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AGGIORNAMENTO AL 30.11.2016 |
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Ancora sulla quantificazione del "profitto
conseguito" circa la sanzione ex art. 167 d.lgs.
42/2004 in materia di accertamento compatibilità
paesaggistica. |
EDILIZIA PRIVATA: L'intervento
abusivo, che ha dato luogo alla richiesta di sanatoria, non
ha determinato un aumento di superficie calpestabile ma il
solo innalzamento del fabbricato con conseguente incremento
del solo volume.
L'articolo 167, comma 5, dlgs 42/2004 prevede che
"qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggior importo tra il danno arrecato ed il profitto
conseguito mediante la trasgressione.
L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa
perizia di stima."
A sua volta la legge 47/1985, nella nota 1 alla tabella
allegata, prevede che "qualora, per la tipologia dell'abuso
realizzato, si debba fare riferimento al volume, l'ammontare
dell'oblazione versata con riferimento alla superficie deve
essere diviso per 5 e moltiplicato per 3".
Ciò posto il collegio ritiene che la deliberazione del
consiglio comunale, nella parte in cui richiama la suddetta
nota 1 alla tabella allegata alla legge n. 47/1985, per
l'applicazione del 5° comma dell'articolo 167 del decreto
legislativo 42/2004, non appare conforme alla previsione
contenuta nel succitato articolo, in quanto la stima deve
accertare in concreto il maggior importo tra danno arrecato
e profitto conseguito (nel caso di specie solo profitto in
quanto l'accertamento della compatibilità ha eliminato il
danno), mentre il criterio dettato dalla legge 47/1985
riguarda esclusivamente l'ipotesi dell'oblazione in sede di
condono, non applicabile nel caso di specie nel quale si
deve determinare un indennizzo ragguagliato al maggior
profitto.
Ne consegue che la trasposizione della tabella può valere
per il calcolo della sanzione da applicarsi in sede di
rilascio del permesso in sanatoria (ipotesi assimilabile al
condono), ma non per la determinazione del maggior profitto
conseguito per effetto di trasgressione non incidente sulla
compatibilità paesaggistica.
---------------
...
per l'annullamento
del provvedimento del Direttore del Settore Territorio e
Urbanistico P.G. N. 189488 del 23.07.2009 che ha rilasciato
l’autorizzazione paesaggistica e il permesso di costruire in
sanatoria relativamente ad alcune difformità costruttive
realizzate nell'edificio di via dell'Osservanza n. 47
rispetto al permesso di costruire P.G. n. 123725/2005 nella
parte che applica la sanzione di cui all'art. 167, 5° c., D.Lgs. n. 42/2004 e determina in Euro 241.532,17 l'importo
della indennità pecuniaria per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e in Euro 12.695,16 la sanzione
pecuniaria relativa al rilascio del permesso di costruire;
...
1. Col ricorso in epigrafe viene impugnato il provvedimento con cui il
comune di Bologna ha rilasciato l'autorizzazione
paesaggistica ed il permesso di costruire in sanatoria
relativamente ad alcune difformità costruttive realizzate
nell'edificio di via dell'Osservanza 47 rispetto al permesso
di costruire del 2005, nella parte concernente
l'applicazione della sanzione di cui all'articolo 167, comma
5, del decreto legislativo 42/2004 determinando in €
241.532,17 l'importo dell'indennità pecuniaria per il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ed in € 12.695,16
l'importo della sanzione dovuta dalla proprietà in relazione
al rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Viene altresì impugnata la deliberazione n. 40/2006 con cui
il consiglio comunale di Bologna aveva approvato i criteri
per l'applicazione della sanzione di cui al suddetto
articolo 167.
Il primo provvedimento impugnato è stato adottato in
esecuzione della sentenza 951/2009 con cui questo Tribunale
aveva accolto alcuni ricorsi, fra i quali quelli degli
attuali ricorrenti, proposti avverso il precedente diniego
di permesso di costruire in sanatoria del 2005 ritenendo
che, nel caso, non poteva operare il divieto di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria di cui
all'articolo 146 del decreto legislativo 42/2004, in
quanto la normativa transitoria di cui all'articolo 159 del
suddetto decreto posticipava ad un momento successivo alla
conclusione della fase transitoria l'applicabilità del
suddetto di divieto.
Le difformità contestate e, quindi, l'intervento abusivo che
ha dato luogo alla richiesta di sanatoria, non ha
determinato un aumento di superficie calpestabile, ma il
solo innalzamento del fabbricato con conseguente incremento
del solo volume.
2. Con una prima censura parte ricorrente contesta
l'applicabilità della sanzione di cui all'articolo 167,
comma 5, del decreto legislativo n. 42/2004, in quanto il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica e del permesso di
costruire in sanatoria fa venir meno la situazione di
abusività che è il presupposto dell'applicazione del
suddetto articolo 167.
La tesi non può essere condivisa, in quanto l'articolo in
questione riguarda proprio il caso in cui gli abusi vengano
ritenuti compatibili con il vincolo paesaggistico, il che si
è verificato nel caso di specie per effetto dell'accertata
compatibilità paesaggistica dell'immobile dopo l'abuso.
Con un secondo ordine di censure si contestano le modalità
di calcolo della sanzione, in particolare la formula con la
quale, in assenza di esplicite previsioni, è stata applicata
in via analogica la legge 47/1985 (volume diviso per 5 e
moltiplicato per 3).
Nel caso di specie i criteri applicati (delibera 40/2006)
non contemplano il caso di aumento del solo volume in quanto
richiamano, fra i vari parametri per il calcolo del "maggior
profitto", esclusivamente quello della "superficie" (lettera
c della suddetta deliberazione); il comune ha così applicato
l'allegato 1 alla suddetta deliberazione il quale prevede
espressamente "per gli ampliamenti di volume senza aumento
di superficie vengono utilizzati i criteri di trasformazione
del volume in superficie di cui alla legge 47/1985 (volume
diviso per 5 e moltiplicato per 3)".
Al fine di esaminare da suddetta censura occorre richiamare
il dato normativo.
L'articolo 167, comma 5, di cui si tratta prevede che
"qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggior importo tra il danno arrecato ed il profitto
conseguito mediante la trasgressione.
L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa
perizia di stima."
A sua volta la legge 47/1985, nella nota 1 alla tabella
allegata, prevede che "qualora, per la tipologia dell'abuso
realizzato, si debba fare riferimento al volume, l'ammontare
dell'oblazione versata con riferimento alla superficie deve
essere diviso per 5 e moltiplicato per 3".
Ciò posto il collegio ritiene che la deliberazione del
consiglio comunale, nella parte in cui richiama la suddetta
nota 1 alla tabella allegata alla legge n. 47/1985, per
l'applicazione del 5° comma dell'articolo 167 del decreto
legislativo 42/2004, non appare conforme alla previsione
contenuta nel succitato articolo, in quanto la stima deve
accertare in concreto il maggior importo tra danno arrecato
e profitto conseguito (nel caso di specie solo profitto in
quanto l'accertamento della compatibilità ha eliminato il
danno), mentre il criterio dettato dalla legge 47/1985
riguarda esclusivamente l'ipotesi dell'oblazione in sede di
condono, non applicabile nel caso di specie nel quale si
deve determinare un indennizzo ragguagliato al maggior
profitto.
Ne consegue che la trasposizione della tabella può valere
per il calcolo della sanzione da applicarsi in sede di
rilascio del permesso in sanatoria (ipotesi assimilabile al
condono), ma non per la determinazione del maggior profitto
conseguito per effetto di trasgressione non incidente sulla
compatibilità paesaggistica.
Per quanto sopra il ricorso deve essere accolto
limitatamente alla parte della deliberazione comunale n.
40/2006 relativa al calcolo del maggior profitto: allegato
punto 1, terzo capoverso (per gli ampliamenti di volume
senza aumento di superficie vengono utilizzati i criteri di
trasformazione del volume di superficie di quella legge
47/1985 (volume diviso per 5 e moltiplicato per tre).
Conseguentemente, limitatamente al calcolo del maggior
profitto di cui all'articolo 167 di cui si tratta, deve
essere annullato il provvedimento del Direttore del Settore
Territorio e Urbanistico numero 189488 del 23/07/2009 vale a
dire nella sola parte che applica l'articolo 167, comma 5,
del decreto legislativo 42/2004, ferma restando, quindi la
sanzione di euro 12695,16 relativa al rilascio del permesso
di costruire in sanatoria.
La necessità di nuove determinazioni da parte del comune
rende altresì improcedibile il motivo aggiunto con cui si
chiede a questo Giudice di sostituirsi all’Amministrazione
nella determinazione dell’importo delle sanzioni.
Tenuto conto della parziale soccombenza reciproca e della
novità della questione sussistono giusti motivi per
compensare integralmente fra le parti spese, competenze ed
onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia
Romagna-Bologna, Sezione II, accoglie il ricorso in epigrafe
nei termini e nei limiti di cui in motivazione (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 20.10.2014 n. 975 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il Comune: “E’ evidente che il poter
sanare un aumento di 199,23 mc ha determinato un profitto
che pur non consistendo al momento in termini di superfici
reali, si realizza nel non avere demolito una struttura…”.
Pertanto, tale parte delle valutazioni svolte dal Comune
corrispondono pienamente sia alla lettera che, soprattutto
alla ratio della norma, la quale, indicando il quantum di
sanzione nel maggiore importo tra danno paesaggistico
derivante dall’abuso e, appunto, il maggior profitto
conseguito dall’autore, si attiene a parametri certamente
connotati da concretezza ed attualità, di modo che la
sanzione pecuniaria irrogata, oltre che a soddisfare i
predetti requisiti, risulti altresì proporzionata e comunque
coerente con l’oggettiva entità dell’abuso, nei suoi duplici
riflessi riferiti o al danno paesaggistico causato o al
concreto “maggior profitto” tratto dai responsabili
dell’abuso.
In conclusione, nella fattispecie in
esame, ove non può essere applicato il primo dei parametri
indicati dalla norma, non essendosi verificato alcun danno
paesaggistico,
risulta del tutto condivisibile
l’individuazione del concreto profitto tratto dai
proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo
relativo ai costi della demolizione della sola opera
realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che
dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale
operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi,
senza tenere conto delle altre parti dell’edificio
realizzate legittimamente.
Ciò anche ai fini equitativi e di necessaria
proporzionalità, non solo tra l’effettivo abuso
paesaggistico (minore) accertato e la corrispondente
sanzione pecuniaria da irrogare, ma anche fra l’altra
sanzione pecuniaria irrogata in riferimento alla stessa
opera in sede di sanatoria edilizia (€. 12.695,16) e quella
che il Comune valuterà di comminare quale “sanzione
paesaggistica” in esecuzione della presente decisione.
---------------
... per
ottenere:
quanto al ricorso principale: ex artt. 112 e 114 cod. proc.
amm., l’esecuzione del giudicato, da parte del comune di
Bologna, nascente dalla
sentenza 20.10.2014 n. 975
del TAR Emilia–Romagna, Bologna, Sez. II;
...
Il Tribunale deve innanzitutto osservare che la nuova
determinazione, da parte del Comune, dell’importo della
sanzione pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, del D.lgs.
n. 42 del 2004 da irrogare agli ex committenti degli odierni
ricorrenti si fonda –come richiede espressamente la citata
disposizione– su una perizia di stima redatta dalla “U.I.
Tecnica del Settore Patrimonio del comune di Bologna”
(v. doc. n. 6 del Comune).
La tabella facente parte integrante della nuova perizia
evidenzia un calcolo del “maggiore profitto”,
asseritamente tratto dai proprietari del fabbricato, per
mezzo dell’abuso paesaggistico in questione, ammontante ad
€. 157.860,90 e, di conseguenza, ridetermina in tale somma
l’importo della sanzione ex art. 167, comma 5, del D.Lgs. n.
42 del 2004.
A tale conclusione l’Ente perviene partendo dai seguenti
dati: a) un volume abusivo effettivamente realizzato di mc.
199,23; b) un’altezza dei vani di riferimento su cui
calcolare la sanzione di m. 2,40 (corrispondente all’altezza
dei vani accessori); c) una superficie dichiaratamente
qualificata “virtuale”, calcolata in mq. 83,01, sulla
base dei precedenti dati di volume ed altezza; nonché d) il
valore unitario della superficie stimato in €/mq. 1.901,65.
Il ragionamento del Comune per pervenire, sulla base di
questi dati, a tale somma di “maggiore profitto”, può
essere sintetizzato riportando quanto riferisce l’Ufficio
comunale per la Tutela del Paesaggio nella nota del
14/07/2015 diretta al’Avvocatura comunale, secondo cui: “E’
evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc. ha
determinato un profitto che pur non consistendo al momento
in termini di superfici utili reali, si realizza nel non
aver demolito una struttura. In condizioni normali, nel
2005, se i proprietari avessero richiesto legittimamente la
possibilità di ispessire le strutture e quindi aumentare la
sagoma plani volumetrica, avrebbero potuto farlo chiedendo
prima le autorizzazioni necessarie (autorizzazione
paesaggistica e permesso di costruire). Realizzandolo in
assenza delle necessarie autorizzazioni, ha comportato un
abuso edilizio, paesaggistico che per le modifiche
introdotte nel Codice dei Beni Culturali, non potevano
essere sanate in quanto comportante aumento di volumetria”.
Secondo il Comune, poi “E’ evidente che di fronte alla
scelta della demolizione in luogo del pagamento della
sanzione, come si è detto, per ragioni tecnico–costruttive
non si è potuto demolire il volume abusivo e pertanto si è
mantenuto quell’aumento di volume che appunto costituisce il
maggior profitto sanzionato dalla norma. L’ispessimento dei
solai e con la conseguente altezza del fabbricato, hanno
potuto beneficiare di un bonus volumetrico oggi
quantificabile in nuova superficie. Da tali premesse, i
tecnici comunali pervengono alla conclusione che “Il maggior
profitto” conseguito mediante la trasgressione è costituito
da un volume che, essendo aumentato, rappresenta una
potenzialità edificatoria diversa e maggiore da quella che
il proprietario avrebbe senza abuso: con gli strumenti
urbanistici attuali, in caso di demolizione e ricostruzione,
il trasgressore potrà utilizzare la volumetria abusivamente
realizzata per ottenere superficie utile o accessoria,
ricostruire quindi un nuovo volume trasformando le strutture
portanti (il corpo "solido cieco” descritto nel ricorso) in
superficie. Ne consegue che oggi l’aumento di 199,23 mc.,
potrebbe potenzialmente diventare 83,01 mq. di superficie
accessoria o mq. 73,79 di superficie utile.”.
Il Tribunale ritiene che le suddette
considerazioni portate a supporto motivazionale della nuova
determinazione della sanzione siano condivisibili unicamente
riguardo a parte di quanto contenuto nelle premesse, ma
certamente non per quanto concerne le ulteriori
considerazioni svolte, con particolare riferimento alle
conclusioni alle quali la civica amministrazione
erroneamente perviene.
La parte motiva del provvedimento che il Collegio ritiene
legittima è quella in cui, come si è detto, il Comune
rileva, quale unico parametro a disposizione ai fini di
determinare la sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del
D.lgs. n. 42 del 2004, quello del “maggior profitto”,
correttamente configurando ed adattando il parametro
espressamente indicato dalla norma al concreto, specifico
abuso da sanzionare, nonché quella parte della motivazione
nella quale il Comune, contestualizzando altrettanto
correttamente tale “maggiore profitto” derivante
dall’abuso solo volumetrico, lo collega direttamente al solo
effettivo, concreto lucro tratto, nell’occasione, dai
proprietari del fabbricato. Secondo il Comune, infatti: “E’
evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc ha
determinato un profitto che pur non consistendo al momento
in termini di superfici reali, si realizza nel non avere
demolito una struttura…”.
Pertanto, tale parte delle valutazioni svolte dal Comune
corrispondono pienamente sia alla lettera che, soprattutto
alla ratio della norma, la quale, indicando il
quantum di sanzione nel maggiore importo tra danno
paesaggistico derivante dall’abuso e, appunto, il maggior
profitto conseguito dall’autore, si attiene a parametri
certamente connotati da concretezza ed attualità, di modo
che la sanzione pecuniaria irrogata, oltre che a soddisfare
i predetti requisiti, risulti altresì proporzionata e
comunque coerente con l’oggettiva entità dell’abuso, nei
suoi duplici riflessi riferiti o al danno paesaggistico
causato o al concreto “maggior profitto” tratto dai
responsabili dell’abuso.
In conclusione, stante quanto dallo stesso Comune rilevato,
nella fattispecie in esame, ove non può
essere applicato il primo dei parametri indicati dalla
norma, non essendosi verificato alcun danno paesaggistico
(v. il relativo specifico passaggio nella sentenza di questo
TAR n. 975 del 2014), risulta del tutto
condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto
dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso
dell’importo relativo ai costi della demolizione della sola
opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi
che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale
operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi,
senza tenere conto delle altre parti dell’edificio
realizzate legittimamente; ciò anche ai fini equitativi e di
necessaria proporzionalità, non solo tra l’effettivo abuso
paesaggistico (minore) accertato e la corrispondente
sanzione pecuniaria da irrogare, ma anche fra l’altra
sanzione pecuniaria irrogata in riferimento alla stessa
opera in sede di sanatoria edilizia (€. 12.695,16) e quella
che il Comune valuterà di comminare quale “sanzione
paesaggistica” in esecuzione della presente decisione
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 27.11.2015 n. 1041 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura
tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio
statico), l'edificio è stato realizzato con alcune
difformità.
Secondo il verbale di accertamento redatto dai
funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior
altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del
corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento
di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture pertinenziali.
Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm
dell'edificio non ha comportato alcun aumento né di
cubatura né di superficie utile, ma corrisponde
puramente e semplicemente all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle
travi della copertura, resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per
altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e
superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di
corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune secondo cui le difformità "sono
sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche
estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle
finestre e di portefinestre, modificazione all'area
pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma
comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA
SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO
AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior)
volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture
portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior
altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato
aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa
dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale"
delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo
sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha
affermato che “risulta del tutto condivisibile
l’individuazione del concreto profitto tratto dai
proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo
relativo ai costi della demolizione [non anche
ricostruzione] della sola opera realizzata senza
autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere
ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe
dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto
delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”,
sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale,
più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e
logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della
sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in
discorso.
---------------
... per l'ottemperanza della
sentenza
27.11.2015 n. 1041 del TAR EMILIA ROMAGNA-BOLOGNA, SEZ. II, resa tra le parti,
concernente esecuzione
sentenza 20.10.2014 n. 975 Tar Emilia
Romagna, Bologna, sez. II - rideterminazione sanzione
pecuniaria relativa al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica e del permesso di costruire in sanatoria.
...
1. Giova riepilogare, per quanto più
sinteticamente possibile, gli antefatti.
Gli architetti Gl. e Ro.Gr. sono stati
progettisti e direttori di lavori, per conto dei loro
clienti sig.ri Va. e Mo., effettuati
sull'edificio sito in Bologna, via ..., n. 47,
per il quale è stato rilasciato dal Comune il permesso di
costruire (concessione edilizia) n. P.G. 82570/2000 del
16.05.2002.
Il progetto prevedeva la demolizione di un preesistente
edificio di maggior altezza, volume e impianto costruttivo,
e la costruzione in sua vece di un nuovo fabbricato
destinato a residenza civile, in un'area soggetta al vincolo
paesaggistico.
In sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura
tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio
statico), l'edificio è stato realizzato con alcune
difformità.
Secondo il verbale di accertamento n. 52/2005 redatto dai
funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior
altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del
corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento
di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture
pertinenziali.
Tutta la presente vertenza riguarda la consistenza
fisico/morfologica e conseguentemente la rilevanza anche
economica di queste difformità costruttive, che sono state
sanzionate pecuniariamente sulla base del loro valore.
Vale perciò riepilogare l’identificazione delle opere
difformi dal progetto.
1.1. Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm dell'edificio
non ha comportato alcun aumento né di cubatura né di
superficie utile, ma corrisponde puramente e semplicemente
all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle
travi della copertura, resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per
altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e
superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di
corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune
P.G. n. 152679/07, secondo cui le difformità "sono
sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche
estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle
finestre e di portefinestre, modificazione all'area
pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma
comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA
SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO
AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior)
volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture
portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior
altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato
aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa
dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale"
delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Tale essendo la situazione di fatto, sia gli architetti che
la proprietà hanno sùbito provveduto a regolarizzare quella
che ritenevano una "abusività" marginale.
Per questo hanno presentato domanda di variante in corso
d'opera (P.G. n. 533 del 21.03.2005) e, poi, domanda al
Comune per ottenere sia il permesso di costruzione in
sanatoria ex art. 17 l.reg. n. 23/2004 (P.G. n. 123725/2005)
sia l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria ai sensi
dell'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (ex art. 13 l.reg. n.
31/2002).
Quest'ultima è stata denegata con provvedimento prot.
123725/2005 del 29.08.2005, per il solo motivo della
"impossibilità, anche ai sensi dell'art. 159 del d.lgs. n.
42/2004, di rilasciare la suddetta autorizzazione a
sanatoria, trattandosi di interventi già realizzati per i
quali l'art. 146, c. 10, vieta espressamente il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria".
Contro questo provvedimento è stato presentato un primo
ricorso al Tar (n.r.g. 1184/2005).
Ma, in attesa della decisione, i progettisti hanno
presentato il 28.07.2006 la domanda di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n.
42/2004 e di riesame del diniego di permesso di costruire in
sanatoria.
Il Comune di Bologna ha però respinto entrambe le domande:
a) quella di accertamento di compatibilità paesaggistica,
per "carenza di legittimazione" dei richiedenti;
b) quella di permesso di costruire in sanatoria, perché:
- l'accertamento di compatibilità paesaggistica non poteva essere
rilasciato;
- esulante "dai casi di cui ai commi 4 e 5 del predetto art. 167".
Tale provvedimento è stato impugnato dagli architetti con il
ricorso n.r.g. 327/2007.
E' però accaduto che i proprietari committenti hanno invece
ottenuto l'accertamento di compatibilità paesaggistica, che
era stato negato agli architetti progettisti e direttori dei
lavori.
Il titolo a sanatoria è stato rilasciato con contestuale
applicazione di una sanzione pecuniaria di complessivi euro
295.845,47, dei quali euro 52.314,50 quale sanzione edilizia
ex art. 34 DPR n. 380/2001 ed euro 243.532 quale c.d. "danno
ambientale", in applicazione dell'art. 167 del d.lgs. n.
42/2004.
1.2. Questo provvedimento è stato impugnato sia dagli
architetti, con motivi aggiunti al ricorso n. 327/2007, sia
con autonomo ricorso n.r.g. 927/2007 dai committenti.
Il Tar ha riunito i ricorsi con sentenza n. 951/2009 e li ha
accolti, annullando il diniego di autorizzazione
paesaggistica e di permesso di costruire in sanatoria
(ricorsi nn. 1184/2005 e 1417/2005) e le sanzioni pecuniarie
per illegittimità derivata dalla illegittimità del diniego
di sanatoria (ricorsi nn. 327 e 927 del 2007).
Poi il procedimento amministrativo è stato riattivato.
Il
Comune ha riesaminato il diniego, conformandosi a quanto
affermato dal Tar in accoglimento dei ricorsi, ed ha emanato
il provvedimento P.G. 189408 del 23.07.2009 con cui ha
rilasciato il permesso di costruire in sanatoria subordinato
al pagamento di due sanzioni pecuniarie. La prima, per
l'abuso edilizio, di euro 12.695 (calcolata secondo le
modalità di cui alla nota 1 della Tab. allegata alla L.n.
47/1985, trasformando l'incremento di volume in superficie
virtuale utilizzando la formula superficie=incremento di
volume x 3/5, in quanto l'abusivo innalzamento del
fabbricato non ha comportato un aumento di superficie). La
seconda, per l'abuso paesaggistico, applicata ai sensi
dell'art. 167, co. 5, del d.lgs. n. 42/2004, è stata fissata
seguendo i paramenti quantitativi previsti dalla delibera
consiliare n. 40/2006, che prevedevano anche essi la
conversione del maggior volume di 199 mc nella superficie di
119 mq.
E' stata irrogata quindi una sanzione dello stesso
importo di euro 243.532,97 di quello del precedente
provvedimento, già annullato dalla citata sentenza.
Anche tale ultimo provvedimento è stato impugnato al Tar
dagli architetti con ricorso n. 1309/2009 e dai committenti
con separato ricorso.
Nonostante l'istanza di sospensiva, i committenti hanno
dovuto pagare l'intero importo ingiunto dal Comune (euro
256.228,13).
Per questo i committenti, sentendosi danneggiati, hanno
proposto contro gli architetti numerose cause civili, che
nelle more del giudizio avanti al Tar, durato cinque anni,
hanno avuto vari esiti tutti economicamente pesanti per i
convenuti.
1.3. Con sentenze nn. 975 e 973 del 20.10.2014, il Tar
dell'Emilia Romagna ha infine accolto sia il ricorso degli
architetti sia quello dei committenti e ha annullato i
provvedimenti impugnati.
Nella motivazione il Tribunale, pronunciandosi sull'art.
167, c. 5, del d.lgs. n. 42/2004 e sulla possibilità di
ricorrere per il calcolo delle sanzioni al meccanismo della
trasformazione della cubatura in superficie utile, afferma
questo principio di diritto: "Il richiamo alla l. n. 47/1985,
nota 1 della Tabella allegata, non appare conforme alla
previsione contenuta nel citato articolo 167, 5° c., in
guanto la stima deve accertare in concreto il maggior
importo tra danno arrecato e profitto conseguito".
Entrambe tali sentenze sono passate in giudicato.
1.4. Quella n. 975 è stata notificata il 21.11.2014 ma il
Comune di Bologna non vi ha dato esecuzione, non ha cioè
provveduto alla restituzione delle somme pagate dai
committenti (euro 256.228,13) e per le quali essi hanno
perseguito gli architetti.
Non l'ha fatto subito, come doveva, stante l'esecutività
della sentenza, e non lo ha fatto neppure dopo il passaggio
in giudicato, avvenuto sei mesi dopo la notifica.
Sono stati gli architetti, quindi, a contestare
l'illegittimo ritardo nel provvedere e a sollecitare e
diffidare il Comune a dare esecuzione alla sentenza.
Perdurando ancora l'inerzia del Comune, gli architetti hanno
pertanto proposto il ricorso per ottemperanza in cui
chiedevano al Tribunale:
I. ai sensi dell'art. 114, c. 4, lett. a) e d), del c.p.a.:
ordinare al Comune di restituire ai committenti la somma
pagata quale sanzione ex art. 167, c. 5, del d.lgs. n.
42/2004, fissando il termine entro il quale doveva essere
emesso il mandato;
Il. ai sensi degli art. 112, c. 5, e 134 c.p.a., sussistendo
giurisdizione di merito: dare gli opportuni chiarimenti in
ordine alla esecuzione della sentenza;
III. ai sensi dell'art. 114, c. 3, e dell'art. 114, c. 4,
lett. e), c.p.a.:
a) di condannare il Comune, per l'ingiustificato ritardo
nell'esecuzione in forma specifica della sentenza passata in
giudicato, al risarcimento dei danni maturati a causa
dell'illegittimo ritardo fino alla notifica del ricorso,
danni forfettariamente indicati nell'importo di euro
5.000,00 o nella diversa misura ritenuta secondo equità;
b) di stabilire l'importo della somma di denaro dovuta dal
Comune per ogni ulteriore ritardo rispetto alla data di
notifica del ricorso o dell’emanando provvedimento che
ordina l'esecuzione della sentenza (c.d. “astreinte”).
1.5. Alquanto dopo la notifica del ricorso per
l'ottemperanza il Comune ha notificato un nuovo
provvedimento, sostitutivo di quello annullato dalle
sentenze nn. 975/2014 e 973/2014.
In esso viene fatto un nuovo calcolo della sanzione
pecuniaria per la violazione paesaggistica, e cioè il
calcolo del "maggior profitto" ritratto da una difformità
edilizia di cui era stata previamente accertata la
compatibilità paesaggistica.
Ma questo nuovo calcolo ha ripercorso e riprodotto
sostanzialmente il meccanismo della sanzione già annullata,
perché ha convertito ancora una volta il maggior volume
(cieco) in una "superficie virtuale".
Con provvedimento P.G. 186953 del 19.06.2015 il Comune ha,
infatti, ricalcolato l'importo di questo ipotetico maggior
profitto riproponendo (con una leggera diminuzione) il
meccanismo già dichiarato illegittimo.
La differenza è che questa volta si è ipotizzato che la
superficie virtuale avrebbe riguardato vani alti m. 2,40,
cioè superfici accessorie.
Contro questo nuovo provvedimento gli architetti hanno
proposto motivi aggiunti al ricorso per l'ottemperanza,
deducendo due censure e cioè:
a) violazione del giudicato;
b) violazione e falsa applicazione dell'art. 167, co. 5 e 6,
del d.lgs. n. 42/2004. Illogicità manifesta, difetto di
motivazione e falso presupposto di fatto. Violazione
dell'art. 11, co. 5., del regolamento edilizio del Comune di
Bologna e del punto 18 della delibera dell'Assemblea
Regionale n. 279/2010.
1.6. Si perviene così all'impugnata sentenza n. 1041/2015,
depositata il 27.11.2015, con la quale il Tar:
a) ha dichiarato improcedibile il ricorso per l'esecuzione
di giudicato, sul presupposto che il nuovo provvedimento non
è di portata elusiva, condannando peraltro il Comune al
pagamento di euro 2.000 per spese legali, stante il ritardo
nel provvedere;
b) ha respinto l'azione risarcitoria presentata
contestualmente all'ottemperanza, compensando per tale
profilo le spese di lite;
c) ha accolto i motivi aggiunti, convertiti in ricorso
ordinario di legittimità ex art. 32 c.p.a., e ha annullato
il provvedimento impugnato, compensando, peraltro, anche
qui, le spese di lite.
1.7. Questa sentenza è stata impugnata, quanto al capo c),
dal Comune, che assume corretto il suo metodo di calcolo del
maggior profitto.
Gli architetti hanno controdedotto ma, a loro volta, hanno
proposto appello incidentale contro i capi a) e b) della
sentenza, giacché a loro avviso il censurato provvedimento
(nei fatti annullato dal Tar) era elusivo del giudicato e
comunque doveva reputarsi illegittimo il ritardo nella sua
adozione con danni patrimoniali per gli architetti causati
dalle azioni civili nel frattempo portate avanti dai
committenti, certamente quantificabili quanto meno in via
equitativa.
1.8. E’ opportuno ricordare che da ultimo, nelle more di
questo giudizio, il Comune ha adottato un ulteriore
provvedimento determinativo della sanzione, questa volta
allineato concettualmente alla decisione Tar (ossia costo
della demolizione), anche se gli architetti (che lo hanno
già impugnato al Tar Emilia, ivi rinunciando a chiedere
misure cautelari in attesa dell’esito di questo giudizio)
segnalano ancora l’eccessività del quantum della sanzione
(circa 91.000 euro), dovuta al fatto che il Comune ha
computato oltre ai costi di demolizione anche quelli di
ricostruzione dei solai e tetto, per di più non applicando
prezziari del 2005 sibbene molto più recenti ed onerosi.
2. Vale a questo punto osservare che il Collegio non ha
motivo di prendere in considerazione il provvedimento
sanzionatorio adottato dal Comune come ultimo in ordine di
tempo e ciò perché lo stesso, per quanto riferito, è già
stato autonomamente impugnato innanzi al Giudice di primo
grado, che pertanto dovrà farsene carico in relazione alle
censure in quella sede articolate nei suoi riguardi.
Può solo incidentalmente notarsi in questa sede –sulla
scorta degli argomenti comunque già spesi in proposito dalle
parti in causa– che non possono escludersi suoi profili di
eccessività, quanto alla concreta, nuova determinazione
della sanzione, in considerazione del fatto che il Comune
avrebbe stimato costi non soltanto di demolizione ma anche
di ricostruzione (quanto meno dei solai dell’edificio). E
questo potrebbe non essere del tutto allineato con quanto
stabilito dal Giudice di primo grado, in relazione al
criterio parametrico da utilizzare per la stima del
“profitto” altrimenti conseguito dalla parte proprietaria,
secondo il quale, ragionevolmente, i costi da considerare
sono esclusivamente quelli di demolizione (non anche,
perciò, di ricostruzione).
Del resto, non va trascurato che, nella fattispecie, la
demolizione resterà puramente teorica (valendo soltanto come
parametro di riferimento per una liquidazione in via
amministrativa di una sanzione) e che perciò la proprietà
non avrà necessità di alcuna ricostruzione.
Sempre incidentalmente, poi, non si può nemmeno del tutto
trascurare che, in epoca recente e successiva ai fatti di
causa, come provato documentalmente in questo giudizio, il
Comune si è infine indotto ad introdurre una disciplina
regolatoria –valida per casi particolari, come quello in
discorso– per effetto della quale il computo della sanzione
deve avvenire secondo quantificazione forfettaria e, in ogni
caso, con una valutazione a corpo, non a misura, dell’entità
del profitto conseguito.
3. Venendo poi al merito stretto del presente giudizio,
giova precisare che la materia del contendere ruota intorno
alla questione se sia stato corretto o meno, da parte del
Comune, in sede di ottemperanza, una riedizione del
provvedimento sanzionatorio sopra detto suscettibile di
pervenire ad una quantificazione monetaria non sensibilmente
dissimile da quella che derivava dal primo provvedimento
sanzionatorio, già censurato con successo in sede
giurisdizionale.
Secondo il Comune sì, il suo comportamento è stato corretto
e, pertanto, va riformata la sentenza impugnata lì dove
essa, invece, ha annullato il provvedimento in argomento.
No, invece, ad avviso degli architetti resistenti ed
appellanti incidentali, secondo i quali il provvedimento,
proprio perché rinvenuto illegittimo, denuncia la sua
portata elusiva del giudicato e, dunque, giustificherebbe la
riforma in parte qua della sentenza impugnata.
3.1. Dirimente in proposito, ad avviso del Collegio, è una
considerazione di natura innanzitutto logica, prima ancora
che giuridica.
Il Comune, posto che nella fattispecie, per la
determinazione della sanzione da irrogare, si doveva
calcolare esclusivamente la componente “profitto” –esclusa
essendo, incontestatamente fra le parti, la necessità di
sottrarvi la componente “danno”, dato che, infine, gli
interventi eseguiti sono risultati paesaggisticamente
compatibili– si è convinto che, allora, tale “lucro” si
dovesse misurare secondo una logica commerciale e di
mercato.
L’aumento dimensionale dell’edificio è stato esclusivamente
volumetrico ed “esterno” –ed anche questa è circostanza non
controversa– giacché non s’è verificata né maggiore
volumetria utile interna né maggiore superficie utile
interna.
In parole povere, solo i limiti esterni dell’edificio si
sono “ingrossati”. E questo si spiega bene sol che si
consideri che, nel caso in esame, all’edificio sono stati
aumentati i volumi delle strutture portanti e di solaio come
conseguenza di un voluto adeguamento antisismico
dell’immobile (adeguamento che può in effetti determinare
ispessimenti).
Perseguendo l’intento, dunque, il Comune si è posto nella
logica di dover tramutare comunque in superficie metrica la
maggior volumetria riscontrata nell’edifico per poi ricavare
il valore economico di tale maggiore superficie.
Tutto questo, però, in palese e dichiarata prospettiva
meramente “virtuale”, posto che evidentemente all’interno
dell’immobile non era stata ricavata maggiore superficie
utile.
Per giungere a tale obiettivo, dopo un primo tentativo
fallito (giacché il relativo provvedimento è stato annullato
in sede giurisdizionale), il Comune è allora ricorso al
seguente ragionamento: qualora la proprietà abbattesse
l’edificio ristrutturato, ed ampliato all’esterno dal punto
di vista volumetrico, e qualora la stessa subito dopo lo
ricostruisse, questa volta però rinunciando a parte della
maggiore volumetria per ricavarne, sostitutivamente,
maggiore superficie utile interna, si paleserebbe a quel
punto l’entità del “profitto” al momento non visibile, giacché tutto racchiuso –in potenza– all’interno di quei
metri cubi di maggior volume esterno.
3.2. In questi termini, tuttavia, il ragionamento del Comune
risulta del tutto non persuasivo.
E ciò non tanto e non solo in relazione al fatto che gli
strumenti urbanistici del momento potrebbero non consentire
una siffatta trasformazione (e chissà se mai nel futuro)
ovvero che è del tutto opinabile che la proprietà abbia
effettivamente in animo di imbarcarsi in una operazione di
siffatta metamorfosi di un suo edificio appena riadattato,
quanto piuttosto per il fatto che –ove mai vera l’ipotesi
prefigurata dal Comune– essa risulterebbe nella sostanza in
buona parte autolesionistica, perché fondata sul presupposto
di una rinuncia alla maggior robustezza dell’edificio
(frutto della recente ristrutturazione anche con valenza
antisismica) a mero vantaggio di una piccola maggiore
estensione interna della sua superficie utile.
Detto in altri termini, non risulta in primo luogo
plausibile stimare come “profitto” ciò che, per il suo
materiale conseguimento, implicherebbe “sacrificio” di una
utilità ben maggiore, ossia, nel caso di specie, la maggiore
robustezza dell’edificio dal punto di vista antisismico.
Implausibilità, quella appena descritta, tanto maggiore
quanto più si consideri che la città di Bologna ha avuto
tristemente modo, in tempi recenti, di dimostrare di non
essere affatto estranea al rischio sismico, essendo stata
più che lambita dai tragici eventi tellurici di appena
quattro anni fa.
3.3. Senza dunque neppure dover prendere in considerazione
il fatto che, persistendo nella sua teorizzazione, il Comune
è riuscito, nel caso di specie, a mantenere (utilitaristicamente,
dal punto di vista delle casse locali) l’entità della
sanzione pecuniaria in misura prossima a quella della sua
prima (ed illegittima) determinazione, esprimendo essa una
somma di denaro idonea a giustificare un ragionevole valore
di mercato della maggior superficie utile interna virtuale, è
possibile constatare che, in tal modo, l’ente locale si è
nuovamente sottratto, nella sostanza, ad un’appropriata e
congrua esecuzione del giudicato cui esso era tenuto.
In quest’ottica, allora, non risulta persuasivo e fondato
l’appello del Comune, volto ad una possibile riforma della
sentenza impugnata lì dove essa, anche se con altro percorso
argomentativo, giunge a ritenere non legittima anche la
seconda determinazione della sanzione in contestazione.
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo
sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha
affermato che “risulta del tutto condivisibile
l’individuazione del concreto profitto tratto dai
proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo
relativo ai costi della demolizione [non anche
ricostruzione] della sola opera realizzata senza
autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere
ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe
dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto
delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”,
sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale,
più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e
logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della
sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in
discorso.
3.4. Le considerazioni che precedono, di contro, rendono
persuasivo l’appello incidentale degli architetti volto a
far rilevare che, quello del Comune, è stato un adempimento
solo formalmente esaustivo del dovere di ottemperanza cui
esso era tenuto ma non di certo sostanzialmente satisfattivo.
Per questa parte, dunque, la sentenza impugnata deve essere
riformata e dichiarato coerentemente illegittimo, per
elusione di giudicato, l’adempimento che il Comune indica
come soddisfacentemente eseguito.
La non adeguatezza dell’adempimento, per elusione del
giudicato, conduce altresì a ritenere persuasiva la domanda
di risarcimento del danno formulata dagli architetti che,
accolta, può condurre ad una liquidazione equitativa del
danno in euro 5.000,00 per ciascuno dei ricorrenti
incidentali, anche nella considerazione del tempo impiegato
dall’ente locale nel giungere all’adozione di un atto pur
sempre non coerente con quello da esso atteso.
Non persuasiva, di contro, la richiesta di astreinte
formulata dagli appellanti incidentali, specie in
considerazione del fatto che gli stessi non risultano aver
addotto argomenti in ordine al requisito della non manifesta
iniquità di cui all’art. 114, co. 4, lett e), del c.p.a..
4. In conclusione, va respinto l’appello principale e, in
accoglimento parziale di quello incidentale, deve essere
riformata in parte la sentenza appellata, in particolare con
la condanna del Comune al risarcimento del danno in favore
degli appellanti incidentali nella misura innanzi detta (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.11.2016 n. 4824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Non vi è dubbio che sia l’interpretazione letterale
della norma che quella logico-sistematica depongono per una
lettura che riconosce anche agli gli appalti di forniture e
servizi l’incentivo previsto dalla disposizione normativa,
senza che sia necessaria per il riconoscimento
dell’incentivo, la presenza di un appalto misto ossia di un
appalto di un servizio o fornitura collegato ad un lavoro
pubblico.
E’ evidente che il termine “lavori a base d’asta”
utilizzata nel secondo comma, è da intendere in senso
atecnico e quindi non soltanto per lavori ma anche per
servizi e forniture.
In breve, il compenso incentivante, è
previsto per i servizi e le forniture in maniera autonoma,
ossia a prescindere da ogni collegamento con l’esecuzione di
lavori, ovviamente nel rispetto delle condizioni previste
dall’articolo 113 del d.lgs. 50/2016.
---------------
Per quanto riguarda quali criteri l’amministrazione debba
utilizzare per graduare l’importo dell’incentivo e se sia
legittimo servirsi di criteri che riducano la quota
dell’incentivo con l’aumento dell’importo dell’opera, si
osserva che la risposta comporterebbe una valutazione di
merito incompatibile con l’attività consultiva della Corte
che, come è noto, non può interferire con l’attività di
gestione dell’ente.
Si può soltanto affermare in via generale, a giudizio di
questa Sezione, che
i criteri devono essere
conformi a parametri di congruità e di ragionevolezza.
---------------
Circa la questione se spetti il compenso incentivante per la
progettazione ed il coordinamento della sicurezza richiamate
nel comma 1 ma poi non indicate nel comma 2 dell’art. 113,
si ritiene che il compenso non spetti in quanto il
legislatore con il comma 1 ha inteso stabilire che gli oneri
per le attività ivi menzionate fanno carico sugli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti, mentre con il comma 2 ha voluto
definire il valore massimo del fondo incentivante (2% del
valore dell’opera) e determinare i beneficiari dello stesso
tra i quali non sono presenti le attività relative alla
progettazione ed al coordinamento della sicurezza.
D’altra parte come ricordato anche dall’ANAC con
determinazione 14.09.2016 n. 973 (linee guida
sull’affidamento dei servizi di ingegneria e di
architettura) nel caso di progettazione
interna non potrà essere riconosciuto l’incentivo del 2% in
quanto non previsto dalla legge delega.
---------------
Questa Sezione
ritiene che la quota non utilizzata
dell’incentivo di cui al comma 3, penultimo periodo, dell’art.
113 (parte dell’incentivo corrispondente a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all’organico dell’amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento) debba
(nuovamente) incrementare il fondo per il finanziamento di
quanto stabilito dall’art. 113, senza che, però, la suddetta
somma possa maggiorare i compensi già stabiliti per i
dipendenti interessati dal lavoro, servizio o fornitura, che
hanno determinato il suddetto incremento.
In ultima analisi non vi sarà un’economia
di spesa ma un incremento del fondo previsto dall’art. 113
del codice dei contratti nelle sue articolazioni.
---------------
Il Presidente della provincia di Mantova ha formulato una
richiesta di pareri in ordine a talune problematiche che
riguardano la materia degli incentivi per le funzioni
tecniche disciplinate dall’art. 113 del decreto legislativo
50/2016.
Prima di esaminare la richiesta, per una migliore
comprensione dei quesiti, appare utile riportare
integralmente l’art. 113 del decreto legislativo 50/2016:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla
vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e
alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del
decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni
professionali e specialistiche necessari per la redazione di
un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997,
n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta
qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa
sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e
gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2”.
Il presidente della provincia di Mantova ha formulato la
richiesta di parere per i seguenti quesiti che vengono
così sintetizzati:
1) se gli incentivi per funzioni tecniche debbano essere
riconosciuti esclusivamente per gli appalti di lavori,
ovvero anche per nel caso di appalti per servizi e
forniture, e qualora (essi incentivi) siano riconoscibili
anche per questi ultimi appalti, debbano essere soggetti ad
incentivazione solo nel caso di appalti misti ascrivibili al
regime dei lavori pubblici;
2) in base a quale criterio le amministrazioni devono
quantificare la percentuale da destinare all’apposito fondo
previsto dal comma 2 del succitato articolo, e se
l’eventuale graduazione delle risorse da destinare al
suddetto fondo in seguito agli esiti della contrattazione
decentrata, possa essere disciplinata per fasce di importo
che moduli la percentuale da destinare al fondo stesso con
riduzione progressiva della stessa in maniera proporzionale
all’aumento dell’importo;
3) se la progettazione ed il coordinamento della sicurezza,
richiamate nel comma 1 ma non menzionate nel comma 2
dell’art. 113 siano da escludere dagli incentivi;
4) come deve essere interpretato il disposto del comma 3
penultimo periodo laddove sancisce che “le quote parti
dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento incrementano la quota del fondo di cui
al comma 2”;
...
Per quanto riguarda il quesito n. 1 dove si chiede se
gli incentivi siano da riconoscere soltanto agli appalti di
lavori ovvero anche agli appalti di servizi o forniture,
non vi è dubbio che sia l’interpretazione letterale
della norma che quella logico-sistematica depongono per una
lettura che riconosce anche agli gli appalti di forniture e
servizi l’incentivo previsto dalla disposizione normativa,
senza che sia necessaria per il riconoscimento
dell’incentivo, la presenza di un appalto misto ossia di un
appalto di un servizio o fornitura collegato ad un lavoro
pubblico.
L’art. 113 al secondo comma, infatti, sancisce che gli
stanziamenti di cui al primo comma debbano finanziare, fra
l’altro, un fondo non superiore al 2 per cento del importo
del lavoro a base d’asta, per l’attività relativa alla
programmazione della spesa per investimenti, alla verifica
preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo
delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e
di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e dei
costi stabiliti.
L’art. 113 al terzo comma espressamente stabilisce che
l’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito per ciascuna
opera o lavoro, servizio o fornitura con le modalità ed i
criteri previsti di contrattazione decentrata e pertanto,
anche per questa tipologia di appalti (servizi e forniture)
la possibilità di incentivazione è prevista per tabulas.
E’ evidente che il termine “lavori a base d’asta”
utilizzata nel secondo comma, è da intendere in senso
atecnico e quindi non soltanto per lavori ma anche per
servizi e forniture.
Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone
che il responsabile unico del procedimento controlla
l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore
dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici
sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di
conformità per i servizi e le forniture e disciplina una
serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono
comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto
dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse
figure professionali che dovranno svolgere quelle attività
destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113
e la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare.
Non bisogna infine dimenticare che il nuovo codice degli
appalti prevede anche per l’acquisto di beni e servizi
l’obbligo della programmazione (disposizione già introdotta
dalla finanziaria 2016 -legge 208/2015 art. 1, comma 505-
per gli acquisti superiori ad 1.000.000 di euro ed ora
superata dall’art. 21 del decreto legislativo).
L’art. 21 del decreto legislativo 50/2016 dispone che le
amministrazioni aggiudicatrici adottano il programma
biennale degli acquisti di beni e servizi ed i programma
triennale dei lavori pubblici, nonché i relativi
aggiornamenti annuali.
I programmi sono approvati nel rispetto dei documenti
programmatori e in coerenza con il bilancio.
In breve, il compenso incentivante, è
previsto per i servizi e le forniture in maniera autonoma,
ossia a prescindere da ogni collegamento con l’esecuzione di
lavori, ovviamente nel rispetto delle condizioni previste
dall’articolo 113 del decreto.
Per quanto riguarda il quesito (rectius i quesiti)
n. 2, ovvero quali criteri l’amministrazione debba
utilizzare per graduare l’importo dell’incentivo e se sia
legittimo servirsi di criteri che riducano la quota
dell’incentivo con l’aumento dell’importo dell’opera, si
osserva che la risposta comporterebbe una valutazione di
merito incompatibile con l’attività consultiva della Corte
che, come è noto, non può interferire con l’attività di
gestione dell’ente.
Tuttavia, è utile richiamare quanto evidenziato dalla
sezione Autonomie con
deliberazione 13.05.2016 n. 18 che nel
commento all’art. 93 del decreto legislativo 163/2006,
ancora utile per quanto qui interessa, ha scritto ”Ai
fini del corretto inquadramento della tematica, si rende
necessario un breve excursus normativo, che prende le mosse
dall’art. 13, del d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. n.
114/2014, con il quale sono stati abrogati i commi 5 e 6
dell’art. 92.
Il successivo articolo 13-bis, rubricato “Fondi per la
progettazione e l'innovazione”, ha aggiunto all’art. 93, del
d.lgs. n. 163/2006, una serie di commi fra cui il comma
7-bis, che, nell’istituire un apposito fondo per la
progettazione e l’innovazione, demanda ad un regolamento
dell’ente la determinazione della percentuale effettiva
delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi
posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da
destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, in
forza di quanto disposto dal successivo comma 7-ter, per
l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra
il responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. Il restante 20 per cento è destinato, dal
comma 7-quater all’acquisto da parte dell’ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione, di implementazione di banche dati per il
controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per
centri di costo nonché all’ammodernamento ed
all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai
cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs.
n. 163/2006 demanda al potere regolamentare di ciascun ente
la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del
fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, con particolare
riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità
delle opere, escludendo le attività manutentive, e
dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo”.
Tale regolamento, nel quale trova necessario presupposto
l’erogazione degli emolumenti in questione, ha rappresentato
da sempre un passaggio fondamentale per la regolazione
interna della materia, nel rispetto dei principi e canoni
stabiliti dalla legge, e per tale motivo gli enti sono
tenuti ad adeguarlo tempestivamente alle novità normative.
Analogo adempimento, pertanto (previa definizione dei nuovi
criteri in sede di contrattazione decentrata integrativa),
si renderà necessario anche a seguito dell’entrata in vigore
del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 26.02.2014.”
Si può soltanto affermare in via generale, a giudizio di
questa Sezione, che i criteri devono essere
conformi a parametri di congruità e di ragionevolezza.
Per quanto riguarda il quesito n. 3 dove si chiede
se spetti il compenso incentivante per la
progettazione ed il coordinamento della sicurezza richiamate
nel comma 1 ma poi non indicate nel comma 2 dell’art. 113,
si ritiene che il compenso non spetti in quanto il
legislatore con il comma 1 ha inteso stabilire che gli oneri
per le attività ivi menzionate fanno carico sugli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti, mentre con il comma 2 ha voluto
definire il valore massimo del fondo incentivante (2% del
valore dell’opera) e determinare i beneficiari dello stesso
tra i quali non sono presenti le attività relative alla
progettazione ed al coordinamento della sicurezza.
D’altra parte come ricordato anche dall’ANAC con
determinazione 14.09.2016 n. 973 (linee guida
sull’affidamento dei servizi di ingegneria e di
architettura) nel caso di progettazione
interna non potrà essere riconosciuto l’incentivo del 2% in
quanto non previsto dalla legge delega
(art. 1, comma 1, lettera rr) della legge 11/2016).
La sezione Autonomie, poi, nella richiamata
deliberazione 13.05.2016 n. 18 ha ricordato che "In linea con quanto previsto
dai criteri di delega (art. 1, comma 1, lett. rr) contenuti
nella legge 28.01.2016, n. 11, la nuova normativa,
sostitutiva della precedente, abolisce gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter
ed introduce, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione
per funzioni tecniche”. Disposizione, quest’ultima,
rinvenibile al Tit. IV del d.lgs. n. 50/2016 rubricato
“Esecuzione”, che disciplina gli
incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti
e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche,
prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della
spesa e la realizzazione corretta dell’opera”.
Per quanto riguarda il quesito n. 4 questa Sezione
ritiene che la quota non utilizzata
dell’incentivo di cui al comma 3, penultimo periodo, dell’art.
113 (parte dell’incentivo corrispondente a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all’organico dell’amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento) debba
(nuovamente) incrementare il fondo per il finanziamento di
quanto stabilito dall’art. 113, senza che, però, la suddetta
somma possa maggiorare i compensi già stabiliti per i
dipendenti interessati dal lavoro, servizio o fornitura, che
hanno determinato il suddetto incremento.
In ultima analisi non vi sarà un’economia
di spesa ma un incremento del fondo previsto dall’art. 113
del codice dei contratti nelle sue articolazioni
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
Rif. circolare del CNI del 28.10.2016, prot. n. U-rsp/6252/2016
- Competenze professionali degli Architetti sugli edifici
vincolati - valutazioni (Consiglio Nazionale degli
Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori,
nota 23.11.2016 n. 3644 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 30.11.2016, "Nuovo
codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016):
eliminazione acquisti in economia e conseguenti
determinazioni" (deliberazione
G.R. 28.11.2016 n. 5859). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata
quando risponde ad un modello che contempli, in modo
dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
---------------
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato
che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé.
La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto,
dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza («(…)
realizzazione di un corpo ascensore e scala esterni che ne
modificano sostanzialmente la percezione dalla strada con
cui (attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di
edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture
arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i
caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene
non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad
una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due
guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra
edificio, aperture e balconi sul prospetto sud»)
non risulta, come correttamente messo in rilievo dal primo
giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in quanto
manca una adeguata descrizione del contesto paesaggistico e
soprattutto del rapporto tra gli interventi che si intendono
realizzare e il contesto stesso.
-------------
1.– La Be.Ho. s.r.l. (d’ora innanzi anche solo società), al
fine di realizzare un annesso con nuove camere al servizio
del proprio albergo sul terreno sito lungo la s.s. 45-bis
Gardesana e distinto al catasto al foglio 21 mappale 1096,
ha realizzato senza titoli abilitativi un intervento di
risanamento conservativo su un vecchio edificio in
prossimità dell’albergo stesso, denominato “Villa
Mughetto” ovvero “dei Mughetti”, già adibito a
residenza estiva per membri del clero e poi abbandonato e
lesionato da successivi eventi sismici.
In particolare, la società ha realizzato:
i) all’interno del corpo di fabbrica una serie di alloggi bilocale,
pensati per le famiglie in vacanza;
ii) all’esterno, sul lato nord ha costruito un vano scale ed
ascensore, finalizzati a consentire un accesso più agevole e
a costituire una via di fuga in caso di emergenza.
Essendo l’area sottoposta a vincolo, ai sensi del decreto
ministeriale 15.03.1985, n. 65, la società ha presentato
domanda di sanatoria, anche paesaggistica.
La Soprintendenza, con atto 18.10.2011, ha espresso parere
sfavorevole, così motivato: «(…) realizzazione di un
corpo ascensore e scala esterni che ne modificano
sostanzialmente la percezione dalla strada con cui
(attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di
edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture
arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i
caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene
non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad
una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due
guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra
edificio, aperture e balconi sul prospetto sud».
L’amministrazione comunale, con atto 07.07.2014, n. 144, ha,
implicitamente, rigettato la domanda di sanatoria e ordinato
la rimozione delle opere in esame, preavvertendo della
possibilità, in caso di inottemperanza, di acquisire i beni
oggetto dell’ordinanza e la relativa area al patrimonio
pubblico.
2.– La società ha impugnato tali atti innanzi al Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza
13.02.2015, n. 264, ha accolto il ricorso, rilevando
l’illegittimità del parere della Soprintendenza sia perché
adottato senza la comunicazione del preavviso di rigetto sia
perché privo di adeguata motivazione.
In particolare, in relazione a quest’ultimo aspetto, si è
affermato che in presenza di un vincolo paesaggistico e non
monumentale sull’edificio «la compatibilità di un
intervento va allora valutata dal punto di vista di chi
osserva da lontano, e non è esclusa per il solo fatto che le
innovazioni siano visibili su questa scala più ampia; viene
infatti meno quando le stesse, oltre che visibili, siano
oggettivamente percepibili come un’indebita intrusione,
avuto riguardo alle forme, ai colori, alle dimensioni e alla
funzione dei nuovi manufatti, da apprezzare comparando
l’interesse pubblico alla conservazione con quello privato
alla fruizione del territorio».
3.– L’amministrazione ha proposto appello rilevando che:
i) l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del
fatto che la Soprintendenza, con parere 06.05.2010, aveva
già espresso parere negativo;
ii) gli interventi in esame sarebbe incompatibili con il quadro di
insieme che il vincolo ambientale intende tutelare, atteso
che di esso «fanno parte integrante proprio quelle ville
e villini tra i quali rientra anche l’immobile interessato
dall’intervento, con la conseguenza che, stravolgendone le
precipue caratteristiche, l’intera prospettiva sottoposta a
tutela viene ad essere snaturata». Si aggiunge che il
primo giudice avrebbe invaso in modo indebito sfera di
azione propria dell’amministrazione.
3.1.– Si è costituita in giudizio la società, ricorrente in
primo grado, chiedendo il rigetto dell’appello e
riproponendo i motivi non esaminati dal Tribunale
amministrativo.
3.2. La Sezione, con ordinanza 21.10.2015, n. 4792, ha
sospeso l’efficacia della sentenza impugnata ad eccezione
della parte in cui la stessa aveva privato di effetti
l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
3.3.– La causa è stata decisa all’esito dell’udienza
pubblica del 13.10.2016.
4.– L’appello non è fondato.
5.– Con un primo motivo, l’appellante deduce che
l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del
fatto che l’amministrazione, con parere 06.05.2010, aveva
già espresso parere negativo.
Il motivo non è fondato.
L’art. 146, comma 8, del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137) dispone che
il Soprintendente, in caso di parere negativo, deve
comunicare agli interessati il preavviso di provvedimento
negativo ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990.
Nella fattispecie in esame la Soprintendenza non ha
rispettato quanto previsto dalla suddetta norma, non avendo
comunicato il preavviso di rigetto. Tale omissione non può
ritenersi, come sostiene l’appellante, giustificata
dall’esistenza di un precedente parere negativo, in quanto
si tratta di vicende amministrative non completamente
sovrapponibili, con la conseguenza che l’amministrazione
avrebbe dovuto assicurare, anche in relazione al
procedimento in esame, una previa interlocuzione con il
privato.
6.– Con un secondo motivo si assume l’erroneità della
sentenza nella parte in cui ha ritenuto non congrua la
motivazione del parere, in quanto gli interventi in esame
sarebbe incompatibili con il quadro di insieme che il
vincolo ambientale intende tutelare, atteso che di esso «fanno
parte integrante proprio quelle ville e villini tra i quali
rientra anche l’immobile interessato dall’intervento, con la
conseguenza che, stravolgendone le precipue caratteristiche,
l’intera prospettiva sottoposta a tutela viene ad essere
snaturata». Si aggiunge che il primo giudice avrebbe
invaso in modo indebito la sfera di azione propria
dell’amministrazione.
Il motivo non è fondato.
Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che, nel
settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata
quando risponde ad un modello che contempli, in modo
dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni,
delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (Cons.
Stato, sez. VI, 23.12.2013, n. 6223; Cons. Stato, sez. VI,
04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n.
2535).
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato
che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé.
La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto,
dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza, sopra
riportata, non risulta, come correttamente messo in rilievo
dal primo giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in
quanto manca una adeguata descrizione del contesto
paesaggistico e soprattutto del rapporto tra gli interventi
che si intendono realizzare e il contesto stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.11.2016 n. 4925 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
trasferimento di cubatura, riconosciuto dal legislatore
statale come schema negoziale tipico (recependo l’istituto
già affermatosi nella prassi dei mercatores immobiliari)
–nell’esplicazione della potestà legislativa esclusiva
attribuita allo Stato in materia di ordinamento civile–,
deve ritenersi generalmente ammesso, salvo che la normativa
settoriale urbanistica ovvero gli strumenti di
pianificazione territoriale lo vietino per particolari
ragioni o lo assoggettino a particolari condizioni, in tal
senso dovendo essere inteso il rinvio del novellato art.
2643, n. 2-bis), cod. civ., alle «normative statali o
regionali», ovvero agli «strumenti di pianificazione
territoriale» (in altri termini, il trasferimento di diritti
edificatori trova il proprio limite, oltre che in eventuali
discipline speciali della legislazione urbanistica, nelle
statuizioni degli strumenti urbanistici, i quali potrebbero
vietare tali operazioni per alcune aree, oppure contenere
previsioni inerenti alla determinazione della volumetria
realizzabile fondata su criteri incompatibili con il suo
trasferimento).
---------------
Nella specie non può ritenersi ostativo al trasferimento di
diritti edificatori la previsione dell’art. 15 delle n.t.a.
al p.u.c. –che, per la «zona residenziale B4 - zona di
completamento», stabilisce l’indice della «densità edilizia
massima» di 2,20 mc/mq, intendendosi per ‘densità edilizia’
«il rapporto (mc/mq) tra la cubatura urbanistica
realizzabile fuori terra e la relativa superficie catastale
del lotto edificatorio» (v., così, la definizione contenuta
nell’art. 1 delle n.t.a. al p.u.c.)–, poiché, in difetto di
espresso divieto, la densità edificatoria del singolo lotto
può essere ridistribuita, con lo strumento del trasferimento
di diritti edificatori (olim, cessione di cubatura), tra i
vari lotti di una stessa zona omogenea, nel rispetto
dell’indice territoriale dell’intera zona e del relativo
complessivo carico urbanistico.
Con riguardo al previgente istituto pretorio della cessione
di cubatura, ex plurimis, Cons. St., Sez. V, 19.04.2013, n.
2220, secondo cui l’asservimento della volumetria da un
lotto a favore di un altro, onde realizzare una maggiore
edificabilità, è consentita solo con riferimento ad aree
aventi una medesima destinazione urbanistica, posto che,
diversamente, si verificherebbe un’evidente alterazione
delle caratteristiche tipologiche della zona tutelate dalle
norme urbanistiche, con la conseguenza che, in quel caso, è
stato ritenuto inammissibile un trasposto di cubatura tra le
sottozone F2 e F3, in quanto aventi indici di edificabilità
diverse, e trattandosi quindi di zone disomogenee.
Invero, negare la possibilità del trasferimento di diritti
edificatori nell’ambito di una stessa zona omogenea, con la
motivazione del mancato rispetto del parametro dell’indice
edificatorio fondiario del lotto beneficiario, equivarrebbe
ad una sostanziale abrogazione dell’istituto introdotto dal
citato art. 5 d.l. n. 50/2011, perseguendo l’istituto in
esame il precipuo fine di aumentare la capacità edificatoria
del lotto di proprietà del cessionario, anche e proprio nei
casi in cui la capacità edificatorio del lotto sia già
esaurita, ché, diversamente, non sarebbe necessario
l’acquisto di diritti edificatori provenienti da altro
immobile (il tutto, purché venga rispettato l’indice
territoriale dell’intera zona).
---------------
Orbene, ritiene il collegio che, contrariamente a quanto
affermato dal T.r.g.a., deve ritenersi ammissibile e
legittimo, sotto un profilo urbanistico-edilizio, il
trasferimento della cubatura di 60 mc + 32 mc, dalla p.m. 14
della p.ed. 1544 e, rispettivamente, dalla p.m. 4 della
p.ed. 714, alla p.m. 10 della p.ed. 1782, in quanto:
- tutti gli immobili interessati dal trasferimento di
cubatura –sia quelli a quibus, sia quello ad quem–
sono ubicati nella stessa zona omogenea, quale
territorialmente delimitata nel piano di zonizzazione del
p.u.c. di Brunico, urbanisticamente qualificata come ‘zona
residenziale B4 - zona di completamento’ (v. estratto
del piano di zonizzazione, in atti);
- dalla documentazione catastale (v. «visura catastale
particelle validate», in atti) emerge che le p.ed. 714 e
1544 confinano con la p.ed. 1782 e che, in particolare, la
p.m. 10 della p.e.d 1782 è frapposta tra le due particelle
da cui proviene la cubatura trasferita, sicché gli immobili
devono ritenersi tra di loro contigui per gli effetti
urbanistici, essendo anche tali lotti ubicati nella medesima
zona servita dalle medesime opere di urbanizzazione, e
avendo gli stessi la medesima destinazione residenziale
(impressa alla p.m. 10 dalle gravate concessioni);
- la ridistribuzione della volumetria tra i fondi, per
effetto dei contratti di cessione stipulati tra i relativi
proprietari, non altera pertanto il carico urbanistico della
zona, lasciandone al contempo inalterata la densità
territoriale complessiva;
- il trasferimento di cubatura, riconosciuto dal legislatore
statale come schema negoziale tipico (recependo l’istituto
già affermatosi nella prassi dei mercatores
immobiliari) –nell’esplicazione della potestà legislativa
esclusiva attribuita allo Stato in materia di ordinamento
civile–, deve ritenersi generalmente ammesso, salvo che la
normativa settoriale urbanistica (nella specie viene in
rilievo la disciplina provinciale, rientrando l’urbanistica
nelle materie attribuite alla competenza primaria delle
province autonome) ovvero gli strumenti di pianificazione
territoriale lo vietino per particolari ragioni o lo
assoggettino a particolari condizioni, in tal senso dovendo
essere inteso il rinvio del novellato art. 2643, n. 2-bis),
cod. civ., alle «normative statali o regionali»,
ovvero agli «strumenti di pianificazione territoriale»
(in altri termini, il trasferimento di diritti edificatori
trova il proprio limite, oltre che in eventuali discipline
speciali della legislazione urbanistica, nelle statuizioni
degli strumenti urbanistici, i quali potrebbero vietare tali
operazioni per alcune aree, oppure contenere previsioni
inerenti alla determinazione della volumetria realizzabile
fondata su criteri incompatibili con il suo trasferimento);
- nella specie non può ritenersi ostativo al trasferimento
di diritti edificatori la previsione dell’art. 15 delle
n.t.a. al p.u.c. –che, per la «zona residenziale B4 -
zona di completamento», stabilisce l’indice della «densità
edilizia massima» di 2,20 mc/mq, intendendosi per ‘densità
edilizia’ «il rapporto (mc/mq) tra la cubatura
urbanistica realizzabile fuori terra e la relativa
superficie catastale del lotto edificatorio» (v., così,
la definizione contenuta nell’art. 1 delle n.t.a. al p.u.c.)–,
poiché, in difetto di espresso divieto, la densità
edificatoria del singolo lotto può essere ridistribuita, con
lo strumento del trasferimento di diritti edificatori (olim,
cessione di cubatura), tra i vari lotti di una stessa zona
omogenea, nel rispetto dell’indice territoriale dell’intera
zona e del relativo complessivo carico urbanistico (v., su
tali principi, Cons. Stato, Sez. VI, 08.04.2016, n. 1398,
relativa ad una fattispecie analoga concernente una vicenda
urbanistico-edilizia in un comune limitrofo a quello di
Brunico; v. altresì, con riguardo al previgente istituto
pretorio della cessione di cubatura, ex plurimis,
Cons. St., Sez. V, 19.04.2013, n. 2220, secondo cui
l’asservimento della volumetria da un lotto a favore di un
altro, onde realizzare una maggiore edificabilità, è
consentita solo con riferimento ad aree aventi una medesima
destinazione urbanistica, posto che, diversamente, si
verificherebbe un’evidente alterazione delle caratteristiche
tipologiche della zona tutelate dalle norme urbanistiche,
con la conseguenza che, in quel caso, è stato ritenuto
inammissibile un trasposto di cubatura tra le sottozone F2 e
F3, in quanto aventi indici di edificabilità diverse, e
trattandosi quindi di zone disomogenee);
- negare la possibilità del trasferimento di diritti
edificatori nell’ambito di una stessa zona omogenea, con la
motivazione del mancato rispetto del parametro dell’indice
edificatorio fondiario del lotto beneficiario, equivarrebbe
ad una sostanziale abrogazione dell’istituto introdotto dal
citato art. 5 d.l. n. 50/2011, perseguendo l’istituto in
esame il precipuo fine di aumentare la capacità edificatoria
del lotto di proprietà del cessionario, anche e proprio nei
casi in cui la capacità edificatorio del lotto sia già
esaurita, ché, diversamente, non sarebbe necessario
l’acquisto di diritti edificatori provenienti da altro
immobile (il tutto, purché venga rispettato l’indice
territoriale dell’intera zona);
- alla stregua di quanto sopra, nella fattispecie sub
iudice il trasferimento dei diritti edificatori deve
ritenersi legittimo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.11.2016 n. 4861 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di rilascio
del titolo abilitativo edilizio –segnatamente, in sede di
esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene
oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero
l’art. art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la legittimazione
attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia
munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo–
sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il
rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, ma
soltanto alla condizione che tali limiti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non
contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente
locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti
medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e
approfondita disanima dei rapporti civilistici.
---------------
Si premette, in
linea di diritto, che secondo l’orientamento prevalente di
questo Consiglio di Stato, condiviso dal collegio, in sede
di rilascio del titolo abilitativo edilizio –segnatamente,
in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del
bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero
l’art. art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, rispettivamente il
corrispondente art. 70 l. urb. prov. (emanata dalla
Provincia autonoma di Bolzano nell’esercizio della potestà
legislativa primaria in materia di urbanistica), la
legittimazione attiva all’ottenimento della concessione
edilizia a chi sia munito di titolo giuridico sostanziale
per richiederlo– sussiste bensì l’obbligo per il Comune di
verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti
privatistici, ma soltanto alla condizione che tali limiti
siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili
o non contestati, di modo che il controllo da parte
dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei
limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata
e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex
plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.09.2012, n. 5128;
Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; Cons. Stato, Sez.
IV, 04.05.2010, n. 2546)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.11.2016 n. 4861 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Legali,
parcella per ogni atto. Compenso dovuto anche per
comunicazioni e trasferte. La Cassazione definisce il
perimetro delle competenze economiche degli avvocati.
La Corte di Cassazione (VI Sez. civile) con
ordinanza 10.11.2016 n. 22951,
ha ribadito che all'avvocato è dovuto un compenso per
l'esame del dispositivo di ogni sentenza e di ogni decreto o
ordinanza, anche se emessi in udienza. Sono, altresì, dovuti
i compensi chiesti a titolo di corrispondenza informativa ed
anche quelli per indennità di trasferta.
La Corte di appello aveva parzialmente accolto il ricorso
proposto da Caio, avvocato, e riliquidato le spese di primo
grado in somma diversa da quella richiesta, avuto riguardo
al minimo tariffario previsto dal dm 08/04/2004 n. 127 per
lo scaglione di riferimento in considerazione della minima
complessità della controversia, detraendo l'importo chiesto
a titolo di onorari per la discussione orale e per i diritti
di procuratore le voci relative all'esame della
documentazione di controparte, l'esame di tre ordinanze non
risultando altra ordinanza se non quella di nomina del Ctu
già presente in udienza, quella relativa alla corrispondenza
informativa con il cliente mancando documentazione al
riguardo e le somme chieste a titolo di indennità di
trasferta per tre udienze mancandone la prova necessaria.
Inoltre i giudici della Suprema corte hanno anche
evidenziato come bisogna ritenere per ciò stesso assolto da
parte del difensore il dovere di informare il cliente per
invitarlo a parteciparvi, con la conseguenza che per la
liquidazione della corrispondente voce non è richiesta la
prova.
L'attribuzione di ulteriori competenze per tale titolo è
subordinata, invece, in ossequio a un ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale, alla documentazione e,
comunque, alla prova certa dell'effettività della
prestazione professionale come specificamente indirizzata a
tenere informato il cliente di eventi processuali rilevanti
(si veda, tra le altre, Cass. 17/10/2007 n. 8152). Sembra
quindi opportuno evidenziare come il tenore letterale della
voce n. 15 dell'allegato B al dm n. 127 dell'08.04.2004, sia
chiaro nel disporre che è dovuto un compenso «per l'esame
del dispositivo di ogni sentenza e di ogni decreto o
ordinanza, anche se emessi in udienza».
Quanto all'indennità di trasferta i giudici della Cassazione
hanno rilevato che la voce n. 57 della citata tabella
prevede che «Per il trasferimento fuori dal proprio
domicilio sono dovute le spese e l'indennità così come
previste nella tabella degli onorari stragiudiziali».
L'art. 8 della Tabella D prevede che «all'avvocato che,
per l'esecuzione dell'incarico ricevuto, debba trasferirsi
fuori dal proprio domicilio professionale, sono dovute le
spese di viaggio e di soggiorno -pernottamento in albergo 4
stelle e vitto- rimborsate nel loro ammontare documentato,
con una maggiorazione del 10% a titolo di rimborso delle
spese accessorie; in caso di utilizzo di autoveicolo proprio
è dovuta un'indennità chilometrica pari ad un quinto del
costo del carburante a litro, oltre alle spese documentate
per pedaggio autostradale e parcheggio. Sono in ogni caso
dovuti gli onorari relativi alla prestazione effettuata e
un'indennità di trasferta da un minimo di euro 10,00 a un
massimo di euro 30,00 per ogni ora o frazione di ora, con un
massimo di otto ore giornaliere»
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: L'errore
dell'avvocato non basta. Cassazione.
L'avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver
commesso un errore o un'omissione nello svolgimento del suo
incarico. Per accertare la responsabilità professionale,
infatti, è necessario che il cliente, dopo aver mosso
specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di
un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta
asseritamente dannosa.
Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 10.11.2016 n. 22882.
Il caso è quello di un'azione di responsabilità
professionale promossa da una società operante nella sanità
privata, nei confronti di due legali, fondata su presunti
errori commessi nel fornire assistenza in relazione ad
alcune fasi di una complessa procedura di licenziamento
collettivo dei propri dipendenti, che, rivelatasi poi
illegittima, si è tradotta in un danno consistente.
Gli Ermellini hanno ritenuto che l'impugnazione promossa
dalla Casa di cura avverso le sentenze di primo e secondo
grado, che avevano escluso la responsabilità dei legali,
fosse essenzialmente priva di pregio, per diverse ragioni.
Con specifico riferimento ai criteri di valutazione
dell'operato dei professionisti, la Corte ha condiviso
l'impianto motivazionale adottato dai Giudici di merito,
fondato su due aspetti: la “marginalità” della
condotta dei professionisti nella produzione del danno e
l'esclusione della colpevolezza.
Quanto al primo, hanno escluso la rilevanza causale di detta
condotta dei legali, atteso che l'incarico era stato loro
conferito “in corso d'opera”, vale a dire in epoca
successiva all'avvio delle procedure amministrative di
licenziamento. Quanto al secondo, hanno valorizzato la
circostanza per cui l'incarico atteneva a questione resa
controversa da una giurisprudenza ambigua, peraltro
complicata da sopraggiunti interventi normativi.
In ogni caso, il “cuore” della sentenza attiene ad un
aspetto di carattere prettamente processuale, che si
traduce, sostanzialmente, in una severa interpretazione
dell'onere della prova a carico del cliente asseritamente
danneggiato
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2016). |
APPALTI FORNITURE: Aggiudicazione,
ripristino non è un atto dovuto.
In tema di forniture alla pubblica amministrazione, la
pendenza di un giudizio risarcitorio per una precedente
revoca non rende il ripristino dell'aggiudicazione atto
dovuto, ma costituisce, semmai, uno degli elementi da
ponderare in sede di valutazione sul modo di conseguire la
fornitura ritenuta necessaria.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di
Stato con la
sentenza 03.11.2016 n.
4613.
I giudici del Consiglio di stato hanno, altresì, osservato
che, stante il principio di immodificabilità dell'offerta e
il quinquennio eventualmente trascorso, sarà onere della
stazione appaltante dar conto della ricomprensione delle
modifiche nell'ambito dell'aggiornamento tecnologico, e
sembra indiscutibile che tale valutazione vada fatta, o
comunque debba essere adeguatamente esternata.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei supremi giudici
amministrativi, a distanza di cinque anni dalla
presentazione dell'offerta, in un settore soggetto a rapida
evoluzione/obsolescenza e con prezzi in tendenziale continua
diminuzione (a fronte della medesima prestazione), una
valutazione aggiornata e comparativa della convenienza
economica dell'offerta, a parere dei giudici di palazzo
Spada era certamente necessaria, e, oltre che
dell'opportunità di ottenere una diminuzione del prezzo
dell'8%, di definire la fornitura in tempi brevi e di
eliminare i rischi altrimenti derivanti dal contenzioso in
essere (elementi favorevoli considerati nel provvedimento),
sarebbe stato opportuno prendere in considerazione anche le
condizioni economiche ottenibili sul mercato e rilevabili,
anzitutto, dalle forniture pubbliche effettuate in tempi più
recenti.
Il thema decidendum prendeva le mosse dal fatto che
la Ausl aveva espletato una gara per l'affidamento della
fornitura in noleggio di un sistema RIS/PACS (a supporto
dell'attività di gestione, archiviazione, stampa e
trasmissione delle immagini, dei referti e dei dati clinici
prodotti dalle Unità Operative di Radiologia) per un periodo
di 6 anni con opzione di riscatto, aggiudicandola con
deliberazione alla Alfa Spa.
A seguito della trasformazione in ambulatori di alcuni
ospedali, con delibera la gara e l'aggiudicazione venivano
revocate. La Alfa impugnava la revoca dinanzi al Tar,
chiedendo il riconoscimento del diritto alla conclusione del
contratto nonché la condanna della Ausl al risarcimento dei
danni
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
VARI: Liti
con casa di cura nel foro dell'utente.
Il foro competente per le liti tra pazienti e case di cura è
quello del consumatore. Quindi, nelle controversie legali
instaurate con le case di cura vale il foro dell'utente.
Questo sulla base di quanto ha stabilito la Corte di
Cassazione - Sez. VI civile, con la
ordinanza 02.11.2016 n. 22133,
secondo cui rimane indiscussa la natura privatistica del
rapporto sia con il medico sia con la casa di cura.
La Suprema corte, sezione civile, ha così accolto il ricorso
di una donna, che chiedeva il risarcimento dei danni
sofferti a seguito di un intervento chirurgico non
risolutivo, effettuato presso una clinica operante in regime
privatistico, sia pure in convenzione con il servizio
sanitario nazionale.
Nella propria domanda risarcitoria, la paziente si era
rivolta al proprio giudice di riferimento quale «foro del
consumatore», sostenendo, in maniera corretta, secondo i
giudici di legittimità, che l'espletamento della prestazione
contestata da parte dell'azienda sanitaria privata, dunque
in regime privatistico, comportasse di diritto
dell'applicazione del foro del consumatore e non quello
dell'azienda.
Dal canto suo, il pm, nelle sue conclusioni, aveva chiesto
l'esclusione della rilevanza del foro del consumatore sulla
base della motivazione di una precedente decisione della
Cassazione (n. 8093 del 2009). Il Collegio ha invece
rilevato la declaratoria della competenza del Tribunale su
tutta la controversia, evidenziando la «manifesta
erroneità della declinatoria di competenza, al di là della
sua motivazione, certamente incomprensibile là dove discetta
della natura della prestazione sanitaria per escludere la
rilevanza del foro del consumatore e parrebbe adombrare che
la responsabilità della casa di cura non sarebbe
contrattuale».
In particolare, la massima Corte ha osservato come i giudici
di merito avessero sbagliato a negare la qualifica di
professionista della casa di cura operante, stante la natura
privatistica del rapporto tra di essa e la paziente.
Ricorre, quindi, il foro del consumatore non essendo stata
messa in discussione la natura privatistica del rapporto
medico/casa di cura
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Costante
orientamento giurisprudenziale ha rilevato come l'art. 35,
comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura
costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere
interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo
tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di
abitabilità dell'immobile condonato.
Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina del condono
edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle
disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando
ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano
della legittimità costituzionale, perché incidenti sul
fondamentale principio della tutela della salute.
Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di una
normativa di rango primario, costituendo una diretta
applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265
(Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma
primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia
igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
Ne consegue che proprio il carattere della fonte, diretta
attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, non
autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono per
le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario
applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e
supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene,
questi ultimi non attuativi di norme di legge
gerarchicamente sovraordinate.
---------------
FATTO
Il Sig. Ca.Ve. e la Sig.ra Ca.El. hanno
impugnato un provvedimento di annullamento degli effetti
dell’attestazione di abitabilità e del successivo rigetto
della richiesta di riesame, provvedimenti questi ultimi
successivi ad un cambio di destinazione da residence a
abitazione civile proposto dagli stessi ricorrenti.
Il provvedimento di annullamento degli effetti
dell’attestazione di abitabilità risulta emanato in
considerazione del fatto che non sarebbero stati dimostrati
i requisiti igienico-sanitari di cui al DM del 05.07.1975, in quanto l'immobile avrebbe una superficie pari a
soli 25 mq., inferiore ai 28 mq previsti dalla disposizione
sopra citata.
I ricorrenti con l’unico motivo sostengono la violazione
dell’art. 35, comma 20, della legge 28.02.1985 n. 47 e
degli artt. 24 del D.p.r. n.380/01 e 149 della L. Reg. n.
65/2014, in quanto dette disposizioni consentirebbero, una
volta intervenuto il condono edilizio, di ottenere
l'attestazione di abitabilità anche in deroga delle norme
regolamentari e, quindi, anche del DM del 05.07.1975.
Si è costituito il Comune di Firenze contestando le
argomentazioni dei ricorrenti e chiedendo il rigetto del
ricorso in considerazione della sua infondatezza.
All’udienza del 25.10.2016, uditi i procuratori delle
parti costituite, il ricorso è stato trattenuto per la
decisione.
DIRITTO
1. In ricorso è infondato e va respinto.
1.1 E’ necessario evidenziare che la fattispecie in esame
risulta disciplinata dall’art. 3 del DM del 05.07.1975
nella parte in cui prevede che l'alloggio monostanza, per
una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva
dei servizi, non inferiore a mq. 28, e non inferiore a mq.
38, se per due persone.
1.2 Detta disposizione a parere dei ricorrenti risulterebbe
derogabile nell’ipotesi di condono in considerazione di
quanto previsto dall’art. 35, comma 20, della L. 47/1985 nella
parte in cui dispone che "a seguito della concessione o
autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il
certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai
requisiti fissati da norme regolamentari.".
1.3 Le argomentazioni dei ricorrenti sono smentite da un
costante orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come
l'art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura
costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere
interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo
tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di
abitabilità dell'immobile condonato (in questo senso si veda
TAR Liguria, Genova, n. 194 del 27/1/2012).
1.4 Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina del condono
edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle
disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando
ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano
della legittimità costituzionale, perché incidenti sul
fondamentale principio della tutela della salute (in questo
senso TAR Toscana Sez. II, 03.04.2009, n. 559 e Cons. Stato,
sez. V, 13.04.1999, n. 814).
1.5 Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di
una normativa di rango primario, costituendo una diretta
applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265
(Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma
primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia
igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
1.6 Ne consegue che proprio il carattere della fonte,
diretta attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie,
non autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono
per le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario
applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e
supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene,
questi ultimi non attuativi di norme di legge
gerarchicamente sovraordinate.
1.7 Nel caso di specie è circostanza incontestata che il
manufatto in questione non presenta le caratteristiche
necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione
d'uso abitativa, difettando di una superficie minima non
inferiore a mq. 28, sicché l’Amministrazione non avrebbe
potuto che annullare gli effetti della dichiarazione di
abitabilità.
1.9 Il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 02.11.2016 n. 1575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Snc,
responsabilità senza solidarietà.
Sotto i riflettori rapporti intercorrenti tra soci. Nelle
snc niente responsabilità solidale tra i soci.
La Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la
sentenza 19.10.2016 n. 21066,
si è soffermata sui rapporti intercorrenti tra i soci (le
decisioni giurisprudenziali sono spesso riferite nei
confronti dei terzi). In particolare, la Corte suprema,
nell'ambito delle società in nome collettivo, ha escluso
l'applicazione del principio della responsabilità solidale
illimitata di ciascuno dei soci per le obbligazioni sociali
(art. 2291 c.c.).
Dunque, tale principio vale solo ed esclusivamente ai fini
della tutela dei terzi estranei alla società, è perciò
operante solo nei confronti dei soggetti esterni alla
società.
Nel caso di specie, due soci di una snc, con quote di
partecipazione al capitale sociale identiche, avevano
concesso in locazione alla società una villa di cui erano
proprietari indivisi anche in questo caso per metà ciascuno.
A questo punto uno dei due soci agisce in giudizio contro la
società per avere il pagamento dei canoni relativi al suo
50% dell'immobile locato. Ma essendo il patrimonio sociale
insufficiente, ha citato in giudizio l'altro socio per
costringerlo a rispondere dell'obbligazione, sulla base del
principio della responsabilità solidale illimitata dei soci
per le obbligazioni sociali (art. 2291 cc). Tuttavia, la
Suprema corte, ha stabilito che nei rapporti interni tra i
soci tale principio non si applica poiché dettato
esclusivamente a tutela dei creditori estranei alla società.
Qualora, quindi, un socio promuova un'azione nei confronti
della snc e pretenda di estenderla anche ad altro socio
illimitatamente responsabile, quest'ultimo risponde non
illimitatamente (come nei confronti dei terzo), ma solo nei
limiti della propria quota di capitale sociale (solo in
questo caso, al pari delle società di capitali, ovvero al
pari del socio accomandante della Sas).
Mentre, si può estendere agli altri soci l'azione esercitata
dal socio creditore contro la società solo nel caso vi sia «un
effettivo squilibrio tra i soci stessi nei reciproci
obblighi di contribuzione per il pagamento dei debiti
sociali», cosa che nel caso di specie non si è
verificata poiché le quote di partecipazione erano uguali
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
AGGIORNAMENTO AL 28.11.2016 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
Scia è un alert per la p.a..
Sentenza Cds.
L'amministrazione, a fronte di una denuncia da parte
del terzo leso da una attività posta in essere da
altro privato a seguito di una Scia, ha l'obbligo di
procedere all'accertamento dei requisiti che
potrebbero giustificare un suo intervento
repressivo. Ma scaduti i termini per l'esercizio dei
poteri inibitori subentra la discrezionalità
dell'ente il quale deve tenere conto anche
dell'eventuale affidamento.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con
sentenza 03.11.2016 n. 4610.
Decisione che assume particolare rilevanza in
relazione al fatto che gli artt. 19 e 21-nonies
della legge 241/1990, che disciplinano
rispettivamente la Scia ed il potere di autotutela
esercitato dalla p.a., sono stati di recente
modificati dalla legge Madia, ovvero la legge
124/2015 e questo è uno dei primi pronunciamenti che
affrontano la problematica connessa ai poteri
dell'amministrazione a seguito di una azione
proposta dal cosiddetto terzo.
Alla luce del fatto che il comma 6-ter dell'art. 19,
ha rilevato il collegio, ha stabilito che la Scia
non è provvedimento tacito direttamente impugnabile,
ma gli interessati possono soltanto sollecitare
l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione prevista dal codice del
processo amministrativo avverso il silenzio della
p.a., vanno chiarite le questioni relative al tempo
dell'azione esperibile dal terzo e al tipo di potere
che il terzo stesso può «sollecitare».
A tale proposito il collegio, pur dando atto
dell'esistenza di un orientamento il quale ritiene
che il terzo possa chiedere al giudice di ordinare
all'amministrazione di esercitare i poteri
inibitori, anche dopo la scadenza del termine di 30
(per l'edilizia) e di 60 giorni per le altre
fattispecie previsti dall'art. 19, legge 241/1990,
la sezione ha ritenuto preferibile l'interpretazione
della disposizione nel senso che il terzo può
chiedere la condanna dell'amministrazione
all'esercizio del potere ma in tal caso quest'ultimo
deve comunque rispettare i requisiti che
giustificano l'autotutela amministrativa per l'atto
di secondo grado il quale, oggi, tiene conto anche
dell'affidamento nel frattempo maturato
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
il potere inibitorio dell’amministrazione sulla presentata
SCIA, su denuncia del terzo, può essere esercitato anche
oltre il termine di trenta (o sessanta) giorni previsto
dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
In relazione al tempo, non è
perfettamente adattabile lo schema dell’azione avverso il
silenzio inadempimento a quella proposto dal terzo
nell’ambito della SCIA.
L’art. 31 c.p.a. prevede, infatti, che l’azione si propone
entro il termine di un anno dalla conclusione del
procedimento. Ma in questo caso il ricorrente, essendo
titolare dell’interesse legittimo pretensivo all’adozione di
un provvedimento favorevole che ha attivato con la sua
istanza, è a conoscenza del momento in cui il procedimento
si deve concludere e, conseguentemente, di quando inizia a
decorrere il termine di un anno.
Nel caso della SCIA, invece, il terzo è titolare di un
interesse legittimo pretensivo all’adozione di atti
sfavorevoli per il destinatario dell’azione amministrativa.
Non è, pertanto, a conoscenza “diretta” dell’andamento
procedimentale della vicenda. Ne consegue che il termine
decorre da quando il terzo ha avuto piena conoscenza dei
fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera
giuridica.
In relazione alla natura del potere, un primo
orientamento, seguito dalla sentenza impugnata, ritiene
che il terzo possa chiedere al giudice di ordinare
all’amministrazione di esercitare i poteri inibitori, anche
nel caso in cui sia trascorso il termine di trenta (o
sessanta) giorni previsto dall’art. 19.
Un secondo orientamento, che la Sezione ritiene
preferibile, assume, invece, che il terzo possa chiedere la
condanna dell’amministrazione all’esercizio di poteri che
devono avere i requisiti che giustificano l’autotutela
amministrativa.
Quest’ultima, calata nell’ambito del procedimento in esame,
si connota in modo peculiare perché:
i) essa non incide su un precedente provvedimento amministrativo e
dunque si caratterizza per essere un atto di “primo grado”
che deve, però, possedere i requisiti legittimanti l’atto di
“secondo grado”;
ii) l’amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo,
ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che
potrebbero giustificare un suo intervento repressivo e ciò
diversamente da quanto accade in presenza di un “normale”
potere di autotutela che si connota per la sussistenza di
una discrezionalità che attiene non solo al contenuto
dell’atto ma anche all’an del procedere.
Tale seconda opzione interpretativa è preferibile in
quanto coniuga in modo più equilibrato le esigenze di
liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del
terzo.
Se quest’ultimo potesse sollecitare i poteri inibitori senza
limiti temporali e di valutazione dell’incidenza sulle
posizioni del privato che è ricorso a questo modulo di
azione verrebbero frustrate le ragioni della
liberalizzazione, in quanto l’interessato, anche molto tempo
dopo lo spirare dei trenta (o sessanta) giorni previsti
dalla legge per l’esercizio dei poteri in esame, potrebbe
essere destinatario di atti amministrativi inibitori
dell’intervento posto in essere.
La qualificazione del potere come potere di autotutela
costituisce invece, da un lato, maggiore garanzia per il
privato che ha presentato la SCIA, in quanto
l’amministrazione deve tenere conto dei presupposti che
legittimano l’esercizio dei poteri di autotutela e, in
particolare, dell’affidamento ingenerato nel destinatario
dell’azione amministrativa, dall’altro, non vanifica le
esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può
comunque fare valere, pur con queste diverse modalità, le
proprie pretese.
---------------
... per la riforma della
sentenza 11.07.2015 n. 1114 del TAR Piemonte,
Torino, Sez. II.
...
1.– La questione all’esame del Collegio attiene alla natura
dei poteri che l’amministrazione può esercitare a seguito di
una azione proposta da un terzo leso da una attività posta
in essere da altro privato a seguito di segnalazione
certificata di inizio attività.
...
3.– Nel merito è necessario stabilire se è corretta
l’interpretazione, seguita dal primo giudice, secondo cui il
potere inibitorio dell’amministrazione, su denuncia del
terzo, può essere esercitato anche oltre il termine di
trenta (o sessanta) giorni previsto dall’art. 19 della legge
n. 241 del 1990.
4.– Il suddetto art. 19 dispone che l’attività oggetto della
segnalazione può essere iniziata dalla data della sua
presentazione all’amministrazione competente.
Il comma 3 di prevede che l’amministrazione competente, in
caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti
per lo svolgimento dell’attività oggetto di SCIA, «nel
termine di sessanta giorni dal ricevimento della
segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo
che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a
conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi
effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in
ogni caso non inferiore a trenta giorni».
La stessa norma aggiungeva che: «è fatto comunque salvo
il potere dell'amministrazione competente di assumere
determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli
21-quinquies 21-nonies» della stessa legge 241. Il comma
6-bis dispone che «nei casi di Scia in materia edilizia,
il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del
comma 3 è ridotto a trenta giorni».
Il comma 4 prevedeva che: «decorso il termine per
l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del
comma 3 ovvero di cui al comma 6-bis, all'amministrazione è
consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un
danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale e previo motivato accertamento
dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi
mediante conformazione dell'attività dei privati alla
normativa vigente».
L’ art. 25, comma 1, lett. b-bis), del decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla
legge 11.11.2014, n. 164, ha modificato quest’ultimo inciso,
disponendo che «è fatto comunque salvo il potere
dell'amministrazione competente di assumere determinazioni
in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e
21-nonies, nei casi di cui al comma 4 del presente articolo».
Il richiamato comma 4, anch’esso modificato, prevede che
decorso il termine per l’esercizio dei poteri inibitori «all’amministrazione
è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un
danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale e previo motivato accertamento
dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi
mediante conformazione dell'attività dei privati alla
normativa vigente».
La legge n. 124 del 2015 ha nuovamente modificato il comma
4, disponendo che decorso il termine per l’adozione dei
provvedimenti inibitori «l'amministrazione competente
adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma
3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo
21-nonies». Quest’ultima norma è stata anch’essa
modificata dall’art. 6 della legge n. 124 del 2015, il quale
ha previsto che il provvedimento illegittimo «può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici (…) e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
Il comma 6-ter, introdotto dall’ art. 6, comma 1, lett. c),
del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla l. 14.09.2011, n. 148, dispone che: «La
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104».
Il richiamo anche al terzo comma dell’art. 31 implica che il
giudice amministrativo «può pronunciare sulla fondatezza
della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di
attività vincolata o quando risulta che non residuano
ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non
sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere
compiuti dall’amministrazione».
5.– La non chiarezza del vigente quadro normativo ha posto
le questioni –non risolte dal legislatore (cfr. Consiglio di
Stato, comm. spec.,
parere 30.03.2016, n. 839)– relative al tempo
dell’azione esperibile dal terzo e al tipo di potere che il
terzo stesso può “sollecitare”.
In relazione al tempo, non è perfettamente adattabile lo
schema dell’azione avverso il silenzio inadempimento a
quella proposto dal terzo nell’ambito della SCIA.
L’art. 31 c.p.a. prevede, infatti, che l’azione si propone
entro il termine di un anno dalla conclusione del
procedimento. Ma in questo caso il ricorrente, essendo
titolare dell’interesse legittimo pretensivo all’adozione di
un provvedimento favorevole che ha attivato con la sua
istanza, è a conoscenza del momento in cui il procedimento
si deve concludere e, conseguentemente, di quando inizia a
decorrere il termine di un anno.
Nel caso della SCIA, invece, il terzo è titolare di un
interesse legittimo pretensivo all’adozione di atti
sfavorevoli per il destinatario dell’azione amministrativa.
Non è, pertanto, a conoscenza “diretta”
dell’andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che
il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena
conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio
nella sua sfera giuridica.
In relazione alla natura del potere, un primo
orientamento, seguito dalla sentenza impugnata, ritiene
che il terzo possa chiedere al giudice di ordinare
all’amministrazione di esercitare i poteri inibitori, anche
nel caso in cui sia trascorso il termine di trenta (o
sessanta) giorni previsto dall’art. 19.
Un secondo orientamento, che la Sezione ritiene
preferibile, assume, invece, che il terzo possa chiedere la
condanna dell’amministrazione all’esercizio di poteri che
devono avere i requisiti che giustificano l’autotutela
amministrativa.
Quest’ultima, calata nell’ambito del procedimento in esame,
si connota in modo peculiare perché:
i) essa non incide su un precedente provvedimento amministrativo e
dunque si caratterizza per essere un atto di “primo grado”
che deve, però, possedere i requisiti legittimanti l’atto di
“secondo grado”;
ii) l’amministrazione, a fronte di una denuncia da parte del terzo,
ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che
potrebbero giustificare un suo intervento repressivo e ciò
diversamente da quanto accade in presenza di un “normale”
potere di autotutela che si connota per la sussistenza di
una discrezionalità che attiene non solo al contenuto
dell’atto ma anche all’an del procedere.
Tale seconda opzione interpretativa è preferibile in
quanto coniuga in modo più equilibrato le esigenze di
liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del
terzo.
Se quest’ultimo potesse sollecitare i poteri inibitori senza
limiti temporali e di valutazione dell’incidenza sulle
posizioni del privato che è ricorso a questo modulo di
azione verrebbero frustrate le ragioni della
liberalizzazione, in quanto l’interessato, anche molto tempo
dopo lo spirare dei trenta (o sessanta) giorni previsti
dalla legge per l’esercizio dei poteri in esame, potrebbe
essere destinatario di atti amministrativi inibitori
dell’intervento posto in essere.
La qualificazione del potere come potere di autotutela
costituisce invece, da un lato, maggiore garanzia per il
privato che ha presentato la SCIA, in quanto
l’amministrazione deve tenere conto dei presupposti che
legittimano l’esercizio dei poteri di autotutela e, in
particolare, dell’affidamento ingenerato nel destinatario
dell’azione amministrativa, dall’altro, non vanifica le
esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può
comunque fare valere, pur con queste diverse modalità, le
proprie pretese.
6.– Applicando le regole sopra esposte alla fattispecie
all’esame del Collegio ne discende la fondatezza
dell’appello.
L’appellante ha presentato la SCIA il 31.01.2014 e il terzo
ha diffidato l’amministrazione ad esercitare i propri poteri
il successivo 5 giugno. La fattispecie sostanziale si è,
pertanto, perfezionata prima dell’entrata in vigore del
decreto-legge n. 133 del 2014, con conseguente applicazione
della disciplina vigente in quel dato momento.
Chiarito ciò, la Sezione rileva come l’azione del terzo non
poteva ritenersi finalizzata alla sollecitazione di poteri
inibitori bensì di autotutela. Il primo giudice avrebbe,
pertanto, dovuto, alla luce del quadro normativo riportato,
qualificare correttamente l’azione e condannare
l’amministrazione ad iniziare il procedimento di “secondo
grado” finalizzato a stabilire la sussistenza dei
presupposti per l’adozione del provvedimento richiesto dal
terzo, senza valutare, in ragione della natura discrezionale
dell’attività, la fondatezza della pretesa azionata.
7.– Alla luce di quanto esposto, l’appello è fondato nei
limiti indicati, senza che sia necessario esaminare l’altro
motivo proposto.
8.– La fase esecutiva successiva a questo giudizio impone
all’amministrazione di dare esecuzione alla presente
sentenza mediante l’inizio di un procedimento di autotutela
amministrativa finalizzato a verificare non soltanto
l’asserita illegittimità dell’attività posta in essere
dall’appellante ma anche la sussistenza degli ulteriori
presupposti costituiti dalla sussistenza di un interesse
concreto e attuale all’esercizio dei poteri in esame e dalla
mancanza di un legittimo affidamento dell’appellante stesso.
9.– La particolarità dell’esito del presente giudizio che,
pur accogliendo l’appello, impone comunque
all’amministrazione di iniziare il procedimento di
autotutela, unitamente alla non chiarezza del complessivo
quadro normativo, giustifica l’integrale compensazione tra
le parti delle spese di entrambi i gradi giudizio (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.11.2016 n. 4610 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sul licenziamento del dirigente dell'ente locale per
responsabilità dirigenziale.
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Non
possono nutrirsi dubbi sulla sussistenza degli estremi per
la configurazione di una responsabilità dirigenziale
meritevole di licenziamento per giusta causa, anche a
prescindere dalla comunicazione o meno delle direttive
generali, visto che quelle contestate (leggerezze
nella gestione delle gare di appalto, cattiva gestione del
personale con irrigazione di sanzioni disciplinari in
contrasto con l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, rifiuto
nel passaggio delle consegne, scorrettezza nei rapporti con
l'assessore di riferimento, ritardi e incompletezze nella
redazione delle schede-obiettivo per il 2011, mancato
raggiungimento dei risultati per il 2009 e il 2010)
sono condotte di per sé contrarie all'art. 5, comma 1, del
CCNL cit. secondo cui: "Il dirigente
conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire
la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i
principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza
dell'attività amministrativa nonché quelli di leale
collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt.
2104 e 2105 del codice civile, anteponendo il rispetto della
legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri
ed altrui".
Peraltro, si tratta di comportamenti
contrari anche ai successivi commi dello stesso art. 5 che
elencano gli obblighi dei dirigenti, fermo restando che,
come affermato da questa Corte:
a) in presenza di più addebiti la valutazione della condotta deve
essere globale;
b) la responsabilità dirigenziale è configurabile anche nei casi in
cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di
responsabilità e quella disciplinare.
Sicché,
eventuali condotte del dirigente in difformità ai
citati principi legittimano il suo licenziamento per giusta
causa, a nulla rilevando che la sanzione sia stata comminata
dal Responsabile delle Risorse Umane in luogo del Segretario
Generale.
---------------
1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il
14.05.2014) respinge l'appello di Iv.Ag. avverso la sentenza
n. 2299/2013 del Tribunale di Torino, di rigetto del ricorso
proposto dall'Ag. onde ottenere la declaratoria di nullità o
illegittimità del licenziamento intimatogli dal Comune di
Rivoli —di cui era dipendente con qualifica di dirigente—
per molteplici mancanze commesse nell'ambito di una
complessa vicenda. La Corte d'appello di Torino, per quel
che qui interessa, precisa che:
a) è infondata la censura dell'Ag. secondo la quale il
licenziamento intimatogli sarebbe di tipo disciplinare e non
dirigenziale e, come tale, sarebbe radicalmente nullo perché
adottato dal Dirigente delle Risorse Umane del Comune di
Rivoli anziché dall'Ufficio competente (Segretario
comunale), secondo quanto disposto dall'art. 55-bis, comma
4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dall'art. 53 del "Regolamento
sull'ordinamento degli Uffici e dei Servizi" del Comune
stesso;
b) infatti, dalle risultanze processuali emerge con chiarezza che
l'Amministrazione, attraverso il richiamo dell'art. 21 del
d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 3 del CCNL 07.02.2010 per
il personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie
locali e la procedura speciale prevista per l'ipotesi di
recesso per responsabilità dirigenziale, ha inteso
specificamente contestare fatti che comportavano tale ultimo
tipo di responsabilità, ritenendo che i molteplici addebiti
mossi all'Ag. integrassero l'inosservanza delle direttive
generali per l'attività amministrativa e la gestione cui fa
riferimento la suindicata norma contrattuale;
c) ciò è sufficiente per considerare corretta l'adozione del
provvedimento di recesso da parte del Dirigente delle
Risorse Umane, in quanto da un lato gli addebiti devono
essere valutati nel loro complesso e non atomisticamente
sicché se anche qualcuno ha carattere disciplinare ciò non
esclude che l'insieme possa integrare una responsabilità del
dirigente tale da legittimare il recesso per giusta causa,
d'altra parte la responsabilità dirigenziale è configurabile
—e la relativa procedura applicabile— anche nei casi in cui
vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di
responsabilità e quella disciplinare, come affermato dalla
giurisprudenza di legittimità;
d) del pari infondata è la censura con la quale il dirigente
contesta la decisione del primo giudice di considerare "nuove"
e perciò inammissibili —perché avanzate in corso di causa e
non nel ricorso introduttivo del giudizio— le deduzioni
svolte in ordine alla pretesa insussistenza della preventiva
comunicazione delle direttive generali inerenti l'attività
amministrativa e la gestione alla cui inosservanza l'art. 3
del CCNL cit. collega la configurabilità della
responsabilità disciplinare;
e) si tratta, infatti, di un aspetto sul quale era necessario
consentire la corretta instaurazione del contraddittorio e,
nel ricorso introduttivo, ad esso non si fa neppure cenno
visto che ci si limita ad eccepire la nullità del
licenziamento per violazione dell'art. 55-bis, comma 4, del
d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 53 del "Regolamento
sull'ordinamento degli Uffici e dei Servizi" del Comune
stesso e quindi a contestare nel merito il licenziamento
stesso, richiamando l'art. 3 del CCNL cit. solo per dedurre
l'erroneità in fatto e l'infondatezza in diritto delle
contestazioni;
f) alla luce della valutazione dei singoli addebiti, va rilevato
che essi, nel loro insieme, sono tali da legittimare il
recesso per giusta causa intimato ai sensi dell'art. 21 del
d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 3 del CCNL cit.;
g) è, infatti, evidente che il comportamento tenuto
complessivamente dall'Ag., contraddistinto da notevole
superficialità e manifesta insofferenza rispetto persino
alle regole più elementari e ovvie per una corretta gestione
dell'ufficio, non può che considerarsi incompatibile con le
funzioni dirigenziali affidategli.
...
1. Il ricorso è articolato in due motivi.
1.1. Con il primo motivo si denuncia:
a) in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e
falsa applicazione degli artt. 21 e 22 nonché degli artt.
55, 55-bis, comma 4 e seguenti del d.lgs. n. 165 del 2001;
dell'art. 27 del CCNL 10.04.1996 per il personale dirigente
del Comparti Regioni ed Autonomie locali; degli artt. 3, 5,
6, 7 del CCNL 07.02.2010 per il personale dirigente del
Comparti Regioni ed Autonomie locali;
b) in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione fra le parti.
Si sostiene che il licenziamento in oggetto non sarebbe
stato di tipo dirigenziale —come apoditticamente affermato
dalla Corte d'appello— in quanto non fondato su una vera e
propria responsabilità dirigenziale.
Si aggiunge che la stessa Corte territoriale, affermando
erroneamente la sovrapponibilità della responsabilità
disciplinare e di quella dirigenziale, non nega il carattere
disciplinare degli addebiti, ma da questa premessa
sbagliando evince che fatti di rilevanza disciplinare
possano rivestire rilievo ai fini della responsabilità
dirigenziale.
Si tratterebbe, pertanto, di un licenziamento
ontologicamente disciplinare, che come tale sarebbe nullo
perché adottato dal Dirigente delle Risorse Umane del Comune
di Rivoli e non dall'Ufficio competente (segretario
comunale) ai sensi dell'art. 55-bis, comma 4 e seguenti del
d.lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 53 del "Regolamento
sull'ordinamento degli Uffici e dei Servizi" del Comune
stesso.
1.2. Con il secondo motivo si denuncia:
a) in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e
falsa applicazione degli artt. 414, 434, 437 cod. proc.
civ.; degli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165 del 2001; degli
artt. 1218 e 2697 cod. civ.; dell'art. 27 del CCNL 10 aprile
1996 per il personale dirigente del Comparti Regioni ed
Autonomie locali; dell'art. 3 del CCNL 07.02.2010 per il
personale dirigente del Comparti Regioni ed Autonomie
locali;
b) in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione fra le parti.
Si contesta la statuizione della Corte torinese secondo cui,
nella specie, sarebbe applicabile l'art. 3 del CCNL del 2010
cit. sostenendosi l'erroneità dell'affermazione del
carattere di novità delle deduzioni della difesa del
dirigente in ordine alla insussistenza della "preventiva
comunicazione" delle direttive generali inerenti
l'attività amministrativa e di gestione richiesta dal
suddetto art. 3 per la configurabilità della responsabilità
dirigenziale.
In particolare si contestano sia la configurazione come "nuova"
della suddetta deduzione sia la consequenziale dichiarazione
di inammissibilità, trattandosi di una mera argomentazione
difensiva già effettuata e comunque come tale proponibile
anche per la prima volta in appello.
Sulla base di tale presupposto erroneo, la Corte torinese
avrebbe anche violato le norme sull'onere della prova e
inoltre non avrebbe verificato se del suddetto art. 3 sia
stata data, in concreto, corretta applicazione, cioè se sia
stata dimostrata la sussistenza degli elementi ivi previsti
per il licenziamento con effetto immediato per "responsabilità
dirigenziale".
Invece, si sarebbe trattato non una mutatio libelli,
ma di una semplice emendatio libelli, non incidente
sulla causa petendi.
...
3. Il ricorso non è da accogliere per le ragioni di seguito
esposte.
3.1. In primo luogo, tutte le censure proposte, in entrambi
i motivi, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. sono
inammissibili, in quanto, al di là della formulazione della
rubrica, nella sostanza tali censure risultano prospettate
in modo non conforme all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
-nel testo successivo alla modifica ad opera dell'art. 54
del d.l. 22.06.2012, n. 83, convertito in legge 07.08.2012,
n. 134, applicabile ratione temporis- in base al
quale la ricostruzione del fatto operata dai giudici di
merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando
la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi
giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su
espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed
immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od
obiettivamente incomprensibili, evenienze che non risultano
denunciate nella specie (Cass. SU 07.04.2014, n. 8053; Cass.
09.06.2014, n. 12928).
3.2. Per il resto, nel primo motivo si contesta soltanto la
statuizione della Corte torinese secondo cui la
responsabilità dirigenziale è configurabile -e la relativa
procedura applicabile- anche nei casi in cui vi sia un
indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e
quella disciplinare mentre non si contesta la statuizione
-autonoma- secondo cui è sufficiente per considerare
corretta l'adozione del provvedimento di recesso da parte
del Dirigente delle Risorse Umane il fatto che gli addebiti
devono essere valutati nel loro complesso e non
atomisticamente, sicché se anche qualcuno ha carattere
disciplinare ciò non esclude che l'insieme possa integrare
una responsabilità del dirigente tale da legittimare il
recesso per giusta causa.
Ne consegue che -a prescindere dalla conformità alla
consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte della
statuizione impugnata (vedi, per tutte: Cass. 08.04.2010, n.
8329; Cass. 17.06.2010, n. 14628; Cass. 08.06.2015, n.
11790)- trova applicazione il principio, costantemente
affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
nel caso in cui venga impugnata con ricorso per
cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi
su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla,
l'omessa impugnazione di una di tali ragioni rende
inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa
alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma
motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun
caso l'annullamento della sentenza
(vedi, per tutte: Cass. 05.10.1973, n. 2499; Cass. SU
08.08.2005, n. 16602; Cass. SU 29.05.2013, n. 7931; Cass.
11.02.2011, n. 3386; Cass. 27.05.2014, n. 11827; Cass.
17.06.2015, n. 12486).
3.3. Di qui l'inammissibilità del primo motivo.
3.4. Infine, non sono da accogliere neppure le censure di
violazione di legge proposte con il secondo motivo,
che residuano rispetto a quelle prospettate ex art. 360, n.
5 cod. proc. civ. (di cui si è detto al punto 3.1.).
Infatti, ex art. 1363 cod. civ. il richiamato art. 3 del
CCNL cit. deve essere letto insieme con tutti gli altri
articoli del CCNL e, in particolare, con il successivo art.
5.
Dalla lettura combinata di tali due articoli si evince che
la comunicazione o meno delle direttive generali inerenti
l'attività amministrativa e la gestione, alla cui
inosservanza l'art. 3 del CCNL cit. collega la
configurabilità della responsabilità disciplinare non è
certamente indispensabile per la configurazione di tale tipo
di responsabilità, che è configurabile tutte le volte in cui
il dirigente non rispetti gli obblighi propri del suo
incarico, quali esemplificativamente indicati nell'art. 5
medesimo.
Nella specie, come risulta dalla sentenza impugnata,
i comportamenti contestati
—di cui nel presente ricorso non viene messa in discussione
la sussistenza— consistono in leggerezze
nella gestione delle gare di appalto, cattiva gestione del
personale con irrigazione di sanzioni disciplinari in
contrasto con l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, rifiuto
nel passaggio delle consegne, scorrettezza nei rapporti con
l'assessore di riferimento, ritardi e incompletezze nella
redazione delle schede-obiettivo per il 2011, mancato
raggiungimento dei risultati per il 2009 e il 2010.
Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sulla sussistenza
degli estremi per la configurazione di una responsabilità
dirigenziale meritevole di licenziamento per giusta causa,
anche a prescindere dalla comunicazione o meno delle
direttive generali, visto che quelle contestate sono
condotte di per sé contrarie all'art. 5, comma 1, del CCNL
cit. secondo cui: "Il dirigente conforma
la sua condotta al dovere costituzionale di servire la
Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i
principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza
dell'attività amministrativa nonché quelli di leale
collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt.
2104 e 2105 del codice civile, anteponendo il rispetto della
legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri
ed altrui".
Peraltro, si tratta di comportamenti
contrari anche ai successivi commi dello stesso art. 5 che
elencano gli obblighi dei dirigenti, fermo restando che,
come affermato da questa Corte:
a) in presenza di più addebiti la valutazione della condotta deve
essere globale;
b) la responsabilità dirigenziale è configurabile anche nei casi in
cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di
responsabilità e quella disciplinare.
Ne deriva che —anche a prescindere dal mancato rispetto del
principio di specificità dei motivi di ricorso per
cassazione, in base al quale, il ricorrente avrebbe dovuto,
con riguardo al ricorso introduttivo del giudizio, assolvere
il duplice onere di cui all'art. 366, n. 6, cod. proc. civ.
e all'art. 369, n. 4, cod. proc. civ.— le censure in oggetto
sono comunque inammissibili perché si riferiscono ad una
questione priva del carattere della decisività e quindi
irrilevante, per quanto si è detto sopra.
3.5. Anche il secondo motivo va, quindi, dichiarato
inammissibile (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 22.11.2016 n. 23744). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanatoria, essendo stata richiesta dopo
l’imposizione del vincolo, richiede necessariamente
l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato
creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del
permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di
demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n.
75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia
Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il
permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione
straordinaria e del permesso di costruire per opere di
ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n.
4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte
ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta
presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della
relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i
provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del
processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo
amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente
costruzione dei manufatti in questione sulla base di una
pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti
dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700
del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in
giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto
posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente
costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte
ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente
giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la
sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità
dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al
presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità
risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta,
con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi
ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non
pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento
di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento
dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione.
Lamenta in particolare che il comune di Verona ha
indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni
sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da
quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come
imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori
evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta
vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio
del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la
zona di progetto e la zona in cui sono individuati i
manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la
loro omissione nell’atto notarile di compravendita di
terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di
accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono
costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi
gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a
scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione
nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e
motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione
sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata,
essendo certa esclusivamente la provenienza della
dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della
dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo
con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti
per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di
esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del
diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto
provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente
all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento
edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione
di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria,
essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo,
richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità
paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato
creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del
permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di
demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: P.
Palazzi,
ONEROSA O NON ONEROSA? LA RISTRUTTURAZIONE: QUANDO LA
GIURISPRUDENZA RISCRIVE LA LEGGE E QUANDO UNA EVENTUALE
SENTENZA NEGATIVA POTREBBE ESSERE IN UN CERTO MODO UTILE
(25.11.2016 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
APPALTI:
M. L. Chiarella,
La responsabilità precontrattuale della Pubblica
Amministrazione tra buona fede, efficienza e tutela
dell’affidamento (16.11.2016 - tratto da
www.federalismi.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI - VARI:
Oggetto: Legge sul c.d. "caporalato" (L. n. 199/2016):
pubblicazione in G.U. (ANCE di Bergamo,
circolare 18.11.2016 n. 202). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Risposte ad interpelli in materia di sicurezza
(ANCE di Bergamo,
circolare 11.11.2016 n. 196). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: DURC on-line – Decreto modificativo (ANCE di
Bergamo,
circolare 11.11.2016 n. 194). |
UTILITA' |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rischio da videoterminale, la guida con le indicazioni sulla
postura corretta (24.11.2016 - link a
http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Guida impianto termico: accensione, manutenzione, libretto e
rapporto di controllo (17.11.2016 - link a
http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica semplificata, ok dal
Parlamento. Ecco le agevolazioni in arrivo (03.11.2016
- link a http://biblus.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 26.11.2016 n. 277, suppl. ord. n. 52/L, "Individuazione
di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione
certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio-assenso e
comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi
applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi
dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs.
25.11.2016 n. 222).
---------------
(Atto
del Governo n. 322). |
ENTI
LOCALI:
G.U. 25.11.2016 n. 276 "Attuazione della delega di cui
all’articolo 10 della legge 07.08.2015, n. 124, per il
riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura" (D.Lgs.
25.11.2016 n. 219). |
PATRIMONIO:
G.U. 25.11.2016 n. 276 "Istituzione del fondo per la
progettazione preliminare e definitiva degli interventi di
bonifica di edifici pubblici contaminati da amianto"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 21.09.2016). |
VARI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 47 del 25.11.2016, "Definizione
della denominazione, delle caratteristiche e del logo delle
strutture di informazione e accoglienza turistica (art. 11,
comma 2, della legge regionale 01.10.2015, n. 27)" (Regolamento
Regionale 22.11.2016 n. 9). |
VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 25.11.2016, "Criteri
per l’istituzione delle strutture di informazione e
accoglienza turistica in attuazione dell’art. 11, comma 5,
della legge regionale 01.10.2015, n. 27 e per lo svolgimento
delle relative attività"
(deliberazione
G.R. 18.11.2016 n. 5816). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 24.11.2016, "Linee
di indirizzo per lo sviluppo del catasto regionale degli
impianti radioelettrici istituito dall’articolo 5 della
legge regionale 11.05.2001 n. 11 e indicazioni relative al
Programma CEM di cui al decreto del Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio e del Mare RINDEC-2016-0000072
del 28.06.2016"
(deliberazione
G.R. 18.11.2016 n. 5827). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 23.11.2016, "Nomina
della commissione regionale in materia di opere o di
costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r.
33/2015, art. 4, comma 2 – D.g.r. 5001/2016, ALL. L)" (deliberazione
G.R. 18.11.2016 n. 5830). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 23.11.2016, "Indirizzi
ai comuni per favorire il contenimento dei costi di
esercizio, manutenzione e controllo degli impianti termici
civili, a favore soprattutto delle fasce deboli della
popolazione"
(deliberazione
G.R. 18.11.2016 n. 5825). |
ENTI LOCALI:
G.U. 21.11.2016 n. 272, suppl. ord. n. 51, "Adozione dei
nuovi coefficienti di riparto complessivo dei fabbisogni
standard dei Comuni per il 2016, relativi alle funzioni
fondamentali di cui all’art. 3, comma 1, lettera a), del
decreto legislativo 26.11.2010, n. 216" (D.P.C.M.
14.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 46 del 17.11.2016, "Riorganizzazione
del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree
regionali protette e delle altre forme di tutela presenti
sul territorio"
(L.R.
17.11.2016 n. 28). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
G.U. 16.11.2016 n. 268 "Intesa, ai sensi dell’articolo 8,
comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le
Regioni e i Comuni concernente l’adozione del regolamento
edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
(Rep. Atti n. 125/CU)" (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Conferenza Unificata,
intesa 20.10.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' NAZIONALE CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Linee guida n. 5, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti “Criteri di scelta dei commissari di gara e di
iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio
dei componenti delle commissioni giudicatrici” (determinazione
16.11.2016 n. 1190 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Pubblicate le Linee guida per la scelta dei commissari di
gara ed Albo delle commissioni giudicatrici. Segnalazione a
Governo e Parlamento per modificare l’art. 77.
Emanate dall’Autorità nazionale anticorruzione in via
definitiva le Linee guida n. 5, di attuazione del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, ‘Criteri di scelta dei commissari di gara
e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale
obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici’.
Le Linee guida sono state approvate dal Consiglio
dell’Autorità del 16.11.2016 con la delibera n. 1190.
Contestualmente l’Anac, con la Delibera n. 1191 del
16.11.2016 ha inviato a Governo e Parlamento l’Atto di
segnalazione ‘Proposta di modifica dell’art. 77 del Decreto
Legislativo 18.04.2016, n. 50. Alla segnalazione è allegato
l’elenco sottosezioni dell’Albo nazionale obbligatorio dei
componenti delle commissioni giudicatrici. |
APPALTI:
Regolamento in materia di esercizio del potere
sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto
legislativo 25.05.2016, n. 97 (Regolamento
16.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Nuovo Regolamento in materia di esercizio del potere
sanzionatorio.
Pubblicato il nuovo Regolamento in materia di esercizio del
potere sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto
legislativo 25.05.2016, n. 97.
Il d.lgs. 97/2016 ha apportato, tra le altre, alcune
significative modifiche all’articolo 47 del d.lgs n.
33/2013, cd. “decreto trasparenza”, che prevede “sanzioni
per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi
specifici”. In particolare, analogamente a quanto disposto
per le sanzioni in materia di anticorruzione, è previsto che
sia l’ANAC ad irrogare le sanzioni, e a disciplinare con
proprio Regolamento il relativo procedimento. Si è reso
pertanto necessario sostituire il Regolamento del
23.07.2015, che attribuiva all’ANAC la competenza ad
irrogare le sanzioni in misura ridotta, ed al Prefetto
quelle definitive.
Il procedimento disciplinato dal presente Regolamento tende
ad agevolare l’accertamento della violazione, coinvolgendo i
Responsabili per la trasparenza e gli Organismi indipendenti
di valutazione o altri organismi con funzioni analoghe, ed a
semplificare, nel pieno rispetto del contraddittorio,
l’istruttoria volta all’irrogazione della sanzione, in
misura ridotta, conformemente a quanto indicato dalla legge
689/1981, ovvero definita entro i limiti minimo e massimo
edittali, tenuto conto delle circostanze indicate dall’art.
11 della citata legge 689.
Il nuovo regolamento entra in vigore il giorno successivo
alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. |
LAVORI PUBBLICI:
Manuale dell’Autorità sulla qualificazione per l’esecuzione
di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro
(14.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Aggiornato il manuale per la qualificazione per l’esecuzione
di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro.
Il manuale per la qualificazione per l’esecuzione di lavori
pubblici di importo superiore a 150.000 euro, pubblicato con
il Comunicato del Presidente del 16.10.2014, è stato
aggiornato. Nel capitolo VI, pag. 265, punto 2-6-1),
‘Tariffe applicabili per il rilascio dell’attestazione’,
nella parte relativa al pagamento del corrispettivo per il
rilascio dell’attestazione è stato aggiunto il seguente
paragrafo:
Nel rispetto dei principi di indipendenza e di esclusività
dell’oggetto sociale, sono ammesse convenzioni tra S.O.A. e
società finanziarie in assenza di collegamento societario
tra le stesse volte unicamente a facilitare, senza compensi
in denaro né altri vantaggi economici per le S.O.A., la
conclusione di contratti di finanziamento alle imprese per
il pagamento del corrispettivo derivante dallo svolgimento
dell’attività di attestazione. |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato si sofferma nuovamente sulla data di
entrata in vigore del nuovo rito appalti, introdotto
dall’art. 204 del nuovo Codice dei contratti.
---------------
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n.
50 del 2016 – Sentenza giudice di primo grado – Appello –
Termine di trenta giorni ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a. –
Ambito di applicazione.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50
del 2016 – Impugnazione aggiudicazione di gara - Esclusione.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50
del 2016 – Impugnazione aggiudicazione di gara – Art. 216,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Applicazione alle sole procedure
bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo
Codice.
Il termine di trenta giorni dalla
comunicazione della sentenza, previsto dall’art. 120, comma
6-bis, c.p.a. per la proposizione dell’appello, nel testo
modificato dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, si
riferisce alle sole impugnazioni delle sentenze del giudice
di primo grado pronunciate nell’ambito del rito
“superspeciale” introdotto dal citato art. 204 (1).
Il rito “superspeciale” “superspeciale” previsto dall’art.
120, comma 6-bis, c.p.a., introdotto dall’art. 204, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, si applica al solo gravame proposto
avverso i provvedimenti che determinano l’ammissione alla (e
le esclusioni dalla) procedura di gara e non anche
all’impugnazione dell’aggiudicazione della stessa.
Ai sensi dell’art. 216, comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 le
disposizioni introdotte dallo stesso d.lgs. n. 50 del 2016
si applicano solo alle procedure bandite dopo la data
dell’entrata in vigore del nuovo Codice (quindi dopo il
19.04.2016), salvo il rinvio a disposizioni speciali e
testuali di un diverso regime di transizione; a questa
regola soggiace anche l’applicazione delle nuove regole
processuali, introdotte dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del
2016, che ha novellato l’art. 120 c.p.a. (2).
