore adeguata informazione:
- delle modalità d'uso degli strumenti e
- di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal Codice della privacy. Come ha rilevato il Garante (audizione Antonello Soro, sopra citata) la possibilità del controllo dell'adempimento della prestazione, mediante gli strumenti di lavoro, diventa un effetto naturale del contratto: una possibilità, però, non illimitata, in quanto valgono le prescrizioni sulla trasparenza delle informazioni, sulla proporzionalità e liceità del controllo e sulla tutela della dignità del lavoratore.
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Smartphone e Gps. Non serve accordo.
Il Gps è uno strumento di lavoro e non c'è bisogno dell'accordo sindacale o della autorizzazione amministrativa. Lo stesso per i controlli in cuffia nei call center e per gli smartphone.
Lo ha precisato la nota 10.05.2016 n. 5689 di prot. della Direzione interregionale di Milano del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Anche in questo documento si esaminano le ricadute operative dell'articolo 4, comma 2, dello Statuto dei lavoratori e si sottolinea esplicitamente che la grande novità è proprio rappresentata dal fatto che l'accordo sindacale o l'autorizzazione amministrativa non sono necessari per gli strumenti di lavoro e gli strumenti di registrazione di accessi e presenze.
La Direzione specifica che strumento di lavoro significa strumento idoneo ad assolvere complessivamente una funzione di mezzo necessario normalmente a rendere la prestazione lavorativa.
Esemplificando, un Gps installato su un mezzo consegnato a un lavoratore nel settore dell'autotrasporto è uno strumento di lavoro.
Anzi, il parere alla Direzione interregionale di Milano aveva ad oggetto proprio un sistema di geolocalizzazione su autoveicoli aziendali dati in uso promiscuo a dipendenti incaricati di mansioni di vendita.
Il parere è stato favorevole e ha considerato che il sistema Gps, anche se montato successivamente alla originaria consegna del veicolo non è da considerare separatamente dall'auto e non è necessario il preventivo accordo sindacale o la preventiva autorizzazione ministeriale. Sul medesimo caso la risposta è stata, invece, differente da parte della Direzione territoriale del lavoro di Latina, che ha rilasciato un'autorizzazione ad installare un sistema di geolocalizzazone sulle vetture di una società di vigilanza privata (provvedimento dell'11.05.2016 n. 12519).
Proseguendo nella esemplificazione del parere della Direzione di Milano, la semplificazione (niente accordo sindacale o autorizzazione ministeriale) vale nei call-center per i cosiddetti «controlli in cuffia» con cuffie e microfono assistiti da software che rilevano il grado di stress del lavoratore. Idem per lo smartphone aziendale consegnato ai venditori e dotato di app di mappe utile per gli spostamenti.
In tutti questi casi non c'è obbligo di accordo sindacale o di autorizzazione amministrativa.
Ma a questa liberalizzazione procedurale, corrisponde un maggior rigore per gli adempimenti privacy.
Al lavoratore bisogna dare adeguata informazione sulle modalità di uso degli strumenti e sulle modalità dei controlli e bisogna rispettare i principi del codice della privacy (principi di pertinenza, proporzionalità, correttezza, necessità, ecc.). I controlli non possono essere massivi, ma graduali e residuali e devono collegarsi a specifiche anomalie e comunque seguire misure preventive meno limitative dei diritti dei lavoratori.
Il Garante della privacy esemplifica: se il datore di lavoro riscontra la presenza di virus sui pc aziendali, dovrebbe dotarli di sistemi di filtraggio/blocco dei siti a rischio e non procedere al monitoraggio dei siti visitati; il datore di lavoro ha l'obbligo di individuazione preventiva della lista dei siti considerati correlati alla prestazione lavorativa, e di adottare filtri per il blocco dell'accesso a determinati siti o del download di alcuni file.
L'argine, dunque, è il rispetto della privacy. Resta il fatto che si passa a una dimensione esclusivamente di tutela individuale, abbandonando un sistema di tutela attraverso organismi rappresentativi o da parte dello stato.
Prima del Jobs Act, il controllo non era lasciato alla iniziativa del singolo, che comunque molto spesso è parte debole rispetto al datore di lavoro.
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Conservazione dati con limiti.
E-mail del lavoratore al riparo dagli occhi del datore di lavoro. Così la Corte di  Cassazione - Sez. I civile, con la sentenza 19.09.2016 n. 18302 (tratta da www.diritto-lavoro.com), che boccia sistemi di conservazione dei dati relativi alla navigazione internet e alla posta elettronica e alle utenze telefoniche.
Secondo la Cassazione l'installazione e l'uso di tali sistemi, anche se relativi a controlli difensivi (protezione del patrimonio aziendale) devono essere preceduti da un accordo con i sindacati o, in mancanza, dall'autorizzazione della direzione del lavoro.
Si deve sottolineare però che la sentenza non tiene conto della nuova versione dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori. La nuova norma da un lato ha sdoganato i controlli difensivi, assoggettati alla procedura concertativa, ma dall'altro ha esonerato da questa procedura gli strumenti di lavoro.
Peraltro con riferimento ai controlli difensivi, anche nella versione previgente dell'art. 4, la Cassazione li aveva ripetutamente esonerati dall'accordo sindacale, se diretti ad accertare comportamenti illeciti diversi da quelli riguardanti l'esatto adempimento della prestazione lavorativa.
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Audiovisivi, sanzioni in agguato.
Prescrizione obbligatoria» per l'azienda che ha installato impianti audiovisivi senza accordo sindacale né autorizzazione da parte della direzione territoriale del lavoro, Dtl. In questi casi, infatti, l'ispettore deve sanzionare il datore di lavoro e concedergli un «congruo tempo» per porre rimedio all'irregolarità, cosa che può avvenire soltanto dalla rimozione degli impianti illeciti.
I controlli a distanza. La precisazione è arrivata dal ministero del lavoro (nota prot. n. 11241/2016) a risposta della richiesta di parere in merito al provvedimento di prescrizione da impartire quando, nel corso d'ispezioni, sia accertata l'installazione e l'impiego illecito d'impianti audiovisivi per finalità di controllo a distanza dei lavoratori in orario di lavoro. La disciplina (art. 4 legge n. 300/1970) è stata oggetto di modifiche da parte del dlgs n. 151/2015 (riforma Jobs act).
Il potere di controllo e vigilanza, si ricorda, è conseguenza del potere direttivo riconosciuto al datore di lavoro nei rapporti di lavoro subordinato (dipendente). Consiste nella facoltà di impartire regole alle prestazioni lavorative. Tale controllo può essere esercitato direttamente dal datore di lavoro o da personale gerarchicamente preposto (nelle grandi aziende: direttori di personale, capi ufficio ecc.) o ancora da personale specializzato (addirittura anche agenzie investigative esterne). In ogni caso, il potere di controllo non può valicare i limiti imposti dalla legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) per quanto concerne la disciplina dei controlli a distanza, delle perquisizioni (o visite personali di controllo) e degli accertamenti sanitari.
Quanto alla finalità dei controlli, il datore di lavoro può effettuarli per motivi organizzativi o di sicurezza e, in ogni caso, sono ritenuti leciti solamente se rispettano i principi di pertinenza e di non eccedenza. Per esempio, nei sistemi software è obbligatorio che essi siano programmati e configurati in modo tale da cancellare periodicamente e automaticamente i dati personali relativi agli accessi internet e traffico telematico, qualora la conservazione non sia necessaria.
Divieto alleggerito dal Jobs act. Dal potere di controllo discende, per il datore di lavoro, la facoltà (diritto) di verificare l'esatto adempimento degli obblighi gravanti sul dipendente. Pertanto, il datore di lavoro ha la facoltà (il potere) di controllare che il lavoratore, nell'esecuzione della prestazione lavorativa, usi la diligenza dovuta (art. 2104, del codice civile), osservi le disposizioni impartitegli (sempre art. 2104), rispetti gli obblighi di fedeltà (art. 2105 del codice civile), anche al fine di poter poi esercitare un'eventuale azione disciplinare nel caso in cui rilevi l'inosservanza di tali obblighi (art. 2106 del codice civile e art. 7 dello Statuto dei lavoratori).
Tale potere non è, tuttavia, assoluto, incontrando come limite necessario il fatto che venga esercitato in modo tale da non ledere diritti fondamentali del lavoratore, come la dignità e la riservatezza. È a tal fine che l'art. 4 dello Statuto dei lavoratori disciplina il divieto dei «controlli a distanza» a carico dei datori di lavoro.
Dopo il Jobs act, in linea di principio, un divieto resterà: quello, cioè, di poter far «uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti che abbiano quale finalità esclusiva il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». Rispetto alla vigente norma, il nuovo dettato dell'art. 4 ha di più quell'«esclusiva»: pertanto, il divieto è ridimensionato all'unica ipotesi in cui l'utilizzo degli impianti abbia il fine «esclusivo» di controllare l'attività dei lavoratori.
Non c'è divieto, invece, nel caso l'utilizzo di determinate apparecchiature (da cui possa derivare un controllo dell'attività dei lavoratori) sia necessario all'attività lavorativa stessa (esigenze organizzative o produttive) o per la sicurezza del lavoro o ancora per la tutela del patrimonio aziendale. In base alla nuova formulazione, dunque, l'utilizzo di questi impianti e apparecchiature non è più un'eccezione a una regola (il divieto), ma una facoltà del datore di lavoro dettata da specifiche esigenze e comunque subordinata all'osservanza di una specifica procedura.
Le novità fondamentali (del Jobs act). Con la nota prot. n. 11241/2016, il ministero del lavoro ha illustrato le principali novità che il Jobs act (dlgs n. 151/2015) ha apportato alla disciplina dei controlli sul lavoro. In primo luogo, ha spiegato, anche la nuova disciplina vieta l'installazione d'impianti di videosorveglianza in assenza di specifico accordo sindacale o dell'autorizzazione della Dtl (direzione territoriale del lavoro).
Peraltro, ha aggiunto il ministero, la violazione di tale divieto non è esclusa dal fatto che tali apparecchiature siano solo installate e non ancora funzionanti, né dall'eventuale preavviso dato ai lavoratori, né dal fatto che il controllo è discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi soltanto in maniera saltuaria, né infine perché si tratti solamente di telecamere finte montate, cioè, a scopo puramente dissuasivo.
Anche il garante privacy, ha fatto presente il ministero, ha ribadito più volte che non è legittimo provvedere all'installazione di un impianto di video-sorveglianza senza che sia intervenuto il relativo accordo con le rappresentanze sindacali o, in subordine, senza l'autorizzazione rilasciata dalla Dtl.
Prescrizione obbligatoria. Qualora nel corso dell'attività di vigilanza sia riscontrata l'installazione d'impianti audiovisivi in assenza di specifico accordo sindacale e dell'autorizzazione rilasciata dalla Dtl competente, l'ispettore deve impartire una prescrizione (ai sensi dell'art. 20 del dlgs n. 758/1994) al fine di porre rimedio all'irregolarità, mediante l'immediata cessazione della condotta illecita e la rimozione materiale degli impianti audiovisivi.
Tale adempimento, ha sostenuto il ministero del lavoro, può ritenersi l'unico adatto a «eliminare la contravvenzione accertata». L'ispettore, a tal fine, deve fissare nel verbale di prescrizione un termine congruo per la regolarizzazione. Termine congruo significa non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario alla rimozione delle apparecchiature, tenendo conto che è necessario l'intervento di personale specializzato.
Le sanzioni. La riforma del Jobs act ha introdotto una specifica sanzione per i casi d'inosservanza della nuova disciplina sugli impianti audiovisivi, ossia la sanzione già prevista dall'art. 38 dello Statuto dei lavoratori.
Dunque, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la sanzione è l'ammenda da 154 a 1.549 euro o l'arresto da 15 giorni fino ad un anno, con applicazione di entrambe le pene (sia l'ammenda e sia l'arresto) nei casi più gravi e ferma restando la possibilità, per il giudice, di quintuplicare l'ammenda (facendola quindi arrivare a 7.745 euro) qualora dovesse ritenerla inefficace negli importi ordinari, sulla base delle condizioni economiche del datore di lavoro.
Tuttavia, ha spiegato il ministero, se durante il periodo di tempo fissato dall'ispettore con l'atto di prescrizione obbligatoria viene siglato l'accordo sindacale ovvero rilasciata l'autorizzazione dalla competente direzione territoriale del lavoro, poiché vengono così meno i presupposti oggettivi dell'illecito l'ispettore potrà ammettere «il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di 30 giorni, una somma pari al quarto del massimo dell'ammenda stabilità per la contravvenzione commessa» (art. 21 dlgs n. 758/1994).
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Installazione degli impianti, serve l'ok dei sindacati.
La procedura per l'autorizzazione all'installazione d'impianti di controllo è, in via di principio, di tipo sindacale. Se manca (se, cioè, l'accordo non viene raggiunto) l'azienda può far ricorso a un'autorizzazione ministeriale. Valgono due eccezioni: accordo sindacale e autorizzazione non sono richiesti per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (si pensi al computer) e per gli strumenti di registrazione degli accessi e delle uscite.
Da questo punto di vista, la nuova disciplina ha un ambito di applicazione più ampio rispetto a quello prima vigente. Infatti, considerando esclusi gli «strumenti» utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (anche de da questi possa derivare la possibilità di controllo a distanza), l'esonero è ben più ampio arrivando a comprendere qualunque strumentazione, di ogni tipo, inclusi dispositivi quali smartphone, tablet, posta elettronica, internet ecc.
L'accordo va stipulato con la rappresentanza sindacale unitaria (Rsu) o con le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa). In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, l'accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
In mancanza di accordo sindacale, come detto, impianti e strumenti possono essere installati previa autorizzazione della direzione territoriale del lavoro (Dtl) o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più direzioni territoriali del lavoro, del ministero del lavoro. Infine, si ricorda che le informazioni raccolte attraverso gli impianti e strumenti restano in ogni caso soggetti alle condizioni di poter essere utilizzabili solo a patto che sia stata data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto del dlgs n. 196/2003
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARIE-mail, no al Grande fratello. Illegittimi controlli a tappeto sui device dei lavoratori. La Corte di cassazione interviene su una vicenda che ha visto protagonista il Poligrafico.
Sono illegittimi i controlli a tappeto su computer, posta elettronica e telefoni da parte del datore di lavoro sui propri dipendenti.