---------------
(1) Ha chiarito la terza sezione che le regole procedurali
dettagliate al comma 6-bis dell’art. 120 c.p.a. descrivono
un rito accelerato per le impugnazioni delle ammissioni e
delle esclusioni, nei casi meglio definiti al precedente
comma 2-bis, ed esauriscono un sistema processuale chiuso e
speciale, con la conseguenza che la previsione del termine
breve (asseritamente inosservato) per la proposizione
dell’appello si inserisce (anch’essa) nel predetto regime
procedurale, nel senso che deve intendersi operativa solo al
suo interno e, quindi, per la sola impugnazione di sentenze
di primo grado pronunciate su ricorsi introdotti e definiti
ai sensi del combinato disposto dei commi 2-bis e 6-bis
dell’art. 120 c.p.a..
(2) Ha sul punto chiarito la terza sezione che il comma 1
dell’art. 216, nel riferirsi “al presente Codice”,
intende, evidentemente, comprendere entro il suo ambito
applicativo tutte le disposizioni dello stesso Codice, con
le uniche eccezioni di deroghe testuali ed espresse alla
predetta regola transitoria (come chiarito dall’incipit
dello stesso art. 216). A prescindere, infatti, dalla
curiosità lessicale che il titolo del decreto legislativo
non reca (più) la dizione di “Codice”, viceversa
presente nella legge delega, resta evidente che
l’espressione letterale utilizzata all’art. 216, comma 1,
deve intendersi riferita a tutte le previsioni normative
contenute nel provvedimento normativo nel quale la relativa
previsione transitoria risulta inserita.
Se, infatti, il legislatore avesse voluto escludere
dall’ambito applicativo del regime transitorio le
disposizioni processuali contenute nel decreto legislativo,
lo avrebbe dovuto esplicitamente chiarire, come ha fatto per
le previsioni riportate nei commi dell’art. 216 successivi
al primo e come espressamente stabilito, quale criterio
esegetico generale della disciplina transitoria, nella
clausola di apertura del primo comma, con la conseguenza
che, nel silenzio dell’art. 216, comma 1, e in mancanza di
diverse disposizioni specificamente riferite alle
innovazioni del Codice del processo amministrativo, il
carattere generale della formulazione della suddetta
previsione impone di ritenerla estesa a tutte le norme del
nuovo “Codice” non menzionate da disposizioni
transitorie speciali.
Con puntuali argomentazioni la sezione terza ha poi escluso
che possa valere obiettare che la disciplina transitoria in
questione debba intendersi limitata alle sole previsioni
direttamente riferibili al “Codice dei contratti pubblici”
e non anche alle norme inserite, con esso, nel Codice del
processo amministrativo.
Come già chiarito, il riferimento al “presente Codice”
(seppur non immune dalle imprecisioni e dalle incertezze
lessicali connesse al sorprendente, mancato utilizzo di quel
termine nel titolo del provvedimento) dev’essere inteso come
comprensivo di tutte le disposizioni contenute nel decreto
legislativo n. 50 del 2016, senza possibilità di una incerta
cernita selettiva di quelle soggette alla disciplina
transitoria, atteso che il lemma “Codice” risulta
utilizzato sia nella legge delega, sia all’art. 1 del
decreto legislativo (rubricato “Oggetto e ambito di
applicazione”), sicché il suo utilizzo nella norma
dedicata a regolare la successione delle leggi nel tempo dev’essere
decifrato come significativo del provvedimento normativo
nella sua interezza.
La sezione ha ancora chiarito il perché la regola del
tempus regit actum non risulta nella fattispecie
applicabile.
Ha infine concluso che quand’anche permanessero dubbi
esegetici sul regime temporale di applicazione delle nuove
regole processuali esaminate, gli stessi dovrebbero essere
risolti preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole
per l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi,
maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi
dagli artt. 24 e 113).
A fronte dell’introduzione di un gravoso (e, finora,
inedito) onere processuale, quale quello relativo
all’immediata impugnazione delle ammissioni alla gara
(pacificamente escluso, prima dell’innovazione processuale
in esame), dev’essere, infatti, rifiutata ogni lettura delle
disposizioni sopravvenute che limiti o, addirittura,
pregiudichi l’esercizio del diritto di difesa, come
accadrebbe se si ammettesse l’operatività del nuovo rito
anche con riferimento alle procedure bandite prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 (in ragione
delle preclusioni espressamente collegate dalla nuova
normativa all’omessa, tempestiva impugnazione delle
ammissioni di altre imprese concorrenti) (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 25.11.2016 n. 4994 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
compenso revisionale dell'appalto pubblico approvato dalla
Giunta comunale è invalido se non viene ratificato dal
Consiglio comunale.
---------------
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte in merito al quadro normativo applicabile
nella specie, il diritto dell'appaltatore alla revisione
dei prezzi, sorge (dopo la L. n. 47 del
1973) soltanto per effetto e dal momento del riconoscimento
della revisione medesima da parte dell'amministrazione. Tale
riconoscimento non può
che perfezionarsi con le modalità richieste dalle
norme sull'evidenza pubblica, per i comuni, contenute
nel R.D. n. 148 del 1915, nonché nelle leggi
successive in materia, e deve perciò provenire
necessariamente
dall'organo dell'ente pubblico abilitato
a manifestarne la volontà che è esclusivamente
il Consiglio comunale.
Deve quindi ribadirsi che non può assurgere a
valido ed efficace riconoscimento del diritto
dell'appaltatore alla revisione il provvedimento,
pur espressamente attributivo della revisione stessa,
pur quando adottato dal Sindaco e dalla Giunta
municipale in via d'urgenza, ove la delibera non
sia stata ratificata dal Consiglio Comunale.
L'istituto della revisione dei prezzi contrattuali,
onde adeguarli ai mutati costi dei fattori
produttivi, per gli aggravi economici che impone
alla stazione appaltante, è infatti disciplinato
in ogni sua fase dalla legge e correlato ad un
potere attribuito alla p.a. nell'interesse pubblico,
che perciò opera al di fuori del contratto (nonché delle
spese in esso previste) con effetti
su di esso. Ben vero esso è strutturato come un
procedimento concessorio rimesso alla discrezionalità
dell'amministrazione appaltante.
Conseguentemente, per l'impegno di nuove spese che esso comporta,
il riconoscimento della revisione negli appalti
dei comuni rientrava, già ai sensi del menzionato
R.D. n. 148 del 1915, art. 131, nella competenza
esclusiva del Consiglio comunale a deliberare
"nuove e maggiori spese, nonché lo storno di
fondi da una categoria ad un'altra del bilancio"
(punto 10), e non in quella della G.M. (artt. 139 e
140), che al più, nelle ipotesi di particolare urgenza
-tale da non consentire la convocazione del
Consiglio- poteva adottare in via provvisoria la
relativa deliberazione, tuttavia subordinata quanto
alla sua efficacia alla ratifica del Consiglio comunale.
---------------
Con riferimento al ritardo cagionato
dal finanziamento da parte del terzo si
rende applicabile il principio, già affermato da
questa Corte, secondo cui
l'ente finanziatore
non è tenuto a rivalere il concessionario
della somma che si sia obbligato a versare all'appaltatore,
salvo che non sia stata stipulata una
convenzione accessoria all'atto di concessione, con
la quale l'ente garantisca la tempestiva erogazione
del finanziamento, ovvero la copertura del concessionario
dai rischi derivanti per i ritardi nei pagamenti
dovuti all'appaltatore.
Deve quindi ribadirsi che, in tema di responsabilità
da ritardo del committente nei pagamenti degli
acconti e del saldo quale corrispettivo delle opere
eseguite nell'ambito di rapporto di appalto pubblico,
in favore dell'appaltatore, causato dal ritardo
nell'erogazione del finanziamento da parte di altro
ente pubblico, non può essere esclusa la responsabilità
del debitore per il ritardato pagamento in
quanto i fatti, in apparenza ascrivibili ad un
soggetto terzo-finanziatore, restano imputabili al
committente-debitore in mancanza di una convenzione
ulteriore, con la quale l'ente finanziatore garantisca
al committente la tempestiva erogazione del
finanziamento.
---------------
2.1 - Con il secondo mezzo, denunciandosi violazione
e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs.
C.p.s. n. 1501 del 1947 e degli artt. 139 e 140 del
R.D. n. 148 del 1915, si sostiene che erroneamente
era stato ritenuta la sussistenza di un valido
riconoscimento
del diritto al compenso revisionale,
non essendo a tal fine corretta la valorizzazione
della delibera della Giunta comunale, non ratificata
dal Consiglio comunale.
2.2 - Con il terzo motivo si sostiene che il
riconoscimento
del diritto alla revisione sarebbe validamente
avvenuto soltanto con la delibera Agensud
del 16.01.1991, ragion per cui si sarebbe dovuto
tener conto di tale dato ai fini della determinazione
della decorrenza degli interessi in materia
di revisione.
2.3 - La quarta censura attiene alla violazione
dell'art. 1218 cod. civ. e alla mancata valutazione
delle prove circa l'addebitabilità del ritardo ad
Agensud.
2.4 - Con l'ultimo motivo si deduce la violazione
degli artt. 115 cod. proc. civ. e 1362 cod. civ.,
in merito all'omessa valutazione della clausola con
la quale era stato escluso qualsiasi indennizzo per
il ritardo nei pagamenti.
...
5 - Il secondo mezzo è fondato.
La corte distrettuale, dopo aver precisato che il
soggetto abilitato ad approvare la revisione era il
Comune di Noepoli, per aver stipulato il contratto
di appalto, ha rilevato che "la Giunta del Comune
di Noepoli, in data 10.04.1989, sul presupposto
riconosciuto che i lavori erano stati regolarmente
eseguiti dall'appaltatore, approvò la contabilità
finale dando atto che essa conteneva l'espressa
previsione della revisione prezzi per lire
333.217.878".
5.1 - Il rilievo del ricorrente, secondo cui la
delibera concernete la revisione, il cui riconoscimento
da parte della stazione appaltante era necessario
sulla base del quadro normativo vigente "ratione
temporis", non sarebbe stata approvata
dall'organo competente, è condivisibile.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte in merito al quadro normativo applicabile
nella specie, il diritto dell'appaltatore alla revisione
dei prezzi, sorge (dopo la L. n. 47 del
1973) soltanto per effetto e dal momento del riconoscimento
della revisione medesima da parte dell'amministrazione. Tale
riconoscimento non può
che perfezionarsi con le modalità richieste dalle
norme sull'evidenza pubblica, per i comuni, contenute
nel R.D. n. 148 del 1915, nonché nelle leggi
successive in materia, e deve perciò provenire
necessariamente
dall'organo dell'ente pubblico abilitato
a manifestarne la volontà che è esclusivamente
il Consiglio comunale (Cass., Sez. Un., 25.02.2009, n. 4463; Cass. Sez. Un.,
05.04.2005, n.
6993; Cass. Sez. Un., 03.11.2005, n. 21292).
5.2 - Deve quindi ribadirsi che non può assurgere a
valido ed efficace riconoscimento del diritto
dell'appaltatore alla revisione il provvedimento,
pur espressamente attributivo della revisione stessa,
pur quando adottato dal Sindaco e dalla Giunta
municipale in via d'urgenza, ove la delibera non
sia stata ratificata dal Consiglio Comunale (v. anche
Cass., Sez. Un., 19.03.1999, n. 165).
5.3 - L'istituto della revisione dei prezzi contrattuali,
onde adeguarli ai mutati costi dei fattori
produttivi, per gli aggravi economici che impone
alla stazione appaltante, è infatti disciplinato
in ogni sua fase dalla legge e correlato ad un
potere attribuito alla p.a. nell'interesse pubblico,
che perciò opera al di fuori del contratto (nonché delle
spese in esso previste) con effetti
su di esso. Ben vero esso è strutturato come un
procedimento concessorio rimesso alla discrezionalità
dell'amministrazione appaltante.
Conseguentemente, per l'impegno di nuove spese che esso comporta,
il riconoscimento della revisione negli appalti
dei comuni rientrava, già ai sensi del menzionato
R.D. n. 148 del 1915, art. 131, nella competenza
esclusiva del Consiglio comunale a deliberare
"nuove e maggiori spese, nonché lo storno di
fondi da una categoria ad un'altra del bilancio"
(punto 10), e non in quella della G.M. (artt. 139 e
140), che al più, nelle ipotesi di particolare urgenza
-tale da non consentire la convocazione del
Consiglio- poteva adottare in via provvisoria la
relativa deliberazione, tuttavia subordinata quanto
alla sua efficacia alla ratifica del Consiglio comunale.
Abrogate le nuove competenze degli organi,
introdotte dal R.D. 03.03.1934, n. 383, ad opera
del R.D.L. 04.04.1944, n. 111, art. 13, la L. 09.06.1947, n. 530, art. 25, dispose: "Le attribuzioni
ed il funzionamento dei Consigli e delle
Giunte comunali sono regolati dal testo unico della
legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 04.02.1915, n. 148 e dalle modifiche contenute nel R.D.
30.12.1923, n. 2839". Venne pertanto
ripristinata la competenza del Consiglio comunale a
disporre e/o riconoscere la revisione, che permaneva
dunque sia all'epoca in cui furono stipulati i
contratti di appalto tra le parti, sia a quella
della delibera in esame.
5.4 - La questione sopra indicata si intreccia con
il tema del riconoscimento implicito, in realtà non
affrontato nella decisione impugnata, dovendosi al
riguardo precisare che lo stesso in tanto può comportare
l'insorgere di una valida obbligazione
dell'Amministrazione committente alla revisione dei
prezzi, in quanto la corrispondente manifestazione
volontà provenga in ogni caso dall'organo deliberativo
del soggetto pubblico appaltante (v. la citata
Cass. n. 4463 del 2009 e Cass., Sez. Un., 28.10.1995 n. 11312).
Sotto tale profilo la percezione
di un acconto da parte del Formica, cui si accenna
nella sentenza impugnata (allo scopo di
escludere -in parte qua- il conteggio degli interessi:
pag. 7), in tanto può intendersi come riconoscimento
implicito in quanto riconducibile a una
volontà dell'organo del Comune a tanto abilitato
(cfr., amplius, la citata Cass. n. 4463 del 2009,
in motivazione).
...
7 - Va rilevata, infine, l'infondatezza del quarto
motivo, dovendosi al riguardo richiamare
l'insegnamento di questa Corte secondo cui in materia
di responsabilità contrattuale, l'art. 1218
cod. civ. è strutturato in modo da porre a carico
del debitore, per il solo fatto dell'inadempimento,
una presunzione di colpa superabile mediante la
prova dello specifico impedimento che abbia reso impossibile
la prestazione o, almeno, la dimostrazione
che, qualunque sia stata la causa dell'impossibilità,
la medesima non possa essere imputabile
al debitore.
Peraltro, perché l'impossibilità della
prestazione costituisca causa di esonero del debitore
da responsabilità, non basta eccepire che la
prestazione non possa eseguirsi per fatto del terzo,
ma occorre dimostrare la propria assenza di
colpa con l'uso della diligenza spiegata per rimuovere
l'ostacolo frapposto da altri all'esatto adempimento.
Con particolare riferimento al ritardo cagionato
dal finanziamento da parte del terzo si
rende applicabile il principio, già affermato da
questa Corte (Cass., 23.10.2014, n. 22580;
Cass., 06.06.2013, n. 14340, in motivazione,
proprio in relazione a finanziamenti da parte di
Agensud; v. anche, in fattispecie analoga, Cass.,
16.03.2012, n. 4214), secondo cui l'ente finanziatore
non è tenuto a rivalere il concessionario
della somma che si sia obbligato a versare all'appaltatore,
salvo che non sia stata stipulata una
convenzione accessoria all'atto di concessione, con
la quale l'ente garantisca la tempestiva erogazione
del finanziamento, ovvero la copertura del concessionario
dai rischi derivanti per i ritardi nei pagamenti
dovuti all'appaltatore.
Deve quindi ribadirsi che, in tema di responsabilità
da ritardo del committente nei pagamenti degli
acconti e del saldo quale corrispettivo delle opere
eseguite nell'ambito di rapporto di appalto pubblico,
in favore dell'appaltatore, causato dal ritardo
nell'erogazione del finanziamento da parte di altro
ente pubblico, non può essere esclusa la responsabilità
del debitore per il ritardato pagamento in
quanto i fatti, in apparenza ascrivibili ad un
soggetto terzo-finanziatore, restano imputabili al
committente-debitore in mancanza di una convenzione
ulteriore, con la quale l'ente finanziatore garantisca
al committente la tempestiva erogazione del
finanziamento (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 21.11.2016 n. 23628). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Anche
le istanze manifestamente infondate o reiterative di istanze
analoghe già respinte, non consentono di configurare, a
carico dell’Amministrazione, l’obbligo di provvedere.
---------------
1.4.) Deve pertanto farsi applicazione della consolidata
massima (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. V, n. 273 del
2015), secondo cui anche le istanze manifestamente infondate
o reiterative di istanze analoghe già respinte, non
consentono di configurare, a carico dell’Amministrazione,
l’obbligo di provvedere.
Nella specie, è rimasto indimostrata la situazione di
pericolo anche ai fini di cui all’art. 54 t.u. enti locali;
sono rimasti inoppugnati i provvedimenti di diniego la cui
non riferibilità all’Amministrazione avrebbe dovuto essere
dedotta con apposito ricorso; è acclarato che le previsioni
di piano operano per il futuro e che lo strumento
urbanistico in vigore fino al 1995–1997 imponeva (e non
ricusava) le alberature; né si può certamente pretendere che
il comune, man mano che crescano gli alberi sia obbligato a
potarli, anche in considerazione della ulteriore circostanza
che le previsioni del piano si riferiscono letteralmente
agli spazi liberi al momento della sua entrata in vigore
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.11.2016 n. 4836 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’indennità
prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli
paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno)
che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale, con conseguente applicabilità anche a tale
sanzione del principio contenuto nell’art. 28 l. n.
689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni
amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel
termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare, "Con riguardo all’individuazione del dies a quo
della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto
della particolare natura degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano
nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni
e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di
talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di
illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte
autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui
all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere
solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la
“permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione
comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione
pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che,
secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche
in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la
permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in
sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a
fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione
di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al
vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il
proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che
costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle
opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare
diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile
dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda
rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere
alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità
destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel
procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due
tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che
l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se
venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa
violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega
alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne
consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria
costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del
1981”.
---------------
Ricorso straordinario proposto dalla Signora LA.Nu. avverso il decreto del dirigente servizio del
Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità
siciliana, n. 2184 del 07.08.2014, di ingiunzione di
pagamento indennità ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004. Istanza
di sospensione.
...
1. Con atto notificato all’Assessorato regionale dei beni
culturali e dell’identità siciliana –Soprintendenza per i
beni culturali ed ambientali di Messina– con raccomandata a.r. del 19.01.2015 e trasmesso all’Ufficio riferente
con raccomandata a.r. del 30.01.2015, la Signora La.Nu. ha proposto ricorso straordinario per
l’annullamento, previa sospensione:
- del decreto n. 2184 del 07.08.2014, a firma del
dirigente del Servizio tutela e acquisizioni del
Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità
siciliana, delegata alla firma dal Dirigente generale, con
il quale, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, come
sostituito dall’art. 27 del d.lgs. n. 157/2006, è stato
ingiunto il pagamento della somma di euro 9.398,00, quale
indennità per il danno causato al paesaggio con la
realizzazione di opere abusive in area di notevole interesse
paesaggistico senza il preventivo nullaosta della
Soprintendenza, consistenti nella realizzazione di un corpo
di fabbrica in località Tufo del Comune di Lipari, foglio di
mappa n. 97, particella 214;
- di ogni altro atto presupposto inerente e consequenziale
al suddetto provvedimento.
In punto di fatto la ricorrente premette di avere presentato
al Comune di Lipari, in data 01.04.1986, domanda di
concessione edilizia in sanatoria, ai sensi della l. n.
47/1985, per la costruzione di un corpo di fabbrica adibito
a civile abitazione. La pratica è stata istruita, acquisendo
anche il parere favorevole, con prescrizioni, della
Soprintendenza di Messina n. 7284 del 27.10.1997 ed è
stata quindi rilasciata concessione edilizia in sanatoria n.
180 del 17.06.2004.
In data 07.08.2014 veniva poi emesso il D.D.S. n.
2184/2014, oggi impugnato.
2. Il ricorso è affidato al seguente motivo: il decreto
impugnato avente natura di atto amministrativo definitivo,
risulta illegittimo stante la intervenuta perenzione della
pretesa impositiva a seguito di prescrizione del relativo
diritto.
Giusta il disposto di cui all’art. 28 l. n. 689/1981, la
sanzione della quale si discute deve ritenersi ormai
prescritta essendo trascorso il periodo di cinque anni dalla
data di rilascio della concessione edilizia in sanatoria –17.06.2004– a quello della notifica del decreto
impugnato –11.10.2014– che tale sanzione irroga.
3. Con nota n. 18376 del 16.04.2015 il Dipartimento
regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana ha
trasmesso un rapporto sul suddetto ricorso, corredato dai
relativi atti, affermando la imprescrittibilità del potere
sanzionatorio della P.A. in materia di sanzioni
paesaggistiche.
...
Quanto sopra premesso, il Collegio ritiene che si possa
entrare nel merito del ricorso la cui motivazione è
incentrata sulla intervenuta perenzione della pretesa
impositiva, a seguito di prescrizione del relativo diritto.
Sulla linea dell’orientamento espresso, con indirizzo ormai
costante, sia dal Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 11.04.2007, n. 1585; Id. 12.03.2009, n. 1464; Id. 23.03.2010, n. 2160) che dalle Sezioni riunite di questo
Consiglio (Cons. giust. sic., sezioni riunite, 08.11.2011, n. 188/2011; Id., 21.02.2012, n. 28/2012) e dal
Consiglio di giustizia amministrativa in sede
giurisdizionale (n. 123 del 13.03.2014), occorre in
primis affermare che l’indennità prevista per abusi edilizi
in zone soggette a vincoli paesaggistici, costituisce vera e
propria sanzione amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla
sussistenza effettiva di un danno ambientale, con
conseguente applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 l. n. 689/1981, secondo cui
“il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni
amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel
termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare nella sentenza sopra citata del Consiglio di
Stato n. 1464/2009, che ripercorre sul tema (richiamandoli)
i punti fermi dell’elaborazione giurisprudenziale, è
affermato “Con riguardo all’individuazione del dies a quo
della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto
della particolare natura degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano
nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni
e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di
talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di
illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte
autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui
all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere
solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la
“permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione
comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione
pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che,
secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche
in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la
permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in
sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a
fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione
di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al
vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il
proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che
costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle
opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare
diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile
dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda
rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere
alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità
destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel
procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due
tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che
l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se
venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa
violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega
alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne
consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria
costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del
1981”.
Nel caso di specie il rilascio della concessione edilizia in
sanatoria è avvenuto il 17.06.2004, sicché la
prescrizione dell’illecito è maturata il 17.06.2009, e
quindi assai prima che fosse irrogata la sanzione impugnata
con il presente ricorso.
Quest’ultima, dunque, è illegittima come rilevato con
l’unico motivo di ricorso, giacché irrogata a credito
sanzionatorio prescritto.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto con
assorbimento dell’istanza di sospensione cautelare
(CGARS,
parere 21.11.2016 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
gravato provvedimento comunale di autotutela risulta viziato
anche sotto il profilo della violazione di legge, per essere
stato adottato ad una lunghissima distanza temporale
dall’adozione degli atti oggetto di ritiro in violazione
dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
E infatti, il presupposto della legittimità del potere di
autotutela decisoria individuato sin dall’immediato varo
dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990 avvenuto con la
L. n. 15 del 2005, consiste nella tempestività
dell’esercizio del potere stesso, ossia nel dispiegarsi di
esso entro un ragionevole lasso di tempo decorrente tra il
provvedimento oggetto di ritiro in autotutela e quello
mediante il quale la stessa si estrinseca.
Orbene, l’art. 21–nonies della L. n. 241/1990, inserito
dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15,
stabilisce sin dalla sua prima versione, vigente ed
applicabile al provvedimento impugnato, che “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge”.
Successivamente, nel corpo della norma è stato inserito
l’inciso in forza del quale il termine ragionevole deve
essere “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il
provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20”,
disposizione recata dall'articolo 6, comma 1, lettera d),
numero 1), della Legge 07.08.2015, n. 124 (c.d. Riforma
Madìa, in vigore dal 28.08.2015).
In disparte la riportata ultima definizione normativa, nella
sua estensione massima, del termine ragionevole, già
l’originario testo dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990
statuiva, dunque, la necessità che il provvedimento di
secondo grado venisse adottato entro un termine ragionevole,
la cui concreta individuazione era opera della
giurisprudenza, che all’uopo ha valorizzato i più svariati
fattori, onde tutelare l’affidamento incolpevole che il
privato destinatario del provvedimento di primo grado,
eventualmente accrescitivo della sua sfera giuridica, avesse
riposto nel silenzio dell’Amministrazione sull’assetto di
interessi creato dall’atto amministrativo sul quale solo
successivamente essa intervenga in via di autotutela c.d.
decisoria.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di
Termoli, prot. n. 18624 del 12.06.2009 con il quale, in
esecuzione delle deliberazione di G.C. n. 202 del
05.06.2009, è stato concluso il procedimento di declaratoria
di nullità e/o annullamento in autotutela delle delibere
giuntali n. 241 del 07.11.2000 e n. 142 del 24.05.2002,
nonché di tutti gli atti precedenti e/o presupposti.
...
Accertato il tempestivo deposito del ricorso può ora
passarsi allo scrutinio del merito delle censure proposte da
parte ricorrente che, data la stretta connessione che le
connota, possono esaminarsi congiuntamente.
Esse sono fondate alla stregua delle considerazioni che di
seguito si espongono.
Occorre preliminarmente rammentare che, secondo quanto
affermato da parte ricorrente e non contestato, tra le parti
è intercorso un accordo per la revisione del criterio di
determinazione delle tariffe del servizio idrico mediante la
sostituzione del criterio precedentemente impiegato del
costo con quello del consumo, sulla base dell’attribuzione
ad un tecnico designato dalle parti del compito di definirne
le modalità di calcolo.
Il tecnico ha svolto l’incarico, stabilendo un criterio che
ha dato luogo ad una diversa commisurazione tariffaria,
aumentando l’importo dovuto, il cui incremento ha generato
una cospicua morosità da parte del Comune accumulata nel
corso degli anni. Ne è derivata l’instaurazione di un
procedimento arbitrale, previsto nella relativa convenzione
accessiva, che si è concluso con la condanna del Comune al
pagamento della morosità per un importo di euro 259.666,95
in favore della società ricorrente quale corrispettivo
dell’erogazione del servizio idrico negli anni dalla
modifica del criterio di tariffazione fino al 2008.
Dopo la condanna subita in sede arbitrale, il Comune ha
adottato il gravato provvedimento in autotutela con il quale
ha ritirato i provvedimenti che avevano dato il via libera
all’aumento delle tariffe e, come detto, alla formazione
della predetta rilevante morosità.
Sennonché, in tal modo, il Comune ha posto in essere una
condotta finalizzata ad eludere l’osservanza dell’obbligo
nascente dal lodo arbitrale, realizzando così una
strumentalizzazione del fine pubblico inquadrabile
nell’ambito dello sviamento di potere, avendo utilizzato lo
strumento dell’autotutela per sottrarsi unilateralmente alla
vincolatività di un lodo arbitrale al quale aveva peraltro
partecipato, proponendo ritualmente le proprie difese.
Ma il gravato provvedimento di autotutela risulta viziato
anche sotto il profilo, dedotto da parte ricorrente, della
violazione di legge, per essere stato adottato ad una
lunghissima distanza temporale dall’adozione degli atti
oggetto di ritiro in violazione dell’art. 21-nonies della l.
n. 241/1990.
E infatti, il presupposto della legittimità del potere di
autotutela decisoria individuato sin dall’immediato varo
dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990 avvenuto con la
L. n. 15 del 2005, consiste nella tempestività
dell’esercizio del potere stesso, ossia nel dispiegarsi di
esso entro un ragionevole lasso di tempo decorrente tra il
provvedimento oggetto di ritiro in autotutela e quello
mediante il quale la stessa si estrinseca.
Orbene, l’art. 21–nonies della L. n. 241/1990, inserito
dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n.
15, stabilisce sin dalla sua prima versione, vigente ed
applicabile al provvedimento impugnato, che “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'
articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge”. Successivamente, nel
corpo della norma è stato inserito l’inciso in forza del
quale il termine ragionevole deve essere “comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento
si sia formato ai sensi dell'articolo 20”, disposizione
recata dall'articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1), della
Legge 07.08.2015, n. 124 (c.d. Riforma Madìa, in vigore
dal 28.08.2015).
In disparte la riportata ultima definizione normativa, nella
sua estensione massima, del termine ragionevole, già
l’originario testo dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990
statuiva, dunque, la necessità che il provvedimento di
secondo grado venisse adottato entro un termine ragionevole,
la cui concreta individuazione era opera della
giurisprudenza, che all’uopo ha valorizzato i più svariati
fattori, onde tutelare l’affidamento incolpevole che il
privato destinatario del provvedimento di primo grado,
eventualmente accrescitivo della sua sfera giuridica, avesse
riposto nel silenzio dell’Amministrazione sull’assetto di
interessi creato dall’atto amministrativo sul quale solo
successivamente essa intervenga in via di autotutela c.d.
decisoria.
In chiave ricognitiva della stratificazione normativa
succedutasi nel tempo in ordine alla tematica del
ragionevole termine di annullamento di provvedimenti
amministrativi ad efficacia durevole, rammenta anche il
Collegio come sul punto si profili rilevante, in quanto
direttamente disciplinante l’annullamento di provvedimenti
ampliativi incidenti su rapporti convenzionali o
contrattuali intercorrenti tra la P.A. e i privati (qual è
indiscutibilmente il caso all’esame), la disposizione
dell’art. 1, comma 136, della L. 30.12.2004 n. 311
(Legge Finanziaria per il 2005).
Tale norma, pienamente vigente fino alla sua abrogazione
operata con l’art. 6, comma 2, della L. 07.08.2015, n. 124
appena citata, stabiliva che: “Al fine di conseguire
risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni
pubbliche, può sempre essere disposto l'annullamento di
ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche
se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso.
L'annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti
incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con
privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale
pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può
essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di
efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione
sia perdurante”.
Orbene, considerato che, come si è or ora avvertito, tale
norma è stata espunta dall’ordinamento solo con l’art. 6
della L. n. 124 del 07.08.2015, doveva fondatamente
predicarsene la sua doverosa applicazione da parte del
Comune resistente, allorquando è stato assunto l’impugnato
provvedimento 12.06.2009 discendendone che in forza
della disposizione in disamina esso è illegittimo poiché
adottato oltre il tempo massimo di tre anni entro il quale,
in applicazione dell’art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004
poteva essere annullato d’ufficio un provvedimento
amministrativo illegittimo ad efficacia durevole –quali
quelli oggetto di autotutela con i quali si era stato
stabilito di definire nuovi criteri tariffari– incidente su
rapporti contrattuali o convenzionali intercorrenti tra la
P.A. (Comune di Termoli) e i privati (nella specie, la
società ricorrente) ed avente ad oggetto il servizio idrico.
Ne consegue la evidente illegittimità del gravato
provvedimento del Comune di Termoli del 12.06.2009 (prot.
n. 18624), in quanto adottato a distanza di quasi nove anni
dal primo provvedimento oggetto di ritiro, con la
conseguenza che esso deve essere annullato per violazione
dell’art. 21-nonies, L. 07.08.1990, n. 241, interpretato alla
luce dell’art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004, norma che
costituiva dunque positivizzazione legislativa del principio
del termine ragionevole (Consiglio di Stato, sez. III, 17.11.2015, n. 5259).
Tale esegesi è stata sposata anche dal giudice
amministrativo di prime cure, che ha del pari affermato che
“Il limite di tre anni previsto dall'art. 1 comma 136, l. 30.12.2004 n. 311, per annullare d'ufficio provvedimenti
incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con i
privati traduce in un dato concreto il parametro
indeterminato del “termine ragionevole” di cui all'art. 21-nonies, l.
07.08.1990 n. 241 previsto in via generale per
l'esercizio di tale potere. Esso individua legislativamente
un punto di equilibrio tra il potere di annullamento
d'ufficio per ragioni di convenienza economico-finanziaria e
l'esigenza di certezza nei rapporti contrattuali tra
pubblica amministrazione e privati, e non lascia quindi
alcuno spazio ulteriore per l'esercizio dell'autotutela
finalizzata a evitare un illegittimo esborso di denaro
pubblico” (TAR Toscana, Sez. I, 21.02.2013 n. 263).
Sotto altro e connesso profilo, poi, l’inerzia comunale
protratta per circa nove anni non può non aver ingenerato
nella società ricorrente un affidamento legittimo ed
incolpevole nella definitività dei provvedimenti oggetto di
autotutela; affidamento che non è escluso dalla mancata
adozione degli atti di copertura finanziaria da parte del
Comune.
Ed infatti, un tale accertamento non spettava alla parte
privata che non poteva certo essere onerata di verificare
l’adozione degli atti di impegno di spesa, senza considerare
che i provvedimenti impugnati non determinavano l’ammontare
del maggior esborso gravante sull’Amministrazione, atteso
che l’esatta commisurazione di esso sarebbe derivata dal
concreto consumo idrico.
In definitiva il provvedimento impugnato è illegittimo, il
ricorso deve essere accolto e il provvedimento impugnato
annullato
(TAR Molise,
sentenza 21.11.2016 n. 480 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
biomassa non stoccata è un rifiuto. Tar Toscana.
Va classificata come rifiuto la biomassa agricola se non è
ben stoccata. Se è vero che i materiali agricoli utilizzati
per produrre energia sono esclusi dalla disciplina sui
rifiuti, l'esclusione vale fintantoché vengono utilizzati
per produrre energia e non già quando vengano abbandonati.
L'attività di bonifica e ripristino ambientale esula dalle
competenze del sindaco.
Questo è il
principio espresso dal TAR Toscana, con la
sentenza 18.11.2016 n. 1611 in merito alla
classifica della biomassa agricola.
I giudici hanno sottolineato che l'articolo 192 del dlgs
152/2006 attribuisce al Sindaco unicamente il potere di
dettare le operazioni necessarie per la rimozione, l'avvio a
recupero e lo smaltimento dei rifiuti e il ripristino dello
stato dei luoghi.
Pertanto, l'ordinanza sindacale travalica tali limiti
laddove disponga anche altri adempimenti e in particolare di
presentare un piano di investigazione sull'integrità del
suolo dove sono stati stoccati i materiali nonché, se
necessario, anche un piano di ripristino
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2016).
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MASSIMA
4. Nel merito il ricorso è parzialmente fondato, nei termini
che seguono.
4.1 Il primo e il terzo motivo devono essere
respinti poiché, come si evince dalla documentazione
fotografica dei rilievi svolti da ARPAT e allegata al
verbale n. 427 del sopralluogo effettuato il 10.07.2015, il
materiale si presentava in stato di abbandono e non era
stoccato per l’alimentazione della centrale a biomasse.
Le foto 7 e 8, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso,
mostrano la presenza di notevoli quantità di insilato; due
foto entrambe numerate con il numero 9 mostrano l’una,
residui di insilato sulla scarpata sovrastante il torrente
Riomaggio; l’altra, un silobag squarciato con dispersione
del materiale sul terreno in notevole quantità, materiale
che, ove avesse rivestito interesse per la ricorrente,
questa si sarebbe affrettata a raccogliere e conservare.
Non è poi contestata la circostanza che nell’impianto siano
stati reperiti solo tre silobag, e la dispersione di
materiale in tale quantità non sarebbe potuta derivare
accidentalmente da operazioni di insilamento con riferimento
a tra soli silobag.
Non appare quindi credibile la tesi sostenuta dalla
ricorrente, secondo la quale durante i sopralluoghi sarebbe
stata riscontrata una modica quantità di materiale, caduta
accidentalmente durante l’inserimento nei contenitori
silobag; lo stato dei luoghi mostra invece che trattasi di
rifiuti abbandonati come sostenuto nell’ordinanza impugnata
e nel rapporto di ARPAT.
Il materiale de quo risulta
abbandonato sul terreno, e ciò evidenzia l’intenzione della
ricorrente di disfarsene e correttamente, quindi, il
Sindaco, nell’esercizio delle proprie competenze di cui
all’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006, ha impartito
l’ordine di rimuoverlo.
Quanto qui dedotto appare sufficiente ad escludere la
sussistenza di vizi nell’istruttoria condotta dalle
Amministrazioni intimate, con conseguente reiezione per
infondatezza anche del terzo motivo di ricorso.
Quanto poi alla destinazione, agricola o meno, dei piazzali
è inconferente il richiamo, contenuto nel ricorso, alla
P.A.S. n. 7/2014 poiché la ricorrente in tal modo dà per
dimostrato ciò che invece è in discussione, ovvero che il
terreno non sia stato trasformato e sia (ancora) adibito ad
attività rientranti tra quelle agricole.
Non è però contestata l’affermazione di ARPAT, che il
terreno è stato compattato con l’apporto di materiali
sabbiosi e detriti rocciosi facendo venir meno la
possibilità di utilizzarlo a fini agricoli, e la circostanza
deve quindi ritenersi acquisita ex art. 64, comma 2, c.p.a.
I piazzali risultano adibiti ad aree di deposito ed
è così venuta meno la loro destinazione ad uso agricolo,
come correttamente sostenuto dalle Amministrazioni intimate.
4.2 Il secondo motivo è invece fondato poiché
l’articolo 192 del d.gs. 152/2006 attribuisce al
Sindaco unicamente il potere di dettare le operazioni
necessarie per la rimozione, l’avvio a recupero e lo
smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi.
Nel caso di specie l’ordinanza sindacale ha travalicato
detti limiti laddove ha disposto anche altri adempimenti
(punti 2 e 3 del provvedimento impugnato), e in particolare
di presentare un piano di investigazione sull’integrità del
suolo dove sono stati stoccati i materiali nonché, se
necessario, anche un piano di ripristino. Trattasi di
adempimenti che rientrano nell’attività di bonifica e
ripristino ambientale, materia che esula dalle competenze
sindacali come correttamente lamenta la ricorrente, |
APPALTI:
La Corte di giustizia dell’Unione europea fissa le
condizioni per l’esclusione automatica di una impresa che in
sede di gara non abbia indicato separatamente gli oneri di
sicurezza aziendali c.d. interni avallando, nella sostanza,
la soluzione propugnata dalla più recente giurisprudenza
dell’Adunanza plenaria.
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Appalti pubblici – Oneri di sicurezza aziendale – Omessa
separata indicazione - Esclusione – Limiti.
Il principio della parità di
trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla
direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso
che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo
di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per
la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è
sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara o dalla
normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di
tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le
lacune presenti in tali documenti.
I principi della parità di trattamento e di proporzionalità
devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano
al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di
rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro
un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice (1).
-------
(1) I.- Nel rispondere ad una questione sollevata dal Tar
Molise, nell’ambito di un giudizio proposto dalla seconda e
terza classificata avverso il provvedimento di
aggiudicazione in favore della prima impresa, la Corte
afferma il principio secondo cui la mancata indicazione
separata degli oneri di sicurezza non può portare
all’esclusione laddove non espressamente statuito dagli atti
di gara ovvero dalla legislazione nazionale, dovendo in tal
caso la stazione appaltante garantire il soccorso
istruttorio.
II. - Il ragionamento seguito dalla Corte europea, oltre a
richiamare un recente precedente -sentenza sez. VI,
02.06.2016, C-27715, Pippo Pazzo, oggetto della News US in
data 05.07.2016 secondo cui: <<Il principio di parità di
trattamento e l'obbligo di trasparenza devono essere
interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un
operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di
tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente
dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto
nazionale vigente, bensì da un'interpretazione di tale
diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a
colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici
amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali
documenti. In tali circostanze, i principi di parità di
trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati
nel senso che non ostano al fatto di consentire
all'operatore economico di regolarizzare la propria
posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine
fissato dall'amministrazione aggiudicatrice>>- muove dal
richiamo a due principi: da un lato, quello di parità di
trattamento (a mente del quale tutti gli offerenti
dispongono delle stesse possibilità nella formulazione dei
termini e delle medesime condizioni); dall’altro, quello di
trasparenza (in base al quale vanno eliminati i rischi di
favoritismo e di arbitrio da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice).
Tali obblighi impongono quindi che tutte le condizioni e le
modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate
in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel
capitolato d’oneri.
I medesimi principi impongono che le condizioni sostanziali
e procedurali relative alla partecipazione a un appalto
siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche.
L’amministrazione aggiudicatrice può precisare o può essere
obbligata dalla legge nazionale a precisare nel capitolato
l’organismo o gli organismi dai quali i candidati o gli
offerenti possono ottenere le pertinenti informazioni sugli
obblighi relativi alla fiscalità, alla tutela dell’ambiente,
alle disposizioni in materia di sicurezza e alle condizioni
di lavoro che sono in vigore nello Stato membro. Tuttavia,
la Corte esclude che la mancanza di indicazioni, da parte
degli offerenti, del rispetto di tali obblighi possa
determinare automaticamente l’esclusione dalla procedura di
aggiudicazione.
In tale contesto, una condizione derivante
dall’interpretazione del diritto nazionale e dalla prassi di
un’autorità –così viene qualificata la giurisprudenza della
Adunanza plenaria richiamata in sede di inquadramento
preliminare (cfr. sentenze 20.03.2015, n. 3 e 02.11.2015, n.
9, rispettivamente in Foro it., 2016, III, 114 con nota di
TRAVI e III, 65, con nota di CONDORELLI)- sarebbe
particolarmente sfavorevole per gli offerenti stabiliti in
altri Stati membri, il cui grado di conoscenza del diritto
nazionale e della sua interpretazione nonché della prassi
delle autorità nazionali non può essere comparato a quello
degli offerenti nazionali.
Pertanto, se la necessaria indicazione separata degli oneri
della sicurezza non è espressamente prevista a monte dalle
leggi di gara, l’amministrazione aggiudicatrice può (rectius
deve) accordare all’offerente escluso un termine sufficiente
per regolarizzare la sua omissione.
III. - Giova evidenziare che la soluzione cui è approdata la
Corte del Lussemburgo è stata sostanzialmente anticipata
dall’Adunanza
plenaria 27.07.2016, n. 19 (oggetto della
News US in data 01.08.2016, cui si rinvia per
ogni ulteriore approfondimento ), secondo cui <<per le
gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del nuovo
codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, qualora l’obbligo di indicazione separata
dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato
dalla legge di gara e dalla modulistica allegata ma sia
assodato che sostanzialmente l’offerta abbia tenuto conto
dei costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del
concorrente non può essere disposta se non dopo che lo
stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla
stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di
soccorso istruttorio>>.
Per l’indicazione delle ulteriori questioni rimesse dai
giudici amministrativi italiani alla Corte di giustizia UE
in materia di oneri di sicurezza, si rinvia alla News US in
data 19.02.2016 (Corte
Giust. UE, Sez. VI,
ordinanza 10.11.2016 - C-140/16 + Corte Giust.
UE, Sez. VI,
ordinanza 10.11.2016 - C-162/16 + Corte Giust.
UE, Sez. VI,
ordinanza 10.11.2016 - C-697/15 - commento tratto
da
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 («Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga […]»), l'effetto decadenziale si
riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei
lavori entro il termine annuale fissato dalla legge.
In altri termini «la decadenza del permesso di costruire
costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo,
che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un
anno dal rilascio del titolo abilitativo».
La pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha
carattere strettamente vincolato all'accertamento del
mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini
stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi
attuazione.
Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta
l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso.
---------------
Il termine di durata del permesso edilizio non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
Pertanto, l’assunto della ricorrente sulla natura di factum
principis della controversia giudiziaria con l’impresa e il
direttore lavori deve essere respinto.
---------------
Circa l’interpretazione dell’art. 30, comma 3, del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98, è chiaro il
tenore letterale della disposizione secondo cui la stessa si
applica solo nelle ipotesi in cui il termine per l’inizio
dei lavori non sia già scaduto al momento dell’entrata in
vigore del decreto-legge citato.
---------------
La dichiarazione del direttore dei lavori, riferita allo
stato dei lavori eseguiti prima della ripresa dei lavori
avvenuta nel dicembre 2014, indica una serie di opere
(adeguamento e potenziamento centrale termica esistente;
scavi e pozzetti scarichi fognari di pertinenza della
dependance; realizzazione piattaforma per posizionamento
gru) che non integrano un effettivo inizio di esecuzione
delle opere oggetto della concessione.
E ciò sulla scorta della consolidata giurisprudenza secondo
cui «l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza
della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando
le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva
volontà di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente
il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione
degli strumenti e materiali di costruzione.
Detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile
per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di
sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto
l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che
dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino
alla loro ultimazione.
---------------
1. – Con il ricorso in esame, la società Mi.Fi.
s.r.l. chiede l’annullamento dell’ordinanza n. 8 del 21.04.2015, notificata il 15.05.2015, con la quale il
Comune di Olbia ha ordinato alla società di demolire le
opere realizzate senza concessione edilizia (nell’immobile
censito al Foglio 2, Map. 1508, sub 3, del catasto del
Comune di Olbia), in quanto i relativi lavori sarebbero
stati iniziati dopo il decorso del termine annuale di inizio
previsto nella concessione edilizia n. 322/11, rilasciata
alla Mi.Fi. s.r.l. in data 31.10.2011.
2. - Nella motivazione dell’ordinanza, si richiama il
rapporto del servizio prevenzione abusi, redatto a seguito
del sopralluogo effettuato il 07.01.2015 presso
l’immobile in questione, nel corso del quale sarebbero state
accertate le opere edilizie abusive oggetto dell’ordinanza
di demolizione.
Dal verbale del sopralluogo risulta che i
funzionari del servizio comunale, intervenuti mentre nel
cantiere si svolgeva attività edilizia, sul presupposto che
la concessione edilizia era stata rilasciata in data 31.10.2011, informavano il responsabile del cantiere che i
lavori avrebbero dovuto essere iniziati entro un anno dal
rilascio, pena la decadenza dalla concessione.
Il
responsabile dichiarava che «i lavori hanno avuto inizio nel
mese di dicembre 2014 sotto la direzione del Geom. Antonio
Pinna». Sulla scorta di quanto attestato nel verbale di
sopralluogo, il dirigente del servizio ha adottato,
dapprima, l’ordinanza di sospensione dei lavori (n. 1 dell’08.01.2015, anch’essa impugnata col ricorso in esame); e
successivamente l’ordinanza di demolizione, ritenendo che le
opere fossero state «iniziate abbondantemente dopo un anno
dal rilascio della Concessione Edilizia n. 322/11…», e
pertanto da considerare abusive.
...
3. - Passando all’esame delle altre censure, è infondato
l’assunto che l’ordinanza avrebbe dovuta essere preceduta
dalla dichiarazione di decadenza della concessione per il
mancato rispetto del termine di inizio lavori.
Sul punto è
sufficiente richiamare la giurisprudenza nettamente
prevalente del Consiglio di Stato, dalla quale il Collegio
non ritiene di doversi discostare, secondo cui, ai sensi
dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 («Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga […]»), l'effetto decadenziale si
riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei
lavori entro il termine annuale fissato dalla legge; in
altri termini «la decadenza del permesso di costruire
costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo,
che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un
anno dal rilascio del titolo abilitativo» (Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2014, n. 1747; in tal senso,
ex multis, anche
Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870: «la pronunzia
di decadenza del permesso a costruire ha carattere
strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla
norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal
rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura
ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a
costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione»).
Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta
l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso
(Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870; nonché, TAR
Sardegna, sez. II, 04.05.2015, n. 741).
4. - Sotto altro profilo, rilevante nella fattispecie in
esame, in giurisprudenza si sottolinea che «il termine di
durata del permesso edilizio non può mai intendersi
automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre
necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di
Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)» (Cons. St., sez. III,
04.04.2013, n. 1870).
Pertanto, l’assunto della ricorrente
sulla natura di factum principis della controversia
giudiziaria con l’impresa e il direttore lavori [di cui al
punto 4) della esposizione di cui sopra] deve essere
respinto.
5. - E’ del tutto infondata anche l’interpretazione
dell’art. 30, comma 3, del decreto-legge 21.06.2013, n.
69, convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013,
n. 98, esposta al punto 5) di cui sopra, poiché dal chiaro
tenore letterale della disposizione emerge che la norma si
applica solo nelle ipotesi in cui il termine per l’inizio
dei lavori non sia già scaduto al momento dell’entrata in
vigore del decreto-legge citato.
6. - Rimangono da esaminare i rilievi sollevati dalla
ricorrente sotto il profilo del difetto di istruttoria e di
motivazione (punto 3 dell’esposizione di cui sopra).
6.1. - Sul punto, le censure della ricorrente non possono
essere condivise.
6.2. - Come accennato, la motivazione dell’ordinanza si basa
sugli accertamenti istruttori effettuati in occasione del
sopralluogo dei funzionari del servizio “Controllo Edilizia
e Prevenzione Abusi” del Comune di Olbia, nonché sulla
documentazione fotografica dello stato dell’area (al 07.04.2014) in cui dovevano essere iniziati i lavori di cui
alla concessione n. 322/11, acquisita mediante “Google Earth”
(cfr. il rapporto dell’08.01.2015 e la documentazione
fotografica allegata, doc. 2 della produzione del Comune di
Olbia).
In particolare, da tali risultanze fotografiche appare
evidente che ancora alla data del 07.04.2014 nessun
intervento fosse stato iniziato nella proprietà della MI.FI. srl. Il che, costituisce un indiretto
riscontro delle dichiarazioni del responsabile del cantiere,
acquisite durante il sopralluogo del 07.01.2015
(dichiarazioni, secondo cui i lavori sarebbero iniziati solo
nel dicembre 2014).
6.3. - Peraltro, sotto altro connesso profilo, la
dichiarazione del direttore dei lavori (rilasciata il 25.05.2015 e prodotta da parte ricorrente quale all. 17
della produzione documentale depositata il 26.05.2016),
riferita allo stato dei lavori eseguiti prima della ripresa
dei lavori avvenuta nel dicembre 2014, indica una serie di
opere (adeguamento e potenziamento centrale termica
esistente; scavi e pozzetti scarichi fognari di pertinenza
della dependance; realizzazione piattaforma per
posizionamento gru) che non integrano un effettivo inizio di
esecuzione delle opere oggetto della concessione.
E ciò
sulla scorta della consolidata giurisprudenza, fatta propria
anche dalla Sezione, secondo cui «l’inizio dei lavori idoneo
ad impedire la decadenza della concessione edilizia può
ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali
da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare l’opera,
non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del
terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di
costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n.
1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori
di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa
a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri
indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
03.10.2000, n. 5242)» (TAR Sardegna, sez. II, 04.05.2015, n. 741)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.11.2016 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
opere consistenti nella realizzazione di un solaio in legno,
con piano di calpestio in tavolato ligneo della superficie
di circa 130 mq., collegato al locale sottostante con una
scala in legno.
Le variazioni di superficie, quando
collegate al frazionamento o accorpamento di unità
immobiliari originariamente distinte, rientrano tra le opere
di manutenzione straordinaria e non fra gli
interventi di ristrutturazione edilizia; il che significa,
ulteriormente, che le variazioni di superficie non
determinano, sotto il profilo giuridico, la nascita di un
organismo diverso dal precedente.
A maggior ragione, il
discorso deve valere per le eventuali modifiche della
superficie nelle singole unità immobiliari,
indipendentemente dall’accorpamento o frazionamento delle
stesse; purché, ovviamente, «non sia modificata la
volumetria complessiva degli edifici.
Ne deriva come conseguenza che se anche si dovesse ritenere
che, nella fattispecie, il solaio in legno realizzato dalla
ricorrente sia anche in parte utilizzabile come superficie
calpestabile, questo elemento non consentirebbe di
qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, non
potendosi individuare alcun organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione e
rimessa in pristino datata 17.04.2015 n. 61/URB (pratica
sorveglianza edilizia n. 14618.20) notificata il 20.04.2015,
a firma del Dirigente del Servizio Edilizia Privata del
Comune di Cagliari, notificata in data 20.04.2015;
...
1. - Con il ricorso in esame, la sig.ra Ca.Si. chiede
l’annullamento dell’ordinanza n. 61 del 17.04.2015, con
la quale il dirigente del Servizio edilizia privata del
Comune di Cagliari ha disposto la demolizione delle opere
abusive realizzate all’interno dell’unità immobiliare sita
in Cagliari, Via ... n. ..., piano secondo, di
proprietà dell’odierna ricorrente.
Secondo la motivazione della predetta ordinanza, le opere
(consistenti nella realizzazione di un solaio in legno, con
piano di calpestio in tavolato ligneo della superficie di
circa 130 mq., collegato al locale sottostante con una scala
in legno) sarebbero state realizzate in assenza di permesso
di costruire; titolo che sarebbe stato necessario, in quanto
l’intervento realizzato rientrerebbe nell’ambito della
ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 10 del D.P.R.
n. 380/2001 e dell’art. 3 della legge regionale 15.10.1985, n. 23, configurando un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente, con la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi l’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi.
...
1. Con il primo motivo, la ricorrente –sul presupposto che
i lavori in questione debbano essere qualificati come opere
interne, la cui esecuzione non è, quindi, subordinata ad
alcun titolo abilitativo– rileva che le opere risultano
assentite sulla base della comunicazione al Comune,
effettuata il 02.03.2001, prot. n. 3505; e, per quanto
riguarda la scala di accesso al sottotetto, con la
comunicazione opere interne datata 03.11.2003, prot. n.
78673; nonché, con la comunicazione opere interne del 24.03.2014, prot. n. 74017 (lavori resisi necessari in
esecuzione della sentenza civile pronunciata nel contenzioso
con la confinante Sa.An.Ma.Gr.).
Sotto altro
profilo, la ricorrente deduce il difetto di motivazione
dell’ordinanza impugnata, perché non vengono individuati gli
specifici elementi che giustificherebbero la diversa
qualificazione delle opere come “intervento di
ristrutturazione edilizia”, né viene precisato per quali
elementi l’organismo edilizio risultante dai lavori
effettuati dalla ricorrente sia in tutto o in parte diverso
dal precedente.
In ogni caso, la ricorrente contesta le possibili
motivazioni che potrebbero avere indotto l’amministrazione a
pronunciarsi in tal senso. In particolare, se tali ragioni
debbono essere individuate nel fatto che il nuovo solaio è
stato abbassato di un metro, diventando una copertura
calpestabile da considerare come superficie utile, la
ricorrente precisa che –sulla base della apposita perizia
di un ingegnere strutturista, versata in atti- deve
escludersi che il nuovo solaio in legno sia in grado di
sopportare i carichi prescritti affinché un’unità
immobiliare possa essere utilizzata come residenziale.
Sottolinea, altresì, che il solaio non sarebbe in ogni caso
abitabile anche perché non conforme alle prescrizioni
dettate per i sottotetti dall’articolo 61 del regolamento
edilizio del Comune di Cagliari, avendo una altezza media
pari a 1,05 mt. (mentre il regolamento impone una altezza
media di almeno 2,70 mt. e una minima di 2,00 mt.).
Risulterebbe violato, quindi, l’articolo 3, comma 1, lettera
d), del D.P.R. n. 380/2001, che definisce la nozione
legislativa di ristrutturazione edilizia.
Con il secondo motivo, la ricorrente contesta la legittimità
della disposizione dell’ordinanza in cui si prevede che, in
caso di inadempienza, l’amministrazione procederà ad
acquisire il sedime del manufatto e le pertinenze, posto che
l’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001 («Interventi di
ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità») non contempla l’ulteriore
sanzione di acquisizione al patrimonio comunale del
manufatto su cui sono state realizzate le opere abusive.
Infine, con il terzo motivo, la ricorrente contesta che
l’immobile in questione sia compreso all’interno della
fascia di rispetto dei 100 metri dal sito denominato “ruderi
di terme romane”, poiché con provvedimento regionale dell’11.02.2009, n. 190/DG, per il bene paesaggistico in
questione, è stata esclusa la forma di tutela costituita
dalla fascia di rispetto.
Il primo, articolato, motivo è fondato.
La questione centrale, infatti, come emerge dalla
motivazione dell’ordinanza impugnata, è rappresentata dalla
riconducibilità, o non, delle opere realizzate all’ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia.
Tuttavia, non può convenirsi sulla correttezza di tale
assunto.
Occorre verificare, quindi, se l’intervento in questione sia
compatibile con la definizione legislativa di
ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1,
lettera d), del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui
rientrano nella nozione «gli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione,
purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza
(…)».
Elemento normativo caratterizzante la definizione è
costituito dal prodotto dei lavori, ossia la creazione di un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente.
Occorre stabilire, peraltro, quali sono i profili giuridici
che connotano il concetto. In tale prospettiva, deve
necessariamente farsi riferimento al contenuto della
definizione di opere di manutenzione straordinaria, che si
può considerare confinante con quella di ristrutturazione
edilizia (e di organismo edilizio “diverso dal precedente”,
che qualifica quest’ultima), nel senso che gli interventi
che sono riconducibili alla prima categoria di opere
indubbiamente sono esclusi dall’ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia.
Secondo la definizione di cui alla lettera b, dell’art. 3
cit., sono interventi di manutenzione straordinaria «le
opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino la volumetria complessiva degli
edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso. Nell'ambito degli interventi di manutenzione
straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico purché non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria
destinazione di uso».
Dalla lettura emerge agevolmente come le variazioni di
superficie, quando collegate al frazionamento o accorpamento
di unità immobiliari originariamente distinte, rientrano tra
le opere di manutenzione straordinaria e non fra gli
interventi di ristrutturazione edilizia; il che significa,
ulteriormente, che le variazioni di superficie non
determinano, sotto il profilo giuridico, la nascita di un
organismo diverso dal precedente. A maggior ragione, il
discorso deve valere per le eventuali modifiche della
superficie nelle singole unità immobiliari,
indipendentemente dall’accorpamento o frazionamento delle
stesse; purché, ovviamente, «non sia modificata la
volumetria complessiva degli edifici» (il che, nel caso di
specie, è pacifico).
Ne deriva come conseguenza che se anche si dovesse ritenere
che, nella fattispecie, il solaio in legno realizzato dalla
ricorrente sia anche in parte utilizzabile come superficie
calpestabile, questo elemento non consentirebbe di
qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, non
potendosi individuare alcun organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente.
A quanto appena affermato, si soggiunga che, in ogni caso,
deve escludersi che il solaio in legno possa essere
considerato come superficie utile abitabile, posto che la
stessa amministrazione ha accertato che l’altezza minima del
solaio è di 1,05 mt., mentre quella massima è di 3,20 mt.
(quella media è pari, quindi, a 2,125 mt.); dati che si
pongono in contrasto con quanto previsto, per i sottotetti,
dall’articolo 61 del regolamento edilizio del Comune di
Cagliari, che prescrive una altezza media di almeno 2,70 mt.
e una minima di 2,00 mt .
Considerata la natura sostanziale dei motivi esaminati, il
cui accoglimento comporta la piena tutela della situazione
giuridica fatta valere in giudizio dalla ricorrente, possono
ritenersi assorbite le ulteriori censure dedotte.
Il ricorso, in conclusione, deve essere accolto, con il
conseguentemente annullamento dell’ordinanza di demolizione
impugnata (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.11.2016 n. 841 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
realizzazione di una
tettoia in tegole sorretta da robusti pali in legno
stabilmente infissi sul terreno, delle dimensioni di m. 7,35
x 3,60.
La giurisprudenza, sia di primo che di
secondo grado, è nel senso che “quand’anche si ritenessero
le opere pertinenziali o precarie e quindi assentibili con
mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è
comunque doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
autorizzazione paesistica”.
Ciò ovviamente vale anche nel caso si tratti di manutenzione
straordinaria assentibile con semplice D.I.A..
Al riguardo il Consiglio di Stato ha evidenziato come sia
irrilevante il titolo edilizio ritenuto più idoneo e
corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona
vincolata; ciò che rileva è infatti che lo stesso sia stato
posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo in
zona soggetta a vincolo.
Trattasi dell’esercizio di un potere-dovere del tutto privo
di margini di discrezionalità in quanto rivolto a reprimere
gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con D.I.A., prive di autorizzazione
paesaggistica.
---------------
Con ricorso notificato il 22/24.02.2010 e depositato il
23.03.2010 Gi.Me. ha impugnato l’ordinanza del Comune di
Minturno n. 115 datata 15.12.2009 con la quale è stato
ingiunto alla ricorrente di demolire una tettoia adiacente
all’immobile sito in Minturno, frazione ..., via ... n. 12,
coinvolgendo nell’azione impugnatoria tutti gli atti
connessi.
L’ordinanza è motivata dal fatto che la tettoia, di m. 7,35
x 3,60, sarebbe stata costruita in assenza di titolo
abilitativo ed in area sottoposta a vincolo ambientale
paesaggistico.
...
...il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e debba
pertanto essere respinto.
Preliminarmente si osserva come la rappresentazione dei
fatti da parte della ricorrente sia sostanzialmente smentita
dalla stessa documentazione prodotta, dalla quale si evince
che la precedente struttura era costituita da un semplice
tenda sorretta da pali di metallo, mentre la struttura per
la quale è stato emesso il provvedimento impugnato è di
tutt’altra natura, essendo costituita da una tettoia in
tegole sorretta da robusti pali in legno stabilmente infissi
sul terreno.
Ma a prescindere da tale circostanza, e cioè che sia
sufficiente nella fattispecie la presentazione di una
semplice D.I.A. e non di un permesso di costruire, la
giurisprudenza, sia di primo che di secondo grado, è nel
senso che “quand’anche si ritenessero le opere
pertinenziali o precarie e quindi assentibili con mera
D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è comunque
doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica” (TAR Napoli, Sez. VI, 22.10.2015 n. 4931;
Sez. IV 23.10.2013 n. 4676) ciò ovviamente vale anche nel
caso si tratti di manutenzione straordinaria assentibile con
semplice D.I.A..
Al riguardo il Consiglio di Stato (Sez. VI 09.01.2013 n. 62)
ha evidenziato come sia irrilevante il titolo edilizio
ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento
edilizio in zona vincolata; ciò che rileva è infatti che lo
stesso sia stato posto in essere in assoluta carenza di
titolo abilitativo in zona soggetta a vincolo.
Trattasi dell’esercizio di un potere-dovere del tutto privo
di margini di discrezionalità in quanto rivolto a reprimere
gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con D.I.A., prive di autorizzazione
paesaggistica.
Tutto ciò rende infondato l’articolato motivo di gravame,
per quanto riguarda sia la presunta manutenzione
straordinaria, sia la garanzia partecipativa, sia la
valutazione dell’interesse pubblico, non trattandosi
peraltro qui di provvedimento adottato in autotutela.
Appare infine quasi superfluo osservare come la fattispecie
in esame, per quanto in precedenza esposto, esuli dalla
disciplina dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. 380/2001
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 08.11.2016 n. 705 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il dies a quo
per l'impugnazione delle disposizioni contenute in strumenti
urbanistici generali va individuato nella scadenza del
termine di pubblicazione dell'avviso di deposito degli atti
presso gli uffici comunali, applicandosi cioè la disciplina
urbanistica regolatrice delle fasi di adozione ed
approvazione degli strumenti urbanistici non occorrendo alcuna
forma di comunicazione personale secondo cui
detti piani sono oggetto di pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale (o nei rispettivi B.U.R.) e i cui atti debbano
essere depositati presso il Comune "a libera visione del
pubblico".
Non di meno, qualora -come nel caso di specie- l'efficacia dei
piani da impugnare sia condizionata alla pubblicazione sul
BUR, avvenuta dopo la pubblicazione della delibera di
approvazione del piano attuativo all'albo pretorio, il dies
a quo per l'impugnazione va individuato nel momento di
acquisizione dell'efficacia ovvero nella pubblicazione sul
BUR e non già in quello, antecedente, della scadenza del
termine di pubblicazione all'albo pretorio.
---------------
2. - E’ materia del contendere l’impugnativa da parte della
sig.ra So., proprietaria finitima, del Piano
Attuativo di iniziativa della controinteressata approvato
con del. G.C. n. 85/12 dal Comune di Terni ed inerente
intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione
delle strutture preesistenti e mutamento della destinazione
d’uso, intervento già assentito con autorizzazione unica
SUAP, sostitutiva del permesso di costruire, n. 513 del
2008.
Viene altresì impugnato dalla medesima ricorrente, con
secondo ricorso RG 106/2014, il provvedimento della
Provincia di Terni con cui sì è stabilito di non procedere
all’annullamento, ai sensi dell’art. 39 T.U. edilizia, della
predetta autorizzazione.
3. - Preliminarmente va disposta ai sensi dell’art. 70 cod.
proc. amm. la riunione dei ricorsi in epigrafe, stante
l’evidente connessione oggettiva e soggettiva.
Occorre premettere quanto ad entrambi i ricorsi che come già
rilevato dall’adito Tribunale (sent. 2011 n. 3) in
riferimento a ricorso promosso da altro proprietario
finitimo avverso il medesimo Piano Attuativo,
l’autorizzazione unica SUAP 513/2008 oggetto dell’intervento
per cui è causa è da ritenersi tutt’ora valida ed efficace.
Infatti, la suddetta sentenza di annullamento
dell’autorizzazione unica 513/2008 e della variante
n. 266/2009 rilasciate dal Comune alla controinteressata, è
venuta meno a seguito della riforma in appello, in
considerazione dell’intervenuta rinuncia della ricorrente
all’azione promossa ed agli effetti della decisione di primo
grado.
La caducazione della sentenza ha così inevitabilmente
comportato la reviviscenza dei provvedimenti
provvisoriamente annullati in primo grado, con conseguente
piena validità ed efficacia dei medesimi.
4. - Deve essere “in limite litis” esaminata l’eccezione di
irricevibilità del ricorso RG 98/2013 sollevata dalla
controinteressata.
Ad avviso della controinteressata il ricorso sarebbe tardivo
in quanto notificato soltanto l’11.02.2013, mentre il
Piano Attuativo impugnato è stato pubblicato all’albo
pretorio del Comune di Terni il 19.03.2012 e sul B.U.R.
l’11.12.2012.
Ai sensi dell'art. 24, c. 17, della L.R. Umbria n. 11/2005,
la deliberazione comunale di approvazione del piano
attuativo è trasmessa entro quindici giorni alla Regione
Umbria che provvede alla pubblicazione della stessa nel
B.U.R., dalla quale decorre l'efficacia dell'atto.
Il ricorso risulta effettivamente notificato l’11.02.2013 ovvero oltre il termine di sessanta giorni decorrente
dall’11.12.2012, data di pubblicazione sul B.U.R..
Il dies a quo per l'impugnazione delle disposizioni
contenute in strumenti urbanistici generali va individuato
nella scadenza del termine di pubblicazione dell'avviso di
deposito degli atti presso gli uffici comunali, applicandosi
cioè la disciplina urbanistica regolatrice delle fasi di
adozione ed approvazione degli strumenti urbanistici
(Consiglio di Stato, sez IV., 15.11.2002, n. 6278; id.
sez. VI., 10.02.2010, n. 663) non occorrendo alcuna
forma di comunicazione personale (Consiglio di Stato sez VI.,
05.08.2005, n. 4159; id. sez VI., 16.10.2001, n.
5467; id. sez VI., 14.06.2001, n. 3149; TAR Lombardia-Milano, sez II, 27.12.2006, n. 3095) secondo cui
detti piani sono oggetto di pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale (o nei rispettivi B.U.R.) e i cui atti debbano
essere depositati presso il Comune "a libera visione del
pubblico".
Non di meno, qualora come nel caso di specie l'efficacia dei
piani da impugnare sia condizionata alla pubblicazione sul
BUR, avvenuta dopo la pubblicazione della delibera di
approvazione del piano attuativo all'albo pretorio, il dies
a quo per l'impugnazione va individuato nel momento di
acquisizione dell'efficacia ovvero nella pubblicazione sul
BUR e non già in quello, antecedente, della scadenza del
termine di pubblicazione all'albo pretorio (TAR Umbria 12.06.2015, n. 285).
Non ritiene d’altronde il Collegio che il Piano in questione
fosse soggetto ad onere di comunicazione personale nei
confronti della ricorrente, non essendo ella direttamente
incisa dal Piano stesso (ex multis TAR Campania Napoli
sez. VIII, 09.12.2010, n. 27126).
Nel caso di specie il ricorso è pertanto evidentemente
tardivo, venendo a scadere il sessantesimo giorno alla data
del 09.02.2013.
5. - L'eccezione di tardività è dunque fondata, con
conseguente irricevibilità del ricorso ai sensi dell’art. 35,
c. 1, lett. a), cod. proc. amm.
(TAR Umbria,
sentenza 07.11.2016 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In relazione alla natura del potere di riesame
straordinario regionale contemplato dall’art. 27 della L.
1150/1942 e oggi dall’art. 39 del d.P.R. 380/2001 è sorto un
obiettivo contrasto giurisprudenziale.
La tesi avallata dalla ricorrente è indubbiamente sostenuta
in giurisprudenza, riconducendo il potere in esame ad
espressione di mera funzione di vigilanza e controllo da
parte dell’autorità sovraordinata. Anche a voler seguire tale
tesi, occorrerebbe giocoforza affermare il carattere
eminentemente officioso del potere, escludendosi l’obbligo
giuridico di provvedere a fronte di istanze volte a
sollecitarlo, a pena di una evidente surrettizia elusione
del termine decadenziale per l’azione di annullamento.
Secondo però altra opzione interpretativa, il potere
di annullamento in questione, pur indubbiamente distinto da
quello esercitabile dal Comune in sede di riesame, deve
essere esercitato alla luce dell’art. 97 Cost. e del
principio di ragionevolezza sulla scorta degli stessi
presupposti ovvero con doverosa valutazione degli interessi
e degli eventuali affidamenti nonché della situazione di
fatto che si viene ad incidere in via straordinaria.
Ritiene il Collegio preferibile tale seconda lettura, specie
alla luce delle recenti modifiche apportate dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” all’art. 21-nonies della legge
241 del 1990 (pur “ratione temporis” non direttamente
applicabile) secondo cui seppur limitatamente ai
provvedimenti di “autorizzazione ed attribuzione di vantaggi
economici” è stato rigorosamente delimitato il termine di
esercizio del potere d’annullamento d’ufficio in 18 mesi
dalla emanazione dell’atto.
Tale “ius superveniens” rende sicuramente più stabile la
posizione del soggetto destinatario dell’autorizzazione,
quindi del permesso di costruire quale tipico atto
autorizzatorio il quale può
confidare nella stabilità del rapporto una volta decorso il
suddetto termine perentorio, a differenza del regime
previgente la novella legge 124/2015, laddove la
“ragionevolezza” del termine dava inevitabilmente adito -per l’indeterminatezza ed elasticità del parametro- ad
interpretazioni del tutto difformi, in danno della stessa
certezza dei rapporti di diritto pubblico.
Tanto che in materia edilizia una parte della giurisprudenza
individuava tale termine ragionevole, per analogia, proprio
nel decennio stabilito dal citato art. 39 o addirittura
opinava nel senso della inesauribilità del potere di
annullamento comunale dei titoli abilitativi in
considerazione della natura di illecito permanente.
A fronte di tale innovativa disciplina non ritiene a maggior
ragione il Collegio plausibile opinare nel senso voluto
dalla ricorrente.
Infatti, proprio l’esaminata maggior esigenza di stabilità e
di tutela dell’affidamento del destinatario del
provvedimento di autorizzazione non può dirsi compatibile
con un potere di riesame regionale di stretta legalità, del
tutto avulso dalla situazione di fatto che si viene ad
incidere in via straordinaria.
E’ vero che l’art. 39 del
Testo Unico prevede un termine temporale assai più ampio
(dieci anni), tuttavia tale maggior estensione, a fortiori,
deve contemperarsi con i criteri conformativi delineati
dall’art. 21-nonies, non essendo più predicabile -o
quantomeno essendo assai dubbia- la permanenza nel nostro
ordinamento di ipotesi di interesse pubblico “in re ipsa” in
grado di giustificare in via del tutto autonoma il potere di
riesame.
E’ poi irrilevante la non applicabilità “ratione temporis”
della legge 124 del 2015 dal momento che essa, in ogni caso,
rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema
degli interessi rilevanti.
Si impone inoltre una interpretazione comunitariamente
orientata del potere di annullamento straordinario, poiché
la eccezionale maggior ampiezza del termine deve
contemperarsi con il principio di derivazione comunitaria di
tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto.
---------------
6. - Venendo al secondo ricorso (RG 106/2014), ad avviso
della difesa della ricorrente l’annullamento straordinario
previsto dall’art. 39 del Testo Unico in materia edilizia
risulterebbe unicamente finalizzato ad assicurare il
rigoroso rispetto della legalità nel campo
urbanistico-edilizio, senza effettuare alcuna comparazione
tra l’interesse pubblico al ripristino della legalità
violata con l’affidamento del privato, tipica del potere di
autotutela con funzione di riesame come oggi codificato
dall’art. 21-nonies della legge 241 del 1990 e s.m..
Sarebbe
per tanto del tutto improprio il riferimento operato nel
diniego impugnato a tale ultima norma e del tutto non dovuto
il bilanciamento dei contrapposti interessi ed in primis di
quello vantato dalla Ba.Co. s.r.l. in merito
alla apparente legittimità della ristrutturazione
effettuata.
7. - Non ritiene il Collegio di poter aderire alle pur
suggestive considerazioni articolate dalla difesa della
ricorrente.
8. - In relazione alla natura del potere di riesame
straordinario regionale contemplato dall’art. 27 della L.
1150/1942 e oggi dall’art. 39 del d.P.R. 380/2001 (nonché
dall’omologo art. 11 della L.R. 21/2004) è sorto un
obiettivo contrasto giurisprudenziale.
La tesi avallata dalla ricorrente è indubbiamente sostenuta
in giurisprudenza, riconducendo il potere in esame ad
espressione di mera funzione di vigilanza e controllo da
parte dell’autorità sovraordinata (Consiglio di Stato sez.
IV, 20.02.1998, n. 315; id. sez. IV, 09.09.2009,
n. 5409; id. sez. IV, 08.11.2013, n. 32; TAR Lazio
sez. I, 23.05.2014, n. 5521). Anche a voler seguire tale
tesi, occorrerebbe giocoforza affermare il carattere
eminentemente officioso del potere, escludendosi l’obbligo
giuridico di provvedere a fronte di istanze volte a
sollecitarlo, a pena di una evidente surrettizia elusione
del termine decadenziale per l’azione di annullamento (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 27.04.2005, n. 1947).
Secondo però altra opzione interpretativa, il potere di
annullamento in questione, pur indubbiamente distinto da
quello esercitabile dal Comune in sede di riesame, deve
essere esercitato alla luce dell’art. 97 Cost. e del
principio di ragionevolezza sulla scorta degli stessi
presupposti ovvero con doverosa valutazione degli interessi
e degli eventuali affidamenti nonché della situazione di
fatto che si viene ad incidere in via straordinaria (ex multis TAR Liguria sez. I, 13.01.2015, n. 79;
Consiglio di Stato sez. VI, 02.09.2013, n. 4352).
Ritiene il Collegio preferibile tale seconda lettura, specie
alla luce delle recenti modifiche apportate dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” all’art. 21-nonies della legge
241 del 1990 (pur “ratione temporis” non direttamente
applicabile) secondo cui seppur limitatamente ai
provvedimenti di “autorizzazione ed attribuzione di vantaggi
economici” è stato rigorosamente delimitato il termine di
esercizio del potere d’annullamento d’ufficio in 18 mesi
dalla emanazione dell’atto.
Tale “ius superveniens” rende sicuramente più stabile la
posizione del soggetto destinatario dell’autorizzazione,
quindi del permesso di costruire quale tipico atto
autorizzatorio (Corte Cost. sent. n. 5/1980) il quale può
confidare nella stabilità del rapporto una volta decorso il
suddetto termine perentorio, a differenza del regime
previgente la novella legge 124/2015, laddove la
“ragionevolezza” del termine dava inevitabilmente adito -per l’indeterminatezza ed elasticità del parametro- ad
interpretazioni del tutto difformi, in danno della stessa
certezza dei rapporti di diritto pubblico.
Tanto che in materia edilizia una parte della giurisprudenza
individuava tale termine ragionevole, per analogia, proprio
nel decennio stabilito dal citato art. 39 (TAR Lombardia
Brescia sez. I, 05.04.2013, n. 34) o addirittura opinava
nel senso della inesauribilità del potere di annullamento
comunale dei titoli abilitativi in considerazione della
natura di illecito permanente (Consiglio di Stato sez. VI,
23.02.2012, n. 1041).
A fronte di tale innovativa disciplina non ritiene a maggior
ragione il Collegio plausibile opinare nel senso voluto
dalla ricorrente.
Infatti, proprio l’esaminata maggior esigenza di stabilità e
di tutela dell’affidamento del destinatario del
provvedimento di autorizzazione non può dirsi compatibile
con un potere di riesame regionale di stretta legalità, del
tutto avulso dalla situazione di fatto che si viene ad
incidere in via straordinaria.
E’ vero che l’art. 39 del
Testo Unico prevede un termine temporale assai più ampio
(dieci anni), tuttavia tale maggior estensione, a fortiori,
deve contemperarsi con i criteri conformativi delineati
dall’art. 21-nonies, non essendo più predicabile -o
quantomeno essendo assai dubbia- la permanenza nel nostro
ordinamento di ipotesi di interesse pubblico “in re ipsa” in
grado di giustificare in via del tutto autonoma il potere di
riesame.
E’ poi irrilevante la non applicabilità “ratione temporis”
della legge 124 del 2015 dal momento che essa, in ogni caso,
rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema
degli interessi rilevanti (così Consiglio di Stato sez. VI,
10.12.2015 n. 5625).
Si impone inoltre una interpretazione comunitariamente
orientata del potere di annullamento straordinario, poiché
la eccezionale maggior ampiezza del termine deve
contemperarsi con il principio di derivazione comunitaria di
tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto
(TAR Umbria,
sentenza 07.11.2016 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione
dei manufatti (abusivi) in questione sulla base di una
pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla
garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del
codice civile.
Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale
non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto
delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei
manufatti.
Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto
di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.
---------------
Le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire
solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi,
precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire
l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito
della quale è stata specificamente rilevata e motivata
l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente.
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione
sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata,
essendo certa esclusivamente la provenienza della
dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono
stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come
prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune ai
fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque
titolo.
---------------
Né ha pregio il deposito in giudizio di perizia giurata a
firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale
preesistenza.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di
deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la
preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i
contrari elementi di prova oggettivi richiamati
dall’amministrazione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n.
75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia
Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il
permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione
straordinaria e del permesso di costruire per opere di
ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n.
4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte
ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta
presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della
relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i
provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del
processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo
amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente
costruzione dei manufatti in questione sulla base di una
pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti
dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700
del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in
giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto
posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente
costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte
ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente
giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la
sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità
dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al
presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità
risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta,
con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi
ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non
pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento
di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento
dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione.
Lamenta in particolare che il comune di Verona ha
indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni
sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da
quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come
imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori
evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta
vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio
del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la
zona di progetto e la zona in cui sono individuati i
manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la
loro omissione nell’atto notarile di compravendita di
terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di
accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono
costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi
gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a
scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione
nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e
motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione
sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata,
essendo certa esclusivamente la provenienza della
dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della
dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo
con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti
per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di
esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del
diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto
provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente
all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento
edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione
di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria,
essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo,
richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità
paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato
creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del
permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di
demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
4. Sono infondate le censure proposte con motivi aggiunti di
ricorso avverso l’ordinanza di demolizione sia perché sono
proposti vizi d’invalidità derivata già proposti col ricorso
principale sia perché l’amministrazione ha congruamente
smentito la circostanza, invocata da parte ricorrente, che i
manufatti preesistessero ad epoca anteriore alla seconda
guerra mondiale.
Né ha pregio il deposito in giudizio in data 07.05.2015
di perizia giurata a firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale preesistenza.
Si tratta infatti di perizia che non è stata prodotta da
parte ricorrente nel procedimento che ha condotto
all’adozione dei provvedimenti impugnati né sussistevano
impedimenti a che tale perizia fosse eventualmente prodotta
nel momento in cui parte ricorrente, nell’ambito delle
proprie facoltà partecipative, era abilitata a presentare
memorie e documenti prima dell’adozione dei provvedimenti
impugnati.
Il collegio prescinde dalla circostanza che il motivo di
ricorso incentrato su tale perizia costituisce motivo nuovo
di ricorso, proposto oltre il termine decadenziale di 60
giorni dalla conoscenza del provvedimento impugnato e dunque
irricevibile per tardività. Infatti tale motivo di ricorso è
comunque infondato.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di
deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la
preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i
contrari elementi di prova oggettivi richiamati
dall’amministrazione
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
relata di notifica costituisce un atto pubblico, per cui le
attestazioni in essa contenute, inerenti sia alle attività
che l'ufficiale notificante certifica di avere eseguito, sia
alle dichiarazioni da lui ricevute, sono assistite da fede
pubblica privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c..
A fronte di tale valore probatorio può sempre essere
contestata la veridicità del contenuto sostanziale delle
dichiarazioni ricevute dal P.U. notificante, fermo restando
che la verità intrinseca di tali dichiarazioni comunque si
presume per cui, su chi le contesta, grava l'onere della
prova circa la loro intrinseca inesattezza, sebbene con
tutti i mezzi consentiti e senza ricorso alla querela di
falso.
---------------
6. L’appello non è fondato.
6.1. Come già correttamente rilevato dal TAR, il
provvedimento contiene l’espressa verbalizzazione
dell’avvenuta consegna di copia in data 19.03.2015, nonché
la sottoscrizione autografa del destinatario.
6.2. La relata di notifica costituisce un atto pubblico, per
cui le attestazioni in essa contenute, inerenti sia alle
attività che l'ufficiale notificante certifica di avere
eseguito, sia alle dichiarazioni da lui ricevute, sono
assistite da fede pubblica privilegiata ai sensi dell'art.
2700 c.c.
A fronte di tale valore probatorio può sempre essere
contestata la veridicità del contenuto sostanziale delle
dichiarazioni ricevute dal P.U. notificante, fermo restando
che la verità intrinseca di tali dichiarazioni comunque si
presume per cui, su chi le contesta, grava l'onere della
prova circa la loro intrinseca inesattezza, sebbene con
tutti i mezzi consentiti e senza ricorso alla querela di
falso (fra le tante, Cass. civ., Sez. I, 29.03.2016, n.
6046; Sez. V, 08.07.2016, n. 13981).
6.3. Nel caso di specie, l’appellante allega, quali indizi
della mancata consegna, la missiva del procuratore legale
che, in data successiva al 19.03.2015, si premurava di
inviare documentazione integrativa dell’originaria istanza,
sollecitando la notifica del provvedimento finale.
Tale circostanza tuttavia non ha oggettiva e significativa
consistenza probatoria, concernendo documenti provenienti
dalla stessa parte appellante, ai quali del resto
l’amministrazione ha già, a suo tempo, replicato in sede
amministrativa, evidenziando di avere già provveduto alla
notifica (nota della Questura del 27.07.2015).
E’ quindi dalla data di consegna così come verbalizzata
dagli agenti notificatori che deve aversi riguardo per il
computo del termine per impugnare, con la conseguenza, già
ricavata dal giudice di prime cure, che il ricorso
introduttivo è palesemente tardivo
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.10.2016 n. 4080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 23.11.2016 |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema
di reati edilizi, nel caso in
cui la denuncia di inizio
attività (DIA ora SCIA) si ponga quale titolo abilitativo
esclusivo (art. 22, commi
primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), solo
l'esecuzione di interventi
edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli
strumenti urbanistici e dai
regolamenti edilizi integra il reato di cui all'art. 44,
lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
Diversamente, nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo
abilitativo alternativo al
permesso di costruire (cosiddetta superDIA: art. 22, comma
terzo, d.P.R. n.
380/2001) è configurabile il reato di cui all'art. 44, lett.
b), d.P.R. n. 380 del 2001,
sia nel caso di assenza del permesso di costruire o della
DIA, sia nel caso di
difformità totale delle opere eseguite rispetto alla DIA
presentata, restando priva di sanzione penale la sola
difformità parziale.
---------------
2.1. Nella specie, la Corte territoriale non si è uniformata a tali
principi,
rinviando, da un lato, alla sentenza di primo grado ed agli
elementi probatori acquisiti, ma non esaminando, dall'altro,
le specifiche censure rivolte con l'appello
a quella pronuncia.
Al ricorrente è stato contestato il reato previsto dall'art.
44, lett. b), del D.P.R.
n. 380/2001 per aver realizzato lavori di esecuzione di un
deposito temporaneo di
rifiuti non pericolosi provenienti da demolizioni edili, con
difformità rispetto alle
previsioni progettuali.
E' stato accertato che, in sede di accesso, venivano
riscontrate le difformità
rispetto alle previsioni progettuali di cui alla denuncia di
inizio lavori presentata
dall'imputato al Comune di San Marco d'Alunzio in data
04.08.2011 e, cioè,
occupazione di un'area della superficie pari a mq 92,82
anziché mq 79,56,
realizzazione di muretti dell'altezza di m 3,20 anziché m.
2,00, aumento
dell'altezza del muretto di divisione esterno lato ovest,
omessa realizzazione di un
adeguato sistema di canalizzazione delle acque meteoriche.
Va ricordato, in proposito, che la DIA prevista dal D.P.R.
n. 380 del 2001, art.
22, comma 3 (cd DIA alternativa o SuperDIA), non è istituto
ontologicamente
diverso da quello disciplinato dai due commi precedenti (cd
DIA semplice, ora
SCIA) dal quale non si distingue certo per il carattere
dell'onerosità, che ben può
essere comune e differisce da esso soltanto in relazione
agli interventi
assoggettabili (alternativamente) alla procedura.
Diverso, invece, è il connesso regime sanzionatorio.
Nei casi previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 22, commi
1 e 2, -in cui la
DIA (ora S.C.I.A.), si pone come titolo abilitativo esclusivo
(non alternativo, cioè,
al permesso di costruire)- la mancanza della denunzia di
inizio dell'attività o la
difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA
effettivamente presentata non
comportano l'applicazione di sanzioni penali ma sono
sanzionate soltanto in via
amministrativa (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, comma 6).
Dovendo ritenersi,
però, che sia comunque punibile ai sensi del D.P.R. n. 380
del 2001, art. 44, lett.
a), -pure se preceduta da rituale denuncia d'inizio-
l'esecuzione di interventi
sostanzialmente difformi da quanto stabilito da strumenti
urbanistici e regolamenti
edilizi.
Questa Corte ha, infatti, affermato che l'esecuzione in
assenza o in difformità
degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività
(DIA) D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, ex art. 22, commi 1 e 2, (ora S.C.I.A.), allorché
non conformi alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia
in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale
prevista dal citato
D.P.R. n. 380, art. 44, lett. a), atteso che soltanto in
caso di interventi eseguiti in
assenza o difformità dalla DIA (ora S.C.I.A.), ma conformi
alla citata disciplina, è
applicabile la sanzione amministrativa prevista dallo stesso
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, (Sez. 3, n. 41619 del
22/11/2006, Cariello, Rv. 235413; Sez. 3, n. 9894
del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099).
Nei casi previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 22, comma
3, invece, in cui
la DIA (DIA alternativa o superDIA), ai sensi del successivo
art. 44, comma 2-bis,
si pone come alternativa al permesso di costruire, l'assenza
sia del permesso di
costruire sia della denunzia di inizio dell'attività ovvero
la totale difformità delle
opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata
integrano il reato di cui
al successivo art. 44, lett. b) (Sez. 5, 26.04.2005,
Giordano; Sez. 3, 09.03.2006,
n. 8303; 26.01.2004, n. 2579, Tollon).
La disciplina sanzionatoria penale non è correlata alla
tipologia del titolo
abilitativo, bensì alla consistenza concreta
dell'intervento. Ciò che conta non è la
qualificazione dell'intervento data dal privato nella DIA
presentata ma la esatta
indicazione e descrizione, in tale denuncia, delle opere,
poi, effettivamente
eseguite (Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Rv. 238463).
Non trova, comunque, sanzione penale la difformità parziale:
le sanzioni di
cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001 sono applicabili soltanto
in caso di assenza o
totale difformità dalla DIA, atteso che la esclusione
dell'ipotesi di parziale
difformità dal regime sanzionatorio opera sia in caso di
edificazione con permesso
di costruire che nella diversa ipotesi di opzione per la
DIA (Sez. 3, n.44248 del 23/09/2004, Croattini).
E' stato osservato, a tal proposito, che le opere per le
quali l'art. 1, comma 6,
della legge 21.12.2001 n. 443 ha previsto la possibilità, a
scelta dell'interessato, di
procedere in base a DIA in alternativa al premesso di
costruire (previsioni trasfuse,
poi, con modificazioni nell'art. 22, comma 3, del T.U. n.
380/2001) sono rimaste
soggette, rientrando in origine esclusivamente nel regime
concessorio, alla
sanzione di cui all'art. 44, lett. b), del T.U. n. 380/2001,
con la conseguenza che
integrano il reato previsto da tale norma le opere suddette,
quando siano state
realizzate in assenza sia del permesso di costruire sia
della DIA, ovvero in totale
difformità rispetto alla DIA inoltrata (Sez. 5, n. 23668 del
26/04/2005, Rv. 231905).
2.2. In definitiva, in tema di reati edilizi,
nel caso in
cui la denuncia di inizio
attività (DIA ora SCIA) si ponga quale titolo abilitativo
esclusivo (art. 22, commi
primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), solo
l'esecuzione di interventi
edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli
strumenti urbanistici e dai
regolamenti edilizi integra il reato di cui all'art. 44,
lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001;
diversamente, nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo
abilitativo alternativo al
permesso di costruire (cosiddetta superDIA: art. 22, comma
terzo, d.P.R. n.
380/2001) è configurabile il reato di cui all'art. 44, lett.
b), d.P.R. n. 380 del 2001,
sia nel caso di assenza del permesso di costruire o della
DIA, sia nel caso di
difformità totale delle opere eseguite rispetto alla DIA
presentata, restando priva di sanzione penale la sola
difformità parziale (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009,
Rv. 243099, cit.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.11.2016 n. 47970). |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA: I
piani di lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata
decennale, sicché, decorso infruttuosamente detto termine,
essi perdono efficacia.
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli
artt. 16, comma 5, e 17 della l. n. 1150/1942 per i piani
particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure
sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un
atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può
incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del
sovrastante strumento di pianificazione secondaria.
Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito
per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in
cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile eseguire i
previsti espropri, preordinati alla realizzazione delle
opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria,
non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione
residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto.
---------------
Giova premettere al riguardo, che nel sistema normativo
attualmente vigente i piani di lottizzazione e/o
particolareggiati hanno durata decennale, sicché, decorso
infruttuosamente detto termine, essi perdono efficacia
(cfr., Cons. St., sez. IV, 27.04.2015, n. 2109; idem, TAR
Umbria, sez. un., 07.12.2001, n. 650).
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli
artt. 16, comma 5, e 17 della l. n. 1150/1942 per i piani
particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure
sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un
atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può
incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del
sovrastante strumento di pianificazione secondaria (cfr., in
detti termini, Cons. St., sez. VI, 05.12.2013, n. 5807;
Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2013, n. 1574; Cons. St., sez.
IV, 28.12.2012, n. 6703).
Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito
per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in
cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile eseguire i
previsti espropri, preordinati alla realizzazione delle
opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria,
non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione
residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto
(in tal senso, Cons. St., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572).
Tanto premesso in punto di diritto, occorre rilevare che,
nel caso di specie, la delibera del Comune di Foligno n. 465
del 17.11.2010, con la quale è stato prorogato il termine di
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, ha
espressamente preso atto del fatto che la validità decennale
dell’impugnato piano particolareggiato, come precedentemente
approvato con delibera comunale n. 32 del 17.03.2005, “decorre
dalla data di notifica ai proprietari dell’avvenuta
approvazione, ovvero dal giorno 23/05/2005, e pertanto la
proroga non può eccedere il termine del 23/05/2015”.
Risultando, allo stato, ampiamente decorso detto termine
finale, il piano particolareggiato in questione, nonché
tutti gli atti e provvedimenti preordinati alla sua
realizzazione, come in epigrafe riportati, hanno perduto la
loro efficacia e non possono essere portati ad esecuzione né
dal Comune di Foligno né dalla società odierna contro
interessata, incaricata delle opere di urbanizzazione
primaria.
Ne discende, che la società odierna ricorrente non può
conseguire alcuna utilità dall’eventuale annullamento da
tali atti, sicché sia il ricorso principale sia i successivi
atti per motivi aggiunti, devono essere dichiarati
improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.
Quanto detto trova peraltro conferma nel fatto che, per
espresso riconoscimento della stessa ricorrente, le opere di
urbanizzazione non sono state iniziate, se non a livello
embrionale, mentre l’edificazione è allo stato inesistente,
discutendosi ancora sulla tipologia di edificazione da
realizzare e sulle modalità di realizzazione delle opere di
urbanizzazione propedeutiche all’edificazione (cfr., pag.
15, dell’ultimo atto per motivi aggiunti).
In conclusione, l’intero gravame va dichiarato improcedibile
(TAR Umbria,
sentenza 28.10.2016 n. 676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Cocchi,
Annullamento in autotutela del permesso di costruire alla
luce dell'entrata in vigore dell'art. 21-nonies della legge
241/1990, come modificato da ultimo dall'art. 6, comma 1,
legge n. 124 del 2015. Prime pronunce giurisprudenziali.
Spunti di riflessione (18.11.2016 - link a
www.lexambiente.com). |
QUESITI & PARERI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Quali limiti alla parcella dell’avvocato?
Alla fine della causa l’avvocato mi ha
presentato una parcella che raggiunge quasi la metà di
quanto l’avversario mi dovrà dare: è legittimo oppure c’è un
limite massimo per il suo compenso?
Così come non esistono limiti minimi alle tariffe degli
avvocati, la legge non prevede neanche limiti massimi: la
parcella dell’avvocato viene quantificata sulla base di
quanto le parti hanno convenuto all’atto del conferimento
del mandato. In pratica, anche in tema di compensi dovuti
all’avvocato vale il principio generale del nostro
ordinamento della libera trattativa tra le parti.
Come, del resto, un negoziante è libero di venderci un
vestito a un prezzo dieci volte superiore al valore del
bene, altrettanto può fare il professionista. Ecco perché è
sempre bene concordare in anticipo la parcella. Peraltro, se
richiesto dal cliente, il preventivo va messo per iscritto,
salvi eventuali «correttivi» in aumento qualora il
giudizio dovesse presentare difficoltà o costi sopravvenuti,
comunque da giustificare. (...continua) (21.11.2016 -
link a www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO:
Immobile comunale del patrimonio disponibile destinato a
farmacia.
Per quanto concerne l'assegnazione in
uso a terzi di immobili comunali, la giurisprudenza è
costante nel ritenere che la natura demaniale o patrimoniale
indisponibile del bene determina l'applicazione dello
strumento pubblicistico della concessione amministrativa,
mentre l'appartenenza del bene al patrimonio disponibile
implica l'utilizzo di negozi contrattuali di diritto
privato.
Alla luce del quadro normativo vigente (art. 9, c. 3, L. n.
537/1993; art. 32, c. 8, L. n. 724/1994), che impone la
determinazione dei canoni di concessione di immobili ai
privati sulla base dei prezzi praticati in regime di libero
mercato, la gestione dei beni pubblici è improntata al
principio di fruttuosità.
Secondo l'orientamento della Corte dei conti, come evoluto
negli ultimi anni, le eccezioni alla regola della
redditività, sia nel senso di mitigarla che in quello di
escluderla, postulano l'assenza dello scopo di lucro in capo
ai soggetti privati beneficiari. Va data, ovviamente, in
questo caso, esaustiva motivazione della finalità
istituzionale perseguita e deve essere compiuta un'attenta
valutazione comparativa degli interessi pubblici in gioco.
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, ai fini
dell'assegnazione di immobile comunale destinato a farmacia
a farmacista libero professionista, sembra venire in
considerazione, stante la natura di imprenditore commerciale
del farmacista, l'istituto della locazione, nel rispetto
della normativa vigente (per un canone corrispondente a
quello del valore di mercato).
Il Comune è proprietario di un immobile destinato a farmacia
ed appartenente al patrimonio disponibile, a suo tempo
concesso in uso gratuito al precedente titolare della
farmacia.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
procedere ora, allo stesso modo, all'assegnazione gratuita
dell'immobile al nuovo farmacista, libero professionista,
considerata l'importanza di avere il servizio di farmacia
nel proprio territorio montano -distante dai paesi di
fondovalle e la cui scarsa popolazione è composta per lo più
da anziani- e comunque di sapere attraverso quale strumento
giuridico sia legittimo agire (locazione, comodato,
concessione). Il Comune rappresenta, inoltre, l'utilità di
assicurare ai residenti ulteriori servizi -consegna farmaci
a domicilio, misurazione pressione, uso defibrillatore- per
i quali valuterebbe di dare un corrispettivo al farmacista.
In via preliminare, si precisa che l'attività di questo
Servizio consiste nel fornire agli enti locali un supporto
giuridico generale sulle questioni poste, da cui poter
trarre elementi utili per l'individuazione in autonomia
della soluzione dei casi concreti, in relazione alle
specificità che li connotano. Pertanto, in via
collaborativa, si esprimono sul tema in oggetto le seguenti
considerazioni.
Il tipo di negozio giuridico da utilizzare per l'affidamento
di immobili comunali dipende dalla natura di questi,
demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale
disponibile.
In particolare, la natura demaniale o patrimoniale
indisponibile dell'immobile determina l'applicazione dello
strumento pubblicistico della concessione amministrativa,
mentre per i beni del patrimonio disponibile l'attribuzione
in godimento a soggetti terzi deve essere effettuata secondo
gli schemi di diritto privato [1].
La giurisprudenza della Cassazione civile è costante
nell'affermare che, a prescindere dalla qualificazione
giuridica attribuita dalle parti o dalla pubblica
amministrazione al rapporto posto in essere, la natura
demaniale o patrimoniale indisponibile dell'immobile implica
l'esistenza di una concessione amministrativa, mentre il
rapporto avente ad oggetto il godimento di un bene immobile
compreso nel patrimonio disponibile si configura quale
locazione [2].
Queste considerazioni portano a ritenere che la concessione
in uso dell'immobile comunale, appartenente al patrimonio
disponibile dell'Ente (per sua espressa indicazione), vada
effettuata a mezzo di negozi contrattuali di diritto
privato.
In ordine a quale contratto possa essere utilizzato, in
particolare se anche il comodato, la Corte dei conti, nel
rimarcare che le concrete scelte gestionali in questo ambito
rientrano nell'esclusiva discrezionalità degli enti
[3], ha
espresso principi generali, continuando a specificarne i
contenuti e le deroghe nel susseguirsi dei suoi
pronunciamenti sino ad oggi.
La Corte dei conti ha innanzitutto tratto dal quadro
normativo vigente il principio di fruttuosità dei beni
pubblici, muovendo dalla lettura combinata delle
disposizioni di cui agli artt. 9, comma 3, L. n. 537/1993
[4], e 32,
c. 8, L. 724/1994 [5],
che impongono la determinazione e l'aggiornamento dei canoni
dei beni dati in concessione a privati, sulla base dei
prezzi praticati in regime di libero mercato, e da cui
deriva il principio di gestione del patrimonio pubblico in
modo da incrementare le entrate patrimoniali
dell'amministrazione [6].
Per la Corte dei conti, infatti, queste norme sono la chiara
espressione della volontà del legislatore di rapportare i
canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di
mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di
immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli
disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del
1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al
patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art.
32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti
-come nella specie- di immobili del patrimonio disponibile
destinati ad uso commerciale, relativamente ai quali -già
prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il
principio della redditività secondo valori di mercato
discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono
astretti gli enti pubblici [7].
Peraltro, con particolare riferimento al patrimonio
disponibile, di interesse nel caso di specie, la Corte dei
conti ha formulato ulteriori riflessioni.
Il Giudice contabile osserva in primis che la
concessione in uso gratuito di bene immobile del patrimonio
disponibile va qualificata in termini di attribuzione di un
'vantaggio economico' in favore di soggetto di
diritto privato, per cui detto provvedimento deve essere
adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla L.
n. 241/1990 (art. 12), nonché delle norme regolamentari
dell'ente locale. La Corte dei conti osserva, dunque, che
non esiste uno specifico divieto di concessione in uso
gratuito di detti beni che appartengono all'ente pubblico
iure privatorum.
Tuttavia, l'ente locale nell'esercizio della discrezionalità
in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo
evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che
intende perseguire con la stipula del negozio di comodato,
bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale
perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente
locale medesimo.
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente
locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio
patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta
discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione
degli interessi della comunità locale, nonché previa
verifica della compatibilità finanziaria e gestionale
dell'atto dispositivo. D'altra parte, la natura pubblica o
privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale
è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua
ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente
locale [8].
Successivamente, la Corte dei conti ha assunto una posizione
di maggior rigore rispetto alla possibilità di derogare al
principio della redditività del patrimonio pubblico.
La Corte dei conti Veneto, deliberazione n. 716/2012, ha
osservato che il legislatore stesso ha tracciato i confini
delle possibili eccezioni ai principi generali della
gestione economica del patrimonio pubblico. In particolare,
l'art. 32, comma 8, L. 724/1994, prevede una deroga in
considerazione degli 'scopi sociali', mentre l'art. 32, L.
n. 383/2000, consente agli enti locali di concedere in
comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non
utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di
promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato
per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
In questi casi, la mancata redditività del bene è
considerata, comunque, compensata dalla valorizzazione di un
altro bene ugualmente rilevante che trova il suo
riconoscimento e fondamento nell'art. 2 della Costituzione.
Le predette eccezioni si riferiscono a categorie ben
individuate di beneficiari, in relazione alle quali la Corte
dei conti fa delle precisazioni. E così, l'art. 32, L. n.
383/2000, consente il comodato a favore delle organizzazioni
di volontariato ed associazioni di promozione sociale,
secondo la definizione contenuta nell'art. 2 della L.
383/2000, che comprende soggetti costituiti al fine di
svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o
di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della
libertà e dignità degli associati.
D'altra parte anche il beneficio previsto dall'art. 32,
comma 8, L. 724/1994, va letto -secondo la Corte- in
riferimento a quanto previsto dal comma 3 del medesimo
articolo, che esclude dall'incremento dei canoni annui dei
beni patrimoniali, in questo caso dello Stato, una serie di
categorie di soggetti, tra le quali sono comprese anche le
associazioni e fondazioni con finalità culturali, sociali,
sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro,
nonché le associazioni di promozione sociale, con
determinati requisiti [9].
Dalla lettura delle norme in questione -afferma la Corte dei
conti Veneto n. 716/2012- 'risulta pertanto evidente che
la deroga alla regola della determinazione di canoni dei
beni pubblici secondo logiche di mercato [...] appare
giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro
dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario
di tali beni'.
E sulla base di queste premesse, la Corte dei conti Veneto,
chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare un
canone ridotto rispetto a quello di mercato ad associazioni
senza scopo di lucro di interesse collettivo, nel ribadire
che l'indirizzo politico e legislativo che si è venuto
affermando negli ultimi anni è stato improntato alla
valorizzazione del patrimonio pubblico secondo criteri di
redditività, formula, tuttavia, nel caso specifico,
conclusioni di apertura. E lo fa attesa la natura dell'ente
locale di ente a fini generali, e richiamandolo di
conseguenza ad assumere le proprie scelte gestionali in
considerazione delle proprie finalità istituzionali,
attraverso un'attenta valutazione comparativa tra gli
interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi
negli anni precedenti dalla magistratura contabile.
In linea di continuità con la Corte dei conti Veneto n.
716/2012, la Corte dei conti Molise afferma che il comodato
di beni del patrimonio disponibile pubblico è da ritenersi
ammissibile nei casi in cui sia perseguito un effettivo
interesse pubblico equivalente o addirittura superiore
rispetto a quello meramente economico ovvero nei casi in cui
non sia rinvenibile alcuno scopo di lucro nell'attività
concretamente svolta dal soggetto utilizzatore di tali beni.
Su queste premesse, nel caso specifico relativo alla
possibilità di stipulare un comodato in favore di una
cooperativa sociale ONLUS, la Sezione molisana rimette la
scelta gestionale all'ente, previa esaustiva motivazione
della finalità di interesse pubblico [10].
Si osserva, successivamente alla deliberazione della Sezione
veneta n. 716/2012, un uniformarsi della giurisprudenza
contabile alle osservazioni ivi svolte circa l'assenza dello
scopo di lucro in capo ai soggetti per i quali il
legislatore ha previsto la possibilità di derogare alla
regola della redditività del patrimonio pubblico. Assenza di
fine di lucro necessaria, ad avviso della Corte dei conti,
tanto per mitigare quanto per escludere detta redditività.
In applicazione di questi principi, nelle fattispecie
specifiche sottoposte al suo vaglio, ove i soggetti
possibili affidatari dei beni del patrimonio locale sono
pp.aa. o soggetti privati connotati dall'assenza di scopo di
lucro, la magistratura contabile rimette alla scelta
autonoma degli enti la possibilità di determinare il canone
di locazione in misura ridotta o di disporre la gratuità
dell'utilizzo dell'immobile, ovviamente dando esaustiva
motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico
perseguite e sulla base di una valutazione ponderata
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i
principi già espressi in passato [11].
L'accertamento della sussistenza o meno dello scopo di
lucro, inteso come attitudine a conseguire un potenziale
profitto di impresa, è rimesso al prudente apprezzamento
dell'ente interessato, in relazione allo scopo e alle
finalità perseguite dall'operatore e alle modalità concrete
con le quali viene svolta l'attività che coinvolge
l'utilizzo del bene pubblico [12].
Venendo al caso di specie, in via collaborativa, si osserva
che la giurisprudenza ha affermato lo status di imprenditore
commerciale del farmacista, in considerazione della sua
attività di smercio di medicinali e prodotti
parafarmaceutici [13],
che rientra nella definizione dell'art. 1470 c.c. e nelle
regole tutte della compravendita [14].
Pertanto, alla luce della natura di imprenditore commerciale
del farmacista e dell'orientamento giurisprudenziale sulla
gestione dei beni pubblici come evoluto negli ultimi anni,
sembrerebbe venire in considerazione, per l'affidamento
dell'immobile di cui si tratta al nuovo farmacista, il
contratto di locazione, nel rispetto della normativa vigente
(per un canone corrispondente a quello del valore di
mercato).
Per quanto concerne, infine, l'espletamento da parte del
farmacista di servizi ulteriori in favore dei residenti, si
osserva che la L. n. 69/2009 ha delegato il Governo ad
adottare uno o più decreti legislativi finalizzati
all'individuazione di nuovi servizi a forte valenza
socio-sanitaria erogati dalle farmacie pubbliche e private
nell'ambito del Servizio sanitario nazionale (art. 11).
In attuazione della legge delega, è stato emanato il D.Lgs.
n. 153/2009 che ha individuato i nuovi servizi assicurati
dalle farmacie previa adesione del titolare della farmacia,
tra cui, ad es. la consegna domiciliare dei farmaci (art. 1,
comma 2, lett. a, n.1) e l'utilizzo presso le farmacie di
dispositivi semiautomatici per la defibrillazione (art. 1,
comma 2, lett. d) [15].
In considerazione della valenza socio sanitaria dei nuovi
servizi, espressamente indicata dal legislatore, si ritiene
che gli stessi non possano essere imputati al Comune,
deputato allo svolgimento delle funzioni che riguardano i
servizi alla persona (art. 13, c. 1, D.Lgs. n. 267/2000
[16]; art.
16, c. 1, L.R. n. 1/2006 [17]),
i quali attengono alla sfera sociale e socio-assistenziale
[18] e non
a quella sanitaria e socio-sanitaria, di competenza del
Servizio sanitario.
---------------
[1] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4. La magistratura contabile
richiama, in questo senso, la giurisprudenza uniforme di
legittimità (tra le altre, Cass. civ., sez. III, 22.06.2004,
n. 11608) e amministrativa (tra le altre, Consiglio di
Stato, Sez. V, 06.12.2007, n. 6265, secondo cui, in caso di
presenza di un bene del patrimonio disponibile, l'utilizzo
della concessione amministrativa non trova alcun fondamento
normativo né alcuna giustificazione, ma si risolve solo ed
esclusivamente nell'elusione di norme inderogabili poste dal
diritto privato).
[2] Cass. civ., sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Cass. civ.,
sez. III, 19.12.2005, n. 27931.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia,
deliberazione 09.06.2011, n. 349.
[4] Ai sensi del comma 3 in argomento, 'A decorrere dal
01.01.1994, il canone degli alloggi concessi in uso
personale a propri dipendenti dall'amministrazione dello
Stato, dalle regioni e dagli enti locali, nonché quello
corrisposto dagli utenti privati relativo ad immobili del
demanio, compresi quelli appartenenti al demanio militare,
nonché ad immobili del patrimonio dello Stato, delle regioni
e degli enti locali, è aggiornato, eventualmente su base
nazionale, annualmente, con decreto dei Ministri competenti,
d'intesa con il Ministro del tesoro, o degli organi
corrispondenti, sulla base dei prezzi praticati in regime di
libero mercato per gli immobili aventi analoghe
caratteristiche e, comunque, in misura non inferiore
all'equo canone. A decorrere dal 01.01.1995 gli stessi
canoni sono aggiornati in misura pari al 75 per cento della
variazione accertata dall'Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) dell'ammontare dei prezzi al consumo per le famiglie
degli operai e impiegati, verificatesi nell'anno
precedente'.
[5] Il comma 8 in argomento prevede che 'A decorrere dal
01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al
patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle
disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in
rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore
comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli
scopi sociali'.
[6] Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio
03.05.2004, n. 1737/2004 e 02.03.2009, n. 262/2009.
[7] Corte Conti, sez. II giurisdizionale centrale d'appello,
22/04/2010, n. 149. Nello stesso senso, Corte dei conti,
sez. reg. contr. Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170,
secondo cui l'obbligo della gestione economica del bene
pubblico, in modo da aumentarne la produttività in termini
di entrate finanziarie, rappresenta attuazione del principio
costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.), del quale
l'economicità della gestione amministrativa costituisce il
più significativo corollario.
[8] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia,
deliberazione 17.06.2010, n. 672 e deliberazione 09.06.2011,
n. 349. Nello stesso senso, Corte dei conti Veneto
22.04.2009, n. 33.
[9] Corte dei conti Veneto n. 716/2012. Conforme
sull'interpretazione delle norme in argomento, Corte dei
conti Puglia n. 170/2013 cit.. La posizione della Corte dei
conti Veneto sull'assenza dello scopo di lucro è altresì
richiamata dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione
12.12.2014, n. 216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n,
172; Molise deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[10] Corte dei conti Molise n. 1/2015 cit..
[11] Corte dei conti Puglia n. 170/2013 cit. -nel
riaffermare dopo la Sezione veneta n. 716/2012 le eccezioni
ai principi generali della gestione economica quali quelle
espressamente indicate dal legislatore (art. 32, comma 8, L.
724/1994, interpretato alla luce del comma 3 dell'art. 32
medesimo; art. 32, L. n. 383/2000)- nel caso specifico,
rimette alla valutazione dell'ente la possibilità di
stipulare il comodato in favore di società consortile senza
fini di lucro, previa valutazione comparativa degli
interessi pubblici secondo i principi già espressi dalla
giurisprudenza contabile in ordine alla gestione dei beni
pubblici (in particolare, Corte dei conti Lombardia n.
349/2011, cit.);
Corte dei conti Lombardia n. 172/2014 cit. - nel premettere
che la Corte dei conti Veneto n. 716/2012 ha chiaramente
evidenziato che la deroga al principio generale di
redditività del bene pubblico può essere giustificata solo
dall'assenza dello scopo di lucro dell'attività
concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni
- nel caso specifico, rimette all'ente la scelta gestionale
di prevedere tariffe agevolate o la gratuità per l'utilizzo
dei beni pubblici in favore di associazioni no profit;
Corte dei conti Puglia n. 216/2014 cit. - richiamata la
numerosa giurisprudenza sull'assenza di lucro a
giustificazione della deroga al principio generale di
redditività del bene pubblico - nel caso specifico, si
esprime in senso favorevole alla concessione in comodato
alla Guardia di Finanza di un immobile comunale per
l'allocazione della relativa caserma;
Corte dei conti Molise n. 1/2015, cit.. Sul principio del
riconoscimento di una riduzione del canone concessorio per
l'utilizzo di beni pubblici (nel caso demaniali) da parte
del privato, a fini di pubblico interesse, da cui il
concessionario non tragga alcun lucro, v. anche Consiglio di
Stato 03.06.2014, n. 2839, con specifico riferimento alla
normativa recata dal Codice della navigazione.
[12] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit.. Conformi:
Corte dei conti Lombardia, n. 172/2014, cit.; Corte dei
conti Molise n. 1/2015, cit..
[13] Cass. civ., sez. lav., 24.02.1986, n. 1149. Nello
stesso senso, Cass. civ., sez. trib., 03.08.2007, n. 17116.
Sull'indubbia natura commerciale dell'attività del
farmacista, v. anche Consiglio di Stato, sez. III,
25.01.2012, n. 324, e TAR Cagliari, sez. I, 24.02.2010, n.
223.
Inoltre, in generale, in ordine al concetto di impresa, la
Cassazione civile, sez. trib., 16.07.2010, n. 16722,
richiama la consolidata giurisprudenza della Corte di
giustizia, nell'ambito del diritto alla concorrenza, secondo
cui la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che
eserciti un'attività economica (Corte di giustizia UE, sez.
VI, 23.04.1991, n. 41 e 11.12.1997, n. 55), e costituisce
un'attività economica qualsiasi attività consistente
nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte
di giustizia UE, sez. V, 18.06.1998, n. 35).
[14] Ai sensi dell'art. 122, R.D. 27.07.1934, n. 1265
(Approvazione del Testo unico delle leggi sanitarie) oggetto
prevalente dell'attività del farmacista è la vendita di
medicinali «messi in commercio già preparati e
confezionati».
[15] D.Lgs. 03.10.2009, n. 153, in attuazione del quale sono
stati emanati i DM 16.12.2010, il DM 08.07.2011 e il DM
11.12.2012.
[16] 'Spettano al comune tutte le funzioni amministrative
che riguardano la popolazione ed il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona
e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del
territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia
espressamente attribuito al altri soggetti dalla legge
statale o regionale, secondo le relative competenze'.
[17] 'Il comune è titolare di tutte le funzioni
amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo
sviluppo economico e sociale e il governo del territorio
comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge
ad altri soggetti istituzionali'.
[18] V. art. 6, L. n. 328/2000, secondo cui i comuni sono
titolari delle funzioni amministrative concernenti gli
interventi sociali svolti a livello locale e v. altresì art.
10, L.R. n. 6/2006, secondo cui i comuni sono titolari delle
funzioni amministrative concernenti la realizzazione del
sistema locale di interventi e servizi sociali (21.11.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari comunali. Rimborso spesa quota parte per
segretario dell'UTI.
L'art. 32, comma 5-ter, del d.lgs.
267/2000, stabilisce che il presidente dell'Unione di comuni
si avvale del segretario di un comune facente parte
dell'Unione, senza che ciò comporti l'erogazione di
ulteriori indennità e, comunque, senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica.
Si ritiene opportuno che i rapporti tra gli enti coinvolti
all'utilizzo della figura del Segretario siano regolati da
apposita convenzione, che definisca in dettaglio anche i
profili economici e le quota di partecipazione alle spese
inerenti al trattamento economico del medesimo, ferma
restando l'osservanza delle norme statali sull'ordinamento
dei segretari e di quelle sul contenimento della spesa per
il personale.
Il Comune rappresenta di voler procedere alla nomina del
Segretario dell'UTI individuando a tal fine il segretario
comunale attualmente titolare di una convenzione tra Comuni
limitrofi.
Il Sindaco del Comune capofila, per concedere detta
autorizzazione, richiede un rimborso spese pari alle ore
effettivamente prestate dal segretario a favore dell'Unione.
Si precisa che in ogni caso non si verrebbe a corrispondere
alcun emolumento aggiuntivo al segretario medesimo.
Premesso un tanto, l'Amministrazione istante chiede:
- quale atto sia necessario per disciplinare i relativi
rapporti economici tra UTI e amministrazione comunale che
autorizza la funzione di segretario a favore dell'UTI,
ovvero se sia sufficiente l'atto di nomina a Segretario da
parte del Presidente, ove si specifica che le ore prestate a
favore dell'UTI verranno rimborsate:
- se la quota parte di rimborso da parte dell'UTI possa
costituire valorizzazione ai fini del rispetto della spesa
di personale da parte del Comune titolare della convenzione
di segreteria.
Sentito il Servizio finanza locale, si espone quanto segue.
Preliminarmente si osserva che l'art. 5, comma 2, della l.r.
26/2014 stabilisce che l'Unione territoriale intercomunale
ha autonomia statutaria e regolamentare secondo le modalità
previste dalla legge medesima e precisa che, al predetto
ente, si applicano i principi fissati per l'ordinamento
degli enti locali e, in quanto compatibili, le norme di cui
all'articolo 32 del d.lgs. 267/2000.
Il citato art. 32, al comma 5-ter, stabilisce che il
presidente dell'Unione di comuni si avvale del segretario di
un comune facente parte dell'Unione, senza che ciò comporti
l'erogazione di ulteriori indennità e, comunque, senza nuovi
o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Si fa notare che il segretario dell'Unione è tuttora un
istituto (al pari del segretario dei comuni) disciplinato
dalla normativa statale e l'attività espletata dallo stesso,
per conto dell'Unione, rientra nelle funzioni istituzionali
svolte da detta figura, come avviene per l'ente Comune.
Premesso un tanto, venendo al merito della questione
prospettata e fermo restando che specifiche norme, anche di
carattere finanziario, potrebbero disciplinare in concreto
la fattispecie sottoposta, sentito il Servizio finanza
locale, si ritiene utile fornire le seguenti considerazioni.
Si evidenzia che la ratio sottesa all'art. 32, comma
5-ter del d.lgs. 267/2000, è in sostanza quella di imporre
tassativamente il divieto di retribuire, in forma aggiuntiva
rispetto a quanto consentito dall'ordinamento vigente, le
funzioni di Segretario dell'Unione, venendo a gravare
ulteriormente sulle finanze dei Comuni costituenti l'Unione
stessa.
Ciò non toglie che si ipotizzi ragionevolmente un
coinvolgimento di tutti gli Enti interessati all'utilizzo
del Segretario, nel concorrere proporzionalmente all'accollamento
della spesa relativa ai compensi spettanti a detta figura,
in relazione all'impegno richiesto nelle varie sedi
amministrative.
Si ritiene opportuno comunque che i rapporti tra gli Enti
coinvolti all'utilizzo della figura del Segretario siano
regolati da apposita convenzione, che definisca in dettaglio
anche i profili economici e le quote di partecipazione alle
spese inerenti al trattamento economico del medesimo L'atto
di nomina da parte del Presidente non sembra infatti
sufficiente a determinare detti aspetti, anche considerando
che successivamente dovranno essere adottati i prescritti
provvedimenti di impegno di spesa da parte del Responsabile
competente.
Si osserva a tal proposito che, per quanto riguarda la
compatibilità del cennato atto convenzionale con la
normativa vigente sull'ordinamento dei segretari comunali ed
in particolare con la vigente convenzione fra due Comuni
limitrofi, è opportuno contattare la Prefettura di Trieste,
competente in materia.
Per quanto concerne poi la questione se la quota di rimborso
da parte dell'UTI possa costituire valorizzazione ai fini
del rispetto delle norme sul contenimento della spesa di
personale, da parte del Comune titolare della convenzione di
segreteria, al fine di ottenere indicazioni riferite alla
applicazione, alla situazione concreta ed al contesto
locale, delle norme sul contenimento della spesa, si
suggerisce di valutare la possibilità di interpellare la
sezione regionale della Corte dei conti.
In via collaborativa, si riportano di seguito in sintesi gli
orientamenti finora espressi dalla magistratura contabile.
La Sezione Autonomie della Corte dei conti
[1] ha
sottolineato che il caso dell'Unione merita ulteriori
momenti di approfondimento, anche alla luce delle
problematiche che una più ampia utilizzazione della figura
del Segretario potrà far emergere. Con riferimento alle
convenzioni di segreteria, non si è comunque ritenuto
possibile suddividere la spesa pro quota, ai fini del limite
della voce complessiva 'spese di personale'.
In linea generale, si rileva che la magistratura contabile
[2] ha
richiamato alcuni orientamenti espressi dalle varie Sezioni
regionali di controllo, che hanno confermato l'orientamento
secondo cui il contenimento dei costi del personale dei
comuni deve essere valutato sotto il profilo sostanziale,
sommando alla spesa di personale propria la quota parte di
quella sostenuta dall'Unione dei comuni [3].
In particolare, si è evidenziato che 'il dato relativo
alla spesa di personale da prendere in considerazione non
può essere solo quello di ciascun Comune o dell'Unione
poiché si tratterebbe di un dato incompleto e fuorviante
(...) ma quello complessivo degli enti e dell'Unione'.
L'intento del legislatore, infatti, sembra essere quello di
non limitarsi ad una considerazione puramente formale delle
spese di personale di ciascun ente, ma di valutare, da un
punto di vista sostanziale, l'entità delle stesse al fine di
evitare incrementi incontrollati.
Nel caso dell'Unione -ha rilevato la Corte dei conti- è
ragionevole che l'esame del rispetto della normativa in
materia di spese di personale avvenga considerando sia la
spesa dei singoli enti che quella dell'Unione in modo che
alla costituzione del nuovo soggetto consegua un effettivo
risparmio e non un incremento elusivo dei limiti posti ai
singoli soggetti costitutori.
Si è inoltre rilevato che la spesa sostenuta per il
personale dell'Unione non può comportare, in sede di prima
applicazione, il superamento della somma delle spese di
personale sostenute precedentemente dai singoli comuni
partecipanti.
---------------
[1] Cfr. n. 17/SEZAUT/2013/QMIG.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la
Lombardia, n. 313/2015/PAR.
[3] Cfr. Sez. Autonomie, deliberazione n. 8/AUT/2011/QMIG
(15.11.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
rimozione di una sbarra in ferro di mt. 4,80 circa x m. 1,00 di altezza,
posta all'ingresso della strada.
In punto di diritto il Collegio non ha rinvenuto
significativi precedenti giurisprudenziali specificamente
inerenti alla tipologia di opera in questione e ben conosce
quella giurisprudenza secondo cui un intervento quale
l’installazione di un cancello non costituisce un abuso
edilizio soggetto a demolizione, trattandosi di un
intervento non subordinato al preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Ed ancora che la sostituzione di un cancello non comporta
trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il
rilascio del permesso di costruire, in quanto attività
edilizia libera o al più integrante intervento di mera
manutenzione ordinaria.
Il Collegio rileva come un altro orientamento
giurisprudenziale dia rilevanza urbanistica, seppure a fini
paesaggistici, all’installazione ex novo di un cancello in
ferro (a differenza della mera sostituzione), stante la sua
idoneità a produrre una sensibile alterazione dello stato
dei luoghi e conseguente trasformazione edilizia.