Lo ha sancito la I Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 19.09.2016 n. 18302 (tratta da www.diritto-lavoro.com) mettendo così la parola fine a una causa che aveva visto contrapporsi l'Istituto poligrafico e zecca dello Stato e il garante per la privacy.
Quest'ultimo, nel 2011, aveva emesso un provvedimento vietando al Poligrafico «l'ulteriore trattamento, nelle forme della conservazione e della categorizzazione, dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione Internet, all'utilizzo della posta elettronica e alle utenze telefoniche chiamate dai lavoratori».
In particolare, il servizio di navigazione del web predisposto dal Poligrafico sui dipendenti, «non si limitava», sottolineava il garante, «a rifiutare la connessione dei lavoratori ai siti non inerenti l'attività del Poligrafico, ma memorizzava ogni accesso e anche ogni tentativo di accesso» conservando i dati nel sistema per un periodo da sei mesi a un anno.
Il garante censurava poi il sistema di conservazione «per prolungato periodo di tempo» sul server aziendale dei messaggi di posta elettronica inviati e ricevuti dai dipendenti e la possibile «visualizzazione integrale» da parte degli amministratori di sistema, senza aver fornito una specifica informativa in merito.
Stessa situazione, poi, era stata rilevata sul traffico telefonico. Il Poligrafico, dunque, si era rivolto al tribunale di Roma, che, nel 2013 aveva ritenuto che tali controlli violassero quanto stabilito dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori: «L'utilizzazione di tali impianti e apparecchiature per esigenze organizzative e produttive -aveva sottolineato il giudice di merito- è consentita al datore di lavoro ma solo a condizione di raggiungere un'intesa con le rappresentanze sindacali dei lavoratori oppure a seguito dell'espletamento delle procedure suppletive indicate dalla legge, mentre la loro utilizzazione è senz'altro vietata se attuata con la specifica finalità di esercitare una vigilanza sull'attività dei lavoratori».
Contro tale pronuncia il Poligrafico aveva presentato un ricorso in Cassazione, che è stato rigettato dai giudici di piazza Cavour: con la sentenza depositata ieri la Cassazione ricorda che la linea adottata dalla giurisprudenza di legittimità prevede che «l'effettività del divieto di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori richiede che anche per i cosiddetti controlli difensivi trovino applicazione le garanzie» previste dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e che «comunque questi ultimi non si traducano in forme surrettizie di controllo a distanza dell'attività lavorativa dei dipendenti».
Se, aggiungono i supremi giudici «per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, possono essere installati impianti e apparecchiature di controllo che rilevino dati relativi anche all'attività lavorativa» dei dipendenti, «la previsione che siano osservate le garanzie procedurali» di cui parla l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, «non consente che attraverso tali strumenti, sia pure adottati in esito alla concertazione con le r.s.a. si possa porre in essere», conclude la Cassazione, «anche se quale conseguenza mediata, un controllo a distanza dei lavoratori» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016).

EDILIZIA PRIVATAServe il placet paesistico per avere l'ok alle estrazioni.
Il rapporto di necessaria presupposizione, tra l'autorizzazione paesistica e l'autorizzazione all'esercizio dell'attività estrattiva, impone che quest'ultima non possa avere dei contenuti, come i «margini di flessibilità», che non risultino già previsti e disciplinati nell'autorizzazione paesistica; «on essendo consentito al legislatore regionale di introdurre, ex novo, categorie concettuali e istituti idonei, per la loro indeterminatezza, a cagionare l'elusione dei precetti statali».

Questo è quanto si legge nella sentenza 16.09.2016 n. 210 della Corte Costituzionale. Ma non è questo l'unico aspetto di interesse. Infatti la sentenza è lo «spaccato» perfetto dei rapporti tra stato e regioni.
Insomma la regione Liguria con diverse leggi (una sulle attività estrattive un'altra sulle funzioni in materia di ambiente ed energia) non fissa più un regime di prevalenza del Piano paesaggistico su quello estrattivo. Essa stabilisce più semplicemente la necessità di coordinamento fra i due piani (e le due discipline) e quindi fra i relativi atti autorizzativi.
Ma questo non è possibile e va ad alterare il rapporto tra Stato e Regioni e il relativo riparto di competenze. Infatti, come ha già affermato la Corte il bene ambiente è certamente sovraordinato a qualsiasi altro e va inteso in senso ampio e generale. La normativa statale con l'art. 145 del Codice dei beni culturali e ambientali sancisce in maniera chiara la prevalenza dell'autorizzazione paesaggistica.
È evidente che il meccanismo di coordinamento vanifica questa «priorità». Inoltre la stessa disciplina regionale prevede che con una semplice comunicazione possa essere avviato il recupero dei siti dismessi da attività cava. Anche ciò entra però in rotta di collisione con la normativa statale. Il Testo unico ambientale (dlgs 152/2006 e successive modifiche integrazioni) richiama, infatti, le procedure semplificate del dm 5/2/1998 (modificato nel 2006), ma ancora in vigore, che disciplinano i casi di ripristini ambientali.
Inoltre, se non è possibile applicare quelle semplificate devono essere applicate quelle ordinarie. La sentenza è dunque un «classico» della situazione dei rapporti tra Stato e Regioni. E del contenzioso in materia che «affolla» il ruolo della Consulta da qualche anno a questa parte (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).

TRIBUTILe notifiche via Pec seguono il processo tributario telematico. La corte di cassazione delimita l'applicazione dell'invio atti con la posta elettronica certificata.
Le notifiche a mezzo posta elettronica certificata sono ammesse solo nei pochi ambiti territoriali in cui sono operative le disposizioni sul processo tributario telematico. Pertanto, in tutte le altre parti del territorio nazionale la notifica della sentenze tramite Pec non fa decorrere il termine breve di 60 giorni per la sua impugnazione.

L'importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V cicile, con l'ordinanza 12.09.2016 n. 17941.
I giudici di Piazza Cavour, dopo una breve ricostruzione del quadro normativo, chiariscono «che le notifiche a mezzo posta elettronica certificata nel processo tributario sono consentite laddove è operativa la disciplina del c.d. processo tributario telematico».
Aggiungono, inoltre, che in deroga alle nuove norme sul processo tributario, contenute nella legge di riforma (decreto legislativo 156/2015), che fissano la sua entrata in vigore a partire dal 01.01.2016, le procedure telematiche «si applicano con decorrenza e modalità previste dai decreti di cui al dm ministero economia e finanze 23.12.2013, n. 163, art. 3, comma 3».
Nello specifico, l'articolo 16 del decreto ministeriale del 04.08.2015 ha già previsto l'entrata in vigore del processo telematico in via sperimentale «per i ricorsi dinanzi alle commissioni tributarie provinciali e regionali dell'Umbria e della Toscana».
Dunque, alla data del 05.12.2014, la notifica tramite Pec effettuata dal difensore della contribuente all'amministrazione finanziaria della sentenza resa dalla Ctr della Campania tra le parti, non è idonea a far decorrere il termine breve per la proposizione del ricorso per Cassazione». Secondo la Cassazione la suddetta notifica, «in assenza della previsione delle regole tecniche di attuazione, deve ritenersi giuridicamente inesistente». E per le notifiche a mezzo Pec delle sentenze tributarie va esclusa qualsiasi forma di sanatoria per conseguimento dello scopo dell'atto. Se non viene effettuata la notifica, o non è regolare, l'impugnazione può essere proposta entro sei mesi dal deposito della sentenza.
L'Agenzia delle entrate, con la circolare 37E/2010, ha precisato che a seconda della modalità prescelta la decorrenza del termine breve deve essere provata attraverso la relata di notifica dell'ufficiale giudiziario o dei messi, con la ricevuta rilasciata dall'ufficio locale al quale è consegnata la sentenza o con l'avviso di ricevimento. In quest'ultimo caso nell'avviso deve essere indicata la data in cui il destinatario ha ricevuto la sentenza in plico senza busta.
Qualora la sentenza non venga notificata dall'ufficiale giudiziario o dal messo, deve essere depositata in segreteria copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione unitamente all'avviso di ricevimento (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016).

TRIBUTI: Il processo fiscale non ammette la Pec.
Nel processo fiscale non è ammessa la notifica tramite Pec, almeno fino a quando il sistema telematico non si sia consolidato. Bisogna aspettare che, nel contenzioso tributario, il processo telematico vada a regime prima di cominciare a utilizzare la notifica mediante la posta elettronica certificata.

E quanto, sostanzialmente, si ricava dalla lettura della ordinanza 12.09.2016 n. 17941, con la quale la Corte di Cassazione -Sez. V civile- ha respinto il ricorso poiché in tali casi la notifica di atti tra le parti con l'utilizzo della Pec è inesistente.
In particolare, la Suprema corte ha osservato che, se non è espressamente disciplinata, la notifica via Pec non è ammessa per la notifica degli atti in materia tributaria. D'altronde, le disposizioni previste nel codice civile non si possono applicare per analogia nel processo tributario (legge n. 114 del 11.08.2014, in vigore dal 26.06.2014).
Così come le norme che regolano le notifiche degli atti attraverso il sistema postale non possono essere messe alla pari della «trasmissione del documento informatico per via telematica». Viene, quindi, a mancare l'equivalenza tra le due forme di notifica.
Peraltro, l'art. 16 del dlgs 546/1992 (per ultimo modificato dalla legge n. 114/2014), prevedeva che soltanto le comunicazioni di segreteria potessero essere effettuate con l'uso della Pec, e non pure la notifica della sentenza della Ctr a mezzo Pec all'Agenzia delle entrate come, invece, avvenuto nel caso di specie.
La Corte di legittimità poi si è soffermata sulle novità che sono intervenute con l'entrata in vigore del dlgs n. 156 del 24.09.2015 che, tra le altre cose, ha revisionato la disciplina del contenzioso tributario.
Difatti, ora il nuovo art. 16-bis del dlgs n. 546/1992 (aggiunto dal dlgs 156/2015), prevede espressamente che le notifiche tra le parti e i depositi presso la Commissione tributaria possono avvenire in via telematica (decreto Mef n. 163 del 23.12.2013, che si avvale dell'abilitazione al Sigit, Sistema informativo della giustizia tributaria). È stato perciò disposto l'avvio graduale del processo tributario telematico in via sperimentale per i ricorsi presso le Ctp e regionali dell'Umbria e della Toscana (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica valida nella Pec dell'imprenditore cessato.
Anche se l'imprenditore ha cessato la propria attività con la cancellazione dal Registro delle imprese, il creditore può comunque notificare l'atto nella Pec dello stesso imprenditore/debitore.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- che, con la sentenza 09.09.2016 n. 17884, ha ribaltato la decisione della Corte d'appello che era stata favorevole all'imprenditore individuale (debitore).
Tutto nasce con l'avvenuta dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale nei confronti del titolare di una ditta individuale. L'uomo ha poi fatto reclamo alla Corte d'appello lamentando il mancato perfezionamento della notifica dell'avviso di udienza che, tuttavia, aveva avuto esito positivo, in base alla ricevuta telematica che ne segnalava la ricezione. Nonostante ciò l'imprenditore pretendeva la notifica «esclusivamente di persona».
In particolare, la Corte d'appello, aveva accolto il reclamo proposto ex art. 18 l. fall. contro la sentenza dichiarativa del fallimento dell'impresa individuale, per l'omesso perfezionamento della notifica dell'avviso di udienza, fatta nella Pec risultante dal Registro delle imprese, presso la sede dell'impresa, presso la casa comunale e anche presso l'ultima residenza del debitore, ove lo stesso non è stato trovato, e, quindi, per l'illegittimità della notifica nei confronti dell'imprenditore individuale cancellato dal Registro.
Ma per il giudice di legittimità questo non è bastato. Anzi, la Cassazione ha ritenuto legittima la procedura di notifica pre-fallimentare avvenuta mediante la comunicazione via Pec e, poi, presso la casa comunale, poiché eseguita ai sensi dell'art. 15, comma 3, l. fall., in conformità ai dettami costituzionali. Secondo la Corte, l'irreperibilità è dipesa dalla negligenza dell'imprenditore. Non si pongono, quindi, particolari contrasti di tipo costituzionale.
Poi, essendosi trattato di un imprenditore individuale, non ricorre neppure il caso di dovere identificarne, dopo la cancellazione dal Registro, il rappresentante legale. Ne consegue che nel caso di disattivazione della Pec nel termine annuale di cui all'art. 10 l. fall., l'irreperibilità conseguente dell'imprenditore è a lui direttamente imputabile (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

APPALTI: L'azienda in gara anche se mancano oneri di sicurezza.
Il Consiglio di stato applica perl a prima volta in fase cautelare il nuovo orientamento dell'adunanza plenaria n. 19/2016 e conferma l'illegittimità dell'esclusione della società dal bando di gara pur in assenza della specifica indicazione degli oneri di sicurezza aziendali.

Con il deposito dell'ordinanza 09.09.2016 n. 3786, a seguito del ricorso promosso per conto di una società per un appalto il Consiglio di Stato -Sez. V- si è pronunciato per la prima volta sulla questione della mancata indicazione, da parte dell'impresa partecipante a un appalto pubblico, degli oneri per la sicurezza aziendale.
Con il provvedimento n. 19 il Consiglio di Stato aveva fatto marcia indietro rispetto a quanto affermato in precedenza, dichiarando esplicitamente che «per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara (...) l'esclusione del concorrente non può essere disposta».
La tematica è stata quindi affrontata dal Consiglio di stato in occasione dell'udienza in camera di consiglio dell'8 settembre scorso e, con la prima applicazione nella fase cautelare dei dettami di cui alla richiamata adunanza plenaria del luglio 2016, il collegio ha confermato la bontà delle argomentazioni svolte, accogliendo appieno il ricorso e sospendendo l'esecutività del provvedimento oggetto di gravame (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

URBANISTICAPiccola edilizia senza Vas. Per i progetti su meno del 5% dell'area urbana. Le conclusioni dell'avvocato generale della Corte di giustizia europea.
Una piccola area può essere legittimamente esclusa dalla Valutazione ambientale strategica (Vas) a condizione che non superi il 5% della zona di competenza.

Questo uno dei principi delle conclusioni 08.09.2016 causa C-444/15 dell'Avvocato generale Juliane Kokott nella causa promossa da Italia Nostra contro la Regione Venero, presentate l'8 settembre scorso, davanti alla Corte di giustizia Ue.
Il casus belli, neanche a dirlo, è rappresentato dal piano attuativo che disciplina l'assetto localizzativo, gli usi, le volumetrie e le tipologie costruttive degli interventi, prevedendo la costruzione di 84 unità abitative, distribuite in 42 elementi edilizi (villette), aggregati in cinque organismi edilizi, per 24.990 mc. su una superficie territoriale di 29.195 mq.
La commissione regionale riteneva che detto piano non fosse da sottoporre a Vas, in quanto, pur trattandosi di un piano per il quale le autorità amministrative avevano ritenuto necessaria una prima valutazione di incidenza, esso riguardava solo l'uso di piccole aree a livello locale, non produttive di effetti significativi sull'ambiente. La valutazione di incidenza veniva effettuata ai sensi della Direttiva Habitat.
Italia Nostra impugnava la deliberazione con la quale veniva approvato, appunto senza Vas, detto piano attuativo avente ad oggetto il recupero di un ambito territoriale tutelato dal punto di vista paesaggistico e naturalistico sia a livello nazionale sia a livello europeo.
Il Tar Veneto, con ordinanza del 04.08.2015, sollevava tre questioni pregiudiziali relative alla direttiva 2001/42, avente ad oggetto la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente (la direttiva Vas, Valutazione ambientale strategica), la prima di validità e le altre due interpretative.
Lo stesso Tar Veneto rilevava come la stessa direttiva Vas escluda l'obbligatorietà della valutazione ambientale strategica per i piani e programmi per i quali si ritiene necessaria una valutazione di incidenza, quando tali piani e programmi «determinano l'uso di piccole aree a livello locale».
La questione, quindi, è se questa esclusione in ragione di un dato meramente quantitativo (le piccole dimensioni dell'area) sia compatibile con gli obiettivi e i principi affermati dal Tfue sull'obbligo di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, di utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, di perseguimento di un elevato livello di tutela. Di qui la questione sulla validità della direttiva.
Nelle sue conclusioni dell'Avvocato generale, nel ricordare che la direttiva Vas non da indicazioni in concreto per piani e programmi, ma prevede disposizioni per le procedure degli Stati membri, ritiene si sufficiente la valutazione di incidenza fatta per escludere l'applicazione della direttiva Vas, ma che riguardi aree piccole di competenza dell'autorità locale.
Ricorda che non è compito del legislatore nazionale fissare un soglia, ma che è competenza di quello nazionale.
Per il legislatore nazionale (dlgs 03.04.2006, n. 152) rientrano nella nozione di «piccolo» le superfici fino a 40 ettari per i progetti di sviluppo di aree urbane e le superfici fino a 10 ettari per progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all'interno di aree urbane esistenti.
Comunque secondo l'Avvocato generale un'area non può essere considerata piccola se è maggiore del 5% della superficie del territorio dell'amministrazione locale competente. Anche se nel caso di enti locali con estensione particolarmente grande, l'applicazione di tale parametro non è di norma ammissibile (articolo ItaliaOggi del 10.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul territorio cognizione Tar. Le violazioni di procedimenti e piani.
Nel caso di atti e comportamenti in violazione di norme che regolano il procedimento e la programmazione, pianificazione e organizzazione del territorio (art. 34.1 e 2, dlgs n. 80/1998, come modificato dall'art. 7 della legge n. 205/2000), nell'interesse dell'intera collettività nazionale, competerà al giudice amministrativo la cognizione esclusiva delle relative controversie sulla sussistenza in concreto dei diritti vantati.

Lo hanno affermato i giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 07.09.2016 n. 17674.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza Cavour vedeva Tizio e Caio che con atto di citazione convennero dinanzi al Tribunale il Comune e la s.p.a. Autostrade per l'Italia chiedendone, ai sensi degli artt. 2043-2051 cod. civ., la condanna, anche in solido, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, previo accertamento dell'intollerabilità/illegittimità e pericolosità per la salute delle immissioni acustiche ed atmosferiche derivate a loro e all'immobile di loro proprietà dall'esecuzione dei lavori di potenziamento, senza previo assoggettamento alla procedura di compatibilità ambientale, dalla cui esecuzione era derivata la conversione di tratti di circolazione stradale a doppio senso in tratti a senso unico, collegandoli tramite una bretella che realizzava un anello chiuso e il dirottamento del traffico proveniente da altro Comune.
Aggiungeva Tizio che un'area di sua proprietà era stata espropriata per l'esecuzione di detti lavori e che per il ripristino della recinzione e la realizzazione di idonea pannellatura antirumore aveva ricevuto dalla società Autostrade una determinata somma. Il Tribunale con sentenza declinò la giurisdizione.
La Corte di appello invece, con sentenza, ha ritenuto la propria giurisdizione e condannava in solido la s.p.a. Autostrade per l'Italia e il Comune pagare euro 2.000,00 a ciascuno degli attori per ogni anno a decorrere dalla domanda (articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).
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MASSIMA
1.- Il ricorrente principale con il primo motivo deduce: "Difetto di giurisdizione dell' AGO. Violazione dell'art. 34 D.L.gs. n. 80 del 1998 come modificato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000" per non avere la Corte di merito valutato che le pretese risarcitorie degli attori si ricollegano all'esercizio dell' attività amministrativa urbanistica, estrinsecazione dei potere autoritativo della P.A., ed in particolare della disciplina pianificatoria del territorio e pertanto, pur se la domanda non è di annullamento di atti amministrativi, tuttavia appartiene al G.A. che può anche risarcire il danno ingiusto anche per lesione di diritti soggettivi fondamentali conseguenti all'esercizio del potere pubblico in quanto giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica, ed anche se non è chiesta la tutela demolitoria dell'atto amministrativo che si pretende illegittimo.
1.1- Con il primo motivo di ricorso incidentale adesivo la s.p.a. Autostrade per l'Italia deduce: "Difetto di giurisdizione (art. 362, comma 1, n. 1 c.p.c.) Violazione degli artt. 24 e 32 Costit. nonché dell'art. 24 DLgs. 80/1998 come modificato dall'art. 7 legge n. 205/2000 e dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, nonché degli artt. 7 e 133 D.Lgs. 104/2010; violazione dell"art. 386 c.p.c. (art. 362, comma 1, n. 3 c.p.c.)" avendo gli attori sottoposto, anche in via indiretta, al G.O. il sindacato sulla legittimità/correttezza degli atti amministrativi delle autorità competenti.
Ed infatti non è stata scrutinata una mera condotta materiale della P.A., ma un complesso e articolato iter urbanistico, espressione di potere autoritativo della P.A. e della scelta di gestione e uso del territorio, avendo i Fo. chiesto di acquisire la documentazione attestante la progettazione e la realizzazione dell' opera e di riclassificare la zona di ubicazione dell'immobile deprezzato da essa e questi sono la causa petendi ed il petitum sostanziale da cui sono derivati i pretesi danni, anche patrimoniali.
I motivi, connessi, sono fondati.
Va infatti ribadito che
anche in materia di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione allorché la loro lesione sia dedotta come effetto del se e del come la funzione pubblica si sia estrinsecata in materia riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come nel caso atti e comportamenti in violazione di norme che regolano il procedimento e la programmazione, pianificazione e organizzazione del territorio -art. 34.1 e 2 DLgs. del 1998 n. 80, come modificato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, in cui rientrano anche le modalità di regolamentazione del traffico viario e di predisposizione delle infrastrutture imposte dalla legge, caratterizzate da ambiti di discrezionalità- nell'interesse dell'intera collettività nazionale, compete al giudice amministrativo la cognizione esclusiva delle relative controversie sulla sussistenza in concreto dei diritti vantati, direttamente incisi dal potere autoritativo di cui si contestano le scelte, ed il contemperamento o limitazione di essi con l'interesse generale all'ambiente salubre (Corte Costituz. nn. 204 del 2004, 191 del 2006, 140 del 2007, S.U. n. 2052 del 2016), che non può esser demandato ad un ausiliare del G.O..