Ritiene, in ogni caso, il medesimo Collegio che la
realizzazione di un’opera come quella in questione,
consistente nell’istallazione di una sbarra di ferro, con
relativo basamento nel terreno, fissa e lunga mt. 4,80, a
chiusura di una strada, richiedesse il permesso di
costruire, incidendo in modo permanente e non precario
sull'assetto edilizio del territorio.
Ciò anche in considerazione della tipologia di intervento,
diversa rispetto alla posa in opera di un cancello in
sostituzione, che comporta una rilevanza ben maggiore di
impatto sul territorio, avendo a oggetto un’opera avente
carattere di stabilità e volta ad interdire, in maniera
permanente, la percorrenza di una via.
---------------
FATTO
Il Comune di Mondragone, con Disposizione Dirigenziale n.
14/2011, ordinava alla parte ricorrente la rimozione di una
sbarra in ferro di mt. 4,80 circa x m. 1,00 di altezza,
posta all'ingresso della via De Amicis.
Motivava l’ordine ripristinatorio sulla base della
circostanza che la sbarra in questione sarebbe stata
installata abusivamente.
Le parti ricorrenti, con ricorso notificato il 23.11.2011,
hanno impugnato la suindicata ordinanza, nonché ogni altro
atto preordinato, connesso o consequenziale, chiedendone
l’annullamento, previa sospensione, in quanto l’ordine di
demolizione sarebbe stato adottato sul presupposto non
veritiero che la strada di fatto interrotta con la sbarra
metallica risulterebbe essere pubblica o di uso pubblico.
In
realtà, asseriscono i ricorrenti, si tratterebbe di una
strada privata non interessata da alcun diritto di uso
pubblico. Inoltre, dal punto di vista del titolo abilitativo
edilizio, l’edificazione dell’opera in questione non avrebbe
necessitato del rilascio di un permesso di costruire.
E’ intervenuta in giudizio ad opponendum Al.Me., che ha formulato argomentazioni difensive e
sostenuto che l’istallazione oggetto di ordine di
demolizione le impediva l’accesso al proprio fondo.
L’adito TAR, con ordinanza n. 265/2012, ha rigettato
l’istanza cautelare “considerato che i ricorrenti non
risultano aver addotto elementi probatori sufficienti ad
escludere l’assoggettamento a servitù pubblica della strada
attinta dall’intervento abusivo di cui alla gravata
ordinanza n. 14 del 14.09.2011”.
Il Consiglio di
Stato, adito in sede di appello, ha confermato con ordinanza
n. 1902/2012, il provvedimento di rigetto rilevando,
sull'assenza del fumus boni iuris, che “l’intervento è stato
realizzato in assenza di titolo abilitativo”.
DIRITTO
Il ricorso si rivela infondato.
L’ordine di demolizione è stato motivato dal Comune con
l’assenza di un titolo abilitativo edilizio, senza espressa
menzione del carattere pubblico dell’area o dell’esistenza
di un diritto di uso pubblico.
In punto di fatto appare pacifico che l’intervento
realizzato non è suffragato da alcun titolo abilitativo
edilizio.
In punto di diritto il Collegio non ha rinvenuto
significativi precedenti giurisprudenziali specificamente
inerenti alla tipologia di opera in questione e ben conosce
quella giurisprudenza secondo cui un intervento quale
l’installazione di un cancello non costituisce un abuso
edilizio soggetto a demolizione, trattandosi di un
intervento non subordinato al preventivo rilascio del
permesso di costruire (TAR Basilicata Potenza Sez. I,
31.05.2016, n. 575; TAR Liguria, I, 09.12.2009, n. 3562);
e ancora che la sostituzione di un cancello non comporta
trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il
rilascio del permesso di costruire, in quanto attività
edilizia libera o al più integrante intervento di mera
manutenzione ordinaria (TAR Campania Napoli Sez. III,
11/05/2015, n. 2600).
Il Collegio rileva come un altro orientamento
giurisprudenziale dia rilevanza urbanistica, seppure a fini
paesaggistici, all’installazione ex novo di un cancello in
ferro (a differenza della mera sostituzione), stante la sua
idoneità a produrre una sensibile alterazione dello stato
dei luoghi e conseguente trasformazione edilizia (TAR
Campania Napoli, Sez. III, sentenze n. 439 e 1306 del 2016).
Ritiene, in ogni caso, il medesimo Collegio che la
realizzazione di un’opera come quella in questione,
consistente nell’istallazione di una sbarra di ferro, con
relativo basamento nel terreno, fissa e lunga mt. 4,80, a
chiusura di una strada, richiedesse il permesso di
costruire, incidendo in modo permanente e non precario
sull'assetto edilizio del territorio.
Ciò anche in considerazione della tipologia di intervento,
diversa rispetto alla posa in opera di un cancello in
sostituzione, che comporta una rilevanza ben maggiore di
impatto sul territorio, avendo a oggetto un’opera avente
carattere di stabilità e volta ad interdire, in maniera
permanente, la percorrenza di una via.
Per le suindicate ragioni il ricorso deve essere rigettato.
Stante l’assenza di precedenti giurisprudenziali consolidati
in ordine alla soluzione adottata, il Collegio ritiene
sussistano gravi ed eccezionali motivi per disporre la
compensazione tra le parti delle spese di lite
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.11.2016 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38 D.P.R. 380/2001
appartiene al genus delle misure ripristinatorie.
Significativa in tal senso si appalesa la circostanza che
essa è prevista dalla norma in sostituzione della misura
demolitoria, di cui è indiscussa la natura reale.
Pertanto, posto il carattere reale dell’una (quella
demolitoria), non può che concludersi che anche l’altra
(quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura, attesa
l’alternatività delle misure in questione.
Deve, dunque, concludersi che la misura di cui all’art. 38
cit. è diretta all’eliminazione della situazione
obiettivamente antigiuridica conseguente alla realizzazione
e permanenza di un’opera contrastante con la vigente
disciplina urbanistica nonché, al conseguente ripristino
dell’ordine urbanistico violato.
La predetta natura reale conferisce alla sanzione de qua la
prerogativa di seguire l’immobile nei suoi successivi
trasferimenti di proprietà, sicché essa è legittimamente
comminata in capo all’attuale proprietario dell’opera
abusiva.
---------------
1.- Con il ricorso introduttivo depositato in data
22.06.2015, il sig. Ni.Vi.Pi.Sa., in qualità di titolare
dell’impresa individuale “Al. di Sa.Vi.Ni.Pi.”, ha chiesto
l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia esecutiva,
del provvedimento con il quale il Comune resistente ha
comminato, nei suoi confronti, la sanzione pecuniaria di
oltre 400.000,00 euro, prevista dall’art. 38 D.P.R.
380/2001, per interventi eseguiti in base a permesso di
costruire successivamente annullato.
L’odierno ricorrente –questo, in estrema sintesi, il nucleo
delle doglianze formulate- si duole dell’erronea irrogazione
della predetta sanzione nei suoi confronti, nonostante la
propria estraneità rispetto alla realizzazione dell’opera
abusiva, deducendo la violazione del citato art. 38 D.P.R.
380/2001.
In particolare, espone in narrativa di aver acquistato, in
buona fede, dalla società Di.Co. s.r.l., l’immobile rispetto
al quale è stata irrogata la misura ex art. 38 cit., facente
parte di un più ampio complesso immobiliare destinato alla
realizzazione di un centro polifunzionale, ubicato nel
Comune di Gioia del Colle e deputato a “negozio
commerciale al piano ammezzato (primo catastale) della
superficie di circa metri quadrati centoventicinque (mq.
125)”, realizzato in virtù del permesso di costruire n.
115/2004, successivamente annullato in sede giurisdizionale
per effetto della sentenza del Consiglio di Stato n.
2578/2012, all’esito di un giudizio del quale egli afferma
di non aver avuto notizia.
Deduce, conclusivamente, la propria estraneità non solo
all’abuso commesso (dunque, sotto il profilo oggettivo), ma
anche alla conoscenza dello stesso al momento dell’acquisto
(dunque, sotto il profilo soggettivo), di cui ha avuto
notizia solo successivamente al rogito notarile.
2.- Con motivi aggiunti del 26.04.2016, parte ricorrente ha
impugnato le note del Comune di Gioia del Colle del
02.11.2015 e prot. 1798 del 22.01.2016, recanti
autorizzazione, in favore della società cooperativa Coop
Es., alla surrogazione, ex art. 1201 c.c., “in tutte le
ragioni di fatto e di diritto vantate nei confronti dei
comproprietari debitori”, compreso l’odierno ricorrente,
con riguardo alla sanzione pecuniaria per cui è causa.
3.- Con ulteriori motivi aggiunti del 09.06.2016, parte
ricorrente ha chiesto, infine, l’annullamento della
determinazione del 29.12.2015 nr. Gen. 1227 (nr. Sett. 199)
del Responsabile del Settore del Comune di Gioia del Colle,
con la quale il Comune intimato stabiliva di prendere atto
dell’istanza formulata dalla società cooperativa Coop.
Estense in data 01.12.2015, “con l’impegno di autorizzare
la stessa Società a surrogarsi, ex art. 1201 del C.C., in
tutte le ragioni di fatto e di diritto vantate nei confronti
dei debitori della predetta sanzione in qualità di
comproprietari dell’immobile di che trattasi”.
4.- Costituendosi in resistenza il Comune di Gioia del
Colle, ha chiesto il rigetto dell’avverso ricorso poiché
infondato, difendendo la legittimità dell’operato dei propri
uffici sulla scorta della natura reale e ripristinatoria
della sanzione comminata.
5.- Con controricorso del 30.05.2016, si è costituita in
giudizio anche la società cooperativa Coop Alleanza 3.0,
chiedendo il rigetto dell’avverso ricorso.
6.- Con ordinanza n. 458 del 2015, non impugnata, è stata
accolta la domanda cautelare, in ragione dell’entità
pecuniaria della sanzione irrogata e del conseguente
possibile pregiudizio derivante dal pagamento della stessa,
riservando alla fase di merito, l’esame più approfondito
delle doglianze prospettate.
7.- Alla pubblica udienza del 06.10.2016, la causa è stata
trattenuta in decisione.
8.- Il vaglio delle censure prospettate, proprio della fase
di merito conduce a ritenere i ricorsi (principali e per
motivi aggiunti) infondati, con conseguente loro reiezione.
8.1.- L’odierno ricorrente fonda la sua pretesa:
a) sull’estraneità alla commissione dell’abuso (in quanto mero
avente causa dell’autore dell’opera abusiva);
b) sulla propria buona fede, incontestata e dimostrata dal
contratto di compravendita dell’immobile (versato in atti),
nel quale si dà atto espressamente che, “ai sensi della
vigente normativa urbanistica ed edilizia, la parte
venditrice come sopra rappresentata dichiara che il
fabbricato di cui il compendio immobiliare predetto è
porzione, è stato realizzato in virtù delle concessioni e
provvedimenti amministrativi in premessa citati”, nonché
dalla circostanza che dal predetto contratto non era dato in
alcun modo evincere la pendenza del contenzioso
successivamente sfociato nell’annullamento del permesso di
costruire in virtù del quale l’immobile compravenduto era
stato realizzato.
Si appella, pertanto, ai principi valevoli per la categoria
di sanzioni amministrative aventi funzione
afflittivo-retributiva, dirette a punire il solo autore
dell’illecito per la violazione commessa con scopo di
prevenzione generale e speciale, deducendo –in questo il
punto nodale della tesi prospettata- che la propria totale
estraneità alla commissione dell’abuso lo esonererebbe dal
subirne gli effetti di cui all’art. 38 cit..
Tanto sul presupposto che la misura di cui alla disposizione
applicata partecipi della stessa natura delle suddette
sanzioni che può sinteticamente racchiudersi nel principio
di personalità della responsabilità.
8.2.-. La domanda dell’odierno ricorrente verte,
conclusivamente, su di un’unica questione di diritto,
attinente alla titolarità passiva della sanzione di cui
all’art. 38 cit..
La tesi prospettata non è fondata.
La sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38 D.P.R.
380/2001, come invece, dedotto dagli odierni resistenti,
appartiene al genus delle misure ripristinatorie.
Significativa in tal senso si appalesa la circostanza che
essa è prevista dalla norma in sostituzione della misura
demolitoria, di cui è indiscussa la natura reale.
Pertanto, posto il carattere reale dell’una (quella
demolitoria), non può che concludersi che anche l’altra
(quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura, attesa
l’alternatività delle misure in questione.
Deve, dunque, concludersi che la misura di cui all’art. 38
cit. è diretta all’eliminazione della situazione
obiettivamente antigiuridica conseguente alla realizzazione
e permanenza di un’opera contrastante con la vigente
disciplina urbanistica nonché, al conseguente ripristino
dell’ordine urbanistico violato.
La predetta natura reale conferisce alla sanzione de qua la
prerogativa di seguire l’immobile nei suoi successivi
trasferimenti di proprietà, sicché essa è legittimamente
comminata in capo all’attuale proprietario dell’opera
abusiva (cfr., ex multis, TAR Piemonte n. 52874 del
2003; TAR Liguria n. 306 del 2009; TAR Toscana n. 361 del
2012.)
Conclusivamente i ricorsi devono essere respinti
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 16.11.2016 n. 1290 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
ricorrente ha collocato sul fondo di sua proprietà, avente
destinazione agricola, una serie di veicoli e mezzi targati
e altri beni. Sicché, vi è stato certamente un mutamento
funzionale della destinazione dell’area, in quanto
l’utilizzazione della stessa quale parcheggio e deposito di
mezzi e materiali di vario genere non può essere considerata
compatibile con la destinazione agricola prevista dagli
strumenti urbanistici.
Appare evidente che lo stazionamento quotidiano sull’area di
mezzi e attrezzi per svolgere l’attività di imprenditore
edile non può ritenersi precario o contingente, ma
funzionale a soddisfare esigenze stabili nel tempo,
strettamente collegate all’attività imprenditoriale del
ricorrente, che risulta idoneo ad alterare lo stato dei
luoghi, a nulla rilevando la rimovibilità dei mezzi e
l’assenza di opere edilizie. Ciò imprime una differente
destinazione d’uso al bene (area a parcheggio mezzi e
stoccaggio attrezzi) che è da ritenersi incompatibile con
quella individuata dallo strumento urbanistico vigente (area
agricola).
Pertanto, non appare condivisibile la giurisprudenza citata
dalla difesa del ricorrente, secondo la quale sarebbe
compatibile con la destinazione agricola del fondo anche una
sua utilizzazione come parcheggio, avuto riguardo alla
circostanza che l’impatto urbanistico, oltre che ambientale,
di un parcheggio di rilevante consistenza, qual è quello di
macchinari e attrezzature per svolgere attività
imprenditoriale, non qualificabile nemmeno come precario e
temporaneo, è certamente impattante rispetto a tutto il
contesto circostante.
In tal senso può essere richiamato l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale laddove il cambio di
categoria edilizia determina un ulteriore carico
urbanistico, unitamente alla dotazione di standard, detta
circostanza rende irrilevante verificare se tale modifica
sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie.
Difatti, è stato affermato che in materia edilizia, l’art.
32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come
“variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente
art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in
pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque
realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una
variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n.
1444.
---------------
Il mutamento di destinazione per essere rilevante non
richiede necessariamente la realizzazione di opere edilizie
e laddove siano richieste dotazioni aggiuntive di servizi e
spazi pubblici si è al cospetto di una trasformazione
urbanistica, soggetta a permesso di costruire (già
concessione edilizia).
La parte ricorrente assume, in maniera del tutto apodittica,
che nella fattispecie de qua non siano richieste dotazioni
aggiuntive di servizi e spazi pubblici e quindi non sia
necessario il permesso di costruire.
In realtà, la realizzazione di un parcheggio e di un’area di
stoccaggio richiede necessariamente delle dotazioni
aggiuntive: da un punto di vista della viabilità, c’è una
grande differenza tra una zona agricola, che potrebbe anche
non essere servita da alcuna arteria stradale, e un
parcheggio che, al contrario, deve essere inserito in un
contesto viabilistico idoneo a limitare i problemi di
traffico e a garantire la sicurezza nella zona interessata;
anche da quest’ultimo punto di vista, ovvero della garanzia
di sicurezza, un parcheggio necessita di interventi
(segnaletica, realizzazione di innesti nelle strade
principali, di protezioni per i pedoni e gli automobilisti
che ne usufruiscono, raggiungibilità da parte dei mezzi di
soccorso, ecc.) che non sono richiesti per una zona
esclusivamente agricola.
Di conseguenza, nella presente fattispecie sarebbe stato
necessario munirsi di un permesso di costruire e, pertanto,
appare corretta l’irrogazione della sanzione ripristinatoria
di cui all’art. 77 della legge regionale n. 11 del 1998 e
all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, comprensiva della
sanzione accessoria dell’acquisizione al patrimonio
comunale, nel caso di inottemperanza all’ordine di
rimessione in pristino.
Naturalmente va evidenziato che l’acquisizione al patrimonio
comunale è subordinata al decorso infruttuoso del termine
per adempiere all’ordinanza di rimessione in pristino (90
giorni) che, essendo stato sospeso con il decreto cautelare
n. 18/2016 e con l’ordinanza n. 23/2016, ricomincerà a
decorrere ex novo dalla comunicazione della presente
sentenza.
---------------
2. Con la prima doglianza si assume l’illegittimità
dell’ordinanza impugnata, sul presupposto che nessuna opera
sarebbe stata realizzata sull’area di proprietà del
ricorrente, che avrebbe semplicemente utilizzato la stessa,
in maniera assolutamente precaria e instabile e certamente
compatibile con la sua destinazione agricola, come
parcheggio di alcuni veicoli e mezzi targati, funzionanti e
utilizzati nell’esercizio dell’impresa attiva nei settori
dell’edilizia, dei servizi per la selvicoltura e delle
coltivazioni agricole associate all’allevamento.
2.1. La doglianza è infondata.
Il ricorrente ha collocato sul fondo di sua proprietà,
avente destinazione agricola, una serie di veicoli e mezzi
targati e altri beni, come risulta dal verbale redatto
all’esito del sopralluogo del 03.11.2015 (all. 4, richiamato
integralmente alle pagg. 7-8 del ricorso); è altresì
pacifico che nessuna opera è stata realizzata per modificare
la conformazione dei luoghi.
Nel caso de quo, vi è stato certamente un mutamento
funzionale della destinazione dell’area, in quanto
l’utilizzazione della stessa quale parcheggio e deposito di
mezzi e materiali di vario genere non può essere considerata
compatibile con la destinazione agricola prevista dagli
strumenti urbanistici; tale conclusione è avallata dal comma
3 dell’art. 73 della legge regionale n. 11 del 1998, secondo
il quale “all’interno di ogni categoria di destinazioni
d’uso, opera la presunzione che gli usi e le attività diano
luogo allo stesso peso insediativo; di contro, si presume
che il passaggio dall’una all’altra categoria dia luogo a
pesi insediativi diversi, e richieda pertanto standard
potenzialmente diversi”.
Ulteriormente il successivo art. 74, comma 1, chiarisce che
il mutamento di destinazione d’uso si verifica “quando
l’immobile, o parte di esso, viene ad essere utilizzato, in
modo non puramente occasionale e momentaneo, per lo
svolgimento di attività appartenenti ad una categoria di
destinazioni, fra quelle elencate all’art. 73, comma 2,
diversa da quella in atto”.
Appare evidente che lo stazionamento quotidiano sull’area di
mezzi e attrezzi per svolgere l’attività di imprenditore
edile non può ritenersi precario o contingente, ma
funzionale a soddisfare esigenze stabili nel tempo,
strettamente collegate all’attività imprenditoriale del
ricorrente, che risulta idoneo ad alterare lo stato dei
luoghi, a nulla rilevando la rimovibilità dei mezzi e
l’assenza di opere edilizie (sulla nozione di precarietà in
campo edilizio, da ultimo, TAR Emilia-Romagna, Bologna, I,
28.06.2016, n. 655). Ciò imprime una differente destinazione
d’uso al bene (area a parcheggio mezzi e stoccaggio
attrezzi) che è da ritenersi incompatibile con quella
individuata dallo strumento urbanistico vigente (area
agricola).
Pertanto, non appare condivisibile la giurisprudenza citata
dalla difesa del ricorrente, secondo la quale sarebbe
compatibile con la destinazione agricola del fondo anche una
sua utilizzazione come parcheggio (TAR Sardegna, Cagliari,
II, 14.09.2011, n. 926; TAR Veneto, Venezia, III,
18.03.2002, n. 1108), avuto riguardo alla circostanza che
l’impatto urbanistico, oltre che ambientale, di un
parcheggio di rilevante consistenza, qual è quello di
macchinari e attrezzature per svolgere attività
imprenditoriale, non qualificabile nemmeno come precario e
temporaneo, è certamente impattante rispetto a tutto il
contesto circostante.
In tal senso può essere richiamato l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale laddove il cambio di
categoria edilizia determina un ulteriore carico
urbanistico, unitamente alla dotazione di standard, detta
circostanza rende irrilevante verificare se tale modifica
sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie (TAR
Campania, Salerno, II, 08.03.2013, n. 580).
Difatti, è stato affermato che in materia edilizia, l’art.
32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione
essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31
con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (TAR Veneto,
Venezia, II, 21.08.2013, n. 1078; TAR Lombardia, Milano II,
27.07.2012, n. 2146).
2.2. Pertanto, la prima censura va respinta.
3. Con la seconda doglianza si eccepisce l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione, giacché la stessa sarebbe
stata adottata sull’erroneo presupposto che l’attività posta
in essere dal ricorrente necessitasse del rilascio di un
permesso di costruire, mentre si tratterebbe di attività
edilizia libera o, al più, soggetta a d.i.a., con rilevanti
conseguenze anche in termini di sanzioni applicabili.
3.1. La doglianza è infondata.
L’art. 74 della legge regionale n. 11 del 1998, al comma 2
stabilisce che “il mutamento della destinazione d’uso,
come disciplinato dal presente articolo, sussiste anche in
assenza di opere edilizie ad esso funzionali”. Al
successivo comma 3, si evidenzia inoltre che “il
mutamento della destinazione d’uso da cui deriva la
necessità di dotazioni aggiuntive di servizi e spazi
pubblici costituisce trasformazione urbanistica ed è
soggetto a concessione edilizia; la destinazione d’uso
finale deve essere ammessa dal PRG e dal PTP nell’area o
nell’immobile interessati; quando una destinazione d’uso non
sia ammessa dal PRG o dal PTP nell’area o nell’immobile
interessati, fatto salvo quanto stabilito nel comma 4, non
sono consentite trasformazioni edilizie o urbanistiche
preordinate a quella destinazione e non è consentito
destinare quell’immobile, o parte di esso, a quell’uso,
ancorché in assenza di opere edilizie”.
Emerge con evidenza dall’esame delle predette disposizioni
che il mutamento di destinazione per essere rilevante non
richiede necessariamente la realizzazione di opere edilizie
e laddove siano richieste dotazioni aggiuntive di servizi e
spazi pubblici si è al cospetto di una trasformazione
urbanistica, soggetta a permesso di costruire (già
concessione edilizia).
La parte ricorrente assume, in maniera del tutto apodittica,
che nella fattispecie de qua non siano richieste
dotazioni aggiuntive di servizi e spazi pubblici e quindi
non sia necessario il permesso di costruire.
In realtà, la realizzazione di un parcheggio e di un’area di
stoccaggio richiede necessariamente delle dotazioni
aggiuntive: da un punto di vista della viabilità, c’è una
grande differenza tra una zona agricola, che potrebbe anche
non essere servita da alcuna arteria stradale, e un
parcheggio che, al contrario, deve essere inserito in un
contesto viabilistico idoneo a limitare i problemi di
traffico e a garantire la sicurezza nella zona interessata;
anche da quest’ultimo punto di vista, ovvero della garanzia
di sicurezza, un parcheggio necessita di interventi
(segnaletica, realizzazione di innesti nelle strade
principali, di protezioni per i pedoni e gli automobilisti
che ne usufruiscono, raggiungibilità da parte dei mezzi di
soccorso, ecc.) che non sono richiesti per una zona
esclusivamente agricola.
Di conseguenza, nella presente fattispecie sarebbe stato
necessario munirsi di un permesso di costruire e, pertanto,
appare corretta l’irrogazione della sanzione ripristinatoria
di cui all’art. 77 della legge regionale n. 11 del 1998 e
all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, comprensiva della
sanzione accessoria dell’acquisizione al patrimonio
comunale, nel caso di inottemperanza all’ordine di
rimessione in pristino.
Naturalmente va evidenziato che l’acquisizione al patrimonio
comunale è subordinata al decorso infruttuoso del termine
per adempiere all’ordinanza di rimessione in pristino (90
giorni) che, essendo stato sospeso con il decreto cautelare
n. 18/2016 e con l’ordinanza n. 23/2016, ricomincerà a
decorrere ex novo dalla comunicazione della presente
sentenza.
3.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta
doglianza.
4. L’infondatezza delle censure di ricorso determina il
rigetto dello stesso (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 16.11.2016 n. 55 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
riconoscimento della qualità di controinteressato <deve
essere condotto sulla scorta del combinato di due
elementi: quello cosiddetto “sostanziale”, che
richiede l’individuazione della titolarità di un interesse
analogo e contrario alla posizione legittimante del
ricorrente e quello cosiddetto “formale”, che
richiede l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui
che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione>.
----------------
Difatti, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, il riconoscimento
della qualità di controinteressato <deve essere condotto
sulla scorta del combinato di due elementi: quello
cosiddetto “sostanziale”, che richiede
l’individuazione della titolarità di un interesse analogo e
contrario alla posizione legittimante del ricorrente e
quello cosiddetto “formale”, che richiede
l’indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla conservazione>
(Consiglio di Stato, VI, 16.07.2015, n. 3553; altresì, TAR
Lombardia, Milano, III, 11.03.2016, n. 507)
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 16.11.2016 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Pur essendo i Comuni esonerati dalla necessità di
uno specifico titolo edilizio per le opere dagli stessi
realizzate, comunque vi è l’obbligo del rispetto della
normativa urbanistica ed edilizia vigente, che deve essere
attestato proprio attraverso la relazione del tecnico
abilitato.
----------------
Nella presente fattispecie, oltre alla mancanza
dell’attestazione di conformità a livello urbanistico ed
edilizio, non risulta adottato neanche l’atto di validazione
del progetto esecutivo che, ai sensi dell’art. 7, comma 1,
lett. c, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve accompagnare la
delibera comunale di approvazione del progetto.
La specificazione, contenuta nel provvedimento impugnato,
che l’approvazione non sostituisce l’atto di validazione del
progetto esecutivo, della cui esistenza non si fa cenno, non
appare rispettosa del dettato normativo, che prescrive
l’adozione dell’atto di validazione in un momento anteriore
rispetto all’atto di approvazione della delibera da parte
degli organi comunali.
---------------
2. Passando
all’esame del merito del ricorso introduttivo, lo stesso è
fondato secondo quanto di seguito specificato.
3. Con la prima censura si assume l’illegittimità delle
deliberazione impugnata, giacché il progetto approvato con
la stessa non sarebbe corredato, secondo quanto previsto
dall’art. 62 della legge regionale n. 11 del 1998, della
relazione firmata da un tecnico abilitato e attestante la
conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche o
edilizie, nonché alle norme di sicurezza, sanitarie,
ambientali e paesaggistiche; nemmeno sarebbe stato adottato
l’atto di validazione di cui all’art. 7, comma 1, lett. c,
del D.P.R. n. 380 del 2001.
3.1. La doglianza è fondata.
L’art. 62 della legge regionale n. 11 del 1998 stabilisce
che “le deliberazioni con le quali vengono approvati i
progetti delle opere pubbliche comunali hanno i medesimi
effetti delle concessioni edilizie; i relativi progetti
devono peraltro essere corredati da una relazione a firma di
un tecnico abilitato che attesti la conformità del progetto
alle prescrizioni urbanistiche o edilizie, nonché alle norme
di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesaggistiche”.
Nel caso di specie –ovvero del progetto relativo
all’installazione di quattro strutture seminterrate per il
conferimento dei rifiuti nella località Cretaz– il fascicolo
risulta costituito dalla relazione tecnica, dagli elaborati
progettuali e dal computo metrico (all. 8 al ricorso).
Emerge pertanto in maniera evidente la mancanza della
relazione a firma di un tecnico abilitato che il citato art.
62 assume come obbligatorio corredo del progetto approvato
dagli organi comunali.
D’altronde, pur essendo i Comuni esonerati dalla necessità
di uno specifico titolo edilizio per le opere dagli stessi
realizzate, comunque vi è l’obbligo del rispetto della
normativa urbanistica ed edilizia vigente, che deve essere
attestato proprio attraverso la relazione del tecnico
abilitato (cfr., per una fattispecie similare, TAR Sicilia,
Catania, I, 19.09.2013, n. 2248; più in generale, Consiglio
di Stato, V, 05.11.2012, n. 5589).
Nemmeno può ritenersi che l’attestazione di conformità possa
ricavarsi implicitamente dalla relazione generale e dagli
altri allegati al progetto, atteso che, oltre al chiaro
disposto della normativa in precedenza richiamata, che
impone la redazione della relazione da parte del tecnico
abilitato, non emerge dal complesso della documentazione
riguardante il progetto alcun riferimento all’avvenuta
verifica della conformità dello stesso alle prescrizioni
urbanistiche o edilizie, nonché alle norme di sicurezza,
sanitarie, ambientali e paesaggistiche, avuto riguardo anche
alla mancanza di una puntuale motivazione in seno
all’autorizzazione paesaggistica.
In senso contrario, inoltre, non appare decisivo il rilievo
della difesa comunale che sottolinea come il progetto sia
frutto dell’opera di un libero professionista, ossia di un
dipendente della società Qu., e non già dell’Ufficio tecnico
comunale, per cui sarebbe escluso il rischio di un
sovrapposizione tra soggetto autorizzato e soggetto
autorizzante, che l’art. 62 citato vorrebbe scongiurare.
Difatti, la lettera della norma non sembra consentire una
tale riduttiva interpretazione, come sottolineato anche
nelle Circolare regionale di settore, secondo la quale “devono
essere a tutti gli effetti considerati progetti di opere
pubbliche comunali ai fini dell’applicazione dell’articolo
in esame [ovvero l’art. 62] i progetti redatti anche da
altre amministrazioni, qualora tali progetti riguardino
interventi da effettuarsi su proprietà comunali e che
ovviamente si configurino come interventi che avrebbero
potuto essere effettuati anche dal comune, nell’esercizio
delle proprie competenze istituzionali” (Circolare della
Direzione Urbanistica dell’Assessorato del Territorio,
Ambiente e Opere pubbliche della Regione Valle d’Aosta, prot.
n. 13766/UR del 06.07.2001).
3.2. Nella presente fattispecie, oltre alla mancanza
dell’attestazione di conformità a livello urbanistico ed
edilizio, non risulta adottato neanche l’atto di validazione
del progetto esecutivo che, ai sensi dell’art. 7, comma 1,
lett. c, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve accompagnare la
delibera comunale di approvazione del progetto.
La specificazione, contenuta nel provvedimento impugnato,
che l’approvazione non sostituisce l’atto di validazione del
progetto esecutivo, della cui esistenza non si fa cenno, non
appare rispettosa del dettato normativo, che prescrive
l’adozione dell’atto di validazione in un momento anteriore
rispetto all’atto di approvazione della delibera da parte
degli organi comunali (cfr. Cass. pen., III, 20.09.2012, n.
36038).
3.3. Pertanto, la prima censura va accolta
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 16.11.2016 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
3, primo comma, lett. d), del Testo Unico (come modificato
dapprima dall’art. 1 del d.lgs. n. 301 del 2002 e poi
dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013) ricomprende nella
ristrutturazione anche il “ripristino di edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati e demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”.
La vigente definizione normativa esclude, diversamente dal
passato, sia il requisito temporale della contestualità fra
demolizione e ricostruzione, sia la condizione del rispetto
della preesistente sagoma (con l’eccezione degli immobili
sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004),
subordinando il ripristino al solo limite della volumetria
preesistente.
La giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire, in termini
condivisibili, che la cancellazione del riferimento
all’identità di sagoma induce ad escludere anche l’esigenza
che sia conservata un’identica area di sedime: ne consegue
che la modesta traslazione della costruzione sul lotto di
pertinenza non comporta necessariamente la qualificazione
dell’intervento come “nuova costruzione”.
Si è osservato che, poiché la nozione di sagoma edilizia è
normalmente legata anche all’individuazione dell’area di
sedime del fabbricato, avendo il legislatore eliminato il
riferimento al rispetto della sagoma per gli immobili non
vincolati, la ristrutturazione edilizia consistente nella
demolizione e ricostruzione ben può contemplare lo
spostamento di lieve entità rispetto al sedime
originariamente occupato.
---------------
In fase cautelare, si era rilevato che il permesso “è stato
rilasciato a distanza di ben sei anni dal crollo del
preesistente immobile, sicché appare problematica la
riconducibilità dell’intervento di ‘ricostruzione’ alla
categoria della ristrutturazione edilizia, pur nella più
ampia definizione conseguente alle modifiche introdotte
dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (che conserva la
necessità di identica sagoma solo per gli immobili
vincolati)”.
Con il primo motivo, il ricorrente afferma l’intervento
progettato dalla Mo. s.r.l., avente ad oggetto la
ricostruzione dell’edificio residenziale crollato nel 2009,
integrerebbe la tipologia della “nuova costruzione”. Secondo
il ricorrente, nella specie difetterebbe la contestualità
tra la demolizione e la successiva ricostruzione, né sarebbe
dimostrata la perfetta coincidenza di volumi, superfici
occupate, sagoma e sedime. Su tali presupposti, il mancato
rispetto delle distanze minime prescritte dall’art. 53 delle
n.t.a. per la zona DT92 (cinque metri dal confine e dieci
metri dalle pareti finestrate) vizierebbe irrimediabilmente
il permesso di costruire.
Il Collegio, rimeditando l’avviso espresso sulla base della
sommaria cognizione propria della fase cautelare, ritiene
che l’intervento autorizzato dal Comune debba essere
senz’altro ricondotto alla tipologia della “ristrutturazione
edilizia”. E ciò, secondo un principio consolidato,
prescindendo dal nomen iuris che la società richiedente e
l’amministrazione hanno prescelto.
Come è noto, l’art. 3, primo comma – lett. d) del Testo
Unico (come modificato dapprima dall’art. 1 del d.lgs. n.
301 del 2002 e poi dall’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013)
ricomprende nella ristrutturazione anche il “ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati e demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”.
La vigente definizione normativa esclude, diversamente dal
passato, sia il requisito temporale della contestualità fra
demolizione e ricostruzione, sia la condizione del rispetto
della preesistente sagoma (con l’eccezione degli immobili
sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004),
subordinando il ripristino al solo limite della volumetria
preesistente.
La giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire, in termini
condivisibili, che la cancellazione del riferimento
all’identità di sagoma induce ad escludere anche l’esigenza
che sia conservata un’identica area di sedime: ne consegue
che la modesta traslazione della costruzione sul lotto di
pertinenza non comporta necessariamente la qualificazione
dell’intervento come “nuova costruzione” (cfr. TAR Abruzzo,
Pescara, 09.07.2015 n. 294).
Si è osservato che, poiché la nozione di sagoma edilizia è
normalmente legata anche all’individuazione dell’area di
sedime del fabbricato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.03.2013 n. 1564), avendo il legislatore eliminato il
riferimento al rispetto della sagoma per gli immobili non
vincolati, la ristrutturazione edilizia consistente nella
demolizione e ricostruzione ben può contemplare lo
spostamento di lieve entità rispetto al sedime
originariamente occupato.
Nel caso di specie, non è contestato che il nuovo edificio
progettato dalla controinteressata Mo. s.r.l. sia
coincidente, quanto a volume, con quello crollato. Né che la
superficie coperta risulti addirittura lievemente inferiore
a quella preesistente, per effetto dell’eliminazione del
porticato.
La modesta traslazione lineare verso ovest dell’edificio
ricostruito (per circa cinque metri) non impedisce di
qualificare la ricostruzione come “ristrutturazione
edilizia”, non soggetta al rispetto delle distanze minime
prescritte dallo strumento urbanistico per le nuove
edificazioni.
L’allineamento dell’edificio verso il lotto di proprietà del
ricorrente risulta, oltre che invariato, perfino ridotto
nella sua lunghezza totale, giacché l’area libera da
costruzioni sarà più ampia rispetto a quella preesistente
(si veda il doc. 12 della controinteressata, in particolare
la rappresentazione a colori dello stato sovrapposto al doc.
12.7 e 12.9).
Infine, non rileva in senso negativo l’intervallo di tempo
intercorso tra il crollo accidentale dell’edificio e l’avvio
della ricostruzione.
Alla luce della richiamata definizione di ristrutturazione
edilizia, l’elemento temporale assume importanza soltanto
laddove il proprietario non possa fornire la prova
documentale certa della consistenza dell’immobile crollato e
dello stato di fatto antecedente.
Nella specie, non sono emersi dubbi circa le originarie
dimensioni dell’edificio residenziale, crollato nel 2009. Né
vi sono contestazioni sul fatto che la società richiedente
le abbia correttamente indicate in progetto. Si aggiunga che
la società ha acquistato l’immobile mediante decreto di
trasferimento del Tribunale di Torino del 27.07.2011,
nel quale si è espressamente dato atto della preesistenza
dell’edificio sui terreni acquistati nell’ambito
dell’esecuzione immobiliare.
Per quanto fin qui detto, il primo ordine di censure è
infondato.
L’accertata riconducibilità dell’intervento controverso alla
categoria della “ristrutturazione edilizia” comporta, con
immediata evidenza, l’infondatezza del secondo e terzo
motivo di ricorso.
Ed infatti, l’art. 24 delle n.t.a. del piano regolatore
prescrive per le nuove costruzioni, e non per le
ristrutturazioni edilizie, l’obbligatorio reperimento di
aree destinate ad incrementare la dotazione di servizi
pubblici.
Allo stesso modo, diviene irrilevante ogni riferimento
all’art. 69 del regolamento edilizio comunale, in materia di
ricostruzione in deroga al piano regolatore, sebbene la
disposizione sia richiamata dalla società richiedente e dal
Comune in sede di rilascio del permesso. Non è necessario
stabilire se il progetto di ricostruzione comporti modifiche
alla sagoma, alle altezze ed alla posizione del nuovo
manufatto sull’area di sedime, poiché la ristrutturazione
sull’area acquisita dalla Monviso s.r.l. è consentita dallo
strumento urbanistico, senza che a quest’ultimo debba
derogarsi ai sensi della norma regolamentare.
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 15.11.2016 n. 1410 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: A
destinazione a verde pubblico, al pari di quella a vincolo
assoluto di protezione, non comporta tuttavia l'imposizione
di un vincolo espropriativo, ma conformativo, come tale non
sottoposto a indennizzo e decadenza, perché funzionale
all’interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale.
---------------
La documentazione in atti attesta che, secondo la disciplina
di piano regolatore comunale, destinata a essere superata
dall’approvando regolamento urbanistico, il mappale 676 di
proprietà dei ricorrenti è per una parte incluso in “Zone
a verde pubblico” e in “Zone di saturazione B4”
e, per la porzione più consistente, in “Zone a vincolo
assoluto di protezione”.
Al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti, la
destinazione a verde pubblico, al pari di quella a vincolo
assoluto di protezione, non comporta tuttavia l'imposizione
di un vincolo espropriativo, ma conformativo, come tale non
sottoposto a indennizzo e decadenza, perché funzionale
all’interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 09.12.2015,
n. 5582)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 11.11.2016 n. 1631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di “lotto intercluso”, di matrice
pretoria, ha una sua valenza giuridica nelle ipotesi in cui,
eccezionalmente, si ritenga potersi (e doversi) derogare al
divieto di rilascio di titoli edilizi in assenza della
preventiva approvazione della pianificazione attuativa
richiesta dallo strumento urbanistico generale.
Dalla situazione di interclusione, ammesso che sia
dimostrata, non deriva invece alcun obbligo
dell’amministrazione di modificare a richiesta degli
interessati la destinazione urbanistica del lotto, così come
non necessariamente essa dà luogo, in sede di esercizio
della potestà pianificatoria, ad affidamenti meritevoli di
particolare tutela sub specie di rafforzamento degli oneri
motivazionali gravanti sull’amministrazione procedente.
---------------
Né, in senso
contrario, rileva la pretesa qualità di fondo intercluso del
terreno di proprietà Ne./Bo..
La nozione di “lotto intercluso”, di matrice pretoria,
ha una sua valenza giuridica nelle ipotesi in cui,
eccezionalmente, si ritenga potersi (e doversi) derogare al
divieto di rilascio di titoli edilizi in assenza della
preventiva approvazione della pianificazione attuativa
richiesta dallo strumento urbanistico generale.
Dalla situazione di interclusione, ammesso che sia
dimostrata, non deriva invece alcun obbligo
dell’amministrazione di modificare a richiesta degli
interessati la destinazione urbanistica del lotto, così come
non necessariamente essa dà luogo, in sede di esercizio
della potestà pianificatoria, ad affidamenti meritevoli di
particolare tutela sub specie di rafforzamento degli oneri
motivazionali gravanti sull’amministrazione procedente (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2012, n. 6656)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 11.11.2016 n. 1631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La risarcibilità del danno da ritardo, relativo
ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso
da una valutazione concernente la spettanza del bene della
vita, ma debba essere subordinato anche alla dimostrazione
che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito
favorevole, e, quindi, alla dimostrazione della spettanza
definitiva del bene sostanziale della vita collegato ad un
tale interesse.
Ma anche a volersi muovere nella diversa ottica della
risarcibilità del danno da ritardo c.d. “puro”, dipendente
cioè dalla mera violazione dei tempi procedimentali e
svincolato dall’accertamento prognostico in ordine alla
spettanza del bene della vita (dunque, ipotizzabile anche
laddove detto accertamento abbia avuto esito negativo), il
tardivo esercizio della funzione amministrativa non può mai
considerarsi fonte di danno in re ipsa, mentre, i ricorrenti
si sono limitati a dedurre non meglio precisati danni “sia
esistenziali che economici”, dei quali non hanno però
dimostrato l’esistenza e l’entità, neppure attraverso
l’allegazione di elementi utilizzabili sul piano presuntivo.
---------------
2.1.2. Le considerazioni esposte evidenziano la totale
assenza dei presupposti per la configurabilità della
responsabilità dedotta a carico del Comune resistente.
Si aggiunga, quanto poi al pregiudizio asseritamente
derivante dalla violazione del “bene tempo”, che
nell’ottica della prevalente giurisprudenza, pur a seguito
del suo riconoscimento legislativo (art. 2-bis della legge
n. 241/1990), la risarcibilità del danno da ritardo,
relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non possa
essere avulso da una valutazione concernente la spettanza
del bene della vita, ma debba essere subordinato anche alla
dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia
destinata ad esito favorevole, e, quindi, alla dimostrazione
–del tutto mancante nella fattispecie– della spettanza
definitiva del bene sostanziale della vita collegato ad un
tale interesse (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. V,
22.09.2016, n. 3920; id., sez. IV, 06.04.2016, n. 1371).
Ma anche a volersi muovere nella diversa ottica della
risarcibilità del danno da ritardo c.d. “puro”,
dipendente cioè dalla mera violazione dei tempi
procedimentali e svincolato dall’accertamento prognostico in
ordine alla spettanza del bene della vita (dunque,
ipotizzabile anche laddove detto accertamento abbia avuto
esito negativo), il tardivo esercizio della funzione
amministrativa non può mai considerarsi fonte di danno in
re ipsa, mentre, i ricorrenti si sono limitati a dedurre
non meglio precisati danni “sia esistenziali che
economici”, dei quali non hanno però dimostrato
l’esistenza e l’entità, neppure attraverso l’allegazione di
elementi utilizzabili sul piano presuntivo (vi è solo la
generica allegazione del condizionamento che i ricorrenti
assumono di aver subito alla libera determinazione dei
propri interessi)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 11.11.2016 n. 1631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Altro
che "furbetto": è un truffatore il pubblico
dipendente che attesta falsamente la presenza in servizio.
La falsa attestazione del pubblico
dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata
sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra
il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani
senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o
della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che
questi ultimi siano economicamente apprezzabili.
L'omessa timbratura del cartellino, in occasione di
allontanamenti intermedi del dipendente, impedisce pertanto
a sua volta il controllo di chi è tenuto alla retribuzione,
sulla quantità dell'attività lavorativa prestata, tanto in
vista di un recupero (ove previsto) del periodo di assenza,
quanto in vista di una detrazione correlativa dal compenso
mensile, così che, sotto tali profili, costituisce condotta
idonea a trarre in inganno ed a far conseguire ingiusti
profitti.
---------------
L'omissione di cui si tratta è giuridicamente rilevante,
poiché il dipendente pubblico, nella specie, è tenuto ad
uniformarsi ai principi di correttezza, anche nella fase
esecutiva del contratto e, pertanto, ha l'obbligo giuridico
di portare a conoscenza della controparte del rapporto di
lavoro non soltanto l'orario di ingresso e quello di uscita,
ma anche quello relativo ad allontanamenti intermedi sempre
che questi, conglobati nell'arco del periodo retributivo,
siano economicamente apprezzabili: tale obbligo va adempiuto
tramite i sistemi all'uopo predisposti e, quindi anche
mediante la corretta timbratura del cartellino segnatempo o
della scheda magnetica, ove installati, salvo che siano
adottate altre procedure equivalenti, a condizione che
queste siano formali e probatoriamente idonee ad assolvere
alla medesima funzione.
In particolare, anche l'indebita percezione di poche
centinaia di euro, corrispondente alla porzione di
retribuzione conseguita in difetto di prestazione
lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile
per l'amministrazione pubblica e che danno apprezzabile non
è sinonimo di danno rilevante, non limitandosi il concetto
alla mera consistenza quantitativa ma investendo tutti gli
aspetti pregiudizievoli per il patrimonio.
---------------
2.1 Manifestamente infondato è anche il ricorso Bu..
2.1.a Inammissibili sono i primi due motivi del ricorso. E'
versato in fatto quello relativo alle modalità di
identificazione, modalità ritenute idonee nei due gradi del
giudizio di merito con motivazione congrua e non
manifestamente illogica.
Nessuna rilevanza può avere, rispetto all'affermazione di
responsabilità, il rilievo che l'imputata non era tenuta,
normativamente, a timbrare il cartellino: anche se ciò fosse
giuridicamente sostenibile, rimane il fatto che la Bu. il
cartellino lo timbrava, e ciò costituisce il raggiro
truffaldino, per assicurarsi l'attestato della presenza sul
luogo del lavoro e giustificare in tal modo
surrettiziamente, l'adempimento della prestazione per la
quale veniva pagata, mentre in effetti, secondo quanto
emerge dai servizi di osservazione degli inquirenti,
puntualmente richiamati in sentenza , ella si sottraeva al
lavoro allontanandosi ingiustificatamente.
2.1b Questa Corte, in ipotesi di condotte affatto simili a
quelle qui in esame, ha già ripetutamente affermato che la
falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua
presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o
nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata
ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i
periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano
economicamente apprezzabili.
L'omessa timbratura del cartellino, in occasione di
allontanamenti intermedi del dipendente, impedisce pertanto
a sua volta il controllo di chi è tenuto alla retribuzione,
sulla quantità dell'attività lavorativa prestata, tanto in
vista di un recupero (ove previsto) del periodo di assenza,
quanto in vista di una detrazione correlativa dal compenso
mensile, così che, sotto tali profili, costituisce condotta
idonea a trarre in inganno ed a far conseguire ingiusti
profitti (Riv. 183150; Riv. 173033; Riv. 169953).
Deve chiarirsi ulteriormente, in proposito, che l'omissione
di cui si tratta è giuridicamente rilevante, poiché il
dipendente pubblico, nella specie, è tenuto ad uniformarsi
ai principi di correttezza, anche nella fase esecutiva del
contratto e, pertanto, ha l'obbligo giuridico di portare a
conoscenza della controparte del rapporto di lavoro non
soltanto l'orario di ingresso e quello di uscita, ma anche
quello relativo ad allontanamenti intermedi sempre che
questi, conglobati nell'arco del periodo retributivo, siano
economicamente apprezzabili: tale obbligo va adempiuto
tramite i sistemi all'uopo predisposti e, quindi anche
mediante la corretta timbratura del cartellino segnatempo o
della scheda magnetica, ove installati, salvo che siano
adottate altre procedure equivalenti, a condizione che
queste siano formali e probatoriamente idonee ad assolvere
alla medesima funzione.
In particolare la Corte di legittimità, ha posto l'accento
sul fatto che anche l'indebita percezione di poche centinaia
di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione
conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce
un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione
pubblica e che danno apprezzabile non è sinonimo di danno
rilevante, non limitandosi il concetto alla mera consistenza
quantitativa ma investendo tutti gli aspetti pregiudizievoli
per il patrimonio (Rv. 235307, Rv. 255201, Rv. 258987)
(Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 09.11.2016 n. 46964). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
il licenziamento del dipendente pubblico che si sottrae per
due volte alla visita medica di idoneità fisica. In questo
caso infatti si configura una fattispecie autonoma di
licenziamento disciplinare e non è necessario motivare
adeguatamente sull’idoneità o meno del lavoratore alle
mansioni assegnate.
In tema di illeciti
disciplinari di maggiore gravità imputabili al
pubblico dipendente, la comunicazione all'interessato della
trasmissione degli atti da parte del
responsabile della struttura all'UPD, prevista dal D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 55-bis, comma 3,
ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti
dell'eventuale omissione di tale
adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare
e sul suo svolgimento, che
prosegue regolarmente.
---------------
Nel pubblico impiego contrattualizzato
la risoluzione del rapporto di lavoro —a seguito del
procedimento di cui all'articolo 55-bis del d.lgs. n. 165
del 2001— nel caso di ingiustificato rifiuto, da parte del
dipendente pubblico, di sottoporsi alla visita medica di
idoneità, reiterato per almeno due volte, di cui al
combinato disposto dell'art. 55-octies, lettera d), del
d.lgs. n. 165 del 2001 con l'art. 6 del d.P.R. n. 171 del
2011, costituisce un'autonoma ipotesi di licenziamento
disciplinare, finalizzata ad assicurare assicurare il
rispetto delle altre norme dettate dall'art. 55-octies cit.,
sempre tutelando il diritto di difesa del dipendente.
---------------
3.3. Il terzo motivo non è fondato.
Secondo consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte
(vedi, per tutte: Cass. 10.08.2016, n. 16900 e Cass. 08.08.2016, n. 16637):
a) l'art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 per gli illeciti
disciplinari di maggiore gravità,
imputabili al pubblico dipendente, come quelli che
comportano il licenziamento, contiene due
previsioni:
1) con la prima (comma 3), è imposto al
dirigente della struttura amministrativa in
cui presta servizio il dipendente la trasmissione degli atti
all'ufficio disciplinare "entro cinque
giorni dalla notizia del fatto" e la "contestuale"
comunicazione all'interessato;
2) con la
seconda (comma 4) si prescrive all'ufficio disciplinare la
contestazione dell'addebito al
dipendente "con l'applicazione di un termine" pari al doppio
di quello stabilito nel comma 2
(ossia quaranta giorni) e inoltre si stabilisce che la
violazione dei termini "di cui al presente
comma" comporta per l'amministrazione la decadenza dal
potere disciplinare;
b) attraverso la previsione dei suindicati termini, alla "ratio"
generale della norma —rappresentata dalla necessità della individuazione di un
apposito Ufficio per i procedimenti
disciplinari (UPD), per i procedimenti relativi a fatti
puniti con sanzioni più severe rispetto a
quelle indicate nel comma 1, onde garantire meglio il
diritto di difesa del dipendente— si
aggiunge la "ratio" della salvaguardia dell'esigenza di
rendere più veloce l'esercizio del potere
disciplinare, attraverso la previsione di regole che mettono
in correlazione, funzionale e
temporale, le attività e le fasi del procedimento, anche nei
casi in cui queste si svolgano
davanti ai due diversi organi individuati come "competenti",
tant'è che il termine di 120 giorni
per la conclusione del procedimento gestito dall'UPD viene
fatto decorrere dalla data di prima
acquisizione della notizia dell'infrazione, "anche se
avvenuta da parte del responsabile della
struttura in cui il dipendente lavora";
d) peraltro, gli effetti dell'eventuale omissione della
"contestuale comunicazione
all'interessato" della trasmissione di cui all'ultima parte
citato art. 55-bis, comma 3, non si
riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo
svolgimento, che prosegue regolarmente,
in quanto la comunicazione "all'interessato" ha una funzione
meramente informativa, senza
alcun pregiudizio per le garanzie difensive, le quali
vengono in considerazione solo se ed in
quanto venga avviato, dall'organo competente, il vero e
proprio procedimento disciplinare;
e) del resto, la suddetta norma non contiene alcun alcuna
previsione sanzionatoria in
relazione ai casi in cui la comunicazione al lavoratore sia
stata omessa e neppure contiene una
qualche espressione letterale dalla quale possa desumersi la
cogenza dell'adempimento, non
essendo esso costruito in termini di "obbligo", obbligo che
peraltro non sarebbe nemmeno
configurabile, atteso che tutto il materiale relativo alla
"notizia" del fatto disciplinarmente
refluisce nella contestazione;
f) nessun pregiudizio dei diritti di difesa del sottoposto a
procedimento disciplinare
potrebbe, pertanto, derivare dall'eventuale mancanza della
comunicazione preliminare
informativa da parte del soggetto che vi è tenuto, ove si
consideri che il lavoratore, nei cui
confronti sia, poi, avviato il procedimento disciplinare, ha
il diritto di accedere agli atti
istruttori, anche per potere verificare il rispetto dei
termini perentori, come è espressamente
previsto dall'ultima parte dell'art. 55-bis, comma 5 ("Il
dipendente ha diritto di accesso agli atti
istruttori riguardanti il procedimento").
In base alle suddette considerazioni il terzo motivo di
ricorso va rigettato, ribadendosi il
principio di diritto secondo cui: "In tema di illeciti
disciplinari di maggiore gravità imputabili al
pubblico dipendente, la comunicazione all'interessato della
trasmissione degli atti da parte del
responsabile della struttura all'UPD, prevista dal D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 55-bis, comma 3,
ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti
dell'eventuale omissione di tale
adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare
e sul suo svolgimento, che
prosegue regolarmente".
3.4. Infondati sono anche il quarto e il quinto motivo, da
esaminare insieme data la loro
intima connessione.
Entrambi i motivi, infatti, muovono dall'erroneo presupposto
secondo cui sarebbe
illegittima l'irrogazione del licenziamento ex art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011 che non si
accompagni ad una adeguata motivazione in ordine agli
elementi di fatto che facciano
presumere l'inidoneità psico-fisica del dipendente a
svolgere la mansione, come risulterebbe
confermato dalla Circolare MIUR 08.11.2010, n. 88, ove
non si prevede l'ipotesi del
licenziamento per assenza ingiustificata alla visita della
Commissione Medica di Verifica.
3.5. Al riguardo deve essere, in primo luogo, precisato che:
a) le circolari ministeriali non sono fonte del diritto ma
semplici presupposti chiarificatori
della posizione espressa dall'Amministrazione su un dato
oggetto, la cui inosservanza può dare
luogo al vizio di eccesso di potere dell'atto amministrativo
quando ciò avvenga senza adeguata
motivazione (Cass. 12.01.2016, n. 280; Cass. 14.12.2012, n. 23042; Cass. 27.01.2014, n. 1577; Cass.
06.04.2011, n. 7889);
b) nella specie, peraltro, la Circolare del MIUR richiamata
è stata emanata prima del
d.P.R. 27.07.2011, n. 171, recante il "Regolamento di
attuazione in materia di risoluzione
del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche dello Stato e degli enti
pubblici nazionali in caso di permanente inidoneità
psicofisica, a norma dell'articolo 55-octies
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165", come tale
avente rango superiore.
3.6. Ciò detto, non potendosi nutrire dubbi sul carattere
attuativo dell'art. 55-octies cit.
del suindicato regolamento -specificato anche nel titolo-
va sottolineato come la lettera d) di
tale articolo preveda espressamente: "d) la possibilità, per
l'amministrazione, di risolvere il
rapporto di lavoro nel caso di reiterato rifiuto, da parte
del dipendente, di sottoporsi alla visita
di idoneità".
Ne risulta la assoluta correttezza -e conformità alla
normativa richiamata- delle
affermazioni della Corte aquilana secondo cui:
1) l'art. 6
del d.P.R. n. 171 del 2011 cit. non ha
carattere innovativo, ma si è limita a precisare il
contenuto precettivo della lettera d) del
dell'art. 55-octies del d.lgs. n. 165 del 2001;
2) come già
affermato dal primo giudice alla
presente fattispecie è estranea la problematica
dell'accertamento della idoneità psico-fisica, in
quanto quello di cui si tratta costituisce un autonomo caso
di licenziamento disciplinare
derivante dal rifiuto reiterato della dipendente di
sottoporsi a visita medica.
Tale ipotesi nuova, può aggiungersi, appare avere carattere
strumentale al fine di
assicurare il rispetto delle altre norme dettate dall'art.
55-octies cit., sempre tutelando il diritto
di difesa del dipendente.
IV - Conclusioni
4. In sintesi, il ricorso deve essere respinto e le spese
del presente giudizio di legittimità
vanno compensate, in Considerazione della assenza di
precedenti pronunce di questa Corte
riguardanti l'interpretazione del combinato disposto
dell'art. 55-octies, lettera d), del d.lgs. n.
165 del 2001 con l'art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011 cit.
(vedi, sul punto: Cass. 19.10.2015, n. 21083).
5. Proprio in considerazione di tale novità, si ritiene
opportuno, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ.,
affermare il seguente principio di diritto: "nel
pubblico impiego contrattualizzato la risoluzione del
rapporto di lavoro —a seguito del procedimento di cui
all'articolo 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001— nel caso di
ingiustificato rifiuto, da parte del dipendente pubblico, di
sottoporsi alla visita medica di idoneità, reiterato per
almeno due volte, di cui al combinato disposto dell'art.
55-octies, lettera d), del d.lgs. n. 165 del 2001 con l'art.
6 del d.P.R. n. 171 del 2011, costituisce un'autonoma
ipotesi di licenziamento disciplinare, finalizzata ad
assicurare assicurare il rispetto delle altre norme dettate
dall'art. 55-octies cit., sempre tutelando il diritto di
difesa del dipendente"
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 07.11.2016 n. 22550). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Legali,
l'iter è blindato. Chi partecipa alla delibera poi deve
firmarla. DEONTOLOGIA/ Cassazione sul presidente e il
segretario del Coa.
Violazione dell'art. 51 del codice
deontologico forense quando presidente e segretario che
hanno preso parte alla deliberazione risultano essere
persone diverse rispetto a quelle che hanno sottoscritto la
medesima decisione al momento della pubblicazione:
lo hanno stabilito le Sezz. unite civili, della Corte di
Cassazione nella
sentenza 07.11.2016
n. 22516.
Intervenute sul ricorso che un legale, sospeso
dall'esercizio della professione per la durata di tre anni,
aveva mosso avverso il Cnf per non aver dichiarato la
nullità della delibera del Coa di appartenenza, pur essendo
stata sottoscritta da un presidente ed un segretario diversi
da quelli che avevano effettivamente partecipato alla
seduta, le Sezioni unite hanno specificato che «le decisioni
dei Consigli degli ordini degli avvocati e procuratori
debbono essere sottoscritte dal presidente e dal segretario
che hanno partecipato alla seduta, la cui data risulta nel
corpo della decisione».
La sentenza impugnata, chiariscono sul punto, supponendo che
la decisione fosse stata valida purché sottoscritta dal
presidente e dal segretario in carica al momento della
pubblicazione della stessa pur se diversi da quelli che
avevano partecipato alla deliberazione, si sarebbe posta in
radicale contrasto con il principio richiamato: dalla
lettera dell'art. 51 infatti si poteva «agevolmente»
desumere che «presidente e segretario debbono essere quelli
che hanno partecipato alla deliberazione della decisione
nella detta qualità, non essendo prescritta la
sottoscrizione del relatore ed essendo invece previsto in
unico contesto il requisito della indicazione della data
della deliberazione e quello della sottoscrizione dei
soggetti indicati».
La sentenza avrebbe quindi violato la norma «nel non
rilevare e dichiarare la nullità della decisione di primo
grado per la non corrispondenza tra il presidente e il
segretario del Consiglio dell'ordine che hanno partecipato
alla deliberazione e il presidente e il segretario che hanno
sottoscritto la decisione al momento della pubblicazione».
Per questi motivi è stata cassata senza rinvio e il
procedimento è stato dichiarato estinto per intervenuta
prescrizione dell'illecito disciplinare contestato
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio
dell’attività repressiva in materia edilizia costituisce
attività vincolata che non richiede la partecipazione del
soggetto secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, ma oltretutto anche volendosene
discostare la possibile illegittimità procedimentale non
potrebbe condurre all’annullamento dell’atto secondo quanto
prevede l’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990 poiché
l’esito del procedimento non poteva essere diverso.
---------------
Nei casi in cui deve essere ordinata la demolizione parziale
l’Amministrazione si può limitare ad ordinarla tutte le
volte che ritiene che la parte abusiva dell’immobile sia
facilmente rimovibile.
E’ onere del soggetto che deve eseguire la demolizione dare
la prova che essa non è possibile per i rischi o i danni cui
andrebbe incontro la parte lecita dell’edificio.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di
Bologna P.G. n. 14716/2008 del 21/01/2008, portante ordine
di ripristino ex art. 34 D.P.R. n. 380/2001.
...
La ricorrente impugnava l’atto indicato in epigrafe con cui
le era stato ingiunto di ripristinare degli abusi edilizi
consistenti nella costruzione di un abbaino che aveva
alterato la sagoma planivolumetrica dell’edificio.
Il primo motivo di ricorso concerne la violazione
dell’art. 7 L. 241/1990 e la violazione del giusto
procedimento per il fatto che l’amministrazione comunale non
aveva avvisato dell’avvio del procedimento sanzionatorio
edilizio, impedendo alla ricorrente di far valere le sue
ragioni.
Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 3
e 34 DPR 380/2001 poiché, contrariamente a quanto stabilito
dal Comune di Bologna, non siamo di fronte ad una nuova
costruzione, ma ad una pertinenza nei confronti della quale
non è possibile ordinare la demolizione, ma la sola sanzione
pecuniaria di cui all’art. 37 DPR 380/2001.
Il terzo motivo lamenta che sia stata ordinata la
demolizione senza verificare se essa sia tecnicamente
possibile senza lesione delle parti legittime dell’edificio.
Il Comune di Bologna si costituiva in giudizio chiedendo il
rigetto del ricorso.
Il primo motivo di ricorso non merita accoglimento in
quanto l’esercizio dell’attività repressiva in materia
edilizia costituisce attività vincolata che non richiede la
partecipazione del soggetto secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, ma oltretutto anche
volendosene discostare la possibile illegittimità
procedimentale non potrebbe condurre all’annullamento
dell’atto secondo quanto prevede l’art. 21-octies, comma 2,
L. 241/1990 poiché l’esito del procedimento non poteva
essere diverso.
...
Il terzo motivo è infondato perché inverte l’onere
della prova: nei casi in cui deve essere ordinata la
demolizione parziale l’Amministrazione si può limitare ad
ordinarla tutte le volte che ritiene che la parte abusiva
dell’immobile sia facilmente rimovibile.
E’ onere del soggetto che deve eseguire la demolizione dare
la prova che essa non è possibile per i rischi o i danni cui
andrebbe incontro la parte lecita dell’edificio.
Il ricorso va quindi respinto con condanna della ricorrente
alle spese di giudizio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 07.11.2016 n. 904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’abbaino
fa corpo con la cosa principale cui aderisce modificandone
la sagoma ed il prospetto e costituisce un volume
trattandosi di struttura chiusa e dotata di copertura.
L’intervento realizzato non può ricomprendersi nell’abito
del risanamento conservativo, ma della ristrutturazione
edilizia poiché viene aumentata la volumetria e si
modifica la sagoma dell’edificio.
Ciò determina(va) la necessità di ottenere il permesso di
costruire non essendo sufficiente la D.I.A..
Si veda sul punto il Consiglio di Stato che così motiva:
“Sulla questione relativa alla costruzione degli abbaini,
bene la sentenza, anche alla luce delle precisazioni
contenute nella relazione comunale del 07.09.2010, ha
affermato che viene in discussione un intervento il quale
determina un mutamento di sagoma e un incremento di
volumetria riconducibili alla tipologia d'intervento di cui
all'art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001,
con la conseguente creazione, a causa di un incremento
volumetrico e di un'alterazione della copertura, di un
organismo edilizio in parte diverso dal precedente, con
l'applicabilità delle NTA del PRG nella parte in cui è
prevista una distanza minima dal fabbricato preesistente di
mt. cinque, nella specie non rispettata, e con
l'assoggettamento dell'intervento al rilascio di permesso di
costruire ex art. 10/C)”.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di
Bologna P.G. n. 14716/2008 del 21/01/2008, portante ordine
di ripristino ex art. 34 D.P.R. n. 380/2001.
...
La ricorrente impugnava l’atto indicato in epigrafe con cui
le era stato ingiunto di ripristinare degli abusi edilizi
consistenti nella costruzione di un abbaino che aveva
alterato la sagoma planivolumetrica dell’edificio.
...
Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 3
e 34 DPR 380/2001 poiché, contrariamente a quanto stabilito
dal Comune di Bologna, non siamo di fronte ad una nuova
costruzione, ma ad una pertinenza nei confronti della quale
non è possibile ordinare la demolizione, ma la sola sanzione
pecuniaria di cui all’art. 37 DPR 380/2001.
...
Il secondo motivo vorrebbe ricondurre erroneamente
l’intervento edilizio abusivo all’interno del concetto di
pertinenza edilizia; ma l’abbaino fa corpo con la cosa
principale cui aderisce modificandone la sagoma ed il
prospetto e costituisce un volume trattandosi di struttura
chiusa e dotata di copertura.
Ai sensi dell’art. 93 del Regolamento edilizio vigente
all’epoca dell’abuso nei palazzi ricompresi nel centro
storico sono possibili solamente interventi di risanamento
conservativo.
L’intervento realizzato non può ricomprendersi nell’abito
del risanamento conservativo, ma della ristrutturazione
edilizia poiché viene aumentata la volumetria e si modifica
la sagoma dell’edificio.
Ciò determinava la necessità di ottenere il permesso di
costruire non essendo sufficiente la D.I.A.
Si veda sul punto la sentenza 3558/2015 del Consiglio di
Stato che così motiva: “Sulla questione relativa alla
costruzione degli abbaini, bene la sentenza, anche alla luce
delle precisazioni contenute nella relazione comunale del
07.09.2010, ha affermato che viene in discussione un
intervento il quale determina un mutamento di sagoma e un
incremento di volumetria riconducibili alla tipologia
d'intervento di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), del
D.P.R. n. 380 del 2001, con la conseguente creazione, a
causa di un incremento volumetrico e di un'alterazione della
copertura, di un organismo edilizio in parte diverso dal
precedente, con l'applicabilità delle NTA del PRG nella
parte in cui è prevista una distanza minima dal fabbricato
preesistente di mt. cinque, nella specie non rispettata, e
con l'assoggettamento dell'intervento al rilascio di
permesso di costruire ex art. 10/C)”.
Inoltre il richiamo all’art. 80 del regolamento edilizio è
improprio poiché la possibilità che la norma offre di
costruire abbaini è subordinata a reali esigenze funzionali
che nel caso di specie non sono state allegate (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 07.11.2016 n. 904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
L’affidamento di un incarico dirigenziale, al di fuori della
dotazione organica, in assenza di una procedura selettiva e
nell’inosservanza del vincolo di bilancio imposto agli enti
locali, è illegittimo e produce un danno erariale.
In tali fattispecie, la Corte dei conti può e deve verificare la
compatibilità delle
scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico perché,
se l'esercizio in
concreto del potere discrezionale dei pubblici
amministratori costituisce
espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha
inteso salvaguardare, l'espletamento dell'attività
amministrativa deve comunque
ispirarsi a criteri di economicità e di efficienza, che,
costituendo
specificazione del più generale principio sancito
dall'art. 97 Cost., assumono
rilevanza sul piano della legittimità -e non della mera
opportunità-
dell'azione amministrativa.
In tale prospettiva è stato pertanto affermato che
siffatto controllo
non esorbita dal piano della legittimità quando va a
indagare se gli
strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano
adeguati oppure
esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da
perseguire, alla
stregua di una valutazione che necessariamente involge il
rapporto tra
obiettivi conseguiti e costi sostenuti.
---------------
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il presente giudizio trae origine dall'affidamento di un
incarico dirigenziale
extra dotazione organica, a tempo determinato, all'avvocato
Ma.Zu.,
da parte della Provincia di Udine, ex art. 110, comma 2,
d.lgs. n. 267 del
2000.
Assumendo che il conferimento dell'ufficio fosse
illegittimo, sotto diversi
profili, arbitrario e causativo di danno erariale, la
Procura regionale presso la
sezione giurisdizionale del Friuli Venezia Giulia della
Corte dei conti agì in
giudizio nei confronti, tra gli altri, di Ma.St.,
Presidente dell'Ente,
chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti all'illecito
amministrativo
contabile perpetrato.
L'illegittimità, secondo la prospettazione accusatoria, era
integrata sia dalla
violazione dell'art. 1, commi 198 e 204, legge n. 266 del
2005, (finanziaria
per l'anno 2006), che poneva un tetto alle spese per il
personale, ivi
compreso, come chiarito dalla circolare n. 9 del 17.02.2006 del MEF,
quello destinatario di incarichi conferiti dagli enti
locali, ai sensi dell'art. 110,
commi 1 e 2, d.lgs. n. 267 del 2000; sia dalla violazione
dei principi generali
dettati dagli artt. 7, commi 6 e 6-bis, 19, comma 6, e 28
del d.lgs. n. 165
del 2001 (tutti applicabili agli enti locali, in forza del
rinvio dinamico operato
dall'art. 88 del d.lgs. n. 267 del 2000), quanto ai
requisiti di particolare e
comprovata esperienza professionale, neppure scrutinati,
nella fattispecie,
attraverso una qualsivoglia, anche informale, procedura
selettiva.
In accoglimento della domanda, il giudice di prime cure
condannò lo
St. al pagamento, in favore della Provincia, della
somma di euro
42.621,56, oltre svalutazione e interessi.
Con la sentenza ora impugnata, depositata in data 01.04.2014, la prima
sezione giurisdizionale centrale di appello della Corte dei
conti, ha respinto il
gravame del soccombente.
Avverso detta decisione Ma.St. ha proposto
ricorso alle sezioni
unite della Corte di cassazione, illustrato anche da
memoria, ex artt. 360,
comma 1, n. 1 e 362, comma 1, cod. proc. civ., denunciando
il difetto
assoluto di giurisdizione del giudice contabile.
Il Procuratore generale presso la Corte dei conti di Roma ha
resistito con
controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1 Con il primo motivo l'esponente lamenta, ex art. 360, n.
1, cod. proc.
civ., difetto di giurisdizione della Corte dei conti.
Ricordato preliminarmente che, a norma dell'art. 1 della
legge 14.01.1994, n. 20, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla
giurisdizione del
giudice contabile è personale e limitata ai fatti e alle
omissioni commessi con
dolo o colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel
merito delle scelte
discrezionali, e che l'art. 110, comma 2, del TUEL, con
riferimento agli enti
in cui è prevista la dirigenza, espressamente rinvia al
regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi per la
determinazione dei limiti e
delle modalità con i quali possono essere stipulati, al di
fuori della dotazione
organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le
alte
specializzazione, sostiene che, in base all'art. 34 dello
Statuto della Provincia
di Udine nonché agli artt. 33 e 34 del Regolamento
sull'ordinamento degli
uffici della Provincia, egli, in quanto Presidente
dell'Ente, aveva il potere,
non scrutinabile dal giudice, di selezionare fiduciariamente
i collaboratori in
staff per l'espletamento del mandato elettivo.
In tale
contesto il sindacato
del giudice contabile sarebbe inammissibile, sia con
riguardo al merito della
selezione, sia con riguardo alla legittimità delle norme
statutarie e
regolamentari che ammettono la possibilità di scelta del
personale dirigente,
non potendo la Corte dei conti sostituire la propria
valutazione di merito a
quella dell'amministratore, né rilevare tout court
l'illegittimità o
l'incostituzionalità della regolamentazione adottata
dall'ente territoriale.
Invero, accertata la congruità dell'iniziativa intrapresa
con i fini dello stesso,
la valutazione in dettaglio dei mezzi esulerebbe dalla
competenza del
giudice.
1.2 Con il secondo mezzo sostiene il ricorrente l'insuscettibilità
della norma
finanziaria di limitare la discrezionalità politica. I
vincoli di bilancio -argomenta- non possono costituire una surrettizia
limitazione delle
prerogative organizzative della Provincia.
Evidenzia
all'uopo che la
normazione secondaria è esplicazione di un'autonomia
garantita dalle leggi
statali -segnatamente dagli artt. 91, 107 e 110 del d.lgs.
n. 267 del 2000
nonché dall'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001- le
quali, a loro
volta, attuano il dettato degli artt. 114 e 117, comma 2,
lett. p) e comma 4,
della Costituzione. Ne deriverebbe l'incostituzionalità di
qualsivoglia
limitazione di siffatte prerogative e quindi anche della
legge n. 266 del 2005, nella parte in cui sarebbe volta a
perimetrare in maniera cogente la
discrezionalità politica dei vertici della provincia,
nell'organizzazione degli
uffici.
2.3 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia erronea
valutazione del
rapporto onorario sotto il profilo che l'esistenza dello
stesso non sarebbe
ragione sufficiente per giustificare il sindacato contabile
sulle scelte
dell'organo di vertice, stante, tra l'altro, l'incerta
gerarchia esistente tra
norme finanziarie e autonomia degli enti locali,
disciplinata da disposizioni di
oscura interpretazione.
Evidenziato che proprio gli apparati amministrativi, a
fronte dei numerosi
rimaneggiamenti normativi in materia ambientale e
dell'evidente contrasto
tra la legge n. 266 del 2005 -i cui articoli 1, comma 198,
e 204
sembravano imporre rigidi vincoli di riduzione di spesa per
il personale delle
pubbliche amministrazioni, e i regolamenti e lo Statuto
della Provincia di
Udine che consentivano l'assunzione di personale in staff in
via fiduciaria,
senza vincoli di bilancio, purché il numero complessivo di
tali dirigenti fosse
inferiore al 5% della pianta organica complessiva- avevano
prefigurato
quale soluzione alla pregiudizievole impasse, lo scorporo
dell'Area Ambiente,
con conseguente individuazione di una figura specializzata
extra pianta
organica da preporre alla direzione del servizio, salvo poi
a rendere parere
sfavorevole a un'operazione da essi stessi proposta, rileva
il deducente che
andava semmai sanzionato il comportamento di siffatto
personale, che
aveva prima ipotizzato, e poi eseguito un atto di cattiva
gestione
amministrativa, per di più omettendo di denunciare
all'autorità competente
l'irregolarità.
2.4 Con il quarto mezzo l'impugnante, in via subordinata,
prospetta la
carenza di giurisdizione del giudice contabile perché, anche
ammesso che il
Presidente della Provincia avesse dato corso alla spendita
di somme di cui
non aveva la disponibilità, il relativo atto dispositivo, in
quanto privo di titolo
giustificativo e in contrasto con norme cogenti, poteva
essere sanzionato
solamente dal giudice ordinario, integrando in sostanza un
illecito aquiliano.
Ne deriverebbe che la sentenza impugnata aveva, contro tutti
i principi,
sostenuto che la giurisdizione contabile sussisteva anche a
fronte di un atto
usurpativo sine titulo, e cioè di un atto adottato in
assoluta carenza di
potere.
2.5 Con il quinto motivo il ricorrente si duole che, nella
fattispecie,
l'elemento soggettivo del preteso illecito contabile sia
stato desunto tout
court, senza motivazione alcuna, dalla sussistenza di
pretesi pareri contrari
degli uffici tecnici, e cioè dal fatto che il politico non
aveva avallato
l'opinione del dirigente.
3. Le censure, che si prestano a essere esaminate
congiuntamente per la
loro evidente connessione, sono prive di pregio.
Esse sono volte a far valere -attraverso la predicata
potestà del Presidente
della Provincia di selezionare fiduciariamente, per
l'espletamento del suo
mandato, i collaboratori in staff, nell'esercizio di una
discrezionalità
asseritamente impermeabile a qualsivoglia scrutinio esterno
e alla stessa
operatività delle norme della legge finanziaria- il difetto
assoluto di
giurisdizione del giudice contabile nella forma dell'eccesso
di potere
giurisdizionale, per avere l'organo giudicante invaso la
sfera di competenze
riservate in via esclusiva all'amministrazione.
4. Ora, secondo la consolidata giurisprudenza di queste
sezioni unite, le
decisioni del giudice amministrativo sono viziate per
eccesso di potere
giurisdizionale e, quindi, sindacabili per motivi inerenti
alla giurisdizione, nel
solo caso in cui detto giudice, eccedendo i limiti del
riscontro di legittimità
del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del
merito, riservata
alla pubblica amministrazione, compia una diretta e concreta
valutazione
dell'opportunità e della convenienza dell'atto, ovvero
quando la decisione
finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento,
esprima la volontà
dell'organo giudicante di sostituirsi a quella
dell'amministrazione, così
esercitando una giurisdizione che esorbiti, di fatto,
dall'area della pura
legittimità: è invero indiscutibile che la mera non
condivisione di valutazioni
discrezionali operate dall'organo gestorio configuri un
indebito
sconfinamento della giurisdizione di legittimità nella sfera
allo stesso
riservata (cfr. Cass. civ. sez. un., nn. 23302 del 2011,
2312 e 21111 del
2012).
5. Con specifico riferimento al sindacato del giudice
contabile, si è peraltro
precisato che la Corte dei conti può e deve verificare la
compatibilità delle
scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico perché,
se l'esercizio in
concreto del potere discrezionale dei pubblici
amministratori costituisce
espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha
inteso salvaguardare, l'espletamento dell'attività
amministrativa deve comunque
ispirarsi a criteri di economicità e di efficienza, che,
costituendo
specificazione del più generale principio sancito
dall'art. 97 Cost., assumono
rilevanza sul piano della legittimità -e non della mera
opportunità-
dell'azione amministrativa (cfr. Cass. civ. sez. un. 29.09.2003, n.
1448).
In tale prospettiva è stato pertanto affermato che
siffatto controllo
non esorbita dal piano della legittimità quando va a
indagare se gli
strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano
adeguati oppure
esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da
perseguire, alla
stregua di una valutazione che necessariamente involge il
rapporto tra
obiettivi conseguiti e costi sostenuti (cfr. Cass. civ. sez.
un. 07.11.2013, n. 25037; Cass., sez. un., nn. 831 e 20728 del 2012,
4283 e 12102
del 2013).
6. Questi essendo i criteri che governano l'area della
giurisdizione del
giudice contabile, deve escludersi che nella fattispecie i
relativi limiti siano
stati superati.
Occorre all'uopo muovere dalla considerazione che l'illecito
individuato dalla
Procura venne realizzato attraverso due delibere: con una,
la n. 255 del
settembre 2006, venne deciso l'affidamento della Direzione
d'Area Ambiente
ad apposita figura dirigenziale in dotazione organica, con
rapporto a tempo
determinato ex art. 33 del Regolamento uffici e servizi; con
la seconda, la
delibera n. 319 dell'ottobre successivo, vennero scorporati
dalla predetta
Area i Servizi relativi alle Risorse Ambientali, Idriche e
Amministrative,
contestualmente prevedendosi l'affidamento della relativa
posizione
dirigenziale, ex artt. 110, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000
e 34 del
Regolamento, a un incaricato extra dotazione organica,
poscia individuato
nello Zu.
7. Ciò posto, ha ritenuto il decidente che la scelta operata
dallo St.,
certamente non giustificata dall'allegato affaticamento
della struttura
burocratica della Provincia, neppure poteva ritenersi
espressione di una
discrezionalità libera nei fini e solo latamente vincolata
dal legislatore.
Ed
invero il Presidente dell'Ente, facendo ricorso alla facoltà
riconosciutagli
dall'art. 110, commi 2, t.u. n. 267 del 2000 -che demandava
alla fonte
regolamentare la determinazione dei limiti, dei criteri e
delle modalità da
osservarsi nella stipula, al di fuori della dotazione
organica, di contratti a tempo determinato per i dirigenti e
le alte specializzazioni, fermi restando i
requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire- ma
contestualmente
ignorando sia i vincoli imposti dalla legge n. 266 del 2005
(finanziaria del
2006), la quale aveva introdotto un tetto di spesa per il
personale, valevole
anche per gli enti locali e, nell'ambito degli stessi, per i
corrispettivi versati a
fronte di incarichi conferiti ai sensi dell'art. 110, commi
1 e 2, d.lgs. n. 267
del 2000, come chiarito dalla circolare del Ministero
dell'economia n. 9 del
2006; sia la circostanza che, in punto di fatto, i compensi
corrisposti allo
Zu. avevano determinato lo sforamento del tetto massimo
di spesa
consentito ai fini del mantenimento dell'equilibrio di
bilancio; sia, infine, le
prescrizioni del comma 6 della medesima fonte, che, per la
realizzazione di
obiettivi determinati, esigeva che le collaborazioni esterne
avessero un alto
contenuto di professionalità, aveva instaurato, in assenza
di qualsivoglia
procedura selettiva, un rapporto intuitu personae, con un
professionista che
aveva presentato il proprio curriculum solo il giorno
precedente e che era in
ogni caso privo di particolari qualifiche in materia
ambientale.
Ha aggiunto la
Corte che certamente sussisteva l'elemento soggettivo
dell'illecito, costituito
dalla colpa grave, posto che le direzioni del personale e
del servizio
finanziario nonché il segretario generale si erano espressi
contro l'iniziativa e
che dunque l'istruttoria interna aveva dato esiti negativi.
8. A fronte di siffatto impianto motivazionale, i rilievi
critici svolti in ricorso -e segnatamente nel primo, nel secondo e nel quarto mezzo-
si rivelano
privi di consistenza, a sol considerare che la pretesa
dell'impugnante
dell'insindacabilità della sua scelta, in quanto esercitata
con riferimento a
una nomina assolutamente fiduciaria, non ha alcuna base
normativa e
neppure è congruente con la tipologia dell'incarico del
quale lo Zu. è
stato officiato.
Ne deriva che la verifica della
compatibilità dello scrutinato
atto di nomina con le norme della legge finanziaria e con
quelle che regolano
i criteri di scelta del personale non integra affatto una
forma di sindacato
sulla discrezionalità e sul merito dell'azione
amministrativa, attenendo
piuttosto alla sfera della pura legittimità.
9. In tale contesto costituisce nulla più che una suggestiva
provocazione la
tesi del carattere usurpativo dell'atto e della sua
conseguente esorbitanza
dall'area di controllo del giudice contabile. La
responsabilità dello St.
è stata invero affermata con riferimento a un provvedimento
posto in essere dallo stesso nell'esercizio delle sue
funzioni, incidente nella sfera erariale
dell'Ente, come tale soggetto alla giurisdizione della Corte
dei conti.
Ne deriva che allorché questa è andata a verificarne la
compatibilità con le
norme della legge finanziaria e con i criteri che devono
presiedere alla scelta
dei dirigenti e dei collaboratori esterni non ha affatto
sconfinato dall'ambito
dei suoi poteri giurisdizionali.
10. Tali rilievi, che disvelano l'insussistenza del
denunciato eccesso di
potere giurisdizionale, consentono di risolvere agevolmente
anche le critiche
svolte negli altri mezzi.
Esse, appuntandosi sulla mancata considerazione della
condotta
pretesamente ambigua degli uffici burocratici e sulla
conseguente
impossibilità di qualificare in termini di colpa grave
l'elemento psicologico
della condotta dello St., attaccano profili della
valutazione del giudice
contabile che -giusti o sbagliati che siano- non hanno
alcuna attinenza con
i limiti della sua giurisdizione, concretizzando al più
pretesi errores in iudicando della scelta decisoria adottata.
È il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza,
che il profilo
soggettivo dell'illecito contabile è stato comunque oggetto
di specifica
considerazione, da parte del decidente, di talché la
sentenza impugnata si
sottrae alla denuncia di denegata giustizia segnatamente
svolta nel quinto
mezzo.
10. In definitiva il ricorso deve essere rigettato (Corte di
cassazione, Sez. unite civili,
sentenza 03.11.2016 n. 22228). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il risarcimento del danno da ritardo, relativo
ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso
da una valutazione concernente la spettanza del bene della
vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche
alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia
destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione
della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita
collegato a un tale interesse.
L’entrata in vigore dell’art.
2-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non ha, infatti, elevato a
bene della vita suscettibile di autonoma protezione,
mediante il risarcimento del danno, l’interesse
procedimentale al rispetto dei termini dell’azione
amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza
dell’interesse sostanziale al cui conseguimento il
procedimento stesso è finalizzato.
Inoltre, il
riconoscimento della responsabilità della Pubblica
amministrazione per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa richiede, oltre alla constatazione della
violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che
l’inosservanza delle cadenze procedimentali è imputabile a
colpa o dolo dell’Amministrazione medesima, che il danno
lamentato è conseguenza diretta ed immediata del ritardo
dell’Amministrazione, nonché la prova del danno lamentato.
Altresì:
a) il superiore principio deve valere laddove venga
prospettata la richiesta di liquidazione della chance;
b) laddove ci si dolga di un ritardo dell’Amministrazione in
relazione a pretese che non avrebbero avuto pratica
possibilità di accoglimento allo stato l’unica forma di
protezione prevista dall’ordinamento sarebbe semmai,
ricorrendone i presupposti, quella dell’indennizzo ex art. 2-bis, comma 1-bis, della legge citata.
---------------
1. L’appello è infondato e va respinto nei sensi di cui alla
motivazione che segue.
1.1. Ritiene il Collegio che l’appello colga parzialmente
nel segno allorché denuncia una qualche contraddizione nella
motivazione della sentenza impugnata, in quanto ivi, nella
premessa, si afferma la condivisione da parte del Tar
della tesi secondo cui a seguito della introduzione nel
sistema dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, ai fini
della liquidazione del risarcimento del danno da ritardo non
sarebbe necessaria la prova della spettanza del c.d. “bene
della vita” mentre poi, la statuizione reiettiva si fonda
proprio sulla non accoglibilità della istanza proposta dal
Consorzio in data 07.01.2010.
Tuttavia, tale contraddizione contenuta nella motivazione
della sentenza impugnata non implica la favorevole
scrutinabilità della pretesa risarcitoria.
1.2. Prima di analizzare la domanda risarcitoria, e le
singole “poste” ivi richieste, pare opportuno al Collegio
rimarcare immediatamente che esso non intende decampare dai
principi ancora recentemente affermati da questa Sezione
(sentenza n. 1371 del 06.04.2016), laddove è stato
ribadito che “il risarcimento del danno da ritardo, relativo
ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso
da una valutazione concernente la spettanza del bene della
vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche
alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia
destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione
della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita
collegato a un tale interesse; l’entrata in vigore dell’art.
2-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non ha, infatti, elevato a
bene della vita suscettibile di autonoma protezione,
mediante il risarcimento del danno, l’interesse
procedimentale al rispetto dei termini dell’azione
amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza
dell’interesse sostanziale al cui conseguimento il
procedimento stesso è finalizzato; inoltre, il
riconoscimento della responsabilità della Pubblica
amministrazione per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa richiede, oltre alla constatazione della
violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che
l’inosservanza delle cadenze procedimentali è imputabile a
colpa o dolo dell’Amministrazione medesima, che il danno
lamentato è conseguenza diretta ed immediata del ritardo
dell’Amministrazione, nonché la prova del danno lamentato”.
1.2.1. Ivi è stato parimenti rilevato (ed anche su ciò
questo Collegio concorda pienamente) che:
a) il superiore principio debba valere laddove venga
prospettata la richiesta di liquidazione della chance;
b) laddove ci si dolga di un ritardo dell’Amministrazione in
relazione a pretese che non avrebbero avuto pratica
possibilità di accoglimento allo stato l’unica forma di
protezione prevista dall’ordinamento sarebbe semmai,
ricorrendone i presupposti, quella dell’indennizzo ex art. 2-bis, comma 1-bis, della legge citata.
1.3. Dagli atti di causa emerge (e lealmente ciò non è stato
contestato da parte appellante) che il Commissario ad acta
aveva accertato che l’approvazione ed attuazione del
progetto di strada esterno alla lottizzazione (cui era
legato l’impegno del Comune ad esaminare la modifica delle
clausole della convenzione) era impossibile da attuarsi, in
quanto ciò avrebbe richiesto l’approvazione di una variante,
non trovandosi al cospetto di modifiche “marginali”
autorizzabili con variante semplificata ex artt. 1 e 2 della
legge regionale del Lazio n. 36/1987.
Se tale dato è corretto, ne discende che:
a) l’inerzia del Comune relativa a “quel progetto” non ha
inciso sulla realizzabilità del medesimo, che era preclusa
per altre ragioni;
b) la predetta inerzia del Comune sull’istanza del 07.01.2010 e sulla successiva diffida, non era quindi causalmente
ricollegabile ad un danno discendente dalla omessa
realizzazione della strada, (quantomeno nei termini
ipotizzati dalla odierna appellante nella predetta istanza);
c) l’appellante aspirava ad ottenere una delibera consiliare
che approvasse il detto progetto: ma tale evento (ammesso
che si potesse considerare “atto dovuto” a fronte della
precedente delibera dal 2009) era impossibile da ottenersi:
e ciò, per ragioni giuridiche, e non fattuali.
1.4. Pare al Collegio che la stessa parte odierna appellante
si sia resa conto di ciò, tanto da avere prospettato un
petitum ridotto e parzialmente diverso, rispetto a quello
ab
initio ipotizzato, e concernente il rimborso delle spese
sostenute per la progettazione della strada, etc.
1.5. Sennonché, pare al Collegio che plurimi elementi si
oppongano alla favorevole delibabilità anche di tale
domanda, lato sensu assimilabile alla richiesta di
corresponsione dell’indennizzo di cui al comma 1-bis
dell’art. 2-bis, della legge n. 241/1990 (“fatto salvo quanto
previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di
silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di
inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad
istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di
pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo
per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità
stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un
regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2,
della legge 23.08.1988, n. 400 . In tal caso le somme
corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono
detratte dal risarcimento”).
1.6. Si osserva, infatti, in proposito che, una volta
rimasto accertato che “quel” progetto non era realizzabile,
nessun risarcimento è dovuto per la condotta
omissiva/silente.
Ciò che sostanzialmente si “imputa” al Comune (soprattutto
nella memoria in ultimo depositata) tuttavia, non è in
verità la condotta omissiva/silente, ma una condotta
“attiva”, riposante nell’avere indicato un percorso
amministrativo che –per la tipologia di opera che si voleva
realizzare– era non corretto e non concretamente
perseguibile (“fuorviante” viene definito nell’appello).
In sostanza, muovendo dal dato (incontestato) che
l’approvazione ed attuazione del progetto di strada esterno
alla lottizzazione (cui era legato l’impegno del Comune ad
esaminare la modifica delle clausole della convenzione) era
impossibile da attuarsi, in quanto ciò avrebbe richiesto
l’approvazione di una variante, non trovandosi al cospetto
di modifiche “marginali” autorizzabili con variante
semplificata ex artt. 1 e 2 della legge regionale del Lazio
n. 36/1987, viene imputato al Comune di avere
suggerito/praticato un percorso approvativo errato.
1.6.1. In disparte la sostanziale “novità” del titolo di
responsabilità ipotizzato, e le perplessità che potrebbero
avanzarsi, sotto il profilo procedurale, circa la incardinabilità di una simile domanda in seno al giudizio
sul silenzio, il profilo sostanziale di infondatezza della
domanda emerge con evidenza dalla considerazione che se
anche fosse vero quanto sostenuto, in verità il Comune non è
un consulente di parte cui possano addebitarsi i danni
discendenti da una simile condotta.
1.6.2. Essa, a tutto concedere, andrebbe configurata
inquadrandola sub art. 2043 c.c. (o 1337-1338 c.c.): ma
francamente non si vede la fondatezza di una domanda
risarcitoria che addebita all’Ente pubblico di avere
ipotizzato che l’approvazione del progetto dovesse avvenire
in una maniera in realtà non praticabile, quando la stessa
parte odierna appellante non si è accorta della non
fattibilità dell’azione amministrativa: né si era in
presenza di alcuna “imposizione” di tale percorso
approvativo.
2. Alla stregua delle superiori considerazioni, quindi:
a) il silenzio/inerzia del Comune non è causale rispetto
alla perdita di alcun bene della vita, e non è quindi
risarcibile;
b) l’indennizzo non può corrispondersi per le stesse ragioni
prima chiarite;
c) la domanda risarcitoria, ove tesa a far constare la
errata condotta attiva del Comune, che ipotizzò un percorso
amministrativo non utile all’approvazione del progetto è
“nuova”, non coltivabile in seno al giudizio sul silenzio ex
artt. 31 e 117 del c.p.a., e comunque infondata, in quanto
la stessa parte odierna appellante, a tutto concedere, non
cogliendo la impossibilità del percorso amministrativo
ipotizzato, diede causa ai danni subiti.
3. L’appello va quindi disatteso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.11.2016 n. 4580 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Nelle deliberazioni dei Comuni che importino spese, la
indicazione
del mezzo per farvi fronte deve tradursi, ai sensi dell'art.
284 del r.d. 03.03.1934 n. 383 (applicabile "ratione temporis"), nel
riferimento ad un
mezzo di copertura della spesa che sia attuale, certo e
precisamente indicato.
La indicazione di un mezzo di copertura della
spesa che sia
ipotetico, solo possibile, indicato alternativamente e,
comunque, non certo
e non attuale comporta la nullità della deliberazione ai
sensi dell'art. 288
dello stesso T.U..
---------------
La censura è fondata.
Va premesso che le deliberazioni del comune di Terlizzi
(poste a
base della convenzione stipulata tra le parti il
12.10.1990), essendo state
adottate nell'anno 1987, sono entrambe soggette —ratione
temporis— alla
disciplina di cui al testo unico della legge comunale e
provinciale,
approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383.
Com'è noto, l'art. 284 del T.U. della legge comunale e
provinciale,
approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383, stabilisce che «le
deliberazioni
dei Comuni, delle Province e dei Consorzi che importino
spese devono
indicare l'ammontare di esse ed i mezzi per farvi fronte»;
completa la
norma la sanzione di nullità della deliberazione adottata in
violazione di
tale precetto, in base a quanto disposto dall'art. 288:
«Sono nulle le
deliberazioni prese in adunanze illegali, o adottate sopra
oggetti estranei
alle attribuzioni degli organi deliberanti, o che contengano
violazioni di
legge».
Nell'interpretare tali disposizioni, la giurisprudenza di
questa Corte
ha ritenuto che —in applicazione del combinato disposto
degli artt. 284,
primo comma, e 288, primo comma, del R.D. n. 383 del 1934— deve ritenersi nullo il contratto di incarico
professionale stipulato tra Comune o
Provincia, da un lato, e privato, dall'altro, ogni volta che
risulti la nullità della delibera a monte della sua
stipulazione per mancata previsione
dell'ammontare del compenso e dei mezzi per farvi fronte.
In particolare, le Sezioni Unite di questa Corte hanno
statuito che, nel vigore del combinato disposto degli artt. 284 e 288 del
R.D. 03.03.1934, n. 383 ("Testo unico della legge comunale e
provinciale"), la delibera
con la quale i competenti organi comunali o provinciali
affidano ad un
professionista privato l'incarico per la progettazione di
un'opera pubblica, è
valida e vincolante nei confronti dell'ente locale soltanto
se contenga la
previsione dell'ammontare del compenso dovuto al
professionista e dei
mezzi per farvi fronte. L'inosservanza di tali prescrizioni
determina la
nullità della delibera, nullità che si estende al contratto
di prestazione
d'opera professionale poi stipulato con il professionista,
escludendone
l'idoneità a costituire titolo per il compenso (Sez. U,
Sentenza n. 12195 del
10/06/2005).
Nella motivazione della sentenza, la Corte ha
precisato che, se
i vizi della delibera (e, più in generale, della fase
amministrativa) sono privi
d'incidenza sul contratto stipulato in forza di essa ove
rendano la delibera
stessa soltanto annullabile, ciò non può dirsi in presenza
di una violazione
di legge che ne comporti la nullità, atteso il collegamento
tra delibera e
contratto, poiché la delibera a contrarre s'inserisce come
passaggio
obbligato nell'iter di formazione della volontà contrattuale
della parte
pubblica, cosicché la sua nullità (come la sua mancanza) si
riflette
necessariamente sulla validità del contratto. Nello stesso
senso, ex plurimis,
Sez. 1, Sentenza n. 18144 del 02.07.2008 e Sez. 1,
Sentenza n. 22922 del
29/10/2009.
La sostanza della disciplina —nei rapporti tra privato e
pubblica
amministrazione— non è mutata a seguito dell'introduzione
dell'art. 23 d.l.
n. 66 del 1989. Tale disposizione, infatti, al comma 3,
primo periodo,
prevede che: «A tutte le amministrazioni provinciali, ai
comuni ed alle comunità montane l'effettuazione di qualsiasi
spesa è consentita
esclusivamente se sussistano la deliberazione autorizzativa
nelle forme
previste dalla legge e divenuta o dichiarata esecutiva,
nonché l'impegno
contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove
non esista il
ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di
previsione, da
comunicare ai terzi interessati» e al successivo comma 4
stabilisce: «Nel
caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni o servizi in
violazione
dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio
intercorre, ai
fini della controprestazione e per ogni altro effetto di
legge tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano
consentita la
fornitura. Detto effetto si estende per le esecuzioni
reiterate o continuative
a tutti coloro che abbiano reso possibili le singole
prestazioni» (disciplina
—questa— che è rimasta immutata anche nella normativa
successiva,
laddove il d.lgs. 25.02.1995 n. 77 ha sostanzialmente
riprodotto
nell'art. 35 la disposizione dell'art. 23 d.l. n. 66 del
1989, prevedendo al
quarto comma che «nel caso in cui vi è stata l'acquisizione
di beni e servizi
in violazione dell'obbligo indicato nei coltimi 1, 2 e 3» il
rapporto
obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e
l'amministratore,
funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura).
A fronte di tale nuova disciplina, questa Corte ha affermato
che, in
tema di obbligazioni della P.A., l'inserimento nel contratto
d'opera
professionale di una clausola di c.d. copertura finanziaria
—in base alla
quale l'ente pubblico territoriale subordina il pagamento
del compenso al
professionista incaricato della progettazione di un'opera
pubblica alla
concessione di un finanziamento— non consente di derogare
alle procedure
di spesa di cui all'art. 23, commi 3 e 4, del d.l. 02.03.1989 n. 66,
convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma
1, legge 24.04.1989, n. 144 (oggi sostituito dall'art. 191 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267),
che non possono essere differite al
momento dell'erogazione del
finanziamento, sicché, in mancanza, il rapporto obbligatorio
non è riferibile
all'ente ma intercorre, ai fini della controprestazione, tra
il privato e
l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno
(Sez. U,
Sentenza n. 26657 del 18/12/2014, Rv. 634114).
Orbene, dovendosi per quanto detto fare applicazione —ratione
temporis— della disciplina di cui all'art. 284 del T.U.
della legge comunale
e provinciale approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383, va
chiarito il
significato della prescrizione per cui «le deliberazioni dei
Comuni (...) che
importino spese devono indicare ( ...) i mezzi per farvi
fronte».
Il problema che si pone è quello di stabilire se il mezzo
per far fronte
alla spesa debba essere precisamente indicato e debba essere
già attuale al
momento dell'adozione della delibera ovvero se esso possa
essere indicato
alternativamente, ipoteticamente, e individuato in un tempo
successivo.
Non par dubbio al Collegio che l'unica interpretazione
aderente al
dettato della legge e alla volontà del legislatore sia
quella secondo cui il
mezzo per far fronte alla spesa deve essere precisamente
individuato e già
attuale; mentre tradirebbe il precetto normativo
un'interpretazione che
consentisse all'ente pubblico di indicare solo le possibili
vie per la
copertura della spesa, ma di tale copertura non vi fosse
certezza né in
ordine all'an né in ordine alla fonte.
In questo senso, in una fattispecie analoga alla presente,
si è già
pronunciata questa Corte quando ha statuito che
la delibera
con la quale un
Comune conferisce un incarico professionale (nella specie,
di progettazione
della sistemazione di alcuni locali comunali al fine di
ottenerne la
certificazione della agibilità per uso pubblico)
ed il
contratto stipulato in
base a tale delibera sono affetti da nullità, ex art. 284
del r.d. 03.03.1934
n. 383 (applicabile "ratione temporis"),
ove carenti del
reale riferimento ai mezzi finanziari necessari al pagamento
della corrispondente spesa per il
compenso del professionista incaricato, all'uopo rivelandosi
insufficiente il
solo generico e formale richiamo ("possibilità di
finanziamento a mezzo
mutuo da contrarre con la Cassa DD.PP.") a mezzi di
copertura della stessa
non effettivamente pertinenti alle opere deliberate (Sez. 1,
Sentenza n.
17469 del 17/07/2013, Rv. 627394).
Nella specie, nella deliberazione del Comune di Terlizzi n.
1529 del
1987, la prescrizione della indicazione dei mezzi per far
fronte alla spesa è
stata assolta facendo riferimento alla "possibile
stipulazione di mutui con la
Cassa DD.PP. o con istituto di credito autorizzato o con
contributo
regionale in conto capitale".
È evidente, pertanto, che,
nella deliberazione,
sono stati indicati non mezzi di copertura della spesa
effettivi e attuali, ma
solo possibili, futuri e —in quanto tali— incerti. Dal che
è evidente la
violazione del precetto di cui all'art. 284 del T.U. della
legge comunale e
provinciale approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383 e la
conseguente
nullità della deliberazione ai sensi dell'art. 288 dello
stesso T.U.
Sul punto, ai sensi dell'art. 384 primo comma cod. proc.
civ., va
affermato il seguente principio di diritto:
«Nelle deliberazioni dei Comuni che importino spese, la
indicazione
del mezzo per farvi fronte deve tradursi, ai sensi dell'art.
284 del r.d. 03.03.1934 n. 383 (applicabile "ratione temporis"), nel
riferimento ad un
mezzo di copertura della spesa che sia attuale, certo e
precisamente
indicato; la indicazione di un mezzo di copertura della
spesa che sia
ipotetico, solo possibile, indicato alternativamente e,
comunque, non certo
e non attuale comporta la nullità della deliberazione ai
sensi dell'art. 288
dello stesso T.U.».
Va pertanto accolto il primo motivo del ricorso incidentale,
dovendosi ritenere, ai sensi degli arti. 284 e 288 del T.U.
della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 03.03.1934 n. 383, la nullità
della deliberazione del Comune di Terlizzi n. 1529 del 1987
e la
conseguente nullità dell'intera convenzione stipulata inter
partes nel 1990,
che su quella delibera era fondata.
L'accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale
comporta la
cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha
riconosciuto
all'attore la somma di euro 13.053,45 (corrispondente a lire
25.275.000)
sulla base della ritenuta validità della delibera n. 1529
del 1987. Il detto
accoglimento comporta anche l'assorbimento dei restanti
motivi del ricorso incidentale (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza 27.10.2016 n. 21763). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Disturbo alle persone se gli odori della pizzeria si sentono
anche a finestre chiuse e superano la normale tollerabilità.
La sentenza impugnata reca sul punto una
motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente,
laddove evidenzia che le prove testimoniali risultano
sostanzialmente convergenti nell'affermare che i cattivi
odori derivanti dalla cottura delle pizze nell'esercizio
dell'imputata si avvertivano anche a finestre chiuse e
comunque sul vano scala e nella zona del garage e, in alcuni
orari, invadevano le stanze dei vari appartamenti.
Tali odori erano stati percepiti anche dal funzionario della
ASL che aveva proceduto all'accertamento dei fatti e,
seppure in misura minore dal tecnico dell'Agenzia regionale
per l'ambiente.
Correttamente, dunque, il giudice di primo grado ha concluso
per la sussistenza del superamento del limite delle normale
tollerabilità, che funge da criteri di legittimità delle
emissioni ai sensi della seconda parte dell'art. 674 cod.
pen..
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1. - Con sentenza del 22.10.2015 il Tribunale di Vicenza ha
condannato l'imputata alla pena dell'ammenda, oltre che al
risarcimento del danno alla parte civile, da liquidarsi in
separato giudizio, con liquidazione di provvisionale
provvisoriamente esecutiva, in relazione al reato di cui
all'art. 674 cod. pen., a lei contestato per avere
cagionato, quale titolare di una pizzeria, molestia e
disturbo agli inquilini residenti negli appartamenti posti
al di sopra del locale, a causa degli odori derivanti dalla
cottura.
2. - Avverso la sentenza l'imputata ha proposto, tramite il
difensore, ricorso per cassazione, deducendo, in primo
luogo, l'erronea applicazione della disposizione
incriminatrice, nonché la contraddittorietà e la manifesta
illogicità della motivazione.
Si rammenta, in particolare, che si tratterebbe di una delle
tante cause proposte dei vicini nei confronti della
pizzeria, la quale si era trasferita altrove anche per atti
di sabotaggio che aveva subito in ore notturne. Non si
sarebbe considerato che, in presenza di molestie di tipo di
tipo olfattivo, la valutazione della normale tollerabilità è
rimessa al giudice, che la deve effettuare in base al
criterio di stretta tollerabilità.
Si sostiene, in secondo luogo, che vi sarebbe stato
un travisamento dei fatti, perché gli odori caratteristici
della pizza erano inidonei a cagionare molestie olfattive
vere e proprie, e che le prove le prove orali sul punto
risultavano contraddittorie. Nessuno dei testimoni, infatti,
avrebbe ritenuto insopportabili le esalazioni, pur avendole
percepite. E non si sarebbe tenuto conto degli accertamenti
svolti dai funzionari dell'Agenzia regionale per l'ambiente.
...
4. - Il ricorso è infondato.
4.1. - I primi due motivi di doglianza -che possono essere
trattati congiuntamente, perché attengono alla motivazione
della sentenza in punto di responsabilità penale- sono
infondati.
Infatti la sentenza impugnata reca sul punto una motivazione
pienamente sufficiente e logicamente coerente, laddove
evidenzia che le prove testimoniali risultano
sostanzialmente convergenti nell'affermare che i cattivi
odori derivanti dalla cottura delle pizze nell'esercizio
dell'imputata si avvertivano anche a finestre chiuse e
comunque sul vano scala e nella zona del garage e, in alcuni
orari, invadevano le stanze dei vari appartamenti.
Tali odori erano stati percepiti anche dal funzionario della
ASL che aveva proceduto all'accertamento dei fatti e,
seppure in misura minore dal tecnico dell'Agenzia regionale
per l'ambiente.
Correttamente, dunque, il giudice di primo grado ha concluso
per la sussistenza del superamento del limite delle normale
tollerabilità, che funge da criteri di legittimità delle
emissioni ai sensi della seconda parte dell'art. 674 cod.
pen. (ex plurimis, in tema di molestie olfattive,
Cass., sez. 3, 03.07.2014, n. 45230, rv. 260980; sez. 3,
14.07.2011, n. 34896, rv. 250868).
E non può essere sindacato in questa sede -risultando
sufficientemente motivata- l'affermazione contenuta nella
sentenza impugnata secondo cui il teste Er., unico che non
aveva percepito cattivi odori, deve essere ritenuto
inattendibile, per la sua dichiarata inimicizia con le
persone offese (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.10.2016 n. 45225). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Doppia
istanza contro il silenzio. P.A./
Sentenza del Consiglio di stato.
Decorso il termine annuale –ora disciplinato dagli artt. 117
e 31 c.p.a. e, prima, dall'art. 21-bis della legge n. 1034
del 1971– per impugnare il silenzio, la parte, se ha ancora
interesse ad ottenere una pronuncia dalla pubblica
amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza
ed eventualmente, se la p.a. non provvede nel termine
procedimentale assegnato, può impugnare tempestivamente il
nuovo silenzio inadempimento formatosi.
È quanto ribadito dai giudici della terza sezione del
Consiglio di Stato, Sez. III , con la
sentenza 26.10.2016 n. 4496.
I giudici di palazzo Spada nel caso di specie erano stati
chiamati a esprimersi circa il silenzio serbato sull'istanza
di attivazione della procedura per l'accreditamento
istituzionale per attività di odontoiatria e protesi
dentarie.
La Presidenza del consiglio dei ministri, nella persona e
per il tramite del commissario ad acta per l'attuazione del
Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario della
Regione, proponeva ricorso per la revocazione, ai sensi
dell'art. 395, comma primo, n. 4, c.p.c., della sentenza del
Consiglio di stato che riformava una sentenza del Tar.
Con detta sentenza il Consiglio di stato, accogliendo il
ricorso contra silentium proposto in primo grado da
Tizio, statuiva l'obbligo, in capo alla Regione e
all'Azienda sanitaria locale, di concludere il procedimento
mediante l'adozione di un provvedimento espresso
sull'istanza da questo presentata al fine di ottenere
l'accreditamento istituzionale, in favore dello studio
medico da lui gestito, per l'erogazione delle prestazioni
specialistiche di odontoiatria e protesi dentarie
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ripristino di un edificio o di una sua parte: i criteri per
decidere tra permesso di costruire e Scia. Nuova sentenza
della Cassazione sull'accertamento oggettivo della
preesistente consistenza dell'edificio.
La possibilità di qualificare un
intervento edilizio come ristrutturazione, per la quale non
è necessario il permesso di costruire, essendo assoggettato
al regime semplificato della S.C.I.A., richiede, infatti,
che esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura, o, in alternativa,
l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile
in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale
del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché,
in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente
struttura.
Invero, va ribadita la necessità,
per poter qualificare come ristrutturazione edilizia
l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio
o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, di
accertarne, in base a riscontri documentali o ad altri
elementi certi e verificabili, e non, quindi, ad
apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente
"consistenza", intesa come il complesso di tutte le
caratteristiche essenziali dell'edificio, quali volumetria,
altezza, struttura complessiva; con la conseguenza che la
mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per
la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere
sussistente il requisito che l'art. 30 d.l. n. 69 del 2013
richiede per escludere, in ragione della anzidetta
qualificazione, la necessità di preventivo permesso di
costruire.
---------------
2. Ora, nella decisione in esame, il Giudice dell'udienza
preliminare, dopo aver premesso che la vicenda riguardava la
demolizione di due pajare adiacenti, e la loro ricostruzione
in un edificio unico, con sagoma diversa ma senza superare
né la superficie né il volume iniziale espresso dagli
edifici demoliti, ha ritenuto qualificabile tale intervento
come ristrutturazione ai sensi dell'art. 3, lett. d), d.P.R.
380/2001, evidenziando che l'intervento denunciato
consisteva nella realizzazione sulla stessa area di un nuovo
edificio, di dimensioni leggermente inferiori, per
superficie e cubatura, rispetto a quello preesistente, e
quindi realizzabile anche in assenza di permesso di
costruire, essendo sufficiente una DIA (attualmente SCIA).
2.1. Quanto alla compatibilità di tale intervento con le
Norme Tecniche di Attuazione, che all'art. 42 vietano la
demolizione delle pajare e consentono nelle zone agricole,
quale quella oggetto dell'intervento in questione, solamente
la costruzione di case rurali, cioè al servizio della
conduzione del fondo, mentre quella risultante dalla
ristrutturazione era destinata a civile abitazione, il
Giudice dell'udienza preliminare ha affermato che tale
divieto deve essere inteso come limitato alle sole pajare
recuperabili, in quanto non avrebbe "senso immaginare che
la norma tuteli ruderi irrecuperabili che, lasciati privi di
qualsiasi intervento, sarebbero destinati a sparire
naturalmente nel corso degli anni per collasso strutturale",
sottolineando che dalle fotografie acquisite si ricavava che
una delle due pajare era completamente diruta e l'altra lo
era in buona parte; il divieto di edificare costruzioni non
aventi destinazione agricola, cioè strumentali alle esigenze
di coltivazione di un fondo rustico, sarebbe limitato alle
sole nuove costruzioni e non anche a quelle preesistenti e
da ristrutturare, in considerazione della possibilità di
realizzare depositi di rottami, impianti di smaltimento di
rifiuti o laboratori artigianali per attività non connesse
all'agricoltura, che consentirebbe di ravvisare la
possibilità di mutare la destinazione d'uso nel caso di
ristrutturazione di un immobile preesistente.
3. Tali considerazioni non sono condivisibili.
3.1. Va, anzitutto, rilevato che il Giudice dell'udienza
preliminare, in contrasto con l'orientamento
giurisprudenziale ricordato, ha compiuto una vera e propria
valutazione di merito sulla colpevolezza degli imputati,
senza limitarsi ad una valutazione di astratta idoneità
degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio,
omettendo anche di tener conto dei possibili sviluppi degli
stessi a seguito dell'istruttoria dibattimentale, ad esempio
con riguardo alle condizioni dei due manufatti preesistenti,
alla loro consistenza ed alla loro possibilità di recupero
in luogo della demolizione, e quindi della potenziale
idoneità di tali sviluppi a consentire di superare le
eventuali contraddittorietà degli elementi acquisiti, con la
conseguente esorbitanza dai poteri attribuitigli.
3.2. La motivazione della sentenza impugnata risulta,
inoltre, apodittica per quanto riguarda la corrispondenza di
superficie e volumetria tra i fabbricati preesistenti e
quelli oggetto dell'intervento edilizio oggetto della
contestazione, non essendo tale asserzione fondata su
elementi univoci, e potendo il relativo punto, che riguarda
la qualificazione giuridica dell'intervento e non una
questione di fatto, essere oggetto di sviluppo a seguito
dell'istruttoria dibattimentale.
La possibilità di qualificare un intervento
edilizio come ristrutturazione, per la quale non è
necessario il permesso di costruire, essendo assoggettato al
regime semplificato della S.C.I.A., richiede, infatti, che
esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura, o, in alternativa,
l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile
in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale
del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché,
in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente
struttura (così
Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552; conf.
Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo, Rv. 265444, che ha
ribadito la necessità, per poter qualificare come
ristrutturazione edilizia l'intervento di ripristino o di
ricostruzione di un edificio o di parte di esso,
eventualmente crollato o demolito, di accertarne, in base a
riscontri documentali o ad altri elementi certi e
verificabili, e non, quindi, ad apprezzamenti meramente
soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa
come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali
dell'edificio, quali volumetria, altezza, struttura
complessiva; con la conseguenza che la mancanza anche di uno
solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività
ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito
che l'art. 30 d.l. n. 69 del 2013 richiede per escludere, in
ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire;
conf. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464,
che ha escluso la qualificabilità come
ristrutturazione edilizia o manutenzione straordinaria dei
lavori di ricostruzione di un trullo o pajara).
Ora, nella specie, il Giudice dell'udienza preliminare ha
del tutto omesso di considerare la rilevanza sulla
qualificazione giuridica dell'intervento, e dunque sulla
sussistenza o meno dell'illecito edilizio, dei possibili
sviluppi derivanti dall'istruttoria dibattimentale in ordine
a tali aspetti, con la conseguente insufficienza della
motivazione della sentenza impugnata al riguardo.
3.3. Infine la motivazione in ordine alla inapplicabilità
dei divieti stabiliti dall'art. 42 delle Norme Tecniche di
Attuazione, secondo cui non possono in nessun caso essere
demolite le pajare e nelle zone agricole (come quella
interessata dall'intervento edilizio oggetto della
contestazione) non possono essere realizzate civili
abitazioni, ma solo case rurali, risulta illogica, in quanto
limita il primo divieto alle sole pajare suscettibili di
recupero edilizio, in assenza di qualsiasi disposizione in
tal senso, attraverso un percorso argomentativo che non
risulta coerente né conforme alla regole della logica,
risultando priva di fondamento testuale l'individuazione di
detto limite al divieto di demolizione delle pajare; anche
la, sostanziale, disapplicazione del divieto di realizzare
fabbricati civili nelle zone agricole risulta frutto di un
iter argomentativo illogico, essendo stata ricavata
l'inapplicabilità di tale divieto dalla possibilità di
realizzare depositi di rottami, impianti di smaltimento dei
rifiuti o laboratori artigianali, di cui non è stata
adeguatamente illustrata la relazione con le civili
abitazioni (quale quella oggetto dell'intervento edilizio
realizzato dagli imputati), sicché anche tale ultima
affermazione risulta frutto di un ragionamento illogico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2016 n. 44921). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
compenso del praticante non si usurpa.
Il lavoro eseguito dal praticante legale non può essere poi
rivendicato, e quindi «incassato», dall'avvocato titolare
dello studio professionale.
Così la Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 25.10.2016 n. 21543.
Dunque, l'avvocato di uno studio legale non può pretendere
il compenso per le pratiche stragiudiziali portate avanti da
un praticante in favore dei suoi parenti.
In particolare,
nel caso di specie, il presunto cliente, per delle cause
personali, si era fatto assistere dal proprio nipote, quale
praticante presso uno studio legale. Ebbene, l'avvocato
titolare di detto studio rivendicava per se i corrispettivi
maturati per la somma di 1.346,25 e per questo aveva fatto
il decreto ingiuntivo allo zio (ritenuto in maniera
impropria suo cliente) poiché il contratto di prestazione
professionale si sarebbe concluso per «facta concludentia».
A questo punto il presunto cliente (lo zio) si è opposto al
decreto emesso dal giudice di pace di Milano, deducendo
l'inesistenza del rapporto professionale, avendo questi
incaricato non l'avvocato dominus ma il proprio nipote, che
in quel momento esercitava la pratica forense presso detto
avvocato.
La vicenda poi finiva avanti il Tribunale di Milano che con
la sentenza n. 3288/12, condannava l'avvocato, e questo
perché il professionista si era addentrato in questa
incresciosa vicenda senza neppure avere il mandato scritto,
e senza che vi fossero altri elementi idonei a confermare il
conferimento anche solo verbale dell'incarico all'avvocato.
Anzi è emerso che lo zio avesse avuto un «rapporto
diretto solo col proprio nipote, abilitato allo svolgimento
della richiesta attività stragiudiziale».
La Suprema Corte ha, così, respinto le istanze difensive
dell'avvocato, che aveva prima ottenuto decreto ingiuntivo,
poi revocato a seguito di opposizione.
In conclusione, la Cassazione ha accolto le rimostranze del
presunto cliente (zio), poiché, nel caso di specie non erano
emersi elementi idonei a confermare il conferimento anche
solo verbale dell'incarico al dominus titolare di studio.
Mentre, invece, è apparso incontestabile che l'uomo avesse
avuto un rapporto diretto solo con il proprio nipote,
praticante ma abilitato allo svolgimento di attività
stragiudiziale
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifica giurisprudenza e per
previsione di legge, gli atti autorizzatori di interventi in
zone qualificate beni paesaggistici vanno motivati circa la
compatibilità degli interventi con il vincolo paesaggistico.
---------------
- Ritenuto in primo luogo che non ci si può discostare dalla
prima censura contenuta nell’appello erariale circa
l’infondatezza dell’assunto della sentenza di primo grado,
secondo il quale l’annullamento ministeriale si sarebbe
discostato dai suoi poteri di controllo della legittimità
dell’autorizzazione paesistica comunale procedendo a
valutazioni di merito, poiché in realtà la Soprintendenza ha
solo rilevato il difetto di motivazione di quest’ultima, che
si era limitata ad affermare senza una reale motivazione che
l’intervento in causa non alterava l’impatto dell’edificio
esistente nel contesto paesaggistico ed il rapporto di
questo con il territorio circostante;
- Considerato che per pacifica giurisprudenza e per
previsione di legge gli atti autorizzatori di interventi in
zone qualificate beni paesaggistici vanno motivati circa la
compatibilità degli interventi con il vincolo paesaggistico,
il che nella specie difettava rendendo legittimo il doveroso
annullamento soprintendentizio: sicché non si può che
concludere per la fondatezza del motivo di appello;
- Rilevata altresì la fondatezza della seconda censura,
secondo la quale il Tribunale amministrativo, spingendosi
oltre i propri poteri, ha indebitamente provveduto esso
stesso a direttamente stimare un’asserita non invasività
dell’intervento e una sua compatibilità con il vincolo
paesaggistico, riferendo la collocazione dei moduli
fotovoltaici in parte in posizione nascosta alla vista a
livello del terreno e in parte coperti da vegetazione ad
alto fusto: sicché il giudice di primo grado si è sostituito
all’autorità competente nei suoi ordinari compiti
amministrativi;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello in
epigrafe lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della
sentenza impugnata respinge il ricorso di primo grado
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 25.10.2016 n. 4462 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Apertura di pareti finestrate - Permesso di
costruire - Necessità - Intervento edilizio comportante una
modifica dei prospetti - Ristrutturazione edilizia "minore"
- Esclusione - Artt. 3, 10, 34, 44, lett. e), d.P.R. n.
380/2001 - Artt. 167, 181, c. 1bis, D.Lgs. n. 42/2004.
L'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di
un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R.
n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio
comportante una modifica dei prospetti non qualificabile
come ristrutturazione edilizia "minore", e per il
quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio
attività (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere interne e reati edilizi - Realizzazione di
un soppalco senza modifiche volumetriche - Incremento della
superficie utile calpestabile - Aumento di unità immobiliari
o modifiche dei volumi - Necessità di permesso di costruire
- Presupposti.
La semplice realizzazione di un soppalco, pur senza
modifiche volumetriche, determina un incremento della
superficie utile calpestabile, con necessità di permesso di
costruire e conseguente configurabilità del reato edilizio.
Sicché, le cosiddette "opere interne" non sono più
previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria
autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia
quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche
dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento
di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011 -
dep. 21/12/2011, Truppi; fattispecie relativa proprio alla
realizzazione di un soppalco all'interno di un'unità
immobiliare che per la sua esecuzione si rendeva necessario
il permesso di costruire o, in alternativa, la denuncia di
inizio attività) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato paesaggistico - Natura di reato di pericolo
astratto - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione
- Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto
legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto
che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo
pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che il
reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui
conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se
l'amministrazione competente attesta la compatibilità
paesaggistica delle opere eseguite (Cass. Sez. 3, n. 11048
del 18/02/2015 dep. 16/03/2015, Murgia) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319 -
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EDILIZIA PRIVATA:
RISARCIMENTO DEL DANNO - Proprietario confinante
- Legittimazione a costituirsi parte civile - Condanna
generica al risarcimento dei danni in favore della Parte
Civile - Accertamento della potenziale capacità lesiva del
fatto dannoso - Nesso di causalità - Giurisprudenza.
La condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata
dal giudice penale (come avvenuto nel caso di specie), non
esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di
un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento
della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della
esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il
pregiudizio lamentato (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013 -
dep. 07/11/2013, Di Fatta e altri; Sez. 5, n. 191 del
19/10/2000 - dep. 10/01/2001, Mattioli F. P. ed altri; Sez.
6, n. 12199 del 11/03/2005 - dep. 29/03/2005, Molisso,
secondo cui ai fini della pronuncia di condanna generica al
risarcimento dei danni in favore della P.C. non è necessario
che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni
ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore
dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un
fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la
suddetta pronuncia infatti costituisce una mera "declaratoria
juris" da cui esula ogni accertamento relativo sia alla
misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è
rimesso al giudice della liquidazione; proprio in tema di
edilizia, Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009 - dep. 25/11/2009,
Vespa, secondo cui il proprietario confinante è legittimato
a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad
oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le
norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle
costruzioni (art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di
inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni
(art. 871 cod. civ.), indipendentemente dalle distanze;
fattispecie di mutamento di destinazione d'uso di un piano
seminterrato da garage e cantina in miniappartamento) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319 -
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EDILIZIA PRIVATA: Oneri concessori - Esonero -
Realizzazione di una scuola da parte di un ente
ecclesiastico.