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto soggettivo leso, parola al tribunale. Contestazioni in merito ai danni provocati dalla pubblica amministrazione.
Nel caso in cui ci sia contestazione in merito al diritto soggettivo che viene leso dalla p.a., sarà competenza del giudice ordinario quella di conoscere dell'azione proposta dal danneggiato per il conseguente risarcimento del danno.
Lo hanno affermato i giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 07.09.2016 n. 17673.
Il thema decidendum vide, nel caso di specie, Tizio, Caio e Sempronio convenire nel 2005 dinanzi al Tribunale, Alfa s.p.a., deducendo di esser proprietari di un immobile in un caseggiato situato nel Comune interessato dai lavori di realizzazione della nuova linea ferroviaria, appaltati da Alfa s.p.a. alla Beta impresa, e che durante l'esecuzione dei lavori di scavo di una galleria artificiale a ridosso dell'edificio il caseggiato aveva subito consistenti lesioni che ne avevano compromesso la stabilità e la sicurezza.
L'accertamento tecnico preventivo aveva confermato i fatti e pertanto, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., chiesero di accertare la responsabilità dei convenuti anche per inadempimento agli obblighi assunti con essi attori, e la condanna all'esecuzione delle opere di consolidamento dello stabile e al risarcimento dei danni per il diminuito valore dell'immobile. L'impresa appaltatrice chiamò in garanzia l'Assicurazione.
Disposta Ctu, il Tribunale declinò la giurisdizione ai sensi dell'art. 34, dlgs n. 80 del 1998, ravvisando la natura pubblica delle opere per il raddoppio della linea ferroviaria implicante atti e provvedimenti in materia edilizia e urbanistica, essendo irrilevante la natura privata dell'impresa appaltatrice, da equiparare alla p.a. nel perseguimento degli interessi pubblici, ed essendo competente la giurisdizione amministrativa sulle domande di risarcimento del danno causato da comportamenti riconducibili ad atti amministrativi nell'esercizio, anche mediato, del potere pubblico. Con sentenza la Corte di appello respingeva l'appello.
Pertanto Tizio, Caio e Sempronio ricorrevano per Cassazione. I giudici di piazza Cavour hanno altresì evidenziato che il g.o. possa svolgere indagine alcuna al fine di sindacare se la p.a. abbia convenientemente apprezzato gli interessi della collettività e scelto i mezzi idonei a soddisfarli, e può indagare se i mezzi discrezionalmente scelti siano stati messi in opera in modo adeguato e corretto o, invece, con imperizia o negligenza o imprudenza, cioè colposamente, trattandosi di un'indagine condotta in base a criteri puramente tecnici e diretta non a censurare l'attività discrezionale della p.a., ma a porre in rilievo un eventuale illecito (articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).
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MASSIMA
1.- Ed infatti
per principio assolutamente consolidato di queste Sezioni Unite, fermo il potere della P.A. di apprezzare liberamente gli interessi pubblici, come l'idoneità dei mezzi da adottare per soddisfarli, ed escluso, entro tale ambito, che il giudice ordinario possa svolgere indagine alcuna al fine di sindacare se la P.A. abbia convenientemente apprezzato gli interessi della collettività e scelto i mezzi idonei a soddisfarli, è altrettanto fermo che, rispettati tali limiti, il giudice ordinario possa indagare se i mezzi discrezionalmente scelti siano stati messi in opera in modo adeguato e corretto o, invece, con imperizia o negligenza o imprudenza, cioè colposamente, trattandosi di un'indagine condotta in base a criteri puramente tecnici e diretta non a censurare l'attività discrezionale della P.A., ma a porre in rilievo un eventuale illecito.
Pertanto,
se la P.A. ha il potere di stabilire in modo discrezionale ed insindacabile i criteri ed i mezzi secondo i quali un'opera pubblica (nella specie, la realizzazione della nuova linea ferroviaria "Pontremolese"), deve essere eseguita, tuttavia la sua discrezionalità trova un limite nel dovere di osservare non solo le norme legislative e regolamentari, ma anche quelle tecniche, quelle elementari della prudenza e della diligenza, nonché la norma primaria e fondamentale del neminem laedere, limite esterno posto a detta discrezionalità, il quale impone anche alla pubblica amministrazione di evitare che dalla costruzione dell'opera pubblica derivino danni alla vita, alla incolumità o all'integrità dei patrimonio dei cittadini.
E se in conseguenza dell'inosservanza di dette norme siano derivati danni a terzi, la P.R. è tenuta a rispondere di quelli che siano conseguenza immediata e diretta dell'esecuzione stessa, in base ai comuni principi sulla responsabilità per colpa.
Né è dubbio che dell'azione proposta dal danneggiato per il risarcimento del danno sia competente a conoscere il giudice ordinario, cadendo la contestazione sul diritto soggettivo leso dalla P.A. -ovvero dalla società privata incaricata dell' esecuzione dell'opera pubblica- dalla mancata adozione di idonee cautele protettive del patrimonio privato ed essendo perciò il giudice ordinario chiamato a conoscere gli effetti dei comportamento colposo della P.A., non anche a sindacare l'uso che del suo potere discrezionale questa abbia fatto (ex multis S.U. 25982 del 2010, 5926 del 2011).

CONDOMINIO - PATRIMONIO: Niente tassa sugli ascensori. Ma serve sicurezza sugli impianti antecedenti al 1999. Parere del Cds sul regolamento Mise che ha rottamato l'obbligo di adeguamento.
La «tassa sull'ascensore» non ci sarà. Ma per il Consiglio di stato, la decisione del governo di fare dietrofront sull'obbligo di messa in sicurezza degli impianti installati prima del 1999, rischia di creare un certo allarme. Perché gli ascensori più vecchi, a meno che non siano stati oggetto di autonomi interventi di adeguamento, non garantiscono a chi li utilizza il medesimo livello di sicurezza offerto da quelli installati in conformità alla direttiva 95/16/Ce.
In ogni caso, ha riconosciuto palazzo Spada, la scelta di non intervenire «è stata legittima» e non censurabile in quanto si tratta di «materia attinente all'incolumità pubblica». Ma il governo dovrebbe provvedere con urgenza poiché «vi è un'esigenza, particolarmente avvertita nell'attuale fase storica, di sicurezza a tutti i livelli da parte della comunità nazionale, il cui soddisfacimento ha un impatto fondamentale sul rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti dello stato».

Con il parere 06.09.2016 n. 1852 (Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento concernente modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30.04.1999, n. 162, per l’attuazione della direttiva 2014/33/UE relativa agli ascensori ed ai componenti di sicurezza degli ascensori nonché per l’esercizio degli ascensori), i supremi giudici amministrativi hanno acceso il semaforo verde sul discusso regolamento del ministero dello sviluppo economico che recepirà nel nostro ordinamento la nuova direttiva 2014/33/Ue in materia di ascensori.
Il regolamento era finito subito nel mirino di Confedilizia preoccupata proprio per le conseguenze economiche che i controlli di sicurezza richiesti per gli impianti ante 1999 avrebbero potuto produrre sulle tasche dei proprietari. Ne era sorto un duro botta e risposta tra l'associazione guidata da Giorgio Spaziani Testa e il ministero di via Veneto (si veda ItaliaOggi del 17/02/2016) culminata nella decisione da parte dell'esecutivo di eliminare, dal testo definitivo del dpr approvato dal consiglio dei ministri il 20 giugno scorso, il riferimento all'obbligo di adeguamento. Un dietrofront che la confederazione della proprietà edilizia aveva subito accolto con favore.
«Diamo atto al presidente del consiglio e al nuovo ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, di aver varato un provvedimento attento alla sicurezza dei cittadini, ma privo di inutili e costosi adempimenti aggiuntivi per la proprietà, già pesantemente provata dalla congiuntura economica e dall'imposizione fiscale», aveva dichiarato Spaziani Testa.
Ora la sezione consultiva atti normativi guidata da Franco Frattini, con il parere favorevole sul testo, mette il sigillo anche sulla scelta di non insistere sulla tassa sull'ascensore. Ma lo fa esprimendo più di una perplessità. Nel parere si citano i dati forniti dagli operatori del settore che evidenziano come su 700.000 ascensori installati prima del 1999, circa il 40% sia ancora caratterizzato da inadeguata precisione di arresto della cabina (problema che dà origine a più di un terzo degli infortuni rilevati), circa il 35% presenti problemi sull'adeguatezza dei sistemi di protezione contro urti e schiacciamento della cabina e circa il 70% sia sprovvisto di adeguati dispositivi di illuminazione di emergenza o di richiesta di aiuto dalla cabina.
Ciononostante, i giudici riconoscono che «formalmente la scelta di non intervento è legittima, poiché la materia è disciplinata non dalla direttiva cui si dà attuazione con il regolamento (2014/33/Ue) ma con la raccomandazione europea 95/216/Ce che è atto non vincolante».
Il governo, ha ricordato palazzo Spada, «sfruttando l'occasione offerta dalla direttiva, ha avviato la relativa analisi di impatto concludendo circa la necessità di approfondire la tematica, rinviando l'intervento a un autonomo atto normativo».
«Trattandosi di materia attinente all'incolumità pubblica», il Consiglio di stato non ha potuto censurare la scelta di rinvio, ma ha segnalato al governo l'esigenza di provvedere con urgenza, proprio per l'esigenza di sicurezza sempre più forte nella popolazione. Non solo. «Non è caso di correre il rischio», ha concluso il Consiglio di stato, «che una significativa differenza degli standard di sicurezza tra vecchi e nuovi impianti sia percepita come un'ingiustificata discriminazione a carico dei proprietari di edifici acquistati in epoca più antica»  (articolo ItaliaOggi del 13.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIGarage senza Tari se non producono rifiuti.
Autorimesse e garage sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti, ma i contribuenti sono esonerati dal pagamento se provano che questi immobili non producono rifiuti.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con l'ordinanza 05.09.2016 n. 17623.
I giudici di piazza Cavour con la [...] (articolo ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Strada sbarrata alle motivazioni apodittiche. La corte di cassazione si sofferma sulle fonti delle sentenze.
Sussiste il vizio di mancanza di motivazione su punto decisivo, implicante l'annullamento della sentenza, nel caso in cui, per l'assoluta genericità e l'assoluta indeterminatezza delle fonti di convincimento, la motivazione si risolve in una affermazione apodittica, che non consente ne la ricostruzione del procedimento logico, ne l'individuazione delle ragioni che condussero alla adottata soluzione del punto controverso.

Ad affermarlo sono stati i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 01.09.2016 n. 17500.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì aggiunto che tale mancanza di motivazione, inoltre, correlativamente non consente la possibilità di controllo della logicità e congruità della ratio decidendi, e pertanto restano frustate le finalità perseguite dalla legge con l'imposizione dell'obbligo della motivazione.
Il thema decidendum sottoposto all'attenzione degli Ermellini vedeva il circolo Alfa e Tizio che avevano stipulato con la società Beta sas un contratto di vendita a consegne ripartite. Dopo sette mesi la società Beta aveva elevato il prezzo del prodotto e spostato il termine, poiché secondo la società Beta alla scadenza del contratto il circolo Alfa non aveva ancora provveduto a ritirare il prodotto e non aveva provveduto a pagare la merce.
In seguito con un secondo contratto veniva stabilito l'obbligo per il circolo Alfa di acquisto una certa quantità di prodotto dalla venditrice mediante ritiri mensili per il prezzo pari al listino ufficiale della Beta sas depositato alla Cciaa.
Secondo la società Beta alla scadenza del secondo contratto il circolo e il Tizio erano debitori ancora di una certa somma.
Pertanto la società M., persistendo l'inadempimento chiedeva e otteneva dal Tribunale decreto ingiuntivo per la complessiva somma.
Il decreto ingiuntivo notificato veniva opposto dal circolo e da Tizio e specificando che constatato che, nel 2003, il prodotto aveva una qualità inferiore a quelle sempre fornita, il circolo, aveva dovuto approvvigionarsi altrove e constato, ancora, che, nel gennaio 2004, il prodotto continuava a essere di scarsa qualità, avevano ritenuto opportuno chiudere il rapporto con la società Beta.
Eccepivano che il diritto per cui la società Beta agiva si era estinto per prescrizione.
Il Tribunale rigettava l'opposizione e confermava il decreto ingiuntivo.
La Corte di appello, su impugnazione proposta dal Circolo e da Tizio, accoglieva l'appello, revocava il decreto opposto, condannava il circolo, condannava la società Beta alla restituzione di quanto ottenuto con la sentenza di primo grado, respingeva la domanda riconvenzionale avanzata dal circolo, condannava il circolo al pagamento di un terzo delle spese del secondo grado del giudizio e compensava il resto (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deliberazione non sufficiente. La pubblicazione ufficializza la consegna della sentenza. La Corte di cassazione distingue tra atti meramente interni ed efficacia esterna.
Nella sentenza sarà la pubblicazione ex art. 133 c.p.c. a ufficializzare la consegna della sentenza stessa attribuendole giuridica esistenza nel mondo esterno, mentre, eccetto per casi particolari, la deliberazione della sentenza rappresenterà solo una mera fase del procedimento di formazione della decisione.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.08.2016 n. 17297.
Infatti, la deliberazione della sentenza è un atto meramente interno e acquista efficacia esterna per effetto del suo deposito contestualmente attestato dal cancelliere che attribuisce ad essa l'efficacia di certezza pubblica.
Tizio, ricorrente, denunciava la violazione dell'art. 133 c.p.c., per avere dato rilievo decisivo all'attività, interna all'ufficio, di deposito della sentenza in cancelleria, invece che a quella di pubblicazione tramite la necessaria attestazione del cancelliere, avvenuta, nella specie, in data successiva alla proposta di concordato preventivo, non esaminata perché erroneamente considerata tardiva.
I giudici di piazza Cavour hanno premesso che tale fattispecie non è quella, cui si riferisce la sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del 2012, seguita dalla giurisprudenza successiva (si veda anche Corte cost. n. 3 del 2015), della cosiddetta doppia data di pubblicazione della sentenza, «
quando vi sia un contrasto tra l'annotazione del deposito della sentenza (completa della firma del presidente e dell'estensore) da parte del cancelliere e l'annotazione successivamente apposta dallo stesso cancelliere relativa all'attestazione dell'intervenuta pubblicazione della sentenza medesima».
Infatti, i giudici della Cassazione osservano che il deposito della sentenza di primo grado non è stato certificato contestualmente dal cancelliere, il quale ha rilasciato successivamente, a richiesta del curatore, una postuma certificazione di deposito della sentenza in data anteriore.
Secondo gli Ermellini una simile certificazione, evidentemente, non può ritenersi idonea ad attestare la pubblicazione della sentenza in una data diversa ed anteriore a quella ufficiale, coincidente con l'attestazione del cancelliere.
E sarà questa la data da considerare ai fini della valutazione della tempestività della proposta di concordato preventivo, la quale impedirà temporaneamente la dichiarazione di fallimento, essendo stata avanzata in data precedente (si veda: Cass., sez. un., n. 9935 del 2015) (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

VARI: Ragioni d'ordine pubblico giustificano il foglio di via.
Lo scopo del foglio di via è quello di limitare la libertà di spostamento di cui normalmente godono i cittadini quando una persona pericolosa socialmente venga identificata fuori del suo luogo di residenza senza un legittimo motivo. Si tratta di una misura di polizia fortemente limitante una delle più scontate libertà costituzionali quale quella di locomozione, ma si giustifica per esigenze di ordine pubblico.

Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 19.08.2016 n. 794.
Il thema decidendum aveva il seguente oggetto: a Tizio veniva notificato dalla Questura un foglio di via obbligatorio per essere stato sorpreso nell'atto di affiggere dei manifesti di contenuto politico e in virtù di precedenti di polizia. Tizio ricorreva, quindi, in via gerarchica al Prefetto che però non adottava alcun provvedimento facendo maturare il termine per il silenzio-rigetto di cui all'art. 6, dpr 1199/1971.
Pertanto lo stesso Tizio presentava un ricorso sulla base di due motivi. Il primo denunciava la violazione dell'art. 2, dlgs 159/2011 nonché l'eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza di presupposti e difetto di istruttoria.
Tizio non si trovava in una città fuori del territorio di residenza, presupposto indefettibile per l'applicazione del foglio di via; egli infatti aveva fissato la sua dimora abituale in quella città dove frequentava il secondo anno di un Corso di Laurea essendo stato titolare di un contratto di locazione in passato e attualmente assegnatario di un alloggio di residenza universitaria.
La residenza va intesa secondo la definizione dell'art. 43 c.c. rispetto alla quale le iscrizioni anagrafiche hanno un valore puramente indicativo. Il secondo motivo censurava le medesime norme sotto altro profilo in quanto il ricorrente non appartiene a nessuna della categorie alle quali sono applicabili misure di prevenzione quale quella a lui irrogata.
Per definirlo pericoloso la Questura faceva riferimento a non meglio precisati precedenti di polizia che probabilmente sono solo segnalazione di partecipazioni a manifestazioni espressione della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di associazione.
Il Ministero dell'Interno si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso. Il ricorso secondo il tribunale amministrativo era, pertanto, fondato (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

TRIBUTI: Notifica ok a parenti non conviventi.
La notificazione di un atto tributario eseguita presso l'abitazione del contribuente, con consegna a persona qualificatasi come «cognata», seppur non convivente, è regolare. Il notificatore, infatti, non è tenuto a indagare sullo stato di convivenza o sulla effettività del rapporto di parentela che si presume «iuris tantum» dalle dichiarazioni a costui rese: spetta, semmai, al contribuente fornire la prova contraria, circa l'inesistenza di un legame con il consegnatario ovvero l'occasionalità della presenza dello stesso nell'abitazione.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 05.08.2016 n. 16499 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Si discuteva sulla presunta irregolarità della notifica di atti tributari, prodromici rispetto all'impugnata cartella di pagamento: la mancata notifica di detti atti avrebbe inficiato la cartella. La Ctr di Roma, con sentenza favorevole al contribuente, annullava la cartella, poiché la notifica dei suddetti atti era avvenuta a persona rinvenuta nell'abitazione e qualificatasi come «cognata»: poiché era stato dimostrato che la cognata non era «convivente» con il destinatario del plico, l'organo laziale aveva ritenuto irregolari le notifiche.
La Corte di cassazione ha annullato la sentenza regionale, rinviando gli atti ad altra sezione del collegio di via Labicana. In base alle previsioni dell'articolo 139 del cpc, richiamato dall'articolo 60 del dpr 600/1973, se il destinatario del plico non si trova nel luogo in cui viene eseguita la notifica, il notificatore «consegna copia dell'atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace».
Lo status di persona di famiglia o addetto alla casa, e quindi un legame con l'effettivo destinatario e la stabilità della presenza del consegnatario in quel luogo, sono condizioni che si presumono iuris tantum, dal fatto che il consegnatario si trovi in quel luogo al momento della notifica e dalla dichiarazione (eventualmente) rilasciata al notificatore. Dunque, spiega la Cassazione, la presunzione di legge reca la sussistenza tra i soggetti di una relazione tale da far ritenere la regolare trasmissione dal primo al secondo del plico notificato.
Sebbene tale presunzione non abbia natura assoluta e sia suscettibile di prova contraria, tale onere spetta comunque al destinatario che, dimostrando l'insussistenza del dichiarato rapporto di familiarità, la solo occasionale presenza del familiare nella casa, o entrambe le cose insieme, assuma di non aver ricevuto l'atto notificato con le modalità prescritte dalla legge.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Osserva la Corte che il giudice di merito non ha considerato che, in base all'articolo 139 cpc (richiamato dall'articolo 60 del dpr n. 600/1973), l'ufficiale giudiziario non è tenuto a svolgere indagini o ricerche particolari in ordine all'effettività dello stato di convivenza; e nemmeno, nel caso di consegna a persona di famiglia, a espressamente indicare tale stato nella relata di notificazione.
E ciò, nella specie, per la basilare ragione che il rapporto di convivenza non è prescritto dal comma 2, dell'art. 139 cit. 2.3. In proposito l'esegesi giurisprudenziale del secondo comma dell'art. 139 cpc, ha ampliato il concetto di «persona di famiglia» fino a ricomprendervi non solo i parenti ma anche gli affini e ha escluso che sia implicito nella previsione codicistica che la «persona di famiglia» cui fa riferimento la norma citata debba convivere col notificatario.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che in caso di notificazione ai sensi dell'art. 139 cpc, comma 2, la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda di chi ha ricevuto l'atto si presume «iuris tantum» dalle dichiarazioni recepite dall'ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell'atto, che contesti la validità della notificazione, l'onere di fornire la prova contraria e, in particolare, di provare l'inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità su indicate ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario (Cass. nn. 23368/2006, 21362/2010, 26501/2014, 7211/2016).
Non ha la Ctr dunque considerato che nel concorso di circostanze fattuali assodate in giudizio (presenza della consegnataria presso l'abitazione del destinatario X e rapporto di affinità tra i due) ricorreva qui la presunzione di legge circa la sussistenza tra i soggetti di una relazione tale da far ritenere la regolare trasmissione dal primo al secondo del plico notificato (v. tra le tante, Cass. 21362/10 cit. e 23368/06).
È vero che tale presunzione non ha natura assoluta e può, pertanto, essere superata dalla prova contraria a onere del destinatario che, deducendo l'insussistenza del dichiarato rapporto di familiarità, la solo occasionale presenza del familiare nella casa, ovvero entrambe le cose insieme, assuma di non aver ricevuto l'atto notificato con le suddette modalità (ex multis, Cass. ord. 12181/13) (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

TRIBUTI: Ici-Imu, la sanzione è ripetibile. Contribuenti tenuti al pagamento finché c'è violazione. La Cassazione: l'obbligo di dichiarazione prosegue per le annualità successive.
Una sanzione ogni anno per l'omessa presentazione della dichiarazione Ici e Imu. La violazione perdura fino a quando il contribuente non la regolarizza presentando la denuncia al comune sul cui territorio è ubicato l'immobile.

È questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. V civile- con la sentenza 05.08.2016 n. 16484.
Per i giudici di legittimità, la violazione dell'obbligo di dichiarazione Ici e Imu non ha natura istantanea ma si ripete nel corso degli anni e il contribuente è soggetto al pagamento della sanzione per ogni singola annualità. Nonostante la legge preveda un unico obbligo a carico del possessore dell'immobile, questo non comporta che incorra, in caso di inadempimento, in una sola violazione e in una sola sanzione. La sanzione, invece, va irrogata per ogni singola annualità.
Del resto, secondo la Cassazione, l'obbligo imposto dall'articolo 10, decreto legislativo 504/1992 di dichiarare il possesso e il valore degli immobili incidente sulla determinazione dell'Ici, o dell'Imu poiché la regola è la stessa, «non cessa allo scadere del termine fissato dal legislatore con riferimento all'inizio del possesso ma permane finché la dichiarazione (o la denuncia di variazione) non sia presentata, e l'inosservanza determina, per ciascun anno di imposta, un'autonoma violazione punibile».
Se l'omissione riguarda diverse annualità è irrogabile una sanzione per ogni anno. All'unicità dell'adempimento per assolvere alla denuncia non corrisponde l'unicità della sanzione.
Contribuenti tenuti all'adempimento. La dichiarazione deve essere presentata da coloro che vantino il diritto a fruire di riduzioni d'imposta. Quindi, sono tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, coloro che possiedono immobili di interesse storico o artistico. Inoltre, vanno denunciati tutti i casi in cui l'amministrazione comunale non possiede le notizie utili per verificare la correttezza dell'operato dei contribuenti.
Nello specifico, tra i casi più significativi, l'adempimento è richiesto quando: l'immobile ha formato oggetto di locazione finanziaria o di un atto di concessione amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato.
Va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile. Il valore dell'area, che è quello di mercato, deve sempre essere dichiarato dal contribuente, poiché questa informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco perché l'obbligo non sussiste quando viene alienata un'area fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza.
L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti dalle imprese e distintamente contabilizzati, classificabili nel gruppo catastale D, che sono tenute a dichiarare il valore venale del bene sulla base delle scritture contabili, sia in aumento che in diminuzione, fino all'anno di attribuzione della rendita catastale. La dichiarazione, poi, deve essere presentata per gli immobili relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento.
Anche gli enti non commerciali che sono stati esonerati fino al 2011 dall'obbligo di presentare la dichiarazione Ici, sono invece tenuti a denunciare ai comuni gli immobili posseduti per l'Imu. Non è più applicabile per questi enti l'articolo 10 della normativa Ici (decreto legislativo 504/1992), che escludeva espressamente dall'obbligo dichiarativo gli immobili esenti.
Soggetti esclusi. Le istruzioni ministeriali hanno ribadito quanto già sostenuto con la circolare 3/2012 e cioè che non devono presentare la dichiarazione coloro che fino al 2011 hanno già presentato la dichiarazione Ici. Non sono tenuti all'adempimento coloro che possiedono immobili destinati a prima casa, nella quale hanno fissato la residenza anagrafica e la dimora abituale. Stesso trattamento viene riservato alle pertinenze dell'abitazione principale.
Nelle istruzioni viene precisato che la conoscenza da parte del comune delle risultanze anagrafiche fa venire meno la necessità di presentazione della dichiarazione. Anche per i titolari di immobili adibiti a prima casa, però, è prevista un'eccezione all'esonero generalizzato dall'obbligo dichiarativo, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare possiedano più di un immobile nello stesso comune.
Com'è noto, la legge esclude il doppio beneficio per i coniugi non legalmente separati. L'agevolazione è limitata a un solo immobile nel quale risiede e dimora uno dei coniugi, il quale è tenuto a presentare la dichiarazione.
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Tributi locali, termine unico entro il 30/6.
Termine unico per le denunce Imu, Tasi e Tari. Devono infatti essere presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in comune di un immobile, la dichiarazione può essere presentata solo da uno degli obbligati. Le dichiarazioni non devono presentate se l'obbligo è stato già assolto e non sono intervenute medio tempore delle variazioni o non sono state effettuate nuove occupazioni.
Per la Tari restano ferme le superfici già dichiarate per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares. All'imposta sui servizi indivisibili, invece, si applicano le stesse regole stabilite per l'imposta municipale. La dichiarazione produce effetti anche per gli anni successivi, sempreché non si verifichino modificazioni dei dati già dichiarati da cui consegua un diverso ammontare del tributo dovuto. In quest'ultimo caso, allo stesso modo, le variazioni vanno dichiarate entro il 30 giugno dell'anno successivo.
Il comma 687 della legge di Stabilità 2014 (147/2013) richiede per la Tasi l'osservanza delle disposizioni dettate per la presentazione della dichiarazione Imu. Anche per la Tasi, quindi, la dichiarazione non va presentata se gli elementi rilevanti sono acquisibili attraverso la consultazione della banca dati catastale o gli enti sono già in possesso delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria.
Va ricordato, infine, che per la dichiarazione Tasi può essere utilizzato lo stesso modello già approvato per l'Imu. Il dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia, con la circolare 2/2015, ha chiarito che per l'imposta sui servizi non serve un modello di dichiarazione ad hoc e che i comuni in molti casi già dispongono delle informazioni necessarie per effettuare i controlli e gli accertamenti sui due tributi, nonostante siano diversi i soggetti passivi, vale a dire proprietari, inquilini, comodatari (articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).