In linea generale, occorre precisare che
il contributo di costruzione posto a carico del costruttore
trova causa nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla
onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle
<sole ipotesi tassativamente previste dalla legge> da
intendersi di stretta interpretazione.
In base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la
controversia sulla quantificazione del contributo di
costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo
alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività
questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo
criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione
della natura paratributaria del contributo” con la
conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie
con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la
riduzione del pagamento del contributo, il criterio
interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva",
proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete,
oltre a doversi attenere alla littera legis, deve
individuare il criterio in base al quale è stata disposto il
beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al
fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi
espressamente preveduti”.
---------------
Per beneficiare della gratuità, la norma richiede il
concorso di due requisiti:
uno di carattere oggettivo legato al tipo di opera;
l’altro di carattere soggettivo relativo all’ente che
esegue le opere.
Nel caso in oggetto (ndr: costruzione di una scuola da parte
dell'Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero), risulta in atti che non è stato
evidenziato un rapporto giuridico tra l’Istituto e
l’amministrazione comunale, non essendo stato conferito
alcun mandato alla realizzazione per conto del Comune
dell’opera scolastica in questione.
L’eventuale convenzione
tra il Comune e i gestori dei servizi educativi/scolastici,
essendo finalizzata alla erogazione di benefici, non attiene
al rapporto per la materiale esecuzione dell’opera e dunque
non è rilevante per qualificare, sotto il profilo
soggettivo, l’Istituto abilitato a costruire.
Infine, nel caso di specie, manca la previsione della
cessione dell’opera al patrimonio comunale; dunque, viene
meno la possibilità di qualificare l’opera stessa come opera
di urbanizzazione, ai sensi del citato art. 30 LR 31/2002.
In conclusione,
è legittimo nel caso di specie il non esonero dal contributo
di concessione.
---------------
Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero della
Diocesi di Forlì e Bertinoro, in persona del legale
rappresentante ...
contro
Comune di Forlì, in persona del legale rappresentante p.t.
...
per l'annullamento
della determinazione del contributo di urbanizzazione e di
costruzione su un intervento edilizio dell'Istituto
ricorrente, in corso di realizzazione, finalizzato alla
esecuzione di una scuola; nonché avverso l'invito alla
liquidazione del contributo determinato in € 518.536,70.
...
Con il ricorso in epigrafe è stata impugnata la
determinazione del contributo di urbanizzazione e di
costruzione su un intervento edilizio dell’Istituto
ricorrente, in corso di realizzazione, e finalizzato alla
esecuzione di una scuola, con destinazione a dotazione
territoriale, nell’ambito di un PUA convenzionato tra il
Comune di Forlì, l’Istituto ricorrente e la parrocchia San
Giovanni Battista di Coriano.
E’ stato anche impugnato l’invito alla liquidazione del
contributo determinato in € 518.536,70.
Nel ricorso, in cui il ricorrente non articola espressamente
puntuali motivi di diritto, si sostiene che il titolo
edilizio è stato rilasciato ai soggetti attuatori con
sospensione del pagamento del contributo di costruzione e
che, in ragione della specifica destinazione dell’area
Dotazione territoriale A, dovrebbe giocare l’esenzione
prevista dalla seconda parte dell’art. 17 TU edilizia.
In data 17.03.2016 il ricorrente ha depositato memoria
(sostenendo che la destinazione specifica ad opera di
urbanizzazione secondaria di natura scolastica ha trovato
fonte nella variante urbanistica approvata con deliberazione
consiliare n. 67 del 2006, a sua volta costituente
perfezionamento di una transazione tra Comune e Istituto
diocesano).
Il ricorrente sostiene ancora che la norma regionale (art.
30 LR 31/2002) sarebbe recessiva rispetto al TU edilizia e
si applicherebbe l’art. 17 di quest’ultimo.
...
Il ricorso è infondato.
Ad avviso del Collegio può prescindersi dall’esame della
preliminare eccezione di inammissibilità/improcedibilità del
ricorso, formulata con riferimento alla clausola
contrattuale di cui all’art. 6 della Convenzione 23.02.2009
-(secondo cui le parti riconoscono al parere della Regione
natura vincolante e si impegnano ad osservare il contenuto
senza nulla pretendere a titolo di risarcimento o altro
indennizzo e rinunciando ad avanzare pretesa od opposizioni
a qualunque titolo)– stante la manifesta infondatezza del
ricorso.
In linea generale, occorre precisare che il contributo di
costruzione posto a carico del costruttore trova causa
nell’utilità che questi ne ritrae.
Trattandosi di principio di portata generale la deroga alla
onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle <sole
ipotesi tassativamente previste dalla legge> da
intendersi di stretta interpretazione (cfr., Cons. di St.,
Sez. V, 07.05.2013, n. 2467).
In base al prevalente orientamento giurisprudenziale “la
controversia sulla quantificazione del contributo di
costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo
alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività
questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo
criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione
della natura paratributaria del contributo (cfr., Tar
Lombardia, sez. Brescia, 24.08.2012 n. 1467; Cons. St., sez.
V, 14.12.1994 n. 1471)” con la conseguenza che “trova
campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle
norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento
del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d.
"a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni
tributarie.
Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera
legis, deve individuare il criterio in base al quale è stata
disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime
paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione
oltre i casi espressamente preveduti” (TAR Liguria, Sez.
I, 30.09.2014, n. 1401).
Nel caso di specie, nel predetto parere in data 27.05.2009,
la Regione specifica che la disciplina di riferimento è
l’art. 30 della LR n. 31 del 2002 che prevede, alla lettera
e), l’esonero dal contributo di costruzione sia per la quota
relativa al costo di costruzione che per la quota afferente
agli oneri di urbanizzazione, <per gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti e dalle
organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS)
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici>.
La disposizione è sostitutiva dell’art. 17 del DPR 380/2001,
come prevede l’art. 50 della LR 31/2002.
La Regione chiarisce ancora che -per beneficiare della
gratuità- la norma richiede il concorso di due requisiti:
uno di carattere oggettivo legato al tipo di opera;
l’altro di carattere soggettivo relativo all’ente che
esegue le opere.
Nel caso in oggetto, risulta in atti che non è stato
evidenziato un rapporto giuridico tra l’Istituto e
l’amministrazione comunale, non essendo stato conferito
alcun mandato alla realizzazione per conto del Comune
dell’opera scolastica in questione. L’eventuale convenzione
tra il Comune e i gestori dei servizi educativi/scolastici,
essendo finalizzata alla erogazione di benefici, non attiene
al rapporto per la materiale esecuzione dell’opera e dunque
non è rilevante per qualificare, sotto il profilo
soggettivo, l’Istituto abilitato a costruire.
Infine, nel caso di specie, manca la previsione della
cessione dell’opera al patrimonio comunale; dunque, viene
meno la possibilità di qualificare l’opera stessa come opera
di urbanizzazione, ai sensi del citato art. 30 LR 31/2002.
In conclusione, poiché la posizione illustrata, dalla quale
la Sezione non ha motivo di discostarsi, è coerente con il
principio di stretta interpretazione cui devono soggiacere i
casi di esonero dal contributo di concessione (TAR Campania,
Napoli, Sez. II, 29.01.2015, n. 516), il ricorso deve essere
respinto (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 12.10.2016 n. 846 -
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EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il prevalente indirizzo giurisprudenziale, si giustifica
l’annullamento di titoli edilizi quando questi siano stati
rilasciati in base ad un’errata rappresentazione della
realtà da parte del richiedente (non importa se dolosa o
colposa): fattispecie in cui la potestà sanzionatoria può
esplicarsi senza che sia necessaria una specifica
motivazione circa la prevalenza dell’interesse pubblico, dal
momento che ogni provvedimento amministrativo è legittimo
solo se fondato sulla situazione di fatto e di diritto
effettivamente esistente al momento della sua adozione.
---------------
La (mera) erroneità della progettazione comporta, ai fini
dell’annullamento del titolo edilizio formatosi sulla DIA:
a) l’esplicitazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche “che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria”, come previsto dall’art. 3 della legge
241/1990;
b) la ponderazione di tutti gli interessi coinvolti nel
procedimento, vale a dire le ragioni di interesse pubblico e
gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, che
l’art. 21-nonies della legge 241/1990 pone come parametro di
valutazione della legittimità dell’esercizio del potere di
autotutela.
---------------
Nella specie vi è stata una violazione dei principi che
regolano l’esercizio dell’autotutela amministrativa, ma
anche del principio di proporzionalità, la quale “non deve
essere considerata come un canone rigido ed immodificabile,
ma si configura quale regola che implica la flessibilità
dell’azione amministrativa ed, in ultima analisi, la
rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità”.
---------------
Le ragioni opposte dal comune contrastano con il prevalente
orientamento della giurisprudenza, secondo cui “l’esercizio
del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio
deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati
nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii.,
consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e
nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati”.
---------------
Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto, nei termini
che seguono.
Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto che pur avendo
commesso un errore progettuale (“quello di ritenere che
l’area esterna ceduta fosse in diritto di superficie anziché
ceduta in proprietà”, cfr. nota del 13.2.2012),
nondimeno non sarebbe ravvisabile una difforme
rappresentazione nelle tavole di progetto, né
l’Amministrazione avrebbe tempestivamente contestato tale
lacuna, così riuscendo a impedire che, a causa della
persistenza di tale errore, il corsello di manovra del
parcheggio venisse realizzato –come in effetto è accaduto–
in corrispondenza di un’area ceduta al Comune di Seregno.
Tale motivo può essere esaminato congiuntamente al secondo,
con cui si è dedotto che “il provvedimento impugnato (…)
è palesemente stato assunto in difetto dei presupposti
stabiliti dalla legge per l’annullamento di ufficio”
(cfr. pag. 18).
Reputa il Collegio che tali censure siano fondate, e ciò,
anzitutto, alla luce dell’esplicita ammissione del dirigente
del servizio (costituente circostanza incontestata tra le
parti ai sensi dell’art. 64, comma 2, del codice del
processo amministrativo), il quale nell’impugnato
provvedimento ha chiarito come “il corsello sia stato
rappresentato come poi realizzato e cioè proprio sotto una
parte dell'area comunale”.
È, in sostanza, provato che la progettazione elaborata dalla
società ricorrente, pur essendo deficitaria, non abbia,
però, dato luogo ad “alcun problema di opere realizzate
difformemente rispetto a quanto autorizzato, né di falsa o
errata rappresentazione negli atti” (cfr. pag. 10 del
ricorso).
Il che prefigura una valutazione tecnica erronea, situazione
non assimilabile a quella che, secondo il prevalente
indirizzo giurisprudenziale, giustifica l’annullamento di
titoli edilizi quando questi siano stati rilasciati in base
ad un’errata rappresentazione della realtà da parte del
richiedente (non importa se dolosa o colposa): fattispecie
in cui la potestà sanzionatoria può esplicarsi senza che sia
necessaria una specifica motivazione circa la prevalenza
dell’interesse pubblico, dal momento che ogni provvedimento
amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione
di fatto e di diritto effettivamente esistente al momento
della sua adozione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
27.08.2012, n. 4619; id., sez. IV, 24.12.2008, n. 6554).
Nella motivazione dell’impugnato provvedimento, invece,
l’Amministrazione ha precisato, da un lato, che la società
ricorrente avrebbe elaborato una “non esauriente
rappresentazione dell’area di proprietà”, salvo,
dall’altro, contestualmente ammettere che il corsello sia
stato progettato (oltre che realizzato) al di sotto
dell’area ceduta in proprietà al Comune.
Come ha recentemente chiarito il Consiglio di Stato, “l’errore
tecnico (…), inficiando la validità della d.i.a., avrebbe
consentito all’Amministrazione di intervenire sul titolo,
adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio o
entro il termine di decadenza previsto dall’art. 23, comma
6, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, oppure, scaduto
infruttuosamente tale termine, soltanto ricorrendo le
condizioni alle quali l’art. 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241, subordina l’esercizio del potere di
autotutela” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
31.08.2016, n. 3762).
Nel caso di specie, l’impugnato provvedimento è stato
unicamente motivato sulla “falsa attestazione di
conformità delle opere”: profilo inidoneo a sostanziare
l’esercizio del potere di autotutela, potendo, invece,
risultare esiziale ai sensi dell’art. 23, comma 6, del DPR
380/2001 per il deferimento del professionista all’autorità
giudiziaria e al consiglio dell'ordine di appartenenza.
Invero, la (mera) erroneità della progettazione avrebbe
dovuto imporre, ai fini dell’annullamento del titolo
edilizio formatosi sulla DIA n. 506/2008:
a) l’esplicitazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche “che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria”, come previsto dall’art. 3 della legge
241/1990;
b) la ponderazione di tutti gli interessi coinvolti nel
procedimento, vale a dire le ragioni di interesse pubblico e
gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, che
l’art. 21-nonies della legge 241/1990 pone come parametro di
valutazione della legittimità dell’esercizio del potere di
autotutela.
Nulla di tutto ciò è, però, ravvisabile nell’impugnato
provvedimento.
Né in contrario può rilevare la sussistenza, eccepita dal
Comune di Seregno, di un “interesse pubblico, concreto ed
ancora attuale alla conservazione del patrimonio comunale,
comprensivo delle aree destinate a verde pubblico e
parcheggi pubblici” (cfr. pag. 11 della memoria del
29.07.2016).
Si tratta di un pregiudizio potenziale e indimostrato,
mentre è stato provato in corso di causa che la paventata
lesione sarebbe circoscritta all’occupazione dell’area
interrata (per l’estensione di circa 100 mq.).
Va, inoltre, osservato che mentre nella comunicazione di
avvio del procedimento (25.01.2012) si è fatto espresso
riferimento all’adozione di “successivi provvedimenti
atti a ripristinare lo stato dei luoghi”, tale
comminatoria non è stata, poi, trasfusa nel provvedimento
finale: il che non consente neppure di comprendere quale
sia, ad oggi, la posizione dell’Amministrazione circa la
possibilità di prendere in esame la cessione a titolo
oneroso dell’area illegittimamente occupata dalla società
ricorrente, soluzione proposta a fini transattivi per la
salvaguardia delle opere nel frattempo ultimate.
Alla luce delle concrete circostanze emerse in giudizio e
della possibilità di rimediare all’errore progettuale, si
può, pertanto, affermare che nella specie vi sia stata una
violazione dei principi che regolano l’esercizio
dell’autotutela amministrativa, ma anche del principio di
proporzionalità, la quale “non deve essere considerata
come un canone rigido ed immodificabile, ma si configura
quale regola che implica la flessibilità dell’azione
amministrativa ed, in ultima analisi, la rispondenza della
stessa alla razionalità ed alla legalità” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 26.02.2015, n. 964).
È, conseguentemente, fondato anche il terzo motivo del
ricorso principale (riproposto nei motivi aggiunti), con cui
la ricorrente ha dedotto il concorso colposo
dell’Amministrazione comunale per non aver quest’ultima
efficacemente esaminato le tavole progettuali, essendosi
appurato che l’errore progettuale fosse palese e quindi
tempestivamente riparabile, mentre la prima misura adottata
dall’Amministrazione è consistita nell’emissione
dell’ordinanza n. 217 del 21.10.2011, con cui si è disposta
la sospensione dei lavori.
Il provvedimento impugnato con il ricorso per motivi
aggiunti è, poi, riconducibile a un profilo connesso, nel
senso che, come esposto dalla difesa dell’Amministrazione
comunale, “il locale tecnico previsto fin dalla DIA del
2008 risultava (…) ampliato nelle sue dimensioni al fine di
“ospitare” l’impianto di teleriscaldamento, il tutto
realizzato sempre al di sotto dell’area pubblica” (cfr.
pag. 3 della memoria del 29.07.2016).
Dall’esame degli atti è pacificamente emerso che l’impianto
di teleriscaldamento non è stato previsto nel piano di
lottizzazione, trattandosi di un’opera programmata a
servizio dei residenti delle unità abitative realizzate
dalla società ricorrente.
È, però, accaduto che la stessa ricorrente in data
09.05.2012 e il Comune di Seregno in data 05.06.2012 hanno
richiesto alla Ge. s.r.l. (società partecipata
dall’Amministrazione per la gestione del servizio
energetico) dei chiarimenti in ordine alla situazione
determinatasi in conseguenza dell’installazione del sopra
citato impianto in un’area di proprietà comunale.
In riscontro a tali richieste la partecipata del Comune, con
nota dell’11.06.2012, ha comunicato:
a) che “l’eventuale rimozione del citato locale tecnico e il
conseguente spostamento della rete di teleriscaldamento in
questione determinerebbe inevitabilmente l’interruzione -per
tutta la durata dei lavori a ciò necessari- di un servizio
di pubblica utilità, la cui prestazione deve essere svolta
senza soluzione di continuità, pena la produzione di
evidenti disservizi e disagi nei confronti della
collettività servita da tale attività tesa a soddisfare
primarie esigenze sociali”;
b) di aver in precedenza concluso degli specifici accordi con la
società ricorrente “in merito alla collocazione delle due
centrali termiche a servizio del territorio, (…) assunti al
fine di minimizzare i costi di allacciamento praticabili nei
confronti dell'utenza finale. In tale prospettiva, va
rilevato che i due locali tecnici, uno a servizio del corpo
principale di fabbrica e l'altro a servizio della palazzina
costruita per essere successivamente ceduta
all'amministrazione comunale, risultano praticamente
prospicienti. Al contrario, qualora la centrale fosse stata
posizionata sul lato ovest anziché sul lato est del
fabbricato, ci sarebbe stato un aggravio di costi dovuto a
maggiore estensione della rete”;
c) che lo spostamento della stazione di teleriscaldamento non
potrebbe che essere subordinato al preventivo assenso
dall’Amministrazione, “trattandosi (…) di attività e
oneri non riconducibili alla competenza e alla
responsabilità” della stessa Ge.;
d) che in occasione della realizzazione della rete di
teleriscaldamento sono state fornite alla società ricorrente
delle “indicazioni allo scopo di consigliare la
possibilità di accedere al locale da pubblica via per
evitare, in caso di emergenza, di dover intervenire in
proprietà privata”;
e) che, ancora, “le dimensioni del locale tecnico ubicato nel
sottosuolo sono quelle indicate dai progettisti di Ge.
s.r.l., risultando peraltro le stesse più ampie rispetto a
quelle indicate in origine alla scrivente società. A tal
ultimo proposito, si segnala che la richiesta di
incrementare le dimensioni del predetto locale è legata a
valutazioni relative alla necessità di collocare in loco n°
2 sottostazioni di scambio termico, oltre all'esigenza di
assicurare la possibilità di effettuare in sicurezza future
attività manutentive”.
Nell’impugnato provvedimento si è, però, sostenuto che le
precisazioni espresse dalla società Ge. “non paiono
pertinenti né valgono a superare la rilevata difformità del
progetto al P.L. approvato”, tenuto conto che “le
opere difformi sono state eseguite su proprietà comunale e
ne impediscono il pieno godimento”.
Ad avviso del Collegio, neppure la motivazione del
provvedimento di parziale annullamento del permesso di
costruire n. 14/2009 –similmente a quanto rilevato con
riguardo al provvedimento impugnato con il ricorso
principale– è espressiva di una congrua ponderazione degli
interessi coinvolti, soprattutto in ragione delle puntuali
osservazioni tecniche contenute nella sopra citata
comunicazione della Ge., nella quale, all’opposto, è stata
prospettata la tutela di rilevanti interessi pubblici
(sicurezza degli impianti, garanzia del pubblico servizio di
riscaldamento).
Va, quindi, ritenuto che le ragioni opposte dal Comune di
Seregno contrastino con il prevalente orientamento della
giurisprudenza, secondo cui “l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere
ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21-nonies
della legge 07.08.1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti
nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal
mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti
interessi dei privati” (cfr. Consiglio di Stato, sez.
III, 09.05.2012, n. 2683)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.10.2016 n. 1833 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Mandatario, paletti all'anticorruzione.
Le misure anticorruzione per salvaguardare la prosecuzione
del rapporto contrattuale scattano solo se non sussistono le
condizioni per accogliere la richiesta di sostituzione della
mandataria.
Questo è il principio-guida che emerge dalla
sentenza 14.09.2016 n. 4283 del
TAR Campania-Napoli, Sez. I.
I giudici partenopei si sono interrogati sulla legittimità
del comportamento della stazione appaltante che, in presenza
di una richiesta di avvicendamento della mandataria (colpita
da interdittiva antimafia) di una società consortile
(aggiudicataria del servizio), aveva del tutto «ignorato»
l'istanza formulata ai sensi dell'art. 37, comma 18 del
codice dei contratti del 2006.
Il Comune infatti, procedendo
per tutt'altra strada, richiedeva alla Prefettura dei
provvedimenti straordinari ai sensi dell'art. 32, comma 10,
legge n. 114 del 2014. Il prefetto, a sua volta, optava per
la temporanea gestione della società con contestuale
sospensione dell'esercizio del poteri di disposizione dei
titolari dell'impresa e contestuale nomina di un
amministratore straordinario. Tutti gli atti venivano
impugnati.
Il collegio giudicante ha in primo luogo
sottolineato che «in presenza di un'istanza di sostituzione
della mandataria che si trovi in alcuna delle situazioni
ostative alla prosecuzione del rapporto contrattuale, esiste
un obbligo specifico per la stazione appaltante di attivare
la verifica di applicabilità del meccanismo sostitutivo di
cui all'art. 37, comma 18».
In secondo luogo, prosegue la
sentenza, la fattispecie «si colora di ulteriore specialità,
concernendo l'ipotesi in cui la conservazione del rapporto
contrattuale si riferisca all'interesse di chi non sia stato
colpito da un'informazione antimafia. In terzo luogo
l'organo giudicante afferma che il criterio sostitutivo
espulsivo, sollecitato dalla società consortile, deve
ritenersi prevalente sulla misura straordinaria, perché
tutela con maggiore efficacia l'interesse pubblico alla
neutralizzazione di contaminazioni mafiose. Pertanto, e a
chiusura del ragionamento, una volta richiesta la
sostituzione del mandante o del mandatario da parte delle
associate superstiti, la stazione appaltante ha prima di
tutto l'obbligo di verificare la sussistenza delle
condizioni per l'avvicendamento, così da tutelare sia
l'interesse pubblico di fare salvo il rapporto contrattuale
da contaminazioni mafiose, sia di proteggere l'interesse
contrattuale di terzi contraenti presuntivamente estranei al
rapporto amministrativo di pubblica sicurezza; solo ove tale
verifica abbia dato esito negativo, o, comunque, sia mancata
una proposta in tal senso, sarà possibile attivare una delle
misure straordinarie di cui all'art. 32, e ciò sempre al
fine di salvaguardare la prosecuzione del rapporto
contrattuale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016).
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MASSIMA
Punto centrale della controversia è quello relativo al
primo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la
deliberazione di indirizzo della Giunta comunale di
-OMISSIS- n. 300 del 22.12.2015 che si qualifica,
all’un tempo, come diniego di applicazione del meccanismo
sostitutivo di cui all’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e come atto d’impulso del procedimento di
applicazione alla società ricorrente della misura
straordinaria di cui all’art. 32, comma 10, della legge n.
114/2014.
In particolare, occorre domandarsi della legittimità del
comportamento assunto dalla stazione appaltante che, in
presenza di una richiesta di sostituzione della mandataria
della società consortile ai sensi dell’art. 37, comma 18,
del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, norma da ritenersi applicabile
anche in fase di esecuzione a tale forma organizzativa, ha
subordinato la verifica dei presupposti di operatività di
tale meccanismo conservativo all’esito di un procedimento di
applicazione di misure straordinarie, anche queste aventi la
medesima funzione, ma di competenza di altra autorità.
L’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 prevede
che «in caso di fallimento del mandatario ovvero, qualora si
tratti di imprenditore individuale, in caso di morte,
interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo
ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la
stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto
con altro operatore economico che sia costituito mandatario
nei modi previsti dal presente codice purché abbia i
requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o
forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali
condizioni la stazione appaltante può recedere
dall'appalto».
La norma è stata interpretata da condivisibile
giurisprudenza, da cui non vi è ragione di discostarsi, nel
senso che “nel distinguere le due ipotesi (cioè quella di
cui al comma 18 da quella di cui al comma 19, quest’ultima
relativa alla sostituzione della mandante), solo se sussista
la condizione secondo cui la mandante (o le mandanti) abbia
di per sé tutti i requisiti necessari, è possibile la
prosecuzione del rapporto; l'uso del verbo "può" non va
inteso in accezione facultizzante per la stazione
appaltante, ma esprime solo una eventualità -il possesso di
tutti i requisiti in capo alla mandante- che potrebbe non
verificarsi in concreto” (TAR Campania Napoli I Sezione 25.07.2011 n. 3953) .
Quanto alla ratio dell’istituto la richiamata giurisprudenza
ha osservato «in ossequio alla giurisprudenza di questa
Sezione (sent. n. 4408 del 2009, n. 1177 del 2010 e n. 7152
del 2010) dalla quale non vi sono motivi per discostarsi,
che
la modificazione, ad opera del d.lgs. 113 del 2007, dei
commi 18 e 19 dell'articolo 37 del d.lgs. 163 del 2006
risponde all'esigenza di garantire gli operatori economici
che partecipano a gare pubbliche in formazione
soggettivamente complessa dagli eventi che possono colpire
gli altri componenti del raggruppamento, minimizzando i
rischi di perdita della commessa pubblica aggiudicata. In
questa prospettiva la distinzione fra gli eventi che
colpiscono la mandataria (comma 18) e quelli che colpiscono
la mandante (comma 19) non consiste nella concessione o meno
di un potere in capo alla stazione appaltante di decidere
sulla continuazione del rapporto contrattuale».
Pertanto,
in presenza di un’istanza di sostituzione della
mandataria che si trovi in alcuna delle situazioni ostative
alla prosecuzione del rapporto contrattuale, esiste un
obbligo specifico per la stazione appaltante di attivare la
verifica di applicabilità del meccanismo sostitutivo di cui
alla citata disposizione.
Dal momento che la stazione appaltante ha ritenuto di
soprassedere a tale obbligo, si deve verificare se tale
sostanziale rifiuto trovi giustificazione nell’attivazione
di un procedimento di applicazione delle misure
straordinarie di cui all’art. 32 della legge 114 del 2014.
Tale disposizione stabilisce, ai primi due commi, che «1.
Nell'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria proceda per i
delitti di cui agli articoli 317 c.p., 318 c.p., 319 c.p.,
319-bis c.p., 319-ter c.p., 319-quater c.p., 320 c.p., 322,
c.p., 322-bis, c.p. 346-bis, c.p., 353 c.p. e 353-bis c.p.,
ovvero, in presenza di rilevate situazioni anomale e
comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi
criminali attribuibili ad un'impresa aggiudicataria di un
appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o
forniture, nonché ad una impresa che esercita attività
sanitaria per conto del Servizio sanitario nazionale in base
agli accordi contrattuali di cui all'articolo 8-quinquies
del decreto legislativo 30.12.1992, n. 502 ovvero ad
un concessionario di lavori pubblici o ad un contraente
generale, il Presidente dell'ANAC ne informa il procuratore
della Repubblica e, in presenza di fatti gravi e accertati
anche ai sensi dell'articolo 19, comma 5, lett. a), del
presente decreto, propone al Prefetto competente in
relazione al luogo in cui ha sede la stazione appaltante,
alternativamente:
a) di ordinare la rinnovazione degli
organi sociali mediante la sostituzione del soggetto
coinvolto e, ove l'impresa non si adegui nei termini
stabiliti, di provvedere alla straordinaria e temporanea
gestione dell'impresa [appaltatrice] limitatamente alla
completa esecuzione del contratto d'appalto ovvero
dell'accordo contrattuale o della concessione;
b) di
provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea
gestione dell'impresa [appaltatrice] limitatamente alla
completa esecuzione del contratto di appalto ovvero
dell'accordo contrattuale o della concessione.
2. Il Prefetto, previo accertamento dei presupposti indicati
al comma 1 e valutata la particolare gravità dei fatti
oggetto dell'indagine, intima all'impresa di provvedere al
rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto
coinvolto e ove l'impresa non si adegui nel termine di
trenta giorni ovvero nei casi più gravi, provvede nei dieci
giorni successivi con decreto alla nomina di uno o più
amministratori, in numero comunque non superiore a tre, in
possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità di
cui al regolamento adottato ai sensi dell'articolo 39, comma
1, del decreto legislativo 08.07.1999, n. 270. Il
predetto decreto stabilisce la durata della misura in
ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione
dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto
del contratto e comunque non oltre il collaudo ovvero
dell'accordo contrattuale».
Al comma decimo, l’art. 32 prevede altresì che «le
disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche
nei casi in cui sia stata emessa dal Prefetto
un'informazione antimafia interdittiva e sussista l'urgente
necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione
del contratto ovvero dell'accordo contrattuale, ovvero la
sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di
funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti
fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli
occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui all'articolo 94,
comma 3, del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159.
In tal caso, le misure sono disposte di propria iniziativa
dal Prefetto che ne informa il Presidente dell'ANAC. Nei
casi di cui al comma 2-bis, le misure sono disposte con
decreto del Prefetto, di intesa con il Ministro della
salute. Le stesse misure sono revocate e cessano comunque di
produrre effetti in caso di passaggio in giudicato di
sentenza di annullamento dell'informazione antimafia
interdittiva, di ordinanza che dispone, in via definitiva,
l'accoglimento dell'istanza cautelare eventualmente proposta
ovvero di aggiornamento dell'esito della predetta
informazione ai sensi dell'articolo 91, comma 5, del decreto
legislativo 06.09.2011, n. 159, e successive
modificazioni, anche a seguito dell'adeguamento dell'impresa
alle indicazioni degli esperti».
L’art. 32 configura, quindi, l’applicazione di misure
straordinarie di tipo sostitutivo o in ipotesi di pendenza
di un procedimento penale per alcuni tipi di reato, o a
seguito dell’adozione di un’interdittiva antimafia; queste,
a differenza dell’informazione o comunicazione antimafia,
non privano l’impresa che ne sia destinataria della capacità
giuridica di contrattare con l’amministrazione pubblica,
limitandosi ad introdurre un nuovo assetto organizzativo di
amministrazione, ad incisività graduale; differenza
sostanziale è che mentre l’interdittiva comporta, di regola,
la risoluzione del contratto, la misura straordinaria ne
assicura invece la prosecuzione; in entrambi gli istituti è
evidente il profilo comune di pubblico interesse di arginare
la contaminazione mafiosa della controparte del soggetto
pubblico; la differenza risiede nella maggiore
considerazione dell’interesse privato coinvolto dall’azione
autoritativa di pubblica sicurezza, che, nel caso dell’interdittiva,
risulta completamente sacrificato, in caso di misure
straordinarie viene invece parzialmente salvaguardato dalla
possibilità di conservare il rapporto contrattuale.
E’ in tale quadro che deve essere collocato
il decimo comma
dell’art. 32 che, nel disciplinare la relazione tra misura
straordinaria ed interdittiva, rivela la piena compatibilità
dei due istituti, subordinando la radicale efficacia della
seconda alla possibilità di proseguire e completare
l’esecuzione di un contratto attraverso l’applicazione
all’impresa di alcuna delle misure di cui all’art. 32, primo
comma.
In tal caso, si è in presenza di un potere
discrezionale ad esclusiva iniziativa pubblica, i cui limiti
sono rappresentati dalla ricorrenza di alcuna delle
situazioni di cui all’art. 32, decimo comma, cioè l'urgente necessità di assicurare il completamento dell'esecuzione
del contratto, ovvero dell'accordo contrattuale, ovvero la
sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di
funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti
fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli
occupazionali o dell'integrità dei bilanci pubblici.
La fattispecie posta all’attenzione del Tribunale, tuttavia,
si colora di ulteriore specialità, concernendo l’ipotesi in
cui la conservazione del rapporto contrattuale si riferisca
all’interesse di chi non sia stato colpito da
un’’informazione antimafia, come appunto gli altri mandanti
(o mandatario) di un’A.T.I. non raggiunti da tale misura.
Qui, il mantenimento del rapporto contrattuale, oltre
all’interesse pubblico al completamento del programma
negoziale –sebbene non di formale emergenza come nelle
ipotesi di cui all’art. 94 del d.lgs. 06.09.2011 n.
159- guarda anche all’interesse del terzo contraente
incolpevole, di cui la norma rivela voler tutelare un
presunto legittimo affidamento nella scelta dei propri partners. In tal caso, l’effetto sostanzialmente espulsivo
del meccanismo di cui all’art. 37 commi 18 e 19 del d.lgs. 02.04.2006 n. 163 e la conservazione della titolarità
soggettiva del rapporto, sebbene in parte qua, si trovano in
una relazione di insanabile alternatività.
In linea di principio, il criterio sostitutivo espulsivo
deve ritenersi prevalente sulla misura straordinaria,
innanzitutto perché tutela con maggiore efficacia
l’interesse pubblico alla neutralizzazione di contaminazioni
mafiose, siccome estromette radicalmente i soggetti
imprenditoriali che ne siano veicolo; in secondo luogo,
viene tutelata l’autonomia negoziale degli altri associati
di potersi affrancare dall’impresa sospetta; ancora, la
sostituzione costituisce un obbligo della stazione
appaltante ed una facoltà per le imprese superstiti;
infatti, nel caso del mandatario colpito da interdittiva il
recesso è consentito solo in caso di assenza delle
condizioni di qualificazione (norma non modificata dal
codice del contratti, ma comunque applicabile ratione
temporis).
A coordinare i due istituti è una loro possibile
collocazione di tipo diacronico, nel senso che la misura
straordinaria è succedanea ed eventuale, rispetto ad una
richiesta di applicazione del rimedio di cui all’art. 37; in
altri termini, una volta richiesta la sostituzione del
mandante o del mandatario da parte delle associate
superstiti, la stazione appaltante ha innanzitutto l’obbligo
di verificare la sussistenza delle condizioni per
l’applicazione del meccanismo di avvicendamento, così da
tutelare sia l’interesse pubblico -cui è sottesa la stessa
misura interdittiva- di fare salvo il rapporto contrattuale
da contaminazioni mafiose, sia di assicurare tutela
all’interesse contrattuale di terzi contraenti
presuntivamente incolpevoli e comunque estranei al rapporto
amministrativo di pubblica sicurezza; solo ove tale verifica
abbia dato esito negativo, o, comunque, sia mancata una
proposta in tal senso, sarà possibile attivare nei confronti
dell’impresa sospetta una delle misure straordinarie di cui
all’art. 32, sempre al fine di salvaguardare la prosecuzione
del rapporto contrattuale.
Nel caso di specie, la stazione appaltante ha agito, dando
un indirizzo esattamente opposto a quello sopra descritto,
avendo, a parità di interesse pubblico, sacrificato
l’interesse degli altri contraenti alla conservazione di un
rapporto contrattuale, a cui sarebbe rimasta estranea la
-OMISSIS-, in tal modo violando il principio generale di
imparzialità dell’azione amministrativa.
Tale deliberazione ed i consequenziali provvedimenti
dell’amministrazione comunale devono pertanto essere
annullati.
Con riferimento agli impugnati provvedimenti prefettizi,
rileva il Collegio che, in base alle precedenti
considerazioni, la richiesta di sostituzione della
mandataria, di cui la stazione appaltante non ha ancora
verificato la sussistenza dei presupposti di legge, ha dato
avvio ad un procedimento di competenza comunale la cui
obbligatoria conclusione con un provvedimento espresso si
pone in rapporto di necessaria pregiudizialità logica e
giuridica rispetto all’attivazione del potere extra ordinem
di competenza statale.
Pertanto, il Prefetto di Napoli, che, tra l’altro, era a
conoscenza dell’istanza di sostituzione, non avrebbe potuto
legittimamente esercitare il potere di applicazione di
misure straordinarie nei confronti della società ricorrente
–certamente maggiormente gravose per la sua immagine morale
e commerciale- se non all’esito di una verifica negativa
dei presupposti di operatività del meccanismo di cui
all’art. 37, comma 18, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
Ne discende l’illegittimità derivata del provvedimento di
applicazione della misura straordinaria, e quindi il
relativo annullamento, tanto anche dal punto di vista della
denunciata carenza di motivazione in ordine alla
rappresentazione dei necessari presupposti normativi di
applicabilità dell’istituto nel caso di specie. |
EDILIZIA PRIVATA: Ancora
di recente qualificata giurisprudenza di primo grado ha
confermato che "in materia di annullamento d’ufficio di
titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità
in sanatoria), nei casi in cui l’operato
dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va
individuato nell’interesse della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica”.
Invero, come è noto, la giurisprudenza
ha tracciato uno spartiacque –proprio in materia di titoli
edilizi– in punto di esercizio dell’autotutela, ed ha
condivisibilmente ritenuto che laddove l’errore in cui è
incorsa l’amministrazione procedente fosse stato indotto
dalla condotta dell’istante (e non rileva se tale condotta
fosse dolosa o semplicemente colposa, preordinata ovvero
incolpevole) le complesse valutazioni di interesse pubblico,
sottese in via di regola all’esercizio dei poteri di
autotutela, non fossero necessarie (anche perché non vi
sarebbe nessun affidamento qualificato da tutelare).
Il principio, è stato esposto con chiarezza in una recente
decisione che nell’affermare il principio di diritto secondo
cui se il permesso di costruire è stato ottenuto
dall’interessato in base ad una falsa rappresentazione della
realtà materiale, la p.a. è doverosamente tenuta ad
esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto
stesso ha chiarito che l’insegnamento giurisprudenziale
prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità
della p.a. in subiecta materia si azzera vanificando sia
l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da
annullare sia il tempo trascorso, e ciò si verifica quando
il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire
inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa
rappresentazione della realtà, sicché -anche tenuto conto
dell'’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990, n.
241 e ss.mm. (statuente che “…Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”)- vanno disattese le doglianze di
carattere formale/procedimentale prospettate.
Questa Sezione, ancor prima, aveva espresso il convincimento
a tenore del quale “allorquando una concessione edilizia in
sanatoria sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una
falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà
materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio
potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza
necessità di esternare alcuna particolare ragione di
pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi
sussistente in re ipsa”.
---------------
4.1. Invero, muovendo per le già chiarite ragioni dall’esame
del ricorso in appello n. 4785/2012, in ordine logico appare
prioritaria la disamina delle censure esaminabili.
4.2. A tale proposito si evidenzia che parte appellata:
a) non ha proposto appello incidentale avverso i capi di sentenza a
sé sfavorevoli;
b) costituendosi in data 31.07.2012 ha dichiarato genericamente di
volere riproporre i motivi non esaminati dal Tar, non
riproponendone il contenuto, né indicando quali essi
fossero;
c) per costante giurisprudenza (tra le tante, Cons. Stato, sez. V,
02.10.2014, n. 4897) nel processo amministrativo l’esame dei
motivi di primo grado assorbiti è consentito al giudice
d’appello solo se è vi è stata la loro riproposizione dalla
parte interessata, con la specifica indicazione delle
censure che intende siano devolute alla cognizione del
giudice di secondo grado, all’evidente fine di consentire a
quest’ultimo una compiuta conoscenza delle relative
questioni e, alle controparti, di contraddire
consapevolmente sulle stesse; di conseguenza un rinvio, ove
indeterminato, alle censure assorbite ed agli atti di primo
grado che le contenevano, senza precisazione del loro
contenuto, sarebbe inidoneo ad introdurre nel giudizio
d’appello i motivi in tal modo evocati, trattandosi di
formula insufficiente a soddisfare l’onere di espressa
riproposizione;
d) non ravvisando il Collegio motivi per discostarsi da tale
orientamento, è evidente che l’atto di costituzione del
31.07.2012 è inidoneo a riproporre dette censure assorbite e
che pertanto l’unico profilo devoluto alla cognizione del
Collegio è rappresentato dall’atto di appello proposto dal
Comune.
5. Esso è fondato in quanto:
a) si deve muovere dal giudicato formatosi proprio sui capi rimasti
inoppugnati della detta sentenza, laddove il Tar ha
stabilito che è rimasta accertata l’esistenza di un falso
presupposto di fatto posto a base della concessione
originariamente rilasciata annullata in autotutela dal
Comune con il provvedimento impugnato;
b) l’esistenza di tale falso presupposto, aveva ingenerato l’errore
del Comune che aveva rilasciato l’atto ampliativo, e
l’errore era stato indotto dalla parte originaria istante;
c) la sentenza è contraddittoria ed errata, in quanto:
- muoveva dal convincimento, a più riprese
affermato, che l’atto di autotutela dell’Amministrazione si
fondasse su un caposaldo fattuale e giuridico corretto, in
quanto la concessione ottenuta si fondava su un presupposto
insussistente, e, quindi, su un dato falsamente
rappresentato al Comune (il termine “falsamente” è
qui utilizzato in termini oggettivi, non rilevando se ciò
sia avvenuto per errore, superficialità, dolo etc.);
- tanto ciò è vero che ha respinto tutte le
censure proposte dalla originaria parte ricorrente di primo
grado tese ad “aggredire” tale profilo motivazionale
(e, si ripete, non essendo state articolate censure
incidentali avverso detti capi della sentenza essi integrano
giudicato);
- sennonché, pur muovendo da tali presupposti (e,
per incidens, pur non costituendo tali profili
oggetto di esame diretto, il Collegio non può fare a meno di
rilevare la persuasività, in parte qua, del
ragionamento del Tar), ha poi del tutto obliato il
condivisibile principio, ancora di recente affermato da
qualificata giurisprudenza di primo grado (TAR Toscana, sez.
III, 27.05.2015, n. 825), secondo il quale “in materia di
annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie,
un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui
l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla
erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una
specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico,
che va individuato nell’interesse della collettività al
rispetto della disciplina urbanistica”.
5.1. Invero, come è noto, la giurisprudenza ha tracciato uno
spartiacque –proprio in materia di titoli edilizi– in punto
di esercizio dell’autotutela, ed ha condivisibilmente
ritenuto che laddove l’errore in cui è incorsa
l’amministrazione procedente fosse stato indotto dalla
condotta dell’istante (e non rileva se tale condotta fosse
dolosa o semplicemente colposa, preordinata ovvero
incolpevole) le complesse valutazioni di interesse pubblico,
sottese in via di regola all’esercizio dei poteri di
autotutela, non fossero necessarie (anche perché non vi
sarebbe nessun affidamento qualificato da tutelare).
Il principio, è stato esposto con chiarezza in una recente
decisione (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 01.12.2014, n. 2969)
che nell’affermare il principio di diritto secondo cui se il
permesso di costruire è stato ottenuto dall’interessato in
base ad una falsa rappresentazione della realtà materiale,
la p.a. è doverosamente tenuta ad esercitare il proprio
potere di autotutela, ritirando l’atto stesso ha chiarito
che (cfr. ex plurimis anche TAR Puglia, Lecce, sez.
I, 04.04.2006, n. 1831) l’insegnamento giurisprudenziale
prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità
della p.a. in subiecta materia si azzera vanificando
sia l’interesse del destinatario del provvedimento
ampliativo da annullare sia il tempo trascorso, e ciò si
verifica quando il privato istante abbia ottenuto il
permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione
attraverso una falsa rappresentazione della realtà, sicché
-anche tenuto conto dell'’art. 21-octies, comma 2, della
legge 07.08.1990, n. 241 e ss.mm. (statuente che “…Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”)- vanno disattese le
doglianze di carattere formale/procedimentale prospettate.
Questa Sezione, ancor prima, (Cons. Stato, sez. IV,
08.01.2013, n. 39) aveva espresso il convincimento a tenore
del quale “allorquando una concessione edilizia in
sanatoria sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una
falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà
materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio
potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza
necessità di esternare alcuna particolare ragione di
pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi
sussistente in re ipsa” (v. capi da 2.1. a 3 da
intendersi richiamati nel presente elaborato)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2016 n. 3735 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'interesse pubblico all'eliminazione dell'atto
illegittimo è da considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di
intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele,
erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o
colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata
rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento
ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo
imputabile non già all'autorità promanante, bensì al
privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio
legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio
ottenuto attraverso l'induzione in errore
dell'amministrazione…”.
---------------
Il contestato annullamento in autotutela, intervenuto circa
tre anni e otto mesi dopo l’avvenuto rilascio del permesso a
costruire, a differenza di quanto ritiene l’appellante non
può considerarsi tardivo.
In primo luogo, il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6
della l. n. 124 del 2015, sulla base del principio “tempus
regit actum”, non può trovare applicazione nella fattispecie
in discussione, che riguarda un provvedimento adottato nel
2012.
Semmai, come il Comune non manca di segnalare, può essere
utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del
d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine
-ragionevole- entro il quale la Regione può annullare
provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi
non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o
dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la
normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro
adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso,
quale “parametro temporale” di legittimità e congruità
dell’azione amministrativa di annullamento in via di
autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito
all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in
relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e
annullato nel maggio del 2012.
In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei
18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al
fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del
termine, la legittimità di un atto di annullamento in
autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il
fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non
veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato
richiedente, la circostanza che tra il rilascio del
“permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento
comunale di annullamento in via di autotutela siano
trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare
il provvedimento impugnato in primo grado.
---------------
... per la riforma della
sentenza 23.05.2013 n. 2724
del TAR CAMPANIA–NAPOLI - SEZ. VIII, resa tra le
parti, concernente annullamento d’ufficio di permesso di
costruire e ordine di ripristino dello stato dei luoghi;
...
6.4.1. Quanto al motivo dedotto sub V), imperniato
essenzialmente su eccesso di potere per carenza di
motivazione, omessa ponderazione degli interessi in gioco,
esorbitanza del provvedimento di annullamento rispetto alle
finalità sue proprie e tardività del disposto annullamento
d’ufficio, anzitutto, come si è accennato sopra al p. 6.3.,
nel caso di rilascio di un permesso a costruire fondato su
una rappresentazione non veritiera dello stato di fatto da
parte del richiedente, appare evidente la sussistenza di una
situazione permanente “contra ius”, nella quale la
preminenza dell’interesse pubblico è tale per cui non
occorre una specifica ed esplicita motivazione
sull'interesse pubblico attuale e concreto, da contemperare
con l’interesse privato, all’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
L’interesse pubblico alla eliminazione dell’atto illegittimo
va individuato nell'interesse della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica: conf., su fattispecie
analoghe, riguardanti proprio annullamenti d’ufficio di
concessioni edilizie, le sentenze Cons. Stato n. 3150 del
2012 e n. 6554 del 2004, alle quali si rinvia anche ai sensi
degli articoli 74 e 88, comma 2, lett. d), del cod. proc.
amm..
Bene quindi la sentenza impugnata:
- ha richiamato la giurisprudenza per la quale l'interesse
pubblico all'eliminazione dell'atto illegittimo è da
considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di
intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele,
erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o
colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata
rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento
ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo
imputabile non già all'autorità promanante, bensì al
privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio
legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio
ottenuto attraverso l'induzione in errore
dell'amministrazione…” (cfr. sent. appellata, p. 4.2.);
e
- ha rilevato che il Comune, “nel disporre l'avversato
annullamento d'ufficio, ha espressamente evidenziato che il
De Iu., con la richiesta di realizzazione del parcheggio
pertinenziale pervenuta in data 06.06.2007, prot. n. 6367,
che ha prodotto il rilascio del permesso di costruire
commissariale del 02.10.2008, ha, tra l'altro, dichiarato
'libera' l'area interessata, producendo un'erronea
rappresentazione dello stato di fatto preesistente al
rilascio dell'atto autorizzativo edilizio"; stato dei
luoghi contrassegnato, come si è detto, da ingenti opere di
sbancamento e di fondazione già eseguite.
A fronte di (dette opere), ha proseguito il Tar, “il
ricorrente, nella domanda di permesso di costruire prot. n.
6367 del 06.06.2007, ha infedelmente o erroneamente
rappresentato l'area di sedime come 'libera', così inducendo
in errore l'amministrazione procedente circa la sussistenza
delle condizioni previste dall'art. 6, comma 2, della l.r.
Campania n. 19/2001 ai fini dell'applicabilità del regime
derogatorio in materia di parcheggi pertinenziali…”.
Inoltre, il contestato annullamento in autotutela,
intervenuto circa tre anni e otto mesi dopo l’avvenuto
rilascio del permesso a costruire (anche se pare corretto
ricordare che l’avviso di avvio del procedimento è stato
comunicato al De Iu. alla fine del mese di marzo del 2012),
a differenza di quanto ritiene l’appellante non può
considerarsi tardivo.
In primo luogo, il “criterio dei 18 mesi”, di cui
all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, richiamato dal signor
De Iu. nella memoria conclusiva, sulla base del principio “tempus
regit actum”, non può trovare applicazione nella
fattispecie in discussione, che riguarda un provvedimento
adottato nel 2012.
Semmai, come il Comune non manca di segnalare, può essere
utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del
d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine
-ragionevole- entro il quale la Regione può annullare
provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi
non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o
dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la
normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro
adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso,
quale “parametro temporale” di legittimità e
congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via
di autotutela in materia, il “criterio decennale”,
riferito all’esercizio del potere comunale di
autoannullamento in relazione a un permesso assentito
nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012.
In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio
dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento
orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della
ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di
annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina
previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla
rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da
parte del privato richiedente, la circostanza che tra il
rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione
del provvedimento comunale di annullamento in via di
autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in
grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado
(cfr., sulla ragionevolezza del tempo, di circa quattro anni
–gennaio 2009/marzo 2005- entro il quale è stato disposto
l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire
assentito in modo illegittimo, la già citata sentenza Cons.
Stato, sez. IV, n. 3150 del 2012).
Il profilo di censura attinente alla omessa analisi della
possibilità di adottare atti diversi dall’annullamento in
via di autotutela (ad esempio, la convalida), sembra poi
travalicare i limiti del controllo giudiziale di legittimità
demandato a questo giudice amministrativo sconfinando nel
merito delle opzioni riservate all’autorità amministrativa.
6.4.2. Con riguardo ai profili di censura sviluppati con il
VI motivo di appello:
- sulla omessa segnalazione, nella nota comunale del
28.03.2012 recante avviso di avvio del procedimento di
annullamento, del profilo (di motivazione del provvedimento
finale) relativo alla rappresentazione non veritiera dello
stato dei luoghi, con la conseguente affermata violazione
degli articoli 7 e 10-bis della l. n. 241 del 1990, va
condiviso il rilievo svolto nella sentenza di primo grado,
al p. 5.1., laddove viene rilevato che “in sede di
comunicazione di avvio del procedimento di annullamento
d'ufficio, l'interessato era stato… reso adeguatamente
avveduto della ipotizzata inconfigurabilità dell'area di
intervento come 'libera' e delle logiche implicazioni della
eventuale comprova di un simile assunto rispetto alla
contrastante rappresentazione dello stato dei luoghi fornita
con la domanda di permesso di costruire, prot. n. 6367, del
06.06.2007…il contenuto ellittico e fuorviante di
quest'ultima è emerso, in maniera chiara e oggettiva, nel
corso dell'analitica interlocuzione procedimentale col De Iu.,
la quale, siccome riguardata in funzione non solo delle
prerogative difensive dell'interessato, ma anche
dell'apporto collaborativo di quest'ultimo a favore
dell'amministrazione, e in quanto ancorata ai canoni di
celerità ed efficacia dell'azione amministrativa, ostativi
ad una sua degenerazione in un interminabile e sterile
confronto dialettico tra privato e autorità, è
legittimamente approdata al definitivo e irreversibile
convincimento di insussistenza del requisito di 'area
libera' ex art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001
e, quindi, di infedeltà, erroneità o insufficienza della
difforme prospettazione offerta dal ricorrente”;
- quanto infine all’omesso coinvolgimento del commissario “ad
acta” nel procedimento conclusosi con l’annullamento in
via di autotutela del “permesso commissariale”
dell’ottobre del 2008, è il caso di ribadire, con il Tar,
che "il commissario “ad acta”, “nominato con decreto del
presidente della Provincia di Caserta, prot. n. 41/pres.,
dell'08.07.2008 ha agito, ai sensi degli artt. 21, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001 e 39 della l.r. Campania n. 16/2004,
in qualità di organo sostitutivo del competente organo
comunale…in virtù (della) disciplina (di cui al menzionato
art. 39 della l.r. n. 16 del 2004, nella formulazione
applicabile, “ratione temporis”, alla fattispecie in esame),
il menzionato commissario ad acta non ha esercitato poteri
diversi, concorrenti o supplementari (ad es., consultivi o
di controllo), ma si è surrogato in quelli spettanti alla
competente (e inadempiente) amministrazione comunale.
Di conseguenza, è da ritenersi che quest'ultima, nel
riappropriarsi integralmente e nel riesercitare a pieno
titolo i predetti poteri in sede di autotutela, abbia
prescisso legittimamente -e cioè senza ledere il principio
del 'contrarius actus'- dalla partecipazione procedimentale
dell'organo sostitutivo promanante il provvedimento
abilitativo posto in annullamento” (così, in modo
testuale, la sentenza impugnata, al p. 5.2.).
In conclusione, l’appello va respinto, con le rettifiche e
le precisazioni motivazionale svolte sopra, e l’impugnata
sentenza di rigetto del ricorso di primo grado va confermata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.07.2016 n. 3403 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di repressione degli abusi edilizi non è inciso
dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 che prevede
il limite temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto
illegittimo affinché questo possa essere annullato.
E' inammissibile il ricorso presentato per l'annullamento
del decreto adottato dal Presidente della Provincia avente
ad oggetto "annullamento della Concessione Edilizia n.
60/2001 del Comune di Noale" per carenza d’interesse ed
anche per un altro profilo distinto ed autonomo:
- nell’astratta ipotesi di accoglimento del ricorso il
comune sarebbe obbligato in prima persona ad annullare la
concessione edilizia di cui sopra in relazione al vincolo di
accertamento (di non assentibilità dell’intervento)
contenuto nella citata sentenza del Consiglio di Stato ed
alla sussistenza del potere del comune di repressione degli
abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico
dell’edilizia.
Il potere di repressione degli abusi edilizi di cui all’art.
27 del testo unico dell’edilizia non è inciso dall’art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990 che prevede il limite
temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto
illegittimo affinché questo possa essere annullato.
L’art. 27 del testo unico dell’edilizia costituisce infatti
norma speciale che, in relazione alla necessaria tutela del
territorio ed alla natura permanente degli illeciti edilizi,
quand’anche assentiti da titolo edilizio, impone che sia
assicurata in ogni tempo la vigilanza sul territorio con la
conseguenza che sussiste in ogni tempo il potere del comune
di annullare le concessione edilizie illegittime dallo
stesso rilasciate.
---------------
... per l'annullamento del decreto n. 2/2014 adottato dal
Presidente della Provincia di Venezia il 14.01.2014
(notificato al Comune di Noale il successivo 19.02.2014),
avente ad oggetto "annullamento della Concessione
Edilizia n. 60/2001 del Comune di Noale".
...
Il comune di Noale rilasciava a Ma.Pe. e Ma.Pe. la
concessione edilizia n. 60 del 31.05.2002 per la demolizione
e costruzione di un fabbricato ad uso abitativo in via San
Dono in fregio all’argine del fiume Marzenego.
Il Consiglio di Stato con sentenza n. 816 del 2012 ha
annullato il decreto in data 11.06.2006 con cui la provincia
di Venezia rifiutava di annullare la sopra richiamata
concessione edilizia in conclusione a procedimento avviato
dal consorzio di bonifica Dese Sile a tutela del rispetto
del limite minimo di 4 metri dagli argini per le
costruzioni.
Il Consiglio di Stato ha motivato la propria sentenza in
relazione alla circostanza che la fascia di rispetto di cui
all’art. 133, lett. a), del r.d. n. 368 del 1904 ha
carattere assoluto e si applica anche nel caso di
demolizione e ricostruzione di edificio esistente, come nel
caso di specie e ha dunque riconosciuto che la concessione
edilizia assentita dal comune di Noale riguardava
effettivamente immobili posizionati all’interno della fascia
di rispetto del fiume Marzenego, ha ritenuto quindi che
l’intervento non poteva essere assentito e che la
concessione edilizia doveva essere annullata.
Il collegio evidenzia che le conseguenze dell’accoglimento
del ricorso sarebbero per il comune di Noale di adottare
analoghi provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
(quand’anche assentiti da titolo edilizio) rispetto a quello
impugnato e sulla base del secondo comma dell’art. 27 del
testo unico dell’edilizia che impone specificamente al
comune la demolizione ed il ripristino dello stato dei
luoghi nel caso di violazione delle norme urbanistiche e
delle leggi che impongono l’inedificabilità.
L’atto di appello al Consiglio di Stato della sentenza del
Tar Veneto n. 3879 del 2008 era stato notificato anche al
comune di Noale che è stato parte nel giudizio di primo
grado. Conseguentemente il comune di Noale deve ritenersi
vincolato al contenuto della sentenza del Consiglio di
Stato.
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso per carenza
d’interesse perché:
- è stato già accertato nel separato giudizio che la sopra
richiamata concessione edilizia non poteva essere
rilasciata;
- il comune di Noale non può agire in giudizio per ottenere
l’annullamento di un provvedimento che ha annullato una
concessione edilizia che non poteva essere rilasciata ossia
non può agire in giudizio per ottenere ciò che è stato
espressamente denegato in un distinto giudizio passato in
giudicato (divieto del ne bis in idem).
Tale motivo è da solo sufficiente per la declaratoria
d’inammissibilità del ricorso.
Fermo quanto sopra il ricorso è inammissibile per carenza
d’interesse anche per un altro profilo distinto ed autonomo:
nell’astratta ipotesi di accoglimento del ricorso il comune
di Noale sarebbe obbligato in prima persona ad annullare la
concessione edilizia di cui sopra in relazione al vincolo di
accertamento (di non assentibilità dell’intervento)
contenuto nella citata sentenza del Consiglio di Stato ed
alla sussistenza del potere del comune di repressione degli
abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico
dell’edilizia.
Il potere di repressione degli abusi edilizi di cui all’art.
27 del testo unico dell’edilizia non è inciso dall’art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990 che prevede il limite
temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto
illegittimo affinché questo possa essere annullato.
L’art. 27 del testo unico dell’edilizia costituisce infatti
norma speciale che, in relazione alla necessaria tutela del
territorio ed alla natura permanente degli illeciti edilizi,
quand’anche assentiti da titolo edilizio, impone che sia
assicurata in ogni tempo la vigilanza sul territorio con la
conseguenza che sussiste in ogni tempo il potere del comune
di annullare le concessione edilizie illegittime dallo
stesso rilasciate.
È allora evidente che nessun interesse deriverebbe al comune
di Noale dall’accoglimento del ricorso perché lo stesso
comune dovrebbe poi procedere comunque ad annullare la
concessione edilizia già annullata dalla provincia di
Venezia.
Il ricorso è in conclusione inammissibile per carenza
d’interesse
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 22.07.2016 n. 861 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
noto che anche in materia di edilizia il potere di
autotutela debba essere esercitato dall'Amministrazione
competente entro un termine ragionevole e supportato
dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e
concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto più
quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha
riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole
affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico
l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali
profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di
pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della
legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla
provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i
loro effetti.
Neppure è invocabile l’eccezionale ampliamento che in
materia edilizia la giurisprudenza riconosce alle
amministrazioni, laddove reputa adeguata la dimostrazione
dell’interesse pubblico ulteriore in caso di erronea
rappresentazione dei fatti da parte dell’istante.
---------------
In linea di diritto, è noto che anche in materia di edilizia
il potere di autotutela debba essere esercitato
dall'Amministrazione competente entro un termine ragionevole
e supportato dall'esternazione di un interesse pubblico,
attuale e concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto
più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha
riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole
affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico
l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali
profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di
pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della
legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla
provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i
loro effetti (cfr. ex multis Tar Liguria n. 292/2015,
Tar Lecce 2153/2013 e Tar Latina 215/2014).
Neppure è invocabile l’eccezionale ampliamento che in
materia edilizia la giurisprudenza riconosce alle
amministrazioni, laddove reputa adeguata la dimostrazione
dell’interesse pubblico ulteriore in caso di erronea
rappresentazione dei fatti da parte dell’istante (cfr.
ancora di recente Tar Lazio n. 11660/2015).
Nella specie, al contrario, l’erronea (eventuale)
valutazione è imputabile direttamente ad atti della stessa
amministrazione, a partire dai certificati di destinazione
urbanistica, mentre nessuna erronea rappresentazione dei
luoghi e dei fatti è contestata a parte ricorrente
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 29.01.2016 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In via di principio, l’adozione del provvedimento
di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al
riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la
valutazione della rispondenza della sua rimozione a un
interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche
prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore
della sua conservazione, e, tra questi, in particolare,
rispetto all’interesse del privato che ha riposto
affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede
motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra
interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più
intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso
dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia,
pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
---------------
Il Collegio non ignora il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui il provvedimento di
annullamento di ufficio di un permesso di costruire, quale
atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in
ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e
concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in
ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su
quello antagonista del privato.
Anche nell’ipotesi di annullamento di un permesso di
costruire va, cioè, riconosciuta piena operatività ai
principi generali che condizionano il legittimo esercizio
del potere di autotutela. Potere che è espressione della
discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di
un provvedimento espresso, postula la valutazione di
elementi ulteriori rispetto alla mero ripristino della
legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo
fondamento nei valori di rango costituzionale di buon
andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è,
infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità
dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto,
condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione
creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
Ciò premesso in via di principio, il Collegio nemmeno
ignora l’indirizzo, altrettanto consolidato, in base al
quale, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in
re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in
autotutela a fronte della falsa, infedele, erronea o
inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da
parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai
fini dell’adozione del provvedimento ampliativo inciso,
essendo il vizio infirmante quest’ultimo imputabile non già
all’autorità promanante, bensì al privato, il quale non può,
quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella
persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione
in errore dell’amministrazione.
---------------
... per l'annullamento DISPOSITIVO N. 26 del 25/05/2012:
ANNULLAMENTO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE DEL 02.10.2008.
...
4. Dall’accertata infondatezza del primo motivo di
impugnazione, così come dianzi scrutinato, discende
logicamente l’infondatezza anche del quarto, a tenore del
quale l’amministrazione resistente non avrebbe effettuato
un’adeguata ponderazione né fornito un’adeguata motivazione
circa la prevalenza dell’interesse pubblico al ritiro del
titolo abilitativo edilizio annullato rispetto
all’affidamento privato nella sua conservazione,
consolidatosi nell’arco temporale trascorso tra il rilascio
del predetto titolo e la sua rimozione in autotutela.
4.1. In proposito, occorre premettere, in via di principio,
che l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio
presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria
illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza
della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale
e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi
militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi,
in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha
riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede
motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra
interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più
intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso
dall’adozione dell’atto da annullare e solido appaia,
pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
Venendo, dunque, alla fattispecie in esame, il Collegio
non ignora il costante orientamento giurisprudenziale
(Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV,
31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez.
VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II,
08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007, n.
2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15), secondo
cui il provvedimento di annullamento di ufficio di un
permesso di costruire, quale atto discrezionale, deve essere
adeguatamente motivato in ordine all’esistenza
dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che
giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico su quello
antagonista del privato.
Anche nell’ipotesi di annullamento di un permesso di
costruire va, cioè, riconosciuta piena operatività ai
principi generali che condizionano il legittimo esercizio
del potere di autotutela. Potere che è espressione della
discrezionalità dell’amministrazione e che, nell’adozione di
un provvedimento espresso, postula la valutazione di
elementi ulteriori rispetto alla mero ripristino della
legalità violata.
In omaggio all’orientamento tradizionale che trova il suo
fondamento nei valori di rango costituzionale di buon
andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, è,
infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità
dell’atto di autotutela ad un apprezzamento concreto,
condotto sulla base dell’effettiva e specifica situazione
creatasi a seguito del rilascio dell’atto autorizzativo.
4.2. Ciò premesso in via di principio, il Collegio
nemmeno ignora l’indirizzo, altrettanto consolidato, in
base al quale, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi
in re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in
autotutela a fronte della falsa, infedele, erronea o
inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da
parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai
fini dell’adozione del provvedimento ampliativo inciso,
essendo il vizio infirmante quest’ultimo imputabile non già
all’autorità promanante, bensì al privato, il quale non può,
quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella
persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione
in errore dell’amministrazione (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6554; sez. IV,
24.12.2008, n. 6554; 28.05.2012, n. 3150; TAR Sicilia,
Palermo, sez. II, 03.11.2003, n. 2366; TAR Puglia, Lecce,
sez. III, 21.02.2005, n. 686; TAR Liguria, Genova, sez. I,
07.07.2005, n. 1027; 17.11.2006, n. 1550; 02.11.2011, n.
1509; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.02.2006, n. 2026;
Salerno, sez. II, 24.01.2013, n. 171; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. I, 05.02.2008, n. 129; TAR Basilicata,
Potenza, sez. I, 04.03.2004, n. 115; 10.05.2005, n. 299;
10.04.2006, n. 238; 18.10.2008, n. 643).
Ebbene, sotto tale profilo, rileva che il Comune di Caiazzo,
nel disporre l’avversato annullamento d’ufficio, ha
espressamente evidenziato che il De Iu., “con la
richiesta di realizzazione del parcheggio pertinenziale
pervenuta in data 06.06.2007, prot. n. 6367, che ha prodotto
il rilascio del permesso di costruire commissariale del
02.10.2008, ha, tra l’altro, dichiarato ‘libera’ l’area
interessata, producendo un’erronea rappresentazione dello
stato di fatto preesistente al rilascio dell’atto
autorizzativo edilizio”.
Ed invero, –come acclarato retro, sub n. 3– a fronte di
ingenti opere di sbancamento e di fondazione già eseguite,
il ricorrente, nella domanda di permesso di costruire, prot.
n. 6367, del 06.06.2007 ha infedelmente o erroneamente
rappresentato l’area di sedime come ‘libera’, così
inducendo in errore l’amministrazione procedente circa la
sussistenza delle condizioni previste dall’art. 6, comma 2,
della l.r. Campania n. 19/2001 ai fini dell’applicabilità
del regime derogatorio in materia di parcheggi pertinenziali.
4.3. A quanto sopra è appena il caso di soggiungere che il
preteso legittimo affidamento privato nella conservazione
del titolo abilitativo edilizio conseguito è escluso,
altresì, dalla circostanza che il De Iu. abbia ritardato
l’ultimazione dei lavori assentiti, al punto da richiederne
la proroga triennale con istanza del 30.01.2012, prot. n.
1117, evidentemente in attesa dell’esito del giudizio
definito con sentenza della Quarta Sezione del Consiglio di
Stato n. 1986 del 04.04.2012 (cfr. retro, in narrativa, sub
n. 2.4); esito processuale che, ove favorevole, gli avrebbe
procurato la reviviscenza delle concessioni edilizie n.
188/1999, n. 78/2001 e n. 3/2003, abilitative alla
costruzione di un edificio commerciale ed annullate
d’ufficio con provvedimento del 20.07.2005, n. 77 (cfr.
retro, in narrativa, sub n. 2.2 e 2.3), in luogo della meno
mabita ‘soluzione di ripiego’, costituita dalla
riconversione delle strutture realizzate in parcheggio
pertinenziale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2013 n. 2724 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Fondandosi
l’impugnato provvedimento su una motivazione plurima, solo
l’accertata illegittimità di ciascun profilo su cui esso
risulta incentrato avrebbe potuto comportare l’illegittimità
e il conseguente effetto annullatorio del medesimo.
----------------
... per
l'annullamento DISPOSITIVO N. 26 del 25/05/2012:
ANNULLAMENTO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE DEL 02.10.2008.
...
2.1. Già in rito, il motivo in esame si rivela inammissibile
per carenza di interesse.
Al riguardo, occorre premettere che il gravato annullamento
d’ufficio risulta incentrato sui seguenti nuclei
motivazionali (riproduttivi dei rilievi di cui alla nota
della Regione Campania, prot. n. 400919, del 20.05.2011),
tra loro distinti ed autonomi:
a) inosservanza delle misure –impartite dall’art. 6, comma 7-bis,
della l.r. Campania n. 19/2001– a salvaguardia
dell’originario equilibrio arboreo dell’area sovrastante il
parcheggio;
b) mancata registrazione dell’“atto di vincolo” del
parcheggio ad uso pertinenziale di immobili adiacenti;
c) previsione di soli 7 posti auto riservati a parcheggio
pertinenziale, in luogo dei 9 assentiti col permesso di
costruire del 02.10.2008;
d) insussistenza del carattere libero dell’area di intervento,
richiesto dall’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n.
19/2001, ai fini del rilascio del permesso di costruire
gratuito anche in deroga agli strumenti urbanistici;
e) violazione delle distanze legali tra edifici contigui (cfr.
retro, in narrativa, sub n. 2.10, 2.11 e 2.12).
Non vale ad elidere la superiore configurazione a guisa di
motivazione plurima la circostanza –addotta da parte
ricorrente– che il testo dell’adottato provvedimento in
autotutela, dopo l’enunciazione dei singoli rilievi
riportati sub a, b, c, d ed e, comunicati al De Iu. ai sensi
dell’art. 7 della l. n. 241/1990, e dopo l’illustrazione
delle controdeduzioni dell’interessato a ciascuno di essi,
si appunti, in conclusione, sull’implausibilità di queste
ultime, quanto, segnatamente, al requisito di “area
libera” ex art. 6, comma 2, della l.r. Campania n.
19/2001, senza riconsiderare gli ulteriori profili in
contestazione.
Una simile circostanza non denota, di per sé sola, il
superamento –alla luce delle controdeduzioni presentate dal
ricorrente– delle ragioni di annullamento d’ufficio,
preannunciate con la nota del 28.03.2008, prot. n. 3506
(cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.11) e riportate sub a,
b, c ed e, esigendosi, all’uopo, una espressa, ancorché
succinta, indicazione di condivisibilità delle anzidette
controdeduzioni.
Essa sta, piuttosto, a significare il carattere preminente
ed assorbente della inconfigurabilità dell’area di
intervento come “libera”, anche in considerazione
delle connesse e risolutive implicazioni in termini falsa o
erronea rappresentazione dello stato dei luoghi e, quindi,
di interesse pubblico ‘in re ipsa’ alla rimozione del
titolo abilitativo rilasciato in base ad esse.
Ciò posto, in rapporto al rilievo di insussistenza del
carattere libero dell’area di intervento (d) quelli
concernenti l’inosservanza delle misure a salvaguardia
dell’originario equilibrio arboreo dell’area sovrastante il
parcheggio (a), la mancata registrazione dell’“atto di
vincolo” del parcheggio ad uso pertinenziale di immobili
adiacenti (b), la previsione di soli 7 posti auto riservati
a parcheggio pertinenziale, in luogo dei 9 assentiti (c) e
la violazione delle distanze legali tra edifici contigui
(e), costituiscono nuclei motivazionali del tutto
autosufficienti e si rivelano, quindi, singolarmente
suscettibili di sorreggere, di per sé, il disposto
annullamento d’ufficio del titolo abilitativo edilizio
emesso in favore del De Iu..
Fondandosi, l’impugnato provvedimento del 25.05.2012, n. 26
su una motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità
di ciascun profilo su cui esso risulta incentrato avrebbe
potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto
annullatorio del medesimo (cfr., in tal senso, ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2882; 08.06.2007, n.
3020; sez. V, 28.12.2007, n. 6732; sez. IV, 10.12.2007, n.
6325; TAR Lazio, Roma, sez. II, 16.01.2007, n. 268;
28.03.2007, n. 2723; 04.05.2007, n. 3995; 02.07.2007, n.
5892; 01.08.2007, n. 7401; 03.10.2007, n. 9718; sez. I,
08.01.2008, n. 73; sez. II, 28.01.2008, n. 608; 10.03.2008,
n. 2165; 23.04.2008, n. 3505; 14.05.2008, n. 4127;
01.07.2008, n. 6346; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
26.06.2007, n. 6252; Salerno, sez. II, 26.09.2007, n. 1918;
Napoli, sez. III, 02.10.2007, n. 8744; sez. VIII,
05.03.2008, n. 1102; Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 313;
Napoli, sez. I, 17.06.2008, n. 5943; sez. III, 09.09.2008,
n. 10065; sez. V, 05.08.2008, n. 9774; sez. VII, 06.08.2008,
n. 9861; sez. I, 07.10.2008, n. 13437; TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 30.11.2007, n. 6532; TAR Liguria, Genova,
sez. II, 21.06.2007, n. 1188; sez. I, 29.11.2007, n. 1988;
sez. II, 11.04.2008, n. 543; 26.11.2008, n. 2041; TAR
Sardegna, Cagliari, sez. I, 09.11.2007, n. 2032; 27.10.2008,
n. 1847; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 17.06.2008, n.
314).
Una simile implicazione demolitoria risulta preclusa dalla
circostanza che il disposto annullamento d’ufficio è rimasto
inoppugnato nella parte motivazionale in cui rileva
l’inosservanza delle misure a salvaguardia dell’originario
equilibrio arboreo dell’area sovrastante il parcheggio (a),
la mancata registrazione dell’“atto di vincolo” del
parcheggio ad uso pertinenziale di immobili adiacenti (b),
la previsione di soli 7 posti auto riservati a parcheggio
pertinenziale, in luogo dei 9 assentiti (c) e la violazione
delle distanze legali tra edifici contigui (e).
Le superiori considerazioni inducono, pertanto, a ravvisare
la carenza di interesse di parte ricorrente all’accoglimento
e, quindi, a predicare l’assorbimento del profilo di censura
proposto avverso il nucleo argomentativo incentrato sulla
inconfigurabilità dell’area di intervento come “libera”
(d); nucleo argomentativo rispetto al quale rimangono
distinti ed autonomi gli altri, riportati retro sub a, b, c
ed e, e risultati inoppugnati (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
08.06.2007, n. 3020)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2013 n. 2724 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
a) Giova rammentare che, a norma dell'art. 9, comma 1,
della l. n. 122/1989, “i proprietari di immobili
possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei
locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari,
anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti … tali parcheggi possono essere realizzati,
ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree
pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto
con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei
corpi idrici”; e che, a norma dell’art. 6, comma 2,
della l.r. Campania n. 19/2001, “la realizzazione di
parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del lotto
dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di
fabbricati o al pianterreno di essi, è soggetta a permesso
di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti”.
Sia in base all’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 sia in
base all’art. 6, comma 2, l.r. Campania n. 19/2001, ma nei
limiti da essi dettati, i parcheggi pertinenziali possono,
dunque, realizzarsi anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti.
b) Con riferimento al’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, la
giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle
agevolazioni da esso contemplate, in considerazione delle
finalità della legge e in relazione al suo carattere
eccezionale, non può estendersi al di fuori delle ipotesi
normativamente previste.
Ha, conseguentemente, statuito che la costruzione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali
preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale, rimane assoggettata al regime urbanistico delle
nuove costruzioni fuori terra.
La deroga agli strumenti urbanistici è, pertanto, da
reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano realizzati
nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei
fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi,
i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle
disposizioni urbanistiche–, se non vengano a ciò adibiti i
locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o
se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei
fabbricati.
c) Alla stregua di tali principi, e considerato
che il ricorrente risulta aver progettato una nuova
costruzione (almeno) parzialmente fuori terra, quest’ultima
non avrebbe potuto sottrarsi ai parametri ed ai vincoli
imposti dal vigente strumento urbanistico sull’area di
intervento (ivi compresa la destinazione d’uso).
---------------
In conclusione, la realizzazione di parcheggi pertinenziali
è da intendersi possibile in deroga agli strumenti
urbanistici solo nel sottosuolo ovvero nei locali siti al
piano terra dei fabbricati già esistenti, mentre per le
nuove costruzioni fuori terra –come, appunto, nel caso di
specie–, anche se destinate a parcheggio, è da intendersi
indefettibilmente imposta l’osservanza delle prescrizioni
dettate dagli strumenti urbanistici vigenti.
---------------
... per
l'annullamento DISPOSITIVO N. 26 del 25/05/2012:
ANNULLAMENTO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE DEL 02.10.2008.
...
2.2. Fermo restando
quanto osservato retro sub n. 2.1, il motivo di ricorso in
scrutinio è infondato nel merito per le seguenti ragioni.
2.2.1. Innanzitutto, il fatto –rimarcato sia nella nota
della Regione Campania, prot. n. 400919, del 20.05.2011 sia
nel provvedimento del responsabile del Settore Politiche del
territorio del Comune di Caiazzo n. 26 del 25.05.2012, ed
emergente dalla documentazione fotografica allegata alla
consulenza tecnica di parte depositata in giudizio dal
ricorrente il 19.10.2012, nonché rimasto sostanzialmente
incontestato ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.–
che la struttura assentita con l’annullato permesso di
costruire del 02.10.2008 fuoriuscisse dal piano di campagna
(cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.10) induce ad escludere
in radice la sua riconducibilità al regime di favor dettato
dal legislatore nazionale e regionale in materia di
parcheggi.
a) In proposito, giova rammentare che, a norma dell'art. 9, comma
1, della l. n. 122/1989, “i proprietari di immobili
possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei
locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari,
anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti … tali parcheggi possono essere realizzati,
ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree
pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto
con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei
corpi idrici”; e che, a norma dell’art. 6, comma 2,
della l.r. Campania n. 19/2001, “la realizzazione di
parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del lotto
dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di
fabbricati o al pianterreno di essi, è soggetta a permesso
di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti”.
Sia in base all’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989 sia in
base all’art. 6, comma 2, l.r. Campania n. 19/2001, ma nei
limiti da essi dettati, i parcheggi pertinenziali possono,
dunque, realizzarsi anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti.
b) Con riferimento al’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989, la
giurisprudenza ha chiarito che la sfera applicativa delle
agevolazioni da esso contemplate, in considerazione delle
finalità della legge e in relazione al suo carattere
eccezionale, non può estendersi al di fuori delle ipotesi
normativamente previste (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2006, n.
1608).
Ha, conseguentemente, statuito che la costruzione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali
preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale, rimane assoggettata al regime urbanistico delle
nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. V,
29.03.2004, n. 1662; 29.03.2006 n. 1608; sez. IV,
11.11.2006, n. 6065; 26.09.2008 n. 4645; TAR Lazio, Roma,
sez. I, 16.04.2008, n. 3259).
La deroga agli strumenti urbanistici è, pertanto, da
reputarsi operante, solo quando i parcheggi siano realizzati
nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terra dei
fabbricati già esistenti, mentre è da escludersi –e, quindi,
i parcheggi devono essere realizzati nel rispetto delle
disposizioni urbanistiche–, se non vengano a ciò adibiti i
locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o
se le autorimesse non vengano allocate nel sottosuolo dei
fabbricati.
c) Alla stregua di tali principi, e considerato che il ricorrente
risulta aver progettato una nuova costruzione (almeno)
parzialmente fuori terra, quest’ultima non avrebbe potuto
sottrarsi ai parametri ed ai vincoli imposti dal vigente
strumento urbanistico sull’area di intervento (ivi compresa
la destinazione d’uso, la cui violazione ha già dato luogo
all’annullamento d’ufficio delle concessioni edilizie n.
188/1999, n. 78/2001 e n. 3/2003 ed è stata
giurisdizionalmente acclarata da TAR Campania, Napoli, sez.
VIII, 02.04.2007, n. 3051 e da Cons. Stato, sez. IV,
04.04.2012, n. 1986: cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.4).
d) Come statuito da TAR Campania, Napoli, sez. II, sent.
08.06.2009, n. 3134; sez. VIII, 11.03.2010, n. 1383;
26.10.2011, n. 4945, a conclusioni diverse non può
pervenirsi sulla base del dettato dell’art. 6 della l.r.
Campania n. 19/2001.
La richiamata disciplina legislativa regionale ha dilatato,
sia sotto il profilo soggettivo sia sotto il profilo
oggettivo, la portata dell'art. 9, comma 1, della l. n.
122/1989 (che consente la realizzazione di parcheggi
pertinenziali ai soli proprietari e non oltre l'area
pertinenziale esterna al fabbricato).
In particolare, ha previsto il rilascio di un permesso di
costruire gratuito per la costruzione, anche in deroga agli
strumenti urbanistici, di parcheggi in aree (in origine) non
pertinenziali, ma con un rapporto di pertinenzialità da
determinarsi in una fase successiva (e cioè dopo la
realizzazione delle opere e mediante l’acquisto dei box da
parte dei soggetti abilitati), ed anche in favore di
soggetti non proprietari di immobili e in mancanza di una
immediata contiguità spaziale fra l’area destinata a
parcheggio e gli immobili da quest’ultimo serviti (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. IV 30.04.2004, n. 7695).
Ha, quindi, consentito di individuare gli acquirenti dei
posti auto, in regime di pertinenzialità, anche dopo la
realizzazione dei parcheggi, contemplando, a tale scopo, la
sottoscrizione di apposito atto d’obbligo.
Tuttavia, nonostante la dilatazione dei casi previsti, pure
dalla descritta disciplina legislativa regionale devono
ritenersi confermati i principi fondamentali delle
disposizioni contenute nell’art. 9, comma 1, della l. n.
122/1989, che ammette, bensì, la costruzione di parcheggi
pertinenziali in deroga agli strumenti urbanistici, ma solo
nel sottosuolo ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati preesistenti.
Siffatto approdo ermeneutico deve essere tenuto fermo, anche
se il non perspicuo tenore dell’art. 6, comma 2, della l.r.
Campania n. 19/2001 potrebbe suggerire, ove disancorato dal
contesto normativo di riferimento, una diversa lettura,
volta a ritenere possibile la costruzione di manufatti da
destinare a parcheggi, in deroga agli strumenti urbanistici,
in tutte le “aree libere, anche non di pertinenza”,
non solo al piano terra o nel sottosuolo, ma anche in
elevazione rispetto al piano di campagna.
Ed invero, una simile interpretazione ‘estensiva’ si
pone in contrasto con i generali principi interpretativi, in
virtù dei quali una disciplina normativa deve essere
riguardata nel complesso delle sue disposizioni, nel
contesto sistematico di riferimento e secondo canoni di
logica.
Non può, quindi, prescindersi dalla considerazione che nei
settori dell’urbanistica e dell’edilizia –come ripetutamente
affermato dalla Corte costituzionale (sent. 01.10.2003, n.
303; 19.12.2003, n. 362; 28.06.2004, n. 196)– i poteri
legislativi regionali sono riconducibili ad una competenza
di tipo concorrente in tema di “governo del territorio”,
ai sensi dell'art. 117, comma 3, Cost.. Conseguentemente, le
Regioni possono regolamentare il settore con proprie leggi
nel rispetto dei principi fondamentali posti dalle leggi
statali.
Nella materia di parcheggi pertinenziali, la Regione
Campania ha esercitato –come visto– il suo potere
legislativo, e lo ha fatto nel rispetto dei principi dettati
dalla normativa statale di riferimento, anche quando si è
trattato di operare l’illustrato ampliamento, sia sotto il
profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo, della portata
dell’art. 9, comma 1, della l. n. 122/1989. Tale ampliamento
è, infatti, risultato conforme ai principi sulla
pertinenzialità posti dalla legge statale; cosicché nelle
correlative previsioni non è ravvisabile alcuna violazione
dell'articolo 117 Cost. (TAR Campania, Napoli, sez. IV,
24.03.2009, n. 1595).
Lo stesso non potrebbe dirsi, ove si accreditasse la cennata
interpretazione ‘estensiva’ dell’art. 6, comma 2,
della l.r. Campania n. 19/2001, volta a ritenere assentibile
tout court la realizzazione di immobili da destinare
a parcheggi, in deroga agli strumenti urbanistici, in tutte
le “aree libere, anche non di pertinenza”.
Siffatto approccio ermeneutico non determinerebbe (solo)
l’ampliamento (certamente possibile) della disciplina di
favore dettata dalla normativa statale, per agevolare
(comunque entro limiti precisi) la realizzazione di
parcheggi pertinenziali, ma determinerebbe lo svuotamento
dei principi fondamentali contenuti nella l. n. 122/1989
–oltre che nel d.p.r. n. 380/2001–, ponendosi, quindi, in
contrasto col quadro normativo di riferimento delle leggi in
materia.
Una lettura dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n.
19/2001, che ritenesse possibile l’edificabilità, in deroga
ad ogni prescrizione dettata dagli strumenti urbanistici e
in qualsiasi zona del territorio comunale, di nuovi
fabbricati fuori terra destinati a parcheggio finirebbe,
infatti, per collidere insanabilmente con tutte le
disposizioni di legge volte a garantire un armonioso ed
ordinato sviluppo del territorio, le quali prevedono, a tal
fine, il rispetto degli atti di programmazione urbanistica e
di regolazione dell’attività edilizia.
Oltre a collidere con le disposizioni contenute nella
legislazione statale di riferimento ed anche con la
legislazione in materia urbanistica ed edilizia dettata
dalla stessa Regione Campania, essa risulterebbe, peraltro,
anche illogica: non è ipotizzabile che il legislatore
regionale abbia inteso indiscriminatamente derogare ad ogni
norma contenuta negli strumenti urbanistici (sulle
destinazioni, anche pubbliche, delle aree, sui volumi, sulle
superfici, sulle altezze, sulle distanze tra fabbricati,
ecc.) per consentire la realizzazione in aree libere di
nuove costruzioni da destinare a parcheggio, posponendo,
quindi, una pluralità di interessi pubblici e privati
rilevanti e tutelati dall’ordinamento ad un interesse che,
seppur rilevante, non può, di certo, essere considerato
sempre prioritario.
Giova, infine, soggiungere che la lettura ‘estensiva’
dell’art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001
potrebbe incentivare facili abusi, rendendo possibile la
presentazione di istanze di sanatoria concernenti opere
realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio (originariamente non destinate a parcheggio
pertinenziale e solo surrettiziamente ‘adattate’
ex post a tale funzione) e nemmeno conformi ai vigenti
strumenti urbanistici, con grave nocumento all’attività di
vigilanza sull’uso del territorio esercitata dalle
amministrazioni comunali.
e) In conclusione, alla stregua di quanto dianzi osservato, l’art.
6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 deve
interpretarsi –sul piano letterale e in coerenza col quadro
sistematico di riferimento– nel senso che la locuzione “ovvero”,
introduttiva dell’espressione “nel sottosuolo di
fabbricati o al pianterreno di essi”, assolva una
funzione non già disgiuntiva (a guisa di sinonimo di ‘oppure’),
bensì esplicativa e specificativa (a guisa di sinonimo di ‘ossia’)
della precedente espressione “in aree libere”.
In questa plausibile prospettiva esegetica, la realizzazione
di parcheggi pertinenziali è da intendersi possibile in
deroga agli strumenti urbanistici solo nel sottosuolo ovvero
nei locali siti al piano terra dei fabbricati già esistenti,
mentre per le nuove costruzioni fuori terra –come, appunto,
quella divisata dal De Iu.–, anche se destinate a
parcheggio, è da intendersi indefettibilmente imposta
l’osservanza delle prescrizioni dettate dagli strumenti
urbanistici vigenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2013 n. 2724 - link a
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ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
Irragionevoli le Linee Guida sul Rup (13.11.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Tutti gli errori della Corte dei conti sul fondo del salario
accessorio (12.11.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
S. Cacace,
La disciplina dei contratti
pubblici dopo il d.lgs. n. 50 del 2016: motivi di esclusione
e criteri di selezione (08.11.2016 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Motivi di esclusione e criteri di
selezione nella nuova disciplina comunitaria e nazionale.
Introduzione. 2. I requisiti di ordine generale. 3. La
capacità tecnica ed economica nella disciplina comunitaria.
4. La qualificazione nel decreto legislativo n. 50/2016: il
sistema SOA ed i ratings. 5. La qualificazione nel decreto
legislativo n. 50/2016: gli appalti di servizi e forniture.
6. Il documento di gara unico europeo ed il soccorso
istruttorio. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Nuovo Codice dei contratti pubblici. A che punto
siamo (ANCE di Bergamo,
circolare 14.11.2016 n. 199). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 16.11.2016, "Direttive
tecniche per la predisposizione, l’approvazione e
l’attuazione dei progetti di gestione degli invasi" (deliberazione
G.R. 24.10.2016 n. 5736). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 46 del 15.11.2016, "Settimo
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 10.11.2016 n. 11401). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli operatori
economici sulla definizione dell’ambito soggettivo dell’art.
80 del d.lgs. 50/2016 e sullo svolgimento delle verifiche
sulle dichiarazioni sostitutive rese dai concorrenti ai
sensi del d.p.r. 445/2000 mediante utilizzo del modello di
DGUE (Comunicato
del Presidente del 26.10.2016 -
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Linee Guida n. 4, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti
pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione
degli elenchi di operatori economici” (determinazione
26.10.2016 n. 1097 - www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Linee guida n. 3, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile
unico del procedimento per l’affidamento di appalti e
concessioni» (determinazione
26.10.2016 n. 1096 - www.anticorruzione.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Gli obblighi di pubblicazione nelle procedure di affidamento.
DOMANDA:
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 37 d.lgs.
33/2013 e 29 del d.lgs. 50/2016 sono soggetti a
pubblicazione obbligatoria nella sezione "Amministrazione
Trasparente" tutti gli atti relativi alle procedure di
affidamento di servizi, lavori e forniture di beni.
Si chiede se siano compresi anche gli atti a valle delle
procedure di appalto e quindi i contratti, siano esse
scritture private che atti pubblici, o se con tale
espressione il legislatore intenda riferirsi ai soli atti
legati alle procedure di evidenza pubblica.
RISPOSTA:
Il recente decreto legislativo 97/2016 di “Revisione e
semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione
della corruzione, pubblicità e trasparenza", correttivo
della legge 190/2012 e del decreto legislativo 33/2013, in
vigore dallo scorso 23 giugno, ha introdotto modifiche in
tema di obblighi di pubblicazione concernenti i contratti di
lavori, forniture e servizi.
L’art. 31 del d.lgs. 97/2016 ha modificato l’articolo 37 del
d.lgs. 33/2013 “Obblighi di pubblicazione concernenti i
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, che
ora prevede -salvo quanto previsto dall’articolo 9-bis e gli
obblighi di pubblicità legale- la pubblicazione: dei dati
previsti dall’articolo 1, comma 32, della legge 06.11.2012,
n. 190: CIG, Struttura proponente, Oggetto del bando,
Procedura di scelta del contraente, Elenco degli operatori
invitati a presentare offerte, Aggiudicatario, Importo di
aggiudicazione, Tempi di completamento dell’opera, servizio
o fornitura, Data di ultimazione lavori, servizi o
forniture, Importo delle somme liquidate degli atti e le
informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (art. 29): “tutti gli atti
delle amministrazioni relativi alla programmazione di
lavori, opere, servizi e forniture; gli atti relativi alle
procedure per l’affidamento; il provvedimento che determina
le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni
all’esito delle valutazioni dei requisiti speciali; la
composizione della commissione giudicatrice e i curricula
dei suoi componenti; i resoconti della gestione finanziaria
dei contratti al termine della loro esecuzione".
La pubblicazione dei contratti non è prevista, se non nei
limiti degli elementi sopra specificati (corrispettivo,
durata, ecc.) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso ad atti contenenti dati sensibili da parte di un
consigliere comunale.
Il consigliere comunale ha diritto di
ottenere tutte le notizie e le informazioni in possesso
dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del
suo mandato. L'esigenza di salvaguardia della riservatezza
dei terzi è soddisfatta dall'obbligo, gravante
sull'amministratore locale, del segreto nei casi
specificamente indicati dalla legge.
In ogni caso, l'amministrazione destinataria dell'istanza,
cui spetta entrare nel merito della valutazione della
richiesta, è tenuta a rispettare i principi di pertinenza e
non eccedenza dei dati personali trattati e, quando la
richiesta di accesso riguarda dati sensibili, la loro
indispensabilità, consentendo nei singoli casi l'accesso
alle sole informazioni che risultano indispensabili per lo
svolgimento del mandato.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di
accesso agli atti avanzata da un consigliere comunale e
relativa ad un procedimento disciplinare riguardante un
dipendente dell'Ente, atteso che tra la documentazione
richiesta vi è anche un certificato medico.
L'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, prevede che i consiglieri comunali e provinciali
hanno diritto 'di ottenere dagli uffici, rispettivamente
del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi specificatamente determinati
dalla legge'.
Si osserva, in via generale, che la giurisprudenza ha
costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili
devono considerare l'esercizio, in tutte le sue potenziali
esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere
comunale è individualmente investito, in quanto membro del
consiglio.
Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per
ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei
provvedimenti adottati e l'acquisizione di informazioni, una
compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale, utile non solo
per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli
affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere,
nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative
consentite dall'ordinamento ai membri di quel collegio.
[1]
Il generale diritto di accesso del consigliere comunale è
quindi esercitato riguardo ai dati utili per l'esercizio del
mandato e fornisce una veste particolarmente qualificata
all'interesse all'accesso del titolare di tale funzione
pubblica, legittimandolo all'esame e all'estrazione di copia
dei documenti che contengono le predette notizie e
informazioni. [2]
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di
motivare le proprie richieste di informazione, né gli uffici
comunali hanno titolo a richiedere le specifiche ragioni
sottese all'istanza di accesso, né a compiere alcuna
valutazione circa l'effettiva utilità della documentazione
richiesta ai fini dell'esercizio del mandato.
Tale diritto, pur essendo più ampio di quello riconosciuto
alla generalità dei cittadini ai sensi del Capo V della
legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di usare i
documenti per fini privati o comunque diversi da quelli
istituzionali, in quanto i dati acquisiti in virtù della
carica ricoperta devono essere utilizzati esclusivamente per
le finalità collegate all'esercizio del mandato
(presentazione di mozioni, interpellanze, espletamento di
attività di controllo politico-amministrativo ecc.). Il
diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in
quanto riferito ad atti palesemente inutili ai fini
dell'espletamento del mandato. [3]
In relazione all'esigenza di salvaguardia della riservatezza
dei terzi, la giurisprudenza [4]
ha rilevato che tale necessità, per quanto riguarda il
diritto di accesso di cui dispongono i consiglieri comunali,
è soddisfatta dall'articolo 43, comma 2, del D.Lgs.
267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono
tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla
legge: 'Essendo, infatti, i consiglieri tenuti al segreto
nel caso di atti riguardanti la riservatezza di terzi, non
sussiste, all'evidenza, alcuna ragione logica perché possa
essere loro inibito l'accesso ad atti riguardanti i dati
riservati di terzi.' [5]
Tuttavia, come evidenziato dal Garante per la protezione dei
dati personali, [6]
nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri
comunali riguardi dati sensibili, quali sono quelli
contenuti in un certificato medico, [7]
'l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'articolo 65,
comma 4, lettera b), del Codice, [8]
è consentito se indispensabile per lo svolgimento della
funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato
ispettivo e di altre forme di accesso a documenti
riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l'espletamento di un mandato
elettivo. Resta ferma la necessità [...] che i dati così
acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse
all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato
di salute. Spetta quindi all'amministrazione destinataria
della richiesta accertare l'ampia e qualificata posizione di
pretesa all'informazione ratione officii del consigliere
comunale'.
Il Garante ha, altresì, affermato che 'l'amministrazione
destinataria dell'istanza, cui spetta entrare nel merito
della valutazione della richiesta -eventualmente sindacabile
dal giudice amministrativo- essendo l'unico soggetto
competente ad accertare l'ampia e qualificata posizione di
pretesa del consigliere all'ottenimento delle informazioni
ratione officii, è tenuta a rispettare i principi di
pertinenza e non eccedenza dei dati personali trattati e,
quando la richiesta di accesso riguarda dati sensibili, la
loro indispensabilità, consentendo nei singoli casi
l'accesso alle sole informazioni che risultano
indispensabili per lo svolgimento del mandato (artt. 11 e 22
del Codice)'. [9]
Ferme le considerazioni sopra svolte, ribadita l'ampia
accezione del diritto di accesso del consigliere, come
disciplinato dall'articolo 43 del decreto legislativo
267/2000 e delineato nella sua portata dalla giurisprudenza,
sarà cura dell'Amministrazione vagliare l'indispensabilità e
pertinenza per l'esercizio del munus del consigliere
del certificato medico facente parte della documentazione
afferente il procedimento disciplinare in riferimento, ai
fini di una valutazione circa la sua ostensibilità.
Per completezza espositiva, si riporta, da ultimo, un parere
espresso dalla Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, [10]
che distingue il caso in cui il procedimento disciplinare
sia ancora in corso o sia pendente nei confronti del
dipendente, da quello in cui questo si sia già concluso. La
Commissione ha, infatti, limitato l'inaccessibilità alla
prima ipotesi, relativa alla fase procedimentale e in
particolare all'attività istruttoria, in cui è stata
giustificata l'inaccessibilità temporanea alla
documentazione in pendenza del relativo procedimento. In tal
caso ha ritenuto sufficiente prevedere il differimento
dell'esercizio del diritto di accesso alla fine del relativo
procedimento.
Nel caso di procedimenti disciplinari già conclusi, la
Commissione non ha, invece, ritenuto giustificata la
sottrazione integrale all'accesso dei relativi atti.
Infatti, essa ha rilevato l'opportunità di delimitare la
fase procedimentale, soggetta alla tutela della riservatezza
e quindi inaccessibile per ciò che riguarda i relativi
documenti, individuando un momento finale oltre il quale si
delinea una fase successiva che può dare luogo a
provvedimenti dell'amministrazione da portare a conoscenza
del destinatario e che, comunque, non può più ritenersi
soggetta all'esigenza di tutela della riservatezza.
[11]
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, decisioni 21.02.1994,
n. 119, 08.09.1994, n. 976, 26.09.2000, n. 5109, che
precisano che la facoltà di esaminare ed estrarre copia dei
documenti da parte del consigliere spetta 'a qualunque
cittadino che vanti un proprio interesse qualificato e sono,
a maggior ragione, contenute nella più ampia e qualificata
posizione di pretesa all'informazione spettante ratione
officii al consigliere comunale'. Più di recente, il
principio è stato ripreso e confermato dal TAR Piemonte,
sezione II, nella sentenza del 31.07.2009, n. 5879.
[3] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza
del 23.09.2014, n. 2363.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 04.05.2004, n.
2716. Nello stesso senso, tra le altre, TAR Veneto Venezia,
sez. I, sentenza del 15.02.2008, n. 385 e TAR Lazio, Latina,
sez. I, sentenza del 19.02.2013, n. 171. Si veda, anche,
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell'11.12.2013, n.
5931 ove si afferma che. 'Il diritto del consigliere
comunale o provinciale di avere accesso, ex art. 43 del
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, a tutte le informazioni che siano
utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna
limitazione derivanti da esigenze di riservatezza o privacy
dei terzi, in quanto il consigliere è vincolato
all'osservanza del segreto. L'art. 43, comma 2 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, prevede infatti che i consiglieri
comunali sono tenuti al segreto nel caso accedano ad atti
che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi'.
[5] Certa dottrina (G. Modesti, 'Il diritto di accesso da
parte di un consigliere di un ente locale', articolo del
28.03.2007 reperibile sul sito: www.altalex.com) proprio con
riferimento al fatto che l'istanza dei consiglieri non può
essere disattesa in presenza di un opposto diritto alla
riservatezza dei terzi, attesa la funzione del consigliere
comunale che gli impone di rispettare il segreto nei casi
previsti dalla legge, adduce, tra gli altri, quali esempi di
richieste accessibili quelle afferenti 'i procedimenti e
provvedimenti disciplinari, la documentazione sanitaria
relativa ad un dipendente'.
[6] Relazione annuale 2004, pagg. 19-20, reperibile sul sito
internet del Garante.
[7] Ai sensi dell'articolo 4, comma 1, del D.Lgs. 196/2003
per 'dati sensibili' si intendono: '[...] i dati personali
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale'
(art. 4, co. 1, lett. d)).
[8] Si tratta del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196,
recante 'Codice in materia di protezione dei dati
personali'.
[9] Così, Garante per la protezione dei dati personali,
provvedimento del 25.07.2013, n. 369.
[10] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
parere del 22.10.2002.
[11] Su tale aspetto si veda, anche il parere rilasciato dai
nostri Uffici del 28.10.2005 (prot. n. 17616) (26.10.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Stop
alla giungla dell'edilizia. Porticato, tettoia, veranda:
stesso significato ovunque. In
dirittura il decreto con il regolamento tipo: 42 definizioni
valide in ogni comune.
Termini come porticato, tettoia o
veranda avranno lo stesso significato in tutta Italia,
grazie a un glossario con 42 definizioni che renderanno
omogenei gli interventi edilizi. Il tutto all'interno di un
regolamento edilizio tipo, che sostituirà le oltre 8 mila
norme comunali e che sarà suddiviso in due parti: un
capitolo dedicato ai principi generali e uno alle
disposizioni regolamentari comunali.
Lo prevede la bozza di decreto del ministero delle
infrastrutture che mette a punto il regolamento edilizio
tipo, previsto nel 2014 dal decreto Sblocca Italia.
Dopo la sigla, ormai imminente, dell'accordo tra Stato,
comuni e regioni sui contenuti e sulle modalità di
attuazione (l'esame in Conferenza unificata è previsto il 3
ottobre), partirà la vera e propria fase di adeguamento. Le
regioni avranno 180 giorni di tempo per recepire il
regolamento edilizio tipo e stabiliranno le scadenze a cui i
comuni si dovranno attenere per uniformarsi.
L'obiettivo del provvedimento messo a punto dai tecnici del
ministro Graziano Delrio è appunto quello di uniformare e
semplificare i regolamenti edilizi comunali, secondo un
elenco ordinato delle varie parti valevole su tutto il
territorio comunale (si veda anche altro articolo in
pagina).
Doppio capitolo.
Il regolamento edilizio tipo si articolerà in due parti:
- nella prima, denominata «principi generali e disciplina
generale in materia edilizia», è richiamata e non
riprodotta la disciplina generale dell'attività edilizia
operante in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e
regionale;
- nella seconda, rubricata «disposizioni regolamentari
comunali in materia edilizia», è raccolta la disciplina
regolamentare in materia edilizia di competenza comunale, la
quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e
l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata
nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il
territorio statale.
La prima parte.
La prima parte dei regolamenti edilizi, al fine di evitare
inutili duplicazioni di disposizioni nazionali e regionali,
dovrà limitarsi a richiamare con apposita formula di rinvio,
la disciplina relativa alle materia di seguito elencate, la
quale opererà direttamente senza la necessità di un atto di
recepimento nei regolamenti edilizi:
- le definizioni uniformi dei parametri urbanistici e
edilizi;
- le definizioni degli interventi edilizi e delle
destinazioni d'uso;
- il procedimento per il rilascio e la presentazione dei
titoli abilitativi edilizi e le modalità di controllo degli
stessi;
- la modulistica unificata edilizia, gli elaborati e la
documentazione da allegare alla stessa;
- i requisiti generali edilizi (ad esempio servitù militari,
accessi stradali e siti contaminati);
- la disciplina relativa agli immobili soggetti a vincoli e
tutele di ordine paesaggistico, ambientale, storico
culturale e territoriale;
- le discipline settoriali aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia, tra cui la normativa sui requisiti
tecnici delle opere edilizie e le prescrizioni specifiche
stabilite dalla normativa statale e regionale per alcuni
insediamenti e impianti.
Per favorire la conoscibilità della disciplina generale
dell'attività edilizia avente diretta e uniforme
applicazione, i comuni provvedono alla pubblicazione del
link nel proprio sito istituzionale.
La seconda parte.
La seconda parte dei regolamenti edilizi, avrà per oggetto
le norme comunali che attengono all'organizzazione e alle
procedure interne dell'ente nonché alla qualità, sicurezza,
sostenibilità delle opere edilizie realizzate, dei cantieri
e dell'ambiente urbano, anche attraverso l'individuazione
dei requisiti tecnici e integrativi complementari, rispetto
alla normativa uniforme richiamata nella prima parte del
regolamento edilizio.
---------------
Ma non sarà possibile derogare ai
singoli piani regolatori locali.
Regolamento edilizio uniforme, ma neutrale. La sua
applicazione non deve spostare di un metro cubo le
previsioni dei piani regolatori comunali, comunque si
chiamino in giro per l'Italia. L'effetto di invarianza è una
scelta obbligata, anche per rispetto alle autonomie locali
nella determinazione delle scelte di pianificazione
urbanistica del territorio.
Ma vediamo di illustrare la questione.
Lo schema di accordo della Conferenza unificata governo,
regioni e comuni sul regolamento edilizio tipo si propone di
dare seguito a quanto disposto dall'articolo 4, comma
1-sexies, del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001).
Questa norma è stata inserita dal dl 133/2014 e ha aperto la
strada all'adozione di uno schema di regolamento
edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme
e gli adempimenti. L'accordo in sede di Conferenza unificata
ha valenza in tutta Italia, in quanto è stato dichiarato
livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela
della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Il regolamento edilizio-tipo, che indica anche i requisiti
prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla
sicurezza e al risparmio energetico, dovrà essere adottato
dal comuni. La finalità del regolamento-tipo è
l'armonizzazione delle definizione dei tipi di intervento,
come dei parametri edificatori. L'uniformità del linguaggio
e delle definizioni è importantissima per scongiurare una
babele semantica, che diventa incertezza delle posizioni
giuridiche.
Per verificare se un certo intervento edilizio sia ammesso o
meno molto spesso, se non sempre, occorre, infatti,
verificare il vocabolario interno dei piani regolatori e
delle norme di attuazione dei singoli enti e magari le
definizioni cambiano da comune a comune, anche se ubicati in
contesti territoriali omogenei. Dalla definizione di volume
tecnico o di superficie o di altezza, ad esempio, può
dipendere la possibilità edificatoria.
Il testo uniforme rende più semplice prevedere se un
intervento sia realizzabile oppure no e a trarne beneficio
saranno, in prima battuta, i professionisti chiamati ad
asseverare Scia o a valutare la fattibilità di un permesso
di costruire. Peraltro l'esigenza di uniformità riguarda
anche l'interpretazione e l'attuazione della normativa
edilizia, per le quali lo schema di accordo rinvia a linee
guida di futura adozione.
In questa cornice una disposizione di massima importanza è
quella ora collocata, nella bozza del provvedimento,
all'articolo 2, comma 4, ai sensi del quale il recepimento
delle definizioni uniformi inderogabili nel regolamento
edilizio comunale non comporta la modifica delle previsioni
dimensionali degli strumenti urbanistici vigenti, che
continuano ad essere regolate dal piano vigente oppure dal
piano adottato alla data di entrata di sottoscrizione
dell'accordo in sede di conferenza unificata. La clausola
neutralizza eventuali possibili effetti sostanziali
derivanti dalla semplice adozione del vocabolario unico
nazionale.
Il solo recepimento delle definizioni edilizie non può
portare effetto di incremento o decremento delle dimensioni
edificabili. D'altronde le scelte sul se, quanto e cosa
edificare sono appannaggio della strumentazione urbanistica
locale e non della normativa statale che stabilisce regole
standard sulla produzione delle fonti regolamentari edilizie
(articolo
ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Geometri,,
laurea triennale professionalizzante e abilitante.
Obbligatorio, professionalizzante e abilitante.
Queste le caratteristiche principali del percorso di laurea
triennale che sarà indispensabile per coloro che avranno
intenzione di esercitare la professione di geometra.
Novità contenute nella proposta di legge (Atto
Camera n. 4030) a firma della deputata Simona
Malpezzi (Pd) che è stata illustrata ieri alla camera alla
presenza del presidente del Consiglio nazionale dei geometri
e dei geometri laureati, Maurizio Savoncelli e del
presidente dell'ente di previdenza della categoria, Fausto
Amadasi (si veda ItaliaOggi di ieri).
Nel corso dell'incontro è emerso come, al fine di rendere il
percorso di laurea anche abilitante, il tirocinio
professionale semestrale dovrà essere svolto all'interno dei
tre anni. Così facendo, una volta avviato il nuovo iter,
l'esame di Stato per l'abilitazione alla professione di
geometra sarà gradualmente soppresso con del 28.09.2016
conseguente abbattimento dei costi per lo stato.
Soddisfatto della stesura finale del testo, il presidente
Savoncelli ad avviso del quale «un percorso di laurea
così strutturato contraddistinguerà il geometra nel panorama
nazionale delle risorse tecniche professionali a
disposizione del mondo economico e della società civile. Il
geometra ha rivelato sempre nuove capacità di porsi in modo
qualificato nel contesto nazionale e internazionale del
mercato del lavoro, il tutto senza trascurare la normativa
europea», ha concluso Savoncelli, «il futuro ci
impone una formazione universitaria specifica per svolgere
la libera professione in ambito transnazionale: è un preciso
adempimento richiesto dalla Comunità europea per il 2020»
(articolo
ItaliaOggi del 29.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti,
allo studio un testo unico. Codice. La proposta arriverà
alla Cabina di regia di Palazzo Chigi: i provvedimenti
attuativi saranno organizzati per materia.
Un testo unico che tenga dentro tutte le norme di attuazione
del Codice appalti. Per comporre un profilo definito di un
quadro che, con l’avanzare dei provvedimenti dell’Anac e del
Governo, comincia a farsi particolarmente frammentato.
È questa la novità
più importante che verrà fuori dalle riunioni della Cabina
di regia di Palazzo Chigi. Il gruppo di lavoro, presieduto
dal capo dell’ufficio legislativo della presidenza del
Consiglio Antonella Manzione, non si occuperà solo della
preparazione del correttivo, in calendario per aprile del
2017, ma cercherà anche di affrontare una questione che è
emersa in questi primi cinque mesi di applicazione del Dlgs
n. 50 del 2016: la difficoltà che gli operatori stanno
riscontrando nel seguire l’avanzata della riforma.
L’abbandono del modello del regolamento unico ha portato un
effetto collaterale negativo: il moltiplicarsi dei
provvedimenti di attuazione e di integrazione del Codice.
Sono, in tutto, più di cinquanta, a diversi livelli di
avanzamento. I fronti principali riguardano il ministero
delle Infrastrutture e l’Autorità anticorruzione. L’Anac,
per la sua parte, ha approvato in via definitiva due linee
guida (servizi di ingegneria e offerta economicamente più
vantaggiosa) ma ne ha altre nove in “cottura”.
Il Mit, invece, ha in preparazione almeno altri dieci
provvedimenti, che coinvolgono anche il ministero
dell’Economia, i Beni culturali, la Giustizia, la Difesa.
Tutti questi testi stanno assumendo le forme più diverse:
decreti ministeriali, Dpcm e delibere. Insomma, seguire le
novità che riguardano il Codice sta diventando complicato.
Da qui nasce l’idea che arriverà sul tavolo della Cabina di
regia di Palazzo Chigi: preparare un testo unico
sull’attuazione del Codice, che tenga dentro tutti i
provvedimenti approvati a valle della riforma. In questo
modo, imprese e professionisti avranno un riferimento certo
e aggiornato, oltre che di semplice consultazione, perché
sarà organizzato per materia. A questa novità si lavorerà in
parallelo al decreto correttivo, da licenziare entro aprile
2017.
Anche se, sul fronte della Cabina di regia, va segnalato
qualche ritardo. Dopo la pubblicazione a fine agosto del
Dpcm che regola le sue modalità di composizione, il capo
dell’ufficio legislativo ha inviato ai molti soggetti
indicati dal decreto la richiesta di nominare il
rappresentante previsto dalla legge: nella Cabina, infatti,
siedono il ministero delle Infrastrutture, l’Economia, le
Politiche europee, l’Anac, Regioni e Province autonome,
l’Agenzia per l’Italia digitale, autonomie locali e Consip.
Qualcuno di questi, però, non ha ancora indicato il suo
rappresentante. L’impasse, comunque, dovrebbe essere
superata a breve
(articolo
Il Sole 24 Ore del 28.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento
edilizio allo start. Almeno un anno per adottarlo: Regioni e
Comuni possono integrarlo.
Urbanistica. Pronto per l’ok in conferenza unificata a
ottobre lo schema-tipo definito dalle Infrastrutture
In dirittura d'arrivo il regolamento
edilizio unico comunale, il principale strumento di
semplificazione promesso dal governo in materia edilizia.
Dopo le ultime limature al testo -con alcuni aspetti
sull’entrata in vigore ancora aperti- lo schema di
regolamento predisposto dalle Infrastrutture, sarà condiviso
in una riunione tecnica convocata per il 3 ottobre, per
essere poi calendarizzato, salvo improvvise resistenze dell’ultim’ora,
nella prima riunione utile della conferenza unificata.
Pur essendo possibili ancora modifiche, l’impianto e il
testo sono consolidati. Lo schema di accordo sul quale
Regioni e Comuni saranno chiamati a dare l’intesa prevede
180 giorni di tempo -a partire dalla sottoscrizione
dell’accordo in conferenza unificata- entro i quali le
Regioni dovranno recepire lo schema di regolamento. A loro
volta, ai Comuni vengono concessi altri 180 giorni per
adottare il nuovo regolamento edilizio. Il termine di 180
giorni per gli enti locali scatta tacitamente allo scoccare
del precedente termine fissato per le Regioni.
Dunque, ci vorrà un anno affinché il nuovo regolamento
“atterri” nelle municipalità modificando la vita di
cittadini, professionisti, tecnici della Pa, imprese e
investitori immobiliari. Ma si tratta di un termine minimo,
perché le Regioni, possono -entro i sei mesi a disposizione-
intervenire per introdurre norme su materie di loro
competenza (con impatto sull’attività edilizia comunale). E
in questa occasione possono concedere una ulteriore scadenza
agli enti locali per adeguare i loro regolamenti edilizi.
Per questa fase, l’attuale testo non indica scadenze,
pertanto -sull’effettiva adozione delle nuove norme- si fa
affidamento sulla responsabilità istituzionale delle
amministrazioni. A parte l’incognita dei tempi di
attuazione, anche il concetto di regolamento “unico” rischia
di restare un principio cui tendere, ma che molto
difficilmente sarà realizzato alla lettera. Non solo perché,
come si diceva, le Regioni potranno inserire prescrizioni
legate a norme specifiche; ma anche perché gli stessi enti
locali potranno aggiungere elementi tecnici, oltre quelli
indicati nello schema.
A parte queste incognite, lo schema che sarà presto
approvato, segnerà un passo avanti “epocale” verso
l'obiettivo della semplificazione. Il motivo è che saranno
“estromessi” dai regolamenti edilizi tutti i richiami a
norme statali (o a parte di esse) che gli enti locali hanno
col tempo recepito nei loro schemi. Il nuovo testo potrà
richiamare le norme sovraordinate solo attraverso un
allegato che le elenca (allegato “B”).
Il compromesso raggiunto tra potere del legislatore statale
e le autonomie territoriali e locali si sostanzia in un
documento composto di tre elementi: lo schema vero e
proprio; l’allegato “A”, con le 42 definizioni standard;
l’allegato “B”, con la lista delle 120 norme statali che
incidono sull’edilizia. Quest’ultimo elenco sarà certamente
integrato da ciascuna regione.
In base all'accordo, si fanno salve «le previsioni
dimensionali degli strumenti urbanistici vigenti, che
continuano ad essere regolate dal piano vigente ovvero dal
piano adottato alla data di sottoscrizione del presente
accordo». Dunque, nessun impatto sulle previsioni di piano
per Prg approvati o adottati
(articolo
Il Sole 24 Ore del 28.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Conteggio
calore, la chance del riparto semplificato. Per la delibera
in assemblea serve la relazione del tecnico.
Condominio. Gli ultimi passaggi in vista della scadenza del
31 dicembre prossimo.
Anche dopo l’integrazione
del Dlgs 102/2014 da parte del Dlgs 141/2016, resta
invariata la scadenza del prossimo 31 dicembre per dotare di
contabilizzatori del calore gli impianti di riscaldamento
centralizzati. Sono stati confermati la precedenza alla
contabilizzazione diretta rispetto a quella indiretta e
l’obbligo accessorio di termoregolazione in caso di
contabilizzazione indiretta.
È anche confermato che in caso di impossibilità tecnica o
non convenienza economica l’obbligo non sussiste ma, per
evitare la sanzione, queste condizioni devono essere
dimostrate da una relazione asseverata di un tecnico.
La prima indicazione operativa è che non cambia nulla di
sostanziale dal punto di vista dell’iter di installazione.
In effetti, non c’è mai stato alcun motivo ragionevole per
ritardare i lavori, e la data di scadenza è stata fissata
dalla Commissione Ue quattro anni fa. Chi ha sospeso i
lavori potrebbe trovarsi ora in serie difficoltà a
rispettare il termine del 31 dicembre prossimo ed esposto al
rischio concreto di sanzioni.
È sconsigliabile anche prendere con leggerezza la strada
della non convenienza economica. La norme tecnica En 15459,
fra l’altro, chiede di considerare il valore residuo degli
impianti alla fine del periodo di calcolo. Nel caso classico
di impianto a colonne montanti, se si esegue un calcolo su
dieci anni (vita dei ripartitori) si dovrà tener conto che
dopo quest’arco di tempo le valvole termostatiche hanno
ancora metà del valore nominale perché hanno durata di vita
di 20 anni.
Il riparto
Circa il criterio di riparto, viene confermato il
riferimento di base alla norma Uni 10200.
Il decreto 141/2016 ha aggiunto la facoltà (non l’obbligo)
da parte dell’assemblea di adottare un criterio semplificato
definito dalla legge, purché ricorrano determinate
condizioni che devono essere comprovate dalla relazione
asseverata di un tecnico abilitato.
Le possibili condizioni di accesso al “semplificato” sono
due:
- la prima possibilità è che non sia applicabile la norma
Uni 10200. Attualmente (con la norma Uni 10200:2013) ciò è
vero solo per la contabilizzazione indiretta nelle case poco
utilizzate (case vacanza e/o parzialmente occupate) in
quanto non è determinata la quota di consumo involontario;
ma la revisione della 10200 tratterà anche questo caso. A
conti fatti, è una condizione che non sarà mai verificata e,
tranne casi eccezionali, sarebbe legale ma irragionevole e
iniquo applicare una quota a consumo di almeno il 70% in una
casa poco abitata;
- la seconda possibilità è che ci siano «differenze di
almeno il 50% fra i fabbisogni delle unità immobiliari». A
prescindere dall’indeterminazione del criterio (a cosa si
riferisce la quota del 50%?) e dal servizio a cui si applica
(solo per riscaldamento o anche per acqua calda sanitaria?
Insieme o separatamente?), in pratica questa condizione è
quasi sempre verificata per il riscaldamento, tranne forse
quei pochi casi in cui il tetto e le altre strutture
orizzontali esposte siano state coibentate.
Se ricorre almeno una di queste due condizioni, si può
adottare il seguente criterio: almeno il 70% (cioè dal 70 al
100%) va ripartito in base agli effettivi consumi volontari,
cioè in proporzione alle letture degli apparecchi di
contabilizzazione (Ur, unità di ripartizione, o kwh) senza
alcuna correzione, neanche, per situazioni sfavorite; mentre
il restante (dal 30% fino allo 0) può essere ripartito come
desidera l’assemblea.
Operativamente, dopo aver installato la contabilizzazione,
l’assemblea deve anche adottare un nuovo criterio di riparto
conforme a legge e si trova a un bivio. Può utilizzare la
Uni 10200, e allora non cambia nulla rispetto al passato.
Altrimenti, deve chiedere a un tecnico abilitato
(presumibilmente il progettista della contabilizzazione) di
sottoscrivere la relazione asseverata –in cui dichiara che
sussistono le condizioni– e poi deliberare di adottare il
metodo semplificato, la quota da ripartire in base ai
consumi effettivi (dal 70 al 100%) e infine il criterio di
riparto del resto.
L’adozione del criterio di riparto semplificato può essere
sensata per i classici impianti di riscaldamento a colonne
montanti in edifici normalmente abitati, dove il 70% ha un
significato statistico valido. Ma porta a risultati iniqui e
in contrasto col principio dei consumi effettivi in tutti i
casi in cui la quota di consumo volontario scenda sotto il
70% (case poco occupate, acqua calda sanitaria, moltissime
reti a zone).
L’effetto è infatti quello di far pagare solo ad alcuni (in
base alle letture dei contatori) il consumo di tutti
(dispersioni) della rete. Le situazioni reali per cui si
finisce in tribunale sono proprio così: conti astronomici ai
pochi presenti nell’edificio, per eccesso di quota
volontaria. Finora questi ultimi potevano difendersi, ora
saranno salassati. Inoltre, nel caso della contabilizzazione
diretta, che senso ha imporre una quota fissa per legge o
delibera quando risulta dalle letture degli apparecchi?
Ad ogni modo, chi ha già installato i contatori e ripartito
i costi secondo quanto previsto dal Dlgs 102/14 e dalla Uni
10200 nella stagione 2015/2016 non deve rifare nulla.
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«Letture», nel cambio va sempre
garantita la continuità dei dati. La procedura. Dai quorum
al gestore.
In materia di
contabilizzazione e termoregolazione, il Dlgs 141/2016 ha
apportato sostanziali modifiche al criterio di riparto della
spesa del riscaldamento già disciplinata dal Dlgs 102/2014.
In primo luogo, è confermata l’applicazione della norma Uni
10200 (attualmente è in vigore la versione del 2015). Ma è
stato introdotto un diverso criterio per la ripartizione
della spesa, nel caso in cui nell’edificio vi siano
differenze di fabbisogno energetico tra unità immobiliari
del condomino superiori al 50 per cento. In questa
circostanza il legislatore ritiene infatti che non sia
obbligatorio il ricorso alla norma Uni 10200: non c’è però
un obbligo di non adozione, ma una facoltà, la cui scelta
spetta all’assemblea.
Le nuove disposizioni sono facoltative nei condomini o negli
edifici polifunzionali in cui alla data di entrata in vigore
delle modifiche (26.07.2016) si sia già provveduto
all’installazione dei dispositivi di contabilizzazione (e,
dove previsto, di termoregolazione) e alla relativa
suddivisione delle spese.
Tutto ciò al fine di non prevedere nuovi oneri per i
soggetti che hanno già provveduto in anticipo ad adeguarsi
alla normativa. Pertanto, se l’assemblea ha già approvato
gli interventi e modificato il criterio di ripartizione in
base alla precedente formulazione dell’articolo 9, comma 5,
lettera d), del Dlgs 102/2014, non viene imposto alcun
obbligo.
Non è necessaria una delibera ad hoc per decidere di non
modificare nulla. Sarà sufficiente continuare con le
modalità già adottate, sempre che queste fossero conformi
alla legge e quindi applicassero in toto la Uni 10200.
Diversamente, l’assemblea potrà valutare se non applicare la
norma tecnica. In tal caso, dovrà essere preventivamente
dato incarico a un tecnico abilitato affinché, effettuati i
calcoli ai sensi delle norme Uni Ts 11300, possa accertare
se vi siano le differenze di fabbisogno indicate dal
legislatore quale limite. Solo in caso positivo potrà essere
modificato il criterio di riparto.
Una volta effettuati i calcoli, occorre però un’ulteriore e
successiva delibera. In assenza di chiarimenti, si ritiene
che il quorum sia quello previsto dall’articolo 26, comma 5,
della legge 10/1991: la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell’edificio.
Qualche problema potrebbe però verificarsi prossimamente;
quando, cioè, l’Uni emetterà un’altra revisione della norma
10200 (il che potrebbe avvenire entro fine 2016 o nei primi
mesi del 2017).
L’assemblea potrà decidere anche di affidare a un diverso
soggetto il servizio di lettura dei consumi rilevati dai
contabilizzatori. Ma c’è bisogno innanzitutto di verificare
la durata del contratto e se sia previsto un termine per la
comunicazione della disdetta.
Al momento della sottoscrizione del contratto, ci si deve
accertare che resti ferma la necessità di garantire la
continuità nella misurazione del dato. Sarà anche opportuno
verificare –quando viene affidato l’appalto per l’acquisto
dei ripartitori– che non vi siano problemi nella gestione
del software proprio in caso di sostituzione della società
che effettua le letture
(articolo
Il Sole 24 Ore del 26.09.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: Platea
a tutto campo per gli incarichi di dirigente apicale.