VARI: Rischio suicidio, paga anche lo psichiatra.
Lo psichiatra commette omicidio colposo se non vigila severamente sui pazienti ad alto rischio di suicidio.

Lo chiarisce la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, nella sentenza 01.08.2016 n. 33609, che ha respinto il ricorso di un medico psichiatra condannato per il suicidio di una paziente, affetta da psicosi maniaco-depressiva, «una malattia caratterizzata da un alto rischio di suicidio». La paziente, dopo aver tentato il suicidio ben due volte, si è allontanata dalla stanza della clinica dove era in cura, gettandosi da un'impalcatura esterna dell'edificio, per porre fine alla sua vita.
I giudici di piazza Cavour hanno accolto l'interpretazione della Corte d'appello sull'atto d'accusa, secondo cui «si rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico –si legge nella sentenza– a una stretta sorveglianza, intesa come assistenza della paziente 24 ore su 24» e che purtroppo tale misura «non fu in nessun caso e in nessun momento adottato nei confronti della paziente che risultò pienamente libera di muoversi per tutto l'edificio, senza alcuna sorveglianza».
Da qui il richiamo dei porporati al principio di diritto secondo cui «il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche là dove quest'ultimo non sia sottoposto al ricovero coatto, con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele» (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Legittima l'Iva sulle parcelle. Non è limitazione al diritto alla difesa giudiziale. Sentenza della Corte di giustizia europea sui compensi spettanti agli avvocati.
Pagare l'Iva sulle parcelle degli avvocati è legittimo.

Lo ha precisato la Corte di Giustizia dell'Unione europea con sentenza 28.07.2016 C-543-14, che sottolinea come «non costituisce una limitazione al diritto alla difesa giudiziale». Lussemburgo ha anche aggiunto che «gli Stati membri possono legiferare e modificare le norme interne e passare da un meccanismo di esenzione all'obbligo di versare l'imposta».
L'attenzione della Corte Ue era stata sollecitata dal Belgio, che aveva adottato una legge che poneva fine all'esenzione Iva per i servizi prestati dagli avvocati nell'esercizio della loro attività (escluso chi usufruisce di un patrocinio gratuito).
La Corte ha riconosciuto che i costi di un procedimento giudiziario (inclusa l'Iva) «possono influire sulla decisione dell'individuo di far valere i propri diritti in giudizio, facendosi rappresentare da un avvocato», e che la tassazione «può essere messa in discussione solo se i costi sono insormontabili, rendendo impossibile o molto difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico europeo». Il provvedimento continua a far discutere, perché alcuni giuristi hanno sollevato il problema se l'aumento Iva sia o meno compatibile col principio della parità tra le parti, visto che l'introduzione dell'aliquota non grava su chi usufruisce del gratuito patrocinio e grava di fatto solamente su una parte.
Su questo Lussemburgo ha precisato che «poiché agli avvocati è riconosciuto un diritto di detrazione per l'acquisto di beni e servizi, non è certa la misura in cui i legali riversino l'onere dell'Iva sui propri onorari, e dunque sui clienti. Ma l'Iva non rappresenta la parte più significativa dei costi di un procedimento giudiziario, e non implica l'obbligo di un'assoluta parità tra i costi finanziari sopportati dal processo».
Dunque la Corte europea ha interpretato la direttiva 2006/112 nel senso che «l'imposizione dell'Iva è legittima, e non pregiudica l'equilibrio processuale delle parti. In Italia la direttiva è stata recepita nel 2010 ed è attualmente in vigore». E questo libera definitivamente anche i professionisti del diritto che operano nel nostro Paese a presentare ai clienti parcelle con Iva (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
  
1) Dall’esame dell’articolo 1, paragrafo 2, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28.1.2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, alla luce del diritto a un ricorso effettivo e del principio della parità delle armi sanciti all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non è emerso alcun elemento atto a inficiare la validità di tali disposizioni nella parte in cui esse assoggettano all’imposta sul valore aggiunto i servizi prestati dagli avvocati a individui che non beneficino del gratuito patrocinio nell’ambito di un regime nazionale di gratuito patrocinio.
   2) L’articolo 9, paragrafi 4 e 5, della convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, firmata ad Aarhus il 25.06.1998, non può essere evocato al fine di valutare la validità dell’articolo 1, paragrafo 2, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112.
   3) L’articolo 132, paragrafo 1, lettera g), della direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che i servizi prestati dagli avvocati a individui che beneficino del gratuito patrocinio nell’ambito di un regime nazionale di gratuito patrocinio, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, non sono esentati dall’imposta sul valore aggiunto.

CONDOMINIOCani e gatti, condomini aperti. Nulli i divieti contenuti nei regolamenti, anche originari. Una sentenza del tribunale di Cagliari chiarisce la portata della legge n. 220/2012.
Animali domestici sempre ammessi in condominio. Deve infatti ritenersi nullo l'eventuale divieto contenuto nel regolamento condominiale e questo non solo quando quest'ultimo sia stato approvato a maggioranza in assemblea, ma anche laddove si tratti di un regolamento originario, di natura cosiddetta contrattuale.

Questa la decisione contenuta nella recente sentenza 22.07.2016 del TRIBUNALE di Cagliari.
Le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice sardo in merito alla portata applicativa del nuovo art. 1138 del codice civile, siccome modificato dalla legge n. 220/2012, appaiono infatti nuove se confrontate con quanto ritenuto dalla maggior parte dei commentatori della riforma del condominio.
Il caso concreto. Nella specie un condomino proprietario di un cane di piccola taglia si era rivolto al tribunale di Cagliari per impugnare il regolamento, chiedendo che venisse accertata la nullità della disposizione contenente il divieto di tenere animali domestici nel condominio. La domanda traeva spunto dalla modifica dell'art. 1138 c.c. a opera della legge di riforma del condominio, a mente della quale le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici.
L'amministratore, nel costituirsi in giudizio nell'interesse del condominio, aveva però allegato la natura contrattuale del regolamento, essendo stato lo stesso predisposto dall'originario costruttore dell'edificio condominiale e richiamato nei singoli atti di acquisto delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, con conseguente infondatezza della domanda. Il tribunale ha tuttavia accolto il ricorso presentato dal condomino ex art. 702-bis c.p.c., ritenendo che la disposizione impugnata fosse da ritenersi invalida per violazione di legge, anzi addirittura nulla per contrasto con la norma contenente principi di ordine pubblico.
Il divieto di tenere animali in condominio. Prima della riforma del 2012 si riteneva generalmente che un divieto siffatto potesse essere contenuto soltanto in un regolamento cosiddetto contrattuale, ossia originariamente predisposto dal costruttore dell'edificio e accettato nei vari atti di acquisto o, comunque, accettato espressamente da tutti i comproprietari, in quanto una tale limitazione delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei singoli condomini non avrebbe potuto essere introdotta dalla semplice maggioranza di essi.
Su questa posizione si era attestata anche la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, evidenziando la conseguente invalidità di simili divieti contenuti in regolamenti cosiddetti assembleari, ossia approvati dai condomini a maggioranza nel corso delle periodiche riunioni condominiali. Si evidenziava, in ogni caso, come una questione del tutto diversa fosse quella della responsabilità del padrone per gli eventuali danni procurati dall'animale nei confronti degli altri condomini, vuoi per il disturbo della quiete che per questioni igieniche.
Il nuovo art. 1138, ultimo comma, del codice civile. Come detto, con la legge n. 220/2012 di riforma del condominio è stato introdotto un nuovo ultimo comma all'art. 1138 c.c. il quale, come parimenti evidenziato, prevede che il regolamento non possa vietare di tenere animali domestici nelle unità immobiliari di proprietà esclusiva.
Per tutta una serie di motivi, però, la maggior parte dei commentatori ha fino a oggi ritenuto che questa novità (valutata in realtà come conferma dello status quo) valesse soltanto per i regolamenti cosiddetti assembleari e non sovvertisse il principio cui era pervenuta la giurisprudenza in precedenza richiamata, vale a dire l'impossibilità di imporre a maggioranza validi divieti che comportassero una limitazione delle facoltà comprese nel diritto di proprietà.
La conclusione di cui sopra è stata sostenuta sia alla luce di un'interpretazione sistematica della norma (l'art. 1138 c.c. si occupa di disciplinare il regolamento approvato in assemblea) sia in ragione del tradizionale principio di diritto appena richiamato (nella maggior parte dei casi la riforma del 2012 ha infatti tradotto in disposizioni di legge le conclusioni alle quali era pervenuta la più recente giurisprudenza di legittimità).
Non è mancato, però, chi ha al contrario evidenziato la valorizzazione operata oggigiorno a livello normativo interno e comunitario del rapporto uomo-animale, inferendo da ciò la necessità di interpretare la novella legislativa in maniera più ampia ed evoluta.
La decisione del tribunale di Cagliari. Ed è proprio quest'ultimo lo spirito che sembra avere mosso il giudice sardo all'innovativa interpretazione dell'ultimo comma del novellato art. 1138 c.c.
Il tribunale, infatti, nell'accogliere il ricorso introduttivo del condomino proprietario dell'animale domestico, ha ritenuto che l'impugnata disposizione regolamentare fosse affetta da «nullità sopravvenuta», conseguente all'introduzione della menzionata novità normativa, essendo quest'ultima «applicabile ( ) a tutte le disposizioni con essa contrastanti, indipendentemente dalla natura dell'atto che le contiene, regolamento contrattuale ovvero assembleare, e indipendentemente dal momento dell'introduzione di quest'ultimo, prima o dopo la novella del 2012».
Sempre secondo il giudice di primo grado, detto divieto è da considerarsi addirittura nullo, in quanto contrario ai principi di ordine pubblico «ravvisabili, per un verso, nell'essersi indirettamente consolidata, nel diritto vivente e a livello di legislazione nazionale, la necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale e, per altro verso, nell'affermazione di quest'ultimo principio anche a livello europeo».
E, invero, non mancano nel panorama normativo interno e comunitario le disposizioni che in questi ultimi anni hanno migliorato la tutela giuridica degli animali. La legge quadro n. 281/1991 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo aveva per esempio condannato gli atti di crudeltà, i maltrattamenti e l'abbandono degli animali, mentre la più recente legge n. 189/2004 ha introdotto i reati di uccisione e maltrattamento degli animali di cui agli artt. 544-bis e ss. del codice penale.
Successivamente le modifiche al Codice della strada e il relativo decreto ministeriale di attuazione n. 217/2012 hanno disposto l'obbligo di fermarsi a soccorrere l'animale eventualmente ferito in caso di incidente. A livello europeo si possono invece ricordare la Convenzione per la protezione degli animali da compagnia di Strasburgo del 1987 e l'art. 13 del Trattato Ue, il quale stabilisce che l'Unione e gli stati membri devono tenere conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti.
Secondo il giudice sardo, quindi, la norma introdotta all'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. sarebbe espressione di principi già operanti nel diritto vivente, frutto dell'evoluzione del comune sentire in ordine al rapporto uomo-animale e da considerarsi compresi nei più generali diritti inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione.
Per questo motivo la nuova disposizione deve essere interpretata come espressione di principi di ordine pubblico, con conseguente applicabilità a tutte le tipologie di regolamento condominiale, a prescindere quindi dall'approvazione all'unanimità o a maggioranza del relativo divieto, e anche a quelli precedenti l'entrata in vigore della legge n. 220/2012.
In particolare, il tribunale di Cagliari, prendendo ulteriormente posizione sulla contraria opinione per la quale la predetta disposizione riguarderebbe i soli regolamenti cosiddetti assembleari, ha evidenziato come, seppure sia innegabile che i commi dell'art. 1138 c.c. che precedono quello aggiunto dal legislatore della riforma riguardino soltanto quest'ultima tipologia di atto, sia la rubrica della norma sia il predetto ultimo comma parlino, genericamente, di «regolamento», consentendo quindi di ritenere che il citato articolo del codice civile sia, per così dire, un contenitore atto a recepire disposizioni su entrambe le possibili forme di regolamento.
Viene inoltre fatto notare come le conseguenze della violazione di tale divieto siano specificamente previste dall'art. 155 disp. att. c.c., a mente del quale «cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento di condominio che siano contrarie alle norme richiamate nell'ultimo comma dell'art. 1138 del codice» (seppure detta norma si riferisse a quello che era l'ultimo comma della disposizione in esame prima della riforma del 2012, essendo probabile che il legislatore non abbia aggiornato il riferimento per un difetto di coordinamento sistematico del testo di legge).
Secondo il tribunale di Cagliari, a ogni modo, questa sarebbe la miglior prova della tesi della nullità della disposizione regolamentare contenente siffatto divieto, «costituendo l'inefficacia mera conseguenza di un'invalidità e non invalidità essa stessa» (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

EDILIZIA PRIVATARiqualificazione energetica senza limiti.
Le detrazioni per le spese sostenute per le opere di riqualificazione energetica possono essere fruite da ogni titolare di reddito d'impresa, in relazione a qualunque immobile posseduto, senza limitazioni relative ai c.d. immobili merce o patrimoniali.

È quanto afferma la Ctp di Milano nella sentenza 21.07.2016 n. 6418/22/2016.
La vertenza nasce dall'impugnazione di una cartella di pagamento emessa da Equitalia, su iscrizione a ruolo effettuata dall'Agenzia delle entrate, relativa al disconoscimento delle detrazioni per le spese di risparmio energetico.
In particolare, l'amministrazione finanziaria intendeva negare la detrazione, poiché i lavori erano stati eseguiti su un immobile destinato alla locazione e, quindi, non strumentale all'attività d'impresa: secondo la tesi dell'Agenzia, infatti, la detrazione è possibile per i soli immobili strumentali, mentre restano escluse le riqualificazioni di immobili merce o patrimonio. Detta interpretazione troverebbe fondamento nell'interpretazione dei commi da 344 a 347, articolo 1, della legge 296/2006 (Finanziaria 2007).
La Ctp di Milano ha accolto il ricorso e annullato l'iscrizione a ruolo, ritenendo che la normativa in questione non ponga affatto il limite sostenuto dall'Agenzia delle entrate, frutto di un'interpretazione della stessa che poco si confà alla ratio degli stessi provvedimenti di agevolazione fiscale. La legge istitutiva del beneficio, spiega il collegio di via Vincenzo Monti, non pone distinzioni di soggetti beneficiari dell'agevolazione e pertanto la stessa spetta «in modo oggettivo per le spese documentate relative a interventi di riqualificazione energetica che comportino il risparmio energetico di almeno il 20%».
L'agevolazione in parola consiste in una detrazione dall'Irpef o dall'Ires ed è concessa quando si eseguono interventi che aumentano il livello di efficienza energetica degli edifici esistenti, concernenti: la riduzione del fabbisogno energetico per il riscaldamento; il miglioramento termico dell'edificio (coibentazioni - pavimenti - finestre, comprensive di infissi); l'installazione di pannelli solari; la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale.
All'accoglimento del ricorso, la Ctp non ha fatto seguire la condanna alle spese, che sono state interamente compensate tra le parti.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] I motivi di doglianza del ricorrente sono i seguenti: 1. Il ricorrente contesta il mancato riconoscimento di spese mediche proprie e del coniuge a carico. L'importo delle spese non riconosciute è di euro 19.050,00 al netto della franchigia di euro 129,11 che comporta l'onere di Irpef di euro 3.620,00. Il ricorrente allega al ricorso copia delle fatture e degli scontrini delle spese sostenute. 2. Il ricorrente contesta il mancato riconoscimento del beneficio del 55% di detrazione dell'investimento per il risparmio energetico di euro 13.756,00 da cui origina l'addebito di Irpef di euro 7.567,00.
Il ricorrente precisa di essere socio accomandatario nella società sas nella misura dell'87,87% del capitale e di avere destinato l'investimento alla riqualificazione energetica di un immobile di proprietà sociale limitando il beneficio alla quota di partecipazione.
L'Agenzia delle entrate si costituisce nel giudizio e riferisce quanto segue.
1. In relazione alla rettifica delle spese mediche, l'Agenzia riferisce di non avere preso in considerazione gli importi relativi ai «parafarmaci» e «dispositivi medici» seguendo le istruzioni ministeriali. Fa inoltre presente in uno scontrino la mancanza di evidenza della data di emissione.
Con provvedimento in data 22/03/2016 il ricorrente è sgravato dell'importo di euro 5.105,36 di cui euro 3.612,00 di Irpef e l'Agenzia deposita copia dell'atto.
2. In relazione alla rettifica della spesa di risparmio energetico, l'Agenzia fa presente che alle imprese l'agevolazione compete limitatamente agli immobili strumentali utilizzati per lo svolgimento dell'attività restando esclusi gli immobili c.d. «merce» e «patrimoniali». L'Agenzia attribuisce l'esclusione dal beneficio all'interpretazione del disposto all'art. 1 c.c. da 344 a 347 della legge 296/2006 e motiva la ripresa fiscale per il fatto che l'immobile è risultato destinato alla locazione e pertanto non costituisce «strumento» per la società.
La Commissione prende atto che l'Agenzia ha sgravato l'onere addebitato per le spese mediche. In relazione al mancato riconoscimento delle spese di riqualificazione energetica, la Commissione ritiene fondata l'argomentazione del ricorrente e pertanto la richiesta meritevole di accoglimento. La Commissione rileva che la legge 27/12/2006, n. 296 (Legge finanziaria 2007) non pone distinzione dì soggetti beneficiari dell'agevolazione e pertanto l'agevolazione compete in modo oggettivo per le spese documentate relative a interventi di riqualificazione energetica che comportino il risparmio energetico di almeno il 20%.
Pertanto, la Commissione verifica che la tesi dell'Agenzia non trova fondamento né nella legge né nella normativa di attuazione. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl dirigente illegittimo risponde in proprio.
In caso di delega a sottoscrivere accertamenti conferita da parte di un funzionario privo di regolare qualifica dirigenziale l'atto è illegittimo. Inoltre lo stesso funzionario reggente che ha disposto l'assegnazione illecita, risponde personalmente del maggior onere conseguente.

Lo ha stabilito, trasmettendo gli atti alla Corte dei conti e alla procura della repubblica di Milano, la Sez. VII della Commissione tributaria regionale Lombardia-Milano, nella sentenza 14.07.2016 n. 4183/7/2016.
La vertenza riguarda un avviso di accertamento sottoscritto da un funzionario per delega del direttore provinciale della competente Agenzia delle entrate. Opponendo questo accertamento, il contribuente, quale primo motivo di ricorso, contestava sia la legittimità della delega che la sottoscrizione dell'accertamento a norma dell'art. 42 del dpr n. 600/1973.
La Commissione provinciale di Milano rigettava il ricorso; il collegio di primo grado osservava come l'atto fosse stato sottoscritto regolarmente da funzionario delegato dal direttore provinciale.
La sezione settima della Ctr di Milano è stata di tutt'altro avviso, e ha annullato l'accertamento. «Nel caso di specie», si legge nella sentenza, «l'avviso di accertamento risulta sottoscritto dal capo area lavoratori autonomi, delegato impersonalmente dal direttore provinciale, la cui relativa qualifica da dirigente, consultando la pagina trasparenza amministrativa del sito dell'Agenzia delle entrate, è stata accertata come illegittimamente attribuita («nemo trasferre potest quod non habet nec plus quam habet)».
La Commissione prosegue affermando come il conferimento di incarichi pubblici per cooptazione (e non per concorso pubblico) sia inapplicabile a un ente pubblico non economico e costituisca una palese violazione del «diritto a una buona amministrazione» di cui all'articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue. Dalla sent. n. 37/2015 della Corte costituzionale, precisa il Collegio tributario meneghino, consegue la decadenza dell'incarico dirigenziale, nonché l'invalidità di tutti gli atti impositivi sottoscritti personalmente o per delega da questo presunto funzionario per straripamento di potere.
In conclusione, il collegio ha rilevato come il giudice tributario sia un pubblico ufficiale e, ex art. 357 c.p., abbia un obbligo giuridico diretto di trasmettere alla procura della Corte dei conti un rapporto su eventuali responsabilità per danno erariale, nonché alla Procura della repubblica per eventuali rilievi penali, disponendo infine la condanna alle spese, a carico delle Entrate.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Per effetto della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, il conferimento di incarichi dirigenziali pubblici per cooptazione (e non per concorso pubblico) è inapplicabile a un ente pubblico non economico, titolare esclusivo e generate dei poteri impositivo statale nonché costituisce palese violazione dei «diritto a una buona amministrazione», di cui all'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
A tale sentenza costituzionale consegue la decadenza dall'incarico dirigenziale, con effetto retroattivo, di tutti coloro che sono stati nominati in base alte norme dichiarate incostituzionali nonché l'invalidità derivata di tutti gli atti impositivi sottoscritti da costoro (personalmente o su delega) per incompetenza assoluta in difetto di attribuzione (art. 21-septies, legge 241/1990: è nullo il provvedimento amministrativo, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione ...; trattasi di c.d. inesistenza giuridica. Cass. sent. n. 12104/2003).
Nei casi di sopravvenuta usurpazione di pubbliche finzioni, sia dei dirigenti deleganti che di quelli delegati, si versa nell'ipotesi di straripamento di potere; in particolare, mentre per la rilevanza interna degli atti endoprocedimentali è sufficiente la sottoscrizione del dirigente/funzionario, addetto con un mero ordine di servizio, gli atti aventi rilevanza esterna devono essere emessi dalla Direzione provinciale e sottoscritti dal relativo legittimo dirigente o, per formale delega nominativa di questi, dal sottoposto capo dell'ufficio controllo, ovvero da altro dirigente e/o funzionario, che possieda legittimamente la qualifica dirigenziale o meramente direttiva, a seconda del livello (dirigenziale o direttivo) richiesto in funzione della rilevanza della sede.
La nullità assoluta per straripamento di potere dell'atto consegue alla sottoscrizione da soggetto divenuto usurpatore di pubbliche finzioni per sopravvenuto retroattivo difetto assoluto di attribuzione. [omissis]
Considerato che il giudice collegiale tributario (pubblico ufficiale ex art. 357 c.p.) ha un obbligo giuridico diretto (ex art. 83, legge 1240/1923, art. 53 commi 2 e 3, rd 1214/1934, artt. 20 e 21 T.u. 3/1957, art. 1, comma 3, legge 20/1994) di trasmettere alla Procura della Corte dei conti un rapporto su eventuali responsabilità per danno erariale, nonché alla Procura della repubblica (ex art. 331 c.p.p.) denuncia per eventuali rilievi penali e che responsabilità contabili e penali incombono direttamente anche sul giudice collegiale tributario che abbia omesso le doverose denunce (361 c.p.), manda alla segreteria di sezione per la trasmissione in copia dei fascicolo di causa alle locali procure della repubblica, contabile e penale.
Ciò per debito d'ufficio e per quanto di propria rispettiva ritenuta competenza. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

TRIBUTIAree a uso pubblico senza imposte comunali.
Non è dovuta l'imposta comunale sugli immobili concessi a uso pubblico in forza di un contratto, indipendentemente dal nomen juris assegnato all'atto e dal fatto che lo stesso non sia ricompreso nel novero dei rapporti espressamente menzionati dalla norma che stabilisce l'esenzione. Ciò che rileva, infatti, è l'individuazione del rapporto concreto e sostanziale: se esso prevede che il godimento sia, nei fatti, a favore del Comune, l'ente non può pretendere il pagamento dell'imposta.