Riforma Madia. I nuovi vertici.
Alle posizioni organizzative che
saranno assunte come dirigenti a tempo determinato con
l’articolo 110 del Tuel potranno essere assegnati incarichi
di dirigenti apicali? Che conseguenze determina l’inclusione
dei dirigenti apicali nella dotazione organica dei singoli
Comuni? Perché non viene precisato che a queste figure
spettano i compiti di assistenza agli organi di governo? Ci
sono margini perché per i dirigenti apicali siano previste
sezioni speciali nell’albo dei dirigenti? Come mai i
segretari di fascia C, che per diventare dirigenti dovranno
sostenere uno specifico percorso selettivo, possono essere
chiamati da subito come apicali anche nelle amministrazioni
di maggiore dimensione?
Sono queste le
principali domande che si pongono i segretari comunali e
provinciali sullo schema del decreto attuativo sulla riforma
della dirigenza pubblica. È evidente che dietro queste
preoccupazioni c’è il timore di un “salto nel buio” e
la delusione per l’effettivo esercizio della delega che
dispone l’abolizione della figura dei segretari comunali.
A queste preoccupazioni si aggiungono ragioni di ostilità
analoghe a quelle che una parte significativa dei dirigenti
pubblici nutre nei confronti della riforma. Questa
situazione, va detto, mette in ombra le scelte contenute
nello schema di decreto con cui sono riprese indicazioni
fornite dagli stessi segretari, quali la necessità che alla
figura unitaria di vertice burocratico dell’ente siano
assegnati compiti di amministrazione attiva, in particolare
nella forma del coordinamento, e di controllo interno.
L’Anci Lombardia chiede che i titolari di posizione
organizzativa nei piccoli Comuni possano essere nominati
dirigenti apicali attraverso il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato ex articolo 110. A questa
richiesta sono decisamente ostili i segretari comunali, che
vedono in tal modo messo in discussione il proprio ruolo in
queste realtà. Si tenga presente che tutto lascia credere
che il numero dei dirigenti che si candiderà a partecipare
alle selezioni per dirigenti apicali nei piccoli comuni sarà
ridotto, sia per le scomodità connesse al doversi recare
quotidianamente in realtà periferiche sia per i compiti
nuovi che queste figure saranno chiamati a svolgere.
Nel testo attuale la possibilità di affidare l’incarico ai
titolari di posizione organizzativa non è prevista, ma il
timore che su spinta degli amministratori ciò possa
realizzarsi è assai elevato.
Strettamente connessa è la preoccupazione prodotta dalla
previsione che i segretari comunali, al pari dei dirigenti,
siano assunti «dalle amministrazioni che conferiscono
loro incarichi dirigenziali nei limiti delle dotazioni
organiche». Si sottolinea che oggi molte amministrazioni
non hanno in dotazione organica il segretario e si teme che
ciò possa avere conseguenze negative sul conferimento ai
segretari degli incarichi di dirigenti apicali. Va aggiunto
poi che non c’è menzione, fra i compiti dei futuri dirigenti
apicali, dell’assistenza alle riunioni degli organi di
governo, che sono oggi un compito tipico dei segretari.
Il nuovo testo dell’articolo 13-bis del Dlgs 165/2001
prevede che con un regolamento possano essere istituite,
all’interno degli albi dei dirigenti, «sezioni speciali
per le categorie dirigenziali professionali e tecniche».
I segretari chiedono che ciò si realizzi per i dirigenti
apicali, mettendo in evidenza la peculiarità dei compiti di
coordinamento e di direzione.
Tra le prospettive temute c’è poi l’ipotesi che i segretari
di fascia C, che non sono inquadrati tra i dirigenti,
possano essere chiamati a svolgere i propri compiti anche
nei Comuni più grandi
(articolo
Il Sole 24 Ore del 26.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
p.a. si fa green. Fondi per l'efficienza energetica. Firmato
il decreto. Sul piatto 355 mln per il 2014-2020.
Gli edifici della pubblica amministrazione saranno più
efficienti dal punto di vista energetico.
Il via libera ai finanziamenti, che prevedono uno
stanziamento di 355 milioni di euro per il periodo
2014-2020, è arrivato con la firma da parte dei ministri
dello sviluppo economico Carlo Calenda, dell'ambiente Gian
Luca Galletti, delle infrastrutture, Graziano Delrio e
dell'economia Pier Carlo Padoan, del
decreto che definisce le modalità attuative del «Programma
di riqualificazione energetica della p.a. centrale»
finalizzato a efficientare almeno il 3% annuo della
superficie utile del patrimonio edilizio dello Stato, in
ottemperanza a quanto previsto dalla direttiva europea
2012/27.
A seguito dell'emanazione del provvedimento sarà possibile
avviare i progetti che sono stati presentati nel biennio
2014-2015 dalle pubbliche amministrazioni centrali per un
valore complessivo di 70 milioni di euro.
La lista di interventi ammessi al finanziamento è lunga: si
va dall'isolamento termico alla sostituzione di infissi,
dalla sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
alla riqualificazione degli impianti di illuminazione. Non
si tratta, tuttavia, di un elenco tassativo perché come
precisa la relazione di accompagnamento, è possibile
includere anche «interventi di efficienza energetica
diversi da quelli elencati purché gli stessi conseguano una
riduzione dei consumi di energia».
Saranno finanziabili le spese, comprensive di Iva,
strettamente connesse alla realizzazione degli interventi.
Le proposte di intervento, nelle forme previste dall'art. 5,
comma 3 del dlgs 102/2014, dovranno essere trasmesse,
esclusivamente in formato digitale, alla «Direzione
generale per il mercato elettrico, le rinnovabili e
l'efficienza» del ministero dello sviluppo economico,
oppure tramite Pec all'indirizzo dgmereen.div07@pec.mise.gov.it.
Le proposte dovranno essere trasmesse entro e non oltre il
30 giugno di ogni anno.
Gli interventi che riguardano contemporaneamente la
riqualificazione dell'involucro e degli impianti tecnici e
che garantiscono un risparmio energetico rispetto ai consumi
annuali precedenti pari ad almeno il 50% saranno qualificati
come «progetti esemplari» e potranno beneficiare di
una priorità di finanziamento nella graduatoria fino ad un
ammontare di spesa massimo del 20% delle risorse annualmente
disponibili.
Il coordinamento e monitoraggio dello stato di avanzamento
del programma sarà attribuito alla cabina di regia
Mise-ministero dell'ambiente per l'efficienza energetica (articolo
ItaliaOggi del 24.09.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Cassazione,
una circolare boccia le sentenze-fiume. Niente pronunce con
sfoggio di diritto Avanza la redazione su moduli standard.
Il vademecum. Dal presidente Canzio gli input su come
sfoltire le 107mila pendenze.
Un invito a smetterla con le
sentenze-fiume, ma soprattutto con quelle pronunce di ampio
e documentato sfoggio del diritto, ma di limitata efficacia
pratica. Aumenta lo stock dei processi giacenti. E la
Cassazione corre ai ripari dettando un vademecum per la
redazione delle sentenze.
Lo mette nero su
bianco il primo presidente Giovanni Canzio col
decreto 14.09.2016 n. 136 diffuso ai consiglieri.
Decreto che prende innanzitutto atto della crescita delle
pendenze che ormai sono a quota 107.000, frutto di una
durata media dei procedimenti del tutto irragionevole (3
anni e 5 mesi per le sezioni ordinarie; 5 anni e 5 mesi per
la sezione tributaria; 1 anno e 8 mesi per la Sesta sezione,
quella chiamata a “scremare” i giudizi”).
Allora, nell’assenza (almeno per ora) di misure più
incisive, attese invano nel recente decreto legge sul
pensionamento dei vertici della Cassazione stessa (si veda
l’intervento pubblicato sul Sole 24 Ore di ieri), a muoversi
è stato lo stesso Canzio nella convinzione «che le modalità
di redazione dei provvedimenti possono costituire uno degli
strumenti utili per consentire alla Corte di svolgere il
proprio ruolo, sia mediante la chiarezza argomentativa delle
decisioni, in primo luogo di quelle a valenza nomofilattica,
sia mediante la differenziazione delle tecniche
motivazionali».
Tanto più poi che questo tema ricorre da tempo in atti
normativi, la riforma del processo civile (legge n. 69 del
2009), in progetti del ministero della Giustizia che, anche
su questo punto, ha messo in campo un gruppo di lavoro, in
protocolli magistrati avvocati (intesa Cassazione-Cnf del
17.12.2015).
A rafforzare ancora l’opportunità di un intervento c’è poi
il fatto, sottolinea il decreto, che una parte maggioritaria
dei procedimenti non richiede un intervento nomofilattico
(ergo, per assicurare l’uniformità nell’applicazione del
diritto): quelli che richiedono una pronuncia sul vizio di
motivazione, quelli in cui la denuncia di vizi di
legittimità si risolve nella prospettazione di una diversa
valutazione del merito della controversia, quelli in cui la
soluzione comporta l’applicazione di principi consolidati.
E allora, raccomanda Canzio, il “peso” in termini di
esigenza di unità del diritto deve essere individuato e reso
evidente; per tutti gli altri provvedimenti, in numero
maggioritario appunto, vanno adottate tecniche più snelle di
scrittura delle motivazioni. Così, l’esposizione dei fatti
di causa può anche mancare del tutto, quando questi emergono
dalle ragioni della decisione e quella dei motivi di ricorso
omessa quando la censura risulta dallo stesso tenore della
risposta della Corte.
Più praticamente le istruzioni invitano i consiglieri delle
sezioni civili, analogamente a quanto sperimentato nel
settore penale, a utilizzare, con aiuto del Ced della Corte,
tecniche di redazione delle sentenze su moduli standard per
specifiche questioni, siano queste ultime di natura
processuale o sostanziale. Gli stessi moduli possono poi
essere utilizzati, come parte delle motivazioni, nella
redazione di sentenze più complesse.
Attenzione poi, ricorda la circolare, che la capacità di
sintesi del magistrato anche attraverso la motivazione
semplificata nella redazione dei provvedimenti giudiziari
rappresenta un indice di valutazione del magistrato
(articolo
Il Sole 24 Ore del 23.09.201). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Cassazione, sentenze snellite. Motivazione
semplificata e modelli-tipo di decisione. Decreto del primo
presidente della Corte Canzio per uscire dall'emergenza
ritardi.
Sentenze della Cassazione con motivazione semplificata,
conformi a modelli-tipo e anche componibili, con moduli
preconfezionati. E i giudici saranno valutati per la loro
capacità di scrivere sentenze snelle.
La Cassazione ha il fiato corto e, sommersa da cascate di
ricorsi, cerca di rimanere a galla cambiando il modo di
scrivere le sentenze.
Con 30 mila ricorsi nuovi ogni anno, la giustizia è in
cronico ritardo. Eppure bisogna fare in fretta, intervenendo
dove si può.
Quindi: selezione dei ricorsi, facendo emergere quelli in
cui la Corte è chiamata a esprimere un principio di diritto;
argomentazioni ridotte all'essenziale; alt a divagazioni e
concetti non direttamente collegati alla decisione; per i
ricorsi senza problemi di interpretazione della legge (ma
solo vizi di motivazione della pronunce di merito) la
sentenza deve essere ridotta all'osso, con minuscola o
nessuna esposizione dei fatti e dei motivi di ricorso
enunciati dalle parti.
Il protocollo sulla stesura sintetica delle motivazioni
arriva dal primo presidente della suprema corte, Giovanni
Canzio, che, con il
decreto 14.09.2016 n. 136, ha dettato alcune
disposizioni per garantire chiarezza delle sentenze e tempi
brevi di definizione dei processi al Palazzaccio.
Vediamo cosa cambia.
Primo punto: le sentenze devono essere chiare.
La Cassazione deve dire come si interpreta una norma e
questo al fine di garantire l'applicazione uniforme in tutta
Italia.
Questo significa che i singoli passaggi devono essere
collegati tra loro e con il dispositivo: non ci devono
essere motivazioni subordinate o formulazioni incidentali o
pezzi fuori tema su questioni diverse e i richiami di altre
sentenze devono essere precisi (da indicare gli estremi
delle sentenze citate).
Secondo punto: bisogna spingere sull'acceleratore (per una
sentenza di Cassazione si aspetta dai tre a cinque anni).
Le misure, a questo fine, sono diverse. Primo, distinguere i
casi in cui la Cassazione deve dire quale sia la giusta
interpretazione di una norma: questo aspetto deve risultare
dal testo della sentenza e nell'oggetto dell'intestazione e
la sentenza deve indicare il principio di diritto e spiegare
come ci si arriva.
Poi, per i casi in cui la Cassazione deve valutare la
logicità della motivazione della pronuncia di merito, si
deve tagliare l'esposizione dei fatti di causa (fino a
eliminarla se i fatti sono descritti in altra parte della
sentenza) e non si devono dedicare pagine apposta alla
elencazione dei motivi di ricorso.
Ci sono, ancora, provvedimenti particolarmente semplici e
per questi la Cassazione elaborerà moduli su questioni
specifiche sulla base di orientamenti consolidati: si tratta
di pacchetti preconfezionati da sistemare nelle sentenze.
Magari bastano a risolvere il caso e allora sarà sufficiente
un veloce «copia e incolla» da un data base
informatico. Oppure saranno un pezzo già pronto di una
motivazione più estesa. In ogni caso si potrò fare più in
fretta.
Peraltro ci vorrà sempre la sensibilità del magistrato per
scegliere la tecnica redazionale commisurata alla
complessità delle questioni.
Il presidente della Cassazione accompagna queste
disposizioni con l'invito ai presidenti delle singole
sezioni della Cassazione a predisporre provvedimenti tipo. I
magistrati dovranno, poi, seguire corsi di formazione per
apprendere tecniche di redazione semplificata. Infine i
presidenti di sezione devono tenere conto, in sede di
predisposizione del rapporto informativo relativo a ciascun
magistrato, della capacità di redigere sentenze in forma
sintetica, anche mediante motivazione semplificata. E il
numero delle sentenze redatte dai consiglieri della sezione
in forma semplificata deve essere contato ogni tre mesi e
comunicato al primo presidente.
Parte ora una fase sperimentale per la stesura dei moduli
giuridici per la composizione delle sentenze brevi. Peraltro
non è la prima volta che la Cassazione si occupa di come
devono scrivere i magistrati. Con la decisione n. 11508 del
03.06.2016, per esempio, la Suprema corte ha scritto il
vademecum per i giudici di merito: anche qui esposizione
succinta dei fatti di causa e niente ripetizioni (articolo
ItaliaOggi del 23.09.2016). |
ENTI LOCALI: Entra
in vigore oggi il T.u. sulle partecipate.
Entra in vigore oggi, 23 settembre, il
Testo unico in materia di partecipate (dlgs 175/2016). E
inizia a decorrere la tabella di marcia delle scadenze che
gli enti locali e le società dovranno rispettare per
adeguarsi al decreto.
Entro il 23.03.2017 (sei mesi dall'entrata in vigore) dovrà
essere approvata la delibera consiliare di revisione
straordinaria delle partecipazioni detenute dagli enti
locali. Adempimento, questo, obbligatorio anche in assenza
di partecipazioni.
A ricordarlo è l'Anci che proprio in vista dell'entrata in
vigore del T.u. ha predisposto un manuale operativo,
integralmente scaricabile sul sito internet www.anci.it, al
fine di offrire ai comuni un primo quadro di analisi e
orientamento.
Nel testo del manuale, oltre alle note di lettura delle
singole disposizioni del provvedimento, tutti i soggetti
interessati possono trovare un pratico scadenzario dei vari
adempimenti a carico dei comuni e degli amministratori delle
società partecipate nonché un fac-simile di deliberazione
del consiglio comunale per il piano di razionalizzazione
previsto dall'articolo 24 del dlgs.
L'alienazione delle partecipazioni non in regola con il T.u.
dovrà essere completata entro il 23.03.2018 (un anno
dall'approvazione della delibera di revisione
straordinaria), mentre a decorrere dal 2018 scatterà la
razionalizzazione periodica che gli enti dovranno compiere
con cadenza annuale.
Molti gli adempimenti anche a carico delle società. Entro il
23.03.2017 le società dovranno adeguarsi alle disposizioni
del Testo unico e in particolare a quelle concernenti: il
divieto dei dipendenti dell'ente controllante di essere
amministratori e la onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti delle società controllanti che siano anche
amministratori delle controllate.
Sempre entro il 23.03.2017 dovrà essere completata la
ricognizione del personale in servizio per individuare
eventuali eccedenze. L'elenco del personale in eccesso dovrà
essere trasmesso alle regioni a cui spetterà gestire le
procedure di mobilità (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016). |
ENTI LOCALI: Bressa:
in arrivo la legge su unioni e fusioni.
«Abbiamo pronta da un po' di mesi un'ipotesi di legge per
favorire le unioni e le fusioni dei comuni», nel contempo
bisogna mettere a regime il sistema economico delle vecchie
province, «lavorando su strumenti finanziari per garantire
servizi».
Lo ha sottolineato il sottosegretario agli affari regionali
e autonomie, Gianclaudio Bressa, in Commissione parlamentare
per l'attuazione del federalismo fiscale nel corso di
un'audizione sulla finanza delle province.
«È iniziato in questi giorni», ha spiegato Bressa, «il
confronto istituzionale con i comuni e le aree vaste, e il
dialogo continuerà anche nelle prossime settimane in vista
della legge di Stabilità, ma è del tutto evidente che dopo
le annate decisamente straordinarie del 2015 e del 2016, per
il 2017 sarà indispensabile mettere il sistema delle vecchie
province a regime, lavorando sugli strumenti finanziari
necessari per garantire i servizi a cui sono deputate».
In ogni caso Bressa ha sottolineato come per il 2016 la
situazione del comparto province sia «di sostanziale
equilibrio da un punto di vista delle entrate e delle uscite».
Tutto questo grazie al decreto legge enti locali (dl
113/2016) che ha consentito di sostenere il taglio di 900
mila euro previsto per l'anno in corso, grazie
all'erogazione di fondi aggiuntivi per la gestione dei 130
mila km di strade provinciali e degli oltre 5 mila istituti
superiori. Inoltre, per far fronte ai fabbisogni è stata
determinata una spesa «efficientata» di 2,4 miliardi
necessari per garantire l'adempimento delle funzioni
fondamentali.
«Ora però è necessario creare automatismi che
stabilizzino la vita di questi enti», ha auspicato il
sottosegretario, «soprattutto rispetto all'esito, che
auspico positivo, del referendum confermativo. In caso di
vittoria del sì infatti il tema delle attuali fonti di
finanziamento delle province (Rc auto, Ipt, Tefa) rimane un
problema aperto e da risolvere».
Bressa ha infine ammesso che la legge Delrio ha bisogno di
un intervento di manutenzione legislativa «da incentrare
soprattutto sulla governance delle province, sulla necessità
di depoliticizzare le elezioni degli organi di governo,
mettendo la governance nelle mani dei sindaci, e di
responsabilizzarli non solo rispetto alle materie gestite,
ma anche rispetto alla possibilità di variare le dimensioni
dell'area vasta».
«Per questo il criterio dell'unione di comuni, a cui si
lavora con una legge che sarà pronta dopo il referendum,
costituirà strumento di grande utilità nella futura
governance degli assetti territoriali», ha concluso il
sottosegretario (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016). |
TRIBUTI:
Non profit, l'esenzione parziale Imu non
costituisce un aiuto di stato. È il
principio affermato dal tribunale Ue nella decisione sul
recupero dell'Ici.
L'esenzione parziale Imu per gli enti non profit e il
pagamento proporzionale rapportato all'utilizzo
dell'immobile per le attività commerciali non costituiscono
aiuti di Stato. Inoltre, gli enti non traggono alcun
vantaggio per la loro attività commerciale rispetto alle
imprese commerciali per il fatto che fruiscono dell'esonero
parziale dal pagamento dell'imposta.
Così si è espresso il tribunale dell'Unione europea con le
due sentenze emanate il 15 settembre scorso, con le quali ha
respinto i ricorsi presentati contro la decisione della
Commissione Ue, escludendo il recupero dell'Ici per le rate
arretrate non pagate dagli enti ecclesiastici (si veda
ItaliaOggi del 16.09.2016)
In primo luogo, rilevano i giudici europei, la normativa Imu
«si applica solamente a enti che non possono essere
considerati imprese ai fini dell'applicazione del diritto
dell'Unione». Infatti, non fruiscono dei benefici
fiscali «le attività che, per loro natura, si pongono in
concorrenza con quelle di altri operatori del mercato che
perseguono uno scopo di lucro».
Del resto, per il tribunale dell'Unione, «la legislazione
italiana precisa che, in caso di utilizzazione promiscua di
un immobile, è necessario calcolare il rapporto
proporzionale dell'uso commerciale dell'immobile e applicare
l'Imu alle sole attività economiche». Il fatto, poi, che
un ente non commerciale abbia diritto all'esenzione parziale
per una frazione dell'immobile, perché svolge al contempo
attività economiche e non economiche, «non gli
attribuisce alcun vantaggio quando esso esercita un'attività
economica in quanto impresa».
Mentre per l'esenzione Ici l'immobile doveva avere una
destinazione esclusiva, la disciplina Imu, che si applica
anche alla Tasi, dà diritto all'esenzione anche qualora
l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista.
L'agevolazione si applica solo sulla parte nella quale si
svolge l'attività non commerciale, sempre che sia
identificabile. La parte dell'immobile dotata di autonomia
funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta in
catasto e la rendita produce effetti a partire dal
01.01.2013.
Nel caso in cui non sia possibile accatastarla
autonomamente, l'agevolazione spetta in proporzione
all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve
risultare da apposita dichiarazione. Anche se è oltremodo
difficoltoso individuare all'interno di uno stesso immobile,
con un'unica rendita, la parte destinata a attività
commerciali. Quindi nei casi in cui non possa essere
frazionato, perché non è possibile individuare una parte che
abbia autonomia funzionale e reddituale, è demandato al
contribuente il compito di fissarne le proporzioni e
certificare quale sia quella destinata a attività non
commerciali. Per l'esenzione parziale contano la superficie
e il numero dei soggetti che utilizzano le unità immobiliari
per attività miste, commerciali e non commerciali.
In particolare, è necessario fare riferimento allo spazio,
al numero dei soggetti nei confronti dei quali vengono
svolte le attività con modalità commerciali o non
commerciali e al tempo durante il quale l'immobile è
destinato a un determinato uso. Se viene svolta un'attività
diversa da quelle elencate dalla norma solo per un periodo
dell'anno, per calcolare il tributo occorre conteggiare i
giorni durante i quali l'immobile ha questa destinazione.
Va posto in rilevo, però, che le disposizioni sull'Imu non
sono applicabili anche all'Ici per l'esenzione degli
immobili posseduti dagli enti non commerciali. L'evoluzione
della norma che riconosce l'agevolazione per una parte
dell'immobile non può avere effetti retroattivi. Lo ha
stabilito la Corte di cassazione (sentenza 4342/2015), che
ha respinto al mittente l'istanza di esonero parziale per la
vecchia imposta comunale relativamente a un immobile
destinato a attività sanitaria.
Per i giudici di legittimità l'esenzione Ici era limitata
all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati totalmente
allo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma
in forma non commerciale. L'esenzione Imu e Tasi, invece,
spetta se sugli immobili vengono svolte attività didattiche,
ricreative, sportive, assistenziali, culturali e via dicendo
con modalità non commerciali, anche qualora l'unità
immobiliare abbia un'utilizzazione mista (articolo
ItaliaOggi del 23.09.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
firma elettronica «certifica» la forma scritta. Il nuovo
Cad. Nota del Consiglio nazionale del Notariato.
Numerose importanti novità di impatto civilistico,
specialmente in tema di documento informatico, forma scritta
e copie di atti, sono contenute nella legge di riforma del
Codice dell’amministrazione digitale (Cad) contenuta dal
decreto legislativo 26.08.2016, n. 179, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale del 13 settembre scorso.
Una prima lettura di questi aspetti è stata effettuata in
una
breve nota del Consiglio nazionale del Notariato
diffusa ieri.
Il documento informatico
Il decreto legislativo 179/2016 introduce anzitutto una
nuova nozione del concetto di «documento informatico»,
volta a salvaguardare la specificità del documento
giuridicamente rilevante rispetto alla documentazione
elettronica in generale.
Infatti, se qualsiasi contenuto (immagine, suono, testo,
video anche in forma multimediale) può essere oggetto di
rappresentazione digitale e, quindi, fruibile
informaticamente e trasmissibile in via telematica, non di
meno occorre distinguere tra oggetti che, per la loro forza
rappresentativa, possono essere annoverati tra le prove
documentali e quelli che invece rimangono in un ambito
giuridicamente irrilevante.
Inoltre, nell’ambito dei documenti informatici
giuridicamente rilevanti, è possibile ulteriormente
distinguere:
- i documenti informatici contenenti rappresentazioni e
riproduzioni che non si risolvono in un testo grafico;
- i documenti informatici contenenti un testo che sono
diversamente disciplinati a seconda che siano privi di
sottoscrizione o se siano sottoscritti con un qualche tipo
di firma elettronica.
Forma scritta e firma elettronica
La nuova normativa attribuisce il valore di forma scritta al
documento informatico sottoscritto con firma elettronica, a
differenza della vecchia formulazione (sicuramente più
equilibrata, secondo il Consiglio nazionale del Notariato),
che lasciava al giudice libera valutazione sull’idoneità del
documento sottoscritto con firma elettronica a integrare il
requisito della forma scritta.
Infatti, all’interno del perimetro della firma elettronica
rientrano varie fattispecie, molto diverse fra loro per
caratteristiche tecniche, a cui non può essere attribuita la
medesima valenza giuridica, per il solo fatto di non
rientrare nelle più specifiche categorie di firma avanzata,
digitale, qualificata.
Rimane, comunque, invariata, come nel testo previgente, la
necessità di utilizzare la firma qualificata o digitale per
i contratti per i quali la forma scritta è richiesta a pena
di nullità.
In definitiva, all’interno del perimetro della «forma
scritta», in cui ci si ritrova tutte le volte che sia
presente un qualunque tipo di sottoscrizione elettronica, è
in concreto il tipo di firma utilizzato che determina la
valenza giuridica del documento. Nel caso di utilizzo di
firma elettronica semplice si avrà, però, una sorta di forma
scritta “minore” e che non è sufficiente a concludere
contratti per cui essa sia richiesta a pena di nullità
(articolo
Il Sole 24 Ore del 22.09.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Atti pubblici informatici, niente firme
scannerizzate.
Per la firma grafometrica degli atti pubblici informatici
non va bene la scansione della sottoscrizione sul foglio di
carta.
Lo spiega il Consiglio nazionale del notariato,
in un documento diffuso ieri, che illustra le
modifiche al Codice dell'amministrazione digitale (dlgs
82/2005) apportate dal dlgs 179/2016.
Il correttivo ha creato problemi interpretativa. Come quello
dell'art. 21, c. 2-ter del Cad. La norma prevede che gli
atti pubblici redatti su documento informatico sono
sottoscritti dalle parti, in presenza del pubblico
ufficiale, oltre che con firma digitale o avanzata o
qualificata, anche con firma autografa acquisita
digitalmente e allegata agli atti.
La questione, interpretativa e pratica, concerne proprio la
firma autografa acquisita digitalmente. Nella circolare in
commento, innanzi tutto, si sottolinea l'ambiguità della
disposizione, per poi passare ad escludere tassativamente
che la firma autografa possa essere acquisita con uno
scanner. In effetti l'acquisizione della scansione della
firma apposta su carta non integra un'ipotesi di firma
elettronica.
Inoltre la scansione di per sé non garantisce un
collegamento del file con il documento cartaceo. Anzi la
scansione non è in grado di rilevare tutti i parametri della
sottoscrizione autografa (tratto o forma grafica, pressione,
velocità, direzione dei tratti).
La semplice scansione di un documento cartaceo acquisita
informaticamente costituisce, invece, copia per immagine su
supporto informatico di documento analogico. Lasciar passare
la tesi della sufficienza della scansione rischia, si legge
nella circolare di creare un mostro giuridico. Con la
perdita delle caratteristiche della firma autografa si
preclude definitivamente al firmatario l'esperimento della
querela di falso.
Inoltre si avranno documenti pubblici senza firme
autentiche: secondo i notai, una vera e propria assurdità.
Altro rilievo riguarda lo Spid, il sistema pubblico di
identità digitale: i notai precisano che la modalità «point
and click», per cui si presume che chi usa le
credenziali sia il vero interessato, sarà valida nei
rapporti tra cittadino e p.a., ma non nei rapporti tra
privati (articolo ItaliaOggi del 22.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Terremoti,
difendersi è possibile. Professionisti ad hoc per la messa
in sicurezza degli edifici. I giovani dottori commercialisti
sulle strategie da adottare per contrastare gli eventi
sismici.
Sei aprile 2009, 29.05.2012 e 24.08.2016. Tre date recenti,
di tre terremoti da non dimenticare, sulle quali ognuno
dovrebbe riflettere, dedicando un po' di tempo affinché
tragedie simili non si ripetano in un paese che si dice
evoluto e al passo con i tempi. Come ha ricordato nella sua
omelia il vescovo di Rieti, officiando i funerali delle
vittime di Amatrice, «i terremoti esistono da quando
esiste la Terra e l'uomo non era neppure un agglomerato di
cellule».
I paesaggi che vediamo e che ci stupiscono per la loro
bellezza sono dovuti alla sequenza di terremoti. Le montagne
si sono originate da questi eventi e racchiudono in loro
l'elemento essenziale per la vita dell'uomo: l'acqua dolce.
Senza terremoti non esisterebbero dunque le montagne e forse
neppure l'uomo e le altre forme di vita. Il terremoto non
uccide. Uccidono le opere dell'uomo». Sì, proprio le opere
dell'uomo che, nonostante le statistiche e la consapevolezza
di vivere in uno dei paesi a maggiore rischio sismico del
Mediterraneo (escluse Sardegna e Sud della Puglia), non
riesce a costruire case e edifici sicuri che possano
proteggere figli e famiglie dalla forza della natura. Quanto
sangue dovrà essere versato ancora e quante lacrime dovranno
scorrere, affinché si prenda atto di questo?
Si è parlato di «Casa Italia», un vasto programma di messa
in sicurezza del paese che non si limita alle mura
domestiche, ma va dalla messa in sicurezza delle abitazioni
private all'adeguamento di tutti gli edifici pubblici, senza
tralasciare le strutture ricettive, i beni archeologici e
culturali e gli immobili adibiti a luoghi di lavoro.
Il terremoto ha scosso nuovamente la coscienza politica,
come ogni tragedia sa fare, e se non altro ora i riflettori
sono accesi sulla prevenzione, appurato che gestire
l'emergenza post sisma e ripristinare l'agibilità sismica di
edifici danneggiati e/o distrutti a seguito di un terremoto
costa almeno 40 volte in più di una programmata messa in
sicurezza preventiva.
Ci sono gli incentivi fiscali per il miglioramento sismico,
è stato promesso di aumentarli, bene, anzi benissimo, ma in
questo momento storico le famiglie italiane hanno bisogno di
liquidità per rendere operativi gli interventi, e
soprattutto vogliono sapere a chi affidarsi per realizzarli.
Ma chi progetta, dirige e certifica i lavori? Solo
professionisti altamente specializzati e inseriti in un
apposito elenco, gestito da un soggetto pubblico, che
verifichi e monitori i corsi e le esperienze di ogni singolo
tecnico; quest'ultimo dovrà garantire la propria attività
con aggiornamenti professionali e polizze professionali
adeguate.
Questo al fine di evitare che un ingegnere chimico o
idraulico, magari in pensione, possa certificare progetti e
lavori di miglioramento sismico, non avendo la minima
preparazione. E qui ci addentriamo in uno dei problemi che
attanaglia le professioni italiane, la specializzazione.
E chi esegue i lavori? Solo imprese specializzate, seguendo
lo stesso criterio utilizzato per i professionisti. Non può
esistere un miglioramento sismico senza che sia stata
maturata esperienza sul campo, e questo lo può capire solo
chi un terremoto lo ha vissuto sulla propria pelle.
Come affrontare la mancanza di liquidità? Una proposta
semplice ma attuabile.
Il cittadino presenta un progetto, dà delle garanzie allo
stato che si fa garante nei confronti delle banche, che
potrebbero così erogare fondi, a tassi calmierati, dedicati
esclusivamente ai lavori di miglioramento sismico. Tutte le
spese per tali lavori dovrebbero essere detraibili.
Come sapere se un edificio è sicuro? Rendere definitivo il
testo di legge in corso di approvazione in parlamento sul
«Fascicolo del fabbricato», dove dovrebbero essere annotate
le informazioni relative all'edificio di tipo
identificativo, progettuale, strutturale, impiantistico,
ambientale, con l'obiettivo di pervenire a un idoneo quadro
conoscitivo a partire, ove possibile, dalle fasi di
costruzione dello stesso, e dove andrebbero registrate le
modifiche apportate rispetto alla configurazione originaria,
con particolare riferimento alle componenti statiche,
funzionali e impiantistiche. È necessario inoltre sapere a
quale data risale l'ultima certificazione sismica.
Con questo strumento chi acquista conoscerebbe vita, morte e
miracoli di ogni edificio, ed eviterebbe brutte sorprese.
Vivendo a L'Aquila, ne ho viste di tutti i colori, di buona
e di cattiva gestione dei fondi, di professionisti bravi e
di altri mediocri, di professionisti improvvisati dotati di
solo timbro professionale, e che mai avevano esercitato la
professione, di piccoli artigiani che fino al 2009
fatturavano poche decine di migliaia di euro e che in pochi
anni sono passati a fatturare diversi milioni di euro.
Oggi la politica deve avere il coraggio di rappresentare
l'intero paese e di essere un'unica squadra; non esiste un
modello «Friuli», né un modello «L'Aquila», né un modello
«Emilia», ogni terremoto purtroppo porta dietro di sé tante
storie diverse e tanti disagi diversi. Gemona non è
Amatrice, né L'Aquila, né i piccoli centri emiliani, ma oggi
la politica deve scavalcare l'ostacolo dell'appartenenza e
seguire solo lo spirito e i valori dello sport; essendo
aquilano scelgo come esempio quelli del rugby.
Come qualcuno ricorderà, dopo il terremoto del 1703, i
colori della città di L'Aquila, il bianco e il rosso,
diventarono il nero e il verde, per rappresentare
simbolicamente il nero del lutto e il verde della speranza.
Nel corso degli anni il nero e il verde sono diventati i
colori ufficiali della squadra di rugby della città, vero
simbolo dell'aquilanità e foriera di grandi campioni
internazionali.
La politica dovrebbe iniziare a seguire questo percorso di
valori: la disciplina, il rispetto, il sostegno, il
sacrificio e lo spirito di squadra, solo per il bene del
paese e magari indossare ideologicamente una maglietta
«nero-verde», lasciando nella propria cantina quella della
propria appartenenza politica.
L'Aquila, attualmente, è un laboratorio di nuove soluzioni
costruttive, di restauro conservativo di beni vincolati, di
cantieri innovativi come quello per la smart city, in teoria
dovrebbe rappresentare l'Italia che cambia, l'Italia coesa,
l'Italia che lavora, innova, che aggrega, che non polemizza,
ma anzi costruisce e raggiunge con determinazione la propria
meta: quella della ricostruzione; ma purtroppo non è così,
la politica ha lasciato gli ostacoli sulla pista e ogni
occasione è buona per polemizzare da un lato all'altro dello
schieramento politico.
Amatrice come L'Aquila ha subito uno di quei placcaggi
mozzafiato, che costringono ad abbandonare il campo, ma che
certamente non precludono la possibilità, e soprattutto la
voglia, di rimettersi le scarpette e giocare di nuovo,
cercando di dimostrare di essere veramente all'altezza della
competizione: determinazione ampiamente dimostrata dal loro
primo cittadino.
Nei momenti di difficoltà, i rugbisti fanno una cosa molto
semplice, si stringono in un cerchio, fanno il punto della
situazione e giocano la partita con un unico obiettivo, la
meta. Ad Amatrice, a L'Aquila e in tutti i territori colpiti
da un sisma, così come nell'intero paese, non si riesce
ancora a formare quella squadra coesa e unita che guarda con
ambizione a un unico e limpido obiettivo, mettendo da parte
le appartenenze politiche.
La ricostruzione di tutti i territori, nonché la volontà di
fare prevenzione e mettere in sicurezza il paese, è e dovrà
essere anche l'impegno di noi giovani per ricostruire delle
basi solide al modello Italia, che evidentemente non è
nemmeno più in grado di garantirci lavoro, futuro, stabilità
e un adeguato sistema previdenziale. L'obiettivo deve essere
quello di ricostruire un territorio, che tra mille
difficoltà cerca lentamente di trovare una nuova dimensione,
una nuova quotidianità, di fare prevenzione ove necessario,
così come la meta dei giovani deve essere quella di
ricostruire un paese logorato dal malaffare, piegato
dall'assenza di visione strategica.
Il cambiamento non può che passare dai giovani che hanno la
grinta e l'energia necessaria per imporre idee, competenze,
passione e la grande capacità di essere pronti al
cambiamento, e pertanto proporre un'economia della sicurezza
e cioè un grande progetto nazionale che abbia l'obiettivo di
assicurare un tetto sicuro a tutti generando una nuova e
forte economia (articolo
ItaliaOggi del 22.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Gare,
commissioni interne sottosoglia Ue. Appalti. Il Consiglio di
Stato boccia l’indicazione Anac sull’obbligo di nominare
sempre un presidente esterno all’amministrazione.
No all’obbligo di nominare un presidente esterno nelle
commissioni di gara per gli appalti sotto la soglia
comunitaria o di «minore complessità».
Anche se indirizzata
a garantire maggiore trasparenza nelle assegnazione degli
appalti, il Consiglio di Stato boccia l'indicazione Anac
secondo cui, anche negli appalti di lavori sotto i 5,2
milioni (209mila euro per i servizi) il presidente della
commissione aggiudicatrice deve essere sempre un esperto
indipendente dalla stazione appaltante.
Per Palazzo Spada questa indicazione «si pone in
contrasto» con il nuovo codice degli appalti che impone
commissioni esterne solo per gli appalti di rilevanza
comunitaria. Per questo, si legge nel comunicato che
accompagna il parere, «deve essere espunta dal testo».
Proprio perché riguarda un punto che ha sollevato molte
obiezioni tra le Pa, è questa l'indicazione più importante
del parere che una commissione speciale di Palazzo Spada ha
rilasciato sulle linee guida Anac relative alla nomina delle
commissioni giudicatrici.
Con il parere, il Consiglio di Stato boccia anche la scelta
Anac di ricomprendere anche la valutazione delle offerte
anomale tra i compiti della commissione e l’indicazione
secondo cui i commissari interni alla Pa possono essere
nominati soltanto se tra i dipendenti dell’amministrazione
esiste un numero di iscritti all’albo tale da escludere la
possibilità di individuarne in anticipo il nome.
D’altro canto Palazzo Spada riconosce alle linee guida sui
commissari lo status di indirizzi «vincolanti»,
approvando la scelta di rendere obbligatoria l’iscrizione
all'albo anche per i dipendenti della Pa candidati al ruolo
di commissari. Anzi qui l'indicazione è di separare l’albo
in una sezione dedicata ai membri interni alle
amministrazioni e in un’altra destinata agli esperti
esterni.
Il Consiglio di stato chiede poi all’Anac di precisare
meglio l’oggetto delle copertura assicurativa richiesta ai
commissari, ma boccia l’obiezione, sollevata da diverse
grandi amministrazioni, secondo cui la nomina di commissari
esterni finirebbe per «deresponzabilizzare le stazioni
appaltanti, incidendo sui tempi e sulla stessa efficienza
nella gestione delle procedure di gara». Per Palazzo
Spada il fatto che i commissari siano nominati da un albo
esterno non produce alcun effetto «sul sistema di attività e
responsabilità dei componenti della commissione
giudicatrice».
Tra i suggerimenti finali arriva poi quello di obbligare le
stazioni appaltanti a rendere pubblici i compensi dei
singoli commissari e il «costo complessivo» della
procedura di nomina
(articolo
Il Sole 24 Ore del 21.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori
paralizzati nei comuni. Opere di manutenzione frenate dal
nuovo codice appalti.
In audizione l'Anci chiede correttivi e
denuncia i ritardi nell'attuazione del dlgs 50.
Il nuovo codice appalti (dlgs 50/2016) sta paralizzando i
lavori di manutenzione nei comuni. L'obbligo di procedere,
prima della pubblicazione del bando, alla redazione del
progetto esecutivo, sta ingessando i municipi, soprattutto
quelli piccoli e medi che spesso sono privi di personale con
competenze adeguate.
La conseguenza è che anche la semplice manutenzione degli
edifici scolastici, o la copertura di una buca in strada, o
ancora la sostituzione di un vetro o di una grondaia,
sembrano essere diventate improvvisamente imprese titaniche
per gli enti che infatti chiedono correttivi nei decreti
attuativi del codice.
È quanto emerge dal documento consegnato dall'Anci in
audizione presso le commissioni riunite ambiente della
camera dei deputati e lavori pubblici del senato nell'ambito
dell'indagine conoscitiva sullo stato di attuazione del
codice. A rappresentare l'associazione guidata da Piero
Fassino, l'assessore ai lavori pubblici del comune di
Milano, Gabriele Rabaiotti, che ha puntato l'indice sui
ritardi nell'attuazione delle nuove norme.
Il codice prevede infatti una mole di decreti attuativi
(circa 65) che, come osservato anche dal Consiglio di stato,
rischia di vanificare «nella moltiplicazione degli atti
attuativi, l'obiettivo di una regolamentazione sintetica e
unitaria, chiaramente conoscibile».
«A cinque mesi dall'entrata in vigore del dlgs
(19.04.2016 ndr)», lamenta l'Anci, «registriamo un
ritardo nella definizione dell'impianto di regole e princìpi
sottesi alla riforma». A cominciare dal decreto sulle
stazioni appaltanti, «non ancora emanato e determinante
nelle scelte organizzative e gestionali dei comuni che
ambiscono a essere autonomi».
Entrando nel merito del codice, l'Anci si mostra
estremamente critica sulla scelta di abrogare l'art. 105 del
regolamento di attuazione del precedente codice (dpr
207/2010) che consentiva, per i lavori di manutenzione, di
prescindere dalla redazione del progetto esecutivo,
permettendo di bandire la gara per l'affidamento con il
livello di progettazione definitiva.
Questa scelta, secondo Rabaiotti, è stata deleteria perché,
considerando che la stragrande maggioranza degli appalti di
lavori banditi dalle stazioni appaltanti riguarda la
manutenzione del loro patrimonio, «ha praticamente
paralizzato la pubblicazione di appalti di lavori» in
quanto le stazioni appaltanti prima di procedere alla
pubblicazione del bando devono redigere il progetto
esecutivo che «necessita di tempi di redazione più lunghi
dei precedenti livelli».
E il problema è maggiormente avvertito nei comuni piccoli e
medi che si sono trovati in alcuni casi «nell'impossibilità
di progettare internamente per l'assenza di figure tecniche
con competenze adeguate». Ci sono casi in cui, prosegue
l'Anci, i lavori sono essenzialmente di manutenzione
ordinaria «a chiamata», ossia al verificarsi
dell'evento che causa l'obbligo di intervenire, ed è
impossibile immaginare per questo tipo di lavori un progetto
esecutivo.
«Si pensi alla manutenzione ordinaria degli edifici
scolastici dove il progettista non sarà mai in grado di
prevedere esattamente dove sarà necessario provvedere alla
sostituzione di un vetro o dove si intaseranno i pluviali o
dove ci sarà la perdita d'acqua e conseguentemente che tipo
di vetro dovrà essere cambiato o che tipo di intervento
dovrà essere realizzato per eliminare la perdita».
Come uscire dall'impasse? Una soluzione al problema, propone
l'Anci, potrebbe essere l'inserimento nel decreto attuativo
previsto dall'art. 23, comma 3, del codice di «un livello
di progettazione esecutiva semplificata per le manutenzioni
ordinarie del patrimonio dell'ente locale».
Anche sui collaudi emergono criticità perché, stante
l'assenza del decreto attuativo previsto dall'art. 102,
comma 8, del codice, non è possibile prevedere, per gli
appalti di minore importo, il Certificato di regolare
esecuzione.
La situazione appare invece meno critica per gli appalti di
forniture e servizi. La maggior parte delle stazioni
appaltanti, osserva l'Anci, sono infatti in grado, anche se
con qualche difficoltà, di redigere i capitolati di gara. «La
vera criticità per questi appalti», conclude l'Anci, «è
rappresentata dall'obbligatoria programmazione biennale
degli acquisti» (articolo
ItaliaOggi del 21.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: SIAE-Anci.
Feste in piazza semplificate.
Siae e Anci hanno sottoscritto un nuovo accordo, interamente
sostitutivo di quello del 2002, per regolamentare e
semplificare la disciplina delle utilizzazioni musicali
durante gli eventi, gratuiti e non, organizzati dai comuni.
Le principali novità riguardano l'estensione dell'accordo
06.09.2016 anche ad altri soggetti organizzatori,
purché partecipati dai Comuni o che organizzano eventi per
conto degli Enti Locali, la riduzione dal 50 al 35% della
quota di contributi da prendere a riferimento per la base di
calcolo, la possibilità per l'organizzatore di optare per un
sistema forfettario, attraverso il pagamento di un importo
aggiuntivo commisurato alla capienza del luogo in cui si
svolge l'evento, un aumento, dal 10 al 15%, della riduzione
concessa sui compensi fissi dovuti per le manifestazioni
gratuite.
I Comuni potranno ottemperare agli obblighi connessi al
diritto d'autore con una procedura semplificata e
completamente online.
Inoltre, rispetto al passato sono previste ulteriori
semplificazioni gestionali e dei significativi abbattimenti
di costi per gli spettacoli organizzati dai Comuni (articolo
ItaliaOggi del 20.09.2016).
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Accordo Anci/Siae - Le novità per le
manifestazioni di spettacolo organizzate dai Comuni.
È stato recentemente firmato dal presidente dell'Anci Piero
Fassino e da quello della Siae, Filippo Sugar, il nuovo
Accordo che disciplina le modalità di calcolo del diritto
d'autore spettante per l'utilizzo delle opere "musicali",
relativamente alle manifestazioni di spettacolo organizzate
dai Comuni.
Il nuovo testo, che aggiorna il vecchio Accordo, firmato nel
2002, contiene diverse importanti novità.
Le novità
In primo luogo, viene introdotta una notevole
semplificazione procedurale. Tutte le incombenze, dalla
richiesta del “Permesso Spettacoli e trattenimenti”
alla fornitura dei "programmi musicali", al pagamento
del dovuto, potranno essere risolte sul portale
www.siae.it (attraverso la
piattaforma mioBorderò, previa registrazione sulla
homepage).
Un'altra novità significativa riguarda l'estensione
dell'accordo anche a ulteriori soggetti, a cui i Comuni
affidano l'organizzazione degli eventi. Si può trattare di
enti "partecipati", oppure di altri soggetti esterni,
come società, cooperative e associazioni no profit.
In questo modo l'ambito di applicazione dell'Accordo si
estende alle modalità di organizzazione "in diretta",
che per varie ragioni sono utilizzate sempre più di
frequente.
Inoltre, rispetto al passato sono previsti degli
abbattimenti dei costi per gli spettacoli organizzati dai
Comuni. In particolare, il testo dell'Accordo contempla la
riduzione dal 50% al 35% della quota di contributi e
sovvenzioni ricevuti da soggetti terzi da prendere a
riferimento per la base di calcolo del diritto d'autore, la
possibilità per l'organizzatore di optare per un sistema
forfettario, attraverso il pagamento di un importo
aggiuntivo commisurato alla capienza del luogo in cui si
svolge l'evento, e l'ampliamento degli spettacoli "minori"
per cui si applicano le tariffe minime (che nel vecchio
Accordo erano quelli con 2.500 euro massimo di spesa
complessiva per l'evento, soglia che viene portata a 5.000
euro). Aumenta anche la riduzione concessa sui compensi
fissi dovuti per le manifestazioni gratuite (cioè senza il
pagamento di un biglietto), dal 10% al 15 per cento.
Infine, è ribadita l'esenzione dal pagamento per le opere di
«pubblico dominio», ovvero per le "musiche della
tradizione popolare" di autore anonimo, peraltro già
prevista dalle leggi in vigore. Nel caso di utilizzazione di
questi repertori, l'organizzatore deve presentare
preventivamente alla Siae apposita attestazione al riguardo.
Il nuovo Accordo contiene dunque una disciplina dei criteri
di calcolo del diritto d'autore più aggiornata, in un quadro
di semplificazione procedurale che sicuramente porterà un
notevole giovamento ai Comuni. Vengono recepite anche alcune
delle istanze emerse nei mesi scorsi dai soggetti operanti
nel settore, sintetizzate nel "Patto per la musica live",
firmato a Milano il 24.10.2015.
E proprio nel capoluogo lombardo, nel mese di novembre, è
previsto lo svolgimento di un seminario pubblico di
presentazione del nuovo Accordo ai Comuni e agli operatori
coinvolti (20.09.2016 - commento tratto da
www.anci.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nei
bilanci i costi di ripristino siti.
Decreto Minambiente sui soggetti all'Aia.
Nella redazione dei bilanci delle imprese (e non dei bilanci
delle amministrazioni pubbliche), entrano tra i costi anche
quelli connessi al ripristino dei siti industriali dismessi
soggetti ad Aia. Costi che solitamente non vengono
considerati nel bilancio aziendale. D'ora in avanti gli
imprenditori sono tenuti a prestare le dovute garanzie
finanziare quando le attività del sito industriale
ripristinato (a seguito di cessazione dell'attività) siano
suscettibili di determinare una contaminazione del suolo o
delle acque sotterranee.
È con il
decreto 26.06.2016 n. 14 (registrato alla Corte
dei conti il 26.05.206) che il ministero dell'ambiente in
attuazione all'articolo 29-sexies, comma 9-septies, del dlgs
03.04.2006 n. 152 stabilisce i criteri nel determinazione le
garanzie finanziarie da prestare per il ripristino dei siti
industriali precedentemente dismessi.
Le installazione per le quali non è necessario presentare la
relazione di riferimento non sono tenute a prestare le
garanzie finanziarie. Sono escluse dall'applicazione della
nuova normativa le installazioni che già prestano garanzie
finanziarie utilizzabili allo scopo del ripristino
ambientale (gestione di rifiuti o piani di bonifica in atto)
e quelle non suscettibili di determinare contaminazioni
significative (e per tale motivo già escluse dall'obbligo di
caratterizzare lo stato iniziale del sito).
L'ammontare della garanzia finanziaria prestata dagli
imprenditori industriali obbligati a redigere la relazione
di riferimento è determinato in ragione delle categorie di
attività condotte nell'installazione, dell'estensione del
sito, della pericolosità e della quantità delle sostanze
pericolose pertinenti, dal tipo di garanzia prestata nonché
dal periodo residuo di vita utile.
In ogni caso l'ammontare della garanzia finanziaria deve
consentire la valutazione nonché la progettazione del sito
da ripristinare. Le garanzie finanziare si intendono
accettate decorsi trenta giorni dalla data di effettiva
acquisizione, salvo diverse indicazioni da parte
dell'amministrazioni interessate (articolo
ItaliaOggi del 20.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Contributo di costruzione anche senza
«manufatto». Oneri dovuti quando l’edificio viene soltanto
trasformato.
Urbanistica. Modalità di versamento e riscossione indicate
dalla giurisprudenza.
Ogni intervento
che determina una trasformazione urbanistica ed edilizia è
soggetto al rilascio di un titolo abilitativo, che comporta
il pagamento di «un contributo commisurato all’incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione» (articolo 16 del Dpr 380/2001, salvo i casi di
riduzione o esonero ex articolo 17). Ma a specificare le
modalità con le quali il contributo deve essere versato (e
riscosso da parte del Comune) è intervenuta spesso –e ancora
di recente– la giurisprudenza.
I presupposti
La quota per oneri di urbanizzazione, che va versata al
rilascio del titolo ma può essere rateizzata, riguarda sia
le urbanizzazioni primarie (quali strade, reti energetiche,
aree per parcheggi o verde attrezzato), sia quelle
secondarie (come asili e scuole, centri sanitari, edifici
per il culto, eccetera) ed è stabilita in riferimento alla
cubatura realizzata, sia per le nuove costruzioni, che nei
casi di ristrutturazione e/o cambio di destinazione d’uso
che portano un aumento del carico urbanistico.
Come ha affermato il Consiglio di Stato (sentenza 260/2016),
questa quota è dovuta per il solo rilascio del titolo, e non
rileva se le opere di urbanizzazione sono già state
realizzate. Mentre la quota riferita al costo di
costruzione, anch’essa rateizzabile, è versata in corso
d’opera e non oltre 60 giorni dalla fine dei lavori.
Le differenze
Sempre il Consiglio di Stato (2915/2016) evidenzia la
differenza tra le due quote. La prima (oneri di
urbanizzazione) ha la funzione di compensare la collettività
per l’ulteriore carico urbanistico sulla zona causato dalla
nuova attività edificatoria. La seconda quota (costo di
costruzione) si configura quale compartecipazione comunale
all’incremento di valore della proprietà immobiliare del
costruttore.
I giudici sottolineano che il concetto di “incremento
valoriale” va inteso in modo dinamico e include anche le
opere non strettamente riconducibili alla costruzione di un
“manufatto edilizio”. Il contributo è quindi dovuto «in
presenza di una “trasformazione edilizia” che,
indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione»
(nel caso in esame: il modellamento di un terreno per
realizzare un campo da golf).
Secondo lo stesso Consiglio di Stato (1504/2015), inoltre,
il fatto che la determinazione e liquidazione del contributo
avvenga in occasione del rilascio del titolo edilizio
preclude al Comune la possibilità di rideterminarlo in epoca
successiva e richiedere conguagli, salvo che ciò non sia
stato espressamente previsto in una clausola, oppure che
l’interessato chieda –scaduto il primo– un nuovo titolo per
completare con cambio di destinazione d’uso le opere
assentite in origine.
I versamenti
I soggetti tenuti al pagamento del contributo sono
l’intestatario del titolo o colui al quale il titolo viene
volturato (e i relativi eredi), o chi esegue le opere di
trasformazione urbana.
Circa l’acquirente dell’immobile, invece, si registrano
alcuni divari interpretativi. Se una parte della
giurisprudenza (Tar Campania-Salerno, 2453/2015) ha infatti
escluso un’obbligazione in capo a chi compra il bene, un
altro orientamento (Tar Campania-Napoli, 2170/2014) afferma
al contrario che entrambi gli oneri costituiscono
obbligazioni reali e quindi circolano insieme al relativo
immobile, perché anche l’acquirente fruisce dei benefici
derivanti dal titolo edilizio. Ne consegue che «tutti coloro
che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono
solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli
oneri in questione» (Consiglio di Stato, 6333/2011).
Scadenze e prescrizioni
Secondo l’articolo 42 del Dpr 380/2001, il mancato o
ritardato pagamento dell’intero contributo o di una rata
comporta il suo progressivo aumento fino al 40%, quando il
ritardo supera i 240 giorni. Decorso questo termine, il
Comune può procedere alla riscossione coattiva del credito,
che comprenderà gli importi originariamente dovuti, le
relative maggiorazioni, le sanzioni fissate dalle Regioni.
La richiesta di pagamento (e a maggior ragione la
riscossione coattiva) può essere però avanzata dal Comune
solo se non è trascorso il termine di prescrizione ordinario
decennale, il quale –per pacifica giurisprudenza (da ultimo
Tar Calabria-Catanzaro, 1579/2016)– decorre normalmente dal
rilascio della concessione edilizia, tranne ipotesi
particolari.
Infatti, nel caso di domanda di condono riguardante un
immobile sottoposto a vincolo paesaggistico, il termine di
prescrizione del diritto di credito vantato dal Comune (per
oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione) inizia a
decorrere soltanto dopo il parere formale dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo. Solo dopo questo parere la
pratica edilizia può ritenersi definita sotto ogni profilo,
e solo da tale momento è compiutamente determinabile
l’entità dell’obbligazione che grava sul privato (Tar
Lombardia-Milano, 1887/2015).
Nell’ipotesi in cui venga annullato il provvedimento che ha
causato l’arresto dell’iter di rilascio del titolo, gli
oneri concessori vanno quantificati secondo il regime
vigente al momento della presentazione del ricorso e non in
quello dell’effettivo rilascio del permesso: questo perché
«il tempo necessario per pervenire ad una decisione nel
merito non può andare a detrimento di chi ha ragione» (Tar
Campania-Salerno, 2097/2012)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.09.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
la Pa digitale allineamenti progressivi. Cad. L’entrata in
vigore del decreto sospende l’obbligo di aggiornamento delle
regole tecniche.
Dal 14 settembre sono entrate in vigore le modifiche al
codice dell’Amministrazione digitale contenute nel decreto
legislativo 179/2016 attuativo della riforma Madia. Per
aggiornare e coordinare le regole tecniche già in vigore
relative, tra le altre cose, a sistemi di conservazione,
documenti informatici e pagamenti elettronici, l’articolo 61
del decreto 179 prevede l’adozione di un Dm del ministro per
la Semplificazione entro il 14.01.2017.
Le regole tecniche, tuttavia, per espressa previsione
normativa, restano comunque in vigore sino all’adozione del
regolamento ministeriale. È stata per questo prevista per le
Pa la sospensione dell’obbligo, decorrente dallo scorso 12
agosto, di adeguare i propri sistemi di gestione informatica
dei documenti alle regole del Dpcm 13.11.2014.
La sospensione introdotta dall’articolo 61 del decreto 179
vale quindi per tutte le amministrazioni che al 14.09.2016,
e cioè alla data di entrata in vigore delle modifiche al
Cad, non avevano ancora provveduto all’adeguamento. Resta
comunque salva la facoltà di adeguarsi a queste regole prima
dell’adozione del nuovo decreto ministeriale, così come
accaduto per l’agenzia delle Entrate con l’adeguamento
disposto con nota 129255 dell’08.08.2016.
Considerando comunque che le modifiche al Cad su tenuta e
formazione di documenti informatici sono marginali, è
assolutamente necessario e consigliato intraprendere quanto
prima la strada dell’adeguamento attuando le regole in
vigore così da limitare la portata degli interventi quando
sarà disponibile il nuovo decreto. Le regole del Dpcm
13.11.2014 individuano e disciplinano infatti le
caratteristiche e le procedure di formazione e chiusura del
documento informatico, compreso quello amministrativo, ai
fini del successivo trasferimento nel sistema di
conservazione elettronica ove richiesto dalla natura e dalla
tipologia dell’atto. Analoghe indicazioni riguardano le
regole per generare copie per immagine di un documento
analogico, per i documenti informatici e per le copie ed
estratti informatici di documenti informatici.
Quanto al contenuto del decreto, il documento è informatico
non solo se redatto e formato con idonei applicativi
software ma anche se risulta dall’acquisizione della copia
per immagine di un documento analogico o della copia
informatica di un documento analogico. La registrazione
informatica di transazioni o la presentazione telematica di
dati attraverso moduli e formulari, così come la generazione
o il raggruppamento di un insieme di dati provenienti da una
o più basi dati, costituiscono ulteriori modalità di
formazione del documento informatico. Analogamente il
documento è informatico se ricevuto per via telematica o su
supporto informatico. Il documento informatico va poi
memorizzato in un sistema di gestione informatica dei
documenti o di conservazione.
Una volta formato, il documento deve essere chiuso
attraverso l’utilizzo di processi o strumenti informatici
per renderlo immodificabile durante le fasi di tenuta,
accesso e conservazione. L’immodificabilità di un documento
informatico redatto digitalmente, e quindi la sua chiusura,
viene ottenuta con la sua sottoscrizione con firma digitale
o con firma elettronica qualificata da parte dell’autore,
l’apposizione di una validazione temporale, il trasferimento
a soggetti terzi con posta elettronica certificata con
ricevuta completa, la memorizzazione su sistemi di gestione
documentale con politiche di sicurezza o il versamento ad un
sistema di conservazione da parte del gestore.
Per il documento informatico ricevuto telematicamente o
risultante dall’acquisizione di un analogico, la chiusura
coincide invece con la memorizzazione, da parte del gestore,
nel sistema di gestione informatica dei documenti o nel
sistema di conservazione. Mentre per il documento che deriva
dalla registrazione di transazioni informatiche o
dall’acquisizione telematica di dati la chiusura si ha al
momento della registrazione dell’esito dell’operazione con
misure per la protezione dell’integrità delle basi dati e
per la produzione e conservazione dei log di sistema.
Alla chiusura del documento informatico deve essere
associato un riferimento temporale e i metadati minimi
generati durante la formazione quali l’identificativo
univoco e persistente, la data di chiusura, l’oggetto, il
soggetto che ha formato il documento, l’eventuale
destinatario e l’impronta del documento informatico
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.09.2016). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Contatori
e valvole, condomini a rischio ritardo e sanzioni.
Termoregolazione e contabilizzazione del
calore: obbligo di adeguarsi entro il 31/12.
Allarme rosso sulla contabilizzazione
del calore. Sembrano essere ancora troppi gli edifici
condominiali che non si sono messi in regola con gli
adempimenti in scadenza al 31 dicembre prossimo e le
sanzioni, non certo miti, scatteranno fin dal giorno
successivo.
La situazione è stata resa ancora più incerta dal ritardo
con cui il legislatore è intervenuto a chiarire alcuni
aspetti dubbi del dlgs n. 102/2014, con particolare
riferimento alle modalità di suddivisione delle spese
relative al consumo di calore e ai destinatari delle
eventuali sanzioni.
Il nuovo dlgs n. 141/2016 è infatti stato pubblicato in G.U.
solo lo scorso 25 luglio, entrando in vigore il giorno
successivo.
Occorre realisticamente rendersi conto che i tempi necessari
a mettere a norma l'impianto di riscaldamento centralizzato
non sono certo brevi e che difficilmente un condominio che a
oggi non abbia ancora fatto nulla in tal senso potrà
rispettare la scadenza di fine anno. Infatti tra la prima
assemblea condominiale chiamata a deliberare i necessari
interventi sulla base di specifici progetti e l'adeguamento
della centrale termica e il collaudo dell'impianto, per non
dire poi dell'individuazione dei criteri di riparto dei
consumi e degli eventuali interventi sulle singole unità
immobiliari, può passare anche più di un anno.
Senza contare che, per alcune operazioni tecniche, occorre
operare nel periodo compreso tra metà aprile e metà ottobre
(ovvero a impianto termico spento) e che, vista l'enorme
platea dei soggetti interessati, la rincorsa alla scadenza
comporterà probabilmente maggiori difficoltà nel reperimento
di tecnici disponibili e allungherà i tempi.
Termoregolazione e contabilizzazione del
calore. Si calcola
che nelle maggiori città italiane il 17% delle famiglie
risieda in edifici costruiti prima del 1950, mentre il 60%
di esse viva in immobili costruiti tra il 1950 e il 1989.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta quindi di
edifici che presentano un costo energetico eccessivo e per
molti versi ingiustificato. Di qui i numerosi interventi
normativi introdotti dal legislatore a partire dagli anni 90
e, da ultimo, imposti a livello comunitario. Un ruolo
importante gioca anche la legislazione regionale.
La normativa in questione prevede che in ogni condominio si
proceda a verificare se sussista o meno l'obbligo di
introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione
del calore dell'impianto centralizzato. Questi ultimi non
devono ritenersi necessari in senso assoluto, ma solo a
condizione che i relativi interventi siano tecnicamente
possibili e determinino un risparmio energetico per il
condominio. Eventuali casi di impossibilità tecnica o di
inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai
risparmi energetici potenziali devono però essere
individuati in un'apposita relazione tecnica redatta dal
progettista o da un tecnico abilitato.
Negli impianti costruiti fino al 1980, c.d. a distribuzione
verticale, le singole unità immobiliari si servono dei
montanti che raggiungono i locali di ogni piano
dell'edificio posti sulla stessa colonna. In questi casi,
come meglio evidenziato dal decreto correttivo, per la
misurazione individuale del calore si può fare ricorso alla
c.d. contabilizzazione indiretta, grazie all'installazione
dei ripartitori di calore e delle valvole termostatiche su
ogni singolo radiatore (sotto-contatori).
Dopo tale data, invece, le nuove tecniche costruttive hanno
portato alla realizzazione dei c.d. impianti termici ad
anello, nei quali è possibile intercettare la mandata e il
ritorno per ogni unità immobiliare, rendendo quindi
possibile la contabilizzazione diretta mediante
l'inserimento, al punto di consegna, di un contatore di
calore.
I soggetti interessati.
Come anticipato, gli adempimenti di cui sopra vanno
realizzati entro e non oltre il 31/12/2016. Si tratta,
tuttavia, di un vero e proprio lavoro di equipe, che vede la
necessaria collaborazione di più soggetti. Spetta in primo
luogo all'amministratore condominiale affrontare la
questione dell'adeguamento dell'impianto di riscaldamento
centralizzato. Occorre infatti rivolgersi a un tecnico
esperto del settore per verificare la tipologia di impianto
esistente e gli interventi necessari per mettersi a norma
(o, al contrario, per ottenere la dichiarazione scritta che
vale l'esenzione dagli obblighi).
Andrà quindi ragionevolmente informata l'assemblea, per
sensibilizzare ciascun condomino sul tema e ottenerne la
collaborazione, per approvare modalità e tempi
dell'intervento da svolgere, per individuare l'impresa
specializzata nella contabilizzazione del calore da
incaricare del lavori con accettazione del relativo
preventivo e autorizzazione alla stipula del contratto, per
stabilire i criteri di riparto dei consumi (si veda tabella)
sulla base delle letture annuali che verranno comunicate
all'amministratore dall' impresa.
Un altro soggetto che riveste un ruolo importante è poi il
manutentore della centrale termica, che dovrà apportare alla
stessa le necessarie e opportune modifiche per far sì che il
nuovo sistema di contabilizzazione funzioni correttamente
(lavaggio dell'impianto prima dell'installazione delle
valvole, sostituzione delle pompe, bilanciamento
dell'impianto ecc.). Fondamentale è poi la collaborazione
dei condomini che oltre a essere i destinatari e i fruitori
dell'intervento, sono anche i soggetti sui quali ricadono le
sanzioni previste dalla legge in caso di inadempimento.
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L'inerzia si paga fino a 2.500 euro.
Le conseguenze per gli inadempienti
scatteranno a partire dal 01.01.2017.
Sanzioni sotto i riflettori. Per i condomini e gli
amministratori che non abbiano ancora avviato o concluso
l'articolata procedura necessaria ad adempiere agli obblighi
sulla contabilizzazione del calore è consigliabile
cominciare a prendere dimestichezza con le multe che
verranno applicate a partire dall'01.01.2017 e che sono
state modificate lo scorso luglio dal dlgs n. 141/2016.
Cominciamo quindi a conoscere meglio cosa rischiano i
condomini inadempienti e come fare a difendersi dalle
ispezioni che scatteranno con il nuovo anno.
Le sanzioni.
Occorre distinguere tra sanzioni ai proprietari delle unità
immobiliari e sanzioni previste per il condominio (che,
comunque, ricadranno generalmente anch'esse sui singoli
condomini, anche se pro quota). Un'altra distinzione è
legata poi alla tipologia dell'impianto di riscaldamento.
Infatti, come visto in precedenza, vi sono gli impianti c.d.
a distribuzione verticale, realizzati fino al 1980, e quelli
c.d. ad anello, individuabili negli edifici più recenti.
Per i proprietari è quindi previsto che la mancata
installazione, entro il 31/12/2016, rispettivamente di un
sotto-contatore, per la contabilizzazione diretta, oppure di
ripartitori di calore e valvole termostatiche per la c.d.
contabilizzazione indiretta, possa comportare l'applicazione
di una sanzione amministrativa pecuniaria variabile da 500 a
2.500 euro per ciascuna unità immobiliare. Anche il
condominio alimentato da teleriscaldamento o da
teleraffrescamento o da sistemi comuni di riscaldamento o
raffreddamento, ma solo nel caso in cui non ripartisca le
spese in conformità a quanto previsto da ultimo dal dlgs n.
141/2016, è soggetto alla medesima sanzione.
Una prima via di uscita per non incorrere nelle predette
sanzioni è quella di ottenere da un tecnico abilitato una
dichiarazione scritta che certifichi l'impossibilità o la
non convenienza dell'intervento. Come si diceva in
precedenza, sarebbe infatti buona norma che l'amministratore
incaricasse per tempo un termotecnico per valutare se
l'intervento di messa a norma sia necessario e, in questo
caso, che tipo di operazioni porre in essere.
L'art. 16 del dlgs n. 102/2014, infatti, prevede
espressamente che i predetti adempimenti non si applichino
allorché risulti da una relazione tecnica di un progettista
o di un tecnico abilitato che l'installazione del contatore
individuale non è tecnicamente possibile o non è efficiente
in termini di costi o non è proporzionata rispetto ai
risparmi energetici potenziali oppure, nel caso di sistemi
di rilevazione da applicare sui singoli corpi radianti, che
l'intervento non è efficiente in termini di costi.
Per i condomini che a oggi non abbiano ancora avviato il
procedimento per la messa a norma degli impianti
quest'ultima potrebbe quindi essere una soluzione agevole e
rapida per sottrarsi alle sanzioni, beninteso a condizione
che ricorrano le condizioni previste dalla legge. Occorre in
ogni caso osservare come l'accertamento delle stesse sia
ampiamente rimesso alla discrezionalità del soggetto tecnico
interpellato.
Il procedimento sanzionatorio e i possibili sconti.
Competenti a vigilare sugli adempimenti di legge e, se del
caso, a irrogare le sanzioni sono le regioni (e le province
autonome di Trento e Bolzano), che potranno a loro volta
delegare tali incombenti ad altri enti. Occorre a questo
proposito evidenziare come le regioni gestiscano già le
ispezioni volte a verificare periodicamente la manutenzione
degli impianti termici degli edifici sulla base di quanto
previsto dal dpr n. 74/2013.
Queste ultime, anzi, dovrebbero avere a propria disposizione
un vero e proprio catasto informatico degli impianti termici
alimentato con i rapporti periodici compilati dai tecnici
manutentori e, quindi, non dovrebbero avere difficoltà a
individuare gli edifici dotati di impianti di riscaldamento
centralizzati. L'art. 16 del dlgs n. 102/2014 prevede
infatti che le regioni e i loro delegati chiamati a svolgere
gli accertamenti sulla tenuta a norma degli impianti termici
eseguano, in occasione dei relativi sopralluoghi, anche la
verifica del rispetto della normativa sulla
contabilizzazione del calore.
Poiché si tratta di sanzioni amministrative, al procedimento
di irrogazione si applicano le norme di cui alla legge n.
689/1981. La contestazione può essere immediata, a cura
dell'ispettore procedente, oppure può essere successivamente
notificata al trasgressore. Una volta accertata la
violazione, quest'ultimo viene diffidato a provvedere alla
regolarizzazione entro 45 giorni dalla contestazione
immediata o dalla successiva notifica dell'atto.
Si tratta di una disposizione finalizzata a fare in modo che
si colmi la lacuna riscontrata, anche perché il trasgressore
avrà validi motivi per ottemperare. Infatti, in quest'ultimo
caso, il medesimo potrà beneficiare del pagamento della
sanzione nella misura minima di 500 euro, da versarsi entro
30 giorni dalla contestazione. Detto pagamento estingue il
procedimento limitatamente alla violazione contestata e a
condizione che sia stato posto in essere l'intervento
dovuto.
Un'altra possibilità di ottenere una riduzione della
sanzione è poi ricavabile dall'art. 16 della citata legge n.
689/1981, a mente del quale è ammesso il pagamento di una
somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo
della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più
favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione
edittale, pari al doppio del relativo importo (quindi pari a
mille euro), oltre alle spese del procedimento, entro il
termine di 60 giorni dalla contestazione immediata o, se
questa non vi sia stata, dalla notificazione degli estremi
della violazione. In questo caso, a rigore, non è
indispensabile realizzare l'intervento dovuto ai fini della
decurtazione della sanzione.
Occorre infine tenere presente che la legge consente
espressamente al soggetto che abbia ricevuto la
contestazione di difendersi, anche mediante la produzione di
memorie scritte e perizie tecniche, entro un termine che non
potrà essere inferiore a 30 giorni, dinanzi al responsabile
del procedimento, il nominativo del quale dovrà essere
obbligatoriamente indicato nell'atto contenente la
contestazione dell'illecito
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Condomini e amministratore, definiti i
confini delle responsabilità.
Occorre
evidenziare come il testo originario dell'art. 16 del dlgs
n. 102/2014 prevedesse che la sanzione per la mancata
installazione di sistemi di rilevazione in corrispondenza a
ogni corpo radiante fosse a carico del condominio e dei
«clienti finali» e che, per come era scritta, si ritenesse
che per ogni violazione la stessa andasse comminata sia al
primo che ai secondi (quindi con una sostanziale doppia
imposizione ai singoli comproprietari). La norma in
questione, invero alquanto discutibile, è stata quindi
modificata nei termini anzidetti dal dlgs n. 141/2016.
In base alla precedente normativa era quindi ravvisabile una
responsabilità congiunta di condominio e condomini. Quanto
al primo, si sarebbe allora dovuto volta per volta
verificare se la mancata attivazione fosse imputabile
all'amministratore (che si fosse disinteressato
dell'adempimento di legge), all'assemblea (che non avesse
deliberato sulla questione) o ai singoli condomini (che non
avessero consentito l'accesso ai propri locali ai tecnici
incaricati).
Su quest'ultimo aspetto si evidenzia anche una recente
sentenza della Corte di appello di Trento (sentenza n. 134
del 10/05/2016), che ha confermato il diritto
dell'amministratore di ottenere un ordine giudiziale per
l'ingresso dei termotecnici nell'unità immobiliare del
condomino che si opponga all'installazione dei sistemi di
rilevazione sui termosifoni. In precedenza si era
pronunciato negli stessi termini il Tribunale di Pordenone
con un'ordinanza cautelare del 24/09/2015.
Con la nuova formulazione del predetto art. 16 è invece
soltanto il singolo condomino a essere direttamente
sanzionabile in caso di inadempimento (salva la diversa
responsabilità del condominio per non avere approvato i
criteri di riparto dei consumi). Quest'ultima appare una
scelta più ragionevole.
La responsabilità del condomino scatterà infatti sia nel
caso in cui questi non provveda a fare installare il
sotto-contatore o il dispositivo di rilevazione sui
termosifoni allorché l'amministratore e l'assemblea si siano
già attivati per tutti gli adempimenti precedenti (progetto
tecnico, interventi sull'impianto comune, incarico
dell'impresa specializzata nella contabilizzazione del
calore ecc.) sia nel caso in cui detti adempimenti
preliminari manchino del tutto o non siano stati realizzati
nel termine del 31/12/2016.
In quest'ultima ipotesi, però, fermo restando che la
sanzione sarà presumibilmente applicata a tutti i
comproprietari che si trovano nella medesima situazione,
questi ultimi potranno volta per volta rivalersi
sull'amministratore condominiale ove dimostrino che ci sia
stata una sua colpa esclusiva o concorrente nel mancato
intervento sull'impianto di riscaldamento nei termini di
legge (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Escavo
e dragaggio, nuovo iter. Caratterizzazione materiali prima
dell'autorizzazione. Dal 21 settembre in vigore le norme
sulle attività nei fondali e il riutilizzo dei materiali.
Operative dal 21.09.2016 le nuove regole per l'escavo di
fondali marini e il riutilizzo dei relativi materiali al
fine di interventi di miglioramento ambientale o ripristino
territoriale dei luoghi interessati.
Dalla citata data entrano infatti in vigore i due paralleli
regolamenti con cui il Minambiente detta, rispettivamente,
le norme generali per l'immersione in mare di materiali da
dragaggio e quelle speciali per poter effettuare analoghe
operazioni di escavo e riutilizzo nei siti di interesse
nazionale (c.d. «Sin»), ossia nelle aree ad inquinamento
critico soggette a bonifica.
Con l'efficacia dei due neo decreti ministeriali (entrambi
datati 15.07.2016, pubblicati sulla G.U. del 06/09/2016 e
rubricati come 193 e 192) si avvia a completamento la
riforma della disciplina sul riutilizzo dei materiali
escavati; disciplina che sarà infatti a regime con l'atteso
esordio sulla Gazzetta Ufficiale del dpr sulle terre e rocce
provenienti, invece, da scavi del suolo.
Immersione in mare di materiali da scavo: il contesto
normativo. Il nuovo dm 15.07.2016, n. 173 reca testualmente
«modalità e criteri tecnici per l'autorizzazione
all'immersione in mare dei materiali di escavo di fondali
marini» ed arriva in attuazione dell'articolo 109 del dlgs
152/2006 (c.d. Codice ambientale).
L'articolo in parola, collocato nella Parte del dlgs
152/2006 (la terza) dedicata alla tutela delle acque
dall'inquinamento, individua a monte tipologie di materiali
riutilizzabili in mare ed autorizzazioni necessarie,
lasciando però al dicastero dell'ambiente la definizione
delle modalità burocratiche e tecniche che devono informare
l'agire degli operatori.
Le nuove regole tecniche.
In ossequio al Codice ambientale, il dm 173/2016 detta così
in primo luogo una nuova ed uniforme procedura per ottenere
l'autorizzazione all'immersione in mare dei materiali
provenienti da escavo di fondali o terreni litoranei emersi.
E questo ridefinendo le regole tecniche che gli operatori
dovranno utilizzare nella delicata fase di caratterizzazione
e classificazione dei materiali prodromica alla
presentazione della domanda di autorizzazione.
Sempre con il nuovo dm 173/2016 arrivano criteri nazionali
unici per il riutilizzo dei materiali escavati nel
ripristino delle coste interessate da erosione (c.d.
ripascimento) o in ambienti delimitati (cd. conterminati,
come le lagune).
Nel nuovo dm trovano altresì collocazione regole omogenee
per la gestione dei materiali da dragaggio provenienti sia
da aree portuali e marino costiere non comprese nei citati
«Sin» che di quelle provenienti dai suddetti siti ma
destinati all'utilizzo esterno (laddove l'utilizzo interno è
invece disciplinato dal parallelo dm 172/2016).
Definito anche il passaggio dal vecchio al nuovo regime
tecnico, laddove si prevede che dal 21/09/2016 le nuove
norme ex dm 173/2016 sostituiranno le incompatibili e
analoghe regole dettate dal pregresso dm 24.01.1996
(adottato sotto la storica ed oramai archiviata legge
319/1976, c.d. «Merli», sulla tutela delle acque). E proprio
per supportare gli operatori alle prese con la nuova
disciplina, Ispra, Cnr ed Iss, con supporto di Conisma
(Consorzio Interuniversitario Scienze del Mare) e la
partecipazione di Regioni ed Arpa, hanno nei giorni scorsi
diramato una peculiare documentazione tecnica di supporto.
Reperibile sul sito internet dell'Ispra, la documentazione
in parola guida alla raccolta delle informazioni sull'area
interessata dalle operazioni e alla
caratterizzazione/classificazione dei materiali, così come
all'applicazione delle nuove modalità di escavo, trasporto e
immersione dei materiali, fino al monitoraggio ambientale.
Dragaggio nelle Sin, il quadro normativo.
Il citato e parallelo dm 15.07.2016, n. 172 reca invece «la
disciplina delle modalità e delle norme tecniche per le
operazioni di dragaggio nei siti di interesse nazionale, ad
oggi circa 40, individuate in base all'articolo 252 del dlgs
152/2006. Le regole ministeriali arrivano questa volta in
attuazione dell'articolo 5-bis, comma 6, della legge
84/1994.
Tale provvedimento, recante il «Riordino della legislazione
in materia portuale», lo ricordiamo ad onor di completezza,
sarà dal prossimo 15/9/2016 profondamente inciso, ad
eccezione però proprio della parte sul dragaggio,
dall'entrata in vigore delle modifiche in materia di
autorità portuali ad esso arrecate dal dlgs 169/2016.
L'articolo 5-bis in parola delinea a monte procedure
autorizzative e possibili destinazioni dei materiali dragati
in relazione al particolare stato dell'area interessata,
dettando le condizioni che legittimano il loro diretto
riutilizzo in sito.
Le nuove norme tecniche.
In attuazione della legge 84/1994 il dm 172/2016 detta le
regole da seguire per effettuare escavo, deposito,
trasporto, trattamento e riutilizzo del materiale in parola.
E questo disciplinando tutta la filiera delle operazioni, da
presentazione del necessario progetto di dragaggio e
conduzione degli escavi fino alla gestione dei materiali
rinvenuti.
Tutto ciò sancendo, in linea con il quadro normativo
sotteso, da un lato la riconduzione sotto il regime dei
rifiuti ex dlgs 152/2006 delle attività svolte
nell'inosservanza delle nuove regole e dall'altro mandando
gradualmente in soffitta le incompatibili norme tecniche
recate dal dm 07.11.2008.
Le altre novità sui materiali da scavo.
Come accennato, l'ulteriore attesa novità in materia,
sebbene con un campo di applicazione differente, è
rappresentata dal debuttante dpr che riformulerà la gestione
delle terre e rocce generate dallo scavo del suolo nel corso
di realizzazione di opere.
Il provvedimento, licenziato in via definitiva dal governo
il 14.07.2016 ed in attesa della pubblicazione sulla G.U.,
riscriverà le regole per gestire fuori dal regime dei
rifiuti i materiali in parola o per riutilizzarli in siti
oggetto di bonifica. E questo dettando semplificazioni
burocratiche in fase autorizzativa ma imponendo il rispetto
di precisi ed omogenei standard ambientali nello svolgimento
di tutte attività interessate (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati senza segreti nell'albo. Tra le info,
lingue conosciute, sito web, specializzazioni.
Lo prevede il decreto 178/2016. Indicazioni
approfondite anche per le società tra legali.
Nell'albo degli avvocati sarà pubblicato un vero e proprio
curriculum vitae del professionista. Le informazioni da
indicare, infatti, vanno dalle specializzazioni, alle lingue
straniere conosciute, al sito web riconducibile
all'avvocato, fino all'eventuale svolgimento di attività
quali quelle di mediatore, difensore d'ufficio,
cassazionista e così via.
Lo prevede, tra l'altro, il decreto 16/08/2016, n. 178,
pubblicato in G.U. 213/2016, in vigore il 27/09/2016 (si
veda ItaliaOggi del 13/09/2016).
Attualmente, le informazioni riportate su ciascun avvocato,
per esempio, nella banca dati del Consiglio nazionale
forense, sono: nome e cognome, luogo e data di nascita,
codice fiscale, domicilio professionale con indirizzo,
recapito telefonico e e-mail, data di prima iscrizione ed
eventuale svolgimento di attività di cassazionista.
A queste, dovranno essere aggiunte: l'eventuale società tra
avvocati di cui è socio, l'eventuale iscrizione all'elenco
nazionale degli avvocati disponibili ad assumere le difese
d'ufficio, l'eventuale svolgimento dell'attività di
mediatore presso un organismo di mediazione, l'eventuale
iscrizione in uno degli elenchi dei gestori della crisi
tenuto da un organismo di composizione della crisi da
sovrindebitamento, l'eventuale sospensione dall'esercizio
professionale, le eventuali lingue straniere conosciute,
l'eventuale indirizzo web dei siti riconducibili al
professionista, all'associazione o alla società alla quale
partecipi.
Inoltre, va inserita l'eventuale iscrizione all'elenco di
avvocati per il patrocinio a spese dello stato, specificando
il relativo settore e l'eventuale data di cancellazione.
Invece, per quanto riguarda gli avvocati stabiliti, il
decreto prevede che vengano indicati anche il titolo
professionale di origine, nonché gli organi giurisdizionali
dinanzi ai quali è abilitato a patrocinare nel paese di
origine. È inserito poi il dato relativo all'avvenuta
integrazione nella professione di avvocato.
Con decreto dirigenziale può essere poi previsto che albi,
registri ed elenchi contengano informazioni accessorie. Il
sistema informatico centrale, inoltre, alimenta gli elenchi
utilizzando i dati contenuti nell'albo, oltre ai quali sono
indicati, a seconda della tipologia di elenco: la
denominazione dell'ente del quale l'avvocato è dipendente,
l'area di specializzazione in cui è stato conseguito il
titolo, qualifica e denominazione università o istituzione
presso cui l'avvocato svolge la propria ricerca, data e
causa di sospensione o radiazione, consiglio dell'ordine di
iscrizione degli avvocati domiciliati nel circondario.
Per le società tra avvocati, invece, sono indicati: partita
Iva, sede, elenco dei soci, nonché, per ciascun avvocato, il
codice fiscale. Per le associazioni tra avvocati, infine,
vanno indicati: l'eventuale partita Iva o codice fiscale,
denominazione, sede, elenco degli associati con nome,
cognome, luogo e data di nascita e codice fiscale di ciascun
associato (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Controlli
a distanza, limiti del Garante. Senza accordo sindacale
illegittimo il monitoraggio di mail e accessi al web dei
dipendenti.
Lavoro. L’Authority: violati statuto dei lavoratori e regole
sulla privacy, irrilevante che il software sia installato
per la sicurezza informatica.
Anche in tempi di
Jobs act, il controllo a distanza dei lavoratori deve tener
conto di una serie di vincoli. E questo nonostante la
recente riforma del lavoro sia intervenuta pure
sull’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (la legge
300/1970), allargando le maglie dell’utilizzo di strumenti
che si prestano anche a un monitoraggio dell’attività dei
dipendenti. Mettendo, però, al contempo una serie di
paletti, come la necessità di installare quegli apparecchi
solo dietro un accordo sindacale o su autorizzazione della
direzione territoriale del lavoro (si veda anche la scheda a
fianco).
Ed è proprio facendo leva sul nuovo articolo 4 dello Statuto
dei lavoratori che il Garante della privacy (provvedimento
13.07.2016 n. 303
-
Trattamento di dati personali dei dipendenti mediante posta
elettronica e altri strumenti di lavoro) ha bloccato
l’iniziativa dell’università «Gabriele D’Annunzio» di Chieti
e Pescara, che aveva messo in piedi un monitoraggio diffuso
dell’attività dei propri dipendenti –docenti e personale
tecnico– su internet.
Sono stati i dipendenti dell’ateneo a chiamare in causa il
Garante, lamentando una doppia violazione: quella dello
Statuto dei lavoratori e quella della regole sulla privacy.
L’università ha eccepito, nel corso dell’istruttoria, che
l’attività di controllo delle comunicazioni elettroniche
avveniva in modo episodico ed era mirata a rilevare software
pirata o eventuali violazioni del diritto d’autore e che non
riguardava le informazioni personali dei dipendenti.
Le risultanze dell’indagine del Garante hanno, invece,
portato a ben diversi risultati. Si è, infatti, appurato che
l’ateneo –attraverso il personale incaricato e gli
amministratori di sistema– effettuava un trattamento dei
dati personali di numerosi utenti della rete dell’università
(non solo professori e personale amministrativo, ma anche
studenti, dottorandi, specializzandi, assegnisti di ricerca,
professori a contratto e visiting professor) e che i
dati relativi al traffico internet –contenenti, tra l’altro,
gli accessi alla rete e l’utilizzo della posta elettronica–
venivano conservati per cinque anni.
Tale controllo era effettuato attraverso software che –ha
sottolineato il Garante– non possono essere considerati
«strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la
prestazione lavorativa». Si trattava, infatti, di software
utili per accrescere la sicurezza dell’azienda, ma non
necessari al dipendente per svolgere il lavoro. Come tali,
al di fuori del contesto delineato dal nuovo articolo 4
dello Statuto.
Per di più, si trattava di apparati tecnologici che
operavano con modalità non percepibili dagli utenti, i quali
non avevano, tra l’altro, ricevuto un’idonea informativa sul
modo in cui l’ateneo utilizzava i loro dati personali. Per
tutto questo l’iniziativa dell’università è stata ritenuta
illecita e il Garante ha imposto di conservare i dati
personali “registrati” per consentire la loro eventuale
acquisizione da parte della magistratura
(articolo
Il Sole 24 Ore del 16.09.2016). |
APPALTI: Servizi
non sostituibili, in gara. Stazioni appaltanti obbligate a
consultare il mercato. Divieto di
affidamento a trattativa privata nelle linee guida Anac
all'esame del parlamento.
Vietato affidare a trattativa privata un appalto per
forniture e servizi infungibili (non sostituibili) perché di
proprietà di un solo operatore economico; necessario sondare
sempre il mercato e dare conto nella motivazione dell'esito
dell'indagine di mercato.
Sono questi alcuni dei contenuti delle linee guida approvate
dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e trasmesse
alle commissioni parlamentari per il parere (ancorché non
prescritto).
Le linee guida dell'Autorità nascono dall'esigenza di tenere
sotto controllo una tipologia di affidamenti connotati
dall'esistenza di privative, dall'infungibilità dei prodotti
o servizi da acquistare, dai costi eccessivi che potrebbero
derivare dal cambio di fornitore.
Tutte situazioni che si verificano soprattutto nel settore
sanitario, in quello delle acquisizioni di servizi e
forniture informatiche, di servizi di manutenzione e nel
campo degli acquisti di materiali di consumo per determinate
forniture-macchinari; una parte di quel mercato (procedure
negoziate senza bando di gara) che vale, dice la stessa Anac,
15 miliardi di euro (nel 2014), e che riguarda soprattutto
le forniture.
Lo schema della determinazione, da adottare ai sensi
dell'articolo 213, comma 2, del decreto 50/2016, riguarda
quindi procedure che hanno ad oggetto beni o servizi
infungibili perché, a causa di ragioni di tipo tecnico o di
privativa industriale, non esistono possibili sostituti
degli stessi, oppure a causa di decisioni passate da parte
del contraente che lo vincolano nei comportamenti futuri o,
infine, a seguito di decisioni strategiche da parte
dell'operatore economico.
Premesso che l'applicazione delle procedure negoziate senza
bando di gara costituisce una deroga alle procedure di
affidamento enunciate nel Codice ed è consentita soltanto in
caso di infungibilità del bene, l'Autorità ha chiarito che
da un punto di vista giuridico ed economico, i concetti di
infungibilità ed esclusività non sono sinonimi.
L'esclusiva attiene all'esistenza di privative industriali,
mentre un bene o servizio è infungibile se è l'unico che può
garantire il soddisfacimento di un certo bisogno.
L'infungibilità può essere dovuta all'esistenza di privative
industriali ovvero essere la conseguenza di scelte razionali
del cliente o dei comportamenti del fornitore; l'effetto
finale è comunque un restringimento della concorrenza, con
condizioni di acquisto meno favorevoli per l'utente.
L'Anac ha chiarito che non esiste una soluzione unica per
prevenire e superare fenomeni di infungibilità, ma è
necessario procedere caso per caso al fine di trovare
soluzioni in grado di favorire la trasparenza, la non
discriminazione e l'effettiva concorrenza nel mercato.
Una volta individuata la fattispecie, la linea guida
affronta il tema dell'affidamento e invita le stazioni
appaltanti a procedere ad un'attenta programmazione e
progettazione dei propri fabbisogni così da prevenire le
conseguenze negative derivanti da acquisti effettuati per
beni o servizi ritenuti infungibili ma che poi non lo sono.
Necessarie, poi, le consultazioni preliminari di mercato che
devono essere svolte in ossequio ai principi di trasparenza
e massima partecipazione, al fine di non falsare la
concorrenza e i cui risultati devono essere riportati nella
determina a contrarre. Per quel che riguarda il rischio di
rimanere legati ad un unico fornitore (c.s. lock-in)
l'Anac suggerisce alle stazioni appaltanti di prevedere che
un singolo affidamento possa essere assegnato a due o più
fornitori (multi-sourcing); oppure di agire sulle
specifiche tecniche, mediante gare su standard e non su
sistemi prioritari (articolo
ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Versare
alla p.a. sarà semplice. Grazie al sistema di pagamenti
elettronici PagoPa. È una delle
novità del nuovo Codice dell'amministrazione digitale varato
dal governo.
Nel processo avviato da tempo per una riforma «in digitale»
della pubblica amministrazione è stato aggiunto, di recente,
un nuovo tassello: il 10.08.2016 il consiglio dei ministri
ha approvato in esame definitivo il decreto legislativo che
definisce le norme di attuazione per le modifiche al Codice
dell'amministrazione digitale.
Si tratta dell'ok definitivo al nuovo Cad che porterà, per
usare l'espressione adottata nel comunicato ufficiale del
cdm, un «cambiamento strutturale» del rapporto tra
cittadini e pubblica amministrazione.
Per poter interagire con la p.a. ogni cittadino sarà dotato
di due strumenti digitali che lo identificheranno in modo
univoco: una identità digitale (Spid), che tramite accesso
protetto lo farà accedere ai servizi erogati in rete dalle
p.a., e un domicilio digitale, vale a dire un indirizzo
on-line dove poter essere raggiunto, quando necessario,
dalle p.a.
Le strade del cittadino e quella della p.a. hanno smesso di
essere due parallele destinate a non incontrarsi e sempre
nuovi strumenti vengono realizzati per gestire i flussi di
informazioni tra i due attori co-protagonisti di questa
storia.
Un altro esempio in questa direzione è il Sistema per i
pagamenti elettronici verso le pubbliche amministrazioni, il
cosiddetto PagoP.a., che tutti gli enti pubblici dovranno
attivare entro la fine del 2016. L'adesione formale da parte
delle p.a. alla nuova piattaforma dei pagamenti è già
avvenuta, o per lo meno sarebbe dovuta avvenire, entro il
31.12.2015 in modo da avere a disposizione un anno di tempo,
fino a dicembre 2016 appunto, per rendere operativi i primi
servizi di pagamento gestiti tramite il PagoP.a.
Si tratta di un progetto ambizioso e impegnativo, per
attuare il quale l'Agenzia per l'Italia digitale (Agid) ha
realizzato una specifica infrastruttura tecnologica
pubblica, il Nodo dei pagamenti-Spc, che sarà la strada
attraverso la quale transiteranno i flussi dei pagamenti
elettronici inviati dai cittadini alle p.a. e presi in
carico dai gestori accreditati dei servizi di pagamento,
principalmente banche e istituti di credito.
Due sono le tipologie di incassi gestibili tramite PagoPa.
Sono possibili sia i pagamenti spontanei, per i quali il
cittadino si attiva in modo autonomo effettuando un
versamento a favore di una Pubblica amministrazione (ad
esempio, per pagare il trasporto scolastico, una multa o un
contributo di costruzione) sia i pagamenti su avviso inviato
dall'ente (Tari/Tares, acquedotto ecc.).
Le imprese e i cittadini utilizzatori della piattaforma
PagoPa potranno avvalersi di vari canali di pagamento: il
pagamento sarà effettuato principalmente tramite il sito web
della p.a. o attraverso le strutture messe a disposizione
dalle banche accreditate nel nodo PagoPa (Sportelli fisici,
Atm).
Per i cittadini il metodo di pagamento tramite PagoPa darà
garanzia sulla correttezza degli importi da pagare e la
sicurezza di una ricevuta immediata della transazione
effettuata; inoltre resta a discrezione dell'utente la
scelta del prestatore del servizio di pagamento (la banca)
da utilizzare così come dello strumento di pagamento da
adottare. Anche per la p.a. il sistema PagoPa si traduce in
una serie di vantaggi, basti pensare alla velocizzazione
nella riscossione degli incassi con gli esiti in tempo reale
o alle riconciliazioni che vengono effettuate in modo
automatico.
Per non rendere troppo onerosa l'attivazione dei servizi di
incasso, le singole p.a. saranno libere di scegliere quali
pagamenti far transitare tramite il sistema PagoPa in base
agli specifici obiettivi che si daranno e alla risorse
disponibili per l'attuazione del progetto.
A questo proposito l'ente può affidarsi a società
specializzate per essere supportato nell'adesione al sistema
PagoPa e nell'attivazione dei servizi di incasso, comprese
le incombenze tecnico-funzionali. Inoltre, in un periodo di
ridotta disponibilità economica, gli enti possono
minimizzare i costi di avviamento e impostazione del sistema
di pagamento, integrando nei propri siti soluzioni già
sviluppate.
Alcune società infatti offrono gratuitamente le componenti
tecnologiche per la connessione all'infrastruttura del Nodo
dei pagamenti e l'attivazione dei servizi di incasso. I
costi, in questo caso, sono legati ad una percentuale delle
transazioni reali che avvengono nel Nodo. Si tratta quindi
di un notevole vantaggio per l'ente che può usufruire di una
soluzione PagoPa a costi minimi, liberandosi da ogni onere
di impianto o investimento strutturale (articolo
ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Nuovo
regolamento di contabilità.
Obbligatorio aggiornare le disposizioni alla
riforma.
La radicalità delle modifiche apportate al sistema contabile
e la dinamica di attuazione graduale hanno tenuto impegnati
le ragionerie in molte attività: studiare le disposizioni;
farle conoscere a colleghi e amministratori; adeguare gli
strumenti. La verifica delle disposizioni regolamentari
spesso è stata trascurata. Il rischio è di continuare ad
ignorare la necessità di adeguamento, per poi ricorrere a
qualche prodotto editoriale, traslato tout court nell'ente.
Aggiornare il regolamento alla nuova disciplina è un
obbligo. Farlo perché ne scaturiscano utilità procedurali è
un'opportunità. Scrivere disposizioni che modellano flussi
gestionali e garantiscono legittimità all'azione è attività
complessa di cui nutrire rispetto, da svolgere contemperando
finalità e conseguenze operative. Si assiste spesso
all'approvazione di regolamenti le cui disposizioni sono poi
disapplicate.
Sono occasioni perse per ottimizzare l'organizzazione. Ma
recano anche rischi rispetto alle responsabilità esercitate
dalla struttura. In procedimenti per danno erariale, i
comportamenti tenuti da chi rappresenta l'ente ed esercita
scelte discrezionali, sono valutati alla luce di norme
regolamentari, quando l'ordinamento a queste fa rinvio. Se i
regolamenti non vengono aggiornati, presto non vengono
citati nei provvedimenti e anziché rappresentare una
garanzia della legittimità, nascondono insidie, espongono a
responsabilità.
Vi sono poi ulteriori innovazioni nell'ordinamento
contabile, di cui vanno vagliati gli impatti su procedure e
organizzazione: la riforma dei controlli del dl n. 174/2012,
la legge n. 243/2012, sul pareggio di bilancio. Quella del
regolamento è la sede per sussumerle in un testo a valenza
interna, funzionale a coordinare gli adempimenti e
migliorare il modello organizzativo.
Nella stesura vi sono due cardini fondamentali: il valore
che le disposizioni rivestono nella gerarchia delle fonti,
evitando ridondanza, o contrasto, rispetto a fonti di rango
superiore; la praticabilità operativa delle procedure che ne
discendono, evitando l'ulteriore rischio che il corpo di
norme risulti inadeguato, inapplicabile, lettera morta
estranea ai processi di esercizio delle competenze
istituzionali.
Occorre occupare solo lo spazio lascito libero dalle
normative generali e scrivere regole semplici e attuabili.
L'impresa non è agevole, ma i potenziali risultati in
termini di trasparenza e ottimizzazione organizzativa
meritano ogni sforzo (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuove
regole antisismiche.
Più facili gli adeguamenti antisismici sugli edifici
esistenti. Le azioni sismiche di progetto, si definiscono a
partire dalla pericolosità sismica di base del sito di
costruzione.
Questo è quanto si legge nelle
nuove norme tecniche per le costruzioni, redatte
dal ministero delle infrastrutture, che dovrebbero andare in
Conferenza unificata per la fine di settembre. Poi una
comunicazione di rito a Bruxelles. E, infine, la
pubblicazione definitiva sotto forma di decreto ministeriale
in Gazzetta Ufficiale.
Per strutture o elementi strutturali snelli di forma
cilindrica, quali ciminiere, torri di telecomunicazioni o
singoli elementi di carpenteria si deve tenere conto degli
effetti dinamici indotti al distacco alternato dei vortici
dal corpo investito dal vento. Tali effetti possono essere
particolarmente severi quando la frequenza di distacco dei
vortici uguaglia una frequenza propria della struttura,
dando luogo a un fenomeno di risonanza.
In questa situazione le vibrazioni sono tanto maggiori
quanto più la struttura è leggera e poco smorzata. Le norme
si applicano a tutte le costruzioni e agli interventi atti a
sostenere in sicurezza un corpo di terreno o di materiale
con comportamento simile. In particolare ai muri, per i
quali la funzione di sostegno è affidata al peso proprio del
muro e a quello del terreno direttamente agente su di esso
(per esempio, muri a gravità, muri a mensola, muri a
contrafforti). Alle strutture miste, che esplicano la
funzione di sostegno anche per effetto di trattamenti di
miglioramento e per la presenza di particolari elementi di
rinforzo e collegamento.
La scelta del tipo di opera di sostegno deve essere
effettuata in base alle dimensioni e alle esigenze di
funzionamento dell'opera, alle caratteristiche meccaniche
dei terreni in sede e di riporto, al regime delle pressioni
interstiziali, all'interazione con i manufatti circostanti,
alle condizioni generali di stabilità del sito (articolo
ItaliaOggi del 15.09.2016). |
APPALTI: Appalti
senza gara, stretta Anac. Scelta motivata in delibera con i
risultati di un’indagine di mercato.
Contratti pubblici. Pronte le Linee guida su beni e servizi
offerti da un’unica impresa o protetti da copyright
Basta appalti senza gara con la
scusa che a fornire quel software o quel particolare
servizio di manutenzione, anche edile, è soltanto
un’impresa.
L’Autorità
Anticorruzione mette nel mirino una delle “prassi” più
abusate dalle amministrazioni intenzionate ad aggirare le
gare d’appalto a danno della concorrenza. Si tratta della
deroga -concessa in via del tutto eccezionale anche dalle
direttive Ue- per i cosiddetti beni e servizi «infungibili».
Vale a dire i prodotti protetti da copyright o comunque
nella disponibilità di un unico operatore. Aspetto che
-quando le cose stanno davvero così- rende la gara un
inutile spreco di tempo e risorse perché l'esito è scontato.
Purtroppo i fatti dimostrano che quando si scopre una
scorciatoia è fatale che si tenda a percorrerla anche quando
sarebbe vietato. Di qui la scelta dell’Anac di inserire in
una nuova Linea guida, inviata per i consueti pareri a
Consiglio di Stato e commissioni parlamentari, le istruzioni
che le amministrazioni dovranno seguire per sfruttare le
deroghe al codice appalti senza incorrere in contestazioni
di legittimità degli affidamenti.
I numeri diffusi dall'Anac dicono che ogni anno in Italia si
aggiudicano senza pubblicità appalti pubblici per 15
miliardi di euro. Non sempre questa scelta è motivata con il
fatto che a garantire quel servizio (50% dei casi) , quel
bene (40%) o addirittura un lavoro per un’opera pubblica
(10% dei casi) sia una sola impresa, ma comunque gli episodi
in cui questo accade non sono rari. Succede soprattutto nei
settori delle forniture sanitarie e dell’informatica «ma una
quota non trascurabile attiene ai servizi di riparazione e
manutenzione», senza dimenticare il comparto rifiuti.
Cantone ricorda innanzitutto che il ricorso alla procedura
negoziata senza bando è un’ipotesi del tutto eccezionale.
Attivabile solo al ricorrere di alcune condizioni
puntualmente riportate in questo “manuale” diretto a
stazioni appaltanti e imprese.
L'Anac dice subito basta alle giustificazioni di “comodo”
finora utilizzate per sfruttare la deroga all'obbligo di
gara. «Poiché si tratta di una deroga è necessario che i
presupposti per ricorrere alla stessa siano accertati con
particolare rigore e debitamente motivati nella delibera a
contrarre». La prima cosa da fare è accertare che il bene
che si intende acquistare sia a disposizione di un unico
operatore.
Riprendendo le considerazioni riportate nelle pronunce della
Corte Ue, l’Anac chiarisce che «la stazione appaltante non
può accontentarsi delle dichiarazioni presentate dal
fornitore, ma deve verificare l'impossibilità a ricorrere a
fornitori o soluzioni alternative attraverso consultazioni
di mercato». E non solo in Italia, ma eventualmente
scandagliando anche « i mercati esteri».
Per raggiungere l’obiettivo l’Anac chiede alle Pa uno sforzo
di programmazione. Ma soprattutto chiarisce che va sfruttata
a fondo una delle maggiori novità introdotte dal nuovo
codice degli appalti: la possibilità di avviare
consultazioni di mercato prima di bandire la gara. Una
strada che prima era vietata. L'analisi serve a ridurre
«l'asimmetria informativa» con le imprese e anche a evitare
di trovarsi incastrati in fenomeni di «lock in». Cioè
l'impossibilità di sostituire il fornitore al termine
dell’appalto perché costerebbe troppo.
Prima di avviare la consultazione la Pa deve informare il
mercato, pubblicando per almeno 15 giorni un avviso sul
proprio sito (in home-page). L’avviso deve indicare nel
dettaglio le esigenze dell'amministrazione e i costi attesi.
I risultati dell'indagine di mercato vanno poi riportati
nella delibera a contrarre, specificando anche le
conclusioni che inducono alla trattativa privata.
Ultime indicazioni. Primo: non vale giustificare la
decisione di evitare la gara sulla base di vecchie
consultazioni. Secondo: nella delibera vanno anche riportati
il valore stimato dell’affidamento e la sua durata. Che deve
essere limitata, visto che scaturisce da una commessa
affidata in deroga alle basilari regole di concorrenza
(articolo
Il Sole 24 Ore del 14.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Domicilio
digitale per i cittadini.
Gazzetta Ufficiale. In vigore da oggi la correzione al
Codice dell’amministrazione digitale - Entro il 14.01.2017
il Dm di coordinamento con le attuali regole tecniche.
È in vigore da oggi
il nuovo Cad – Codice dell’amministrazione digitale come
modificato ed integrato dal Dlgs 179/2016, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale di ieri. Il testo finale del decreto
risulta in parte modificato rispetto allo schema approvato
in via preliminare dal Governo.
Di assoluta rilevanza sono comunque le novità dettate in
materia di domicilio e identità digitale, documenti
informatici, firme e pagamenti elettronici. L’articolo 61
del decreto 179 delega per questo a un apposito decreto del
ministro per la Semplificazione, da adottarsi entro quattro
mesi e cioè entro il 14.01.2017, l’aggiornamento e il
coordinamento con il nuovo testo normativo delle regole
tecniche a oggi vigenti, le quali comunque restano in vigore
sino all’adozione del regolamento ministeriale.
Risulta perciò espressamente sospeso l’obbligo per le Pa di
adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei
documenti alle regole del Dpcm 13.11.2014, operative dal
12.08.2016, ma è fatta salva la facoltà delle
amministrazioni di adeguarsi anteriormente al decreto, come
accaduto per le Entrate con l’adeguamento disposto con nota
n. 129255 dell’08.08.2016.
La digitalizzazione dei rapporti tra amministrazioni e
cittadini si fonda innanzitutto sull’elemento del domicilio
digitale definito, dalla nuova lettera n-ter) dell’articolo
1 del Cad, come l’indirizzo di posta elettronica certificata
o altro servizio elettronico di recapito certificato
qualificato a norma eIdas che consente la prova del momento
di ricezione. Il nuovo articolo 3-bis riconosce infatti ai
cittadini la possibilità di indicare, al Comune di
residenza, un domicilio digitale che costituisce il mezzo
esclusivo di comunicazione da parte delle Pa.
A differenza di quanto previsto per imprese e
professionisti, la titolarità di una casella di Pec non
costituisce un obbligo per i cittadini. Un domicilio
digitale sarà comunque messo a disposizione degli iscritti
all’Anpr, secondo modalità individuate con decreto
ministeriale.
Per digitalizzare i procedimenti, formazione, gestione e
conservazione dei documenti devono avvenire in modalità
informatica. Lo schema di decreto, modificando l’articolo 21
del Cad, riteneva soddisfatto il requisito della forma
scritta di un documento informatico quando sottoscritto con
firma elettronica, a prescindere dalla tipologia avanzata,
qualificata o digitale utilizzata.
Il nuovo testo del Cad sembra fare sul punto un passo
indietro reintroducendo il previgente comma 1 dell’articolo
21 secondo cui il documento informatico, cui è apposta una
firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta
ma resta liberamente valutabile in giudizio.
Inoltre ai sensi del comma 2, quando il documento viene
sottoscritto con firma elettronica avanza, qualificata o
digitale lo stesso ha l’efficacia prevista dall’articolo
2702 del Codice civile e quindi forma piena prova sino a
querela di falso.
Infine, rispetto al testo dello schema del Cad, non è stata
più recepita l’integrazione all’articolo 22, comma 3: non
potevano infatti essere disconosciute le copie per immagine
su supporto informatico di documenti originali analogici
quando realizzate mediante processi e strumenti tali da
assicurare contenuto e forma identici previo raffronto o
certificazione di processo.
Il nuovo testo dell’articolo 29 del Cad dispone su
qualificazione ed accreditamento di prestatori di servizi
fiduciari, gestori di posta certificata e conservatori,
demandando a un apposito Dpcm l’individuazione di appositi
requisiti, quali un capitale sociale graduato, in ragione
dei livelli di servizi offerti, entro il limite massimo di
cinque milioni di euro
(articolo
Il Sole 24 Ore del 14.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI: Ai
cittadini domicilio digitale. Visite, tributi e pratiche
scolastiche gestiti con un click. In
Gazzetta Ufficiale (e in vigore da oggi) il dlgs che
modifica il codice della p.a. hi-tech.
Arriva il «domicilio digitale» che permetterà di ricevere
sulla propria casella di posta elettronica certificata
notifiche e comunicazioni. I cittadini potranno indicare la
propria casella al comune di residenza per facilitare le
comunicazioni con le p.a. L'accesso sarà attraverso il pin
unico (il sistema Spid), in collegamento con l'Anagrafe
nazionale della popolazione residente.
E sempre attraverso Spid si potrà accedere ai servizi
pubblici con un unico nome utente e un'unica password.
Prenotare visite mediche, pagare tributi, iscrivere i propri
figli a scuola saranno pratiche a portata di click, senza la
necessità di dover memorizzare e conservare decine di
password. Le pubbliche amministrazioni saranno obbligate ad
accettare pagamenti attraverso i sistemi elettronici,
inclusi gli strumenti di micro pagamento e il credito
telefonico.
Gli enti che non si adegueranno alla rivoluzione digitale
rischieranno di subire azioni collettive, vere e proprie
class action, da parte dei cittadini. Le azioni collettive
saranno attivabili non solo in caso di mancata erogazione
dei servizi online, ma anche qualora gli standard dei
servizi siano inferiori a quelli previsti dalla legge.
Sono solo alcune delle novità contenute nel decreto
legislativo 26.08.2016, n. 179, recante «Modifiche e
integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui
al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi
dell'articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia
di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»
pubblicato ieri sulla G.U. n.214 e in vigore da oggi.
Il decreto (si veda ItaliaOggi dell'11 agosto scorso)
prevede anche che l'obbligo di dematerializzare i
provvedimenti (e i procedimenti) amministrativi, che sarebbe
dovuto entrare in vigore in agosto, slitti in attesa di un
decreto della Funzione pubblica che dovrà riscrivere le
regole tecniche. Fino a quel momento l'obbligo per gli enti
pubblici di adeguare i propri sistemi di gestione
informatica dei documenti sarà sospeso. Ma chi lo vorrà
potrà adeguarsi prima.
Tra le altre novità di rilievo, quella secondo cui le
amministrazioni dovranno rendere disponibili agli utenti la
connessione internet wi-fi presso i propri uffici. Quando
gli uffici sono chiusi, la connessione sarà a disposizione
di tutti i cittadini che potranno accedervi senza bisogno di
particolari sistemi di autenticazione. Il governo è infatti
tornato sui propri passi rispetto all'idea di rendere il
servizio accessibile solo agli utenti Spid perché una scelta
del genere avrebbe tagliato fuori i turisti, il cui accesso
alla rete, invece, va incentivato.
E ancora, se sottoscritti con firma elettronica avanzata,
qualificata o digitale e formati nel rispetto delle regole
tecniche previste dal decreto, i documenti informatici
faranno piena prova fino a querela di falso. Il dlgs estende
l'ambito di applicazione del codice dell'amministrazione
digitale alle società a controllo pubblico. Sono invece
escluse le società quotate.
In quanto soggette al Cad, anche le società a controllo
pubblico saranno obbligate ad accettare i pagamenti
elettronici in qualsiasi forma, incluso l'utilizzo dei
micropagamenti e del credito telefonico. La responsabilità
della transizione al digitale sarà affidata a un unico
ufficio dirigenziale assegnato a un responsabile dotato di
adeguate competenze tecnologiche e manageriali (articolo
ItaliaOggi del 14.09.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Per
le regole sul rumore rischio di una retromarcia. Norme in
cantiere. Verso un nuovo intervento legislativo.
Il regolamento europeo 305/2011 (Cpr),
sostitutivo della direttiva 89/106/EC (Cpd) sui prodotti da
costruzione indica tra i sette requisiti essenziali di un
edificio la protezione dal rumore. In Italia gli obblighi
relativi a tale requisito sono espressi dal Dpcm del
05.12.1997 (in vigore dal 19.02.1998).
Questo, se da una parte ha dato impulso alla concreta
attuazione del rispetto di tale requisito (dal 1998 ad oggi
le prestazioni acustiche degli edifici si sono decisamente
innalzate), dall’altra è affetto da errori d’impostazione.
Serve quindi una nuova legislazione.
Su sollecitazione del ministero dell’Ambiente, l’Uni ha
elaborato la norma tecnica Uni 11367:2010 sulla
classificazione acustica delle unità immobiliari negli
edifici. Tale norma potrebbe e dovrebbe essere recepita tale
quale in una nuova legislazione. Invece sta circolando,
senza mai essere stato reso ufficialmente pubblico, un
progetto di Dlgs del ministero delle Attività produttive ,
giustificato sulla base della legge 161/2014, articolo 19,
comma 2, lettera g). Sulla base del testo circolato in
maniera ufficiosa tra gli addetti ai lavori va fatta una
serie di osservazioni e critiche.
La legittimità del progetto di decreto è dubbia: le “procedure
autorizzative” sembrerebbero essere quelle necessarie ad
ottenere i titoli abilitativi (permesso di costruire, Scia,
eccetera) e/o l’abitabilità. Dunque non potrebbero incidere
sui valori limite dei requisiti acustici passivi.
Lo schema di decreto riprende solo in parte la Uni 11367 a
cui dice di ispirarsi.
Il rispetto dei requisiti acustici passivi è obbligatorio
solo per i nuovi edifici, cioè quelli realizzati dopo
l’entrata in vigore del decreto (articolo 4). È opzionale
per tutti gli altri. Questo implica un vero e proprio “colpo
di spugna” sugli edifici realizzati sinora.
La classe di riferimento diviene la classe IV della Uni
11367, mentre la stessa norma Uni individua chiaramente la
classe III (migliore della classe IV) come riferimento. La
classe III è già meno restrittiva del vigente Dpcm del 1997.
Dunque il nuovo decreto abbasserebbe i requisiti già vigenti
per i nuovi edifici. Poco importa poi che all’art. 7 si
indichi la classe III per i “valori di riferimento”
del progetto: quelli che contano sono i valori riscontrati
in fase di verifica, che sono quelli della classe IV. Anzi,
così dicendo all’articolo 7, si ammette implicitamente che
la messa in opera solitamente non rispetta il progetto. Le
tabelle in pagina riassumono con chiarezza la situazione che
si verrebbe a creare.
Nella bozza di decreto manca una chiara definizione di
ristrutturazione, totale o parziale, e manca
un’individuazione chiara dei relativi valori limite –ovvero
della classe di prestazione– per le ristrutturazioni. Al
massimo si dice (articolo 4) che devono essere «tali da
evitare il peggioramento dei requisiti acustici preesistenti
(...)». Se però l’atto di compravendita non riporta
nulla (cosa probabilissima perché la classificazione
obbligatoria entrerebbe in vigore solo dal 2016), nessun
obbligo sussiste. Eppure basterebbe fare riferimento al Dpr
380/2001, articolo 3, che definisce gli interventi di
recupero.
Nello schema di decreto la classificazione acustica deve
essere riportata, nei soli casi previsti, per gli elementi
edilizi. La classificazione complessiva di un’unità
immobiliare, che è la cosa più facile da comprendere per il
comune cittadino, è soltanto facoltativa: all’articolo 6,
comma 2, punto k) si dice infatti che «può essere
riportato anche l’indice unico di classificazione dell’unità
immobiliare indicato dalla norma Uni 11367».
I Comuni non hanno più obblighi di controllo dei requisiti
acustici passivi ma solo di richiedere attestazioni cartacee
a costruttori e direttori lavori, rese come dichiarazione
sostituiva di atto di notorietà (articolo 9).
Sono previste sanzioni (articolo 11: da 2mila a 50mila euro
per unità immobiliare), tuttavia il loro l’impatto è molto
ridotto a causa della non obbligatorietà della
classificazione acustica per tutto quanto costruito sinora.
A fronte di tante criticità, un’unica nota positiva:
nell’ultima versione circolata sono stati introdotti valori
di riferimento per la riverberazione sonora e
l’intelligibilità del parlato all’interno di scuole ed
ospedali, più aggiornati di quelli vigenti. In conclusione,
si potrebbe fare meglio, e molto più semplicemente:
basterebbe recepire integralmente la norma Uni 11367, senza
compromessi. Siamo ancora in tempo
(articolo
Il Sole 24 Ore del 13.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
elenchi e albi solo online. Decreto in gazzetta ufficiale.
Albi, elenchi e registri dei consigli dell'ordine degli
avvocati solo in modalità online. Con un sistema informatico
centrale, gestito dal Consiglio nazionale forense, che
metterà a disposizione degli ordini territoriali le funzioni
di recezione, accettazione e gestione dei dati e dei
documenti informatici.
È quanto
prevede, tra l'altro, il decreto 16.08.2016, n. 178,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 213 di ieri, che
contiene il regolamento recante le disposizioni per la
tenuta e l'aggiornamento di albi, elenchi e registri da
parte dei Coa, nonché in materia di modalità di iscrizione e
trasferimento, casi di cancellazione, impugnazioni dei
provvedimenti adottati in tema dagli stessi Coa.
Il provvedimento, emanato dal ministero della giustizia in
attuazione della riforma forense, entrerà in vigore il
27.09.2016. E a partire da tale data, il Cnf avrà due anni
di tempo per realizzare il sistema informatico centrale.
Mentre entro il 27.09.2017, il Cnf adotta, sentiti il
garante per la protezione dei dati personali e i consigli
dell'ordine territoriali, le specifiche tecniche del sistema
online (architettura di funzionamento, flussi informativi,
modalità di accesso, di interconnessione e interazione con i
sistemi dei Coa, misure di sicurezza ecc).
Inoltre, il decreto prevede che, entro 18 mesi dalla data di
entrata in vigore, il ministero della giustizia è tenuto a
stabilire le modalità telematiche e automatizzate per la
trasmissione a via Arenula degli indirizzi e dei dati
identificativi degli avvocati. Gli ordini territoriali,
inoltre, devono tenere gli albi, il registro e gli elenchi
esclusivamente con modalità informatiche, utilizzando il
sistema informatico centrale.
I Coa che, alla data di entrata in vigore del decreto,
dispongono già di sistemi informatici per la tenuta delle
informazioni, possono continuare ad avvalersene, a
condizione che, quando il Cnf realizzerà il sistema
centrale, tali sistemi siano dotati di tutte le funzionalità
prescritte dal regolamento e che abbiano basi di dati
interconnesse con la base di dati del sistema centrale.
Invece, i Coa che non dispongono di sistemi informatici si
avvalgono esclusivamente del sistema informatico centrale e
i documenti informatici contenenti la registrazione
cronologica delle operazioni informatiche sono conservati
per almeno tre anni.
Quanto alle informazioni che saranno indicate nell'albo
degli avvocati, sono previsti: nome e cognome, codice
fiscale, domicilio professionale, data di prima iscrizione,
eventuale associazione tra avvocati o società tra avvocati,
disponibilità ad assumere difese d'ufficio, iscrizione
nell'albo speciale per il patrocinio davanti alle
giurisdizioni superiori, attività di mediatore, iscrizione
in uno degli elenchi dei gestori della crisi, eventuale
sospensione, lingue straniere conosciute indirizzo web si
siti riconducibili, iscrizione all'elenco per il gratuito
patrocinio, eventuale data di cancellazione (articolo
ItaliaOggi del 13.09.2016). |
ENTI LOCALI: Società,
sui dipendenti il «cortocircuito» della mancata mobilità.
Partecipate. Il personale nella riforma.
Il Testo unico sulle
partecipate affronta in modo innovativo il tema della
gestione del personale all’articolo 19. Meno convincente
invece è come viene disciplinata la fase “transitoria”,
stabilita all’articolo 25 e, marginalmente, dall’articolo
24, comma 9, relativo alla revisione straordinaria delle
partecipazioni.
L’articolo 19 definisce un quadro completo del tema del
personale, anzitutto estendendo ai lavoratori le tutele del
mondo privato, compresi gli ammortizzatori sociali (articolo
19, comma 1). Del resto, fermi restando i principi di
pubblicità e di trasparenza, questa è la cifra di tutto il
Testo unico che, anche se con qualche prudenza di troppo,
vuole spostare l’asse delle aziende pubbliche verso il
mercato, soprattutto sul piano del loro funzionamento.
Restano punti fermi il reclutamento, che segue i principi
pubblicistici (comma 2) anche se vengono attenuati i profili
di danno erariale in caso di violazione della norma (comma
4), e il dovere delle amministrazioni socie di formulare
atti di indirizzo anche sulle spese del personale (commi 5 e
6).
Per quanto riguarda il periodo transitorio, invece, il
meccanismo individuato è molto lacunoso, a partire dal fatto
che l’articolo 19, comma 9, limita la mobilità ex legge
147/2013 alle sole procedure già avviate.
Questo non può che avere effetti anche sull’efficacia di
quanto immaginato all’articolo 25. La norma prevede la
formazione di un elenco delle eccedenze di personale, da
redigere secondo le modalità che verranno definite in un
decreto del ministero del Lavoro (comma 1). Per i primi sei
mesi saranno le Regioni a gestire questi elenchi e ad
agevolare i processi di mobilità regionale, secondo le
modalità stabilite dal decreto del ministero.
Però, una volta dichiarati eccedenti, e quindi licenziati,
non si vede come queste persone possano essere assunte senza
seguire le modalità di reclutamento previste dall’articolo
19, comma 2, e quindi ci si chiede cosa potranno fare in
concreto le Regioni, visto che l’articolo 28 le priva
dell’unico strumento oggi esistente, ovvero la mobilità
introdotta dalla manovra 2014. Per altro, trattandosi di
nuovi contratto di lavoro, chi verrà ricollocato lo sarà con
un contratto a tutele crescenti, e non mantenendo il vecchio
inquadramento.
A conferma che il legislatore è consapevole del fatto che il
destino del personale eccedente è quello del licenziamento,
il comma 3 prevede che, scaduti i sei mesi, spetti all’
Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro gestire
gli elenchi (comma 3). Unica previsione a favore di queste
persone è che, fino al 30.06.2018, le società a controllo
pubblico non possano assumere a tempo indeterminato se non
attingendo da questi elenchi. Un’arma spuntata, però.
Intanto fino all’approvazione del decreto ministeriale non
esiste nessun vincolo. Successivamente le aziende potranno
comunque assumere a tempo determinato, e a trovarsi in
difficoltà saranno solo i dipendenti già a tempo determinato
che avranno la sfortuna di esaurire i 36 mesi di contratto
prima del 30 giugno 2018, perché non potranno essere
riassunti nell’immediato.
Anche l’articolo 24, comma 9, interviene sul tema della
tutela degli occupati stabilendo che, in caso di affidamento
con procedura di evidenza pubblica di un servizio prima
gestito da una società a controllo pubblico, il rapporto di
lavoro è mantenuto con la subentrante in base all’articolo
2112 del Codice civile.
La collocazione del comma nell’articolo relativo alla
revisione straordinaria delle partecipazioni lo rende però
di limitata efficacia, visto che ne circoscrive gli effetti
al periodo di questo unico piano e quindi entro il 2017
La norma sarebbe utile, invece, per regolare con chiarezza
il passaggio del personale in quei servizi pubblici locali
per i quali la tematica non è regolata dalle norme speciali.
Sarebbe utile riprendere il tema nel Testo unico sui servizi
pubblici, che affronta adesso il suo percorso parlamentare
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
minime tra edifici, deroghe in sette Regioni. Su due leggi è
atteso il giudizio della Corte costituzionale.
Urbanistica. Lo scorso 15 luglio la Consulta
ha dichiarato illegittima la norma marchigiana.
Sono sette le
Regioni che hanno deciso di avvalersi della possibilità di
derogare alla normativa statale sulle distanze minime tra
gli edifici.
Attualmente sono però applicabili soltanto le disposizioni
di quattro Regioni, perché le altre sono state impugnate dal
Governo davanti alla Corte costituzionale, ritenendo che le
deroghe non abbiano rispettato il tracciato consentito. Lo
scorso 15 luglio, la Consulta ha già dichiarato
l’incostituzionalità della normativa marchigiana.
Il rispetto dei limiti di distanza tra edifici, ma anche di
densità edilizia (rapporto tra volume dell’immobile e
superficie fondiaria dell’area) e di altezza, come anche il
rispetto degli altri standard urbanistici (ad esempio, la
dotazione di parcheggi o di verde), risulta agevole quando
si tratta di realizzare una nuova urbanizzazione o un nuovo
isolato.
Risulta più complicato, invece, quando si interviene sulle
zone già costruite, per realizzare programmi di
riqualificazione urbanistica o del patrimonio edilizio di
parti della città, con l’abbattimento e la ricostruzione di
interi edifici. In questi casi può diventare arduo
ricostruire rispettando i termini previsti dal Dm Lavori
pubblici 1444 del 02.04.1968, che definisce i
parametri-regola per le singole zone omogenee in cui è
suddiviso il territorio del Comune.
L’articolo 9 del Dm prevede che, per realizzare nei centri
storici gli interventi di risanamento conservativo e di
ristrutturazione, le distanze tra i nuovi edifici non
debbano essere inferiori a quelle che c’erano tra gli
immobili abbattuti. Mentre nelle altre zone edificate lo
spazio minimo tra la parete di un edificio con finestra e
quella dell’edificio di fronte deve essere di almeno 10
metri.
Potrebbe però accadere che il rispetto di queste regole
ostacoli di fatto la riqualificazione dell’isolato di un
quartiere di periferia, dove gli edifici da abbattere
distano tra loro meno di 10 metri. E l’operazione diventa
ancor più difficile dovendo rispettare anche i limiti di
altezza e di densità, poiché non si può compensare la
riduzione di un indice con l’aumento dell’altro.
Per favorire la realizzazione di programmi di questo tipo,
nel 2013 il cosiddetto “decreto del fare” (Dl
98/2013) ha modificato il testo unico dell’edilizia (Dpr
308/1981), attribuendo alle Regioni la facoltà di derogare
al rispetto delle distanze minime, per realizzare non
interventi puntuali ma la riqualificazione urbana o del
patrimonio edilizio esistente o il suo recupero funzionale.
La norma è oggetto di interpretazioni discordanti. Anche le
Regioni che finora l’hanno applicata non si sono mosse tutte
nella stessa direzione. In Friuli-Venezia Giulia si può
derogare solo nelle zone territoriali BO, che vengono
equiparate alle zone A, mentre l’Emilia-Romagna consente di
ricostruire in deroga sulle aree di sedime del vecchio
edificio.
La Toscana –oltre a rendere possibile, nei casi previsti dai
piani operativi, la ricostruzione degli edifici con la
stessa distanza esistente prima della demolizione (anche
inferiore a 10 metri)– stabilisce una serie di altre
eccezioni. Ad esempio, i Comuni possono prevedere nei Prg
che gli ampliamenti degli immobili produttivi esistenti
siano eseguiti venendo meno al rispetto delle distanze, se
si osservano le norme di sicurezza e igiene; e soprattutto
se i nuovi spazi servono per il mantenimento delle attività
produttive e dell’occupazione.
I piani urbanistici comunali della Liguria possono abbassare
il limite dei 10 metri, purché la distanza tra i fabbricati
non crei particolari problemi al paesaggio e non comprometta
un assetto urbanistico equilibrato; gli interventi devono
essere fatti per promuovere la riqualificazione nelle aree
urbane.
Anche la regione Veneto attribuisce allo strumento
urbanistico comunale la facoltà di derogare ai limiti del
Dm, e non solo per le distanze ma pure per altezze e densità
edilizie: su questa previsione si deve però pronunciare la
Corte costituzionale. L’attesa per il giudizio della
Consulta è condivisa dall’Umbria, che ha deliberato di
sostituire in toto con proprie norme la disciplina in
materia di distanze, standard e zone territoriali omogenee
contenute nel decreto 1444/1968.
Sulla legge delle Marche, invece, la sentenza (178/2016) è
già arrivata: la Corte ha dato ragione al Governo nel
ritenere che la Regione avesse oltrepassato i confini di sua
competenza, ammettendo la deroga alle distanze minime anche
per i singoli interventi realizzati al di fuori dei piani di
riqualificazione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Abiti,
semplificazione a metà. Operazioni di recupero alleggerite
solo tecnicamente. Nella legge antisprechi anche le norme
per il trattamento dei rifiuti da abbigliamento.
Dal 14.09.2016 semplificazioni tecniche
ma non burocratiche per riabilitare direttamente a beni i
capi di abbigliamento usati che, non rispettando a monte
determinate condizioni, sono da sottoporre a preventivo
trattamento in quanto rifiuti.
Con l'entrata in vigore della legge 166/2016 sulla
limitazione degli sprechi, acquistano infatti operatività
anche le neo disposizioni sulla «distribuzione di articoli e
accessori di abbigliamento usati a fini di solidarietà
sociale», regole che alleggeriscono in alcuni casi le
operazioni da effettuare per recuperare quelli costituenti
rifiuti senza però parallelamente mitigare il regime
autorizzatorio necessario per condurle.
Cessione abiti in disuso: beni o rifiuti.
A fianco delle norme sulla redistribuzione di eccedenze
alimentari e farmaci inutilizzati (si veda articolo a pagina
13), la legge 19.08.2016, n. 166 (G.U. 30.08.2016 n. 202)
introduce con il suo articolo 14 una disciplina sulla
cessione degli abiti in disuso da parte dei privati.
La nuova disciplina si muove su due fronti:
- da un lato, tracciando il confine tra l'abbigliamento che
all'atto del trasferimento può continuare a sottostare alle
regole dei veri e propri beni e gli articoli che invece
devono essere sottoposti al severo regime dei rifiuti;
- dall'altro, riformulando alcune norme tecniche per il
recupero di questi ultimi abiti-rifiuto al fine del loro
successivo riutilizzo.
In relazione al confine beni/rifiuti, dal combinato disposto
dei commi 1 e 2 dell'articolo 14 della nuova legge emerge
che costituiscono rifiuti gli articoli e gli accessori di
abbigliamento usati che hanno una delle seguenti
caratteristiche: non sono ceduti a titolo gratuito da
privati direttamente presso le sedi operative dei «soggetti
donatari» (soggetti coincidenti, nel tenore dell'articolo 2
della legge, sostanzialmente con le organizzazioni onlus);
«non sono ritenuti idonei ad un successivo utilizzo»
(evidentemente, laddove tale utilizzo non sia possibile «tal
quale», ossia senza ricorrere ad un preventivo trattamento).
Tali ultimi abiti, specifica infatti espressamente la legge
166/2016 in coerenza con il quadro normativo preesistente,
«sono gestiti in conformità alla normativa sui rifiuti di
cui al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152».
Il recupero degli abiti costituenti
rifiuto. La nuova
legge introduce alcune semplificazioni tecniche sulle
operazioni minime di recupero cui devono essere sottoposti
gli indumenti-rifiuto per poter farli rientrare direttamente
nel circuito dei beni (invece di utilizzarli come materie
prime secondarie, cd. «mps», nel settore tessile).
L'alleggerimento arriva con una modifica dello storico dm
Ambiente 05.02.1998, laddove tra le due operazioni di
trattamento finalizzate a reimmettere direttamente gli
articoli tessili nel ciclo di consumo quella
dell'igienizzazione (che segue la selezione) diventa
obbligatoria solo ove si renda necessaria per l'ottenimento
degli standard microbiologici previsti dallo stesso
regolamento.
Giuridicamente, la semplificazione arriva con la
riformulazione della lettera a), punto 8.9.3 suballegato 1,
allegato 1, al dm Ambiente 5 febbraio 1998 (recante le norme
tecniche per il recupero di materia dai rifiuti non
pericolosi), incidendo nei termini sopra esposti sulle
citate operazioni (da inquadrarsi come «R3», in base al dlgs
152/2006) propedeutiche all'ulteriore fase del deposito
degli abiti (la c.d. messa in riserva, «R13») finalizzato
alla loro diretta reimmissione nel consumo.
Tale semplificazione tecnica, dalla legge 166/2016
finalizzata a «contribuire alla sostenibilità economica
delle attività di recupero», non appare però essere sorretta
da parallelo alleggerimento burocratico.
Il dm Ambiente 05.02.1998 nasce infatti storicamente (sotto
il dlgs 22/1997, c.d. «decreto Ronchi», e in continuità
sotto l'attuale dlgs 152/2006) per individuare i rifiuti non
pericolosi sottoponibili, nel rispetto di determinate
condizioni tecniche, a «procedure semplificate di recupero»,
ossia ad operazioni condizionate alla semplice comunicazione
preventiva agli Enti territoriali di competenza in luogo
della titolarità della più onerosa autorizzazione regionale.
Di fatto la portata derogatoria del dm Ambiente 05.02.1998 è
stata però erosa dalla successiva modifica al provvedimento
apportata dal dlgs 186/2006, che ha di fatto escluso dalla
suddetta procedura semplificata i rifiuti per il cui
recupero non sono dallo stesso dm individuati parametri
quantitativi da rispettare. E nel pertinente allegato 4 del
dm 5 febbraio 1998 non trovano infatti attualmente
collocazione proprio i parametri quantitativi (massimi)
relativi alle attività di recupero «R3» effettuate su
indumenti-rifiuto da reimmettere direttamente nel ciclo di
consumo. E questo a differenza delle analoghe operazioni
effettuate su abiti-rifiuto da reimpiegare, invece come «mps»
nell'industria del tessile.
Alla luce di ciò appare che le citate attività di recupero
mirate alla immediata destinazione al consumo degli abiti
potranno essere sì, ricorrendone le condizioni, eseguite in
forma tecnicamente «abbreviata» (ossia prescindendo, ove non
ritenuta necessaria, con evidente assunzione di
responsabilità, dalla igienizzazione) ma non potranno
comunque essere condotte in forma burocraticamente
semplificata tramite mera comunicazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: Neo-segretari
senza fine. Un biennio di formazione dopo il concorso.
Molti i nodi per i futuri apicali
con la riforma della dirigenza.
Un caotico futuro da eventuale dirigente apicale per i
segretari comunali di fascia C e neo assunti.
Lo schema di decreto legislativo attuativo della riforma
della dirigenza crea una notevole confusione nella
disciplina transitoria e futura relativa ai segretari
comunali in generale, ma in particolare per quelli non
assimilati alla qualifica dirigenziale, a causa di una serie
di ipotesi e sub ipotesi poco chiare.
Incarico da funzionari.
La riforma prevede che sia i segretari comunali e
provinciali già iscritti all'albo nazionale di cui
all'articolo 98 del dlgs 267/2000 collocati nella fascia
professionale C prevista dalle disposizioni contrattuali
vigenti, sia i vincitori di procedure concorsuali di
ammissione al corso di accesso in carriera, già avviate alla
data di entrata in vigore della legge 124/2015 sono immessi
in servizio come funzionari per due anni effettivi (a meno
che non ricevano l'incarico di dirigente apicale).
Si tratta di una previsione estremamente contraddittoria e
confusa. I segretari comunali, pur in fascia C o
neo-vincitori di concorso, sono reclutati per svolgere la
funzione di segretari comunali, cioè ricoprire la sede di
segreteria e fare il lavoro da segretari. La norma, in
funzione dell'abolizione della figura del segretario
comunale, pare introdurre un'ipotesi eccentrica: farli
lavorare come funzionari, per due anni.
Ma, questo significa che persone formatesi per svolgere
l'attività di segretario comunale, possano essere «dirottate»
a funzioni diverse, messe in sostanza in uno specie di limbo
per due anni, in attesa dell'inserimento nel ruolo dei
dirigenti.
Periodo di «praticantato».
Pare di capire che l'attività da funzionari avverrà nei
ruoli degli enti locali. A tale scopo, lo schema prevede che
gli enti presso i quali nei successivi due anni sarà
disponibile un ufficio dirigenziale, possono chiedere alla
Commissione competente al ruolo unico dei dirigenti locali
di avere in assegnazione tali funzionari, presentando un
progetto professionale e formativo di inserimento. Come se
il concorso vinto a suo tempo non avesse valore ed occorra
altra formazione allo scopo.
La Commissione competente abbinerà i progetti presentati
dagli enti locali al numero dei segretari di fascia C e neo
vincitori di concorso e verosimilmente metterà loro a
disposizione i progetti e gli inserimenti formativi proposti
dagli enti locali, così che i segretari di fascia C e i
neo-vincitori possano scegliere l'ente presso il quale
prestare servizio; a tale scopo, lo schema prevede una
priorità per coloro che hanno maggiore anzianità nella
fascia, scelgono l'amministrazione di destinazione.
Per facilitare la presa di servizio, la norma prevede che i
soggetti interessati possano essere assegnati anche in
soprannumero, e comunque nell'ambito delle risorse
disponibili.
Laddove i progetti presentati dagli enti locali siano meno
dei segretari di fascia C e dei neo-vincitori di concorso,
coloro che non saranno immessi in servizio negli enti locali
saranno, allora, assegnati alle amministrazioni statali, in
applicazione dell'articolo 4, comma 3-quinquies, del dl
101/2013, convertito dalla legge 125/2013, a cura della
Funzione pubblica. Si presume, dunque, che la Funzione
pubblica, allora, disporrà anche le immissioni in servizio
presso gli enti locali: sul punto la norma non è chiara e
lascia aperta l'ipotesi che sia la Commissione che gestisce
il ruolo a provvedere.
Qualifica dirigenziale.
Al termine del biennio di lavoro prestato come funzionari,
l'amministrazione presso la quale i segretari di fascia C e
vincitori di concorso hanno operato trasmetterà alla
Commissione per la gestione del ruolo una relazione sul
servizio prestato, dotata di una valutazione di merito.
Laddove questa sia positiva, l'amministrazione presso la
quale il vincitore ha prestato servizio potrà immettere in
ruolo il dipendente come dirigente: pertanto, acquisirà la
qualifica dirigenziale e l'iscrizione nel Ruolo della
dirigenza locale.
L'amministrazione che immette l'interessato in servizio
potrà anche conferirgli un incarico dirigenziale senza
l'espletamento della procedura comparativa prevista dalla
riforma, in analogia a quanto previsto per l'immissione in
servizio dei dirigenti dei concorsi che in futuro
selezioneranno i dirigenti. Laddove la valutazione fosse
negativa, l'interessato rimane in servizio presso l'ente per
un altro anno: concluso quest'altro periodo di servizio
l'amministrazione trasmette una nuova valutazione alla
Commissione, competente.
Se positiva, vi sarà l'immissione in ruolo. Se ulteriormente
negativa, l'interessato non è ammesso a nuova valutazione, e
rimane in servizio come funzionario.
Dirigente apicale.
Come si nota, il sistema non è preordinato a fare degli ex
segretari di fascia C e dei neo vincitori del concorso dei «dirigenti
apicali», figura chiamata a sostituire quella abolita
del segretario. Tuttavia, lo schema prevede l'ipotesi che ai
soggetti in argomento gli enti locali possano conferire
direttamente, senza le trafile viste prima l'incarico di
dirigente apicale.
Ciò consentirà loro l'inserimento nel Ruolo unico della
dirigenza locale dopo avere ricoperto tale incarico per una
durata complessiva non inferiore a 18 mesi (articolo
ItaliaOggi del 10.09.2016). |
ENTI LOCALI:
Partecipate, via al countdown. Revisione
straordinaria da completare entro marzo 2017.
La pubblicazione del Testo unico Madia in G.U. fa
partire il timing per la sforbiciata.
La stretta sulle società partecipate partirà il 23
settembre. Sarà questa la data spartiacque a partire dalla
quale gli enti e le pubbliche amministrazioni dovranno
scattare un'istantanea sugli assetti societari, individuando
entro sei mesi le partecipazioni che dovranno essere
alienate in quanto «fuori legge».
Gli enti avranno quindi tempo fino a fine marzo 2017 per
portare a termine la revisione straordinaria delle
partecipazioni. E un ulteriore anno per cedere quelle non in
regola.
A far partire il conto alla rovescia per lo sfoltimento
delle oltre 5 mila società partecipate ritenute a rischio
dal governo, è la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di
ieri (n. 210/2016) del Testo unico Madia approvato in via
definitiva dal consiglio dei ministri lo scorso 10 agosto
(si veda ItaliaOggi dell'11 agosto).
Il T.u. in materia di società a partecipazione pubblica (dlgs
19.08.2016, n. 175) entrerà dunque in vigore decorsi i
tradizionali 15 giorni di vacatio legis. Quindici
giorni che dovranno servire alle pubbliche amministrazioni
per mettersi in regola, prima che sia troppo tardi e si
metta in moto la macchina che porterà entro sei mesi alla
revisione straordinaria delle partecipazioni. Mentre quella
periodica dovrà compiersi ogni anno a partire dal 2018. Ma
quali saranno i requisiti necessari per sfuggire alla
sforbiciata?
Le partecipazioni rimarranno consentite per la produzione di
servizi di interesse generale (inclusa la realizzazione e la
gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi
medesimi), per la progettazione, realizzazione e gestione di
opere pubbliche, per l'autoproduzione di beni o servizi
strumentali e per servizi di committenza. Restano fuori
dalla potatura anche le finanziarie regionali e le società
che gestiscono spazi e eventi fieristici o impianti di
risalita.
Il fatto di operare in questi settori «ammessi» non
garantirà necessariamente la sopravvivenza delle società che
potranno essere mantenute solo se rispettano precisi
paletti. Dovranno essere dismesse le realtà che risultino
prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori
superiore a quello dei dipendenti, quelle che svolgono
attività analoghe o similari a quelle svolte da altre
società partecipate o da enti pubblici strumentali e quelle
che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un
fatturato medio non superiore a un milione di euro.
Per le società diverse da quelle costituite per la gestione
di servizi d'interesse generale, scatterà l'obbligo di
dismissione in presenza di un risultato negativo per quattro
dei cinque esercizi precedenti. In caso di mancata
ricognizione delle partecipate fuori legge o di mancata
alienazione delle partecipazioni entro un anno, il socio
pubblico vedrà congelati i propri diritti sociali e la
partecipazione dovrà essere liquidata in denaro (articolo
ItaliaOggi del 09.09.2016). |
APPALTI:
Maratona sul codice appalti. Da adottare altri 19
provvedimenti attuativi. In vigore: 3 su 60.
I principali dossier all'esame di Parlamento,
Governo e Anticorruzione dopo la pausa estiva.
Codice dei contratti pubblici all'attenzione del parlamento
e del governo, alla ripresa dopo la pausa estiva, insieme a
consumo del suolo, terre e rocce da scavo e decreti Madia;
al momento in vigore tre dei 60 provvedimenti attuativi del
codice dei contratti pubblici.
È questa in sintesi la situazione dei principali dossier
relativi ai contratti pubblici sui quali si concentreranno
parlamento, governo e Anac.
In sede parlamentare è in corso, e verrà conclusa a breve,
un'indagine conoscitiva sull'attuazione del Codice, che
verrà utilizzata dai componenti delle commissioni per
acquisire elementi sulle criticità del decreto 50 anche ai
fini dell'adozione prossima (comunque entro aprile 2017) del
previsto decreto correttivo.
L'aula del senato dovrà poi esaminare a breve la proposta di
istituzione di una commissione di inchiesta sulla corruzione
negli appalti pubblici, mentre alla camera, in aula, si
discuterà la proposta di legge sul sostegno e la
valorizzazione dei comuni con meno di 5 mila abitanti. Al
senato è sempre in discussione il disegno di legge sul
contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo
edificato, già approvato alla camera e per il quale verrà
svolto un ciclo di audizioni in commissione.
Diversi sono poi gli atti di governo sui quali le
commissioni dovranno esprimersi (dlgs sui servizi pubblici,
i decreti Madia sulla Scia, il decreto sulle terre e rocce
da scavo; è concluso invece l'esame del decreto sulle
autorità portuali che deve uscire nella Gazzetta Ufficiale).
Sul fronte dell'attuazione del nuovo codice dei contratti
pubblici (60 provvedimenti di attuazione in luogo di un
regolamento generale, come era prima), va rilevato che dalla
data di entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016) sono
stati avviati gli iter per l'adozione di molti dei 19
provvedimenti che avrebbero dovuto essere emanati entro il
17.08.2016, mentre l'Autorità nazionale anticorruzione ha
comunque concluso il lavoro (proposta, consultazione
pubblica e invio proposte per i pareri) per quasi una decina
di linee guida di cui tre dovrebbero essere in dirittura di
arrivo, dopo i pareri del Consiglio di stato e delle
commissioni parlamentari.
A oggi sono tre i decreti previsti dal codice, varati ed
entrati in vigore: il primo è quello del ministro della
giustizia, di concerto con il ministro delle infrastrutture
e dei trasporti del 17.06.2016 (su Guri n. 174 del
27/07/2016), il cosiddetto decreto Parametri per il calcolo
dei corrispettivi a base di gara dei compensi per gli
affidamenti di progettazione e altri servizi tecnici.
Si tratta di un provvedimento che cambia sensibilmente il
quadro della situazione perché, diversamente da quanto aveva
affermato l'Anac, non è vincolante per le stazioni
appaltanti, ma lo possono applicare ai fini
dell'individuazione dell'importo dell'affidamento se i
parametri vengono ritenuti «motivatamente adeguati».
Il secondo atto in vigore è il decreto del ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare del
24.05.2016 (su Guri n. 131 del 07.06.2016) che prevede
l'aumento progressivo della percentuale del 50 per cento del
valore a base d'asta relativa all'obbligo del rispetto dei
criteri ambientali minimi negli appalti pubblici per
determinate categorie di servizi e forniture.
Infine, il terzo provvedimento adottato è quello che
stabilisce la composizione e le modalità di funzionamento
della cabina di regia presso la presidenza del consiglio dei
ministri per l'attuazione del codice, per il monitoraggio
delle criticità e per i report in sede europea (decreto del
presidente del consiglio dei ministri 10.08.2016 pubblicato
sulla Guri n. 203 del 31.08.2016 (articolo ItaliaOggi del
09.09.2016). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Per
ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167
D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi
art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che
l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a
vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno),
che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale.
---------------
E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica
applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto
nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a
riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative
punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di
cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso
dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con
sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in
sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n.
689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in
materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con
sanzione pecuniaria.
---------------
Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza
della prescrizione, il C.G.A. ha modificato il proprio
precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento,
secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi
coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la
illiceità del comportamento edilizio … e cioè quello della
intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale
appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera
con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno
dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto
della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una
più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da
adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della
sanzione qui in discussione il momento della intervenuta
concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la
sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso C.G.A. si
è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione
del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione
edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della
sanzione.
---------------
D. - È fondata l’eccezione di prescrizione ai sensi
dell’art. 28 l. n. 689/1981, sollevata col primo motivo di
ricorso.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art.
15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n.
490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista
per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici
costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non
una forma di risarcimento del danno), che, come tale,
prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale
(cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
E. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa
Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981,
secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le
violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima,
applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le
violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie,
anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale
(art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti
amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica
puniti con sanzione pecuniaria (vedasi Tar Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id,
02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vedansi, anche, Tar
Lecce, III, 01.08.2016, n. 1313 e I, Sezione, 19.11.2015, n. 3351; Tar Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395;
Tar Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
F. - Quanto all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n.
123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa
Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso
sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n.
2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A.
(parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio precedente
indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il
quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente
piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità
del comportamento edilizio … e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove
ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti
urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la
permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua
realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più
attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione
qui in discussione il momento della intervenuta concessione
edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
(ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in
termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015
e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto
che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo
stesso C.G.A. si è nuovamente espresso in senso favorevole
all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza
dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di
irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 e da
ultimo n. 490/2016 e data 05/05/2016)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 11.11.2016 n. 2599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La Corte di Giustizia fornisce ulteriori precisazioni sul
documento unico di regolarità contributiva e afferma la
compatibilità col diritto comunitario della normativa
italiana.
----------------
Appalti pubblici – Requisiti di partecipazione –
Documento unico di regolarità contributiva – Esclusione
disposta in base alla normativa nazionale per irregolarità
contributiva risultante al momento della partecipazione alla
gara anche se successivamente sanata – Legittimità.
L’art. 45 della direttiva 2004/18/CE
non osta ad una normativa nazionale che obbliga
l’amministrazione aggiudicatrice ad escludere dall’appalto
l’impresa a causa di una violazione in materia di versamento
di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da
un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione
aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali,
qualora tale violazione sussista alla data di scadenza del
termine di partecipazione ad una gara d’appalto, anche se
successivamente venuta meno alla data dell’aggiudicazione o
della verifica d’ufficio da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice e nonostante l’ente previdenziale, rilevato
il mancato versamento, abbia omesso di invitare l’impresa
alla regolarizzazione, come previsto dal diritto italiano, a
condizione che l’operatore economico abbia la possibilità di
verificare in ogni momento la regolarità della sua
situazione presso l’istituto competente (1).
---------------
(1) I. - La sentenza della Corte di giustizia UE è stata
occasionata da una controversia avente ad oggetto un
provvedimento di esclusione da una gara di appalto di un
consorzio di società cooperative adottato dalla stazione
appaltante dopo avere accertato, in sede di verifica del
possesso dei requisiti di partecipazione, che una delle
cooperativa non era in regola con il DURC alla data di
scadenza del termine di presentazione delle domanda di
partecipazione nonostante l’irregolarità fosse poi stata
sanata entro la data di adozione del provvedimento di
aggiudicazione.
Con
ordinanza 11.03.2015 n. 1236 la IV sezione del
Consiglio di Stato, adita in sede di appello per la riforma
della sentenza reiettiva del gravame, ha rimesso alla Corte
di Giustizia la seguente questione interpretativa: “Se
l’articolo 45 della direttiva 2004/18, letto anche alla luce
del principio di ragionevolezza, nonché gli articoli 49, 56
del TFUE, ostino ad una normativa nazionale che, nell’ambito
di una procedura d’appalto sopra soglia, consenta la
richiesta d’ufficio della certificazione formata dagli
istituti previdenziali (DURC) ed obblighi la stazione
appaltante a considerare ostativa una certificazione dalla
quale si evince una violazione contributiva pregressa ed in
particolare sussistente al momento della partecipazione,
tuttavia non conosciuta dall’operatore economico –il quale
ha partecipato in forza di un DURC positivo in corso di
validità– e comunque non più sussistente al momento
dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio”.
La sezione remittente aveva evidenziato un paradosso
presente nell’attuale normativa italiana laddove da un
lato impone all’amministrazione di rinunciare alla
migliore offerta, e correlativamente, in un’ottica
concorrenziale, impedisce al migliore offerente di accedere
all’aggiudicazione, anche ove oggettivamente non possa
mettersi in dubbio, avuto riguardo alla storia
dell’imprenditore ed ai suoi comportamenti passati, nonché
alla peculiarità ed incolpevolezza della temporanea
irregolarità rilevata, che egli sia un imprenditore corretto
ed affidabile. Dall’altro, consente l’aggiudicazione
ad un imprenditore che ha sempre manifestato irregolarità ed
inadempienze, purché egli, al momento dell’offerta, si sia “messo
in regola” con i requisiti previsti dal d.m. 24.10.2007.
Tale quadro normativo inibirebbe altresì alle stazioni
appaltanti l’autonoma ponderazione del caso concreto, sul
presupposto che la descritta valutazione legale di “irregolarità”
operante nell’ambito e per tutta la procedura di evidenza
pubblica, sia garanzia di parità di trattamento tra i
diversi operatori economici partecipanti alla gara.
II. - La Corte di Giustizia non condivide i dubbi espressi
dal giudice nazionale e con la sentenza in rassegna ne
illustra le ragioni.
Quanto alla compatibilità del diritto nazionale con l’art.
45 direttiva 2004/18/CE –nella parte in cui prevede
l’esclusione dalla gara in caso di DURC irregolare alla data
della partecipazione ad una gara d’appalto, anche qualora
l’importo dei contributi sia poi stato regolarizzato prima
dell’aggiudicazione o prima della verifica d’ufficio da
parte dell’amministrazione aggiudicatrice- la Corte fonda la
propria risposta affermativa sui seguenti argomenti:
a) l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18 lascia agli
Stati membri il compito di determinare entro quale termine
gli interessati devono mettersi in regola con i propri
obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali
e assistenziali e possono procedere a eventuali
regolarizzazioni a posteriori, purché tale termine rispetti
i principi di trasparenza e di parità di trattamento;
b) il potere di richiedere integrazioni documentali previsto
dall’art. 51 della direttiva 2004/18 non può essere
interpretato nel senso di consentire all’amministrazione
aggiudicatrice di ammettere qualsiasi rettifica a omissioni
che, secondo le espresse disposizioni dei documenti
dell’appalto, debbono portare all’esclusione dell’offerente
e comunque deve riferirsi a dati la cui anteriorità rispetto
alla scadenza del termine fissato per presentare candidatura
sia oggettivamente verificabile;
c) tali conclusioni valgono anche qualora la normativa nazionale,
come quella italiana, preveda che la questione se un
operatore economico sia in regola con i propri obblighi
relativi al pagamento dei contributi previdenziali e
assistenziali alla data della partecipazione ad una gara
d’appalto, risulti determinata da un certificato rilasciato
dagli istituti previdenziali e richiesto d’ufficio
dall’amministrazione aggiudicatrice, atteso che una tale
modalità di accertamento è espressamente contemplata
dell’art. 45, paragrafo 3, della direttiva 2004/18 in forza
del quale le amministrazioni aggiudicatrici accettano come
prova sufficiente che attesta che l’operatore economico non
si trova nella situazione di irregolarità rispetto agli
obblighi previdenziali, un certificato rilasciato
dall’autorità competente dello Stato membro in questione e
da cui risulti che tali requisiti sono soddisfatti;
d) è irrilevante l’omesso preventivo avvio del procedimento di
regolarizzazione previsto dall’art. 7, comma 3, d.m.
24.10.2007, e ora recepito a livello legislativo dall’art.
31, comma 8, d.l. 21.06.2013 n. 69, a condizione che
l’operatore economico abbia la possibilità di verificare in
ogni momento la regolarità della sua situazione rispetto
agli obblighi contributivi presso l’istituto competente; in
tali casi egli non può opporre la dichiarazione, in buona
fede, di una condizione di regolarità contributiva,
certificata dall’ente e riferita ad un periodo anteriore
alla presentazione dell’offerta, se, acquisendo le
necessarie informazioni presso l’istituto competente, poteva
verificare di non essere più in regola, per fatti
sopravvenuti, con siffatti obblighi alla data della
presentazione della sua offerta (cfr. in termini Cons. St.,
A.P., 05.05.2016, n. 10, in Riv. neldiritto, 2016, 1070, con
nota di RASCIO, nonché oggetto della
News US in data 31.05.2016).
Quanto al dubbio del giudice remittente circa la
compatibilità con l’art. 45 della direttiva 2004/18 delle
disposizioni nazionali che privano le stazioni appaltanti di
qualsiasi margine di discrezionalità, vincolandole
tassativamente a disporre l’esclusione dei partecipanti
privi dei requisiti, alla data di presentazione delle
offerte, la Corte di Giustizia osserva che l’art. 45,
paragrafo 2, della direttiva 2004/18 non prevede
un’uniformità di applicazione a livello dell’Unione delle
cause di esclusione ivi indicate, in quanto gli Stati membri
hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di
esclusione o di inserirle nella normativa nazionale con un
grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in
funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o
sociale prevalenti a livello nazionale. Conclude pertanto
che tale disposizione non obbliga gli Stati membri a
lasciare un margine di discrezionalità alle amministrazioni
aggiudicatrici a tale riguardo.
Sulla possibile portata discriminatoria tra le imprese
stabilite in Italia e quelle stabilite in altri Stati membri
della normativa nazionale nella parte in cui applica alle
seconde norme di minor rigore, circa la prova del possesso
dei requisiti generali di partecipazione, secondo quanto
previsto dallo stesso art. 38, commi 4 e 5, d.lgs. n. 163
del 2006, la Corte si limita a constatare il difetto di
rilevanza della questione nella causa principale stante la
mancata partecipazione di imprese stabilite in altri stati
membri.
Infine, si evidenzia come la Corte mostri di recepire il
principio consolidato nella giurisprudenza della Plenaria in
forza del quale i requisiti soggettivi non devono essere
posseduti solo al momento della presentazione della domanda
ed allo scadere del termine di presentazione previsto dal
bando, ma devono perdurare per tutto lo svolgimento della
procedura e fino alla stipula del contratto ovvero fino
all’autorizzazione del sub appalto, con la conseguenza che
và pronunciata la decadenza dall’aggiudicazione ove
l’aggiudicatario, inizialmente in possesso del requisito lo
perda prima della stipulazione del contratto (cfr. Cons.
St., A.P., nn. 10 del 2016; 5 e 6 del 2016; 8 del 2015; 15 e
20 del 2013; 8 del 2012; 1 del 2010).
III. - In tema di documento unico di regolarità contributiva
si vedano le menzionate Adunanze plenarie del Consiglio di
Stato n. 5 e n. 6 del 2016, in Urbanistica e appalti, 2016,
787, con nota di CARANTA, nonché oggetto della
News del 01.03.2016, e n. 10 del 2016.
Sulla disciplina del DURC nel nuovo codice degli appalti v.
C.g.a., sez. riun., 24.05.2016, n. 922/2015.
Nel senso che la normativa italiana in materia di regolarità
contributiva è conforme al diritto europeo, v. per ulteriori
profili, Corte giust. comm. ue, sez. X, 10.07.2014,
C-358/12, Consorzio Libor, in Urbanistica e appalti, 2014,
1170, con nota di PATRITO (Corte
giust. comm. UE, Sez. IX,
sentenza 10.11.2016 - C-199/15 - commento tratto
da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione ovvero
concentrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice
amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno
patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta
della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha
impugnato, non costituendo il risarcimento del danno
ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno
strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a
quello demolitorio, principio già enunciato dalla Corte
nella vigenza dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, e ritenuto
ancora valido pur dopo l’emanazione del c.p.a., negandosi
dalle SS. UU. che in detto codice la tutela risarcitoria sia
configurata come un'autonoma ipotesi di giurisdizione
esclusiva.
---------------
4. Quanto alla domanda risarcitoria avanzata dalla
ricorrente principale, la quale asserisce di avere subìto
danni a causa del comportamento negligente del Comune di
Forlì che aveva rilasciato i titoli edilizi poi annullati in
sede giurisdizionale, va innanzitutto esaminata l’eccezione
di inammissibilità della domanda stessa ‒per difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo‒ sollevata dal
Comune resistente.
La giurisprudenza ‒con qualche eccezione (si veda: TAR
Lombardia – Milano, II, n. 218/2015)‒ è orientata per
l’appartenenza della giurisdizione, in simili ipotesi, al
giudice ordinario (si veda Cass., SS.UU., ord. n. 6595/2011;
Idem, n. 1162/2015 ‒alla quale si rinvia per una compiuta
disamina della problematica in questione‒ in cui si
ribadisce il principio secondo il quale in tema di riparto
della giurisdizione, l'attrazione ovvero concentrazione
della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo
può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal
soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta
illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non
costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia
di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela
ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio,
principio già enunciato dalla Corte nella vigenza dell’art.
34 del d.lgs. n. 80/1998, e ritenuto ancora valido pur dopo
l’emanazione del c.p.a., negandosi dalle SS. UU. che in
detto codice la tutela risarcitoria sia configurata come
un'autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 08.11.2016 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ingiunzione
deve essere rivolta a coloro che hanno la disponibilità
dell’opera, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano
i responsabili dell’abuso per averlo concretamente
realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il
profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini
della legittimità dell’ordine di demolizione.
L’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva,
infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del
proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso,
considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito
permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere
ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o
della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
---------------
In merito all’esistenza di un affidamento tutelabile, anche
in relazione al tempo trascorso, (…) non [si] può che
ricordare come la protezione della detta situazione
soggettiva passi attraverso l’accertamento di un
comportamento, improntato ai canoni della lealtà e della
salvaguardia tipici della buona fede, in capo al privato.
---------------
Come già evidenziato in precedenza, l’ordinanza di
demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio.
In relazione alla possibile acquisizione del bene al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione, a prescindere dalla sua non attualità, va
evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non
autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una
volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da
terzi, deve attivarsi contro il responsabile per obbligarlo
a rimuovere l’opera abusiva; in mancanza di ciò subisce
certamente l’acquisizione del bene.
---------------
4. Con la seconda censura si assume che le opere ritenute
illegittime dal Comune con l’ordinanza impugnata, unitamente
alla presenza dell’allevamento, sarebbero state già state
realizzate in gran parte dal precedente detentore dell’area
e non sarebbero imputabili agli odierni ricorrenti;
comunque, il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione degli abusi, avrebbe creato un legittimo
affidamento in capo ai ricorrenti al mantenimento delle
opere realizzate.
4.1. La doglianza, ai limiti dell’ammissibilità, è
infondata.
I ricorrenti affermano che le opere realizzate e la
destinazione ad allevamento sarebbero riconducibili al
precedente detentore dell’area, che le avrebbe
legittimamente realizzate. A prescindere dalla circostanza
che tali affermazioni sono totalmente sfornite di prova, va
evidenziato come l’ordinanza impugnata si limiti a disporre
la demolizione di quanto realizzato in difformità rispetto a
ben individuati titoli edilizi (concessioni n. 46/99 e n.
46/99-bis).
Pertanto, una volta accertata la predetta
difformità, l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto
dovuto e altri aspetti non rivestono alcun rilievo; in ogni
caso appare del tutto illogico, oltre che poco veritiero,
che un soggetto chieda una concessione edilizia per
realizzare delle opere già esistenti e regolarmente
assentite e l’ente pubblico destinatario della richiesta non
si avveda dell’esistenza di atti che già autorizzano i
predetti interventi.
4.2. La restante parte della censura appare altresì
contraddittoria, allorché da una parte si asserisce
l’estraneità dei ricorrenti agli abusi –che sarebbero stati
commessi da un diverso soggetto– e dall’altra si invoca il
legittimo affidamento per il trascorrere del tempo dal
momento della realizzazione degli stessi.
Infatti, la
proprietà dell’area è stata sempre in capo alla ricorrente Fo. e per tale ragione la stessa è tenuta, anche solo
nella qualità di proprietaria, ad eseguire l’ordine di
demolizione, come pure l’attuale affittuario sig. Ca.:
infatti l’ingiunzione deve essere rivolta a coloro che hanno
la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che
gli stessi siano i responsabili dell’abuso per averlo
concretamente realizzato, rilevando tale aspetto
esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale,
ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione
abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione (cfr. TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588).
Con riguardo invece al legittimo affidamento dei ricorrenti
in ordine alla conformità del loro comportamento, legato
anche al trascorrere del tempo, va evidenziato che “l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato alla constatata
abusività, il quale non richiede né alcuna specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto” (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n.
2185; altresì, VI, 05.04.2012, n. 2038; VI, 27.03.2012, n. 1813; IV, 13.07.2011, n. 4254; V, 27.04.2011, n. 2497; V, 11.01.2011, n. 79).
Tale conclusione appare tanto più condivisibile laddove,
come nel caso di specie, l’abuso risulta riconducibile alla
stessa società destinataria del provvedimento di demolizione
–in qualità di soggetto richiedente e di destinatario delle
concessioni edilizie n. 46/99 e n. 46/99-bis– con il
conseguente venir meno del presupposto del legittimo e
incolpevole affidamento.
A tal proposito è stato evidenziato che “in merito
all’esistenza di un affidamento tutelabile, anche in
relazione al tempo trascorso, (…) non [si] può che ricordare
come la protezione della detta situazione soggettiva passi
attraverso l’accertamento di un comportamento, improntato ai
canoni della lealtà e della salvaguardia tipici della buona
fede, in capo al privato” (Consiglio di Stato, IV, 17.05.2012, n. 2852; altresì,
04.05.2012, n. 2592).
4.3. Pertanto, anche la sopra scrutinata censura va
respinta.
5. Con la terza e la quarta doglianza, da trattare
congiuntamente in quanto connesse, si assume l’estraneità
della società Fo. alla commissione degli abusi e la
illegittimità dell’eventuale sanzione dell’acquisizione del
bene al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione.
5.1. Le doglianze sono infondate.
Come già evidenziato in precedenza, l’ordinanza di
demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio.
In relazione alla possibile acquisizione del bene al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione, a prescindere dalla sua non attualità, va
evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non
autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una
volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da
terzi, deve attivarsi contro il responsabile per obbligarlo
a rimuovere l’opera abusiva; in mancanza di ciò subisce
certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 16.03.2015, n. 728).
5.2. Ciò determina il rigetto anche delle predette censure
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le ipotesi di decadenza del permesso di costruire previste
dalla legge sono tassative.
La decadenza del permesso di costruire è
un provvedimento tipico che può legittimamente essere
emanato soltanto in presenza delle due ipotesi
tassativamente disciplinate dall’art. 15 del d.P.R. n.
380/2001, ossia nel caso di inutile decorso dei
termini stabiliti dalla legge per l’inizio e la fine dei
lavori, ovvero qualora sopravvengano previsioni
urbanistiche contrastanti con il permesso rilasciato, purché
i lavori non siano iniziati.
Ne deriva che non è consentito all’amministrazione comunale
determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza
automatica del permesso di costruire collegate alla mancata
comunicazione del nominativo del direttore dei lavori e
all’omessa trasmissione degli atti inerenti al rispetto
della normativa antisismica.
Tale interpretazione del dato normativo è da ritenersi
preferibile, nonostante qualche isolato orientamento
contrario, non solo perché appare in linea con il principio
di tipicità delle sanzioni amministrative (direttamente
discendente dall’art. 97 Cost.), che impone ad ogni misura
sanzionatoria il corrispondente fondamento nella legge, ma
anche perché si profila più adeguata dal punto di vista
logico-sistematico, atteso che per le omissioni contestate
alla ricorrente circa la direzione dei lavori ed in ordine
agli oneri di documentazione ai fini della normativa
antisismica sono appositamente predisposti i sistemi
sanzionatori (anche penali) rispettivamente contemplati
dagli artt. 68 e ss. e dagli artt. 95 e ss. del d.P.R. n.
380/2001.
---------------
... per l'annullamento della nota dirigenziale del Comune di
Grumo Nevano prot. n. 2007-16079 del 13.11.2007, con la
quale è stata disposta la decadenza del permesso di
costruire n. 22/2002 del 07.04.2004 rilasciato alla
ricorrente, nonché di ogni atto e/o provvedimento
antecedente, conseguente e/o comunque connesso.
...
2. Ciò premesso, pregnante si palesa la censura con cui
parte ricorrente denuncia la violazione del principio di
tipicità delle sanzioni amministrative e dell’art. 15 del
d.P.R. n. 380/2001, sottolineando che in materia edilizia la
decadenza del permesso di costruire ha natura e connotazioni
tipizzate, sicché sarebbe praticabile nelle sole ipotesi di
decorso del tempo per l’inizio e l’ultimazione dei lavori,
ovvero di entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Osserva il Collegio, in adesione ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez.
III, 04.04.2013 n. 1870; TAR Puglia Bari, Sez. III,
14.01.2009 n. 33), che la decadenza del permesso di
costruire è un provvedimento tipico che può legittimamente
essere emanato soltanto in presenza delle due ipotesi
tassativamente disciplinate dall’art. 15 del d.P.R. n.
380/2001, ossia nel caso di inutile decorso dei
termini stabiliti dalla legge per l’inizio e la fine dei
lavori, ovvero qualora sopravvengano previsioni
urbanistiche contrastanti con il permesso rilasciato, purché
i lavori non siano iniziati; ne deriva che non è consentito
all’amministrazione comunale determinare autonomamente
ulteriori cause di decadenza automatica del permesso di
costruire, come quelle nella specie individuate, collegate
alla mancata comunicazione del nominativo del direttore dei
lavori e all’omessa trasmissione degli atti inerenti al
rispetto della normativa antisismica.
Tale interpretazione del dato normativo è da ritenersi
preferibile, nonostante qualche isolato orientamento
contrario (pure citato dalla difesa comunale), non solo
perché appare in linea con il principio di tipicità delle
sanzioni amministrative (direttamente discendente dall’art.
97 Cost.), che impone ad ogni misura sanzionatoria il
corrispondente fondamento nella legge, ma anche perché si
profila più adeguata dal punto di vista logico-sistematico,
atteso che per le omissioni contestate alla ricorrente circa
la direzione dei lavori ed in ordine agli oneri di
documentazione ai fini della normativa antisismica sono
appositamente predisposti i sistemi sanzionatori (anche
penali) rispettivamente contemplati dagli artt. 68 e ss. e
dagli artt. 95 e ss. del d.P.R. n. 380/2001.
2.1 Nella spiegata ottica, ossia nella necessità che sia
comunicato (come avvenuto nella fattispecie) solo l’inizio
dei lavori per evitare la sanzione decadenziale di cui
all’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, deve essere letta anche
la prescrizione contenuta al capo 13) del permesso di
costruire, posto che, in virtù del succitato principio di
tipicità, ai provvedimenti amministrativi non è dato
individuare autonome fattispecie sanzionatorie, e quelle
individuate non possono che essere considerate come
giuridicamente irrilevanti e prive di ogni concreto effetto
applicativo.
2.2 In sintesi, il gravato provvedimento decadenziale è
stato emesso per ipotesi sanzionatorie non contemplate dalla
legge.
Né convincono le obiezioni formulate al riguardo dalla
difesa comunale, così riassumibili: a) la decadenza è
sufficientemente motivata con riferimento alle riscontrate
difformità dal permesso di costruire; b) la stessa trova
adeguato supporto normativo nell’art. 14 del regolamento
edilizio comunale, che commina tale sanzione per il caso di
mancata comunicazione del direttore dei lavori.
Invero, è sufficiente replicare quanto segue con riferimento
ad entrambi gli evidenziati profili:
i) già si è chiarito che il provvedimento impugnato, pur
richiamando alcune riscontrate difformità dal permesso di
costruire, individua il proprio fondamento giustificativo
esclusivamente negli omessi adempimenti partecipativi in
merito al nominativo del direttore dei lavori ed alla
documentazione ai fini antisismici: infatti, le ipotesi di
difformità dal titolo edilizio trovano il proprio
trattamento sanzionatorio negli artt. 31-34 e non nell’art.
15 del d.P.R. n. 380/2001;
ii) l’art. 14 del regolamento edilizio comunale, recante alcune
fattispecie speciali di decadenza della licenza/permesso di
costruire (tra cui quella collegata alla mancata
comunicazione del direttore dei lavori), essendo entrato in
vigore nel lontano giugno 1973, in una cornice legislativa
ben diversa da quella attuale, deve intendersi
implicitamente abrogato dall’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001,
che ha regolato l’intera materia della decadenza del
permesso di costruire attraverso la rimodulazione delle
singole ipotesi sanzionatorie.
3. Alla luce di quanto esposto, appare conclamata
l’illegittimità del gravato provvedimento di decadenza per
violazione del principio di tipicità delle sanzioni
amministrative e dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, con la
conseguenza che il ricorso deve essere accolto con
l’annullamento di tale atto, assorbite in ogni caso le
rimanenti censure meno invasive quivi non esaminate (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 02.11.2016 n. 5026 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
determinare il periodo di
realizzazione degli abusi la relativa dimostrazione
costituisce onere della parte che ha commesso l’abuso.
Si è affermato, infatti, che ricade sul privato l'onere
della prova in ordine alla ultimazione delle opere edilizie,
in quanto soltanto l'interessato può fornire inconfutabili
atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione
di un manufatto.
In difetto di tali prove resta pertanto integro il potere
dell'amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso e il
suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
---------------
1.7 Analogamente infondato è il secondo motivo con il quale
si contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione e
del diniego di annullamento in autotutela, in quanto a
parere della ricorrente il Comune non avrebbe considerato la
nuova data di ultimazione dei lavori, così come individuata
in un periodo successivo al 1996.
1.8 Sul punto è dirimente constatare come la ricorrente non
abbia fornito, nemmeno a seguito del proponimento del
presente ricorso, una prova certa sulla data di ultimazione
dei lavori, essendosi limitata, al contrario, ad addurre
dichiarazioni contrastanti prive di un qualunque riscontro
probatorio.
1.9 Nessun elemento è possibile desumere dalla
documentazione fotografica in atti che, oltre ad essere
stata allegata per la prima volta all’istanza di
annullamento in autotutela del 02.08.2016, non è
suscettibile di raggiungere il grado di certezza
indispensabile per determinare il periodo di realizzazione
degli abusi, circostanza quest’ultima la cui dimostrazione
costituisce onere della parte che ha commesso l’abuso (Cons.
Stato Sez. VI, 24.05.2016, n. 2179 e Cons. Stato Sez. VI,
27.07.2015, n. 3666).
2. Si è affermato, infatti, che ricade sul privato l'onere
della prova in ordine alla ultimazione delle opere edilizie,
in quanto soltanto l'interessato può fornire inconfutabili
atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione
di un manufatto.
2.1 In difetto di tali prove resta pertanto integro il
potere dell'amministrazione di negare la sanatoria
dell'abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione
demolitoria (Consiglio di Stato, sezione IV, 29.05.2014, n.
2782)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 02.11.2016 n. 1577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce orientamento consolidato che i
parcheggi disciplinati dalla legge “Tognoli” -disposizione a
carattere eccezionale, non estensibile anche alle aree
agricole- possono essere realizzati solamente all’interno
delle aree urbane.
---------------
2.5 E’ infondato, da ultimo, anche il quarto motivo, in
quanto costituisce orientamento consolidato che i parcheggi
disciplinati dalla legge “Tognoli” -disposizione a carattere
eccezionale, non estensibile anche alle aree agricole, come
quella in esame (in questo senso TAR Toscana, 19.12.2000,
n. 2533)- possono essere realizzati solamente all’interno
delle aree urbane
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 02.11.2016 n. 1577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
onere del privato fornire la prova
della data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica
Amministrazione non può materialmente accertare quale fosse
la situazione degli edifici dell'intero territorio a una
certa data, mentre il privato è normalmente in grado di
esibire idonea documentazione comprovante lo stato
dell'opera prima degli interventi eseguiti su di essa.
L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di
un abuso edilizio incombe sull'interessato, non
sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione.
Ai sensi dell'art. 63, comma 1 e dell'art. 64, comma 1
c.p.a., spetta al ricorrente l'onere della prova in
relazione a circostanze che rientrano nella sua piena
disponibilità e la prova circa il tempo di ultimazione delle
opere edilizie deve essere posta sul privato, dato che solo
l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti
o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un
manufatto.
---------------
È incontestato che vi sia assenza di un titolo abilitativo.
Non si dà alcuna prova, né principio di prova del fatto che
l’abuso edilizio sia risalente nel tempo.
Sarebbe stato
onere del privato fornire la prova della data di ultimazione
dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può
materialmente accertare quale fosse la situazione degli
edifici dell'intero territorio a una certa data, mentre il
privato è normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante lo stato dell'opera prima degli
interventi eseguiti su di essa (cfr.: Tar Molise
Campobasso I, 13.03.2015 n. 107).
L'onere di fornire la prova
dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe
sull'interessato, non sull'Amministrazione, la quale, in
presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che
la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai
sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti,
il provvedimento di demolizione.
Ai sensi dell'art. 63,
comma 1 e dell'art. 64, comma 1 c.p.a. spetta al ricorrente
l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano
nella sua piena disponibilità e la prova circa il tempo di
ultimazione delle opere edilizie deve essere posta sul
privato, dato che solo l'interessato può fornire gli
inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell'epoca di realizzazione di un manufatto (cfr.: Tar
Campania Napoli IV, 03.02.2015 n. 748)
(TAR Molise,
sentenza 28.10.2016 n. 442 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla
estensione del diritto di accesso nei confronti di società a
partecipazione pubblica che provvedono alla gestione di
pubblici servizi è sufficiente richiamare il consolidato
orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale l'accesso
agli atti del gestore del servizio pubblico, pur quando essi
sono disciplinati dal diritto privato e comportano la
giurisdizione ordinaria, «consente il perseguimento delle
medesime finalità connesse all'accesso agli atti
dell'amministrazione (e c'è una più diffusa conoscenza dei
processi decisionali, lo stimolo a comportamenti ispirati ai
canoni di diligenza, buona fede e correttezza, ad una
deflazione delle controversie): vi è l'interesse pubblico
all'effettuazione di scelte corrette da parte del gestore,
quando esse siano finalizzate all'organizzazione efficiente
ed alla qualità del servizio»".
---------------
Come noto, l’accesso ai documenti amministrativi costituisce
“principio generale dell’attività amministrativa”, al fine
di favorire la partecipazione dei cittadini alla gestione
della cosa pubblica e di assicurare l’imparzialità e la
trasparenza dell’azione amministrativa (art. 22, comma 2, L.
241/1990).
Sono pertanto accessibili, in linea di principio, “tutti i
documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) che siano
detenuti da una pubblica amministrazione e che concernano
attività di pubblico interesse, “indipendentemente dalla
natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d). Sono sottratte
all’accesso solo le categorie di documenti tassativamente
previste dall’art. 24.
In base alla disciplina contenuta negli artt. 22 e ss. L n.
241/1990, il diritto di accesso può esercitarsi anche
rispetto a documenti di natura privatistica in quanto
l’attività amministrativa, soggetta all’applicazione dei
principi di imparzialità e di buon andamento, è
configurabile non solo quando l’Amministrazione esercita
pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando
essa persegue le proprie finalità istituzionali e provvede
alla cura concreta di pubblici interessi mediante
un’attività sottoposta alla disciplina dei rapporti tra
privati.
Va aggiunto che con l’entrata in vigore del D.Lgs.
14.03.2013, n. 33, gli obblighi di trasparenza a carico
delle pubbliche amministrazioni sono stati generalizzati e
rafforzati con l’affermazione del principio di trasparenza,
intesa quale “accessibilità totale delle informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche
amministrazioni”, nella prospettiva di assicurare “forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art.
1).
Non costituisce ragione ostativa all’accesso la circostanza
che la conoscenza dei documenti richiesti possa interferire
con la tutela della riservatezza dei terzi, quando l’accesso
venga esercitato al fine di “curare e difendere i propri
interessi giuridici”, finalità rispetto alla quale la tutela
della riservatezza dei terzi è recessiva, secondo quanto
previsto dal citato art. 24, comma 7.
Le esigenze di riservatezza che possono impedire l’accesso
rilevano limitatamente ai documenti in cui- vengono in
rilievo dati “sensibili” o “giudiziari” dei
controinteressati, nei sensi tassativamente precisati
dall’art. 4, comma 1, lettere c)-e) del D.Lgs. n. 196/2003.
Quanto alla prova della “necessarietà” della conoscenza dei
documenti per curare e difendere i propri interessi
giuridici essa deve essere dimostrata su basi meramente
presuntive, in relazione, cioè, all’“utilità” che il
richiedente potrebbe presumibilmente ricavare dalla
conoscenza dei documenti richiesti, da valutarsi in
relazione alla situazione giuridica sottesa alla domanda di
accesso e all’interesse dedotto dagli istanti.
---------------
La legge subordina l’accessibilità del documento
amministrativo ad un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
L’interesse (diretto, concreto ed attuale) è riferito al
documento del quale si chiede l’ostensione; la
“corrispondenza” è da intendersi invece quale nesso di
strumentalità o anche semplicemente connessione con una
situazione giuridica che l’ordinamento protegge attraverso
la concessione di strumenti di tutela (non importa se essi
siano giurisdizionali od amministrativi).
Come chiarito da consolidata giurisprudenza “La norma non
richiede per l’ostensibilità del documento la pendenza di un
giudizio, o la dichiarazione di volerlo proporre, né a
fortiori autorizza valutazioni in ordine alla concreta
utilità del documento rispetto alle ragioni difensive
dell’istante, non foss’altro perché spesso è la stessa
amministrazione ad essere indicata quale responsabile della
lesione della posizione giuridica che l’istante vuol
tutelare, sicché lasciare all’amministrazione il sindacato
sull’utilità ed efficacia del documento in ordine all’esito
della causa, significherebbe dare ad una parte del giudizio
il dominio della causa”.
---------------
Occorre distinguere tra attività legale anche esterna che si
inserisce in un procedimento e quella che invece viene
svolta nell’ambito del contenzioso.
Mentre nel primo caso il documento in cui si concreta
l’attività legale anche esterna si inserisce nell’ambito di
una istruttoria endoprocedimentale e confluisce nel
provvedimento finale di tal che, fermi restando i rapporti
di riservatezza tra l’autore del parere e l’Amministrazione
che se ne serve, il documento frutto di tale attività legale
esterna è soggetto all’accesso perché oggettivamente
correlato ad un procedimento. Nel secondo caso,
invece, i pareri legali -espressi nell’ambito di un
contenzioso in corso- sono espressione della stessa
posizione della P.A., la quale esercitando il proprio
diritto di difesa protetto costituzionalmente, deve poter
usufruire di una tutela non inferiore a quella di un
qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento con esclusione
dunque dall’accesso.
Ne deriva che sono coperti da segreto professionale gli
scritti defensionali e i pareri extraprocedimentali degli
avvocati, a salvaguardia della strategia processuale
dell’ente pubblico, il cui ambito non si estende anche agli
atti e ai contratti che l’amministrazione abbia
eventualmente adottato sulla scorta di quegli scritti e di
quei pareri.
---------------
... per l'accertamento ai sensi dell’art. 116 c.p.a., della
illegittimità del silenzio-rigetto serbato dalla Ba.
s.p.a. Servizi Ambientali sull’istanza di accesso del
20.04.2016 alla documentazione relativa alla definizione del
contenzioso ex lavoratori interinali e/o a termine.
...
7. Vanno preliminarmente trattate le eccezioni di ammissibilità sollevate
dalla società resistente.
7.1 La Ba. spa eccepisce, in particolare, l’irricevibilità
per essere stato il ricorso proposto quando ancora non era
decorso il termine concesso per il riscontro dell’istanza e,
dunque, prima della formazione del silenzio rifiuto.
In proposito, il Collegio ritiene di poter superare
l’eccezione, prescindendo anche dalla valutazione della
rinotifica del 09.06.2016 effettuata nei confronti di alcuni
dei controinteressati, atteso il perdurare dell’inerzia
della società resistente protratto ben oltre i termini per
la formazione del silenzio rigetto, non risultando l’istanza
riscontrata nemmeno in corso di causa.
7.2. Parimenti infondata è l’eccezione secondo cui
legittimato passivo al ricorso sarebbe il Comune di
Barletta.
In disparte l’atteggiamento inerte del Comune, intimato e
non costituito nel presente giudizio, emerge che gli atti
richiamati nella Delibera n. 20/2016, oggetto dell’istanza
di accesso, o sono stati emessi da organi della società
resistente o sono relativi a questioni che comunque la
vedono direttamente interessata e dei quali non si può
ragionevolmente escludere la detenzione.
7.3. Sulla estensione del diritto di accesso nei confronti
di società a partecipazione pubblica che provvedono alla
gestione di pubblici servizi è sufficiente richiamare il
consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal
Collegio, ai sensi del quale l'accesso agli atti del gestore
del servizio pubblico, pur quando essi sono disciplinati dal
diritto privato e comportano la giurisdizione ordinaria,
«consente il perseguimento delle medesime finalità connesse
all'accesso agli atti dell'amministrazione (e c'è una più
diffusa conoscenza dei processi decisionali, lo stimolo a
comportamenti ispirati ai canoni di diligenza, buona fede e
correttezza, ad una deflazione delle controversie): vi è
l'interesse pubblico all'effettuazione di scelte corrette da
parte del gestore, quando esse siano finalizzate
all'organizzazione efficiente ed alla qualità del
servizio»" (Cons Stato, AD. Pl. n. 4 del 22.04.1999,
Cons. St., Sez. III, sentenza del 10.03.2015, n. 1226;
Cons. St., Ad. Pl. n. 5 del 05.09.2005; Cons. St., sez.
IV, 05.09.2009, n. 4645).
8. Superate le questioni preliminari, il Collegio ritiene di
dover delineare i limiti entro cui ai ricorrenti può essere
riconosciuto il diritto di accesso, escludendo espressamente
i pareri legali e gli atti defensionali relativi ai
contenziosi pendenti tra la Ba. s.p.a. e i terzi
controinteressati.
8.1. Come noto, l’accesso ai documenti amministrativi
costituisce “principio generale dell’attività
amministrativa”, al fine di favorire la partecipazione dei
cittadini alla gestione della cosa pubblica e di assicurare
l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa
(art. 22, comma 2, L. 241/1990).
Sono pertanto accessibili, in linea di principio, “tutti i
documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) che siano
detenuti da una pubblica amministrazione e che concernano
attività di pubblico interesse, “indipendentemente dalla
natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d). Sono sottratte
all’accesso solo le categorie di documenti tassativamente
previste dall’art. 24.
8.2. In base alla disciplina contenuta negli artt. 22 e ss.
L n. 241/1990, il diritto di accesso può esercitarsi anche
rispetto a documenti di natura privatistica in quanto
l’attività amministrativa, soggetta all’applicazione dei
principi di imparzialità e di buon andamento, è
configurabile non solo quando l’Amministrazione esercita
pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando
essa persegue le proprie finalità istituzionali e provvede
alla cura concreta di pubblici interessi mediante
un’attività sottoposta alla disciplina dei rapporti tra
privati (cfr. 06.12.1999, n. 2046; vedi anche A.P. n.
4/1999).
8.3. Va aggiunto che con l’entrata in vigore del D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, gli obblighi di trasparenza a carico
delle pubbliche amministrazioni sono stati generalizzati e
rafforzati con l’affermazione del principio di trasparenza,
intesa quale “accessibilità totale delle informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche
amministrazioni”, nella prospettiva di assicurare “forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art.
1).
8.4 Non costituisce ragione ostativa all’accesso la
circostanza che la conoscenza dei documenti richiesti possa
interferire con la tutela della riservatezza dei terzi,
quando l’accesso venga esercitato al fine di “curare e
difendere i propri interessi giuridici”, finalità rispetto
alla quale la tutela della riservatezza dei terzi è
recessiva, secondo quanto previsto dal citato art. 24, comma
7.
Le esigenze di riservatezza che possono impedire l’accesso
rilevano limitatamente ai documenti in cui- vengono in
rilievo dati “sensibili” o “giudiziari” dei controinteressati, nei sensi tassativamente precisati
dall’art. 4, comma 1, lettere c)-e) del D.Lgs. n. 196/2003.
8.5. Quanto alla prova della “necessarietà” della conoscenza
dei documenti per curare e difendere i propri interessi
giuridici essa deve essere dimostrata su basi meramente
presuntive, in relazione, cioè, all’“utilità” che il
richiedente potrebbe presumibilmente ricavare dalla
conoscenza dei documenti richiesti, da valutarsi in
relazione alla situazione giuridica sottesa alla domanda di
accesso e all’interesse dedotto dagli istanti.
9. Sulla base dei richiamati principi è possibile procedere
con l’esame del ricorso in epigrafe.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno dedotto la titolarità
di un rapporto sostanziale riconducibile al contenzioso
promosso da soggetti che hanno intrattenuto rapporti di
lavoro con la società resistente ed hanno prospettato
l’eventualità che i documenti richiesti contengano
informazioni utili alla tutela delle proprie pretese
nell’ambito dei giudizi tuttora pendenti con la Ba.
spa.
Sussiste pertanto l’interesse qualificato all’accesso,
ritenendo il Collegio di poter prescindere
dall’approfondimento delle peculiarità di ciascun giudizio
pendente, sulle quali, peraltro, la società resistente ha
genericamente argomentato.
La legge subordina l’accessibilità del documento
amministrativo ad un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
L’interesse (diretto, concreto ed attuale) è riferito al
documento del quale si chiede l’ostensione; la
“corrispondenza” è da intendersi invece quale nesso di
strumentalità o anche semplicemente connessione con una
situazione giuridica che l’ordinamento protegge attraverso
la concessione di strumenti di tutela (non importa se essi
siano giurisdizionali od amministrativi).
Come chiarito da consolidata giurisprudenza “La norma non
richiede per l’ostensibilità del documento la pendenza di un
giudizio, o la dichiarazione di volerlo proporre, né a
fortiori autorizza valutazioni in ordine alla concreta
utilità del documento rispetto alle ragioni difensive
dell’istante, non foss’altro perché spesso è la stessa
amministrazione ad essere indicata quale responsabile della
lesione della posizione giuridica che l’istante vuol
tutelare, sicché lasciare all’amministrazione il sindacato
sull’utilità ed efficacia del documento in ordine all’esito
della causa, significherebbe dare ad una parte del giudizio
il dominio della causa” (Cons. Stato, sez. IV, sent. 429
del 29.01.2014).
Tra gli atti menzionati nella Delibera G.C. n. 20/2016
figurano atti relativi alla dotazione organica e al
fabbisogno del personale per lo svolgimento del pubblico
servizio da parte della società resistente, oltre a quelli
specificamente riferiti ai contenziosi pendenti. Ne consegue
che l’aver prestato attività lavorativa presso tale ente,
unitamente alla pendenza dei contenziosi, rappresentano
circostanze idonee a sostanziare un interesse giuridicamente
rilevante e collegato ai documenti oggetto dell’istanza, sia
pure con delle doverose precisazioni.
10. Occorre soffermarsi, in particolare, sui pareri legali,
pure richiamati nel corpo della Delibera G.C. 20/2016.
Secondo consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, occorre distinguere tra attività legale
anche esterna che si inserisce in un procedimento e quella
che invece viene svolta nell’ambito del contenzioso. Mentre
nel primo caso il documento in cui si concreta l’attività
legale anche esterna si inserisce nell’ambito di una
istruttoria endoprocedimentale e confluisce nel
provvedimento finale di tal che, fermi restando i rapporti
di riservatezza tra l’autore del parere e l’Amministrazione
che se ne serve, il documento frutto di tale attività legale
esterna è soggetto all’accesso perché oggettivamente
correlato ad un procedimento. Nel secondo caso, invece, i
pareri legali -espressi nell’ambito di un contenzioso in
corso- sono espressione della stessa posizione della P.A.,
la quale esercitando il proprio diritto di difesa protetto
costituzionalmente, deve poter usufruire di una tutela non
inferiore a quella di un qualsiasi altro soggetto
dell’ordinamento con esclusione dunque dall’accesso (cfr.,
ex multis, TAR Lombardia, Milano, sezione III, 18.07.2013, n. 1914; TAR Sicilia, Palermo sezione I,
09.01.2012, n. 14).
Ne deriva che sono coperti da segreto professionale gli
scritti defensionali e i pareri extraprocedimentali degli
avvocati, a salvaguardia della strategia processuale
dell’ente pubblico, il cui ambito non si estende anche agli
atti e ai contratti che l’amministrazione abbia
eventualmente adottato sulla scorta di quegli scritti e di
quei pareri (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.2012, n.
734).
10.1. Nel caso in esame, l’accesso ai pareri legali
richiamati nella D.G.C. 20/2016 non può essere consentito,
in quanto deve escludersi il loro carattere “endoprocedimentale”,
atteso che essi non sono richiamati nella motivazione di un
provvedimento finale (conclusivo del procedimento) ma
unicamente in una delibera della Giunta Comunale (n. 20 del
2016) volta ad approvare la successiva formalizzazione delle
proposte transattive.
10.2. In questi limiti, pertanto, il diniego di accesso
formatosi a seguito del silenzio rigetto è legittimo a va
confermato.
11. Manifestamente inammissibile è la domanda, posta
incidenter tantum, di dichiarazione di illegittimità
della Delibera G.C. 20/2016, attesa la genericità e la
irritualità della sua formulazione.
12. Conclusivamente, alla stregua di tutte le considerazioni
fin qui svolte, ritiene il Collegio che il ricorso debba
essere parzialmente accolto.
12.1. La Ba. spa va, pertanto, condannata a consentire
l’accesso ai documenti richiesti con l’istanza del 18.04.2016, fatta eccezione per i pareri legali e gli eventuali
atti defensionali coperti da segreto professionale.
13. L’accesso, nei limiti consentiti, dovrà avvenire
mediante visione ed estrazione di copia integrale degli atti
richiesti, nel termine di giorni 30 dalla comunicazione
della presente sentenza o dalla sua notificazione se
anteriore (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 11.10.2016 n. 1193 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ignorare le risposte del giudice d’appello costa
ventimila euro. Civile. Per abuso del processo.
Paga ventimila euro alla controparte per abuso del processo
chi insiste in un ricorso palesemente infondato, ignorando
le risposte del giudice d’appello.
Secondo la Corte di
Cassazione - Sez. III civile (sentenza
29.09.2016 n. 19285) per aumentare l’effetto
deterrente, alla sanzione da corrispondere alla parte
vittoriosa il cliente potrebbe unire, previo un accertamento
su chi ha fatto le scelte abusive, un’azione di
responsabilità nei confronti del difensore.
Per la Suprema corte nel caso in cui la responsabilità
sussista e l’assistito decida di farla valere nei confronti
del suo avvocato, verrebbe a configurarsi un logico
completamento «del presidio posto dal legislatore a una
corretta utilizzazione dello strumento processuale». Per i
giudici della terza sezione civile così facendo si
metterebbe in atto una specie di sanzione per via indiretta
a carico della parte tecnica su iniziativa del cliente. Così
facendo si raggiungerebbe un pieno effetto
deflattivo/preventivo a tutela dell’adeguato funzionamento
del sistema giurisdizionale.
Per la Cassazione l’azione verso il legale è in linea con lo
scopo dell’articolo 96 terzo comma del Codice di procedura
civile, che affida all’iniziativa privata la riscossione
delle somme dovute dall’avversario alla parte vittoriosa. La
stessa Corte costituzionale (sentenza 152 del 2016) ha
giudicato infondata la questione di illegittimità relativa
alla previsione di destinare la sanzione alla controparte
anziché allo Stato per l’offesa recata alla giurisdizione.
Una previsione che non è in contraddizione con la natura
pubblicistica dell’istituto, ma anzi rafforza l’effetto
deterrente dello strumento deflattivo perché il privato può
recuperare le somme dovute in virtù della condanna, con
tempi più rapidi e con minori oneri a carico dello Stato.
La Cassazione non lascia scampo al legale con un’altra
sentenza (19272) depositata ieri. Nel bocciare la tesi,
considerata “surreale”, esposta in un ricorso
“incomprensibile”, la Suprema corte sottolinea che il
ricorrente -e per lui il suo difensore per il quale
risponde- o conosceva l’insostenibilità dei motivi e
malgrado questo li ha proposti, facendo scattare l’abuso del
processo, oppure non ne era al corrente e dunque ha tenuto
una condotta gravemente colposa.
Nell’ultima ipotesi
mancherebbe, infatti, la giusta diligenza richiesta a chi è
chiamato ad adempiere una prestazione professionale
altamente qualificata, come quella dell’avvocato in generale
e del cassazionista in particolare. In questo caso la
sanzione, parametrata alle spese dovute alla parte
vittoriosa, è decisamente più contenuta: solo 3 mila euro (articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
«104» anche al convivente. L’esclusione limita il diritto
del disabile a ricevere assistenza.
Welfare. La Corte costituzionale boccia la norma che
consente di assentarsi dal lavoro solo a coniuge e parenti.
I tre giorni di permesso al mese che
consentono di assentarsi dal lavoro per assistere familiari
con gravi handicap devono essere riconosciuti anche al
convivente more uxorio e non solo al coniuge e ai parenti e
affini.
Con la sentenza
23.09.2016 n. 213 la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità dell’articolo 33, comma 3, della
legge 104/1992 che individua i fruitori dei permessi, in
quanto non include i conviventi oltre ai familiari più
stretti.
La questione affrontata dalla Consulta è stata sollevata dal
tribunale di Livorno chiamato ad esprimersi sul caso di una
lavoratrice dipendente che si è vista negare il permesso per
assistere il convivente more uxorio affetto dal morbo di
Parkinson. Questo perché la legge 104/1992 prevede quali
fruitori dei permessi il coniuge o i parenti e affini entro
il secondo grado (o entro il terzo grado se i genitori o il
coniuge hanno almeno 65 anni, o siano deceduti o invalidi).
Punto centrale dell’argomentazione dei giudici
costituzionali è che l’interesse primario della legge
104/1992, così come del congedo straordinario previsto dalla
legge 151/2001, è «assicurare in via prioritaria la
continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si
realizzino in ambito familiare».
Inoltre il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32
della Costituzione, rientra a sua volta tra i diritti
inviolabili garantiti dall’articolo 2 della Carta
costituzionale, sia in quanto il soggetto come singolo che
nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalità. Per quanto riguarda queste ultime, per
formazione sociale si deve intendere ogni forma di comunità.
Di conseguenza, per la Consulta «è irragionevole che
nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del
permesso mensile retribuito…non sia incluso il convivente
della persona con handicap in situazione di gravità».
L’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 risulta
illegittimo rispetto all’articolo 3 della Carta
costituzionale non tanto perché non equipara coniuge e
convivente, che hanno una condizione comunque diversa, ma
perché costituisce una contraddizione logica dato che la
norma vuole tutelare il diritto alla salute psico-fisica del
disabile, finalità che in questo caso costituisce l’elemento
che unifica la situazione di assistenza da parte del coniuge
o del familiare di secondo grado e quella fornita dal
convivente.
Escludere quest’ultimo dai beneficiari dei permessi
comporta, secondo i giudici, un’irragionevole compressione
del diritto, costituzionalmente presidiato, del disabile a
ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita
«non in ragione di una carenza di soggetti portatori di un
rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di
un dato normativo rappresentato dal mero rapporto di
parentela o di coniugio».
L’articolo 33, così come oggi formulato, viola quindi
l’articolo 3 della Costituzione per irragionevolezza e gli
articoli 2 e 32 per il diritto alla salute psico-fisica del
disabile grave sia come singolo che nella società. La Corte
costituzionale, nel riconoscere il ruolo del convivente lo
equipara a quello della prima cerchia dei soggetti che, in
via ordinaria, possono fruire dei permessi, cioè il coniuge,
il parente o l’affine entro il secondo grado
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.09.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Per
le impugnazioni il termine parte dal deposito ufficiale.
Sezioni unite. La doppia data in sentenza.
Il termine lungo per l’impugnazione di una sentenza inizia a
decorrere nel momento in cui questa viene ufficialmente
depositata in cancelleria. Atto che coincide con
l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico e con
l’attribuzione del numero identificativo: una fase a partire
dalla quale la sentenza è conoscibile per gli interessati
che possono richiederne una copia autentica.
Con la
sentenza 22.09.2016 n. 18569 le
Sezz. unite civili della Corte di Cassazione tornano
sull’annoso problema creato dalla «sciagurata consuetudine»,
come definita dal Supremo collegio, di apporre una doppia
data in calce alle sentenze civili. Non una mera
irregolarità, ma una «patologia procedimentale grave» come
affermato, questa volta dalla Consulta, che ha prodotto non
poche conseguenze sulle posizioni giuridiche degli
interessati, oltre a spaccare la giurisprudenza, malgrado la
Cassazione si sia espressa più volte sul punto, anche a
Sezioni unite.
I giudici tornano a farlo, avanzando però il «fondato
sospetto che non sia sufficiente una stigmatizzazione in
sede processuale di tale deprecabile consuetudine, ma si
rendano forse necessari interventi ulteriori, quanto meno di
carattere disciplinare». Le Sezioni unite si muovono sul
solco tracciato dalla sentenza della Consulta (n.3 del 2015)
che, pur giudicando non fondata la questione di legittimità
contenuta nell’ordinanza di rinvio, ha delineato la strada
per l’interprete.
Il vincolo è individuato nella
conoscibilità dell’esistenza della sentenza e del suo
deposito. Riconoscendo la decorrenza del termine per
impugnare solo a partire dal compimento delle attività
idonee ad assicurare la possibilità di venire a conoscenza
della sentenza.
Azioni che le Sezioni unite individuano nell’inserimento
nell’elenco cronologico e nell’attribuzione del numero
identificativo. Nel caso in cui ci sia un’impropria
scissione tra il momento del deposito e quello di
pubblicazione, il giudice tenuto ad accertare la
tempestività dell’impugnazione deve verificare il momento in
cui la sentenza è divenuta conoscibile (articolo Il Sole 24 Ore del
23.09.2016). |
TRIBUTI: Riduzione
Imu senza denuncia. Il proprietario ha diritto allo sconto
se la situazione è nota al Comune. I giudici di legittimità
rendono più agevole il taglio del 50% nel caso di immobili
inagibili.
Il contribuente ha diritto alla riduzione a metà dell’Ici/Imu
in presenza di fabbricato inagibile o inabitabile, anche se
non ha presentato la denuncia, se tale situazione era già a
conoscenza del Comune.
Il principio è stato
affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. V civile- nella
sentenza 21.09.2016 n. 18453.
Ai fini Ici, l’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo
504/1992, prevedeva una duplice procedura, alternativa, per il
riconoscimento dell’agevolazione. In particolare, il
proprietario poteva richiedere una perizia all’ufficio
tecnico comunale, con spese a suo carico, oppure presentare
dichiarazione sostitutiva di notorietà, attestante la
sussistenza dei requisiti di legge. In entrambe le ipotesi,
e ancor più ovviamente nella seconda di esse, il
contribuente doveva presentare la denuncia annuale,
allegando idonea documentazione.
Questa disciplina non è mutata con l’Imu, poiché il Dl n.
201/2011 ha recepito le regole Ici. I principi affermati dalla
Cassazione devono dunque ritenersi tuttora validi.
Nella controversia in questione, il soggetto passivo si era
autoridotto l’imposta, omettendo di denunciare lo stato di
inagibilità al Comune, il quale aveva pertanto emesso avviso
di accertamento per l’imposta non versata.
La difesa della parte privata si era incentrata, tra
l’altro, sulla circostanza che l’effettiva situazione
dell’immobile era in realtà comunque nota al Comune. La
Cassazione ha accolto le ragioni del contribuente, ponendosi
in linea di continuità con i precedenti in termini, a
partire dalla sentenza n. 23531/2008.
È certamente degna di
rilievo l’argomentazione utilizzata dalla Suprema Corte che
ha fatto leva sui principi dello Statuto dei diritti del
contribuente. Al contribuente, infatti, non può essere
richiesta documentazione già in possesso della pubblica
amministrazione. Si tratta peraltro di previsione espressiva
del più ampio principio di collaborazione e buona fede nei
rapporti tra Fisco e contribuente.
La Corte ha quindi concluso che nessuna altra prova avrebbe
dovuto essere richiesta al contribuente. Il criterio di
diritto affermato appare sacrosanto e ineccepibile. Non sono
chiare però le circostanze concrete che dimostrerebbero
l’intervenuta conoscenza dello stato di inagibilità
dell’immobile. Si menziona in proposito la dichiarazione di
variazione catastale in unità collabente presentata però dal
soggetto passivo nel 2007, a distanza di anni da quello di
competenza (2002). Viene anche richiamata una Ctu disposta
nel corso del giudizio di appello riferito all’annualità
2001, ma anche questa non si vede come possa comprovare il
fatto che il Comune non potesse non sapere dell’inagibilità
già dall’anno d’imposta.
In altri precedenti, le conclusioni della Corte sono state
più lineari. Si trattava infatti di situazioni in cui il
Comune aveva emesso ordinanza di sgombero dell’immobile.
Forse la strada più semplice, sotto il profilo giuridico, è
quella di qualificare l’onere della dichiarazione Ici/Imu
non come un elemento costitutivo del diritto
all’agevolazione ma, più semplicemente, come un obbligo
informativo. Il mancato assolvimento di tale obbligo,
pertanto, non dovrebbe pregiudicare il diritto
all’agevolazione ma tutt’al più comporterà l’irrogazione di
una sanzione di carattere formale (articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mail
conservate con l’informativa. I dipendenti devono sapere che
i messaggi vengono registrati sul server aziendale.
Privacy. La Cassazione sottolinea la necessità di
autorizzazione preventiva, consenso individuale e
informazioni per i controlli.
È illegittima l’installazione di apparecchi e software che
consentono controlli approfonditi sulla posta elettronica,
sulle telefonate e sulla navigazione internet del
lavoratore, se non sono preventivamente esperite le
procedure di autorizzazione (sindacale o amministrativa)
previste dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori e se
non sono rispettati gli ulteriori adempimenti previsti dal
codice della privacy.
La Corte di
Cassazione - Sez. I civile, con la
sentenza 19.09.2016 n. 18302 (tratta da
www.diritto-lavoro.com),
ricostruisce le procedure che devono essere applicate per
poter validamente utilizzare strumenti informatici di
controllo a distanza sull’attività dei lavoratori. La
decisione riguarda la versione dell’articolo 4 dello statuto
vigente prima delle modifiche introdotte dal Dlgs 151/2015
(che ha sottratto gli “strumenti di lavoro” alle procedure
di autorizzazione, con una formulazione che lascia aperti
alcuni interrogativi applicativi), ma in larga misura è
valida anche alla nuova versione della norma.
La vicenda interessa l’Istituto poligrafico zecca dello
Stato, destinatario di un provvedimento del Garante della
privacy con il quale è stato vietato il trattamento dei dati
personali dei dipendenti, relativi alla navigazione
internet, all’utilizzo della posta elettronica e alle utenze
telefoniche chiamate dai dipendenti.
Il sistema informatico utilizzato dal datore di lavoro,
infatti, non si limitava a vietare la navigazione su alcuni
specifici siti internet (quelli non inerenti all’attività
istituzionale dell’ente) ma memorizzava ogni accesso o
tentativo di accesso alla rete, e conservava queste
informazioni per un periodo variabile (da 6 a 12 mesi).
Quanto alla posta elettronica, il software conservava sul
server aziendale tutti i messaggi spediti e ricevuti dal
dipendente, consentendo la loro visualizzazione agli
amministratori del sistema. Anche le telefonate erano
oggetto di registrazione e conservazione, quanto meno con
riferimento ai numeri chiamati.
Il Garante non ha contestato questi sistemi nella loro
interezza ma, piuttosto, ha censurato il fatto che fossero
stati installati e utilizzati senza il rispetto delle
procedure previste dalla legge: quindi, senza l’accordo
sindacale (o, in mancanza, l’autorizzazione amministrativa)
previsto dallo statuto dei lavoratori, senza l’acquisizione
del consenso individuale e senza il rilascio delle
informative previste dal codice della privacy.
La Cassazione rigetta l’impugnazione proposta contro tale
provvedimento. La Corte ricorda, innanzitutto, che
l’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, per costante
giurisprudenza, trova applicazione ogni volta che un
apparecchio consente il controllo a distanza dell’attività
dei dipendenti, anche quando il datore di lavoro deve
attuare i cosiddetti controlli difensivi.
Spetta al datore di lavoro, osserva la Corte, organizzarsi
in modo tale da prevenire comportamenti illeciti dei
dipendenti mediante l’utilizzo di strumenti leciti, evitando
di svolgere un controllo diretto della prestazione
lavorativa.
Se questo controllo non può essere evitato, anche solo come
effetto indiretto, gli impianti sono utilizzabili solo
previo accordo con le rappresentanze sindacali o, in
mancanza, previa autorizzazione amministrativa.
Queste autorizzazioni, prosegue la sentenza, costituiscono
lo strumento indispensabile individuato dal legislatore per
bilanciare i diritti del lavoratore (in primo luogo, quello
alla riservatezza) e il diritto del datore di lavoro a
proteggere i beni aziendali.
La violazione di tale principio comporta, secondo la Corte,
anche la violazione dell’articolo 8 dello statuto, che vieta
lo svolgimento di indagini sulle opinioni e sulla vita
personale del lavoratore, anche se i dati raccolti non sono
in concreto utilizzati.
La sentenza ribadisce inoltre l’importanza dell’informativa
prevista dall’articolo 13 del codice della privacy: la
mancata consegna di tale documento, infatti, rende
illegittimo il trattamento e la conservazione dei messaggi
di posta elettronica sul server aziendale (articolo Il Sole 24 Ore del
20.09.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: È
un reato il car-tuning in piazza. Rumori.
Ascoltare musica a tutto volume in auto è un reato. E la
punizione è un’ammenda salata.
La Corte di Cassazione - Sez. III penale (sentenza
15.09.2016 n. 38135) conferma la condanna per il
reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone (articolo 659 del Codice penale) a carico di un
fanatico del cosiddetto car-tuning: una passione per le
modifiche alla propria auto che può anche indurre a comprare
apparecchi stereo, fino a 1500 watt, che “sparano” le
note a un’intensità di suono che supera la soglia della
tollerabilità.
Inutile, per il patito del car-tuning “musicale” che
aveva fatto ricorso contro le sentenze di merito che lo
avevano già condannato, affermare che non c’erano le prove
che fosse stato davvero lui ad alzare a dismisura il volume
della radio, anche ricostruendo un quadro non del tutto
inedito per molte città italiane: una piazza gremita di
giovani dediti alla «frequente pratica del tunig» e
molte auto con le portiere aperte.
In questo contesto il ricorrente riteneva che mancasse una
prova certa che ad alzare il volume fosse stato lui. Ma
questa censura comportava valutazioni di merito fuori dal
raggio d’azione della Cassazione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.09.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
del lavoro, responsabilità ampia per il subappaltatore.
Appalti. In caso di ispezione.
In materia di sicurezza nei cantieri, la mera presenza del
appaltatore-committente in occasione di un accesso ispettivo
non costituisce ingerenza nell’esecuzione dei lavori
eseguiti dal subappaltante (che avrebbe potuto comportare
come conseguenza il mantenimento della qualifica di datore
di lavoro), né tale ingerenza potrà desumersi dalla presenza
di un socio preposto al cantiere.
A chiarirlo è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con
la
sentenza
15.09.2016 n. 37229,
la quale ha accolto il ricorso del responsabile di
un’impresa e del coordinatore per la sicurezza, già
condannati in primo grado per la violazione del Decreto
legislativo 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza
sui luoghi di lavoro).
La vicenda trae origine da una visita degli ispettori di una
Direzione provinciale del lavoro in un cantiere edile in cui
operavano varie ditte specializzate. In particolare, gli
ispettori avevano riscontrato delle irregolarità nella
predisposizione del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc),
in materia di controllo sull’idoneità dei piani operativi di
sicurezza (Pos) di alcune imprese nel cantiere, nonché delle
carenze nelle misure di sicurezza a salvaguardia dei
lavoratori e dei terzi.
Il controllo di legittimità della sentenza del Tribunale,
sollecitato dalla difesa del titolare dell’impresa
ricorrente, non permetteva però alla Corte di cassazione di
chiarire quale fosse in realtà la posizione di quest'ultima
anche perché le imputazioni a suo carico riguardavano una
responsabilità diretta, laddove era certo che i lavori
venivano eseguiti da personale di altra ditta sulla base di
un contratto di appalto. Neppure chiari risultavano,
inoltre, i contenuti o l’esistenza di eventuale deleghe in
materia di sicurezza da parte della società committente o
appaltante nei confronti della società subappaltatrice.
La Cassazione ha comunque ribadito che in tema di
prevenzione infortuni l’appaltatore che procede a
subappaltare l’esecuzione delle opere, non perde
automaticamente la qualifica di datore di lavoro (ai fini
degli obblighi della sicurezza), neppure se il subappalto
riguardi formalmente la totalità dei lavori, qualora
eserciti un continua e costante ingerenza nella prosecuzione
dei lavori.
Per quanto concerne la nomina del coordinatore per la
progettazione e per l’esecuzione dei lavori, essa non
esonera il committente e il responsabile dei lavori da
responsabilità per la redazione del piano di sicurezza (e di
coordinamento) e del fascicolo per la protezione dai rischi,
nonché dalla vigilanza sul coordinatore medesimo in ordine
all’effettivo svolgimento dell'attività di coordinamento e
controllo sull'osservanza delle disposizioni contenute nel
piano di sicurezza e coordinamento.
Del resto è ormai giurisprudenza costante -ricordano i
giudici di legittimità- che la posizione di garanzia
attribuita al committente e al responsabile dei lavori sia
molto ampia in quanto comprende l’esecuzione dei controlli
non solo formali, ma soprattutto sostanziali, in materia di
sicurezza, per cui spetta al committente verificare che i
coordinatori per la progettazione e l’esecuzione dell’opera
adempiano agli obblighi incombenti su costoro nella materia
della sicurezza.
La sentenza impugnata è stata quindi annullata dalla Corte
di cassazione con rinvio al giudice di merito perché
verifichi le reali responsabilità degli imputati, tenuto
conto della formulazione delle contestazioni risultanti dal
capo di imputazione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.09.2016).
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In tema di prevenzione degli infortuni, l’appaltatore che
provvede a subappaltare l’esecuzione delle opere non perde
automaticamente la qualifica di datore di lavoro, neppure se
il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori,
continuando, invece, ad essere responsabile del rispetto
della normativa antinfortunistica qualora eserciti una
continua ingerenza nella prosecuzione dei lavori.
Ne consegue che, in tali ipotesi, non si può prescindere dal
verificare se l’appaltatore, nell’ambito del contratto di
appalto dallo stesso stipulato, abbia esercitato o meno una
concreta ingerenza sulla esecuzione dei lavori appaltati ad
altri, essendo necessario accertare se questi abbia o meno
esercitato i poteri decisionali, presupposto della qualifica
stessa di datore di lavoro
(tratta da www.dirittifondamentali.it). ...
...
2.1 Come precisato dalla giurisprudenza di questa Corte
Suprema "In tema di prevenzione degli infortuni,
l'appaltatore che procede a subappaltare l'esecuzione delle
opere non perde automaticamente la qualifica di datore di
lavoro, neppure se il subappalto riguardi formalmente la
totalità dei lavori, ma continua ad essere responsabile del
rispetto della normativa antinfortunistica, qualora eserciti
una continua ingerenza nella prosecuzione dei lavori"
(così Sez. 3^ 24.10.2013 n. 50996, Gerna, Rv. 258299): ne
consegue che occorre sempre verificare se nell'ambito del
contratto di appalto l'appaltatore eserciti o meno una
ingerenza sulla esecuzione dei lavori appaltati ad altri.
...
3.1 In aggiunta a tali considerazioni, le quali certamente
incidono sulla sussistenza della prova della responsabilità
dell'odierno ricorrente va ricordato che la giurisprudenza
di questa Corte Suprema è concorde nel ritenere che "In
tema di infortuni sul lavoro, la nomina del coordinatore per
la progettazione o per l'esecuzione dei lavori non esonera
il committente ed il responsabile dei lavori da
responsabilità per la redazione del piano di sicurezza e del
fascicolo per la protezione dai rischi, nonché dalla
vigilanza sul coordinatore medesimo in ordine all'effettivo
svolgimento dell'attività di coordinamento e controllo
sull'osservanza delle disposizioni contenute nel piano di
sicurezza e di coordinamento" (Sez. 4^ 28.05.2013 n.
37738, Gandolla ed altri, Rv. 256636), precisandosi anche
che la posizione di garanzia attribuita al committente ed al
responsabile dei lavori è molto ampia in quanto ricomprende
l'esecuzione di controlli non solo formali, ma soprattutto
sostanziali in materia di prevenzione, sicurezza del luogo
di lavoro e salvaguardia della salute dei lavoratori, con la
conseguenza che spetta al committente verificare che i
coordinatori per la progettazione e l'esecuzione dell'opera
adempiano agli obblighi incombenti su costoro nella materia
in esame (Sez. 4^ 12.02.2015 n. 14012, Zambelli, Rv.
263014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendente
in pensione solo con la motivazione. Ragioni da specificare
se c’è la richiesta di restare.
Pubblico impiego. In caso di anzianità massima contributiva
ma sotto il limite di età.
Rimane in servizio il dipendente
pubblico che, pur avendo raggiunto l’anzianità massima
contributiva di 40 anni, non ha ancora compiuto 65 anni di
età.
Il principio è posto dalla Corte di Cassazione -Sez. lavoro-
con la
sentenza 14.09.2016 n. 18099,
e riguarda, nel caso specifico, un dipendente comunale.
L’ente pubblico, in altri termini, non può collocare
forzatamente a riposo il lavoratore limitandosi ad affermare
che lo stesso «possiede i requisiti soggettivi ed
oggettivi»: è invece necessaria un’adeguata, specifica
motivazione per disattendere la richiesta di trattenimento
in servizio.
Il datore di lavoro pubblico ha la “facoltà” (articolo 72,
comma 11, del Dl 112/08) di risolvere il rapporto di lavoro
al raggiungimento dell’anzianità massima contributiva di 40
anni, ma tale facoltà deve esercitarsi, su richiesta
dell’interessato e prima del compimento dell’età massima
anagrafica, avendo riguardo alle complessive esigenze
dell’amministrazione, considerandone la struttura e la
dimensione, applicando principi di buona fede, correttezza,
imparzialità e buon andamento.
La materia è stata approfondita e innovata con l’articolo 1,
comma 5, del Dl 90/2014, secondo il quale la predetta
facoltà di risolvere il rapporto di lavoro, in presenza
della massima anzianità contributiva, non necessita di
ulteriori motivazione se vi siano appositi criteri
applicativi in un atto generale di organizzazione interna,
sottoposto al visto degli organi di controllo.
Coordinando le previsioni dei Dl 112/2008, 78/2009 e 90/2014
con la circolare n. 2/2015 del ministro Madia per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, il quadro
attuale esige che il recesso abbia una specifica
motivazione, che può essere specifica sul dipendente oppure
limitarsi a richiamare appositi criteri applicativi
deliberati in atti generali di organizzazione. Ad esempio,
potranno adottarsi i principi di armonizzazione nell’esodo
di uomini e donne, che evitano discriminazioni, non bastando
generici riferimenti a risparmi gestionali, al pubblico
interesse o un richiamo alla necessità di riorganizzare la
dotazione organica e ridurre il costo del personale.
Il dipendente che voglia rimanere in servizio pur avendo
maturato l’anzianità massima contributiva di 40 anni, può
quindi pretendere dall’amministrazione un’idonea
motivazione, sulla quale poi poter esercitare un controllo
di legalità circa l’appropriatezza della facoltà di
risoluzione esercitata rispetto alla finalità di
riorganizzazione perseguita dall’ente datore di lavoro. A
differenza dei casi normali di recesso (rimesso alla volontà
di chi recede), i dipendenti della pubblica amministrazione,
pur avendo un contratto di matrice privatistica, possono
cioè esigere che il datore di lavoro pubblico rispetti i
principi di legalità, imparzialità e buon andamento.
La Cassazione sottolinea quindi che l’ente pubblico datore
di lavoro deve operare per ottenere la più efficace ed
efficiente organizzazione. Si completa in questo modo, con
riguardo alle soglie massime di anzianità (che restano i 65
anni, estensibili a 70 per i vertici di sanità, magistratura
e docenza universitaria) un sistema di garanzia: va tutelato
il diritto a raggiungere l’età pensionabile, vanno evitati i
trattamenti discriminatori basati sull’età dei dimissionati
(Cass. 06.06.2016 n. 11595) e ora si impone una specifica
motivazione in atti organizzativi per superare la volontà
del dipendente che voglia rimanere in servizio fino a 65
anni.
Non mancano peraltro le eccezioni, come il recente Dl 168/16
per i vertici della magistratura (fino a 72 anni), mentre il
record spetta ad un alto magistrato, rimasto a Piazza Cavour
(in doveroso risarcimento di carriera) fino ad 83 anni
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.09.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
a termine e Pa, limiti d’obbligo.
Corte Ue. Ribadita la necessità per gli Stati di contenere
numero e durata complessiva dei rinnovi.
È illegittima la normativa di uno Stato
membro che non limita il numero e la durata complessiva dei
rinnovi del contratto a tempo determinato:
questo il principio affermato dalla Corte di giustizia
europea, Sez. X, con la
sentenza
14.09.2016 - causa C-16/15.
Tale principio si pone in assoluta continuità con la
giurisprudenza precedente, e non sembra destinato a scalfire
in alcun modo la tenuta della normativa italiana (Dlgs
81/2015), in quanto questa contiene già tutti quei limiti che
la Corte individua come imprescindibili ai fini della
compatibilità con il diritto comunitario (il contratto non
può eccedere la durata massima di 36 mesi, compresi proroghe
e rinnovi, e questi non possono essere in numero superiore a
5).
La vicenda riguarda la legislazione sul lavoro a tempo
determinato vigente in Spagna; una lavoratrice impiegata da
una struttura sanitaria pubblica mediante diversi contratti
(un primo rapporto seguito da sette rinnovi, per una durata
complessiva di oltre 4 anni) a tempo determinato, dopo la
fine dell’ultimo rapporto, ha avviato una causa invocando
l'eccessiva reiterazione dei contratti.
Il giudice spagnolo ha sollevato presso la Corte di
giustizia europea la questione della compatibilità della
legislazione spagnola con il diritto comunitario, nella
parte in cui questa non limita i rinnovi dei contratti a
termine.
La Corte di giustizia ricorda, innanzitutto, che la clausola
5, punto 1, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a
termine persegue lo scopo specifico di limitare il ripetuto
ricorso ai contratti o ai rapporti di lavoro a tempo
determinato.
Per contenere questo fenomeno, l’accordo quadro individua
tre possibili strumenti: l’individuazione di ragioni
obiettive che giustificano il rinnovo, la fissazione di un
tetto di durata massima complessiva dei contratti e, infine,
la un limite massimo al numero dei rinnovi.
Gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità in
merito a tali misure (possono scegliere di utilizzarne solo
una, oppure usarle in combinazione tra loro), a condizione
che sia effettivamente perseguito l’obiettivo di contenere
in maniera efficace il numero di rinnovi.
Nel caso della legislazione spagnola, la Corte di giustizia
europea ritiene che questi elementi non siano presenti, per
diversi motivi.
Tale normativa non autorizza l’uso indiscriminato dei
contratti a termine, perché ne consente l’utilizzo soltanto
per esigenze di natura temporanea, congiunturale o
straordinaria; tuttavia, la stessa disciplina risulta
lacunosa, nella parte in cui consente di utilizzare i
rapporti a tempo determinato per la realizzazione, in modo
permanente e duraturo, di compiti nel servizio sanitario che
appartengono alla normale attività del servizio ospedaliero
ordinario.
Questa lacuna si sostanzia, secondo la sentenza, nella
mancata fissazione di un limite massimo al numero (oppure
alla durata) dei rinnovi: tale carenza contraddice, infatti,
la premessa sulla quale si fonda l’accordo quadro
comunitario, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro
a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei
rapporti di lavoro (articolo Il Sole 24 Ore del
15.09.2016).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
1) La clausola 5, punto 1, lettera a),
dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso
il 18.03.1999, che compare in allegato alla direttiva
1999/70/CE del Consiglio, del 28.06.1999, relativa
all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo
determinato, deve essere interpretata nel senso che essa
osta a che una normativa nazionale, quale quella oggetto del
procedimento principale, sia applicata dalle autorità dello
Stato membro interessato in modo tale che:
– il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi,
nel settore pubblico sanitario, sia considerato giustificato
da «ragioni obiettive» ai sensi di tale clausola poiché
detti contratti sono basati su disposizioni di legge che
consentono il rinnovo per assicurare la prestazione di
specifici servizi di natura temporanea, congiunturale o
straordinaria, mentre, in realtà, tali esigenze sono
permanenti e durature;
– non esista alcun obbligo per l’amministrazione competente di
creare posti strutturali che mettano fine all’assunzione di
personale con inquadramento statutario occasionale e che gli
sia permesso di destinare i posti strutturali creati
all’assunzione di personale «a termine», in modo tale che la
situazione di precarietà dei lavoratori perduri, mentre lo
Stato interessato conosce un deficit strutturale di posti
per il personale di ruolo in tale settore.
2) La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato, che compare in allegato alla direttiva 1999/70,
deve essere interpretata nel senso che essa non si oppone,
in via di principio, ad una normativa nazionale che impone
che il rapporto contrattuale termini alla data prevista dal
contratto a tempo determinato e che si proceda alla
liquidazione di ogni pagamento, senza che ciò escluda
un’eventuale nuova nomina, a condizione che detta normativa
non sia di natura tale da rimettere in causa l’obiettivo o
l’efficacia pratica di tale accordo quadro, circostanza che
spetta al giudice del rinvio verificare.
3) La Corte di giustizia dell’Unione europea è
manifestamente incompetente a rispondere alla quarta
questione proposta dallo Juzgado de lo
Contencioso-Administrativo n. 4 de Madrid (tribunale
amministrativo n. 4 di Madrid, Spagna). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Recesso,
committente in prima linea. Somministrazione irregolare.
L’impugnazione stragiudiziale del licenziamento non va
proposta all’appaltatore.
Se un contratto di appalto viene
riqualificato come somministrazione irregolare di
manodopera, tutti gli atti di gestione compiuti
dall’appaltatore illecito devono intendersi riferiti al
soggetto che in concreto ha utilizzato la prestazione
lavorativa; pertanto, in caso di licenziamento intimato
dall’appaltatore, l’impugnazione stragiudiziale dell’atto di
recesso deve essere proposta (a pena di decadenza) nei
confronti del committente che agisce di fatto come datore di
lavoro, e non verso il somministratore.
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza
13.09.2016 n. 17969) con questo principio di diritto
ricostruisce il meccanismo di impugnazione che deve essere
applicato da parte di un lavoratore quando questi intende
rivendicare la costituzione di un rapporto di lavoro verso
un soggetto diverso dal datore apparente e, allo stesso
tempo, vuole impugnare il licenziamento intimato nei suoi
confronti dal datore di lavoro formale.
La controversia sottoposta al vaglio di legittimità era
stata avviata da un lavoratore licenziato da un’impresa
appaltatrice. Il lavoratore, dopo il licenziamento, aveva
impugnato in via stragiudiziale il recesso solo nei
confronti del soggetto che formalmente agiva come datore di
lavoro, senza coinvolgere il committente. Successivamente lo
stesso lavoratore aveva chiesto l’accertamento della natura
irregolare dell’appalto e la conseguente costituzione di un
rapporto di lavoro a carico del committente. Questa domanda
veniva accolta, mentre veniva respinta la richiesta,
formulata dallo stesso lavoratore, di condannare il
committente alla reintegra nel posto di lavoro.
Il tribunale di primo grado (con sentenza confermata in
appello) motivava il rigetto di questa domanda invocando
l’articolo 27 del decreto legislativo 276/2003; applicando
la norma al caso di specie, secondo i giudici di merito, il
lavoratore era decaduto dall’azione di impugnazione del
licenziamento verso il committente, non avendo provveduto ad
impugnare in via stragiudiziale l’atto nei confronti di tale
soggetto nel termine di 60 giorni(l’impugnativa era stata
inviata solo all’appaltatore, poi riconosciuto come falso
datore di lavoro dalla sentenza).
La sentenza della Cassazione conferma le pronunce di merito,
osservando che il testo della legge Biagi (in maniera
difforme da quello della previgente disciplina, la legge
1369/1960) stabilisce espressamente che il soggetto che
utilizza le prestazioni di un dipendente somministrato (sia
in maniera regolare, tramite un’agenzia per il lavoro
autorizzata dal Ministero, sia in maniera irregolare,
tramite un appalto illecito) subentra attivamente e
passivamente in tutti gli atti di gestione compiuti dal
somministratore.
Con riferimento al licenziamento, osserva la Corte di
cassazione, questo principio ha come diretta conseguenza che
il recesso intimato dall’appaltatore va impugnato in via
stragiudiziale nei confronti dell’utilizzatore effettivo
della prestazione lavorativa entro i normali termini di
legge (60 giorni dalla comunicazione del recesso); se questa
impugnazione viene meno, il lavoratore decade dal diritto ad
agire verso il soggetto che agisce formalmente come
committente ma, dopo l’azione giudiziale, viene riconosciuto
come datore di lavoro reale
(articolo
Il Sole 24 Ore del 14.09.2016). |
APPALTI: Per
gli appalti non valgono le vecchie fatture. Consiglio di
Stato. Per dimostrare i requisiti servono i certificati di
avvenuta esecuzione.
In caso di appalti di servizi e
forniture, i requisiti di capacità tecnica ed economica non
possono essere dimostrati con le fatture dei servizi svolti
in passato, ma occorre presentare le certificazioni di
avvenuta esecuzione che le stazioni appaltanti inseriscono
direttamente nella Banca dati nazionale dei contratti
pubblici, a maggior ragione se è espressamente richiesto dal
bando di gara.
Il Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 13.09.2016 n. 3859, afferma l’inderogabilità del Dl 5/2012 di
“semplificazione” degli appalti pubblici, quindi il divieto
per gli operatori economici di utilizzare le sole fatture di
esecuzione dei servizi prestati per le pubbliche
amministrazioni anche dopo il 01.07.2014 -data di
entrata in vigore della banca dati (comma 1, articolo 6-bis, Dlgs 163/2006)-, come concesso in via transitoria
dall’allora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici
(determina 111/2012).
In questo caso i giudici amministrativi hanno bocciato il
ricorso di un Comune che, in una gara per l’affidamento
quadriennale di un servizio di assistenza su scuolabus,
aveva ritenuto legittimo concedere ad un’impresa, poi
risultata aggiudicataria, la possibilità di presentare una
documentazione alternativa nella fase di controllo sul
possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa -articolo 48, Codice appalti–
nonostante nel bando di gara (dicembre 2015) avesse ammesso
soltanto l’uso delle certificazioni.
Il collegio, in linea con l’Adunanza plenaria (sentenza n.
9/2014), ha ribadito che «non è consentito
all’amministrazione disapplicare le norme del bando di
gara», cioè un «vincolo» che essa stessa si è data per gli
affidamenti, e che per la stessa ragione «nemmeno la
concorrente può sottrarsi alle norme di lex specialis,
quand’anche richiesta in tal senso dalla stazione
appaltante, perché l’effetto disapplicativo di norme
regolanti la procedura di gara si realizzerebbe comunque».
I citati indirizzi dell’Autorità nazionale anticorruzione,
spiega la sentenza, avevano in realtà riconosciuto agli
operatori solo una «facoltà…in via transitoria» per la fase
di avvio del sistema informatico “Avcpass”, per cui, anche
in questo caso, il Comune avrebbe dovuto attenersi alla
«prescrizione puntuale» fissata nel bando e «senza
consentire alternative»: i concorrenti sorteggiati in fase
di controllo avrebbero dovuto cioè fornire –entro i 10
giorni imposti dalla normativa– esclusivamente la richiesta
«certificazione rilasciata dai committenti con indicazione
di periodi ed importi di svolgimento dei servizi».
La sentenza precisa che quando, come accaduto nel caso in
esame, la prova di questi requisiti non è data con «l’unico
mezzo per essi previsto», l’esclusione dell’impresa -con
incasso della cauzione provvisoria e segnalazione all’Anac–
è «l'unica conseguenza applicabile» poiché l’ormai
riconosciuta perentorietà del termine concesso per
rispondere alla richiesta della stazione appaltante non
ammette “sanatorie”. Al contrario, infatti, la prova tardiva
violerebbe «il canone generale della par condicio tra i
concorrenti» (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
3. Deve innanzitutto premettersi che per pacifica
giurisprudenza il bando di gara costituisce un vincolo dal
quale anche la stazione appaltante non può sottrarsi, nel
senso che al pari dei concorrenti anche l’amministrazione è
inderogabilmente tenuta ad applicare le disposizioni che
essa stessa si è data per la procedura di affidamento (cfr.
Cons. Stato, Ad. plen. 25.04.2014, n. 9, § 6.2.1).
Venendo quindi al caso di specie, come correttamente
evidenziato dal Tribunale amministrativo, i sopra richiamati
artt. 12 e 13 del bando di gara prevedono che la commissione
giudicatrice procede tra l’altro ad «effettuare il sorteggio
pubblico di cui all’art. 48 del D. Lgs.vo n. 163/2006», e
che i concorrenti sorteggiati devono a tal fine «presentare
la certificazione rilasciata
dai committenti con indicazione di periodi ed importi di
svolgimento dei servizi»; l’art. 12 prevede inoltre che nel
caso in cui «tale prova non sia fornita (…)si procederà
all’esclusione del concorrente dalla gara».
E’ quindi pacifico, perché non contestato nemmeno dal Comune
di Recco o dall’aggiudicataria C.S.P., che a fronte della
richiesta di comprova dei requisiti quest’ultima si è
limitata a produrre le fatture relative ai servizi
precedentemente svolti, mediante inserimento nella banca
dati nazionale dei contratti pubblici ex 6-bis, comma 1,
d.lgs. n. 163 del 2006 (sistema informatico “AVCpass”,
gestito dall’Autorità nazionale anticorruzione), in luogo
della certificazione prevista dall’art. 13 del bando sopra
richiamata.
4. Ciò precisato, al fine di confutare le censure contenute
nel presente appello deve innanzitutto essere ritenuta
irrilevante la circostanza che la richiesta di comprova non
indicasse come mezzi di prova la sola certificazione, ma
anche le fatture relative ai servizi, perché come poc’anzi
chiarito, non è consentito all’amministrazione disapplicare
le norme del bando di gara.
Del pari, per la medesima
ragione nemmeno la concorrente può sottrarsi alle norme di
lex specialis, quand’anche richiesta in tal senso dalla
stazione appaltante, perché l’effetto disapplicativo di
norme regolanti la procedura di gara si realizzerebbe
comunque.
5. Tanto meno in contrario possono essere richiamati gli
“indirizzi” dell’Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (ora appunto Autorità nazionale anticorruzione)
formulati nella determinazione n. 111 del 20.12.2012.
In realtà, la facoltà prevista da questo provvedimento di
inserire nella banca dati ex art. 6-bis del codice di cui al
d.lgs. n. 163 del 2006 è riconosciuta in via transitoria
agli operatori economici nella fase di avvio del sistema
informatico applicativo AVCpass (art. 6, comma 2, della
determinazione).
Per contro, nel caso di specie, il Comune
di Recco aveva dettato nel bando di gara una prescrizione
puntuale, che imponeva ai concorrenti sorteggiati ai sensi
del più volte citato art. 48 del previgente codice di
comprovare i requisiti di capacità tecnica ed economica
mediante «certificazione rilasciata dai committenti con
indicazione di periodi ed importi di svolgimento dei
servizi», senza consentire alternative.
6. Inoltre, poiché in modo altrettanto puntuale l’art. 48 è
richiamato dal bando (art. 12), perde di rilievo ogni
assunto fondato sull’inapplicabilità alla procedura di
affidamento in contestazione delle disposizioni contenute
nel codice, al di là di quelle richiamate dall’art. 20, in
quanto avente ad oggetto un servizio previsto dall’allegato
II B.
Sul punto deve precisarsi che le censure del Comune di Recco
traggono origine dal fatto che il giudice di primo grado ha
ritenuto che l’esclusione della C.S.P. si fonda sulla
violazione degli artt. 41 e 42 d.lgs. n. 163 del 2006.
Tali critiche sono fondate, ma esse colgono un errore
motivazionale che non incide sulla conformità a diritto
della decisione finale e che è dunque suscettibile di
correzione in appello. Infatti, l’esclusione di quest’ultima
concorrente avrebbe dovuto essere disposta non già in
applicazione di tali disposizioni, ma dell’art. 48 e degli
artt. 12 e 13 del bando di gara, dal cui combinato era
consentita modalità alternativa che quella di comprovare il
possesso dei requisiti speciali di partecipazione mediante
l’esibizione dei certificati rilasciati dal committente.
7. L’esclusione dalla gara è poi l’unica conseguenza
applicabile all’ipotesi, poi concretamente verificatasi, in
cui la prova dei requisiti non sia stata data con l’unico
mezzo per essi previsto, senza possibilità di
regolarizzazione mediante il potere di soccorso istruttorio
della stazione appaltante.
Infatti, in forza del richiamo all’art. 48 operato dal
bando, è applicabile il termine di 10 giorni previsto da
tale disposizione ed il carattere perentorio che la costante
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ad esso
attribuito (da ultimo: Sez. V, 15.03.2016, n. 1032), con
conseguente impossibilità di sanare le conseguenze derivanti
dal suo infruttuoso decorso integrale.
Peraltro -come sopra rilevato- lo stesso bando di gara, ed
in particolare l’art. 12, prevede in modo espresso
l’esclusione nel caso in cui non sia fornita del possesso
dei requisiti di capacità tecnica ed economica mediante
attraverso certificazioni dei servizi di cui al successivo
art. 13.
Pertanto, la sanzione espulsiva non discende solo
da una disposizione di legge che il Comune odierno
appellante ha ritenuto di richiamare in via di autovincolo,
ma anche attraverso un’ulteriore ed autonoma previsione
inserita nella normativa di gara.
8. Alla luce di tutto quanto sinora rilevato, le conseguenze
derivanti dallo spirare del termine assegnato per la
comprova dei requisiti non possono nemmeno essere sanate in
considerazione del fatto che l’aggiudicataria ha poi
prodotto le certificazioni attestanti lo svolgimento dei
servizi dichiarati ai fini della propria qualificazione
nella procedura di gara in contestazione.
Se infatti fosse
consentita la prova tardiva ne risulterebbe violato il
canone generale della par condicio tra i concorrenti ad una
procedura di affidamento di contratti pubblici, alla cui
realizzazione è preordinato il carattere perentorio del
termine previsto dal comma 1 del più volte citato art. 48
(sul punto si vedano i principi affermati, con riguardo al
comma 2 di tale disposizione, in estensione rispetto a
quelli già invalsi con riguardo al comma 1, dall’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato, nella sentenza 25.02.2014, n. 10).
9. In conseguenza del rigetto dell’appello il Comune di
Recco è tenuto a rifondere all’originaria ricorrente
Fo.Ex.. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E' senz’altro vero che l’accesso agli atti non
può costituire uno strumento di controllo generalizzato
sull’operato della P.a. come lo stesso legislatore si è
premurato di rimarcare con l’art. 24, comma 3, della legge
241/1990.
Una finalità di questo tipo, oltre ad essere estranea alla
logica della trasparenza nei rapporti tra singolo cittadino
e potere pubblico -che il legislatore ha inteso rafforzare
attraverso l’istituto dell’accesso agli atti e ai documenti
della P.a.– finisce con il compromettere l’interesse ad un
corretto ed efficiente funzionamento degli uffici e degli
organi della P.a., messo in pericolo dalla necessità di
soddisfare ad oltranza istanze di accesso agli atti
indiscriminate.
E’, però, altrettanto vero che l’accesso agli atti è
disegnato, nel nostro ordinamento giuridico, quale
“principio generale dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e
la trasparenza” (art. 22, comma 2, della legge 241/1990).
Per questa sua particolare fisionomia, l’accesso agli atti
non può soffrire limitazioni che non siano espressamente
contemplate dalla legge.
---------------
La P.a. destinataria di un’istanza di accesso agli atti non
può esercitare alcun sindacato forte sulla pertinenza dei
documenti richiesti in visione o in copia, rispetto ad un
giudizio in corso, nel cui ambito il richiedente ha
necessità di difendersi.
Essa deve limitarsi a verificare se gli atti o i documenti
richiesti appartengano, eventualmente, alle categorie
sottratte all’accesso in via legislativa o regolamentare, ai
sensi dell’art. 24 della legge 241/1990; o, ancora, può
legittimamente ricusare di offrire in visione atti il cui
accesso viene richiesto al conclamato fine di esercitare
attività meramente ostruzionistica o emulativa (il che
accade, ad es., quando si chiede di accedere a tutti gli
atti senza alcuna specificazione ulteriore).
Ma, al di fuori delle ipotesi citate, a fronte di un’istanza
di accesso agli atti motivata dalla necessità di difendere
in giudizio una propria situazione giuridica soggettiva, non
spetta alla P.a. la valutazione circa l’estraneità o meno di
quegli atti o dei documenti richiesti al giudizio medesimo.
---------------
... per l'annullamento del rifiuto opposto dal Comune di
Miggiano e, nella specie, dal Responsabile del Settore
Tecnico e del SUAP, ing. An.Ca., a mezzo nota prot. n. 5857
del 12.11.2015, trasmessa a mezzo pec del 16.12.2105,
sull'istanza di accesso agli atti del 29.10.2015, acquisita
agli atti dell'ente in data 30.10.2015, prot. n. 5678
...
Il ricorso è fondato ed è meritevole di accoglimento.
Il Collegio ritiene di dover precisare che è senz’altro vero
che l’accesso agli atti non può costituire uno strumento di
controllo generalizzato sull’operato della P.a., come ha
sottolineato la difesa del Comune di Miggiano, e come lo
stesso legislatore si è premurato di rimarcare con l’art.
24, comma 3, della legge 241/1990.
Una finalità di questo tipo, oltre ad essere estranea alla
logica della trasparenza nei rapporti tra singolo cittadino
e potere pubblico -che il legislatore ha inteso rafforzare
attraverso l’istituto dell’accesso agli atti e ai documenti
della P.a.– finisce con il compromettere l’interesse ad un
corretto ed efficiente funzionamento degli uffici e degli
organi della P.a., messo in pericolo dalla necessità di
soddisfare ad oltranza istanze di accesso agli atti
indiscriminate.
E’, però, altrettanto vero che l’accesso agli atti è
disegnato, nel nostro ordinamento giuridico, quale “principio
generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la
trasparenza” (art. 22, comma 2, della legge 241/1990).
Per questa sua particolare fisionomia, l’accesso agli atti
non può soffrire limitazioni che non siano espressamente
contemplate dalla legge.
In questa prospettiva, il Collegio reputa di dover rimarcare
che la P.a. destinataria di un’istanza di accesso agli atti
non può esercitare alcun sindacato forte sulla pertinenza
dei documenti richiesti in visione o in copia, rispetto ad
un giudizio in corso, nel cui ambito il richiedente ha
necessità di difendersi.
Essa deve limitarsi a verificare se gli atti o i documenti
richiesti appartengano, eventualmente, alle categorie
sottratte all’accesso in via legislativa o regolamentare, ai
sensi dell’art. 24 della legge 241/1990; o, ancora, può
legittimamente ricusare di offrire in visione atti il cui
accesso viene richiesto al conclamato fine di esercitare
attività meramente ostruzionistica o emulativa (il che
accade, ad es., quando si chiede di accedere a tutti gli
atti senza alcuna specificazione ulteriore).
Ma, al di fuori delle ipotesi citate, a fronte di un’istanza
di accesso agli atti motivata dalla necessità di difendere
in giudizio una propria situazione giuridica soggettiva, non
spetta alla P.a. la valutazione circa l’estraneità o meno di
quegli atti o dei documenti richiesti al giudizio medesimo.
Questa considerazione risulta corroborata, con riguardo al
caso di specie, dall’elevato tecnicismo del giudizio che si
svolge innanzi al G.a., nel corso del quale è ben possibile,
come nella specie, contrastare l’iniziativa assunta con il
ricorso principale, a mezzo di domanda incidentale che
amplia considerevolmente il thema decidendum.
La ricorrente ha, peraltro, correttamente spiegato che la
necessità di accedere agli atti concernenti il possesso, da
parte della Sa.Sa. s.r.l., dei requisiti strutturali sorgeva
in vista della predisposizione di un ricorso incidentale,
ossia di una domanda finalizzata non solo a contrastare le
affermazioni in fatto e in diritto della ricorrente
principale, ma anche al fine di contestare in radice la sua
partecipazione alla gara.
In uno scenario di questo genere, è illogico ammettere che
la P.a. possa stabilire se un atto o un documento richiesto
con istanza di accesso sia o meno pertinente ad un giudizio
già in corso o da incardinare, perché un controllo di questo
tipo comprimerebbe oltre i limiti della ragionevolezza e del
buon senso il diritto di accesso agli atti del cittadino.
Il Comune di Miggiano ha respinto, nella specie, la domanda
di accesso agli atti della ricorrente, sufficientemente
motivata dalla necessità di difendersi in giudizio nei
confronti di altra struttura socio sanitaria, formulando una
indebita valutazione di pertinenza degli atti richiesti al
giudizio stesso.
Un contegno siffatto non è consentito ed è senz’altro
illegittimo.
La nota di risposta del Comune di Miggiano alla richiesta di
accesso agli atti del 30.10.2015 va pertanto annullata.
Consegue da tanto che lo stesso Comune di Miggiano deve
consentire l’accesso agli atti per come richiesto dalla
ricorrente, permettendo l’estrazione di copia dei medesimi,
nel termine di giorni trenta dalla presente decisione (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 12.09.2016 n. 1425 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare
con sole garanzie bancarie. Giochi. Per la Corte Ue la
procedura è legittima.
La Corte di giustizia dell’Unione
Europea chiarisce la differenza tra appalti e concessioni di
servizi, esaminando il ricorso di un imprenditore che
intendeva partecipare alla gara di gestione di agenzie di
gioco.
La
sentenza 08.09.2016
- C-225/15 separa infatti gli appalti di servizi,
oggetto della direttiva 2004/18 e del Dlgs 163/2006, dalle
concessioni di servizi, oggetto della direttiva 2014/24/Ue e
dall’articolo 3, comma 1, lettere ss), Dlgs 50 del 2016.
La differenza è nel corrispettivo, il quale nell’appalto di
servizi è versato direttamente dall’amministrazione
aggiudicatrice al prestatore di servizi. Invece, nel caso di
concessione di servizi, il corrispettivo della prestazione
consiste nel diritto di gestire il servizio, o da solo o
accompagnato da un prezzo. Soprattutto, è diverso il
trasferimento del rischio, il quale nella concessione di
servizi passa a carico dell’impresa. Con questa logica, la
gestione delle sale da gioco è una concessioni di servizi,
perché non viene remunerata dall’amministrazione
aggiudicatrice (lo Stato), ed inoltre perché il
concessionario sopporta integralmente il rischio connesso
all’esercizio dell’attività di raccolta e trasmissione delle
scommesse.
Una seconda questione decisa dalla Corte di Lussemburgo
riguarda la rigidità dei requisiti di capacità economica e
finanziaria per partecipare ad una gara di sale giochi. Le
Finanze, con il “bando Monti” del 2012, richiedeva
attestazioni di affidabilità rilasciate da almeno due
istituti bancari, comprovanti capacità economica e
finanziaria milionaria.
Di norma, le capacità economiche
finanziarie possono essere provate con bilanci e
dichiarazioni concernenti il fatturato globale di vari
esercizi, oltre che con le predette «idonee dichiarazioni
bancarie»: ma nel caso specifico, la delicatezza
dell’attività di raccolta scommesse aveva indotto ad un
bando di gara che chiedeva unicamente dichiarazioni
bancarie. Ai giudici comunitari è stato quindi chiesto, da
parte della magistratura di Palmi che giudicava l’imputato
di un’abusiva sala giochi, se fosse legittimo limitare la
dimostrazione della capacità economiche finanziarie
attraverso i soli canali bancari.
Rispetto alle altre gare (di concessione e di appalto di
servizi) emergeva infatti il dubbio di un’eccessiva rigidità
e quindi di illegittima restrizione della concorrenza.