È quanto si legge nella sentenza 07.07.2016 n. 4088/65/2016 della Ctr di Brescia.
Un comune della provincia di Bergamo intendeva assoggettare a imposta comunale un'area su cui gravava una «servitù di uso pubblico», o almeno così veniva denominato il diritto nel contratto tra le parti, a sua volta denominato «costituzione di uso pubblico a titolo gratuito».
Secondo la tesi dell'ente comunale, il rapporto in essere sul terreno non era fra quelli espressamente menzionati dall'articolo 4 del dlgs 504/92, secondo cui «l'imposta non si applica per gli immobili di cui il comune è proprietario ovvero titolare dei diritti indicati nell'articolo precedente», ovvero diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie.
La Ctr, riformando la sentenza emessa dai primi giudici, ha invece ritenuto determinante l'individuazione del rapporto effettivo, a prescindere dalla nomenclatura utilizzata nei contratti, ove peraltro la «servitù di uso pubblico» rappresenta un istituto neppure tipizzato normativamente. Analizzando le modalità di godimento delle aree in questione, il collegio regionale ha valutato che il rapporto sottrae al proprietario la disponibilità dei beni, in favore di interessi pubblici.
D'altronde, prosegue la sentenza, l'articolo 825 del codice civile sottopone al regime del demanio pubblico i diritti che spettano ai comuni «su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi».
Dunque, in definitiva, sulle aree destinate a un uso pubblico, in forza di un contratto che ne preveda tale destinazione, a prescindere dal nomen juris dello stesso, il Comune non può pretendere dal proprietario il pagamento dell'imposta comunale.
All'accoglimento dell'appello non è seguita la condanna alle spese, stante l'affermata «eccezionalità della materia del contendere e in assenza di pronunce sul punto della Corte di cassazione».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'art. 4, dlgs 504/1992 stabilisce che «L'imposta non si applica per gli immobili di cui il comune è proprietario ovvero titolare dei diritti indicati nell'articolo precedente» ed espressamente individuati nel «diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie».
Al fine dell'individuazione del diritto esistente sui beni in discussione, irrilevante risulta il nomen juris attribuito dalle parti negli atti notarili, di volta in volta diversamente definito e in più occasioni individuato come una «servitù di uso pubblico», istituto normativamente non contemplato.
A titolo esemplificativo, l'atto notarile del 20/03/2006 tra [omissis] srl, dante causa di [omissis] srl, e il comune di ... è denominato «costituzione di uso pubblico a titolo gratuito», con il quale peraltro si dichiara di costituire una «servitù di uso pubblico», a sua volta trascritta nei Registri immobiliari come «costituzione di diritti reali a titolo gratuito» per «il diritto di uso pubblico».
Si rende pertanto necessario accertare in concreto se il rapporto rientri nell'ambito di una servitù ovvero di un diritto reale. E che il trasferimento riguardi un vero e proprio diritto reale di godimento su beni privati in favore della collettività, e dunque di «uso pubblico», si evince dalle modalità di godimento delle aree in questione.
Il trasferimento del diritto al comune risulta di fatto sottrarre al proprietario la libera disponibilità dei beni: con l'atto unilaterale di asservimento dell'11/05/2005 [omissis] srl si impegnava ad assoggettare «a uso pubblico» le aree in questione (art. 2). Il successivo art. 4 dispone che «l'avvenuta costituzione della servitù pubblica permette al Comune di utilizzare l'area asservita per qualsiasi attività istituzionale», mentre l'art. 5 prevede il rilascio da parte del Comune di una contestuale «concessione di suolo pubblico di parte dell'area», stabilendo altresì «un canone concessorio annuo» (art. 7).
Si deve concludere che il godimento del bene è nei fatti in favore del comune e di conseguenza non può essere soggetto passivo dell'imposta il privato proprietario, il cui godimento risulta sacrificato in favore di interessi pubblici. Il tutto in linea normativamente con il disposto dell'art. 825 c.c., che sottopone al regime del demanio pubblico i diritti reali che spettano tra gli altri ai comuni «su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti ... per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi».
Né può rilevare in senso contrario che il parcheggio sia usufruibile da parte della clientela del centro commerciale, considerato che l'accesso a esso è libero e consentito all'intera collettività anche in orario notturno, allorquando il centro commerciale non è in funzione. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016).

TRIBUTINon esiste la notifica degli atti via posta elettronica certificata. ACCERTAMENTI/ Il giudizio della Ctr lombarda favorevole al contribuente.
La notifica di un accertamento tramite la posta elettronica certificata non esiste. In quanto giuridicamente inesistente la notifica in questione non può nemmeno risultare sanata dal successivo comportamento del contribuente che si costituisce in giudizio ed eccepisce il vizio della notifica così eseguita.
Ad oggi nel nostro ordinamento tributario l'unica disposizione che consente agli enti di notificare ai contribuenti atti attraverso gli indirizzi di posta elettronica certificata, è contenuto nel secondo comma dell'articolo 26 del dpr 602/1973 che si applica unicamente alle cartelle esattoriali e non può essere certamente esteso agli avvisi di accertamento.

È questo, in estrema sintesi, il giudizio totalmente favorevole alla società ricorrente, contenuto nella sentenza 22.06.2016 n. 3700/6/2016 della Commissione tributaria regionale della Lombardia-Milano, Sez. VI.
A eseguire la notifica di una serie di avvisi di accertamento sulla posta elettronica certificata di una società di capitali era stato l'ufficio tributi di un comune in provincia di Como che contestava un insufficiente pagamento della Tarsu.
Secondo i giudici della regionale lombarda la notifica di un avviso di accertamento tramite un messaggio mail alla posta certificata della società in oggetto, risulta priva dei requisiti minimi necessari per configurare una vera e propria notifica che per le concrete modalità con le quali la stessa è stata effettuata, esce completamente dallo schema legale degli atti di notificazione, configurando non una mera nullità quanto piuttosto una reale inesistenza della notifica stessa.
Il giudizio della regionale ha completamente ribaltato il verdetto di primo grado della Commissione tributaria provinciale di Como che aveva invece respinto il ricorso della società ritenendo sanato il vizio di nullità afferente la notifica dell'avviso di accertamento eseguita a mezzo Pec. Contro tale sentenza si era immediatamente appellata la società prospettando, in via preliminare oltre ad altri motivi di gravame, proprio l'erronea qualificazione in termini di nullità anziché di inesistenza, con conseguente impossibilità di sanatoria, della notifica dell'atto impositivo eseguita a mezzo Pec.
La Commissione regionale dopo aver accolto la preliminare eccezione del ricorrente in termini di inesistenza della notifica in questione si è spinta anche oltre precisando come nel caso di specie l'invio dell'avviso di accertamento risultasse privo anche di tutti quegli elementi necessari ed imprescindibili di una notifica. L'invio tramite Pec effettuato dal comune risultava infatti privo del relativo avviso, della relata di notifica e di una qualsiasi firma digitale dell'atto di accertamento da parte di un funzionario nominativamente individuato.
In una tale situazione, si legge nella parte motiva della sentenza in commento, «siamo indubbiamente fuori da ogni ipotesi di schema legale di notificazione, tanto che non può parlarsi di notificazione meramente nulla quanto piuttosto di notificazione del tutto inesistente, vizio radicale del procedimento notificatorio insuscettibile di sanatoria, specie in un caso come quello in esame in cui il ricorso tributario presentato dal contribuente è stato volto ad eccepire proprio l'inesistenza della notifica e prima di ogni altra difesa in merito».
Si tratta di un arresto giurisprudenziale di estremo interesse. L'avvento della notifica degli atti tributari tramite la posta elettronica certificata deve necessariamente trovare un limite nella legge e deve comunque essere effettuata secondo formalità tali da garantire al contribuente destinatario le stesse garanzie previste nelle altre tipologie di notifica (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016).

EDILIZIA PRIVATACentri commerciali. Lo stop è legittimo. Sentenza del Tar Piemonte dà ragione all'ente.
No a nuovi centri commerciali sul territorio del comune. Con tanti saluti alle liberalizzazioni e alla concorrenza fra le imprese. È legittimo lo stop imposto dal consiglio municipale all'insediamento di nuovi punti vendita della grande distribuzione perché la delibera approvata risulta ispirata a finalità di tutela dell'ambiente urbano: punta cioè a rivitalizzare il centro storico della città con i suoi negozi tradizionali, messi in ginocchio dalla crisi.

È quanto emerge dalla sentenza 06.05.2016 n. 612, pubblicata dalla II Sez. del TAR Piemonte.
Deve rassegnarsi la società proprietaria: nella zona di ipermercati e outlet ce ne sono già troppo. Inutile invocare la deregulation del commercio inaugurata dal decreto Bersani e proseguita dal decreto Salva Italia di Monti: la finalità del provvedimento adottato non risulta lesiva della libera competizione e del libero stabilimento delle imprese sul territorio.
L'obiettivo risulta esplicitato nella stessa delibera: bisogna anzitutto riconvertire gli immobili del centro, assicurando la presenza degli esercizi di vicinato in modo da rilanciare il centro antico e con esso l'immagine dell'intera cittadina.
Nulla di preconcetto contro la grande distribuzione, ma i negozi al dettaglio contribuiscono a tenere vivo l'interesse dei cittadini per alcune zone urbane e bisogna trovare forma di commercio innovative che non si risolvano nel «cannibalizzare» l'offerta esistente. Spese di giudizio compensate per la novità e la complessità della questione (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidati principi giurisprudenziali, “Sono devoluti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un'opera idraulica riguardante acque pubbliche, concorrono, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di dette acque, onde in tale ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque; sono invece escluse dalla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche le controversie aventi a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque, le quali non richiedono le competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore necessarie -attraverso la configurazione di uno speciale organo giurisdizionale, nella particolare composizione richiesta- per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche”.
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che “Sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche nella controversia avente ad oggetto gli atti preordinati alla realizzazione di un argine di protezione dell'impianto di depurazione delle acque reflue comunali, il quale costituisce opera idraulica di quarta categoria, secondo la classificazione di cui all'art. 9, comma 1, r.d. 25.07.1904 n. 523, in quanto opera diretta a garantire il contenimento delle acque”.

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7. Ritiene il collegio che sia fondata e assorbente l’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo formulata dalle amministrazioni resistenti, sussistendo sulla controversia in esame la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
7.1. Secondo consolidati principi giurisprudenziali, “Sono devoluti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un'opera idraulica riguardante acque pubbliche, concorrono, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di dette acque, onde in tale ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque; sono invece escluse dalla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche le controversie aventi a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque, le quali non richiedono le competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore necessarie -attraverso la configurazione di uno speciale organo giurisdizionale, nella particolare composizione richiesta- per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche” (tra le tante, TAR Campobasso, sez. I, 16/01/2015, n. 7; TAR Genova, sez. I, 12.11.2015, n. 912; TAR Pescara, sez. I, 09.06.2015, n. 235; Cons. Stato, sez. V, 01.10.2015 n. 4594; Trib. Sup. Acque Pubbliche, 04.04.2015 n. 69).
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che “Sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche nella controversia avente ad oggetto gli atti preordinati alla realizzazione di un argine di protezione dell'impianto di depurazione delle acque reflue comunali, il quale costituisce opera idraulica di quarta categoria, secondo la classificazione di cui all'art. 9, comma 1, r.d. 25.07.1904 n. 523, in quanto opera diretta a garantire il contenimento delle acque” (TAR Torino, sez. I, 13/07/2012, n. 874).
7.2. Nel caso di specie, la controversia in esame attiene alla realizzazione (ripristino) di un’opera idraulica –così espressamente qualificata da tutte le parti contendenti– la cui incidenza sul regime delle acque pubbliche è in re ipsa, ed è resa altresì evidente dalla stessa motivazione del provvedimento impugnato, nella quale si fa esplicito riferimento al “rischio idraulico” a cui resterebbero esposte “le infrastrutture a difesa dell’abitato di Balocco” a causa della “modificazione del flusso idrico del Torrente Cervo causato dalla mancata manutenzione della scogliera…”.
La stessa amministrazione procedente, in definitiva, riconnette la necessità e l’urgenza di provvedere al ripristino e alla manutenzione dell’opera idraulica al pericolo di una possibile “modificazione del flusso idrico” delle acque demaniali del Torrente Cervo, rendendo così palese l’incidenza diretta dell’opera in questione sul regime delle acque pubbliche.
7.3. Per di più, nel presente giudizio, le parti controvertono anche sull’esatta qualificazione dell’opera idraulica (di quinta categoria, secondo la parte ricorrente; di terza categoria, secondo l’amministrazione comunale), facendone discendere conseguenze diverse in ordine alla imputazione dell’onere di ripristino dell’infrastruttura spondale, o quanto meno in ordine alla misura del concorso nelle relative spese: disputa interpretativa la cui soluzione presuppone le competenze tecniche specialistiche in possesso del giudice specializzato nella materia de qua, alla cui cognizione è dunque necessario che la controversia sia sottoposta per l’ulteriore seguito, anche in ordine alla misura cautelare richiesta dalla parte ricorrente, sulla quale la carenza di potere giurisdizionale impedisce a questo giudice di pronunciarsi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.04.2016 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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