L’orientamento comunitario è stato favorevole alla tesi del
Governo, ritenendo che la richiesta di proporzionate
garanzie bancarie non eccedesse quanto necessario per
raggiungere l’obiettivo perseguito. Quest’ultimo, nel
settore dei giochi d’azzardo, legittima infatti una
particolare severità, con restrizioni alla libertà di
partecipazione.
Le referenze bancarie, quindi, rimangono
determinanti per l’affidabilità dell’impresa, perché
rispecchiano la qualità dei rapporti in atto, la correttezza
e puntualità nell’adempimento degli impegni assunti,
l’assenza di situazioni passive, e ciò anche se gli
istituti bancari non sono tenuti a fornire elementi sulla
effettiva consistenza economica e finanziaria dei
concorrenti (Consiglio Stato, 5704/2015).
In ogni caso, non basta che l’istituto bancario dichiari che
il soggetto «gode di buona moralità» (Tar Palermo,
14216/2010), perché, come sottolinea Anac (parere
precontenzioso 135/2014) l’istituto di credito dovrebbe
confermare che l’impresa intrattiene rapporti affidati ed ha
capacità economico finanziarie per far fronte agli impegni
scaturenti dalla partecipazione ad una procedura ad evidenza
pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del
09.09.2016).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi e, in particolare, il suo
articolo 47 devono essere interpretati nel senso che una
normativa nazionale che disciplina il rilascio di
concessioni nel settore dei giochi d’azzardo, come quella di
cui trattasi nel procedimento principale, non rientra nel
loro ambito di applicazione.
2) L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso
non osta ad una disposizione nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che impone agli
operatori che intendono rispondere ad una gara diretta al
rilascio di concessioni in materia di giochi e di scommesse
l’obbligo di comprovare la propria capacità economica e
finanziaria mediante dichiarazioni rilasciate da almeno due
istituti bancari, senza ammettere la possibilità di
dimostrare tale capacità anche in altro modo, sempreché la
disposizione di cui trattasi sia conforme ai requisiti di
proporzionalità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte,
circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. |
URBANISTICA:
Il potere di pianificazione territoriale deve
essere correlato ad un concetto di urbanistica che non è
limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei
suoli (relativamente ai tipi di edilizia, distinti per
finalità), ma che è volto a perseguire obiettivi
economico-sociali della comunità locale, in armonico
rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale
solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio
del territorio in relazione alle diverse tipologie di
edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione
contemperata di una pluralità di interessi pubblici che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente
tutelati.
---------------
Avuto riguardo quindi alle caratteristiche e alla valenza
dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa
specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente
su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di
una importante, strategica porzione del territorio comunale
sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in
un più complessivo disegno di governo del territorio da
parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o
meno una tipizzazione del genere di quella richiesta (ndr:
richiesta di approvazione di una variante diretta a veder
realizzato una grande struttura commerciale)
deve essere conforme al complesso di scelte da effettuarsi
nella sede dello strumento urbanistico secondo criteri di
sufficienza e congruità, rispetto alle quali la posizione
del privato, per quanto meritevole in sé di apprezzamento,
si appalesa senz’altro recessiva.
---------------
Le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di
pianificazione urbanistica di carattere generale
costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato
di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed
irragionevolezza.
---------------
4.3. I profili di doglianza dedotti dalla parte appellante
appaiono meritevoli di positivo apprezzamento.
Tutti i motivi accolti in prime cure, infatti, o sono
inammissibili -perché impingono il merito di valutazioni e
scelte di politica urbanistica ampiamente discrezionali al
di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito
previsti dall’art. 134 c.p.a. (cfr. Ad. plen., n. 5 del
2015)– o sono infondati, alla stregua delle risultanze
istruttorie documentali versate in atti.
4.4. Il Collegio deve innanzitutto qui richiamare principi
già espressi dalla giurisprudenza di questa Sezione in
relazione all’esercizio del potere di pianificazione
urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in
tal modo effettuate.
Questa Sezione con sentenza del 10.05.2012 n. 2710
(successivamente riconfermata nelle sue motivazioni) ha già
avuto modo di osservare che il potere di pianificazione
territoriale deve essere correlato ad un concetto di
urbanistica che non è limitato alla disciplina coordinata
della edificazione dei suoli (relativamente ai tipi di
edilizia, distinti per finalità), ma che è volto a
perseguire obiettivi economico-sociali della comunità
locale, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre
comunità territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale
solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio
del territorio in relazione alle diverse tipologie di
edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione
contemperata di una pluralità di interessi pubblici che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente
tutelati (cfr. di recente, Sez. IV, n. 2221 del 2016).
Tanto premesso in linea generale, con riferimento alla
fattispecie all’esame, la richiesta di approvazione di una
variante diretta a veder realizzato una grande struttura
commerciale va interessare una zona del territorio comunale,
quella costituita dall’area dell’ex zuccherificio
particolarmente sensibile per le gestione dell’intero
territorio comunale posta com’è in una posizione strategica
per la città di Fano (alle porte sud ), nei pressi della
foce del fiume Metauro, nelle vicinanze del mare e luogo
altresì di grande valenza ambientale.
Avuto riguardo quindi alle caratteristiche e alla valenza
dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa
specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente
su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di
una importante, strategica porzione del territorio comunale
sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in
un più complessivo disegno di governo del territorio da
parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o
meno una tipizzazione del genere di quella richiesta da
ma.Po. S.r.l. deve essere conforme al complesso di scelte da
effettuarsi nella sede dello strumento urbanistico secondo
criteri di sufficienza e congruità, rispetto alle quali la
posizione del privato, per quanto meritevole in sé di
apprezzamento, si appalesa senz’altro recessiva (Cons.
Stato, Sez. IV, n. 5478 del 2008).
Se così è, tornando alla fattispecie all’esame deve darsi
atto che la motivazione di negare la chiesta variazione di
destinazione, come resa dal Consiglio Comunale di Fano
attraverso le dichiarazioni di voto dei componenti
dell’assemblea consiliare appare rispettosa dei su riportati
principi giurisprudenziali dai quali il Collegio non ha
motivo di discostarsi.
Invero, dalle articolate dichiarazioni di voto costituenti
la motivazione per relationem della delibera per cui
è causa, il Consiglio comunale ha formulato considerazioni
che hanno riguardato due fondamentali aspetti della
disciplina pianificatoria:
a) quello relativo alle problematiche urbanistiche afferenti
l’intero territorio comunale in relazione alle quali,
coerentemente alle impostazioni generali del Piano
l’assemblea comunale ha espresso la volontà di procedere ad
una più generale riconsiderazione della disciplina
riguardante la più vasta zona territoriale costituita
dall’area ex zuccherificio ;
b) quello riguardante la tematica commerciale lì dove ha il
Consiglio comunale ha privilegiato le forme di commercio,
quelle c.d. “di vicinato” rispetto al commercio di
massa, il tutto nell’ambito di una nuova visione
dell’assetto dell’area diretta a promuovere le variegate
valenze del luogo e a superare le esigenze d’impresa.
Ora le valutazioni espresse dall’Organo consiliare non solo
non sono generiche ed apodittiche, ma costituiscono parte
consustanziale di una motivazione “politica”
pienamente consentita oltre ché giustificata perché coerente
con il complesso di scelte urbanistiche interessanti lo
sviluppo di una “significativa” parte del territorio
comunale, rimesse, come tali alla discrezionalità del
massimo organo comunale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 8682
del 2010).
All’uopo è sufficiente richiamare il granitico orientamento
giurisprudenziale per cui le scelte effettuate
dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica
di carattere generale (come quella qui in rilievo)
costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato
di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed
irragionevolezza, qui non rinvenibili (Cons. Stato, Sez. IV,
n. 7492 del 2010).
Infine, vale qui far rilevare come non ricorra una
particolare situazione che abbia creato aspettativa o
affidamento in favore della Società richiedente la
variazione urbanistica in contestazione, non potendo certo
discendere una aspettativa giuridicamente qualificata dalla
interlocuzione infra procedimentale e dalla esistente
destinazione produttiva impressa all’area, come richiesto
dalla Società originariamente ricorrente ed erroneamente
pure sostenuto dal TAR (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. n.
9006 del 2009) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 05.09.2016 n. 3806 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Appalti
con principio di rotazione. Tar di Palermo. Annullato un
contratto per servizi concluso con l’affidatario precedente.
Nelle procedure
negoziate a cui può partecipare un numero limitato di
operatori economici, il principio di rotazione è tutt’altro
che marginale: al contrario, proprio l’accesso “filtrato”
dalla stazione appaltante secondo una propria soglia
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa è una
«garanzia minima» che si concilia con le regole di
trasparenza e concorrenzialità ed è tale da vietare l’invito
anche al gestore uscente pur se idoneo e affidabile.
Anche il TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza
27.07.2016 n. 1916,
interviene nell’ampio dibattito sull’equilibrio tra massima
partecipazione delle imprese e rischio di rendite di
posizione negli appalti pubblici, promuovendo
un’interpretazione «rigorosa» della disciplina sulla
procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando
di gara (comma 6, articolo 57, Dlgs 163/2006, ex Codice
appalti).
Queste norme prevedono la selezione delle aziende «sulla
base di informazioni…desunte dal mercato, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, concorrenza, rotazione», quindi la
scelta di «almeno tre…, se sussistono in tale numero
soggetti idonei».
I giudici hanno così annullato un contratto per la raccolta
e smaltimento dei rifiuti solidi urbani che una centrale
unica di committenza aveva sottoscritto con un precedente
gestore (affidatario con due proroghe) anziché con una delle
altre imprese “invitate”.
Accogliendo la tesi di una di
queste, il Tar ha spiegato che in questi casi la
prescrizione sull’avvicendamento delle ditte con i requisiti
per avere rapporti con la Pa «non è banale o secondario, e
costituisce la garanzia minima affinché possa essere
ritenuta compatibile con le regole di trasparenza e
concorrenzialità, che presidiano il settore degli appalti
pubblici, una procedura che, in sé, contiene significative
deroghe all’ordinario criterio di aggiudicazione degli
appalti».
Ciò, come precisato, pur se parte della
giurisprudenza -non citata, ma tra la più recente si veda
la sentenza del Tar Lazio n. 3319/2016- non ha ritenuto la
rotazione una regola assoluta prevalente che a priori
esclude i gestori uscenti se stata accertata la trasparenza
della procedura selettiva.
Per la Sezione, questo principio «anche dalla piena lettura
della norma…si affianca a quello di trasparenza e di parità
di trattamento, e non può essere eluso per il rispetto degli
altri concorrenti principi che devono essere seguiti», a
maggior ragione in questi casi dove la rotazione «assume un
valore ancor più pregnante a fronte del limitato numero di
ditte». Perciò, anche a voler condividere l'interpretazione
normativa più estensiva, «difficilmente potrebbero essere
ritenute rispettate le garanzie minime previste dalle norme
di legge in materia».
Nella sentenza si è sottolineato che la mancata rotazione
dell’affidatario in queste gare non può essere dettata
dall’insuccesso della pubblicazione dell’avviso sull’albo
pretorio: è sempre illegittima sia perché questa pubblicità
ha una «limitata efficacia» sia perché la Pa, dopo l’invito
e prima dell’affidamento, conosce il numero delle
manifestazioni d’interesse ricevute. Nel caso in questione,
oltre a quella dell’ex gestore non più ammissibile, erano
due, cioè un «esiguo numero non...idoneo a consentire il
pieno rispetto alle garanzie di legge» (articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2016). |
TRIBUTI: È
illegittimo l’avviso della Tarsu che non individua le aree
tassabili. L’atto deve spiegare perché non è attendibile la
denuncia del contribuente.
È nullo per difetto di motivazione
l’avviso di accertamento Tarsu che non consente di
individuare con precisione le aree tassabili.
L’affermazione
proviene dalla Ctp di Bari, nella sentenza 21.07.2016 n.
2533/10/2016 (presidente Drago, relatore Di Paola).
Dalla lettura della narrativa della sentenza emerge in
effetti una procedura di controllo del Comune non del tutto
lineare. Si parte invero da un accertamento Tarsu per omessa
dichiarazione a fronte del quale il contribuente rileva che,
al contrario, la dichiarazione sarebbe stata presentata. A
monte di questo accertamento vi era un sopralluogo
effettuato dai vigili urbani allo scopo di determinare le
superfici delle aree esterne ai locali.
L’esito del
sopralluogo tuttavia aveva determinato maggiori estensioni
soggette a prelievo non solo esterne ma anche interne,
relative, cioè, ai locali utilizzati per l’attività. A tutto
ciò si aggiunga che l’amministrazione comunale aveva già
proceduto a rivedere parzialmente in via di autotutela
l’entità delle superfici inizialmente rilevate.
Alla luce di tale complessa dinamica accertativa, non vi è
dubbio che fosse indispensabile rappresentare chiaramente
negli atti di imposizione l’ammontare finale della pretesa
tributaria. Così verosimilmente non è stato, atteso che il
collegio barese afferma che «la lettura dell’atto di
accertamento non consente in alcun modo di comprendere a
quale tipologia di superficie faccia riferimento
l’Amministrazione comunale, avuto riguardo in primo luogo
all’esistenza di precedenti denunce delle superfici
tassabili».
Inoltre, anche il verbale redatto dai vigili
«non fornisce dati comprensibili o non equivoci sull’oggetto
e sull’esito del controllo eseguito». In estrema sintesi,
non era dato individuare con chiarezza la materia
controversa. La conclusione è stata l’annullamento totale
dell’atto impugnato.
In proposito, vale osservare che sebbene il prelievo sui
rifiuti non si articoli in termini molto complicati da
rappresentare, tuttavia richiede che alcune indicazioni
siano rese con una certa precisione. Ciò, tanto più in
presenza di un contribuente che ha presentato una denuncia
iniziale. Proprio in tema di aree scoperte, va ricordato che
mentre le aree operative sono tassate, quelle pertinenziali
e accessorie sono invece escluse da imposizione. E non è
sempre facile differenziare le relative destinazioni d’uso.
A ciò si aggiunga la nota esclusione delle superfici degli
operatori economici che producono in prevalenza rifiuti
speciali che richiede l’accertamento e la descrizione della
destinazione d’uso delle aree stesse.
Occorre infine abbandonare la concezione tradizionale della
motivazione come mera “rovocatio ad opponendum",
secondo cui, se il contribuente si è comunque difeso, l’atto
è valido. Secondo l’ultimo orientamento di Cassazione,
infatti, la motivazione deve consentire ex ante di
comprendere la ragioni della pretesa, prima ancora di
leggere il ricorso del contribuente (Cassazione, sentenza
24024/2015) (articolo Il Sole 24 Ore del
26.09.2016). |
TRIBUTI: Ai
coniugi con case in due città il sindaco non può chiedere l’Imu.
Non rileva che per l’abitazione principale la legge si
riferisca a un unico nucleo familiare.
L’esenzione Imu e Tasi per l’abitazione principale si
applica anche a due immobili posseduti dai coniugi, purché
si trovino in Comuni diversi e, oltre alla residenza
anagrafica, in ciascuno corrisponda anche il dato
sostanziale della abitualità della dimora.
A riguardo, è irrilevante –come stabilito dalla Ctp di
Brescia con
sentenza 14.07.2016 n.
605/2/2016 (presidente e relatore Chiappani)– il
fatto che la legge consideri “prima casa” l’immobile in cui
vivono «il possessore e il suo nucleo familiare».
Nel caso in questione, una contribuente aveva ricevuto
alcuni avvisi di accertamento ai fini Imu e Tasi, con cui il
Comune chiedeva il pagamento delle imposte, non riconoscendo
l’applicazione del beneficio per abitazione principale. Il
nucleo familiare, infatti, godeva già di tale agevolazione
in riferimento a un altro immobile, posseduto dal marito e
ubicato in un Comune diverso.
La contribuente ha impugnato gli atti impositivi davanti
alla Ctp, richiamando l’articolo 13, comma 2, del Dl
201/2011. La norma prevede l’esenzione d’imposta per
l’abitazione principale, intesa quale immobile in cui il
possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e
risiedono anagraficamente. L’unica eccezione prevista
riguarda l’ipotesi in cui i componenti del nucleo familiare
abbiano stabilito dimora e residenza in abitazioni diverse,
ma che sono situate nel territorio dello stesso Comune:
ipotesi in cui l’esenzione si applica per un solo immobile.
Nella situazione in esame, il Comune si è costituito in
giudizio sostenendo che l’immobile della contribuente non
poteva qualificarsi ai fini Imu/Tasi come abitazione
principale, proprio perché il marito già fruiva
dell’agevolazione per un’altra casa, in un Comune diverso.
Il collegio bresciano ha però accolto le ragioni della
contribuente, annullando gli atti impositivi. I giudici
hanno innanzitutto rilevato la presenza di entrambe le
condizioni previste dalla legge: cioè un’immobile adibito a
“dimora abituale” e nel quale era stata trasferita anche la
“residenza anagrafica”. Secondo la commissione, quindi,
l’esenzione dall’imposta non poteva essere contestata, pur
se il coniuge della contribuente usufruiva già della stessa
agevolazione in un altro Comune.
La norma non esclude infatti la possibilità di più
“abitazioni principali” del nucleo familiare (ad esempio,
per esigenze lavorative dei coniugi), purché tali abitazioni
non siano ricomprese nel medesimo territorio comunale.
Questa interpretazione è stata peraltro fornita anche dal
Mef, in risposta a un quesito di Telefisco 2014, ribadendo
che l’esenzione si applica quando i coniugi abbiano
stabilito l’abitazione principale in due Comuni diversi (si
veda anche la circolare 3/DF del 2012).
È ininfluente che la legge faccia riferimento a un unico
nucleo familiare. In quest’ultimo rientrano i soggetti che
compongono la “famiglia anagrafica”, cioè persone legate da
vincoli di matrimonio, parentela, affinità, eccetera, che
coabitano e hanno dimora abituale nelle stesso Comune. Ma
tale famiglia può essere formata anche da una sola persona,
e ciascun coniuge può costituirne una propria, distinta,
nell’ambito di Comuni diversi.
È tuttavia importante, per l’esclusione Imu e Tasi, che alla
residenza anagrafica presso l’abitazione principale
corrisponda anche l’abitualità della dimora (articolo Il Sole 24 Ore del
26.09.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Servitù
pubblica su un’area privata destinata a fiere. Beni comuni.
Il Tar Lazio.
Il continuato e prevalente uso di uno spazio condominiale da
parte di un’indeterminata collettività di persone determina
il sorgere di una servitù pubblica di passaggio sull’area
condominiale.
Questo il principio
espresso dal TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, nella recente
sentenza 08.07.2016 n. 7858.
Il caso è quello di un condominio che concedeva in locazione
un’area sottostante al portico condominiale a
un’associazione, che periodicamente la utilizzava per
esposizione e vendita di oggettistica e piccolo antiquariato
amatoriale, a cura di autonomi rivenditori.
Tali manifestazioni, erano regolarmente autorizzate dal
Comune che, per un certo periodo, considerando l’occupazione
ricadente su area privata, non aveva preteso canoni a titolo
di Cosap. Successivamente, però,veniva richiedeva il
pagamento dei canoni per l’occupazione del suolo, sostenendo
che sull’area condominiale in questione si era formata una
servitù pubblica di passaggio.
Secondo l’associazione –che ricorreva al Tar- tali
richieste erano ingiustificate perché il passaggio pedonale
e il collegamento alla via pubblica erano assicurati dal
marciapiede esterno al portico che non veniva utilizzato per
gli eventi autorizzati. Il Comune però si difendeva
confermando la legittimità del suo operato in ragione della
servitù di pubblico passaggio formatasi sull’area in
questione, senza l’opposizione della collettività
condominiale.
Questa tesi è stata confermata dal Tar, che ha ricordato
come un’area privata possa ritenersi destinata a pubblico
passaggio quando tale uso avvenga ad opera di una
collettività indeterminata di soggetti considerati quali
titolari di un pubblico interesse di carattere generale e
non quali soggetti che si trovano in una posizione
qualificata rispetto all’area utilizzata.
Pertanto, nel caso di portico soggetto a pubblico passaggio,
si è chiaramente in presenza di una servitù di uso pubblico,
che non trova la sua ragione di esistere nel soddisfacimento
dell’utilità di un fondo “dominante”, trattandosi piuttosto
di un peso imposto sopra un fondo privato per l’utilità di
una collettività generalizzata di individui. In tal senso,
nemmeno la presenza di un marciapiede contiguo al porticato
vale, di per sé, a mettere in dubbio il diritto spettante
alla generalità dei cittadini di utilizzare il portico
stesso, di fatto usato da tutti i passanti.
In altre parole, l’interesse della collettività dovrà
inquadrarsi non tanto nel raggiungimento di un fondo
dominante, quanto piuttosto nell’uso stesso del porticato,
fruendo anche di utilità, quali il riparo da eventi
metereologici, uso di locali, accesso ai negozi. E
l’esistenza di un affitto commerciale non esclude la servitù
pubblica sull’area, in quanto tale contratto di locazione
non è in contrasto con l’assoggettabilità del bene alla
Cosap, che è destinata a compensare la diminuzione dell’area
di passaggio subita dalla collettività per l’apposizione di
arredi da parte del conduttore (articolo Il Sole 24 Ore del
27.09.2016).
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MASSIMA
2. Il ricorso è infondato per le seguenti ragioni.
2.1. La vicenda controversa verte sulla assoggettabilità a
concessione/canone Cosap degli spazi sottostanti i porticati
dei palazzi insistenti ai lati di Piazza Augusto Imperatore,
rientranti nella asserita disponibilità della ricorrente in
quanto locati dalla stessa con contratto sottoscritto con la
proprietà condominiale, riguardo i quali secondo la medesima
non sussisterebbe servitù di pubblico passaggio.
La questione è già stata affrontata dalla sezione con
sentenza n. 10183 del 2014 che pronunciandosi sugli stessi
luoghi e sui medesimi presupposti, non ha negato l'esistenza
della servitù di passaggio sui portici di Piazza Augusto
Imperatore, ma ha rilevato la non adeguata dimostrazione da
parte di Roma Capitale dell'esistenza di tale titolo.
Tale
sentenza è stata riformata dal Consiglio di Stato con
sentenza n. 3446 del 2015 dove si è affermato che i Portici
di Piazza Augusto Imperatore sono idonei a soddisfare l'uso
pubblico garantendo alla cittadinanza l'utilità sociale
costituita dal libero passaggio sull'area, sulla quale non
sono state mai apposte barriere o segnali volti ad impedire
il libero passaggio, garantendo nel concreto da tempo
lunghissimo e per fatto notorio (non smentito dalla
ricorrente), con continuità, il transito libero ed
indiscriminato da parte della generalità dei cittadini
(elementi caratterizzanti la c.d. dicatio ad patriam, quale
modo di costituzione della servitù di uso pubblico, cfr.
Cass. Civ., sez. II n. 4597/2001; idem, n. 6924/2001; Cons.
Stato, sez. V, 14.02.2012, n.728).
L'Amministrazione ha comprovato ulteriori circostanze a
sostegno della dimostrazione della sussistenza della servitù
di pubblico passaggio sull' area in questione e cioè la
specifica pronuncia sull'esistenza della servitù di
pubblico passaggio, con sentenza del Tribunale civile di
Roma n. 3045/2010 del 10.02.2010, che ha affermato l'assoggettabilità alla Cosap dei portici di piazza Augusto
Imperatore.
Aggiunge poi la difesa capitolina che gli
esercizi di somministrazione attivati nei locali commerciali
insistenti sui predetti porticati hanno sempre richiesto
all'Amministrazione il rilascio di apposito provvedimento concessorio di eventuale Osp, con corresponsione dei
relativi canoni sulla base di quanto prescritto in materia
dal regolamento Cosap.
Del resto le opposte circostanze dedotte dalla parte
ricorrente non appaiono sufficienti a contrastare gli
elementi probatori addotti dall'Amministrazione a sostegno
dell'esistenza di una servitù di pubblico passaggio:
- disponibilità dell'area in forza del contratto di locazione
stipulato con la proprietà condominiale;
- occupazione solo
dello spazio sotto i portici e non del marciapiede
demaniale, destinato al libero passaggio pedonale;
- la
circostanza che la ricorrente provveda direttamente alla
cura, la pulizia e la manutenzione dello spazio in
questione, sottratto alla gestione dell'AMA.
Sulla base dell'orientamento della giurisprudenza, infatti,
l'unica circostanza che sia in grado di escludere che su di
un'area privata possa sorgere un diritto d'uso in favore
della collettività ed invece una utilità limitata ai soli
frontisti proprietari sarebbe l'oggettiva interruzione
dell'area medesima da parte del suo proprietario o la
apposizione di segni esteriori riconducibili alla volontà
dello stesso di voler continuare a disporre del bene in via
esclusiva (cancelli, catene, cartelli, ecc.), circostanze
non sussistenti nella specie, laddove per fatto notorio
l’area è destinata alla libera circolazione pedonale da
parte della comunità indifferenziata dei cittadini,
circostanza non smentita dalla ricorrente (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 18.12.2006, n. 7601; idem, cit. n. 3446 del
2015).
Né varrebbe obiettare, come invece inteso dalla ricorrente,
che l'esistenza di un affitto commerciale sia elemento
escludente la sussistenza della servitù pubblica sull’area,
ciò in quanto tale contratto di locazione è tra l’altro
successivo alla formazione della servitù e comunque non è in
contrasto con l'assoggettabilità del bene alla Cosap, atteso
che può ritenersi che sia destinata a compensare la
diminuzione dell'utilitas di passaggio subita dalla
collettività per l'apposizione di arredi sull'area.
Del resto proprio l'applicazione della concessione, ai
sensi della disciplina regolamentare in materia, da parte
dell'Amministrazione contempera i diversi interessi
pubblici e privati coinvolti nella medesima fattispecie
quali la tutela architettonica, l'ambiente, la viabilità,
l'esercizio del diritto di proprietà. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Emissioni
moleste, il reato non è escluso se sono occasionali. Il
caso. Le indicazioni su odori e vapori.
La Corte di
Cassazione (Sez. III penale,
sentenza
27.02.2012 n. 7605) ha già affrontato l’annoso
problema dei rapporti di vicinato con particolare riguardo
alle immissioni di odori e vapori molesti. Il caso
riguardava l’attività di un panificio che provocava
emissioni di vapore e di fumo sino a imbrattare un
condominio vicino.
La Corte aveva ritenuto di configurare a carico del titolare
del panificio la responsabilità penale per la violazione
dell’articolo 674 del Codice penale «in quanto l’agente,
a prescindere dal superamento o non dei limiti di emissione,
è, comunque, tenuto ad adottare tutte le cautele necessarie
per evitare fuoriuscite di gas , vapori o di fumo atti ad
imbrattare o molestare le persone. Il prevenuto, quale
titolare dell’esercizio in questione assume la penale
responsabilità per tutti i comportamenti penalmente
rilevanti che gli sono addebitabili, non risultando che
abbia fatto nulla per reprimere o limitare le emissioni di
fuliggine oleosa prodotta quotidianamente dal suo panificio».
Ma non basta: nella sentenza si legge anche che «si
osserva che l’evento di molestia non si ha solo nei casi di
emissioni inquinanti in violazione dei limiti di legge, in
quanto non è sufficiente che le stesse siano vietate da
speciali norme giuridiche, ma è sufficiente il superamento
del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.».
La stessa Cassazione, con la recente
sentenza
15.06.2016 n. 24817,
sullo stesso tema ha affermato un principio analogo,
cassando la sentenza di un Giudice per le indagini poreliminari che aveva prosciolto l’imputato (che aveva
bruciato occasionalmente della plastica): «Il G.I.P. ha
prosciolto l’imputato perché non sussisterebbe il reato in
quanto la condotta non avrebbe carattere permanente, ma
(solo) occasionale (...). Tale conclusione non è per nulla
condivisibile e disattende quanto pacificamente affermato
dalla Corte di Cassazione, secondo cui il reato di getto di
cose pericolose, di cui all’art. 674 cod. pen., ha di regola
carattere istantaneo e solo eventualmente permanente. La
permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni sono
connesse all’esercizio di attività economiche legate al
ciclo produttivo (sentenza 2598/1997), mentre con riguardo
specifico all’emissione molesta di gas, vapori o di fumo, la
contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen., è un reato
non necessariamente, ma solo eventualmente permanente».
Secondo la Corte, quindi, il reato sussiste anche con un
solo atto mediante il quale si provoca un’emissione molesta.
Ma l’idoneità della condotta a produrre emissioni moleste
deve essere dimostrata
(articolo
Il Sole 24 Ore del 13.09.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In tema di riparto della giurisdizione,
l'attrazione (ovvero concentrazione) della tutela
risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può
verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto
sia conseguenza immediata e diretta della dedotta
illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non
costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia
di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela
ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
Pertanto, qualora si tratti di provvedimento amministrativo
rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo,
il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi
al giudice amministrativo è colui che, a seguito di una
fondata richiesta, si è visto ingiustamente negare o
ritardare il provvedimento richiesto; qualora si tratti di
provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile si
configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la
tutela risarcitoria dinanzi al medesimo giudice è soltanto
colui che è portatore dell'interesse alla conservazione del
bene o della situazione di vantaggio direttamente
pregiudicati dal provvedimento contro il quale ha proposto
ricorso.
---------------
Il potere di
condanna al risarcimento dei danni, già attribuito al
giudice amministrativo a far tempo dal d.lgs. n. 80/1998,
come modificato dalla legge n. 205/2000, è volto
a
rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei
confronti della pubblica amministrazione, concentrando
innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del
controllo di legittimità dell'azione amministrativa, ma
anche (ove configurabile) quella della riparazione per
equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando la
necessità di instaurare un successivo e separato giudizio
innanzi al giudice ordinario.
Il risarcimento del danno
ingiusto non costituisce perciò una nuova materia attribuita
alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma
esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di
completamento rispetto a quello classico demolitorio, da
utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti
della pubblica amministrazione.
---------------
Nella specie deve essere affermata la
giurisdizione del giudice ordinario, considerato che la
società attrice non ha contestato la legittimità dei
provvedimenti con i quali il Comune ha
disposto l'annullamento del permesso di costruire e la
demolizione del fabbricato da essa realizzato nelle more, ma
ha fondato la propria domanda esclusivamente sulla condotta, asseritamente colpevole per grave negligenza, con la quale
il Comune aveva ingenerato in essa attrice l'affidamento
sulla legittimità dell'atto amministrativo ed il conseguente
incolpevole convincimento di potere procedere
all'edificazione.
Nella specie, pertanto, manca una
qualsiasi controversia sulla legittimità di atti o
provvedimenti amministrativi dalla quale possa farsi
derivare una giurisdizione del giudice amministrativo sulla
domanda di risarcimento del danno.
---------------
Ritenuto in fatto e in diritto
- che, con citazione del 09.04.2013, la s.p.a. Pe.
conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Rieti, il
Comune di Fiano Romano per sentirlo condannare al
risarcimento dei danni da essa subiti in conseguenza della
condotta illecita dell'amministrazione comunale che, con
grave negligenza, aveva certificato l'assenza di vincoli
paesaggistici su un'area di proprietà dell'attrice ed aveva
rilasciato per detta area un permesso di costruire, poi da
essa stessa riconosciuto illegittimo per la mancanza del
nulla osta della Sovrintendenza, così ingenerando
nell'attrice l'affidamento sulla legittimità dell'atto
amministrativo e l'incolpevole convincimento di potere
procedere all'edificazione, come in concreto era avvenuto;
- che, in particolare, l'attrice deduceva quanto segue:
a)
il rilascio del permesso di costruire era dipeso dall'errore
originariamente commesso dall'ente territoriale nel
riportare sulla cartografia ufficiale il perimetro dell'area
interessata dal vincolo paesaggistico relativo alla Valle
del Tevere, errore non rilevato nel momento del rilascio del
permesso edilizio e neppure successivamente nel corso
dell'attività di verifica dell'esatta portata del vincolo,
svolta anche su richiesta del giudice amministrativo, e ciò
sino all'08.06.2009 quando per la prima volta il Comune
aveva dato atto del proprio errore, dopo che nell'ambito di
un procedimento di riesame la Regione Lazio aveva attestato
l'incidenza del vincolo sull'area in questione.
Il Comune, quindi, con distinti provvedimenti del 15.06.2009, aveva annullato il permesso di costruire ed aveva
ordinato la demolizione dell'edificio già costruito ed
ultimato; infine, soltanto con delibera del consiglio
comunale del 05.07.2010, il Comune aveva corretto
l'individuazione sugli elaborati di PRG del vincolo
paesaggistico della Valle del Tevere;
b) il Consiglio di
Stato con la sentenza n. 6372/2012 aveva definitivamente
accertato la legittimità dell'annullamento del permesso di
costruire e dell'ordinanza di demolizione;
- che il Comune di Fiano propone regolamento preventivo per
sentir dichiarare la giurisdizione del giudice
amministrativo -ai sensi degli artt. 7, 30, comma 6, e 133,
comma 1, lett. f), del codice del processo amministrativo-
deducendo che «il petitum sostanziale contenuto nell'atto di
citazione introduttivo del giudizio di primo grado e nelle
correlate allegazioni delle parti consiste in una richiesta
di risarcimento dei danni, che avrebbe subito la soc. Pe. in conseguenza di tutta una serie di atti e provvedimenti
amministrativi adottati dal Comune di Fiano Romano in
relazione alla costruzione di un edificio di proprietà della
società»; pertanto, secondo il ricorrente, la pronunzia
sulla domanda comporterebbe quella sulla legittimità
dell'intero procedimento amministrativo che, originato dal
Comune di Fiano Romano con il rilascio del permesso di
costruire, aveva visto l'intervento di atti e provvedimenti
sia della Regione Lazio sia della Sovrintendenza;
- che la s.p.a. Pe. resiste con controricorso,
deducendo che la domanda di risarcimento dei danni non è
fondata sull'illegittimo esercizio di un potere autoritativo
da parte della p.a., ma sul colpevole affidamento da questa
ingenerato con un provvedimento favorevole, successivamente
annullato;
- che entrambe le parti hanno presentato memoria;
- che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, con
riferimento alla disciplina già dettata dall'art. 34 del d.lgs. n. 80/1998 in materia urbanistica ed edilizia, il
seguente principio: «in tema di riparto della giurisdizione,
l'attrazione (ovvero concentrazione) della tutela
risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può
verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto
sia conseguenza immediata e diretta della dedotta
illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non
costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia
di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela
ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
Pertanto, qualora si tratti di provvedimento amministrativo
rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo,
il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi
al giudice amministrativo è colui che, a seguito di una
fondata richiesta, si è visto ingiustamente negare o
ritardare il provvedimento richiesto; qualora si tratti di
provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile si
configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la
tutela risarcitoria dinanzi al medesimo giudice è soltanto
colui che è portatore dell'interesse alla conservazione del
bene o della situazione di vantaggio direttamente
pregiudicati dal provvedimento contro il quale ha proposto
ricorso» (Cass. s.u. ord. 23.03.2011, n. 6594. Conff.
Cass. s.u. ordd. 23.03.2011, n. 6595 e 6596; Cass. s.u.
ord. 07.03.2005, n. 4805 nonché in materia di pubblici
servizi Cass. s.u. ord. 04.10.2012, n. 16948);
- che a tale giurisprudenza deve essere data continuità
anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 104/2010,
applicabile nella specie;
- che, infatti, le disposizioni invocate dal Comune
ricorrente non configurano la tutela risarcitoria come
un'autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Il potere di
condanna al risarcimento dei danni, già attribuito al
giudice amministrativo a far tempo dal d.lgs. n. 80/1998,
come modificato dalla legge n. 205/2000, è volto, infatti,
a
rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei
confronti della pubblica amministrazione, concentrando
innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del
controllo di legittimità dell'azione amministrativa, ma
anche (ove configurabile) quella della riparazione per
equivalente, ossia il risarcimento del danno, evitando la
necessità di instaurare un successivo e separato giudizio
innanzi al giudice ordinario.
Il risarcimento del danno
ingiusto non costituisce perciò una nuova materia attribuita
alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma
esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di
completamento rispetto a quello classico demolitorio, da
utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti
della pubblica amministrazione.
In questo stesso binario si
colloca l'art. 30, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010, secondo
cui «può essere chiesta la condanna al risarcimento del
danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio
dell'attività' amministrativa o dal mancato esercizio di
quella obbligatoria»; una diversa conclusione non è
giustificata dal prosieguo della disposizione, secondo cui
«nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere
chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti
soggettivi», considerato che il successivo art. 133, comma 1,
lett. f), devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo «le controversie aventi ad oggetto gli atti e
i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia
urbanistica e edilizia», richiedendo perciò che la
controversia attenga ad atti o provvedimenti e non
semplicemente a comportamenti.
Al riguardo la norma ha
evidentemente recepito l'insegnamento di Corte cost. 28.04.2004, n. 204 che aveva dichiarato l'illegittimità,
per contrasto con gli artt. 24, 25, 100, 102, 103, 111 e 113
della Costituzione, dell'art. 34, comma 1, del d.lgs. n.
80/1998 (come sostituito dall'art. 7, lettera b, della legge
n. 205/2000), nella parte in cui prevedeva la devoluzione
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
delle controversie aventi per oggetto "gli atti, i
provvedimenti e i comportamenti", anziché soltanto "gli atti
e i provvedimenti" delle pubbliche amministrazioni in
materia urbanistica ed edilizia, perché la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo non può estendersi
anche ai "comportamenti", e cioè a controversie nelle quali
la pubblica amministrazione non esercita alcun pubblico
potere;
- che, pertanto, nella specie deve essere affermata la
giurisdizione del giudice ordinario, considerato che la
società attrice non ha contestato la legittimità dei
provvedimenti con i quali il Comune di Fiano Romano ha
disposto l'annullamento del permesso di costruire e la
demolizione del fabbricato da essa realizzato nelle more, ma
ha fondato la propria domanda esclusivamente sulla condotta,
asseritamente colpevole per grave negligenza, con la quale
il Comune aveva ingenerato in essa attrice l'affidamento
sulla legittimità dell'atto amministrativo ed il conseguente
incolpevole convincimento di potere procedere
all'edificazione.
Nella specie, pertanto, manca una
qualsiasi controversia sulla legittimità di atti o
provvedimenti amministrativi dalla quale possa farsi
derivare una giurisdizione del giudice amministrativo sulla
domanda di risarcimento del danno.
P.Q.M.
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rimette le
parti, anche per le spese del regolamento, innanzi al
Tribunale di Rieti (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 22.01.2015 n. 1162). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la
giurisdizione è del G.O..
Con tre ordinanze “gemelle” depositate il 23.03.2011,
in sede di regolamento di giurisdizione, la
Corte di Cassazione devolve alla giurisdizione del G.O. il
risarcimento del danno derivante dalla lesione
dell’affidamento incolpevole nella (apparente) validità
dell’esercizio della funzione pubblica, in ossequio ai
principi di buona fede, correttezza e solidarietà che
regolano il rapporto tra cittadino e pubblica
amministrazione.
Nella prima pronuncia (ordinanza
23.03.2011 n. 6594), il caso di specie sottoposto
al vaglio della Suprema Corte riguarda la richiesta di
risarcimento dei danni per aver confidato il ricorrente
nell’apparente legittimità di una concessione edilizia –in
seguito alla quale erano stati avviati i lavori per la
costruzione dei manufatti– successivamente annullata, in via
di autotutela, dalla pubblica amministrazione.
«Il proprietario o il titolare di altro diritto reale»
non può invocare la tutela risarcitoria per ottenere il
ristoro dei danni derivanti dalla perdita della facoltà di
edificare, verificatasi in seguito all’annullamento
d’ufficio della concessione edilizia, secondo la Cassazione.
Sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo solo se il ricorrente volesse dolersi
dell’illegittimità di qualche atto della procedura (ad
esempio, del provvedimento di ritiro) e, contestualmente o
successivamente, dei danni da esso derivanti.
In tal caso, lo strumento risarcitorio sarebbe,
conformemente al dictum della Consulta (sentenze n.
292 del 2000 e 281 del 2004), «ulteriore e di
completamento» rispetto al rimedio classico demolitorio,
giustificando la concentrazione di entrambe le tutele
dinnanzi al giudice amministrativo.
«Una volta intervenuto legittimamente l’annullamento
della concessione edilizia può rilevare esclusivamente una
diversa situazione, sulla quale fondare il risarcimento del
danno». In altre parole, il danno che il ricorrente ha
subito è imputabile ad una condotta scorretta della parte
pubblica, consistita «nell’emissione di atti favorevoli,
poi ritirati [..] in autotutela, atti che hanno creato
affidamento nella loro legittimità ed orientato una
corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta
arrestare» e, pertanto, passibile di risarcimento
dinnanzi al giudice ordinario, avendo la situazione giudica
fatta valere in giudizio la consistenza di diritto
soggettivo.
Non si tratta di un danno contra ius, ossia privo di
una causa di giustificazione, giacché l’operato della parte
pubblica è formalmente legittimo.
Ciò che la Cassazione mira a tutelare è l’affidamento del
ricorrente che, senza sua colpa, ha confidato nella validità
(poi venuta meno) della condotta della pubblica
amministrazione, la quale è tenuta a rispettare «principi
generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la
diligenza, la correttezza».
Il caso di specie oggetto della seconda pronuncia (ordinanza 23.03.2011 n. 6595)
è, in parte, analogo a quello deciso nella prima. I
ricorrenti chiedono il risarcimento dei danni derivanti da
una condotta scorretta della parte pubblica, consistente
nell’attestazione (rivelatasi, in seguito, errata) che il
fondo da essi acquistato fosse «libero da pesi ed altri
oneri», nonché potenzialmente edificabile e nel rilascio
di una concessione edilizia –sulla quale era stata iniziata
la costruzione dell’immobile– successivamente annullata dal
giudice amministrativo, che ne aveva acclarato
l’illegittimità.
«Il provvedimento che aveva concesso il diritto a
edificare e che, perché illegittimo, è stato legittimamente
posto nel nulla, rileva per il titolare dello ius
aedificandi esclusivamente quale mero comportamento degli
organi che hanno provveduto al suo rilascio, integrando
così, ex art. 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito per
violazione del principio del neminem laedere, [...] per
avere tale atto, con la sua apparente legittimità,
ingenerato nel destinatario l’incolpevole convincimento
(fondato sull’affidamento in ordine alla legittimità
dell’atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza
dell’azione amministrativa) di potere legittimamente
procedere all’edificazione».
La terza pronuncia (ordinanza
23.03.2011 n. 6596) rafforza il principio di
diritto suggellato nelle prime due. Secondo la Cassazione,
si radica la giurisdizione del giudice ordinario sulla
richiesta di risarcimento di danni cagionati dalla lesione
dell’affidamento generato dall’adozione di un provvedimento
favorevole, poi annullato in forza di una statuizione
giurisdizionale.
Il ricorrente, infatti, non ha contestato l’illegittimità
dell’aggiudicazione ma si è limitato ad «imputare»
alla pubblica amministrazione di averlo indotto «a
sostenere delle spese nel ragionevole convincimento della
prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine
quadriennale previsto dal contratto stipulato a seguito
della gara».
Le fattispecie in esame si connotano per la condotta colposa
della parte pubblica che, dapprima, ha indotto a far
assumere il terzo un certo contegno e, in seguito, ne ha
cagionato l’arresto, integrando gli estremi di un danno
passibile di risarcimento dinnanzi al giudice ordinario, non
venendo in rilievo –ai fini di un legittimo radicamento
della giurisdizione amministrativa esclusiva– né un
provvedimento amministrativo illegittimo né i diritti
patrimoniali consequenziali.
Con lo stesso spirito che ha alimentato il dibattito sulla
c.d. pregiudiziale amministrativa, sulla carenza di potere e
sulla teoria dei diritti incomprimibili, la Corte di
Cassazione si preoccupa esclusivamente di garantire una
tutela piena ed effettiva alle situazioni sostanziali
dedotte in giudizio, anche a costo di travalicare gli
incerti e frastagliati confini del riparto di giurisdizione
e di plasmare le categorie giuridiche civilistiche per
adeguarle alle peculiarità del diritto amministrativo
(commento tratto da www.amministrazioneincammino.luiss.it).
---------------
MASSIMA
1. La giurisdizione dell'AGO viene sostenuta dai ricorrenti
con riguardo al principio neminem laedere violato dal
Comune, responsabile ex art. 2043 cod. civ. per condotta
omissiva,
consistente in difetto di verifica del vincolo di
asservimento
insistente sul terreno, e commissiva, integrata
dal rilascio errato della concessione edilizia, come
accertato
dal giudice amministrativo, secondo un titolo, un
comportamento
illecito (l'inosservanza di condotte doverose), incidente
sui diritti soggettivi patrimoniali dei ricorrenti. Il
riparto di giurisdizione dovrebbe perciò seguire il petitum
sostanziale proprio della domanda.
I ricorrenti chiedono, quindi, la declaratoria della
giurisdizione
dell'AGO.
2. Il Collegio ritiene che il regolamento debba essere
accolto, con dichiarazione della giurisdizione del giudice
ordinario, per le seguenti considerazioni.
2.1. In base agli artt. 103 e 113 Cost., il Consiglio di
Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno
giurisdizione per la tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione. Ciò significa che la giurisdizione
amministrativa
presuppone un contrasto tra il ricorrente e la pubblica
amministrazione con riferimento ad un agire di
quest'ultima che ha, evidentemente, pregiudicato il primo.
L'accesso alla giustizia amministrativa, in altri termini,
presuppone l'esistenza di una controversia sul legittimo
esercizio
di un potere autoritativo.
Allorquando sussista tale controversia, nelle materie di
giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo è
attribuita
la giurisdizione in ordine alla domanda di risarcimento
del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica
(art. 35 d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito
dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000).
Peraltro, con tale
disposizione, il legislatore, se ha inteso rendere piena ed
effettiva la tutela del cittadino nei confronti della
pubblica
amministrazione, concentrando innanzi al giudice
amministrativo
non solo la fase del controllo di legittimità
dell'azione amministrativa, ma anche quella del risarcimento
del danno (ove configurabile), non ha tuttavia individuato
una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice
amministrativo (Corte cost., sent. n. 281 del 2004).
L'attribuzione a tale giudice della tutela risarcitoria per
effetto della illegittimità degli atti amministrativi
costituenti
esercizio di potere autoritativo costituisce, quindi, uno
strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto
a quello classico, di tipo demolitorio, da utilizzare per
rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è poi chiarito
che la possibilità per il soggetto danneggiato dall'agire autoritativo
della pubblica amministrazione di ottenere il risarcimento
del danno successivamente alla proposizione di una
azione demolitoria non determina il venir meno, nelle
materie
di giurisdizione esclusiva, della giurisdizione
amministrativa
(v., di recente, Cass., S.U., n. 5025 del 2010; Cass.
S.U., n. 26023 del 2008).
Il presupposto perché si possa predicare la sussistenza
della giurisdizione amministrativa, tuttavia, anche nel caso
in cui l'azione di danno venga svolta autonomamente e
successivamente
rispetto alla domanda volta alla rimozione del provvedimento illegittimo, è che il danno di cui si chiede il
risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione
sia
causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento
amministrativo.
In altri termini, perché possa affermarsi la
giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad una
domanda di danni è necessario che la causa pètendi
dell'azione di danno, tanto se introdotta contestualmente
all'azione demolitoria, quanto nel caso in cui venga
introdotta
successivamente, sia la illegittimità dell'agire della
pubblica amministrazione.
Invero, come si è prima rilevato, la giurisdizione amministrativa postula una controversia
sulla
legittimità o no dell'agire autoritatívo della pubblica
amministrazione.
2.3. Diverso è il caso in cui, come nella specie,
la parte
che agisce per ottenere il risarcimento del danno dalla
pubblica amministrazione non faccia valere, quale causa patendi
della propria domanda, la illegittimità di un provvedimento
amministrativo, ma la lesione dell'affidamento indotto
dalla esistenza di una certificazione amministrativa
(attestazione
di edificabilità di un suolo in una determinata misura)
ovvero di un atto amministrativo del quale si presume
la legittimità (concessione edilizia)
e rispetto al quale,
quindi, nessun interesse ad ottenerne la rimozione sarebbe
configurabile in capo a chi assume di aver subito il danno.
Invero, sia nell'uno che nell'altro caso la lesione del
diritto
soggettivo e la relativa fonte di danno scaturiscono
non dalla illegittimità della attestazione o della
concessione
edilizia, ma dal fatto che tali atti siano intervenuti e
che altri ne abbiano posto in discussione la legittimità
provocandone
l'annullamento in sede giurisdizionale, o che la
pubblica amministrazione, agendo in autotutela, li abbia
annullati.
Nella prospettiva del soggetto che assume di avere subito
una lesione ad un proprio diritto soggettivo, dunque, non si
ravvisa la condizione perché la domanda risarcitoria possa
essere attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo: difetta, infatti, quella controversia in
ordine
alla legittimità del provvedimento amministrativo rispetto
alla quale la domanda di danni si porrebbe come
consequenziale.
Ciò che invece rileva è l'affidamento riposto
dall'interessato sia nella esattezza della attestazione
relativa
alla attitudine edificatoria del fondo da lui acquistato
-proprio per l'esistenza di tale attestazione-, sia della
legittimità della concessione edilizia.
Il titolare dello ius
aedificandi, invero, una volta che sia stato privato di tale
diritto in via giurisdizionale a seguito del ricorso di
altro
soggetto che sia insorto contro detto provvedimento, e una
volta che sia stata definitivamente accertata la
illegittimità
della concessione, non ha altro atto da impugnare rispetto
al quale la tutela risarcitoria possa essere consequenziale
e
quindi attribuita alla giurisdizione del giudice
amministrativo.
Il provvedimento che aveva concesso il diritto ad edificare
e che, perché illegittimo, è stato legittimamente posto
nel nulla, rileva per il titolare dello ius aedificandi
esclusivamente quale mero comportamento degli organi che
hanno
provveduto al suo rilascio, integrando così, ex art. 2043
cod. civ., gli estremi di un atto illecito per violazione
del
principio del neminem laedere, imputabile alla pubblica
amministrazione in virtù del principio di immedesimazione
organica,
per avere tale atto, con la sua apparente legittimità,
ingenerato nel destinatario l'incolpevole convincimento
(fondato
sull'affidamento in ordine alla legittimità dell'atto
amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell'azione
amministrativa)
di potere legittimamente procedere
all'edificazione.
In mancanza di un atto impugnabile, dunque, chi si è visto
annullare, su iniziativa di altri, la concessione edilizia
ha l'esclusiva possibilità di invocare un'unica tutela
risarcitoria che, non essendo collegata alla impugnabilità
di
un atto, non può essere attratta nell'ambito di operatività
della giurisdizione esclusiva e può trovare fondamento
unicamente
nell'affidamento riposto nel provvedimento a sé favorevole.
Si è infatti ripetutamente affermato che la violazione
del principio del neminem laedere da parte della Pubblica
Amministrazione
è ravvisabile in comportamenti tanto attivi
quanto omissivi ogni qual volta essa venga meno al dovere
d'improntare lo svolgimento delle funzioni demandatele sia
ai
principi costituzionali in punto d'imparzialità correttezza
e
buon andamento, sia alle norme di legge ordinaria in punto
di
celerità efficienza efficacia e trasparenza, sia ai principi
generali dell'ordinamento in punto di ragionevolezza,
proporzionalità
ed adeguatezza (Cass., S.U., n. 1852 del 2009; Cass. n.
19286 del 2009, ed ivi ulteriori riferimenti),
ipotesi
che, in particolare, può verificarsi anche ove fornisca
al privato notizie inesatte od ingeneri in esso fallace
affidamento
(Cass., n. 19286 del 2009, cit.; Cass. n. 27154 del
2008; Cass. 17831 del 1007; Cass. n. 2424 del 2004).
2.4. Con specifico riferimento al riparto di giurisdizione
tra giudice ordinario e giudice amministrativo in
riferimento
a domande risarcitorie proposte nei confronti della
pubblica amministrazione, per i profili che qui rilevano, si
è in particolare affermato che «spetta al giudice ordinario
conoscere della domanda con cui il privato, acquirente di un
terreno sul quale era stata rilasciata una concessione
edilizia
e successore nella titolarità del permesso di costruire,
chieda la condanna del Comune al risarcimento dei danni da
esso subiti in seguito al rilascio, in favore del proprio
dante causa, di una concessione edilizia ritenuta illecita
dal giudice penale (in un procedimento penale per il reato,
tra l'altro, di cui all'art. 20, lettera c, della legge 28.02.1985,
n. 47) ed illegittima in sede di ricorso
straordinario
al Capo dello Stato promosso dal proprietario confinante,
ma sulla cui piena regolarità egli abbia fatto invece
affidamento per l'esecuzione del programma di costruzione
dell'edificio. Detta domanda, infatti, non rientra nel campo
applicativo dell'art. 34 del d.lgs. 31.03.1988, n. 80, né
sollecita la tutela di un situazione configurabile come
diritto patrimoniale consequenziale, giacché non postula
alcun
accertamento sull'esercizio del potere amministrativo (autoritativo)
in materia urbanistica ed edilizia, che ha portato
al rilascio della concessione edilizia, ma, sul presupposto
che questa resti caducata, ascrive al comportamento del
Comune
convenuto la responsabilità per la sopravvenuta
impossibilità
di realizzare il programma costruttivo» (Cass., S.U. n.
4805 del 2005).
In tale pronuncia si è esclusa la configurabilità di un
diritto patrimoniale consequenziale, perché la domanda era
riferita ai comportamenti (asseritamente illeciti)
riferibili
all'ente pubblico e perché l'annullamento dell'atto
concessorio
non era chiesto ma, in ipotesi, subìto dalla attrice nel
giudizio civile, la quale, rispetto a quell'annullamento,
risultava
anzi controinteressata; il che escludeva la stessa
possibilità di ravvisare l'esigenza di concentrare la tutela
demolitoría e quella risarcitoria dinanzi allo stesso
giudice,
allo scopo di evitare che la parte, ottenuta tutela davanti
al giudice amministrativo, dovesse poi adire il giudice
ordinario per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali
consequenziali, compreso il risarcimento del danno.
In altra pronuncia, si è affermato che
spetta al giudice
ordinario conoscere della domanda risarcitoria, proposta, a
titolo di garanzia, nei confronti di un Comune per i danni
subiti dall'acquirente di un immobile incluso in piano di
lottizzazione dichiarato illegittimo (in sede
giurisdizionale
amministrativa), che abbia agito, in via principale, per
l'annullamento della compravendita nei riguardi della parte
venditrice.
Detta domanda, infatti, non rientra nel campo
applicativo
dell'art. 34 del d.lgs. 31.03.1998, n. 80 (come
modificato dall'art. 7 della legge 21.07.2000, n. 205),
né sollecita la tutela di una situazione configurabile come
diritto patrimoniale consequenziale, giacché non postula
alcun
accertamento sull'esercizio del potere amministrativo
autoritativo
in materia urbanistica ed edilizia, che ha portato
all'approvazione del piano comunale di lottizzazione, ma,
sul presupposto che quest'ultimo resti caducato, ascrive al
comportamento del Comune chiamato in causa la responsabilità
per gli effetti conseguenti alla sopravvenuta impossibilità
di realizzare il programma costruttivo (Cass., S.U. n. 11932
del 2010).
Ed ancora, in un giudizio in cui era stato convenuto un
comune per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza
del rilascio, a causa di un errore commesso dal dirigente
dell'ufficio, di una certificazione urbanistica attestante
la
qualità edificatoria tout court di un'area risultata
edificabile
soltanto in minima parte, con conseguente impossibilità
di realizzare il preventivato intervento edilizio, queste
Sezioni
Unite, nel ritenere che la controversia esulasse dal
campo (della gestione del territorio ex art. 34 d.lgs. n. 80
del 1998) riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, hanno osservato che il rilascio della
certificazione
urbanistica erronea -che aveva indotto la società
ad acquistare il terreno nella falsa rappresentazione della
legittimità di un intervento edilizio relativo all'intera
area- integrasse gli estremi "non già dello svolgimento di
una qualsivoglia attività provvedimentale della P.A., bensì
del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario,
riconducibile
all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a
risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che
spetta al giudice ordinario la cognizione (e l'accertamento
in concreto) della sussistenza e della tutelabilità, sul
piano
risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si
assumono lese" (Cass., S.U., n. 23679 del 2009).
2.5. Alle ipotesi ora richiamate è assimilabile la domanda
risarcitoria in relazione alla quale è stato proposto il
presente regolamento di giurisdizione, atteso che,
nella
specie,
ciò che viene in rilievo è l'affidamento riposto dai
ricorrenti
nella attendibilità della attestazione circa la
edificabilità
dell'area che intendevano acquistare (e che proprio
per l'esistenza di detta certificazione essi si sono indotti
ad acquistare) e nella legittimità della concessione
edilizia rilasciata sul presupposto della esattezza di quei
parametri (ancorché, nel caso di specie, da organo
incompetente,
come accertato in via definitiva dai giudici
amministrativi).
In sostanza, anche in questo caso non era
ravvisabile
un atto o provvedimento amministrativo della cui
illegittimità
i ricorrenti avrebbero potuto dolersi e rispetto al
quale avrebbero potuto agire, una volta accertata la
illegittimità,
per le consequenziali statuizioni risarcitorie.
3. Di quanto si è osservato sin qui si può offrire come
conclusione questa sintesi.
In base agli artt. 103 e 113 Cost., il Consiglio di Stato
e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno
giurisdizione
per la tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione.
La giurisdizione amministrativa è dunque ordinata ad
apprestare tutela cautelare, cognitoria ed esecutiva contro
l'agire della pubblica amministrazione, manifestazione di
poteri
pubblici, quale si è concretato nei confronti della parte,
che in conseguenza del modo in cui il potere è stato
esercitato
ha visto illegittimamente impedita la realizzazione
del proprio interesse sostanziale o la sua fruizione.
Dei poteri che al giudice amministrativo è stato dato di
esercitare per la tutela degli interessi sacrificati
dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione, dal
d.lgs. n. 80 del 1998 in poi, ha iniziato a far parte anche
il potere di condanna al risarcimento del danno, in forma di
completamento o sostitutiva: risarcimento che è perciò volto
a contribuire ad elidere le conseguenze di quell'esercizio
del potere che si è risolto in sacrificio illegittimo
dell'interesse sostanziale del destinatario dell'atto.
Casi come quello odierno non prospettano un'esigenza di
tutela quale quella appena delineata.
La parte che agisce in giudizio non è stata destinataria
di un provvedimento ablatorio, di un comportamento
silenzioso
mantenuto su una domanda di provvedimento favorevole o del
diniego di un tale provvedimento, atti o comportamenti di
cui
avrebbe potuto avere ragione di postulare l'illegittimità e
sollecitare di tale illegittimità l'affermazione con
l'ulteriore eventuale ristoro del danno che quella
illegittimità
gli avesse provocato.
Invero, nel caso in esame, la parte che, per valutare la
convenienza di acquistare un terreno l'aveva chiesta, ha
ottenuto
dalla pubblica amministrazione una certificazione sulla
sua condizione edilizia e il contenuto di questa
certificazione
l'ha soddisfatta; ha acquistato il terreno e ha poi ottenuto
il rilascio di una concessione edilizia conforme al
contenuto preventivato come possibile in base a quella
certificazione.
Questa situazione di fatto non era tale da sollecitare
alcuna esigenza di tutela contro un agire illegittimo della
pubblica amministrazione.
L'esigenza di tutela -risarcitoria e solo di tale tipo-
affiora in questo come in analoghi casi per l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole e non richiede che per
ottenere il risarcimento la parte domandi al giudice
amministrativo
un accertamento a proposito della illegittimità del
comportamento tenuto dall'amministrazione, perché questo
accertamento
essa ha invece interesse a contrastarlo nel giudizio
di annullamento da altri provocato e può solo subirlo.
La parte che invoca la tutela risarcitoria non postula
dunque un esercizio illegittimo del potere, consumato in suo
confronto con sacrificio del corrispondente interesse
sostanziale,
ma la colpa che connota un comportamento consistito
per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati
per pronunzia giudiziale o in autotutela, atti che hanno
creato affidamento nella loro legittimità e orientato una
corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta
arrestare.
4. Il ricorso va quindi accolto, dovendosi dichiarare la
giurisdizione del giudice ordinario (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 23.03.2011 n. 6595). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.11.2016 |
ã |
SILENZIO-ASSENSO
anche in materia paesaggistica!! |
Forse, solo oggi ed a distanza di più di un anno
dall'introduzione dell'art.
17-bis nella L. n. 241/1990 -ad opera
dell'art.
3 della L. 07.08.2015 n. 124 (in vigore
dal 28.08.2015 - c.d. riforma Madia)- gli addetti ai
lavori hanno avuto consapevolezza della reale
dirompente novità.
Invero, negli ultimi tempi sono divenuti di dominio
pubblico alcuni contributi qualificati che hanno
spiegato la ratio della novella catturando
l'attenzione, inevitabilmente, soprattutto per
quanto concerne il codice dei beni culturali. Ma
andiamo con ordine.
Dapprima ricordiamo cosa dispone il nuovo art. 17-bis: |
Art.
17-bis. Silenzio assenso tra
amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni
pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici
(articolo introdotto dall'art.
3 della legge n. 124 del 2015)
1. Nei
casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi,
concerti o nulla osta comunque denominati di
amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o
servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti
normativi e amministrativi di competenza di altre
amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i
gestori competenti comunicano il proprio assenso,
concerto o nulla osta entro trenta giorni dal
ricevimento dello schema di provvedimento, corredato
della relativa documentazione, da parte
dell'amministrazione procedente. Il termine è
interrotto qualora l'amministrazione o il gestore
che deve rendere il proprio assenso, concerto o
nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o
richieste di modifica, motivate e formulate in modo
puntuale nel termine stesso. In tal caso, l'assenso,
il concerto o il nulla osta è reso nei successivi
trenta giorni dalla ricezione degli elementi
istruttori o dello schema di provvedimento; non sono
ammesse ulteriori interruzioni di termini.
2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato
comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta,
lo stesso si intende acquisito. In caso di mancato
accordo tra le amministrazioni statali coinvolte nei
procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del
Consiglio dei ministri, previa deliberazione del
Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da
apportare allo schema di provvedimento.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in
cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o
nulla osta comunque denominati di amministrazioni
preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e
della salute dei cittadini, per l'adozione di
provvedimenti normativi e amministrativi di
competenza di amministrazioni pubbliche. In tali
casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di
cui all'articolo
2 non prevedano un termine diverso, il termine
entro il quale le amministrazioni competenti
comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta
è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta
da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i
suddetti termini senza che sia stato comunicato
l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si
intende acquisito.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi
in cui disposizioni del diritto dell'Unione europea
richiedano l'adozione di provvedimenti espressi. |
A seguito della
pubblicazione in G.U. della legge de qua si
sono avuti i primi commenti (qui già pubblicati a
suo tempo) che riportiamo nel prosieguo per una
migliore intelligibilità della questione: |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Neo-attività con
silenzio-assenso e limiti all'autotutela p.a..
Certezza sulle regole da seguire per avviare
un'attività imprenditoriale. Individuando con
precisione i procedimenti per i quali serve la
segnalazione certificata di inizio attività (Scia),
quelli per i quali vige il silenzio-assenso e quelli
per i quali serve autorizzazione espressa.
Comunicando ai soggetti interessati i tempi entro i
quali si forma il silenzio-assenso.
Questo è
l'obiettivo della legge 07.08.2015, n. 124, recante
«deleghe al governo in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13.08.2015,
n. 187).
Il testo affida al governo oltre 15 deleghe da
adottare entro termini che vanno da 90 a 180 giorni
e da 12 a 18 mesi. Tuttavia, ci sono delle misure
che si possono definire auto-applicative, come la
definizione di un meccanismo per il silenzio-assenso
tra amministrazioni con tempi certi, per cui dopo 30
giorni, massimo 90, in caso di mancata risposta, si
intende ottenuto il via libera.
Nuove norme sul silenzio-assenso. L'articolo 3 della
legge della riforma della Pa, rubricato «silenzio-assenso
tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni
pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici»
aggiunge alla legge n. 241/1990 l'articolo 17-bis,
rubricato «silenzio-assenso tra amministrazioni
pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori
di beni o servizi pubblici».
Nei casi in cui è prevista l'acquisizione di
assensi, concerti o nulla osta comunque denominati
di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o
servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti
normativi e amministrativi di competenza di altre
amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i
gestori competenti sono tenuti a comunicare il
proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta
giorni dal ricevimento dello schema di
provvedimento, corredato della relativa
documentazione, da parte dell'amministrazione
procedente.
Il termine è interrotto qualora l'amministrazione o
il gestore che deve rendere il proprio assenso,
concerto o nulla osta rappresenti esigenze
istruttorie o richieste di modifica, motivate e
formulate in modo puntuale nel termine stesso. In
tal caso, l'assenso, il concerto o il nulla osta è
reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione
degli elementi istruttori o dello schema di
provvedimento; non sono ammesse ulteriori
interruzioni di termini.
Autotutela. Ennesima modifica all'articolo 19 della
legge n. 241/1990. Dovrà essere fissato un tempo
massimo per il potere di agire in autotutela da
parte delle pubbliche amministrazioni.
L'amministrazione competente avrà 60 giorni per
intervenire in caso di Scia (30 giorni per la Scia
edilizia) successivamente potrà intervenire in
autotutela (al massimo entro 18 mesi) quando il
provvedimento è illegittimo. Dopo 18 mesi non si
potrà più cambiare idea. Il limite temporale non si
applica se l'autotutela consegue a fatti costituenti
reati accertati con sentenze passate in giudicato (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Silenzio-assenso, ritardi da motivare. Riforma
Madia. Stop alla dilatazione dei tempi di risposta
sugli atti amministrativi senza il dettaglio dei
motivi.
Le esigenze istruttorie vanno formulate entro il
termine dei 30 giorni.
Le amministrazioni pubbliche e i gestori di servizi
pubblici devono rendere il loro assenso, nulla osta
o atto di concerto entro trenta giorni dal
ricevimento dello schema di provvedimento su cui
debbono esprimersi, ma possono interrompere i
termini solo esplicitando in dettaglio le loro
esigenze istruttorie.
Il nuovo articolo 17-bis della legge n. 241/1990
(introdotto dall’articolo 3 della legge 124/2015)
non consente più ai soggetti pubblici ai quali è
richiesta l’espressione di un consenso su un atto
amministrativo di dilatare i tempi di risposta,
obbligandoli a specificare le ragioni che richiedono
un approfondimento istruttorio.
La disposizione disciplina la gestione nell’ambito
del procedimento dei nulla osta, degli assensi e
degli atti di concerto, distinguendola chiaramente
da quella dei pareri e da quella delle valutazioni
tecniche (regolate rispettivamente dagli articoli 16
e 17 della legge 241/1990).
Le amministrazioni pubbliche (in particolare gli
enti locali) devono quindi adeguare le loro
eventuali disposizioni regolamentari alla nuova
previsione e, in caso di confliggenza, disapplicare
la norma regolamentare, se essa determina minori
garanzie rispetto a quanto stabilito dall’articolo
17-bis, vigente dal 28 agosto.
Per evitare equivoci è necessario che le
amministrazioni rilevino all’interno dei
procedimenti le tipologie di nulla osta, nonché di
atti di assenso e di concerto che devono essere
rilasciati da altre amministrazioni o da soggetti
gestori di servizi pubblici sulla base di
disposizioni di legge o regolamentari, al fine di
evitare confusione con i pareri e con le valutazioni
tecniche, ma anche per analizzare compiutamente i
passaggi sub-procedimentali che possono permettere
l’utilizzo del silenzio-assenso (una volta scaduto
il termine di trenta giorni).
Qualora l’amministrazione pubblica o il soggetto
gestore di servizi pubblici chiamati a rilasciare il
nulla osta o gli atti similari rappresentino
esigenze istruttorie o richieste di modifica, le
devono motivare e formulare in modo puntuale entro
lo stesso termine di trenta giorni.
La disposizione prevede in questo caso
l’interruzione del termine e pertanto
l’amministrazione procedente deve elaborare
tempestivamente gli elementi istruttori richiesti e
il nuovo schema di provvedimento, poiché dal
ricevimento di questi da parte dell’amministrazione
o del soggetto gestore che deve rendere il nulla
osta o atto similare decorrono nuovamente i trenta
giorni.
In tal caso, l’assenso, il concerto o il nulla osta
è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione
degli elementi istruttori o dello schema di
provvedimento; non sono ammesse ulteriori
interruzioni di termini.
Il silenzio assenso (previsto dal comma 2
dell’articolo 17-bis) si applica sia in caso di
decorso del termine ordinario sia in caso di decorso
del termine ricalcolato dopo l’interruzione per
approfondimenti istruttori.
I termini sono modulati in novanta giorni (salvo che
disposizioni di legge specifiche non stabiliscano
tempistiche diverse) quando i nulla osta nonché gli
atti di assenso o di concerto devono essere resi da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e
della salute dei cittadini, per l’adozione di
provvedimenti normativi e amministrativi di
competenza di amministrazioni pubbliche: se tali
termini decorrono senza che sia stato comunicato
l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si
intende acquisito.
Anche in tal caso gli enti responsabili dei
procedimenti devono ricomporre dettagliatamente il
quadro normativo, in modo tale da rilevare
l’effettivo collegamento tra l’atto di assenso e uno
dei particolari interessi pubblici preminenti.
Le previsioni dell’articolo 17-bis non si applicano
invece quando normative comunitarie richiedano
l’adozione di provvedimenti espressi
(articolo
Il Sole 24 Ore del 31.08.2015 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
S. Bigolaro,
La legge di riforma della pubblica amministrazione
(124/2015) e i procedimenti edilizi: due le norme
direttamente applicabili, o forse una
(14.10.2015 - tratto da http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. de Leonardis,
Il silenzio-assenso in materia ambientale:
considerazioni critiche sull’art. 17-bis introdotto
dalla cd. riforma Madia (21.10.2015
- tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La previsione del silenzio
assenso in materia ambientale nei procedimenti tra
pubbliche amministrazioni. – 2. La prima criticità:
incoerenza con l’art. 20, quarto comma, l. 241/1990.
– 3. La seconda criticità: il contrasto con le
sentenze della Corte di Giustizia e della Corte
Costituzionale. – 4. La terza criticità: la mancata
valutazione delle organizzazioni amministrative
preposte alla tutela. – 5. Spunti conclusivi. |
EDILIZIA PRIVATA: Dai
vincoli nascosti un’insidia sugli edifici pubblici e
privati. Nel perimetro tutti gli stabili con più di
70 anni. Immobili tutelati.
Limitazioni non inserite nella pianificazione.
Non solo edifici storici e di
pregio: i vincoli culturali possono gravare in modo
automatico (e poco evidente) anche su immobili
“ordinari”, semplicemente perché costruiti più di 70
anni fa e di proprietà, ad esempio, di una
fondazione o di una Onlus. Dunque, anche sugli
edifici privati (a determinate condizioni) possono
scattare tutele rafforzate previste dal Codice dei
beni culturali.
Il nostro ordinamento prevede una serie di vincoli
che, a vario titolo, possono incidere sul diritto di
proprietà, limitando o inibendo l’edificazione e lo
svolgimento di lavorazioni edilizie.
Tra i più noti, si ricordano i vincoli di carattere
paesaggistico, i vincoli culturali derivanti da
dichiarazione espressa di interesse e i vincoli di
carattere sovranazionale derivanti dall’inclusione
di determinate aree o immobili nella lista del
patrimonio dell’umanità (Unesco world heritage
List). Altre limitazioni possono poi derivare
dall’inclusione degli immobili all’interno delle
cosiddette fasce di rispetto, ossia dalla contiguità
del bene con determinate infrastrutture: aeroporti,
strade, cimiteri o pozzi.
Ma mentre questi vincoli sono piuttosto semplici da
individuare perché emergono dagli atti di
pianificazione comunale e sovracomunale (piano
regolatore generale, piani paesaggistici eccetera),
negli altri casi, l’identificazione dello speciale
regime di tutela di un immobile può non essere così
semplice perché non è “mediata” da strumenti
di pianificazione urbanistica, ma di fatto dettata
in modo automatico. E dunque spesso «nascosto».
Questo avviene appunto per i vincoli di tutela
culturale.
Il Codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004)
all’articolo 10 qualifica come beni culturali le
cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle
regioni, agli altri enti pubblici territoriali,
nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a
persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi
compresi gli enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti, che presentano interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico, salvo che
siano opera di autore vivente o la cui esecuzione
non risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad
oltre settanta anni, se immobili.
Dunque il Codice tutela tutti i beni mobili e
immobili che abbiano una certa anzianità e, al tempo
stesso, siano di proprietà di determinati soggetti.
E attenzione: non si tratta solo di soggetti
pubblici (Stato, Regioni, Comuni eccetera) ma anche
di altri enti o istituti pubblici (quali le agenzie
fiscali, l’Inps o le autorità portuali). E persino
di soggetti privati, a condizione che siano realtà
senza fine di lucro (fondazioni, onlus,
associazioni). Tutti gli immobili oltre i 70 anni
appartenenti a questa ampia gamma di soggetti sono
vincolati.
Il vincolo però è temporaneo. I beni sono infatti
tutelati, in via preventiva e cautelare, fino a
quando non sia stata effettuata la verifica circa
l’effettiva sussistenza dell’interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico da parte
degli organi ministeriali, a seguito della quale
l’interesse culturale del bene potrà essere o meno
confermato.
Ma questa tacita classificazione incide largamente
sulla circolazione di questi immobili e ha notevole
rilevanza, anche per le dismissioni e valorizzazioni
del patrimonio pubblico.
Il Codice prevede infatti che, sino all’esperimento
della verifica di interesse culturale, questi beni
siano inalienabili. Una volta terminata la verifica,
si porranno invece due possibili scenari: se il bene
è effettivamente riconosciuto come culturale, lo
stesso potrà essere venduto, ma solamente previo
rilascio di una autorizzazione ministeriale (e salvo
che, in esito alla verifica, sia stato ritenuto
inalienabile). Se, per contro, il bene non è
riconosciuto come di interesse culturale, potrà
essere liberamente alienato, secondo le procedure
previste per i beni pubblici (gara e
sdemanializzazione, se occorrente).
Il percorso per la dismissione e valorizzazione del
patrimonio pubblico è quindi ricco di insidie,
peraltro non lievi, dato che il Codice sanziona le
alienazioni e gli atti giuridici compiuti contro i
divieti o senza l’osservanza delle condizioni e
modalità da esso prescritte, con la nullità.
---------------
VINCOLO CULTURALE DI LEGGE
Immobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli
altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni
altro ente ed istituto pubblico e a persone
giuridiche private senza fine di lucro, che
presentano interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico e che siano opera
di autore non vivente e la cui esecuzione risalga ad
oltre settanta anni fa
Articolo 10, commi 1 e 5, Dlgs n. 42/2004
VINCOLO CULTURALE ESPRESSO
Riguarda i beni dichiarati di interesse culturale
con vincolo espresso. Per gli immobili si tratta di:
- cose immobili e mobili che presentano interesse
artistico, storico, archeologico o etnoantropologico
particolarmente importante, appartenenti a soggetti
diversi da quelli indicati al comma 1 dell’articolo
10;
- cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti,
che rivestono un interesse particolarmente
importante
Articolo 10, comma 3, Dlgs n. 42/2004
VINCOLO PAESAGGISTICO
Se dichiarate di notevole interesse:
- cose immobili che hanno cospicui caratteri di
bellezza naturale, singolarità geologica o memoria
storica;
- ville, giardini e parchi che si distinguono per la
loro non comune bellezza;
- complessi di cose immobili che compongono un
caratteristico aspetto estetico e tradizionale;
- bellezze panoramiche.
Sono comunque di interesse paesaggistico per legge i
territori espressamente elencati all’articolo 142
del Dlgs 42/2004
Articoli 136 e 142 Dlgs 42/2004
VINCOLO UNESCO
Interessa il patrimonio culturale e quello naturale,
come definiti nella Convenzione
Convenzione di Parigi del 16.11.1972
FASCIA DI RISPETTO STRADALE
Distanza dal confine stradale da rispettare
nell’aprire canali, fossi o nell’eseguire qualsiasi
escavazione, nonché nelle nuove costruzioni, nelle
ricostruzioni o negli ampliamenti
Codice della strada (Dlgs n. 285/1992) -
Regolamento (Dpr n. 495/1992).
FASCIA DI RISPETTO AEROPORTUALE
Distanza dal perimetro dell’aeroporto da rispettare
per la realizzazione di ostacoli
Rd n. 327/1942
FASCIA DI RISPETTO CIMITERIALE
Distanza da rispettare per costruire nuovi edifici
intorno ai cimiteri
Rd n. 1265/1934 - Dpr n. 285/1990
FASCIA DI RISPETTO POZZI
Porzione di territorio da sottoporre a vincoli e
destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente
e quantitativamente la risorsa idrica captata
Dlgs n. 152/2006
---------------
L’autorizzazione è necessaria
per ogni intervento. Beni culturali. Il nulla osta
della Soprintendenza.
Il Codice
dei beni culturali subordina l’esecuzione di opere e
lavori di qualunque genere su beni culturali
all’autorizzazione del soprintendente.
Anche il mutamento di destinazione d’uso dei beni
culturali deve essere comunicato al soprintendente
affinché lo stesso verifichi la compatibilità
dell’uso con le finalità di conservazione e con il
carattere storico-artistico del bene.
La realizzazione di un qualunque intervento edilizio
su un bene vincolato presuppone, quindi, il positivo
esperimento di un procedimento di valutazione da
parte del soprintendente. La disciplina dettata dal
Codice è piuttosto semplice: a seguito della
presentazione del progetto, al soprintendente è
assegnato un termine di 120 giorni per esprimere
l’autorizzazione.
Questo termine può essere sospeso nel caso la
soprintendenza chieda chiarimenti o altri elementi
integrativi necessari per formare il proprio
giudizio. La Soprintendenza ha altresì la facoltà di
svolgere gli accertamenti di natura tecnica che
ritenga necessari. Anche in questo caso il termine
di 120 giorni viene sospeso.
Tenuto conto della rilevanza dei valori giuridici in
discussione, il Codice non dispone che
dall’eventuale silenzio dell’amministrazione possa
conseguire un automatico effetto autorizzatorio.
Decorso infruttuosamente il termine, il richiedente
può però diffidare la soprintendenza a provvedere e,
se la stessa non dovesse azionarsi nemmeno nei 30
giorni successivi al ricevimento della diffida, può
agire avanti al competente tribunale amministrativo,
richiedendo l’accertamento dell’obbligo di
provvedere.
L’autorizzazione resta ferma per cinque anni dal
rilascio. Ma, se i lavori non iniziano entro questo
termine, il soprintendente è legittimato a integrare
il titolo con nuove prescrizioni o a variare quelle
già impartite al fine di conformare il provvedimento
alle nuove conoscenze eventualmente sopravvenute nel
campo della conservazione.
La procedura di autorizzazione si inserisce nel
contesto di cui all’articolo 5 del Dpr 380/2001 e,
pertanto, è lo sportello unico per l’edilizia
comunale che dovrebbe acquisire l’autorizzazione
dalla soprintendenza, una volta ricevuta un’istanza
di rilascio di titolo edilizio su un bene culturale.
Nel caso in cui sia lo sportello unico a richiedere
l’autorizzazione alla Soprintendenza (e non, invece,
nel caso in cui il privato si dovesse rivolgere
direttamente all’amministrazione), peraltro,
potrebbe risultare applicabile l’articolo 17-bis
della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge di
riforma della Pa (la n. 124/2015), in forza del
quale l’eventuale silenzio della soprintendenza
verrebbe qualificato come assenso al progetto,
sebbene in merito possano sorgere perplessità.
--------------
Prelazione pubblica anche dopo
la vendita. Le cessioni. Subentro garantito.
In
tempi di dismissione del patrimonio immobiliare
pubblico potrebbe sembrare incoerente, ma la vigente
normativa garantisce allo Stato la facoltà di
subentrare agli acquirenti dei beni culturali,
comprandoli, in via di prelazione, allo stesso
prezzo indicato nell’atto di vendita.
Gli articoli 59 e seguenti del Codice dei beni
culturali (D.lgs. n. 42/2004), disciplinano in
dettaglio la procedura speciale. La prelazione
presuppone l’esistenza di un negozio traslativo del
bene culturale, già perfezionato, efficace e,
tuttavia, subordinato alla condizione sospensiva del
mancato esercizio del diritto di prelazione.
Il procedimento ha inizio con la denuncia di
avvenuta alienazione alla quale deve provvedere,
entro trenta giorni dall’atto, l’alienante (o
l’acquirente, in caso di trasferimento nell’ambito
di procedure di vendita forzata o fallimentare o in
forza di sentenza ovvero l’erede o il legatario, in
caso di successione a causa di morte).
La denuncia è presentata al soprintendente del luogo
dove si trovano i beni e deve contenere
l’identificazione e sottoscrizione delle parti, con
il relativo domicilio, l’identificazione dei beni,
oltre a natura e condizioni dell’atto di
trasferimento.
Il ministero può esercitare la prelazione entro 60
giorni dal ricevimento della denuncia, mediante
provvedimento espresso da notificare all’alienante e
all’acquirente.
La proprietà del bene passa allo Stato, che sarà
tenuto a corrispondere all’alienante il medesimo
prezzo stabilito nell’atto di compravendita, dalla
data dell’ultima notifica.
L’esercizio della prelazione, ovviamente, caduca la
vendita presupposta. Il Codice, peraltro, prevede
che, in via subordinata e sussidiaria rispetto allo
Stato, la prelazione possa essere esercitata anche
da parte della regione e degli altri enti pubblici
territoriali nel cui ambito si trova il bene. Una
volta ricevuta la denuncia, il soprintendente ne
deve difatti dare immediata comunicazione a questi
soggetti.
Se interessati, regione e gli altri enti pubblici
territoriali possono formulare al ministero una
proposta motivata di prelazione, sostenuta da idonea
copertura finanziaria, che indichi le finalità
proposte per la valorizzazione culturale del bene.
Il ministero può dunque rinunciare all’esercizio
della prelazione e trasferirne la facoltà all’ente
interessato.
L’ente assume quindi il relativo impegno di spesa,
adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica
ad alienante ed acquirente entro sessanta giorni
dalla denuncia.
Anche in questo caso, la proprietà del bene passa
all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data
dell’ultima notifica.
Tale complesso di norme, seppur in questo periodo
sia raramente attuato, completa la tutela dei beni
culturali sotto il profilo della ingerenza pubblica
nella libera circolazione degli stessi. Si tratta di
uno strumento utile a garantire il conseguimento di
rilevanti interessi pubblici, quali la conservazione
e la fruizione collettiva dei beni che costituiscono
l’imponente patrimonio culturale del nostro Paese (articolo
Il Sole 24 Ore del 07.12.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Autotutela e silenzio,
procedimenti rivisti.
Numerose le modifiche contenute nella delega p.a..
La legge n. 124/2015 contenente «deleghe al
governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche» (c.d. legge Madia)
persegue l'obiettivo ambizioso di riorganizzare
profondamente le strutture e le funzioni delle p.a.,
in tutte le loro articolazioni.
La legge prevede una serie di norme di immediata
applicazione, ma contiene anche numerose deleghe
legislative al governo ad adottare vari decreti
legislativi. In questo disegno riformatore si
collocano specifici interventi diretti a modificare,
in alcuni aspetti, la disciplina generale del
procedimento e dell'atto amministrativo, racchiusa
nella legge n. 241/1990.
Anche per la modifica della legge n. 241/1990 gli
strumenti normativi utilizzati risultano
diversificati. Importanti innovazioni contenute
nella legge n. 124/2015 sono state immediatamente
operanti e in vigore dal 28.08.2015. Si tratta
dell'art. 3 (che ha introdotto il nuovo art. 17-bis,
riguardante il «silenzio tra pubbliche
amministrazioni») e dell'art. 6 (relativo,
letteralmente, all'autotutela, ma riguardante nello
specifico gli istituti della Scia, dell'annullamento
e della sospensione d'ufficio).
Per materie ritenute di elevata difficoltà la
tecnica utilizzata è quella della delega al governo.
Così avviene all'art. 2, in tema di conferenza dei
servizi, all'art. 4 relativo all'introduzione di
norme per la semplificazione e l'accelerazione dei
procedimenti amministrativi e all'art. 5 con il
quale si delega il governo a procedere a una precisa
individuazione dei procedimenti oggetto di Scia o di
silenzio assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20
della legge n. 241/1990, nonché di quelli per i
quali è necessaria l'autorizzazione espressa.
Alcuni di tali decreti legislativi dovrebbero essere
oggetto di un primo esame nel consiglio dei ministri
che si terrà in data odierna, dove si prevede che
approderà un pacchetto contenente una decina di
decreti attuativi della riforma Madia. Obiettivo
dichiarato è quello di semplificare e rendere più
chiari gli adempimenti richiesti ai cittadini e
accelerare le procedure amministrative al fine di
sostenere la crescita economica.
Gli schemi di ciascun decreto legislativo saranno
successivamente trasmessi alle camere per
l'espressione dei pareri delle commissioni
parlamentari competenti per materia e per i profili
finanziari e della commissione parlamentare per la
semplificazione, che si pronunciano nel termine di
60 giorni dalla data di trasmissione, decorso il
quale il decreto legislativo può essere comunque
adottato (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Consiglio di Stato ha reso il parere sul decreto
sulla conferenza di servizi (Schema di decreto
legislativo recante norme per il riordino della
disciplina in materia di conferenza dei servizi, in
attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015,
n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”).
I punti principale del parere del Consiglio di Stato
sulla conferenza dei servizi.
1. La norma di delega e lo schema
di decreto legislativo
La delega contenuta nell’art. 2 della legge n. 124
del 2015 mira a riformare integralmente la
conferenza di servizi, il principale istituto di
semplificazione in caso di procedimenti complessi,
che richiedono una valutazione contestuale tra
plurimi interessi, sia pubblici sia privati, in
vista di un risultato finale unitario.
La delega si fonda su alcuni principi innovativi
(accanto ad altri confermativi della disciplina
vigente), fra i quali:
• la riduzione delle ipotesi in cui la conferenza di
servizi è obbligatoria;
• la possibilità di limitare l’obbligo di
presenziare alle riunioni della conferenza ai soli
casi di procedimenti complessi;
• la partecipazione in conferenza di un
rappresentante unico, anche per le amministrazioni
statali;
• l’espressa introduzione del potere di autotutela;
• le nuove modalità di superamento del dissenso, che
assume ora la forma di un’opposizione dinanzi alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Lo schema si compone di due Titoli:
• il Titolo I opera la completa riformulazione degli
articoli da 14 a 14-quinquies della legge
07.08.1990, n. 241;
• il Titolo II contiene, invece, le disposizioni di
coordinamento fra tale disciplina generale e la
normativa di settore che regola lo svolgimento della
conferenza di servizi.
2. Il contenuto del parere reso dal
Consiglio di Stato: aspetti generali.
• L’importanza della formazione, della
comunicazione istituzionale, del monitoraggio.
Il Consiglio di Stato rileva che la disciplina della
conferenza di servizi è stata modificata in tutte le
legislature e da quasi tutti i Governi dal 1990 ad
oggi; auspica che il futuro decreto legislativo si
riveli più efficace dei molteplici interventi
legislativi precedenti, ma ritiene altresì
necessario chiedersi se, dopo tanti tentativi, la
soluzione non possa risiedere anche in interventi
ulteriori e di tipo diverso rispetto a quello
dell’(ennesima) novella della legge n. 241.
Il parere auspica che, oltre alla semplificazione
procedimentale conseguibile con il nuovo testo, si
debba perseguire una semplificazione sostanziale,
che si concretizzi in politiche pubbliche capaci di
regolare e graduare i diversi interessi, allo scopo
di rendere più agevole la loro composizione.
È necessario poi adottare misure ‘non normative’
di sostegno alla riforma:
- la prima riguarda il ‘fattore umano’, che
ricopre un ruolo fondamentale per il successo della
riforma. Occorrono amministratori professionalmente
‘capaci’ e in grado di condurre il processo
decisionale verso decisioni corrette, tempestive e
non incentrate solo su profili
giuridico-amministrativi: appare dunque
indispensabile un programma formativo ad hoc,
che ben potrebbe essere affidato alla supervisione
della riformata Scuola nazionale
dell’amministrazione (SNA);
- occorre altresì che il Governo si impegni in
un’opera di comunicazione istituzionale delle
potenzialità dei nuovi strumenti e di diffusione
della cultura del cambiamento, rivolta agli
amministratori, ma anche agli operatori privati;
- è necessario, infine, che la fase di
implementazione della riforma in atto venga
accompagnata da adeguate misure di monitoraggio
delle prassi applicative, ricorrendo allo strumento
della verifica di impatto della regolamentazione (VIR).
3. La partecipazione del privato
alla conferenza di servizi.
Il parere rileva l’opportunità di reintrodurre in
modo espresso nel nuovo testo la possibilità per il
privato di partecipare attivamente ai lavori della
conferenza, con pieno accesso ai relativi atti
(facoltà che è invece prevista dall’attuale art.
14-ter).
4. I rapporti fra la nuova
conferenza di servizi e le valutazioni ambientali
(VIA e VAS).
Si suggerisce di operare un più adeguato raccordo
fra la disciplina della conferenza di servizi e la
disciplina speciale in tema di valutazioni
ambientali (VIA e VAS), in particolare estendendo le
previsioni di cui al nuovo art. 14 anche alle
ipotesi di progetti sottoposti a VIA statale (mentre
l’attuale formulazione esclude in modo espresso tale
possibilità).
5. La possibilità di far eseguire
l’istruttoria da organismi privati.
Il parere ritiene utile riproporre la previsione di
cui all’attuale art. 14-ter, secondo cui
l’amministrazione procedente può far eseguire
l’attività istruttoria prodromica alle decisioni
della conferenza anche da altri organi della P.A. o
da istituti universitari, ponendo i relativi oneri
economici a esclusivo carico del privato richiedente
che vi consenta.
6. Tempi certi e
responsabilizzazione del privato e della P.A.
Il Consiglio di Stato condivide la ratio
acceleratoria sottesa alla formulazione del nuovo
art. 14-bis (Conferenza semplificata); occorre però,
al contempo, responsabilizzare anche il privato
richiedente imponendo la presentazione di istanze
complete e ben istruite.
7. Conferenza in modalità ‘sincrona’
e ‘asincrona’, ‘semplificata’ e ‘simultanea’:
un necessario chiarimento.
Il parere raccomanda di chiarire se sussista una
distinzione, ovvero un rapporto di specialità fra le
ipotesi di conferenza “in forma simultanea” e
quelle “in modalità sincrona”.
8. Il ‘rappresentante unico’
delle amministrazioni statali: alcuni necessari
chiarimenti.
Una delle principali innovazioni della riforma è il
rappresentante unico delle amministrazioni statali.
La Commissione speciale esprime il proprio favore
per una disciplina che appare bilanciata,
prevedendo:
- da un lato, una regolazione flessibile del
rapporto tra rappresentante unico e amministrazioni
statali;
- dall’altro, la possibilità di partecipazione e di
intervento, ma senza diritto di voto, delle altre
amministrazioni.
Il parere rappresenta però l’esigenza:
- di specificare chi dispone la nomina del
rappresentante unico a livello periferico (per
quello centrale c’è il Presidente del Consiglio);
- di evitare che il rappresentante unico
(nell’ambito di decisioni assunte a maggioranza)
risulti sistematicamente in minoranza;
- di chiarire meglio quanti sono i rappresentanti
unici per gli enti, o i livelli, locali.
9. Il ritiro in autotutela della
determinazione conclusiva.
Il parere condivide l’impostazione secondo cui
l’amministrazione rimasta inerte durante la
conferenza di servizi non possa poi sollecitare
l’adozione del ritiro in autotutela della
determinazione conclusiva (art. 14-quater).
Occorrerebbe, tuttavia, temperare tale soluzione nei
casi in cui la richiesta di autotutela non si fondi
su ragioni di opportunità, bensì su ragioni di
legittimità.
10. La funzionalizzazione delle
modalità di componimento del dissenso.
Per quanto riguarda l’art. 14-quinquies, circa i
rimedi per le amministrazioni dissenzienti, il
parere raccomanda al Governo di:
- reintrodurre l’obbligo di un dissenso che sia
espresso in sede di conferenza di servizi,
pertinente, motivato e costruttivo;
- valutare se sia funzionale risolvere sempre al
livello centrale la procedura di componimento e se
ciò corrisponda davvero ai principi di sussidiarietà
e del ‘minimo mezzo’.
11. Le modifiche al T.U. edilizia:
rapporti con la disciplina del silenzio-assenso.
Per quanto riguarda l’art. 2 dello schema di
decreto, recante modifiche al T.U. edilizia del
2001, il Consiglio di Stato invita a valutare se sia
sempre indispensabile indire una conferenza di
servizi anche nelle ipotesi in cui si potrebbe fare
applicazione nuovo articolo 17-bis della legge n.
241 del 1990 (in tema di silenzio-assenso tra
amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni
pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici).
12. Il coordinamento con la
disciplina in tema di autorizzazione paesaggistica.
In relazione all’art. 6 dello schema di decreto, il
parere raccomanda di introdurre correttivi per
evitare il rischio che il parere del Soprintendente
sia espresso a ridosso dello spirare del termine di
conclusione della conferenza (Consiglio di Stato,
Commissione speciale,
parere 07.04.2016 n. 890 - tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’imprecisione
nella Scia non blocca l’attività.
Adempimenti. L’ente decide lo stop solo
per dati non veritieri sui requisiti o pericoli per
salute e ambiente.
Il
decreto legislativo di attuazione dell'articolo 5
della legge 124/2015, che sarà a breve
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ha come
obiettivo prioritario la semplificazione della
procedura della Scia (segnalazione certificata di
inizio attività) recentemente modificata con
l'articolo 6 della legge 124.
Le novità più significative possono essere così
sintetizzate. L'ente competente a ricevere la Scia
(Comune, Camera di Commercio e così via) il quale,
in sede di controllo, da effettuarsi tassativamente
entro sessanta giorni, riscontra la carenza di
requisiti previsti dalla legge speciale relativa
alla attività intrapresa, deve intervenire in due
modi se la carenza può essere regolarizzata dal
privato:
- se la Scia contiene attestazioni non veritiere
circa i requisiti posseduti o se l'attività comporta
pericoli per i cosiddetti interessi sensibili come
l'ambiente, la salute, i beni culturali l'ente deve
decidere la sospensione dell'attività intrapresa;
- negli altri casi in cui la Scia non è conforme a
legge l'ente deve prescrivere al privato le misure
per la sua regolarizzazione, ma l'attività non viene
sospesa.
Nel caso di Scia carente dei requisiti, il
dipendente pubblico è responsabile della eventuale
omissione dei provvedimenti inibitori da assumere
entro sessanta giorni; non è però chiarita la natura
di questa responsabilità.
Nei rispettivi siti gli enti destinatari della Scia
devono pubblicare i moduli unificati (a livello
nazionale) contenenti le notizie da dichiarare e i
documenti da allegare.
I moduli sono adottati dai ministeri per le attività
di loro competenza e dalla conferenza Stato-Regioni
per le attività produttive e l'edilizia.
Considerato che questi moduli non saranno
disponibili a breve il decreto impone agli enti di
pubblicare nel sito (si ritiene da subito) l'elenco
dei requisiti e della documentazione per ciascuna
delle attività.
Da tempo però parecchi enti pubblicano moduli da
essi elaborati che spesso soddisfano queste nuove
prescrizioni.
Le novità collegate alla pubblicità sono due: l'ente
può chiedere al privati notizie e documenti solo se
il contenuto della Scia e dei documenti già inviati
non corrispondono a quelli pubblicati nel sito;
l'omessa pubblicazione nel sito e la richiesta di
ulteriori notizie e documenti costituiscono illecito
disciplinare punito con la sospensione dal servizio
e la privazione della retribuzione da tre giorni a
sei mesi.
Nel sito deve essere indicato anche lo “sportello
unico” al quale va presentata la Scia e questo
può avere più sedi per favorire l'accesso nel
territorio. Dovrebbe coincidere con il Suap
(sportello unico attività produttive) ma un
chiarimento si impone visto anche il silenzio della
relazione illustrativa su questo tema importante.
Il decreto legislativo aggiunge l'articolo 19-bis da
applicare alla Scia che riguarda le attività
economiche quando le norme di settore impongono
anche l'ottenimento di attestazioni e simili o atti
di assenso e simili rilasciati da enti diversi da
quello che riceve la Scia.
È una tematica complessa che dovrà essere coordinata
con l'articolo 17-bis (silenzio assenso tra
Pubbliche amministrazioni) e l'articolo 14
(conferenza di servizi) della legge 241/1990.
Il decreto fissa le regole per due situazioni:
- se una attività è soggetta a Scia non solo
dell'ente competente ma anche a altre Scia connesse
(per esempio nell’edilizia o ambientale) o ad
attestazioni di altri enti (per esempio vigili del
fuoco) il privato può iniziare subito l'attività e
il primo ente deve inviare la Scia agli altri enti
che devono controllare gli aspetti di loro
competenza;
- se per una attività soggetta a Scia occorre
ottenere atti di “assenso” di altre Pa il
privato deve, assieme all'invio della Scia,
trasmettere anche la domanda per il rilascio di
questo atto. L'inizio effettivo della attività
soggetta a Scia in questo caso è subordinato
all'assenso, unico caso di deroga al principio
dell'immediata efficacia della Scia.
Con il nuovo articolo 18-bis si attua una
definizione organica dello strumento della ricevuta
rilasciata con la presentazione sia della Scia della
domanda.
Viene precisato che: la data della protocollazione
della ricevuta deve essere sempre quella della
presentazione(ricezione) della Scia e della domanda;
questi atti producono effetto anche senza il
rilascio della ricevuta purché presentati
all'ufficio competente; la ricevuta indica il
termine entro cui l'ente deve rispondere (nel caso
della Scia va inteso che l'ente dopo i sessanta
giorni deve comunicare l'esito della verifica?)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 17.06.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
Poi, è intervenuto un 1° contributo qualificato del
Consiglio di Stato col parere 13.07.2016 n. 1640 (ed
altri contributi/commenti): |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
F. Aperio Bella,
Il silenzio-assenso
tra pubbliche amministrazioni (il nuovo art. 17-bis della l.
n. 241 del 1990)
(08-09.04.2016 - tratto da
www.diritto-amministrativo.org).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il problema
dell’applicazione dell’art. 17-bis agli atti di assenso
delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi
sensibili – 3. I rapporti tra l’art. 17-bis e la conferenza
di servizi – 4. Il nodo del rispetto delle autonomie
regionali – 5. Considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Consiglio di Stato ha reso il
parere sul silenzio-assenso tra pubbliche
amministrazioni.
I punti principali del parere del Consiglio di stato
sul silenzio-assenso tra Pubbliche amministrazioni
(art. 17-bis, l. n. 241 del 1990) (Consiglio di
Stato, Commissione speciale,
parere 13.07.2016 n. 1640).
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L’importanza del ricorso ai quesiti
nella fase attuativa della riforma
Il Consiglio di Stato, in occasione del primo dei
quesiti riguardanti l’attuazione della riforma di
cui alla legge n. 124 del 2015, sottolinea
l’efficacia del metodo seguito dal Governo di
procedere tramite la proposizione di quesiti sul
funzionamento pratico della riforma, confermando:
- l’importanza cruciale della attuazione ‘in
concreto’ della riforma;
- l’utilità della funzione consultiva del Consiglio
di Stato concepita come sostegno in progress a un
progetto istituzionale, piuttosto che a singoli
provvedimenti.
Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti
tra amministrazioni pubbliche: il silenzio-assenso
‘endoprocedimentale’
Il parere della Commissione speciale rileva come
l’art. 17-bis, introducendo il nuovo istituto del
silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’, ponga
una seconda regola generale –dopo quella prevista
dall’art. 21-nonies nei rapporti tra cittadino e PA–
che stavolta riguarda i rapporti ‘interni’
tra amministrazioni, quale che sia l’amministrazione
coinvolta e quale che sia la natura del procedimento
pluristrutturato.
Infatti, la nuova disposizione prevede che il
silenzio dell’Amministrazione interpellata, che non
esterni alcuna volontà, è equiparato ope legis
ad un atto di assenso e non preclude
all’Amministrazione procedente l’adozione del
provvedimento conclusivo.
Il silenzio-assenso come sanzione e
rimedio all’inerzia amministrativa
La Commissione speciale evidenzia come il nuovo
strumento di semplificazione confermi la natura “patologica”
del silenzio amministrativo, sia nel rapporto
verticale (tra amministrazione e cittadino), sia nel
rapporto orizzontale (tra amministrazioni
co-decidenti).
Il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza
l’inerzia dell’amministrazione coinvolta, ancorché
non fisiologica, tanto da ricollegarvi la più grave
delle “sanzioni” o il più efficace dei
rimedi: la definitiva perdita del potere di
dissentire e di impedire la conclusione del
procedimento.
Il triplice fondamento del nuovo
silenzio-assenso
Il fondamento del nuovo silenzio-assenso è triplice:
- eurounitario, individuato nel “principio della
tacita autorizzazione” (ovvero la regola del
silenzio-assenso) introdotto dalla cd. direttiva
Bolkestein (considerando 43; art. 13, par. 4);
- costituzionale, rinvenibile nel principio di buon
andamento, di cui all’art. 97 Cost., inteso
nell’ottica di assicurare il ‘primato dei diritti’
della persona, dell’impresa e dell’operatore
economico;
- sistematico, con riferimento al principio di
trasparenza (anch’esso desumibile dall’art. 97
Cost.) che ormai, specie dopo l’entrata in vigore
del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, informa l’intera
attività amministrativa come principio generale.
Ambito di applicazione soggettivo
Il parere risolve alcuni dubbi interpretativi. Il
Consiglio di Stato ritiene l’art. 17-bis applicabile
anche a:
1) Regioni ed enti locali
Va, infatti, intensificata ogni forma di
coordinamento istituzionale volta a garantire
un’applicazione omogenea delle nuove regole di
semplificazione nel rispetto della loro autonomia
organizzativa.
2) Organi politici
L’art. 17-bis si applica a tali organi sia quando
essi adottano atti amministrativi o normativi che
quando sono chiamati ad esprimere concerti, assensi
o nulla osta comunque denominati nell’ambito di
procedimenti per l’adozione di atti amministrativi o
normativi di competenza di altre Amministrazioni. In
tal caso, è la natura dell’atto da adottare
(amministrativo o normativo) che rileva, e non la
natura dell’organo (amministrativo o politico)
titolare della competenza “interna”
nell’ambito della pubblica Amministrazione
coinvolta.
3) Autorità indipendenti
Rispetto ad esse non emergono ragioni di
incompatibilità con la particolare autonomia di cui
godono, anche in considerazione della natura
amministrativa ormai ad esse pacificamente
riconosciuta.
4) Gestori di beni e servizi pubblici
L’art. 17-bis si applica ai gestori di beni e
servizi anche quando siano titolari del procedimento
(e debbano acquisire l’assenso di altre
amministrazioni) e non solo quando siano chiamati a
dare l’assenso nell’ambito di procedimento di altre
Amministrazione.
A favore di tale conclusione, viene richiamata la
nozione (di matrice comunitaria ed ormai accolta
dalla prevalente giurisprudenza) “oggettiva”
e “funzionale” di pubblica Amministrazione,
in virtù della quale si considera pubblica
Amministrazione ogni soggetto che, a prescindere
dalla veste formale-soggettiva, sia tenuto ad
osservare, nello svolgimento di determinate attività
o funzioni, i principi del procedimento
amministrativo.
Ambito di applicazione oggettivo
Il parere affronta, altresì, delicate questioni
interpretative concernenti anche l’ambito di
applicazione oggettivo del nuovo istituto.
1) Applicabilità agli atti normativi
Secondo la Commissione speciale, la norma si applica
anche ai procedimenti diretti all’emanazione di atti
normativi in virtù di un espresso dato testuale: il
primo periodo del comma 1 contiene un esplicito
riferimento ai procedimenti per l’adozione degli
atti normativi
2) Applicabilità a procedimenti relativi a
interessi pubblici primari
La formulazione testuale del comma 3 consente di
accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del
meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti
di competenza di amministrazioni preposte alla
tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni
culturali e la salute dei cittadini: le
Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi
sensibili beneficiano di un termine diverso (quello
previsto dalla normativa di settore o, in mancanza,
del termine di novanta giorni), scaduto il quale
sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del
silenzio assenso.
L’applicazione della norma agli atti di tutela degli
interessi sensibili dovrà poi essere esclusa laddove
la relativa richiesta non provenga
dall’Amministrazione procedente, ma dal privato
destinatario finale dell’atto. In tal caso, venendo
in rilievo un rapporto verticale, troverà
applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990
(che esclude dal suo campo di applicazione gli
interessi sensibili).
3) Rapporto con gli artt. 16 e 17 legge n.
241/1990
Gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre
amministrazioni da acquisire (al di là del nomen
iuris) nella fase istruttoria, mentre l’art.
17-bis fa riferimento ad atti da acquisire nella
fase decisoria, dopo che l’istruttoria si è chiusa.
In base a tali considerazioni, la Commissione
speciale ritiene che la disposizione sia applicabile
anche ai pareri vincolanti e non, invece, a quelli
puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono
assoggettati alla diversa disciplina di cui agli
artt. 16 e 17 della legge n. 241 del 1990.
4) Il “bollino” della Ragioneria generale
dello Stato
L’applicabilità della norma ai soli casi di atti che
hanno natura codecisoria esclude, che il
silenzio-assenso possa sostituire atti che si
collocano in un momento successivo a quello della
decisione, riguardando la fase costitutiva
dell’efficacia del provvedimento: è il caso del c.d.
‘bollino’ della Ragioneria Generale dello
Stato, previsto dall’art. 17, comma 10, della legge
31.12.2009, n. 196, un atto con funzione di
controllo, che si colloca dopo l’esaurimento della
fase decisoria ed è necessario per l’integrazione
dell’efficacia di provvedimenti già adottati.
5) Non applicabilità ai procedimenti ad
iniziativa di parte tramite sportello unico
Il parere esclude che il nuovo silenzio-assenso tra
pubbliche amministrazioni possa operare nei casi in
cui l’atto di assenso sia chiesto da un’altra
pubblica amministrazione non nel proprio interesse,
ma nell’interesse del privato (destinatario finale
dell’atto) che abbia presentato la relativa domanda
tramite lo sportello unico.
Non incide sull’applicabilità del nuovo istituto la
circostanza, del tutto irrilevante, che l’istanza il
privato la presenti direttamente o per il tramite di
un’Amministrazione che si limita ad un ruolo di mera
intermediazione, senza essere coinvolta, in qualità
di autorità co-decidente, nel relativo procedimento.
Rapporti con la conferenza di
servizi
Secondo il parere, il criterio più semplice per la
risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa
è quello secondo cui l’art. 17-bis trova
applicazione nel caso in cui l’Amministrazione
procedente debba acquisire l’assenso di una sola
Amministrazione, mentre nel caso di assensi da parte
di più Amministrazioni opera la conferenza di
servizi.
La Commissione speciale suggerisce in alternativa,
al fine di estendere l’ambito applicativo dell’art.
17-bis, la soluzione secondo cui il silenzio-assenso
di cui all’art. 17-bis operi sempre (anche nel caso
in cui siano previsti assensi di più
amministrazioni) e prevenga la necessità di
convocare la conferenza di servizi.
Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in
cui il silenzio assenso non si è formato a causa del
dissenso espresso dalle Amministrazioni
interpellate, e avrebbe lo scopo di superare quel
dissenso nell’ambito della conferenza appositamente
convocata.
La disciplina del superamento del
disaccordo
Il parere segnala –de jure condendo– che la
disciplina del superamento del disaccordo prevista
dall’art. 17-bis, comma 2, secondo periodo, solleva
alcune perplessità:
In primo luogo, non risulta appropriata la sedes
materiae: la norma disciplina un meccanismo
sostitutivo che presuppone il dissenso espresso,
che, dunque, non si applica per definizione nelle
ipotesi di silenzio-assenso che costituiscono
l’oggetto specifico dell’art. 17-bis.
In secondo luogo, il riferimento testuale alle “modifiche
da apportare allo schema del provvedimento” non
tiene conto dell’eventualità che il Presidente del
Consiglio possa risolvere il conflitto senza
modificare lo schema del provvedimento, ma
recependolo integralmente la posizione
dell’Amministrazione procedente.
Formazione del silenzio-assenso e
firma del provvedimento
Secondo il parere è sufficiente da parte
dell’Amministrazione procedente l’invio formale del
testo non ancora sottoscritto, in vista della
successiva eventuale sottoscrizione di un testo
condiviso (nell’ipotesi in cu l’Amministrazione
interpellata esprima un assenso espresso).
Nel caso in cui l’Amministrazione interpellata
rimanga silente, il provvedimento potrà essere
sottoscritto soltanto dall’Amministrazione
procedente, dando atto nelle premesse o in calce al
provvedimento dell’invio dello schema di
provvedimento e del decorso del termine per il
silenzio-assenso.
Autotutela
Successivamente all’adozione del provvedimento
finale (adottato sulla base del silenzio-assenso
dell’Amministrazione interpellata), l’autotutela
soggiace alla regola del contrarius actus.
Nel caso in cui il provvedimento finale non sia
stato ancora adottato, il parere esclude che,
formatosi il silenzio-assenso, l’Amministrazione
inerte possa superarlo esercitando il potere di
autotutela unilaterale.
Secondo il parere, infatti, il termine di trenta
giorni (o il diverso termine per le Amministrazioni
preposte alla tutela di interessi sensibili) ha
natura perentoria e, dunque, la sua scadenza fa
venire meno il potere postumo di dissentire (anche
in autotutela) (commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Silenzio-assenso
a 360°. Ma l'istituto non può essere un alibi per la
p.a.. Parere del Consiglio di stato sulla riforma
Madia. Limiti all'autotutela.
Il silenzio-assenso si applica a 360 gradi. Sia nei
confronti di regioni ed enti locali, sia quando su
un provvedimento debbano pronunciarsi autorità
indipendenti o gestori di servizi pubblici o ancora
organi politici. Dopo 30 giorni di inerzia , il
silenzio sarà equiparato al concerto, assenso o
nulla osta da acquisire. E la p.a. non avrà più
potere di dissentire, impedendo l'adozione dell'atto
attraverso lo strumento dell'autotutela.
Perché se così fosse il silenzio-assenso
diventerebbe «un atto di natura meramente
provvisoria, suscettibile di essere neutralizzato da
un ripensamento unilaterale fino all'adozione del
provvedimento finale».
Tuttavia, il silenzio-assenso non può essere la
regola. Né nei rapporti tra p.a. e cittadino, né in
quelli tra amministrazioni chiamate a esprimere il
proprio nulla osta su un provvedimento.
Soprattutto nei rapporti tra amministrazioni
concertanti, il silenzio-assenso è un rimedio
«patologico» ma necessario perché «nessuna p.a. può
avere più il potere di bloccare un procedimento» non
esprimendo la propria posizione su un atto
specifico.
Nell'articolato
parere 13.07.2016 n. 1640 il Consiglio di
Stato si è espresso sulla portata applicativa della
novità contenuta nella delega Madia (legge
n.124f2015) che ha introdotto nella legge sul
procedimento amministrativo (legge n. 241/1990)
l'art. 17-bis sul silenzio-assenso anche nei
rapporti tra pubbliche amministrazioni.
A interpellare palazzo Spada è stato l'Ufficio
legislativo della Funzione pubblica che sollevato
diversi dubbi interpretativi in relazione all'ambito
di applicazione dell'istituto, ai rapporti tra
silenzio-assenso e conferenza dei servizi e
all'esercizio del potere di autotutela.
La commissione speciale, costituita ad hoc
dal Consiglio di stato per l'esame dei quesiti, ha
riconosciuto che la regola del silenzio-assenso
trova fondamento nel diritto europeo, nella
Costituzione e nel principio di trasparenza.
Perché non è ammissibile paralizzare l'attività
della p.a semplicemente non esprimendo la propria
opinione su un atto specifico. Tuttavia, ha ammonito
palazzo Spada, «una pronuncia espressa resta
sempre preferibile: permane una valenza fortemente
negativa del silenzio-assenso (sia tra
amministrazione e cittadino, sia tra amministrazioni
co-decidenti), ma esso resta comunque una soluzione
migliore dell'inerzia totale».
Nel rispondere ai quesiti del dicastero di Marianna
Madia, il Consiglio di stato ha esteso
l'applicabilità dell'istituto a una molteplicità di
fattispecie applicative, tutte accumunate dal fatto
di riguardare atti di natura co-decisoria. La stessa
cosa, tuttavia, non può dirsi per gli atti che si
collocano in un momento successivo a quello della
decisione, quali per esempio la bollinatura della
Ragioneria generale dello stato. Il bollino della
Rgs, ha chiarito il Consiglio di stato, «è
infatti un atto con funzione di controllo che si
colloca dopo l 'esaurimento della fase decisoria ed
è necessario per l'integrazione dell'efficacia dei
provvedimenti già adottati».
Non sfuggono alla regola del silenzio-assenso
nemmeno le amministrazioni preposte alla tutela di
interessi sensibili (beni culturali, salute dei
cittadini), a cui si applicano i termini previsti
dalla normativa di settore o , in mancanza, il
termine di 90 giorni (articolo
ItaliaOggi del 14.07.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Bombardelli,
Il silenzio-assenso tra amministrazioni e il rischio
di eccesso di velocità nelle accelerazioni
procedimentali (Urbanistica e appalti
n. 7/2016).
---------------
L’art. 17-bis della L. 07.08.1990, n. 241
introduce l’istituto del silenzio-assenso per
l’adozione di provvedimenti normativi ed
amministrativi nei casi in cui sia prevista
l’acquisizione di assensi, concerti o nullaosta di
altre PP.AA. o di gestori di beni o servizi pubblici
e questi non vengano rilasciati entro un termine
prefissato.
Si tratta di uno strumento di semplificazione
procedimentale molto problematico, anche perché è
prevista la sua applicazione nei casi in cui l’atto
di assenso debba essere rilasciato da
amministrazioni preposte alla tutela di interessi
sensibili.
Nel presente commento vengono considerate le
principali criticità di questo istituto. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Berti Suman,
Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche
amministrazioni (art. 17-bis, legge n. 241/1990):
dovere di istruttoria e potere di autotutela
- Commento al parere n. 1620/2016 del Consiglio di
Stato su alcuni problemi applicativi dell’articolo
17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto
dall’articolo 3 della legge 07.08.2015, n. 124 (01.09.2016
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’art. 17-bis:
“nuovo paradigma” nei rapporti tra pubbliche
amministrazioni – 3. Il rapporto con gli articoli 16
e 17 della legge n. 241/1990 – 4. Silenzio-assenso
ed interessi sensibili: giurisprudenza
costituzionale e europea – 4.1. (segue) un caso
recente: l’Adunanza Plenaria sulla perdurante
vigenza del meccanismo del silenzio-assenso nel
procedimento relativo al nulla osta dell’Ente Parco
– 5. Il difetto di istruttoria (e di motivazione)
nella formazione del silenzio-assenso – 6. Il potere
di autotutela – 7. Brevi considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
P. Marzano,
Silenzio-assenso tra Amministrazioni: dimensioni e
contenuti di una nuova figura di coordinamento
‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova
amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato
(05.10.2016 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario:
●
Sezione prima. 1. Un ‘manifesto’ per la funzione
consultiva del Consiglio di Stato nel processo di
attuazione della legge n. 124 del 2015. – 2. Sul
nuovo ruolo del Consiglio di Stato nella policy di
riforma della pubblica Amministrazione. – 3. La
‘nuova amministrazione’ nella visione del Consiglio
di Stato, dopo la riforma cd. Madia. Dequotazione
del procedimento e riduzione degli interessi
all’esito del processo di semplificazione.
●
Sezione seconda. 4. Il parere del Consiglio di Stato
sull’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e la
genesi di questa disposizione. – 4.1 L’ambito di
applicazione soggettivo del silenzio-assenso tra
Amministrazioni. – 4.2 L’ambito di applicazione
oggettivo; rapporti con gli artt. 16 e 17 della
legge sul procedimento amministrativo e tutela degli
interessi sensibili. – 4.3 Art. 17-bis e
coordinamento tra Amministrazioni; l’esclusione
dell’applicazione in caso di Sportello unico. – 4.4
Formazione del silenzio assenso, dissenso tardivo e
autotutela.
●
Sezione terza. 5. La portata dell’art. 17-bis della
legge sul procedimento amministrativo. Il rapporto
‘orizzontale’ tra (due sole) Amministrazioni
co-decidenti; il coordinamento progressivo in
ragione della complessità della decisione - 5.1 Il
rapporto con la conferenza di servizi – 6.
Silenzio-assenso e tutela degli interessi sensibili
– 6.1 Art. 17-bis e cogestione dell’interesse
paesaggistico – 7. Il dissenso tra Amministrazioni e
gli obblighi di leale collaborazione. |
Ebbene, è proprio nel parere del Consiglio di Stato
che, con riferimento al tema specifico
dell’applicazione dell’articolo 17-bis, è menzionata
la circolare interpretativa adottata in data
10.11.2015 dal MIBACT (recte:
nota 10.11.2015 n. 27158 di
prot. dell'Ufficio Legislativo, pubblicizzata
dal Segretariato Generale con
circolare 20.11.2015 n. 40), che ha (già)
affrontato alcune delle problematiche esposte nella
richiesta di parere da parte della "Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione,
Ufficio legislativo" di cui alla nota prot. n.
207/16/UL/P in data 31.05.2016.
Ecco, di seguito, l'interessante disamina della portata
dell'art. 17-bis da parte del MIBACT, tra l'altro
redatta molti mesi or sono e solamente oggi di
dominio pubblico sol perché richiesta
specificatamente da parte di un tecnico comunale
che ringraziamo: |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici - art. 3 della
legge n. 124 del 07.08.2015, recante Deleghe al
Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche, pubblicata nella G.U. n.
187 del 13.08.2015 - indirizzi interpretativi e
applicativi (MIBACT,
circolare 20.11.2015 n. 40).
---------------
Come è noto, l'art. 3 della legge n. 124 del
07.08.2015, recante Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, ha
introdotto, nel testo della legge 07.08.1990, n.
241, l'articolo aggiuntivo 17-bis, in tema di
Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra
amministrazioni pubbliche e gestori di beni o
servizi pubblici.
Anche all'esito dell'incontro con i Soprintendenti,
svoltosi con la partecipazione dell'On.le Sig.
Ministro lo scorso 26 ottobre, si ritiene utile e
opportuno trasmettere, con la nota circolare in
allegato, appositi indirizzi interpretativi e
applicativi relativi alle suddette novità normative.
(...continua). |
alla quale ha fatto seguito la risposta al quesito
formulato dalla Città metropolitana di Milano: |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso ex art. 17-bis della legge n.
241 del 1990 e procedimenti di autorizzazione
paesaggistica di cui agli artt. 146 e 167 del
decreto legislativo n. 42 del 2004 (MIBACT,
nota 19.01.2016 n. 1293 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 310749 del 14.12.2015
con la quale codesta Città metropolitana pone alcune
questioni concernenti l'applicabilità dell'istituto
del silenzio-assenso, introdotto dall'art. 3 della
legge n. 124 del 2015, ai procedimenti paesaggistici
disciplinati dal codice di settore. (...continua). |
seguita, ulteriormente, dalla nota di
precisazioni -sempre dell'Ufficio Legislativo-
proprio in relazione al parere 13.07.2016 n. 1640
del Consiglio di Stato: |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici - art. 17-bis
della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 3 della
legge 07.08.2015, n. 124 - parere n. 1640 del 2016
reso dal Consiglio di Stato - precisazioni alla nota
circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (MIBACT,
nota 20.07.2016 n. 21892 di prot.).
---------------
A seguito del recente parere n. 1640 del
13.07.2016 reso dal Consiglio di Stato alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione, in
tema di silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis
della legge n. 241 del 1990, si ritiene necessario
fornire alcune precisazioni in merito alla nota
circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (diffusa agli
uffici ministeriali da codesto Segretariato con
circolare n. 40 del 20.11.2015) con la quale questo
Ufficio ha reso noti i primi orientamenti
applicativi dell'istituto, introdotto dall'art. 3
della legge n. 124 del 2015.
Al riguardo, per comodità di esame, si seguirà qui
di seguito, per quanto necessario, lo stesso ordine
espositivo adottato nella circolare del 2015.
(...continua). |
QUINDI?? |
Beh, la cosa più significativa è che
il silenzio-assenso
si applica al procedimento di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ex art. 146 d.lgs. n. 42/2004,
circa il termine di 45 gg. a disposizione
della Soprintendenza per esprimere il proprio parere
obbligatorio e vincolante, e non anche al
rilascio della compatibilità paesaggistica ex
art. 167 relativamente al termine di 90 gg. in capo,
sempre, alla Soprintendenza.
Detto altrimenti, scaduto il termine di 45 gg. la
Soprintendenza NON può più dire la propria con "carta
che canta" sicché si concretizza l'assenso di
parte (sullo schema di provvedimento finale ricevuto
da pare dell'ente competente a provvedere: in parole
povere SI oppure NO) ma NON anche l'autorizzazione paesaggistica
(siccome sostenuto da qualcuno).
Invero, il
provvedimento di autorizzazione paesaggistica non
può essere acquisito con il silenzio-assenso ex art.
17-bis proprio perché è il provvedimento finale,
chiesto e ottenuto dal privato, mentre l’art 17-bis
si applica esclusivamente ai rapporti tra pubbliche
amministrazioni.
Al verificarsi della fattispecie de qua i
funzionari istruttori della Soprintendenza devono,
comunque,
prestare molta attenzione onde non incorre in
responsabilità personali. Infatti, proprio il MIBACT
(Ufficio Legislativo) osserva quanto segue: "Permane
dunque la necessità -anche nei casi di possibile
operatività del silenzio-assenso- di avviare e
completare il procedimento, sia in fase istruttoria,
sia nella fase di acquisizione degli interessi,
pubblici e privati, in esso coinvolti, sia (infine)
nella fase di ponderazione e valutazione in funzione
della decisione (fase decisoria). La legge,
nell'introdurre il silenzio-assenso, autorizza
esclusivamente la deroga all'obbligo di adozione di
un atto conclusivo formale, espresso e motivato, ma
non esonera in alcun modo l'amministrazione
dall'obbligo e dalla responsabilità di procedere e
istruire i singoli affari di sua competenza.".
LasciandoVi il piacere di leggere e scoprire le novità
argomentative di cui alla circolare suddetta nonché
successiva nota di precisazioni, pochi
giorni or sono la Regione Lazio si è posta tre
interrogativi in merito alla novella legislativa di
cui due trovano risposta nella citata circolare
ministeriale.
Ecco la nota regionale rivolta all'Ufficio Legislativo
del MIBACT: |
EDILIZIA PRIVATA:
Richiesta di parere in merito all'art. 3 della legge
124/2015 "Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi
pubblici" (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 538538 di prot.). |
Comunque, restiamo nell'attesa di conoscere la
risposta del MIBACT: chissà mai che sortiscano
ulteriori elementi di valutazione.
08.11.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Decreto legislativo 30.06.2016, n. 127, recante
"Norme per il riordino della disciplina in materia di
conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della
legge 07.08.2015, n. 124", pubblicato in Gazzetta Ufficiale
Serie Generale n. 162 del 13.07.2016 - nota circolare (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 27.07.2016 n. 22539 di prot.).
---------------
Sommario: I. Introduzione; 2. I decreti
legislativi che intervengono sui moduli procedimentali e
organizzativi dell'agire della pubblica amministrazione: in
particolare, il riordino della disciplina della conferenza
dei servizi; 3. Modalità di svolgimento delle conferenze di
servizi; 4. Rappresentante unico di governo; 5. Decisione
della conferenza di servizi - effetti procedurali ed
efficacia sostanziale; 6. Procedimento di opposizione
('dissenso qualificato'); 7. Disposizioni di coordinamento
fra la disciplina generale e le varie discipline settoriali
che regolano lo svolgimento de/la conferenza dei servizi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici - art. 17-bis
della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 3 della
legge 07.08.2015, n. 124 - parere n. 1640 del 2016
reso dal Consiglio di Stato - precisazioni alla nota
circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (MIBACT,
nota 20.07.2016 n. 21892 di prot.).
---------------
A seguito del recente parere n. 1640 del 13.07.2016 reso
dal Consiglio di Stato alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione, in tema di silenzio-assenso di cui all'art.
17-bis della legge n. 241 del 1990, si ritiene necessario
fornire alcune precisazioni in merito alla nota circolare
prot. 27158 del 10.11.2015 (diffusa agli uffici ministeriali
da codesto Segretariato con circolare n. 40 del 20.11.2015)
con la quale questo Ufficio ha reso noti i primi
orientamenti applicativi dell'istituto, introdotto dall'art.
3 della legge n. 124 del 2015.
Al riguardo, per comodità di esame, si seguirà qui di
seguito, per quanto necessario, lo stesso ordine espositivo
adottato nella circolare del 2015. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Sponsorizzazione di beni culturali — articolo
120 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 — articoli 19
e 151 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - nota
circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 09.06.2016 n. 17461 di prot.).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. Rinvio per le nozioni
generali alle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012,
pubblicate nella G.U. 12.03.2013, n. 60 - 3. La
semplificazione (in sintesi) - 4. Proposta di
sponsorizzazione; vaglio preliminare e favor per
l'accoglimento - 5. La pubblicazione dell'avviso sul sito
istituzionale - 6. La ricerca di sponsor di iniziativa
ministeriale - 7. Scelta dello sponsor - 8. Stipula del
contratto di sponsorizzazione - 9. La disciplina di cui
all'art. 151 - 10. Modalità contabili e regime fiscale
(cenni) - 11. Le forme speciali di partenariato
pubblico-privato nel campo dei beni culturali.
---------------
Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell'ottica di
favorire il sostegno all'azione pubblica in campo culturale
e la realizzazione del principio di sussidiarietà
orizzontale, semplifica notevolmente le procedure relative
all'acquisizione di sponsor per interventi di tutela e
valorizzazione dei beni culturali, in attuazione di uno
specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega.
In considerazione delle novità apportate dal nuovo codice
rispetto alla precedente disciplina, esplicitata nelle Linee
guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G. U.
12.03.2013, n. 60, si ritiene opportuno fornire, con la nota
circolare allegata, i primi indirizzi applicativi utili per
facilitare e incoraggiare il ricorso a tale istituto da
parte degli uffici ministeriali.
In particolare, si prendono in considerazione i profili
concernenti la semplificazione delle procedure, la
valutazione preliminare della proposta di sponsorizzazione e
il favor per l'accoglimento, la pubblicazione dell'avviso
sul sito istituzionale (del quale viene fornito un modello),
la ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale, la scelta
dello sponsor, la stipula del contratto di sponsorizzazione,
la disciplina di cui all'articolo 151 in tema di
sponsorizzazione di beni culturali e di partenariato
pubblico-privato nel campo dei beni culturali, fornendo
alcuni cenni riguardo al regime contabile. Vengono inoltre
evidenziate quali parti (consistenti in sostanza nelle
nozioni di carattere generale) delle citate Linee guida
conservano validità ed efficacia anche a seguito
dell'introduzione della nuova procedura semplificata.
La successiva diramazione della circolare, a cura di codesto
Segretariato, ai competenti uffici centrali, unitamente alla
diffusione, da parte dei medesimi uffici, di ulteriori e
specifici indirizzi operativi agli uffici periferici,
assicurerà la pronta e corretta applicazione delle nuove
procedure, al fine dell'auspicabile potenziamento
dell'istituto della sponsorizzazione. (...continua). |
APPALTI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Oggetto: Decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 -
Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione,
sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli
enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture - nota circolare
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 18.05.2016 n. 15163 di prot.).
---------------
Sommario: 1. Introduzione - 2. Ambito di applicazione
e fase transitoria - 3. Riduzione del numero delle stazioni
appaltanti e centrali di committenza - 4. Qualificazione
delle stazioni appaltanti - 5. Soglie di rilevanza
comunitaria e servizi aggiuntivi - 6. Contratti sotto soglia
- 7. Procedure d'urgenza - 8. Programmazione e
progettazione - 9. Incentivi per funzioni tecniche - 10.
Commissioni di gara - 11. Subappalto - 12. Avvalimento - 13.
Procedura di verifica preventiva dell'interesse archeologico
- 14. Disciplina comune applicabile ai contratti pubblici
relativi ai beni culturali - 15. Sponsorizzazione di beni
culturali e forme speciali di partenariato - 16. Altre forme
di interesse.
---------------
Come è noto, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
— Serie Generale — n. 91 del 19.04.2016, il decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 recante: "Attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione della
legge 28.01.2016, n. 11, recante: "Deleghe al Governo per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure
d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua,
dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché
per il riordino della disciplina vigente in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture".
Si ritiene utile e opportuno trasmettere, con la nota
circolare in allegato, appositi indirizzi interpretativi e
applicativi, relativi alla nuova disciplina che innova in
misura significativa, rispetto al passato, le norme in
materia di procedure di evidenza pubblica e di contratti
pubblici. (...continua). |
LAVORI PUBBLICI: Oggetto:
D.P.C.M. 29.08.2014 n. 171, art. 16, comma 2, lett. o) -
Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e
Periferie Urbane - "Attività di vigilanza sulla
realizzazione delle opere d'arte negli edifici pubblici ai
sensi della legge 29.07.1949, n. 717 e successive
modificazioni"
(MIBACT,
nota 10.12.2015 n. 2798 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici - art. 3 della
legge n. 124 del 07.08.2015, recante Deleghe al
Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche, pubblicata nella G.U. n.
187 del 13.08.2015 - indirizzi interpretativi e
applicativi (MIBACT,
circolare 20.11.2015 n. 40).
---------------
Come è noto, l'art. 3 della legge n. 124 del
07.08.2015, recante Deleghe al Governo in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, ha
introdotto, nel testo della legge 07.08.1990, n.
241, l'articolo aggiuntivo 17-bis, in tema di
Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra
amministrazioni pubbliche e gestori di beni o
servizi pubblici.
Anche all'esito dell'incontro con i Soprintendenti,
svoltosi con la partecipazione dell'On.le Sig.
Ministro lo scorso 26 ottobre, si ritiene utile e
opportuno trasmettere, con la nota circolare in
allegato, appositi indirizzi interpretativi e
applicativi relativi alle suddette novità normative.
(...continua). |
IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Per
tagliare i boschi basta l'autorizzazione forestale.
La preservazione nel tempo dei boschi e foreste nella loro
complessiva integrità costituisce lo scopo sia della
protezione forestale che di quella paesaggistica generale.
In vista di questo obiettivo, la legge statale, sottoponendo
a vincolo, tutti i boschi prevede che il taglio colturale e
le altre operazioni ammesse possono essere compiute con
autorizzazione forestale senza che sia necessaria
l'autorizzazione paesaggistica.
Lo ha precisato l'Ufficio Legislativo del Ministero dei beni
culturali con il
nota 08.09.2016 n. 25553 di prot..
Per lo speciale valore tutelato paesaggisticamente di boschi
e foreste, il legislatore prevede un regime derogatorio
ridotto e rimesso al controllo dell'autorità forestale, ma
solo ove il bosco o foresta sia tutelato come elemento
morfologico del territorio, da salvaguardare nei suoi
elementi identificativi.
Qualora il territorio boschivo sia
tutelato anche con specifico provvedimento che ne riconosca
il notevole interesse pubblico per ragioni di carattere paesaggistico-culturale, gli interventi forestali, già
compatibili con la tutela dei caratteri morfologici tutelati
per legge, richiedono la valutazione della loro
compatibilità con lo specifico valore paesaggistico
espressamente riconosciuto e tutelato nel provvedimento,
mediante ricorso alla previa autorizzazione paesaggistica».
Nel caso specifico, la questione verte sulla necessità di
autorizzare preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del
codice del paesaggio, interventi di taglio colturale in un
complesso forestale vincolato non solo ai sensi dell'art.
142, comma 1, lett. g), del medesimo codice.
Nel caso in
questione, in particolare, la Soprintendenza ha adottato
un'ordinanza di sospensione lavori ritenendo invece che gli
interventi di taglio colturale siano sottratti alla previa
autorizzazione paesaggistica, anche nell'ipotesi di bosco
tutelato con specifico provvedimento adottato ai sensi
dell'art. 136 del codice di settore
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: SARDEGNA, bosco del Marganai — Ente Foreste
della Sardegna — autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42
del 2004 per il taglio colturale, la forestazione, la
riforestazione, le opere di bonifica antincendio e di
conservazione da eseguirsi nei boschi sottoposti a tutela,
oltre che ex lege, in forza di specifico
provvedimento (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 08.09.2016 n. 25553 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. n. 4703 del 19.02.2016 con la
quale la Direzione generale Belle arti e paesaggio chiede
conferma del proprio orientamento, espresso in adesione alla
competente Soprintendenza, circa la necessità di autorizzare
preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del codice di
settore, interventi di taglio colturale nel complesso
forestale del Marganai, vincolato non solo ai sensi
dell'art. 142, comma 1, lett. g), del medesimo codice, ma
anche con specifico provvedimento adottato in data
13.02.1978, che ne ha riconosciuto il notevole interesse
pubblico, non ritenendo applicabile a tale fattispecie il
regime derogatorio speciale previsto dall'art. 149, comma 1,
lett. c), del codice.
Nel caso in questione, in particolare, la Soprintendenza ha
adottato un'ordinanza di sospensione lavori in data
24.09.2015, contestata dall'Ente Foreste della Sardegna, che
ritiene invece che gli interventi di taglio colturale siano
sottratti alla previa autorizzazione paesaggistica, anche
nell'ipotesi di bosco tutelato con specifico provvedimento
adottato ai sensi dell'art. 136 del codice di settore.
Al riguardo, nel condividere l'orientamento della Direzione,
si precisa quanto segue. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedimenti di rinnovo delle dichiarazioni di interesse culturale pregresse, emanate ai sensi delle leggi nn. 36 del 1909 e 1089 del 1939, del decreto legislativo n. 490 del 1999 e del d.P.R. n. 283 del 2000 per autorizzazioni all'alienazione - parere (MIBACT,
nota 06.05.2016 n. 13589 di prot.). --------------- Si riscontra la nota di codesto Segretariato prot. 4896 del 16.07.2015, con la quale si chiedono chiarimenti circa la necessità di procedere al rinnovo della dichiarazione di interesse culturale, mediante la procedura di verifica prevista dall'art. 12 del codice di settore, per gli immobili di proprietà dei soggetti di cui al comma 1 dell'art. 10 del codice, per i quali sussiste già un provvedimento adottato ai sensi delle previgenti leggi in materia, al fine del rilascio dell'autorizzazione all'alienazione. Al riguardo, codesto Ufficio evidenzia che, se da un lato il comma 2, lettera a), dell'art. 54 del codice richiede la conclusione del procedimento di verifica per poter autorizzare l'alienazione, dall'altro l'interpretazione analogica dell'art. 128, riferito ai beni privati, potrebbe far ritenere non necessaria la preventiva verifica in caso di provvedimento dichiarativo adottato con decreto ai sensi della legge n. 1089 del 1939, e leggi successive, regolarmente trascritto presso la competente Agenzia del territorio. Al riguardo, si rappresenta quanto segue. (...continua). |
UTILITA' |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Anci Lombardia presenta le "Linee guida anticorruzione"
con e-book, dispense, video e seminario (04.11.2016
- link a www.anci.lombardia.it).
---------------
Scarica subito:
-
Linee guida per la prevenzione della anticorruzione
-
Linee guida
per la prevenzione della anticorruzione - SINTESI |
APPALTI:
CALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA: I CINQUE METODI.
Modelli esemplificativi di esclusione automatica delle
offerte ai sensi dell’art. 97, co. 2, del D.lgs. 50/2016,
Codice dei contratti pubblici (ANCE, ottobre 2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Lavori in prossimità di linee elettriche aeree - Valutazione
del rischio e misure di prevenzione (INAIL,
ottobre 2016). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Assunzioni e mobilità regioni e enti locali
(nota
10.10.2016 n. 51991 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 03.11.2016, "Determinazioni
in ordine alla domiciliazione bancaria della tassa
automobilistica" (deliberazione
G.R. 31.10.2016 n. 5749). |
ENTI LOCALI - VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 28.10.2016, "Determinazioni
in merito alla concessione di contributi a enti,
istituzioni, associazioni, comitati che promuovono
iniziative e manifestazioni di rilievo regionale, anche a
carattere internazionale - approvazione linee guida" (deliberazione
G.R. 24.10.2016 n. 5722). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 28.10.2016, "Individuazione
dei divieti temporali di utilizzazione agronomica nella
stagione autunno vernina 2016/2017 in applicazione del d.m.
25.02.2016" (decreto
D.G. 25.10.2016 n. 10607). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G.U. 27.10.2016 n. 252 "Regolamento recante norme per la
semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti
amministrativi, a norma dell’articolo 4 della legge
07.08.2015, n. 124" (D.P.R.
12.09.2016 n. 194). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 27.10.2016 n. 252 "Approvazione delle Linee Guida
sui valori di assorbimento del campo elettromagnetico da
parte delle strutture degli edifici" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 05.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 26.10.2016 n. 251 "Modelli e linee guida relativi
alla procedura per la presentazione della domanda di
concessione per l’accesso ai finanziamenti per gli
interventi di rimozione o di demolizione delle opere o degli
immobili realizzati in aree soggette a rischio idrogeologico
elevato o molto elevato ovvero dei quali viene comprovata
l’esposizione a rischio idrogeologico in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 22.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 21.10.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.09.2016, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 04.10.2016 n. 136). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 19.10.2016 n. 245 "Modifica del decreto 30.01.2015
relativo a «Semplificazione in materia di documento unico di
regolarità contributiva» (DURC)" (Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali,
decreto 23.06.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 42 del 18.10.2016, "Modifica
degli articoli 2, 9, 10, 11, 18 e 22, nonché dell’allegato
C-bis del regolamento regionale 27.07.2009, n. 2 «Contributi
alle unioni di comuni lombarde, in attuazione dell’articolo
20 della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle
comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di
comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di
funzioni e servizi comunali)»" (regolamento
regionale 14.10.2016 n. 8). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 17.10.2016 n. 243 "Modalità attuative del credito
d’imposta per interventi di bonifica dei beni e delle aree
contenenti amianto" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 15.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 12.10.2016, "L.r.
31/2008, art. 56, comma 6 – servizi ambientali dei consorzi
forestali – approvazione delle modalità di accesso ai
contributi" (decreto
D.S. 07.10.2016 n. 9853). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G.U. 11.10.2016 n. 238, "Condizioni essenziali e
massimali minimi delle polizze assicurative a copertura
della responsabilità civile e degli infortuni derivanti
dall’esercizio della professione di avvocato" (Ministero
della Giustizia,
decreto 22.09.2016). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.M. di modifica del DM 30.01.2015 – DURC
“on-line” (Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali,
circolare 02.11.2016 n. 33).
---------------
Con la circolare n. 33 del 02.11.2016 la Direzione
generale per l’Attività Ispettiva fornisce indicazioni
operative a seguito della pubblicazione del D.M. 23.02.2016.
La circolare prende in esame le modifiche apportate al D.M.
30/01/2015, recante la disciplina del DURC online, che hanno
riguardato, in particolare, due articoli del Decreto: l’art.
2, che definisce l’ambito soggettivo e oggettivo della
verifica e l’art. 5, che detta regole specifiche per le
imprese sottoposte a procedura concorsuale. |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: Competenze professionali architetti e ingegneri
civili sugli edifici vincolati - Punto della situazione e
iniziative del Consiglio Nazionale dopo le ultime sentenze -
considerazioni (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 28.10.2016 n. 818). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche ed integrazioni - risposta al quesito in merito
allo svolgimento dei corsi base (modulo A, B e C) per le
figure professionali di RSPP e ASPP con modalità di
formazione a distanza (Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali,
interpello 25.10.2016 n. 18/2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo
alla applicazione dell’art. 109 (recinzione di cantiere) del
D.Lgs. 81/2008 nel caso di cantieri stradali (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 25.10.2016 n. 12/2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche ed integrazioni - risposta al quesito in merito
agli oneri delle visite mediche ex art. 41 del d.lgs. n.
81/2008 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 25.10.2016 n. 14/2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo
alla possibilità di considerare come costo per la sicurezza
l’utilizzo di una piattaforma elevabile mobile in
sostituzione di un ponteggio fisso (Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali,
interpello 25.10.2016 n. 13/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Credito d’imposta per gli interventi di bonifica
e rimozione dell’amianto (ANCE di Bergamo,
circolare 21.10.2016 n. 191). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Pubblicazione Linee Guida ANAC n. 1, di
attuazione del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, recanti 'Indirizzi
generali sull'affidamento dei servizi attinenti
all'architettura e all'ingegneria' - considerazioni
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 13.10.2016 n. 812). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le modifiche al Codice dell'Amministrazione Digitale
(C.A.D.). Commento alle novità di interesse notarile
(Consiglio Nazionale del Notariato, 03.10.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Trattamento di dati personali dei dipendenti mediante
posta elettronica e altri strumenti di lavoro (Garante
per la protezione dei dati personali,
provvedimento 13.07.2016 n. 303). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Oggetto: parere in merito a GPS da installare su
autovetture aziendali e chiarimenti in relazione alla nuova
formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione
interregionale del Lavoro di Milano,
nota 10.05.2016 n. 5689 di prot.). |
SINDACATI & ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trattenuta del 2,5% sulla retribuzione del personale in
regime di TFR - Facciamo un po' di chiarezza (CSA di
Milano,
nota 05.10.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il risparmio gonfia le risorse locali.
Parere Aran sul Ccnl del 1999.
Le economie di spesa derivanti da processi di
razionalizzazione e riorganizzazione possono essere
destinate all'incremento della parte variabile del fondo
delle risorse decentrate anche senza essere necessariamente
vincolate al raggiungimento di specifici obiettivi di
produttività.
Lo ha affermato l'Aran con un recente
parere 16.09.2016 n. RAL-1867 che chiarisce la
portata dell'art. 15, comma 4, del Ccnl dell'01/04/1999.
Tale
disposizione prevede che «gli importi possono essere resi
disponibili solo a seguito del preventivo accertamento delle
effettive disponibilità di bilancio create a seguito di
processi di razionalizzazione e riorganizzazione delle
attività ovvero espressamente destinate all'ente al
raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e di
qualità».
Secondo l'Aran, tale formulazione individua due ipotesi ben
distinte. Da un lato, l'ente può avere conseguito «effettive
disponibilità di bilancio create a seguito di processi di
razionalizzazione e riorganizzazione delle attività»;
dall'altro, può destinare risorse espressamente finalizzate
«al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e
di qualità».
La seconda ipotesi indubbiamente si lega al conseguimento di
specifici obiettivi di produttività e di qualità,
individuati e definiti in via preventiva, cui è stato legato
un apposito stanziamento in bilancio con tale specifica
destinazione. Nella prima ipotesi, al contrario, il
possibile incremento delle risorse decentrate è subordinato
solo all'accertamento della sussistenza di disponibilità
finanziarie di bilancio conseguenti a processi di
riorganizzazione e razionalizzazione delle attività
preventivamente individuati ed attivati dagli enti, senza
che siano richiesti o prescritti specifici obiettivi di
produttività o di qualità.
Tale accertamento, volto a
verificare l'esistenza effettiva delle economie, spetta al
nucleo di valutazione o al servizio di controllo interno e,
sottolinea Anac, proprio per le finalità ad esso attribuite,
può intervenire solo «a consuntivo», cioè a conclusione dei
processi di riorganizzazione o di razionalizzazione delle
attività. Solo in tale momento, le risorse si rendono
effettivamente disponibili e sono successivamente spendibili
per gli incentivi a favore del personale. In entrambi le
ipotesi, naturalmente, vale il tetto massimo dell'1,2% su
base annua del monte salari dell'anno 1997, esclusa la quota
relativa alla dirigenza.
L'indicazione è molto utile, anche se numerose
amministrazioni si trovano davanti a ben più complesse
questioni. Da un lato, devono tenere conto del nuovo blocco
della contrattazione decentrata imposto dal comma 236 della
l. 208/2015, che costringe a contenere il fondo entro il
valore complessivo del 2015 (c.d. tetto massimo) ed a
ridurlo proporzionalmente alla riduzione del personale in
servizio, sempre rispetto al 2015.
Dall'altro, pesano le
indicazioni della Corte dei conti, la quale ha affermato che
il contratto decentrato deve essere sottoscritto nell'anno
di riferimento, smentendo quanto affermato dai nuovi
principi contabili, che invece ammettono la sottoscrizione
anche nell'anno successivo
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).
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TESTO
Sistema di classificazione/Trattamento economico
accessorio/Risorse per le politiche di sviluppo delle
risorse umane e per la produttività/
Qualora un ente abbia conseguito un’economia di
spesa determinata da processi di razionalizzazione e
riorganizzazione posti in essere, le relative disponibilità
di bilancio possono essere destinate all’incremento delle
risorse decentrate variabili di cui all’art. 15, comma 2,
del CCNL dell’01.04.1999, nei limiti quantitativi ivi
previsti, senza essere necessariamente vincolate al
raggiungimento di specifici obiettivi di produttività?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si
ritiene che la soluzione debba essere individuata partendo
dal dato formale del testo dell’art. 15, comma 4, del CCNL
dell’01.04.1999, secondo il quale “Gli importi …….
possono essere resi disponibili solo a seguito del
preventivo accertamento .... delle effettive disponibilità
di bilancio create a seguito di processi di
razionalizzazione e riorganizzazione delle attività ovvero
espressamente destinate all’ente al raggiungimento di
specifici obiettivi di produttività e di qualità”.
Tale disciplina contrattuale, ai fini del possibile
incremento delle risorse decentrate variabili, si articola
in due distinte ipotesi:
a) “.... delle effettive disponibilità di bilancio create
a seguito di processi di razionalizzazione e
riorganizzazione delle attività”;
b) “espressamente destinate all’ente al raggiungimento di
specifici obiettivi di produttività e di qualità”.
La seconda ipotesi (lett. b), indubbiamente, si lega al
conseguimento di specifici obiettivi di produttività e di
qualità, individuati e definiti in via preventiva, cui è
stato legato un apposito stanziamento in bilancio con tale
specifica destinazione (sotto tale ultimo aspetto la
disciplina è simile a quella del successivo art. 15, comma
5, del medesimo CCNL dell’01.04.1999).
Nella prima ipotesi, invece, al possibile incremento delle
risorse decentrate (sempre entro il tetto massimo dell’1,2%
su base annua del monte salari dell’anno 1997, esclusa la
quota relativa alla dirigenza), data la mancanza di
indicazioni espresse in tal senso nella previsione
contrattuale e considerata la distinzione contenutistica
intercorrente con la diversa fattispecie considerata alla
lett. b), possono essere destinate le disponibilità
finanziarie di bilancio conseguenti a processi di
riorganizzazione e razionalizzazione delle attività
preventivamente individuati ed attivati dagli enti
Non sono, quindi, richiesti o prescritti specifici obiettivi
di produttività o di qualità.
Spetta al nucleo di valutazione o al servizio di controllo
interno l’accertamento della esistenza delle effettive
disponibilità di bilancio dei singoli enti derivanti dai
processi di razionalizzazione o riorganizzazione.
E’ evidente, peraltro, che tale accertamento, proprio per le
finalità ad esso attribuite, può intervenire solo “a
consuntivo”, cioè a conclusione dei processi di
riorganizzazione o di razionalizzazione delle attività.
Solo a seguito di tale accertamento le risorse di cui si
tratta si rendono effettivamente disponibili e sono
successivamente spendibili per gli incentivi a favore del
personale (parere
16.09.2016 n. RAL-1867
- link a www.aranagenzia.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
Indagini di mercato obbligatorie nelle procedure negoziate
senza bando (06.11.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenza: alla lobby-Anci interessa solo lo spoil system
(05.11.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI SERVIZI:
C. D’Aries e S. Glinianski,
In house sempre più subordinato ai
controlli interni (04.11.2016 - tratto da
www.upel.va.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Colucci,
Tende parasole. Il diritto di veduta non deve comportare un
sacrificio eccessivo del diritto del confinante
(03.11.2016 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Muro di contenimento di terrapieno e distanze dal confine
- Se il dislivello tra terreni è artificiale il muro di
contenimento deve essere considerato una costruzione e
quindi deve rispettare la distanza dal confine di tre metri
(01.11.2016 - link a www.laleggepertutti.it). |
APPALTI:
R. De Nictolis,
Le procedure di scelta del contraente (28-29.10.2016
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Due parole sullo “stato dell’arte”. -
2. Principi di delega innovativi ed impatto sulle procedure
di gara. - 3. Quante sono le procedure di gara? - 4.
Principio di tassatività, procedure aperte, ristrette,
negoziate. - 5. La procedura negoziata senza bando. - 6. Le
consultazioni preliminari di mercato. - 7. Che ne è
dell’appalto concorso e dell’appalto integrato? - 8.
Incarichi e concorsi di progettazione. - 9. Le procedure
sotto soglia. - 9.1. Sotto soglia in generale. - 9.2.
Incarichi di progettazione e assimilati sotto soglia. - 9.3.
Gli affidamenti di somma urgenza e per emergenze di
protezione civile. - 10. Le negoziazioni dirette con
l’originario affidatario. - 11. L’affidamento del
subappalto. - 12. Lo scorrimento di graduatoria. - 13.
Conclusioni: sono quaranta o forse più…good luck. |
EDILIZIA PRIVATA:
Procedimenti amministrativi semplificati per rilevanti
insediamenti produttivi (27.10.2016 -
tratto da www.iposa.it). |
APPALTI:
E. Gaz,
La nuova
disciplina delle concessioni (25.10.2016 -
link a www.lexitalia.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Appalti: scheda autocontrollo attività e compiti del Rup in
forniture e servizi (22.10.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
VARI:
R. D'Isa,
Le donazioni (17.10.2016 - tratto da
https://renatodisa.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenza: il pudore del Consiglio di stato sul diritto
all’incarico (16.10.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sblocco del turn over: promessa vuota, periodicamente in
auge (16.10.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari comunali, una riforma nel caos (15.10.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Modello di liquidazione della prestazione contrattuale
redatto in forma trasparente (10.10.2016 -
link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
P. Marzano,
Silenzio-assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti
di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’
all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal
Consiglio di Stato
(05.10.2016 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario:
●
Sezione prima. 1. Un ‘manifesto’ per la funzione consultiva
del Consiglio di Stato nel processo di attuazione della
legge n. 124 del 2015. – 2. Sul nuovo ruolo del Consiglio di
Stato nella policy di riforma della pubblica
Amministrazione. – 3. La ‘nuova amministrazione’ nella
visione del Consiglio di Stato, dopo la riforma cd. Madia.
Dequotazione del procedimento e riduzione degli interessi
all’esito del processo di semplificazione.
●
Sezione seconda. 4. Il parere del Consiglio di Stato
sull’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e la genesi di
questa disposizione. – 4.1 L’ambito di applicazione
soggettivo del silenzio-assenso tra Amministrazioni. – 4.2
L’ambito di applicazione oggettivo; rapporti con gli artt.
16 e 17 della legge sul procedimento amministrativo e tutela
degli interessi sensibili. – 4.3 Art. 17-bis e coordinamento
tra Amministrazioni; l’esclusione dell’applicazione in caso
di Sportello unico. – 4.4 Formazione del silenzio assenso,
dissenso tardivo e autotutela.
●
Sezione terza. 5. La portata dell’art. 17-bis della legge
sul procedimento amministrativo. Il rapporto ‘orizzontale’
tra (due sole) Amministrazioni co-decidenti; il
coordinamento progressivo in ragione della complessità della
decisione - 5.1 Il rapporto con la conferenza di servizi –
6. Silenzio-assenso e tutela degli interessi sensibili – 6.1
Art. 17-bis e cogestione dell’interesse paesaggistico – 7.
Il dissenso tra Amministrazioni e gli obblighi di leale
collaborazione. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Bombardelli,
Il silenzio-assenso tra amministrazioni e il rischio di
eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali
(Urbanistica e appalti n. 7/2016).
---------------
L’art. 17-bis della L. 07.08.1990, n. 241 introduce
l’istituto del silenzio-assenso per l’adozione di
provvedimenti normativi ed amministrativi nei casi in cui
sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nullaosta
di altre PP.AA. o di gestori di beni o servizi pubblici e
questi non vengano rilasciati entro un termine prefissato.
Si tratta di uno strumento di semplificazione procedimentale
molto problematico, anche perché è prevista la sua
applicazione nei casi in cui l’atto di assenso debba essere
rilasciato da amministrazioni preposte alla tutela di
interessi sensibili.
Nel presente commento vengono considerate le principali
criticità di questo istituto. |
APPALTI:
M. Lipari,
Il pre-contenzioso
(08.07.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario.
1. Il sistema della tutela giurisdizionale e il nuovo
“pre-contenzioso” in materia di contratti pubblici. Dalle
direttive al codice, attraverso la legge delega n. 11/2016.
2. La tutela giurisdizionale e la soluzione precontenziosa
delle controversie nelle tre direttive del 2014. La salvezza
delle procedure di ricorso di cui alla direttiva n.
865/665/CEE. La protezione dell’interesse legittimo del
cittadino-contribuente al corretto svolgimento della
procedura.
3. I criteri della legge delega: rimedi alternativi alla
tutela giurisdizionale (ADR); razionalizzazione del processo
di cui all’art. 120 CPA.
4. Gli ADR nella fase di affidamento: dal sistema classico
dei ricorsi amministrativi e del ricorso straordinario
all’informativa preventiva dell’intento di proporre ricorso.
Le incertezze del legislatore.
5. L’autotutela richiesta alla stessa stazione appaltante e
la parabola (poco felice) dell’art. 243-bis del vecchio
codice degli appalti.
6. Il nuovo ruolo dell’ANAC nel sistema. Il controllo
concreto sulle patologie delle procedure di affidamento. La
concentrazione dei poteri. Il rischio di inflazione del
pre-contenzioso.
7. L’ambito temporale di applicazione della nuova disciplina
e il regime transitorio “graduale” riferito alle sole
procedure avviate a partire dal 20 aprile 2016.
8. Il nuovo sistema dei “pareri di precontenzioso” e delle
“raccomandazioni vincolanti” dell’ANAC (art. 211 del d.lgs.
n. 50/2016). Il difficile raccordo con la tutela
giurisdizionale.
9. Due ipotesi distinte accomunate nell’art. 211: il
concetto ampio di “precontenzioso”.
10. La criticabile assimilazione fra le due ipotesi e la
necessità di esaminare autonomamente l’ipotesi del
precontenzioso in senso stretto (la risoluzione delle
“questioni” affidata all’ANAC).
11. Il “vecchio” precontenzioso facoltativo nel codice degli
appalti n. 163/2006 e nel regolamento ANAC del 02.09.2014.
12. Le novità della disciplina di rango legislativo.
13. L’iniziativa delle parti –anche disgiunta– di avvio del
procedimento precontenzioso.
14. La legittimazione alla richiesta e la titolarità
dell’iniziativa.
15. Il coordinamento con la tutela giurisdizionale e i
termini per la proposizione del ricorso.
16. La decisione. La natura giuridica e il contenuto del
“parere” di precontenzioso dell’ANAC.
17. L’obbligo di attenersi alla decisione dell’ANAC e il
carattere “vincolante” del parere.
18. La struttura decisoria del “parere motivato”. Il dovere
della stazione appaltante di attuare la pronuncia dell’ANAC.
Assenza di discrezionalità e contenuti conformativi del
parere.
19. Il significato della nuova efficacia vincolante del
parere dell’ANAC. La dimensione oggettiva dell’efficacia e
il suo perimetro soggettivo.
20. Nel nuovo ordinamento esiste ancora spazio per il parere
“totalmente non vincolante” dell’ANAC?
21. Il termine per la pronuncia del parere ANAC e il suo
inutile decorso. Il problema del raccordo con la tutela
giurisdizionale.
22. Gli strumenti giuridici per l’attuazione del parere
vincolante dell’ANAC. La necessaria mediazione di un
provvedimento attuativo della stazione appaltante. La
problematica applicabilità del giudizio di ottemperanza
23. Il problema dello stand still processuale e della tutela
cautelare. L’applicabilità delle regole flessibili del
regolamento ANAC.
24. L’impugnabilità in sede giurisdizionale del parere
vincolante dell’ANAC.
25. La compatibilità degli istituti di ADR con la
Costituzione. La natura indisponibile delle posizioni di
interesse legittimo. La necessaria previsione del sindacato
giurisdizionale sulla pronuncia precontenziosa.
26. La condanna alle spese della parte soccombente dinanzi
all’ANAC, in caso di ulteriore rigetto del ricorso
giurisdizionale.
27. Il regolamento dell’ANAC sul precontenzioso non
vincolante e i dubbi sulla sua base normativa. Il potere di
disciplinare il procedimento nel nuovo quadro sistematico
del decreto n. 50/2016. L’applicazione “residuale” del CPA.
28. La sorte del regolamento di autorganizzazione dell’ANAC.
La perdurante vigenza delle disposizioni non incompatibili
con il nuovo assetto normativo.
29. I problemi del raccordo con la tutela giurisdizionale.
L’impugnazione del parere di rigetto, dell’originario
provvedimento contestato e dell’eventuale atto di
adeguamento adottato dalla stazione appaltante.
30. Le nuovissime “raccomandazioni vincolanti” di cui al
comma 2 dell’art. 211. Contenuto della disciplina e aspetti
problematici.
31. I presupposti sostanziali per l’esercizio del potere di
intervento dell’ANAC. Il nodo dell’ambito delle scelte
discrezionali riservate all’Autorità.
32. La natura e il fondamento del potere esercitato dall’ANAC:
le conseguenze sulla disciplina applicabile al procedimento.
33. L’impugnazione giurisdizionale della “raccomandazione
vincolante” positiva. La portata del rinvio all’art. 120:
termini della notificazione del ricorso e decorrenza.
Ulteriori criticità dei pareri di precontenzioso e delle
raccomandazioni vincolanti dell’ANAC.
34. È possibile impugnare dinanzi al TAR la determinazione
“negativa”, con cui l’ANAC, dopo l’avvio formale del
procedimento, esclude la sussistenza di vizi della
procedura?
35. La sollecitazione all’intervento sanzionatorio proposta
dai soggetti “interessati” e il silenzio dell’ANAC. Vi è un
obbligo di provvedere dell’Autorità?
36. Il problema della tutela precontenziosa dei cittadini
titolari di un “interesse legittimo in qualità di
contribuenti a un corretto svolgimento delle procedure di
appalto”. Un dovere di pronuncia dell’ANAC? La
legittimazione all’esposto degli operatori economici
decaduti dal potere di proporre ricorso.
37. Il mancato adeguamento delle stazioni appaltanti alla
raccomandazione vincolante dell’ANAC: gli strumenti di
tutela dei terzi interessati.
38. La tutela procedimentale personale del dirigente
responsabile della violazione.
39. La raccomandazione dell’ANAC e il provvedimento della
stazione appaltante: il problema del coordinamento con la
disciplina generale del procedimento; i limiti sostanziali
dell’annullamento di ufficio.
40. La segnalazione di illegittimità della procedura
formulata dall’operatore economico decaduto dal ricorso
giurisdizionale (e dalla richiesta di parere di cui all’art.
211, comma 1).
41. Il potere di intervento dell’ANAC sulle situazioni
consolidate: il caso della cristallizzazione del
provvedimento definitivo di esclusione e di ammissione e la
ratio del rito “superspeciale”.
42. Le segnalazioni qualificate provenienti dal giudice
amministrativo ai sensi della “Legge Severino”. Un dovere
puntuale di pronuncia dell’ANAC.
43. Il rapporto tra il procedimento di precontenzioso e il
contestuale giudizio. La “litispendenza impropria” tra i due
procedimenti previsti dal comma 1 e dal comma 2.
44. Il rapporto (problematico) tra le due ipotesi dell’art.
211. Il doppio volto dell’ANAC: giudice imparziale delle
controversie e Pubblico Ministero persecutore delle
illegittimità delle stazioni appaltanti.
45. Una possibile ipotesi di coordinamento: l’alternatività
assoluta tra i rimedi precontenziosi disciplinati,
rispettivamente, dal comma 1 e dal comma 2 dell’art. 211. La
prevalenza dei procedimenti officiosi dell’ANAC. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
F. Aperio Bella,
Il silenzio-assenso
tra pubbliche amministrazioni (il nuovo art. 17-bis della l.
n. 241 del 1990)
(08-09.04.2016 - tratto da
www.diritto-amministrativo.org).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il problema
dell’applicazione dell’art. 17-bis agli atti di assenso
delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi
sensibili – 3. I rapporti tra l’art. 17-bis e la conferenza
di servizi – 4. Il nodo del rispetto delle autonomie
regionali – 5. Considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
S. Bigolaro,
La legge di riforma della pubblica amministrazione
(124/2015) e i procedimenti edilizi: due le norme
direttamente applicabili, o forse una
(14.10.2015 - tratto da http://venetoius.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI SERVIZI E FORNITURE:
Oggetto: Indicazioni operative alle stazioni appaltanti
in materia di pubblicazione del programma biennale degli
acquisti di beni e servizi e del programma triennale dei
lavori pubblici sul sito informatico dell’Osservatorio, ai
sensi dell’art. 21, comma 7, del d.lgs. 50/2016 (comunicato
del Presidente 26.10.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Oggetto: Regolamento per il rilascio dei pareri di
precontenzioso di cui all’art. 211, comma 1, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 e modalità di trattazione
delle istanze pregresse :
●
comunicato del Presidente 05.10.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
●
regolamento 05.10.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Oggetto: Indicazioni operative in merito alle modalità di
calcolo della soglia di anomalia nel caso di aggiudicazione
con il criterio del prezzo più basso (comunicato
del Presidente 05.10.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
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A seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei
contratti e delle concessioni (d.lgs. n. 50/2016) l’Autorità
ha ricevuto numerose richieste di chiarimenti in merito alle
modalità di calcolo delle soglie di anomalia nel caso di
aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso e per
questo ha ritenuto opportuno fornire delle indicazioni
operative. |
APPALTI:
Non è il prezzo che fa l'opera. Da applicare
l'offerta economicamente più vantaggiosa.
Le novità contenute nelle linee guida dell'Anac
sui criteri di aggiudicazione degli appalti.
Il criterio del prezzo più basso come strumento derogatorio
ed eccezionale nell'aggiudicazione degli appalti;
privilegiata la scelta del contraente sulla base del
rapporto qualità-prezzo; rating di legalità valutabile in
sede di offerta, ma senza discriminare le imprese estere o
di nuova costituzione; possibile la gara con il prezzo fisso
ma con adeguata motivazione e previa indagine di mercato;
valutabili in sede di offerta elementi soggettivi del
concorrente per verificarne l'affidabilità.
Sono questi alcuni dei punti contenuti nelle linee guida sui
criteri di aggiudicazione approvate in questi giorni in via
definitiva dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) (determinazione
21.09.2016 n. 1005 - Linee Guida n. 2, di
attuazione del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, recanti
“Offerta economicamente più vantaggiosa”), a
conclusione dell'iter dei pareri.
Nel documento ci si sofferma sulla possibilità di utilizzare
il criterio del prezzo più basso che oggi rappresenta
un'eccezione rispetto alla regola di aggiudicare l'appalto
sulla base del rapporto qualità-prezzo.
A tale possibilità si può ricorrere quando si tratti di
lavori di importo fino a un milione, o quando il servizio o
la fornitura ha caratteristiche standardizzate, cioè nei
casi in cui le condizioni di svolgimento della prestazione
non sono modificabili dalla stazione appaltante o rispondono
a determinate norme nazionali, europee o internazionali. In
sostanza, per questi appalti la variabilità delle
caratteristiche qualitative è praticamente nulla e da qui
discende l'utilizzabilità del criterio del prezzo più basso.
A parte questi casi, le amministrazioni sono chiamate ad
applicare il criterio del rapporto qualità-prezzo (criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, Oepv)
vincolante per i servizi di ingegneria e architettura di
valore superiore a 40 mila euro, per i servizi di
ristorazione e per quelli a elevata intensità di manodopera.
Le linee guida Anac ribadiscono la generale indicazione di
distinzione fra requisiti di ammissione alla gara e criteri
di valutazione dell'offerta, ma precisano che per
determinati appalti è ammesso dall'ordinamento nazionale ed
europeo prendere in considerazione elementi di carattere
soggettivo nella misura in cui non siano stati già valutati
in sede di ammissione alla gara e, quindi, siano tali da
misurare dal punto di vista qualitativo e non quantitativo,
per esempio, l'affidabilità del concorrente.
Per quel che riguarda il rating di legalità valutabile in
sede di offerta, l'Anac ha messo in evidenza il rischio di
turbativa della concorrenza (il rating non può essere
concesso a imprese estere, a quelle con un fatturato
inferiore a 2 milioni o costituite da meno di due anni). La
soluzione suggerita da Anac sarebbe quella di inserire negli
atti di gara gli elementi previsti dal regolamento Agcm per
acquisire il rating. Richiamato anche in queste linee guida,
così come in quelle n. 1/2016 sui servizi di ingegneria e
architettura (delibera 937 del 14.09.2016), il
suggerimento di inserire criteri di valutazione che
valorizzino gli elementi di innovatività dell'offerta.
Con riguardo alla possibilità di prevedere il prezzo fisso,
l'Anac ha chiarito che tale possibilità va adeguatamente
motivata e deve seguire una «esaustiva indagine di mercato»
che abbia a oggetto gli affidamenti da parte di altre
stazioni appaltanti.
L'Anac ha invitato poi a limitare il peso del prezzo quando
si vogliono contenere ribassi eccessivi che
comprometterebbero la qualità o quando si intende
valorizzare i profili qualitativi; viceversa il prezzo può
assumere un peso percentuale più elevato se le condizioni di
mercato sono tali che la qualità dei prodotti offerta è
sostanzialmente analoga
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO: Scuole,
sisma, dissesti: sì ad affidamenti in deroga.
Anche col nuovo codice la somma urgenza non viene
meno.
Legittimi, anche dopo il nuovo codice
dei contratti pubblici, gli affidamenti di importo inferiore
alla soglia Ue dei 5,2 milioni di euro di lavori disposti in
somma urgenza e con procedura negoziata per l'edilizia
scolastica, la prevenzione sismica e contro il dissesto
idrogeologico.
Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il
parere 19.09.2016 reso in risposta ad un quesito posto
dalle Strutture di missione della presidenza del Consiglio
per il coordinamento e l'impulso nell'attuazione di
interventi di riqualificazione dell'edilizia scolastica e
contro il dissesto idrogeologico per lo sviluppo delle
infrastrutture idriche.
Nel quesito si faceva riferimento
alla disciplina riguardante gli interventi affidabili in
regime di somma urgenza di cui all'articolo 9 del decreto
legge 133/2014 (Sblocca Italia) convertito nella legge
164/2014.
La norma stabilisce infatti che per gli interventi di
importo compreso fino alla soglia comunitaria, le stazioni
appaltanti possano derogare a diverse norme del codice dei
contratti pubblici a condizione che di fosse in presenza di
casi di «estrema urgenza».
La stessa norma prevede che costituisce «estrema urgenza»,
la situazione conseguente ad apposita ricognizione da parte
dell'ente interessato che certifica come indifferibili gli
interventi, anche su impianti, arredi e dotazioni,
funzionali relativi a alla messa in sicurezza degli edifici
scolastici di ogni ordine e grado e a quelli dell'alta
formazione artistica, musicale (Afam), comprensivi di nuove
edificazioni sostitutive di manufatti non rispondenti ai
requisiti di salvaguardia della incolumità e della salute
della popolazione studentesca e docente; la stessa
disciplina è poi previsto che si applichi sia alla
mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici del
territori, sia all'adeguamento alla normativa antisismica e
alla tutela ambientale e del patrimonio culturale.
Le deroghe previste riguardano i termini di presentazione
delle domande di partecipazione e delle offerte, ma anche la
possibilità di affidare lavori di importo inferiore alla
soglia comunitaria, a cura del responsabile del
procedimento, nel rispetto dei principi di trasparenza,
concorrenza e rotazione e secondo la procedura negoziata con
invito a dieci operatori economici (che diventano cinque per
la messa in sicurezza degli edifici scolastici).
La disposizione prevede anche che sia l'Anac ad effettuare
un attento controllo su questi appalti (anche con verifiche
a campione) e proprio per questo l'Autorità ha emanato un
comunicato nel febbraio 2015 per disciplinare le modalità di
verifica dei dati che le stazioni appaltanti sono tenute ad
inviare a valle degli affidamenti. Il punto che veniva posto
era se la disciplina del decreto Sblocca Italia del 2014
potessero essere sempre applicate anche dopo l'entrata in
vigore del nuovo codice.
L'Anac dà il suo via libera
affermando che si tratta di normativa «vigente che coniuga,
alle esigenze di celerità, i principi cardine della
normativa sui contratti pubblici prevedendo comunque,
nonostante il carattere di estrema urgenza, una forma
semplificata di procedura competitiva»
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Gare, i giovani portano premi. Bonus ai gruppi con
progettisti abilitati da meno di 5 anni.
Nelle prima linea guida Anac sul Codice appalti anche
indicazioni sui corrispettivi.
Premi ai raggruppamenti di progettisti con professionisti
abilitati da meno di cinque anni. Requisito di fatturato
alternativo alla polizza assicurativa. Decreto ministeriale
del 17.06.2016 come riferimento per la stima dei
corrispettivi a base di gara. Selezione tecnica prima
dell'apertura delle offerte economiche.
Sono questi alcuni
dei punti della prima linea guida Anac attuativa del codice
dei contratti pubblici (Linee Guida n. 1, di attuazione
del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali
sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e
all’ingegneria”) approvata dal Consiglio
dell'Autorità con
determinazione
14.09.2016 n. 973, che
da oggi dovrebbe essere pubblicata sul sito
www.anticorruzione.it, dopo la sigla apposta dal presidente
dell'Autorità Raffaele Cantone. Seguirà poi la pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale.
La linea guida n. 1/2016 contiene quindi indicazioni
operative per le stazioni appaltanti, ancorché non
vincolanti come ha precisato il Consiglio di Stato, che di
fatto colmano il vuoto lasciato dall'abrogazione del dpr
207/2010 (in particolare dagli articoli da 250 a 270). Fra i
punti di rilievo dell'articolato documento, le indicazioni
ai committenti sulla stima dei corrispettivi a base di gara,
per i quali l'ANAC precisa che «fino a quando, in attuazione
del disposto di cui all'art. 24, comma 8, il ministro della
giustizia non avrà approvato le nuove tabelle dei
corrispettivi, come previsto dallo stesso art. 216, comma 6,
occorre fare riferimento ai criteri fissati dal decreto del
ministero della giustizia 17.06.2016».
Si tratta del decreto che approva le tabelle dei
corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle
prestazioni di progettazione adottato ai sensi dell'art. 24,
comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Nel decreto di giugno è però previsto (art. 1, comma 3) che
i corrispettivi da esso fissati «possono essere utilizzati
dalle stazioni appaltanti, ove motivatamente ritenuti
adeguati, quale criterio o base di riferimento ai fini
dell'individuazione dell'importo dell'affidamento».
Ad una prima lettura, sembrerebbe quindi che l'Anac,
riprendendo i contenuti della legge delega che portò al
decreto 50/2016, abbia in qualche modo forzato, prevedendo
l'obbligo, sia il contenuto della norma del decreto 50 sia
quella del decreto 17.06.2016, sulla base di una norma
di legge che prevede tale obbligo.
E' infatti l'articolo 5 della legge 134/2012 a stabilire che
«si applicano i parametri individuati con il decreto».
Quel che è certo è che su questo aspetto il legislatore
dovrebbe fare chiarezza, per evitare contenziosi e garantire
omogeneità di comportamenti da parte delle stazioni
appaltanti.
La linea guida richiama la necessità di assicurare la
qualificazione del progettista anche nei casi di appalto
integrato(ormai relativo ai soli «settori speciali»). La
linea guida si occupa anche di incentivare la presenza di
giovani professionisti attraverso l'obbligo di inserire
negli atti di gara un incremento convenzionale premiante in
fase di aggiudicazione per chi inserisce nei gruppi di
concorrenti il giovane professionista; previste anche
indicazioni per inserire criteri di valutazione che
valorizzino gli elementi di innovatività delle offerte
presentate.
Il riferimento per il fatturato globale viene esteso,
rispetto all'allegato XVII del decreto 50/2016, ai migliori
tre anni del quinquennio per un importo complessivo non
superiore al doppio del valore della gara e le
amministrazioni potranno prevedere in alternativa «un
livello di adeguata copertura assicurativa contro i rischi
professionali per un importo percentuale fissato in
relazione al costo di costruzione dell'opera».
In fase di
valutazione delle offerte l'Anac suggerisce di valutare di
inserire una soglia di punteggio tecnico superata la quale
si aprono le offerte economiche
(articolo ItaliaOggi del 22.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
L’Anac: nelle gare di progettazione largo ai
parametri. Codice degli appalti. Per ingegneri e architetti.
Si aggiunge un
altro tassello al complesso puzzle disegnato per
l'attuazione del codice degli appalti. L’Autorità
anticorruzione ha approvato in via definitiva le linee guida
per l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura.
Una bussola fondamentale per le amministrazioni, che
potranno cosi farsi guidare dagli indirizzi dell’Anac per la
definizione dei bandi e la gestione delle gare, senza
correre il rischio di incorrere in contestazioni di
legittimità degli affidamenti.
Le linee guida per l’assegnazione dei servizi di
progettazione (determinazione
14.09.2016 n. 973 - Linee Guida n. 1, di
attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi
generali sull’affidamento dei servizi attinenti
all’architettura e all’ingegneria”) sono il primo atto di indirizzo -tra gli 11
su cui ha finora messo mano l’Anac- arrivati al traguardo
del via libera definitivo, dopo il passaggio in Consiglio di
Stato (parere
02.08.02016 n. 1767) e l’esame delle commissioni parlamentari competenti.
Rispetto alla bozza varata in prima battuta a fine giugno
dal Consiglio dell’Autorità il testo definitivo introduce
alcune novità, ma in larga parte conferma l'impianto
generale messo anche in consultazione tra gli operatori.
Rimane innanzitutto l'indicazione-chiave relativa al calcolo
dei compensi da porre a base delle gare. Il riferimento sono
i "parametri" contenuti nel Dm Giustizia del 17.06.2016
che ha aggiornato il vecchio Dm 143/2013. Per l’Autorità
usare le tabelle del decreto per determinare gli onorari di
ingegneri e architetti è d’obbligo, anche se su questo punto
il codice appalti parla di facoltà per le amministrazioni,
lasciando evidentemente aperta la porta anche ad altre
strade.
Per rafforzare la propria interpretazione, facendo in
qualche modo propria un’istanza dei professionisti,
l’Authority ricorda quanto previsto dal primo decreto sulle
liberalizzazioni (Dl 1/2012) da cui è derivata l’abolizione
delle tariffe professionali. In quel decreto, il riferimento
ai «parametri» stabilito dal ministero per la Giustizia per
determinare i compensi viene infatti imposto come obbligo,
allo scopo di evitare comportamenti troppo disomogenei tra
le Pa. Con l'avvertenza, però, che i compensi posti a base
di gara non devono mai superare l'importo dei vecchi minimi.
Le linee guida confermano poi una serie di misure destinate
a favorire la massima partecipazione alle gare. Innanzitutto
si ribadisce la possibilità per le amministrazioni di
sostituire la richiesta di un fatturato minimo con una
copertura assicurativa contro i rischi professionali
calcolata in percentuale rispetto al costo delle opere da
progettare. Il fatturato minimo non potrà comunque mai
superare il doppio dell'importo a base di gara. Lo stesso
dicasi per il numero di personale tecnico necessario
all'esecuzione del servizio.
Una novità riguarda i giovani professionisti. Per aprire le
porte del mercato pubblico anche a chi si è appena
affacciato alla professione, l’Anac chiede alle
amministrazioni di prevedere sempre criteri di valutazione
capaci di valorizzare «gli elementi di innovatività delle
offerte presentate».
Non è una decisione presa sull’onda del terremoto che ha
distrutto Amatrice il 24 agosto (visto che era presente
anche nelle prime versioni del documento) ma va certamente
in direzione di aumentare il grado di sicurezza di
costruzione degli edifici l’indicazione alle Pa di inserire
nei bandi la richiesta di prevedere sempre la presenza di un
geologo nel gruppo di progettazione.
Rispetto alle linee
guida varate a giugno è stata però aggiunta la possibilità
per le stazioni appaltanti di bandire una gara ad hoc
per individuare il professionista cui affidare la relazione
geologica, distinta dalla procedura necessaria ad assegnare
l'incarico di progettazione
(articolo Il Sole 24 Ore del
16.09.2016). |
APPALTI: Affidatari con scelta dettagliata. Per la procedura
negoziata basta motivazione in sintesi.
Il parere del Consiglio di stato sulle linee guida Anac
sugli appalti di lavori e servizi.
Le linee guida Anac per gli appalti di lavori, forniture e
servizi sotto la soglia Ue non sono vincolanti e le
amministrazioni possono discostarsene; già sufficientemente
dettagliata la disciplina del codice dei contratti; obbligo
di motivazione sintetica per la scelta della procedura
negoziata ma motivazione dettagliata per la scelta
dell'affidatario.
È quanto afferma il Consiglio di Stato nel
parere 02.08.02016 n. 1767 emesso dalla
commissione speciale sulle linee guida che l'Anac, come già
avvenuto per le altre linee guida, ha inviato a palazzo
Spada, pur non obbligata.
Dopo avere apprezzato che
l'Autorità abbia comunque ritenuto opportuno trasmettere
l'atto per un parere, i giudici chiariscono in premessa che
le linee guida sull'affidamento dei contratti pubblici
sotto-soglia
(determinazione
14.09.2016 n. 973 - Linee Guida n. 1, di
attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi
generali sull’affidamento dei servizi attinenti
all’architettura e all’ingegneria”) «possono essere annoverate tra le linee guida
dell'Anac non vincolanti, le quali sono anch'esse atti
amministrativi generali», con conseguenziale «applicazione
dello statuto del provvedimento amministrativo e perseguono
lo scopo di fornire indirizzi e istruzioni operative alle
stazioni appaltanti»; da ciò deriva, si legge nel parere,
l'opportuno minore rigore nell'enucleazione dell'indirizzo
impartito all'amministrazione.
Inoltre le stazioni
appaltanti si potranno discostare dalle linee guida con un
«atto che contenga una adeguata e puntuale motivazione,
anche a fini di trasparenza, che indichi le ragioni della
diversa scelta amministrativa». Per la commissione speciale
esiste già nel nuovo codice una disciplina dettagliata in
materia di affidamento di contratti di importo inferiore
alla soglia comunitaria (articolo 36) che non necessita,
pertanto, di linee di indirizzo di carattere «integrativo»,
che appesantirebbero inutilmente il quadro regolatorio.
Questa tesi viene supportata dalla disciplina transitoria
prevista all'art. 216 che, in attesa delle linee guida,
indica come si debbano regolare le stazioni appaltanti
(scelta degli affidatari tramite elenchi o attraverso
indagini di mercato con pubblicità di almeno 15 giorni e
richiesta di requisiti minimi). Nel merito, il Consiglio di
stato dà atto della «meritevole e non facile opera di
bilanciamento tra esigenze di semplificazione e doveroso
rispetto, in ogni caso, dei principi di concorrenza,
trasparenza, non discriminazione, pubblicità e
proporzionalità», ma evidenzia alcune criticità.
In particolare viene segnalato che appare poco conciliabile
col principio di semplificazione, «imporre uno stringente
onere motivazionale finanche “in merito alla scelta della
procedura seguita”, come nel caso degli affidamenti al di
sotto di 40.000» e si suggerisce che si distingua far
fase di scelta della procedure (onere motivazionale
sintetico) e scelta dell'aggiudicatario (onere di
dettagliata motivazione).
Si suggerisce poi di fare chiarezza fra «preliminare
indagine, semplicemente esplorativa del mercato», «indagine
di mercato» e «consultazioni preliminari di mercato»
previste dall'art. 66 del codice
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI:
Oggetto: Indicazioni operative anche alla luce del nuovo
codice degli appalti e concessioni (decreto legislativo
18.04.2016, n. 50) per l’affidamento del cd. “servizio luce”
e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni,
compreso l’efficientamento e l’adeguamento degli impianti di
illuminazione pubblica (comunicato
del Presidente 14.09.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
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A seguito di numerose segnalazioni ricevute dall’Anac in
merito all’affidamento del servizio di efficientamento ed
adeguamento normativo degli impianti di pubblica
illuminazione, da parte di Amministrazioni comunali, con
modalità non rispondenti al dettato normativo, è stato
predisposto il Comunicato del Presidente del 14 settembre
scorso: Indicazioni operative anche alla luce del nuovo
codice degli appalti e concessioni (decreto legislativo
18.04.2016, n. 50) per l’affidamento del cd. “servizio luce”
e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni,
compreso l’efficientamento e l’adeguamento degli impianti di
illuminazione pubblica. |
APPALTI SERVIZI:
Contratti socio-sanitari, tracciabili anche i
privati. Richiesta di Anac al governo contro le
infiltrazioni malavitose.
Obbligo di tracciabilità finanziaria anche per i contratti
stipulati nel settore dei servizi socio-sanitari gestiti
dalle strutture sanitarie private per evitare infiltrazioni
malavitose.
È quanto ha chiesto l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac)
con l'Atto
di segnalazione al Governo e al Parlamento 07.09.2016 n. 958
(Atto di segnalazione al Governo e al Parlamento
concernente la proposta di estensione degli obblighi di
tracciabilità dei flussi finanziari, previsti dall’art. 3
della legge 13.08.2010, n. 136, ai servizi sanitari e
sociali erogati da strutture private accreditate),
inviato ai
presidenti di camera e senato e al ministro dell'interno e
della salute.
Sul tema dei contratti affidati in questo settore, e quindi
con riferimento alle sovvenzioni o contributi erogati a
soggetti del terzo settore per lo svolgimento di attività
d'interesse sociale ritenute utili per la collettività, l'Anac
aveva stabilito (delibera del 20.01.2016, n. 32) che la
disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari si
applicasse anche agli acquisti e agli affidamenti di servizi
sociali, nonché agli affidamenti alle cooperative sociali di
tipo B ex art. 5 della legge 381/1991.
Diverso era ed è, invece, il regime per i servizi erogati in
regime di accreditamento, che non sono stati invece
richiamati nell'ambito di applicazione degli obblighi di
tracciabilità (determinazione Anac n. 4/2011). L'Anac si è
quindi posta il problema di verificare se non fosse
opportuno mutare orientamento e ritenere applicabili gli
obblighi di tracciabilità anche quando l'acquisizione dei
servizi socio-sanitari venga effettuata, per la specialità
del settore, con modalità diverse rispetto a quelle
disciplinate dalla normativa specifica sui contratti
pubblici di matrice europea (cioè non a evidenza pubblica).
L'Autorità, nell'atto di segnalazione, parte dalla
considerazione che gli strumenti introdotti dall'art. 32 del
dl 90/2012, estesi dalla legge di Stabilità 2016 al settore
sanitario, sono stati intesi come «misure di natura
cautelare, preordinati, quindi a evitare che a fronte di
indagini giudiziarie su fatti illeciti connessi alla
gestione del contratto pubblico, si possano verificare
ritardi o pregiudizi nella prestazione di servizi,
soprattutto laddove si tratti di servizi indifferibili, come
quelli socio-sanitari».
L'obbligo di tracciabilità si caratterizza infatti come
rimedio «straordinario, destinato a operare a fronte di
un'accertata inefficacia dei presidi di legalità esistenti
nel prevenire, nel caso concreto, l'illecito».
L'Anac ha precisato che in relazione all'esigenza di un
rafforzamento delle misure di controllo della spesa con
finalità di ordine pubblico anche nel delicato settore dei
servizi socio-sanitari gestiti dai privati, «appare
certamente opportuno che gli obblighi di tracciabilità siano
applicabili anche ai servizi sanitari e sociali erogati da
strutture private accreditate».
In questo modo si potrebbe anticipare, il più a monte
possibile, la soglia di prevenzione, creando meccanismi che
consentano di intercettare i fenomeni di intrusione
criminale nei flussi finanziari provenienti dagli enti
pubblici. Una tale scelta risulterebbe del tutto
giustificato, ha detto Anac a governo e parlamento, «dalla
constatazione che anche in questo settore, come in quello
degli appalti pubblici, frequentemente le infiltrazioni
della criminalità organizzata finiscono per saldarsi con i
fenomeni corruttivi e di mala gestio della cosa pubblica».
Occorre però un intervento normativo
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2016). |
APPALTI:
Gare Cipe col vecchio codice. Regole 2006 se la
procedura è in capo al comitato. Una
delibera dell'Anac interviene a chiarire su una richiesta
delle Infrastrutture.
Si applica ancora il codice dei contratti pubblici del 2006
alle grandi infrastrutture inserite in programmazione e la
cui procedura approvativa sia in capo al Cipe; una volta
conclusa la fase di approvazione i bandi di gara per
l'affidamento dei lavori dovranno invece rispettare il nuovo
codice dei contratti pubblici, ivi compresa la possibilità
di affidamento a contraente generale.
È l'Anac (con il
Parere sulla Normativa 07.09.2016 n. 924 - rif. AG 35/16/AP
reso nota nei giorni scorsi) ad intervenire, su
richiesta del ministero delle infrastrutture, in merito alla
disciplina applicabile alle opere infrastrutturali già
inserite all'interno dell'XI Allegato infrastrutture al Def
2013.
Per queste opere, che fanno riferimento alla programmazione
legata all'abrogata «legge obiettivo», la procedura
approvativa (e in particolare l'acquisizione della Via) è
infatti iniziata prima dell'entrata in vigore del nuovo
codice dei contratti pubblici e quindi si trattava di
stabilire se la disciplina applicabile fosse quella prevista
dal decreto 50/2016 o la precedente che faceva riferimento
agli articoli 161 e seguenti del decreto 163/2016.
L'Anac propende per l'applicazione del codice del 2006 che,
di fatto, comporta che sia il Cipe ad approvare i progetti e
a provvedere all'attestazione della compatibilità
ambientale. Al ministero delle infrastrutture competono,
oltre alle attività tecnico-amministrative per la
progettazione, lo svolgimento dell'istruttoria al Cipe e la
proposta di assegnazione delle risorse; il tutto attraverso
la Struttura tecnica di missione.
In base alle nuove norme del decreto 50/2016 gli interventi
che fanno parte di atti programmatori già approvati, fra
cui, afferma l'Anac, rientrano anche quelli di cui
all'allegato infrastrutture al Def 2013 (in base ad una
apposita norma transitoria del nuovo codice), sono infatti
oggetto di valutazione da parte della nuova struttura
tecnica di missione (la cosiddetta project review), al fine
del loro inserimento nel dpp, il documento pluriennale di
pianificazione.
Ma per quel che riguarda le norme applicabili occorre tenere
presente, dice l'Anac nel parere, che se la Via è stata già
avviata alla data di entrata in vigore del decreto 50
(19.04.2016), essa verrà conclusa «in conformità alle
disposizioni e alle attribuzioni di competenza vigenti
all'epoca del predetto avvio».
Analoga disciplina viene peraltro stabilita per le varianti.
Come ipotizzato dal ministero delle infrastrutture, per
l'affidamento dei lavori sarà invece necessario applicare il
nuovo codice che, va ricordato, contempla sempre
l'affidamento a contraente generale, strumento che qualche
amministrazione sta tentando di utilizzare anche per
superare il divieto di appalto integrato (o meglio,
l'obbligo di appaltare lavori sulla base di un progetto
esecutivo) al fine di portare a termine la progettazione
esecutiva e realizzare i lavori di opere ferme al progetto
definitivo.
Si tratta di una prassi per adesso isolata: alla gara di
giugno scorso del comune molisano di Carovilli, che utilizzò
il contraente generale per una scuola da due milioni di
euro, è seguito a fine agosto un bando, questa volta da 22
milioni, del provveditorato interregionale per le opere
pubbliche di Lazio, Abruzzo e Sardegna per progettazione e
realizzazione dei lavori di ristrutturazione, trasformazione
ed ampliamento degli impianti tecnologici delle sedi della
Sogei.
Evidentemente l'eliminazione dei vincoli di importo previsti
nel precedente codice per il ricorso al contraente generale
stanno dando adito ad un utilizzo improprio di una figura
contrattuale nata per ben altre finalità, fin dalla
direttiva europea 89/440 (articolo
ItaliaOggi del 30.09.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it).
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Infrastrutture strategiche – approvazione progetti -
regime transitorio
I progetti delle infrastrutture strategiche
già inserite negli strumenti programmatori approvati, e per
i quali la procedura di VIA è già iniziata al momento
dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, sono approvati
secondo la disciplina previgente. Le procedure e i contratti
per i quali i bandi sono pubblicati successivamente
all’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, rientrano
nell’ambito di applicazione del nuovo codice.
Artt. 161 e segg. e 182 e segg. d.lgs. 163/2006; artt. 200,
201 co. 9, 214 e 216 d.lgs. 50/2016 |
APPALTI SERVIZI - TRIBUTI: Tasse
locali, niente bandi su misura. Delibera anac.
Niente bandi su misura sui tributi locali. Il bando per
l'affidamento della attività di accertamento e riscossione
ordinaria e coattiva di imposte locali (nel caso di specie
imposta comunale sulla pubblicità, diritto sulle pubbliche
affissioni e tassa occupazione spazi e aree pubbliche) non
può prevedere tra i requisiti per la partecipazione il
possesso di un fatturato minimo pari al triplo dell'importo
posto a base d'asta, in quanto ciò lede i princìpi posti a
tutela della libera concorrenza e del mercato.
Lo ha affermato l'Anac nella
delibera
31.08.2016 n. 921 con cui l'Autorità anticorruzione ha bacchettato la
condotta del comune di Castelvetro di Modena (Mo).
Illegittimo anche il requisito richiesto di avere in corso
di esecuzione da almeno cinque anni l'attività di gestione
di entrate identiche a quelle oggetto del disciplinare,
nonché quelle sull'organico minimo e sull'ambito
territoriale di attività.
Si tratta, in tutti i casi, di «restrizioni
sproporzionate e limitative della concorrenza». Nel
mirino anche l'onerosità dell'aggio e le modalità di computo
del valore della concessione
(articolo ItaliaOggi del 15.09.2016). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Rinnovo del contratto, la rotazione va motivata.
Se l'impresa già affidataria è esclusa dalla procedura
negoziata.
Legittimo applicare il principio di rotazione per non
invitare il titolare del contratto alla procedura di
rinnovo, ma la scelta deve essere motivata.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione
con il
Parere sulla Normativa 31.08.2016 n. 917 - rif. AG 33/16/AP
diffuso in questi
giorni.
In particolare, all'Autorità veniva chiesto di
esprimersi in relazione alla possibilità di escludere dalla
procedura negoziata la ditta già affidataria del precedente
contratto, in applicazione del criterio di rotazione
previsto nel nuovo codice dei contratti all'articolo 36,
comma 2, lett. b), che ha riprodotto una disposizione già
presente nel precedente e abrogato codice del 2006 (art.
125, comma 11, dlgs 163/2006).
Sul punto la disciplina vigente non si esprime con
chiarezza, ma si limita a specificare che l'amministrazione
aggiudicatrice proceda alla «previa consultazione, ove
esistenti, di almeno cinque operatori economici individuati
sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di
operatori economici, nel rispetto di un criterio di
rotazione degli inviti». Da ciò non si ricava che il
precedente affidatario del contratto debba essere
necessariamente escluso dalla procedura negoziata.
La
delibera fa presente che, in sede giurisprudenziale, da una
parte si è affermato che è consentito alla stazione
appaltante di invitare soggetti diversi dal precedente
aggiudicatario e, dall'altro, che l'invito rivolto anche al
precedente aggiudicatario e l'eventuale affidamento del
contratto a quest'ultimo non inficia l'affidamento.
Si trattava quindi di chiarire se invocare l'applicazione
del principio di rotazione per non invitare il titolare del
contratto potesse essere legittimo; anche su questo l'Anac
fa riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di stato
che si è espresso nel senso che se anche in base al criterio
di rotazione all'amministrazione non è imposto di invitare
il precedente affidatario del servizio, «costituisce regola
di buona amministrazione quella di prendere atto della
circostanza che, laddove questi richieda di partecipare non
v'è ragione alcuna che legittimi l'amministrazione a non
rispondere chiarendo le ragioni del mancato invito (foss'anche
richiamando la norma di legge, in teoria)».
Da questo, la delibera fa discendere che è sempre facoltà
dell'amministrazione di non invitare l'impresa già
affidataria del precedente contratto in virtù della mera
applicazione del criterio di rotazione, fatti salvi casi
particolari in cui l'esclusione dell'impresa non sarebbe
legittima in quanto non coerente con le modalità di
espletamento della procedura o con l'oggetto del contratto
in affidamento (es. il precedente affidatario è uno dei
pochi operatori economici sul mercato in grado di eseguire
correttamente il contratto nello specifico settore di
riferimento).
Tutto questo però deve poggiare su una adeguata motivazione,
per cui la delibera chiude affermando che applicando il
criterio di rotazione nella procedura negoziata per gli
affidamenti di servizi e forniture di valore inferiore alla
soglia comunitaria, è possibile non invitare l'operatore
economico affidatario del precedente contratto, fermo
restando che la scelta compiuta deve essere motivata ove
l'operatore economico escluso chieda di partecipare alla
selezione
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
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Cause di
esclusione – Carichi pendenti
La pendenza di un procedimento penale a
carico dell’operatore economico interessato a partecipare
alla procedura di gara non è circostanza idonea a ritenere
configurata una causa di esclusione ex art. 80, d.lgs.
50/2016.
Art. 80, d.lgs. 50/2016
...
Procedura negoziata per affidamenti sotto soglia - Principio
di rotazione – Esclusione dalla procedura
dell’aggiudicatario del precedente contratto
L’applicazione del criterio di rotazione
nella procedura negoziata per gli affidamenti di servizi e
forniture di valore inferiore alla soglia comunitaria
consente all’amministrazione aggiudicatrice di non invitare
l’operatore economico affidatario del precedente contratto,
fermo restando che la scelta compiuta deve essere motivata
ove l’operatore economico escluso chieda di partecipare alla
selezione.
Art. 36, comma 2, lett. b), d.lgs. 50/2016 |
APPALTI:
Lavori in house, regole per l'affidamento diretto.
Chiarimenti dell'Anac in mancanza dell'elenco delle società.
Ammessi gli affidamenti diretti in house anche in assenza
dell'elenco delle società in house e dell'atto Anac che
definisce i requisiti di iscrizione; necessario il rispetto
delle condizioni previste dalla normativa europea sul
«controllo analogo», recepiti dall'articolo 5 del codice dei
contratti pubblici.
È quanto ha affermato l'Autorità
nazionale anti corruzione nel
comunicato del
Presidente 03.08.2016
siglato dal presidente Raffaele Cantone, che contiene
«Chiarimenti sull'applicazione dell'art. 192 del Codice dei
contratti», pubblicato il 7 settembre sul sito web dell'Anac.
I chiarimenti derivano dal fatto che ancora non è stato
pubblicato dall'Autorità l'elenco delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano
mediante affidamenti diretti nei confronti delle proprie
società in house, previsto dal comma 1 dell'articolo 192 del
decreto legislativo 50/2016 (il nuovo codice dei contratti
pubblici). In questo contesto all'Autorità è stato posto il
quesito se fosse possibile procedere ad affidamenti diretti
in assenza della presentazione della domanda di iscrizione
nell'elenco.
La norma del Codice prevede infatti che, prima, l'Anac fissi
con proprio atto i criteri per l'iscrizione nell'elenco, poi
che le amministrazioni formulino le domande e infine che la
stessa Anac verifichi l'esistenza dei requisiti in capo alle
amministrazioni richiedenti. Una volta ammessa nell'elenco
la stazione appaltante potrà «sotto la propria
responsabilità» effettuare affidamenti diretti all'ente
strumentale in possesso dei requisiti per l'affidamento in
house.
L'Autorità preliminarmente ha affermato che prima di
arrivare all'emanazione dei criteri dovrà effettuare «la
previa analisi dell'incidenza delle disposizioni del Testo
unico in materia di società a partecipazione pubblica sulla
disciplina dei requisiti identificativi dell'istituto
dell'in house providing»; quindi ci vorrà ancora tempo.
Nel merito, si ammette la possibilità di procedere ad
affidamenti in house, partendo dalla considerazione che la
norma del codice presuppone l'istituzione dell'elenco e
l'adozione dell'atto dell'Autorità, ma «non vale a
istituire, nel diverso attuale contesto (in cui l'elenco e i
criteri non ci sono, ndr), la pregiudizialità dell'inoltro
della domanda rispetto alla possibilità di effettuare
affidamenti in house».
Inoltre, ha precisato l'Autorità, tenuto che l'iscrizione
all'elenco comunque non ha efficacia costitutiva ma
meramente dichiarativa dell'iscrizione, l'affidamento
diretto alle società in house può essere effettuato, «sotto
la propria responsabilità, dalle amministrazioni
aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori in presenza dei
presupposti legittimanti definiti dall'art. 12 della
direttiva 24/2014/Ue e recepiti nei medesimi termini
nell'art. 5 del dlgs n. 50 del 2016 e nel rispetto delle
prescrizioni di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 192, a
prescindere dall'inoltro della domanda di iscrizione».
Quindi in presenza dei requisiti del «controllo analogo»,
se l'80% delle attività della società controllata è svolto
per la controllante e se non vi siano partecipazioni di
privati nella società controllata (ad eccezione dei casi in
cui la nostra normativa lo preveda) (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016). |
QUESITI & PARERI |
ENTI
LOCALI:
Donazioni in denaro.
La causa liberale (funzione per la quale
un soggetto arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un
altro soggetto) si presume incompatibile con la capacità
giuridica riconosciuta agli enti locali, salvo vi sia
un'espressa autorizzazione di legge o una chiara
compatibilità con gli scopi istituzionali.
Viene, dunque, in rilievo la previsione contenuta nell'art.
16, c. 1, della L.R. 1/2006, in base alla quale «Il Comune è
titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano
i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il
governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite
espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali.».
L'Associazione Intercomunale chiede di conoscere se un
Comune possa utilizzare propri fondi di bilancio per
effettuare una donazione in denaro verso il Fondo fuori
bilancio gestito dalla Protezione civile regionale per
l'emergenza terremoto del Centro Italia, considerato che la
Corte dei conti - Sez. giurisdizionale regionale per il
Friuli Venezia Giulia
[1]
afferma (trattando, però, una fattispecie del tutto diversa
da quella oggetto di quesito
[2])
che «la beneficienza si fa con il denaro proprio e non
con il denaro pubblico».
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, ricordare che l'attività di consulenza
giuridico-amministrativa alla quale è preposto questo
Ufficio è finalizzata a fornire un'illustrazione degli
istituti giuridici nell'ambito dei quali sono riconducibili
le specifiche fattispecie prospettate, fermo restando che
compete all'amministrazione procedente determinarsi in
ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
Un tanto premesso, si segnala che la Corte dei conti - Sez.
regionale di controllo per la Campania
[3]
rileva che, dalla consolidata e risalente giurisprudenza
della Corte di cassazione in materia di 'donazione'
da parte di enti pubblici, si ricava un principio
fondamentale: pur non esistendo un divieto o una norma che
preveda l'incapacità a donare da parte degli enti pubblici,
la donazione, in ogni caso, non può integrare una mera 'liberalità'.
Considerato che la Corte di cassazione afferma che gli enti
pubblici, per i loro fini istituzionali, sono incapaci di
porre in essere atti di donazione e di liberalità che non
costituiscono mezzi per l'attuazione di detti fini, il
giudice contabile osserva che la liberalità, anche quando
teoricamente ammessa, lo è «soltanto in funzione
dell'interesse pubblico con essa perseguito».
Detto altrimenti -prosegue la Corte dei conti- «la causa
liberale, funzione per la quale un soggetto dell'ordinamento
arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro
soggetto, si presume incompatibile con la capacità giuridica
riconosciuta agli enti pubblici, in particolare agli enti
locali, salvo vi sia un'espressa autorizzazione di legge o
una chiara compatibilità con gli scopi istituzionali».
La Corte dei conti rileva, conseguentemente, che la capacità
giuridica degli enti pubblici va «ritagliata sugli scopi
e sui limiti che la legge stabilisce in relazione alla loro
esistenza e al loro agire», pena l'integrazione di abusi
ed elusione di limiti di legge, comportanti ricadute sia sul
piano della validità degli atti, sia su quello della
responsabilità dei soggetti agenti.
Quanto ai predetti scopi e limiti, essi si rinvengono
nell'art. 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n.
1, che (analogamente a quanto dispone l'art. 13, comma 1
[4],
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267) stabilisce che «Il
Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che
riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e
sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle
attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti
istituzionali».
---------------
[1] Sentenza 11.06.2014, n. 47.
[2] Utilizzo di fondi destinati ai gruppi consiliari del
Consiglio regionale.
[3] Deliberazione 06.10.2014, n. 205.
[4] «Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che
riguardano la popolazione ed il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona
e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del
territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia
espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze» (07.11.2016
-
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INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Quesito: Buongiorno, l'incentivo per la
progettazione interna per il personale delle Pubbliche
Amministrazioni, di cui all'art 113 del D.lgs. 50/2016 è
ancora previsto? Ci sono "discordanze" nelle funzioni
previste al comma 1 e 2 del citato articolo.
Risposta: L'incentivo alla progettazione previsto all'art.
92 del precedente Codice degli Appalti D.lgs. 163/2006 è
stato definitivamente abolito con l'approvazione del nuovo
Codice D.lgs. n. 50, entrato in vigore il 19 aprile scorso.
L'attuale art. 113, co. 1, elenca tutte le attività che sono
poste in essere per la realizzazione di un opera e, in
sintonia con il 163/2006, stabilisce che gli oneri fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
Al comma 2 dello stesso articolo, invece, vengono elencate
quelle "funzioni tecniche" svolte dai dipendenti
pubblici (attività di programmazione della spesa per
investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo del bando e dell'esecuzione
dei contratti, di direzione lavori e di collaudo) che
vengono remunerate, mantenendo l'impianto del 163/2006,
attraverso un fondo che le amministrazioni pubbliche
destinano nella misura massima del 2% sull'importo dei
lavori posti a base di gara.
Appare evidente dalla lettura del testo che, diversamente da
quanto previsto dalla precedente normativa all'art. 90, nel
nuovo codice è scomparsa la progettazione interna.
Si conclude, segnalando che non sembrano esserci "discordanze"
tra il comma 1 e il comma 2 dell'art. 113 oggetto
dell'analisi almeno per quanto riguarda la questione della
progettazione interna e la remunerazione ad essa assegnata (tratto
dalla newsletter 04.11.2016 n. 168 di http://asmecomm.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori. Applicabilità art. 5, comma 9, d.l. 95/2012
convertito in l. 135/2012. Presidente di Consorzio tra enti
locali e status di pensionato.
A seguito della novella operata dalla l.
124/2015, qualora si tratti di una carica in un organo di
governo di ente pubblico, i soggetti in quiescenza possono
essere nominati alla suddetta carica anche per una durata
superiore a un anno, ferma restandone la gratuità.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
conferire, a titolo gratuito, la carica di Presidente di un
Consorzio tra enti locali ad un lavoratore pubblico
collocato in quiescenza, stante la vigenza delle norme
previste dall'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come
modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014 e dall'art. 17,
comma 3, della l. 124/2015.
Con successiva precisazione e integrazione l'Amministrazione
istante ha posto la questione se la prescrizione imposta
dalla normativa statale (cariche in organo di governo delle
amministrazioni pubbliche a lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza purché a titolo gratuito) non si
applichi agli enti locali della Regione Friuli Venezia
Giulia, che ha potestà primaria nell'ambito dell'indennità
di carica degli amministratori locali.
La predetta disposizione statale, com'è noto, sancisce il
divieto, per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1,
comma 2, del d.lgs. 165/2001 di attribuire, a soggetti già
lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza,
incarichi di studio e di consulenza. Alle richiamate
amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai
medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o
cariche in organi di governo delle amministrazioni sopra
indicate e degli enti e società da esse controllati, ad
eccezione dei componenti delle giunte degli enti
territoriali e dei componenti o titolari degli organi
elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis
[1], del
d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l.
125/2013.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni sopra indicate
sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli
incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la
gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non
prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione [2],
l'art. 6 del d.l. 90/2014 ha introdotto nuove disposizioni
in materia di incarichi a soggetti in quiescenza, volte ad
evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia
utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per attribuire a
soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle
amministrazioni stesse.
Premesso un tanto, si osserva che il Consorzio di cui
trattasi rientra nel novero delle amministrazioni pubbliche
di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001,
configurandosi quale consorzio tra enti locali
[3]. In
linea generale, in ordine alla possibilità di conferire
cariche in organi di governo (nella fattispecie,
l'assunzione della carica di Presidente del Consorzio) a
lavoratori collocati in quiescenza, si osserva che il
legislatore ha assunto una posizione negativa e restrittiva,
in virtù del divieto esplicitamente sancito dal richiamato
articolo 6, comma 1, del d.l. 90/2014.
Una espressa deroga al suddetto divieto è contemplata nel
medesimo articolo, laddove è ammesso il conferimento di
cariche in organi di governo per i 'componenti delle
giunte degli enti territoriali'. Si rappresenta, a tal
proposito, che in tale locuzione non sembra possano
ricomprendersi i consorzi tra enti locali.
Si rileva infatti che si considerano enti territoriali solo
quelli per la cui esistenza il territorio è un elemento
costitutivo essenziale, e non semplicemente l'ambito
spaziale che ne delimita la sfera d'azione.
Come anticipato, la norma di cui si discute prevede
un'eccezione e cioè che gli incarichi, le cariche e le
collaborazioni oggetto del divieto possano essere attribuiti
a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e
direttivi, la durata non può essere superiore a un anno,
ferma la gratuità.
Con riferimento al caso di specie, si osserva che, a seguito
della novella operata dalla l. 124/2015, qualora si tratti
di una carica in un organo di governo di ente pubblico, i
soggetti in quiescenza possono essere nominati alla suddetta
carica anche per una durata superiore a un anno, ferma
restandone la gratuità [4].
Per quanto concerne l'ulteriore problematica sottoposta, si
conferma l'applicabilità della norma in oggetto agli enti
locali della nostra Regione. Si precisa infatti che le
disposizioni statali in esame esulano dall'ambito della
disciplina delle indennità di carica degli amministratori
locali [5],
atteso che le stesse stabiliscono prescrizioni ostative
della possibilità di conferire incarichi a soggetti
collocati in quiescenza, ponendo la gratuità dell'incarico
quale necessario presupposto per il superamento di tale
preclusione.
---------------
[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi
organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Cfr. art. 1 dello Statuto. In particolare, è un
consorzio per la gestione associata di servizi non economici
(persegue fini assistenziali) ex art. 31, comma 8 ed art. 2,
comma 2, del d.lgs. 267/2000.
[4] Come chiarito con circolare n. 4/2015 del Ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione.
[5] In relazione al quale la Regione Friuli Venezia Giulia
ha potestà legislativa primaria ai sensi dell'art. 4, comma
1-bis, dello Statuto e dell'art. 14 del d.lgs. 9/1997 (03.11.2016
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APPALTI SERVIZI:
Quesito: Nell'affidamento del servizio raccolta
RSU la pubblicazione del bando sulla piattaforma digitale
dell'Anac è obbligatoria?
Risposta: L'art. 29 del D.lgs. n. 50/2016 recante "Principi
di trasparenza" stabilisce al comma 1 "Tutti gli atti
delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere,
servizi e forniture, nonché alle procedure per l'affidamento
di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere,
di concorsi pubblici di progettazione, di concorsi di idee e
di concessioni, compresi quelli tra enti nell'ambito del
settore pubblico di cui all'articolo 5, ove non considerati
riservati ai sensi dell'articolo 53 ovvero secretati ai
sensi dell'articolo 162, devono essere pubblicati e
aggiornati sul profilo del committente, nella sezione
"Amministrazione trasparente" con l'applicazione delle
disposizioni di cui al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33".
Al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso
ai sensi dell'articolo 120 del codice del processo
amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi due
giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei
requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali.
E' inoltre pubblicata la composizione della commissione
giudicatrice e i curricula dei suoi componenti. Nella stessa
sezione sono pubblicati anche i resoconti della gestione
finanziaria dei contratti al termine della loro esecuzione.
Al comma 2 la stessa disposizione precisa inoltre che "Gli
atti di cui al comma 1, nel rispetto di quanto previsto
dall'articolo 53, sono, altresì, pubblicati sul sito del
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sulla
piattaforma digitale istituita presso l'ANAC, anche tramite
i sistemi informatizzati regionali, di cui al comma 4, e le
piattaforme regionali di e-procurement interconnesse tramite
cooperazione applicativa".
Si ritiene pertanto dovuta la pubblicazione del bando di
gara sulla piattaforma Anac (tratto dalla newsletter
28.10.2016 n. 167 di http://asmecomm.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Richiesta di parere in merito all'art. 3 della legge
124/2015 "Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi
pubblici" (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 538538 di prot.). |
APPALTI SERVIZI:
Quesito: Nell'espletamento della gara per
l'affidamento di servizi di igiene urbana, indetta
attraverso la Centrale Asmel Consortile, è pervenuta una
richiesta di chiarimento nella apposita sezione "forum"
della piattaforma telematica, relativa al computo della
cauzione provvisoria.
Posso accordare la richiesta di riduzione dell'importo
calcolato sul 2% del base d'asta, a fronte del possesso
della ditta del certificato ISO90001? A quali condizioni?
Risposta: L'art. 93 del D.Lgs. n. 50/2016 stabilisce che "l'offerta
è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata
"garanzia provvisoria" pari al 2 per cento del prezzo base
indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o
di fideiussione, a scelta dell'offerente".
Detto importo può essere ridotto nei casi elencati nel
successivo comma 7. In particolare, è prevista una riduzione
"del 50 per cento per gli operatori economici ai quali
venga rilasciata, da organismi accreditati, ai sensi delle
norme europee della serie UNI CEI EN 45000 e della serie UNI
CEI EN ISO/IEC 17000, la certificazione del sistema di
qualità conforme alle norme europee della serie UNI CEI
ISO9000".
La disposizione continua poi elencando altri casi in cui è
possibile cumulare uno "sconto" sulla importo della garanzia
da versare.
Pertanto, laddove gli operatori concorrenti dimostrino
concretamente il possesso della richiamata certificazione
potranno beneficiare della riduzione della cauzione
provvisoria (tratto
dalla newsletter 13.10.2016 n. 165 di http://asmecomm.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Quesito: Il comune dove svolgo l'attività di Rup
ha deciso di indire una gara, in modalità telematica
attraverso la piattaforma della Centrale Asmel Consortile,
avente ad oggetto lavori di ristrutturazione, da aggiudicare
con il criterio del prezzo più basso.
Nella redazione del bando, posso inserire una clausola di
esclusione automatica delle offerte anomale, laddove il
numero delle stesse risulti inferiore a 10?
Risposta: L'art. 97 del nuovo Codice Appalti regola la
disciplina delle offerte anormalmente basse. In particolare,
al comma 8 l'articolo precisa che "per lavori, servizi e
forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del
prezzo più basso e comunque per importi inferiori alle
soglie di cui all'articolo 35, la stazione appaltante può
prevedere nel bando l'esclusione automatica dalla gara delle
offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o
superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del
comma 2. In tal caso non si applicano i commi 4, 5 e 6.
Comunque la facoltà di esclusione automatica non è
esercitabile quando il numero delle offerte ammesse è
inferiore a dieci."
L'ultimo inciso risolve il dubbio!
La Stazione Appaltante deve obbligatoriamente valutare la
congruità delle proposte collocate al di sopra della soglia
di anomalia, cosi come individuata dal comma 2 della norma
richiamata, senza possibilità di inserire una clausola che
preveda illegittimamente l'esclusione automatica delle
offerte anomale, se in numero inferiore a 10 (tratto
dalla newsletter 06.10.2016 n. 164 di http://asmecomm.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Quesito: Sono stato nominato Rup per
l'affidamento di un incarico di progettazione che il mio
comune intende assegnare attraverso la piattaforma della
Centrale Asmel Consortile.
Quali parametri devo adoperare per calcolare il compenso del
progettista?
Risposta: Il nuovo decreto del ministero della Giustizia del
17.06.2016, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 174 dello
scorso 27 luglio, fissa i parametri da adottare nella stima
degli importi da porre a base delle gare di progettazione.
Invero, il nuovo Decreto-Parametri riprende il contenuto del
precedente Dm n. 143 del 2013, adeguandolo però alle
prescrizioni del vigente Codice Appalti.
L'art. 24, del d.lgs. n. 50/2016, in materia di
progettazione esterna ed interna alle amministrazione
aggiudicatrici, richiede al comma 8 che "il Ministro
della giustizia, di concerto con il Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, approva, con proprio
decreto, da emanare entro e non oltre sessanta giorni dalla
data di entrata in vigore del presente codice, le tabelle
dei corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle
prestazioni e delle attività di cui al presente articolo e
all'articolo 31, comma 8".
Tale obbligo è stato adempiuto con la pubblicazione del
decreto contenente le tariffe professionali che, in ogni
caso, è d'obbligo precisare, non sono vincolanti per le
Stazioni Appaltanti.
Tale affermazione trova conferma nella stessa norma
codicistica, nei termini in cui il Legislatore stabilisce
che i "predetti corrispettivi possono essere utilizzati
dalle stazioni appaltanti, ove motivatamente ritenuti
adeguati quale criterio o base di riferimento ai fini
dell'individuazione dell'importo dell'affidamento.
Ne consegue che il Decreto richiamato non introduce
prescrizioni tassative, ma rappresenta un valido strumento
per i Rup nella determinazione di un giusto compenso
dell'attività prestata professionista in favore dell'Ente (tratto
dalla newsletter 29.09.2016 n. 163 di http://asmecomm.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Nel nuovo
quadro normativo introdotto dal D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, il
2% dell’importo posto a base di gara non è più destinato
alla remunerazione della fase della progettazione, bensì a
beneficio delle fasi della programmazione della spesa per
investimenti, della predisposizione e controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici,
della direzione dei lavori e dei collaudi, allo scopo di
incentivare la realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei
tempi e con i costi previsti dal progetto.
---------------
Alla luce del quadro normativo vigente e dei principi
recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie,
la
Sezione ritiene, pertanto, che tra le attività escluse dalla
ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e
l’innovazione rientrino tutti i lavori di manutenzione sia
ordinaria che straordinaria
---------------
1. Con nota n. 94 del 2016 il Consiglio delle Autonomie
Locali della Sardegna ha trasmesso alla Sezione regionale di
controllo la deliberazione n. 6 del 2016 con la quale
rimette alla Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge n. 131 del 2003, la richiesta di parere del
Commissario Straordinario della Provincia di Cagliari in
merito alla possibilità di riconoscere incentivi per la
progettazione, ai sensi dell’art. 93, comma 7-ter, del
d.lgs. 163/2006, introdotto, in sede di conversione,
dall’art. 13-bis della legge n. 114 del 2014, per lo
svolgimento di attività di manutenzione straordinaria.
Il Commissario Straordinario della Provincia di Cagliari
chiede, in particolare, se in base alla lettera dell’art.
93, comma 7-ter, del d.lgs. 163/2006, introdotto dall’art.
13-bis della legge n. 114 del 2014 ... tra le attività
escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la
progettazione e l’innovazione rientrino, oltre ai lavori di
manutenzione ordinaria, anche quelli di manutenzione
straordinaria.
...
4. Si richiama brevemente il quadro normativo di
riferimento. L’art. 13 del d.l. 24.06.2014, n. 90,
convertito dalla l. n. 114/2014, ha abrogato i commi 5 e 6
dell’art. 92.
Il successivo articolo 13-bis ha aggiunto, all’art. 93 del
d.lgs. n. 163/2006, il comma 7-bis, che istituisce un
apposito fondo per la progettazione e l’innovazione e
demanda ad un regolamento dell’ente la determinazione della
percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per
cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un
lavoro) da destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, ai
sensi del successivi commi 7-ter e 7-quater, per l’80 per
cento ai compensi incentivanti (da suddividere tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori) e per il 20 per cento all’acquisto, da parte
dell’ente, di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione, di implementazione di banche dati
per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa
per centri di costo, nonché all’ammodernamento ed
all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai
cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs.
n. 163/2006 demanda al potere regolamentare di ciascun ente
la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del
fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, con particolare
riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità
delle opere, escludendo le attività manutentive, e
dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo”.
5. La questione oggetto della richiesta di parere del
Commissario Straordinario della Provincia di Cagliari è
stata recentemente affrontata dalla Sezione delle Autonomie
della Corte dei conti con
deliberazione 23.03.2016 n. 10, che, in sede di questione di massima,
sollevata a seguito di contrasto interpretativo tra più
Sezioni, ha enunciato il seguente principio di diritto: "la
corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter,
d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal
d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega
n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla
progettazione interna di qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria".
La Sezione delle Autonomie ha rilevato che "alla luce del
quadro normativo di riferimento appare evidente come il
legislatore, con le disposizioni di cui trattasi, sia
intervenuto a modificare profondamente la disciplina degli
incentivi alla progettazione, ridefinendone gli ambiti di
operatività, sia sotto il profilo soggettivo che sotto
quello oggettivo. In riferimento al primo aspetto, è stato
limitato l’ambito dei destinatari del nuovo fondo istituito
dal citato art. 13-bis, confinandolo, innanzitutto, alle
figure professionali espressamente individuate dalle norme
... e a vantaggio esclusivo dei soggetti che abbiano
effettivamente svolto attività di progettazione non
rientranti fra le competenze della qualifica funzionale
ricoperta, al fine di riconoscere un differenziale
retributivo connesso al maggior carico di lavoro e di
responsabilità assunto dai dipendenti dei ruoli tecnici, per
lo svolgimento di tali attività. Sotto il profilo oggettivo,
nell’ottica del contenimento delle dinamiche retributive del
personale, è stato ridotto del 50 per cento il tetto massimo
riconoscibile a favore di ogni singolo dipendente, prima
individuato nel trattamento economico annuo lordo".
La Sezione delle Autonomie ha sottolineato "come le
disposizioni introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa
legge di conversione, mirino non solo ad una finalità di
contenimento della spesa ma anche ad una sua
razionalizzazione. In quest’ultima prospettiva si collocano,
infatti, la finalizzazione del fondo non più alla mera
incentivazione, bensì alla progettazione ed all’innovazione,
con destinazione della quota del 20% alle dotazioni
infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo.
Alla medesima finalità appare diretta la previsione di una
graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri
collegati anche a tempi e costi previsti nel progetto
esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo
alla riduzione delle risorse destinate al fondo. ... La
disposizione vigente, con espressione inequivoca, esclude
dagli incentivi alla progettazione l’attività di
manutenzione, da intendersi, ai sensi dell’art. 3 del DPR n.
05.10.2010, n. 207, come combinazione di tutte le azioni
tecniche, specialistiche ed amministrative volte a mantenere
o a riportare un’opera o un impianto nella condizione di
svolgere la funzione prevista dal progetto. Tale esclusione
prescinde da eventuali differenziazioni fra manutenzione
ordinaria e straordinaria".
La Sezione delle Autonomie ha osservato che “la chiara
formulazione dell’art. 93, comma 7-ter, desumibile
dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico
dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad altri
criteri per così dire sussidiari, che finirebbero
inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in
modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in
claris non fit interpretatio). Disposizioni quelle in esame
che escludono tout court la riconoscibilità dell’incentivo
alla progettazione nei confronti di tutte le attività
qualificabili come manutentive, senza differenziazioni di
sorta ed a prescindere dalla progettazione, che, come è
stato già precisato, risulta strettamente connessa alla
realizzazione degli interventi di manutenzione
straordinaria. Qualora, infatti, l’art. 93, comma 7-ter,
avesse voluto circoscrivere la non remunerabilità alle sole
prestazioni tecniche relative ad interventi di manutenzione
ordinaria, peraltro già pacificamente ammessa in via
pretoria, avrebbe dovuto espressamente disporre in tal senso
(ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit). Oltre a ciò deve
osservarsi che, ove limitata ai soli interventi di
manutenzione ordinaria, la novella introdotta dall’art.
13-bis del d.l. n. 90/2014 sarebbe risultata priva di
concreta portata innovativa rispetto al regime antecedente,
anche in termini di risparmio di spesa”.
6. La Sezione di controllo per la Sardegna evidenzia che,
successivamente al deposito della citata pronuncia della
Sezione delle Autonomie, è entrata in vigore, in data
19.04.2016, la disposizione di cui all’art. 113 del D.Lgs.
18/04/2016, n. 50 -“Attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture”– che prevede che: “1. Gli oneri inerenti
alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al
direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi
tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti. ...”.
Dalla lettura della norma emerge chiaramente che,
nel nuovo
quadro normativo introdotto dal D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, il
2% dell’importo posto a base di gara non è più destinato
alla remunerazione della fase della progettazione, bensì a
beneficio delle fasi della programmazione della spesa per
investimenti, della predisposizione e controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici,
della direzione dei lavori e dei collaudi, allo scopo di
incentivare la realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei
tempi e con i costi previsti dal progetto.
7. Alla luce del quadro normativo vigente e dei principi
recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie,
la
Sezione ritiene, pertanto, che tra le attività escluse dalla
ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e
l’innovazione rientrino tutti i lavori di manutenzione sia
ordinaria che straordinaria (Corte dei Conti, Sez. controllo
Sardegna,
parere 18.10.2016 n. 122). |
APPALTI: La transazione non permette il debito fuori bilancio.
Corte dei conti.
Il Comune
chiamato al pagamento di un debito dopo aver chiuso una
controversia con un accordo di «negoziazione assistita»,
evitando cioè di definire la questione nelle aule dei
tribunali, non può far ricorso al debito fuori bilancio, ma
deve ricorrere alla procedura ordinaria di spesa poiché la
somma dovuta non rientra nelle tipologie di debito
disciplinate dal Tuel (articolo 194) e perché l’evento è
stato previsto dall’ente sia nei modi sia nei tempi.
A precisarlo è la
Corte dei conti nel
parere 05.09.2016 n. 164 della Sezione di
controllo per la Sicilia, rispondendo a un Comune che
chiedeva di considerare nella nozione più ampia di debito
fuori bilancio anche il titolo esecutivo derivato dalla
cosiddetta «convenzione di negoziazione» prevista in
determinate materie dalla riforma del processo civile
(articolo 3 del Dl 132/2014, convertito in legge 162/2014) –obbligatoria per il risarcimento del danno da circolazione
di veicoli e natanti e per il pagamento a qualsiasi titolo
di somme purché fine a 50mila euro e per liti per cui non è
prevista la «mediazione obbligatoria»-, così come
riconosciuto in diversi casi di transazione dalla stessa
giurisprudenza contabile, da quella della stessa sezione
isolana (delibera 38/2014), a quelle del Piemonte (delibera
20/2015) e della Lombardia (delibera 396/2015).
La Corte ha spiegato che proprio questi stessi pareri, in
particolare la delibera 396/2015 dei magistrati contabili
lombardi, hanno affermato che in questi casi le uniche
tipologie di debito ammissibili sono quelle definite dal
legislatore nell’ordinamento sugli enti locali.
Come noto,
nel caso in cui derivino da sentenze esecutive; dalla
necessità di coprire il disavanzo di consorzi aziende
speciali e istituzioni; dalla quella di ricapitalizzare
società di capitali create dallo stesso ente locale per
l’esercizio dei servizi pubblici locali; da procedure
d’esproprio o di occupazione d’urgenza per opere di
pubbliche utilità; per acquisire beni e servizi necessari ma
non programmati nel bilancio di previsione né riconducibili
a emergenze.
Nella delibera si è ribadito che proprio per la tassatività
dei casi che legittimano il riconoscimento del debito fuori
bilancio, che di fatto violano la regola di previsione di
spesa e impegno contabile, si è ritenuto di non equiparare
«gli accordi diretti a comporre una controversia» alle
sentenze esecutive e in generale al concetto di
«sopravvenienza passiva» richiamata dal Tuel perché
«presuppongono la decisione dell’ente di pervenire a un
accordo con la controparte, per cui è possibile prevedere,
da parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione
quanto i tempi per l’adempimento».
Secondo la Corte, questo
principio non vale soltanto per gli accordi transattivi ma
anche per quello che deriva dalla negoziazione assistita
come nel caso in esame poiché questa procedura prevede che
le parti, supportate dai rispettivi avvocati, si impegnino a
cooperare in buona fede e con lealtà per chiudere la lite in
via amichevole.
La tesi, secondo i magistrati contabili, è valida anche se
per il legislatore questo patto «costituisce titolo
esecutivo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale» (articolo
5, comma 1): questo infatti resta pur sempre «rimesso alla
disponibilità delle parti che consensualmente decidono di
comporre e regolare i rispettivi interessi senza rimettersi
alla decisione di un terzo» e ha le stesse funzioni di un
contratto di transazione che consente al debitore di
valutarne la convenienza economica rispetto all’incertezza
del giudizio e al contenzioso in ballo concordando i tempi e
i modi per liquidare il debito, quindi di fatto di
programmarne la spesa al contrario di quanto dettato dalla
procedura per i debiti fuori bilancio (articolo Il Sole 24 Ore del
12.09.2016).
---------------
MASSIMA
Con la nota in epigrafe, il Sindaco del comune di Licata
ha chiesto un parere relativo alla legittimità del
riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi
dell’art. 194 del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, a fronte di un
titolo esecutivo costituito dall’accordo che compone la
controversia a seguito dell’espletamento della procedura di
negoziazione assistita prevista dall’ art. 2 e seguenti del
decreto legge 12.09.2014, n.132, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 10.11.2014,
n. 162.
Il Sindaco ha premesso che la suddetta procedura di
negoziazione assistita si inserisce nel più ampio quadro dei
mezzi di risoluzione alternativa delle controversie, ossia
degli strumenti atti a consentire una composizione
stragiudiziale delle liti con finalità deflattive del
contenzioso giudiziario: l’accordo raggiunto dalle parti, da
ricondursi funzionalmente al contratto di transazione,
determinando l’insorgere di un titolo esecutivo nei
confronti dell’ente, ha posto il problema della possibilità
o meno di considerare il debito dell’Ente quale
sopravvenienza passiva rientrante nella più ampia nozione di
“debito fuori bilancio”, il cui riconoscimento è
disciplinato dall’art. 194 del Tuel, nei casi previsti dal
comma 1, lett. a-b-c-d-e.
In tal senso il Sindaco del Comune di Licata ha citato la
giurisprudenza della Corte dei conti formatasi sulla
questione e, segnatamente, i pareri espressi dalla Sezione
di controllo per la Regione siciliana (delibera n.
38/2014/PAR), della Sezione regionale di controllo del
Piemonte (delibera n. 20/2015/PAR), dalla Sezione regionale
di controllo della Lombardia (n. 396/2015/PAR).
...
Nel merito, la Sezione rileva che la tematica oggetto della
richiesta di parere è stata già diffusamente affrontata da
altre Sezioni di controllo della Corte dei conti, né vi sono
ragioni per discostarsi dall’indirizzo interpretativo
delineato dalle deliberazioni sopracitate.
In particolare, la Sezione di controllo per la Lombardia,
con la deliberazione n. 396 del 28 ottobre 2015, dopo aver
precisato che i debiti fuori bilancio costituiscono
obbligazioni pecuniarie assunte in violazione dei principi
contabili e delle disposizioni di legge che regolano i
procedimenti di spesa negli enti locali, sorte in assenza di
specifica previsione di spesa e del conseguente impegno
contabile, le quali si manifestano come sopravvenienze
passive che l’ente -al ricorrere di determinati presupposti-
è tenuto a “riconoscere” nel proprio bilancio, ha ribadito
la tassatività delle tipologie di debiti fuori bilancio
previste dall’art. 194 del TUEL, imputabili all’ente
mediante apposita deliberazione consiliare, articolate delle
seguenti fattispecie:
a) sentenze esecutive;
b) coperture di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e
di istituzioni;
c) ricapitalizzazione di società di capitali costituite per
l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per
opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli
obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei
limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento
per l'ente.
La giurisprudenza contabile ha più volte affermato il
carattere tassativo della predetta elencazione, escludendo,
in particolare, che gli accordi diretti a comporre una
controversia potessero essere assimilati alle sentenze
esecutive, ai fini del riconoscimento di un debito fuori
bilancio.
Si è evidenziato, al riguardo, che “l’accordo transattivo
non può essere ricondotto al concetto di sopravvenienza
passiva e dunque alla nozione di debito fuori bilancio
sottesa alla disciplina in questione. Gli accordi
transattivi, infatti, presuppongono la decisione dell’Ente
di pervenire ad un accordo con la controparte, per cui è
possibile prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere
dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento. Pertanto
con riferimento agli accordi transattivi l’Ente può attivare
le ordinarie procedure contabili di spesa, rapportando ad
esse l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli accordi
stessi” (Cfr. Corte Conti, Sezione Piemonte, delibere n. 383
del 2013 e n. 20 del 2015, Sezione Calabria, delibera n. 406
del 03.08.2011).
Le medesime argomentazioni possono essere sostenute anche
riguardo all’accordo concluso a seguito di una procedura di
negoziazione assistita, introdotta dal decreto legge 12
settembre 2014, n. 132, convertito dalla legge 10 novembre
2014, n. 162.
L’art. 3, del decreto legge sopra citato, subordina la
procedibilità della domanda giudiziale in determinate
materie al previo esperimento della predetta procedura,
consistente nell’invito rivolto all’altra parte di stipulare
una convenzione di negoziazione assistita.
Quest’ultima, come espressamente affermato dal precedente
art. 2, comma 1, del medesimo decreto legge, consiste in un
accordo con il quale le parti si impegnano a cooperare in
buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la
controversia tramite l'assistenza di avvocati.
La cooperazione concordata per effetto della predetta
convenzione può, pertanto, portare alla conclusione di un
accordo che compone la controversia fra le parti e a cui
l’art. 5, comma 1, del decreto legge citato attribuisce
l’efficacia di titolo esecutivo per l’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale.
Tale accordo, in quanto rimesso alla disponibilità delle
parti che consensualmente decidono di comporre e regolare i
rispettivi interessi senza rimettersi alla decisione di un
terzo, può essere ricondotto funzionalmente al contratto di
transazione che, qualora abbia buon esito, consente al
debitore di concordare (e quindi di prevedere) i tempi e i
modi della prestazione dovuta allo stesso modo della
transazione, rimanendo pertanto escluso il carattere di
sopravvenienza passiva che legittima il riconoscimento del
debito fuori bilancio.
Questa Sezione ritiene di poter affermare -in linea con la
giurisprudenza della Corte formatasi in proposito- che
l’accordo concluso a seguito di negoziazione assistita, al
pari di ogni altro accordo transattivo, non essendo
riconducibile alle ipotesi tassative di cui all’art. 194 del
TUEL non può costituire il titolo per il riconoscimento di
un debito fuori bilancio, con la conseguenza che gli oneri
scaturenti dallo stesso, nella misura in cui siano
prevedibili e determinabili dal debitore, devono essere
contabilizzati secondo le ordinarie procedure di spesa. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni,
mobilità pigliatutto. Tutto il budget assunzionale per
assorbire gli esuberi. La tesi della Corte conti e la
lettura restrittiva di palazzo Vidoni creano ansia negli
enti.
I comuni avrebbero dovuto destinare l'intero budget
assunzionale 2015 e 2016 all'assorbimento dei lavoratori in
esubero delle province (e della Croce Rossa) e non solamente
un parte di esso.
Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti Puglia, ma è del
tutto intempestivo, visto che i giochi sono ormai quasi
ovunque chiusi. E la forzatura della Funzione pubblica, che
considera ancora congelate le risorse inserite nella
piattaforma anche nelle regioni in cui si è completata la
ricollocazione, rischia di creare inaccettabili disparità di
trattamento. Ma l'Anci tranquillizza: il problema dovrebbe
risolversi nel giro di qualche settimana.
Tutto nasce dalla legge Delrio, per molti versi rivelatasi
un fiasco, specie se non dovesse passare il referendum
costituzionale. Essa ha messo a dieta le province,
sottraendo loro funzioni e relativo personale. I lavoratori
in eccedenza non collocabili a riposo sono stati destinati a
comuni e regioni, che a tal fine si sono visti imporre un
blocco alle altre nuove assunzioni, fatta eccezione per i
soli vincitori di concorso. Più precisamente, a essere
vincolate sono state le capacità assunzionali 2015 e 2016,
derivanti dalle cessazioni 2014 e 2015.
Il dubbio era se tale capacità dovesse essere
automaticamente e integralmente destinata alla
ricollocazione del personale dichiarato soprannumerario,
oppure se dovesse esserlo nei limiti delle risorse che
ciascun ente, nella propria autonomia, avesse stabilito di
destinare alle assunzioni, come rilevabili dalla
programmazione triennale del fabbisogno di personale: in
questo secondo caso, se l'ente non aveva programmato
assunzioni, non sarebbe stato tenuto ad assorbire nel
proprio organico nessuna nuova unità.
La sezione regionale di controllo pugliese, nel recente
parere 28.07.2016 n. 142 ha sposato la prima tesi.
Peccato che, come detto, nel frattempo i buoi siano già
usciti tutti dalla stalla. La realtà è che molti comuni si
sono furbescamente rifatti alla seconda lettura e oggi si
trovano ad avere ancora dei margini per assumere.
Per le altre amministrazioni, invece, al danno si è aggiunta
la beffa. Secondo la Funzione pubblica, infatti, anche nelle
regioni in cui il blocco è stato o verrà rimosso a seguito
del completamento per percorso di ricollocazione, le
disponibilità già inserite nel portale continuano a essere
congelate.
Ciò pare, tuttavia, in aperto contrasto con la
normativa, specie dopo che il comma 234 della legge di
stabilità 2016 (legge 208/2015) ha espressamente previsto il
ripristino delle ordinarie capacità assunzionali «nel
momento in cui nel corrispondente ambito regionale è stato
ricollocato il personale interessato» dalla mobilità. La
lettura ministeriale pare, dunque, priva di fondamento e
foriera di disparità di trattamento, finendo per penalizzare
proprio chi è stato più ligio.
Ma dall'Anci arriva un messaggio rassicurante: quello della
Funzione pubblica è un atteggiamento di prudenza, visto che
è stato autorizzato lo sblocco anche in alcune regioni in
cui ancora ci sono poche unità di personale non ricollocate.
Per cui l'indicazione è di dare per buono lo sblocco del
turnover, che dovrebbe essere confermato nelle prossime
settimane
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità verso gli enti non è finanziariamente
neutra.
La mobilità dei dipendenti pubblici verso gli enti locali
non può più considerarsi neutra sul piano finanziario e va
computata ai fini del saldo di finanza pubblica.
Il dl 113/2016, convertito nella legge 160/2016 come noto
sblocca le mobilità dei dipendenti degli enti locali nelle
regioni nelle quali sia stato ricollocato il 90% per cento
del personale soprannumerario delle province.
Il quesito che si pongono molti comuni è se la mobilità
venga ripristinata secondo gli abituali criteri di natura
finanziaria e se, dunque, incida o meno sulle risorse
disponibili per le assunzioni, che all'ingrosso sono il 25%
del costo delle cessazioni dell'anno 2015 (ma è il 100% per
gli enti con un rapporto spesa di personale/spese correnti
migliore del 25), o il 75% per i comuni con popolazione
inferiore ai 10.000 abitanti, oltre ai resti assunzionali
del triennio 2012-2014, per la parte del 2014 non già
utilizzata per la ricollocazione del personale
soprannumerario.
Laddove la mobilità venisse considerata ancora «neutra» sul
piano finanziario, le mobilità non consumerebbero le risorse assunzionali. In caso contrario, si ribalterebbe in maniera
radicale il sistema.
Sul punto, la Corte dei conti, sezione regionale di
controllo della Lombardia con il
parere 27.04.2016 n.
127 si è pronunciata in senso contrario, ritenendo che
l'assunzione conseguente alla procedura di mobilità incida
sul budget assunzionale. È da specificare che la sezione
Lombardia si era pronunciata prima dello sblocco delle
mobilità operata dalla legge di conversione del decreto enti
locali, in piena vigenza, quindi, del congelamento disposto
dalla legge 190/2014.
Tuttavia, una serie di disposizioni normative degli ultimi
tempi, non coordinate tra loro ma tutte convergenti verso
un'unica indicazione, portano a ritenere che non vi sia più
spazio per la neutralità delle assunzioni.
In particolare, si tratta delle disposizioni che modificano
il patto di stabilità, abbandonato nel 2016 per passare
all'equilibrio di bilancio garantito dal saldo non negativo,
in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese
finali.
Nella logica del vecchio patto di stabilità a competenza
mista, che mischiava spese correnti a pagamenti in conto
capitale, aveva un senso considerare neutre, cioè non
incidenti sui flussi, le mobilità, considerando che esse non
incidono sulla spesa pubblica complessiva: esse, infatti,
comportano lo spostamento della spesa relativa al
trattamento economico del dipendente trasferito dall'ente di
provenienza a quello di destinazione.
Nel momento in cui, però, le spese finali concorrono a
garantire l'equilibrio con le entrate finali, poiché
all'acquisizione di personale in mobilità corrisponde
comunque un incremento della spesa corrente per l'ente
destinatario, risulta difficile considerare la mobilità non
influente sul piano finanziario, così da essere «neutra».
E
cadono anche le ragioni dell'equivoco che da anni, sul piano
della qualificazione delle mobilità come «neutre» sul piano
finanziario, hanno fatto considerare alla giurisprudenza
contabile ed anche amministrativa che dette mobilità non
siano assunzioni. Una teoria, questa, in ogni caso da
rigettare: la mobilità è solo un procedimento di
reclutamento diverso dal concorso pubblico finalizzato
all'assunzione dall'esterno dei ruoli della p.a., perché
implica il passaggio diretto di un dipendente da un ente
all'altro.
Ma, l'ente ricevente costituisce necessariamente
col dipendente passato un nuovo rapporto di lavoro, mediante
la stipulazione del contratto di lavoro individuale o il suo
semplice adattamento alla nuova realtà lavorativa (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
L’Adunanza plenaria pronuncia in tema di contratto di
avvalimento nelle gare pubbliche.
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Contratti della P.A. - Avvalimento - Contratto di
avvalimento - Contenuto - Artt. 49, d.lgs. n. 163 del 2006 e
88, d.P.R. n. 207 del 2010 - In relazione all'art. 47, par.
2, Direttiva 2004/19/CE - Individuazione.
L’art. 49, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e
l’art. 88, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, in relazione all’art.
47, par. 2 della Direttiva 2004/18/CE, devono essere
interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione
tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento
in ipotesi in cui una parte dell’oggetto del contratto di
avvalimento, pur non essendo puntualmente determinata fosse
tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo
del documento, e ciò anche in applicazione degli artt. 1346,
1363 e 1367 cod. civ..
In siffatte ipotesi, neppure sussistono i presupposti per
fare applicazione della teorica c.d. del ‘requisito della
forma/contenuto’, non venendo in rilievo l’esigenza (tipica
dell’enucleazione di tale figura) di assicurare una
particolare tutela al contraente debole attraverso
l’individuazione di una specifica forma di ‘nullità di
protezione’ (Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 04.11.2016 n. 23 - tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
conferenza di servizi, rappresentando un modulo
procedimentale di semplificazione, consente la valutazione
complessiva e sincronica degli interessi pubblici coinvolti
sia da parte dell’amministrazione procedente (portatrice del
cd. interesse pubblico primario), sia da parte delle altre
amministrazioni pubbliche coinvolte (portatrici dei cd.
interessi pubblici secondari).
La conferenza di servizi, dunque, non costituisce solo un
“momento” di semplificazione dell’azione amministrativa
(come indicato dalla rubrica del Capo IV della legge n.
241/1990, nel cui ambito sono previsti gli artt. da 14 a
14-quinquies ad essa dedicati), ma anche e soprattutto un
momento di migliore esercizio del potere discrezionale da
parte della pubblica amministrazione, attraverso una più
completa e approfondita valutazione degli interessi pubblici
(e privati) coinvolti, a tal fine giovandosi dell’esame
dialogico e sincronico degli stessi.
In altre parole, la valutazione tipica dell’esercizio del
potere discrezionale (e la scelta concreta ad essa
conseguente) si giova proprio dell’esame approfondito e
contestuale degli interessi pubblici, di modo che la stessa,
ove avvenga in difetto di tutti gli apporti normativamente
previsti, risulta illegittima perché viziata da eccesso di
potere per difetto di istruttoria, che si riverbera sulla
completezza ed esaustività della motivazione.
---------------
3. La sentenza oggetto del presente ricorso ha rilevato:
- per un verso (respingendosi un primo ordine di censure
dell’appellante ED.), che, ai fini della V.INC.A.
(valutazione di incidenza ambientale), obbligatoria nel caso
di specie, ai sensi dell’art. 5 DPR n. 357/1997 e dell’art.
4, co. 4, l.reg. Puglia n. 11/2001 “non risulta sia stato
acquisito né il parere della Soprintendenza né quello
dell’Ufficio parchi, ossia dell’ente gestore del S.I.C.”,
non potendosi peraltro “postulare l’invocato assorbimento
nel provvedimento di V.INC.A. di valutazioni che non sono
state espresse nel relativo subprocedimento” (pag. 11);
- per altro verso (in accoglimento di un secondo ordine di
censure dell’appellante ED.), che “è incontestato e
inconfutabile che i parerei sono stati acquisiti al di fuori
della conferenza di servizi”, della cui convocazione la
stessa richiesta di parere rivolta alla Soprintendenza
faceva espressa riserva, nel caso in cui non fossero
superati i rilievi in ordine ai tralicci di sostegno della
linea 380 kw. (pag. 11).
Da tale ultima osservazione, e dunque dal rilievo che “i
due pareri avrebbero dovuto essere acquisiti nella sede
procedimentale tipica di valutazione” (pag. 12), la
sentenza conclude riconoscendo la fondatezza della censura
dell’appellante, “relativa all’omessa riconvocazione
della conferenza di servizi, oggetto di espressa riserva
nella nota dirigenziale, con ciò dunque manifestando la
consapevolezza dell’esigenza di ricondurre eventuali
problematiche ostative al rilascio all’autorizzazione unica
al luogo procedimentale tipizzato e ineludibile” (pag.
12).
4. Da ciò consegue che “l’esame dei profili di criticità
espressi dai due pareri” va ricondotto “nell’alveo
della riconvocando conferenza di servizi”, di modo che
gli stessi possano essere “assoggettati a più puntuale e
dialogico esame” (pag. 13), e, in conclusione, che va
disposta “la rinnovazione del procedimento e la
riconvocazione della conferenza di servizi” (pag. 13).
In definitiva, l’accoglimento del ricorso instaurativo del
giudizio di I grado (per effetto della riforma della
sentenza impugnata conseguente all’accoglimento
dell’appello), e, dunque, l’annullamento del diniego di
autorizzazione unica è avvenuto per ragioni “procedimentali”,
e precisamente per il difetto di acquisizione dei pareri
sopramenzionati nella sede tipica e legittima della
conferenza di servizi.
E ciò in quanto la conferenza di servizi, rappresentando un
modulo procedimentale di semplificazione, consente la
valutazione complessiva e sincronica degli interessi
pubblici coinvolti sia da parte dell’amministrazione
procedente (portatrice del cd. interesse pubblico primario),
sia da parte delle altre amministrazioni pubbliche coinvolte
(portatrici dei cd. interessi pubblici secondari).
La conferenza di servizi, dunque, non costituisce solo un “momento”
di semplificazione dell’azione amministrativa (come indicato
dalla rubrica del Capo IV della legge n. 241/1990, nel cui
ambito sono previsti gli artt. da 14 a 14-quinquies ad essa
dedicati), ma anche e soprattutto un momento di migliore
esercizio del potere discrezionale da parte della pubblica
amministrazione, attraverso una più completa e approfondita
valutazione degli interessi pubblici (e privati) coinvolti,
a tal fine giovandosi dell’esame dialogico e sincronico
degli stessi.
In altre parole, la valutazione tipica dell’esercizio del
potere discrezionale (e la scelta concreta ad essa
conseguente) si giova proprio dell’esame approfondito e
contestuale degli interessi pubblici, di modo che la stessa,
ove avvenga in difetto di tutti gli apporti normativamente
previsti, risulta illegittima perché viziata da eccesso di
potere per difetto di istruttoria, che si riverbera sulla
completezza ed esaustività della motivazione.
Proprio in coerenza con queste valutazioni (come si evince
dai passi riportati), la sentenza ha riconosciuto
l’illegittimità dell’atto impugnato con il ricorso
instaurativo del giudizio di I grado.
Ma, al contempo, sono proprio queste le ragioni che –una
volta riconvocata la conferenza di servizi– rendono non solo
legittima, ma indispensabile, una valutazione nuova e
complessiva di quanto oggetto della conferenza medesima.
D’altra parte, se le amministrazioni il cui parere è stato
acquisito successivamente alla conferenza, fossero tenute
meramente a “replicare” detto parere in una
conferenza solo a tal fine convocata, escludendosi la
possibilità di un esame rinnovato delle problematiche
dedotte in conferenza, ne conseguirebbe la sostanziale
inutilità dello stesso rilievo del vizio procedimentale,
prospettandosi, all’esito, una mera replica di quanto già
(sia pure irritualmente) espresso.
Alla luce di quanto esposto, non può convenirsi con la
ricorrente, laddove essa censura che –a fronte del
giudicato- l’amministrazione regionale procedente “ha
nuovamente convocato la conferenza di servizi sollecitando
tutti gli enti convocati all’espressione dei pareri di
competenza sul progetto nella sua interezza, in tal modo
consentendo l’ingresso nel procedimento di apporti
istruttori già acquisiti o comunque l’illegittimo esame
degli stessi”.
Come si è detto, il giudicato formatosi attiene solo
all’obbligo di rinnovare il procedimento, a partire dalla
riconvocazione della conferenza di servizi, senza alcun
vincolo o limitazione all’esame degli atti ed alle
valutazioni da esprimersi in tale ambito (sulla esatta
individuazione del bene della vita assicurato da un
giudicato procedimentale e sui vincoli per la successiva
azione amministrativa, si vedano, in senso conforme, le
conclusioni cui è pervenuta Ad. plen. n. 11 del 2016)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.11.2016 n. 4601 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Linee guida ANAC “indicazione dei mezzi di prova
adeguati e delle carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto che possano considerarsi significative
per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. c) del codice”
(Consiglio di Stato, Commissione speciale,
parere 03.11.02016 n. 2286). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti recante “definizione dei requisiti che devono
possedere gli operatori economici per l’affidamento dei
servizi di architettura e ingegneria e individuazione dei
criteri per garantire la presenza di giovani professionisti,
in forma singola o associata, nei gruppi concorrenti ai
bandi relativi a incarichi di progettazione, concorsi di
progettazione e di idee, ai sensi dell’art. 24, commi 2 e 5,
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50” (Consiglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 03.11.02016 n. 2285). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Linee guida dell’ANAC relative alle procedure negoziate
senza pubblicazione di un bando di gara nel caso di
forniture e servizi ritenuti infungibili (Consiglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 03.11.02016 n. 2284). |
LAVORI PUBBLICI:
Schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti di approvazione delle linee guida recanti "Il
Direttore dei lavori: modalità di svolgimento delle funzioni
di direzione e controllo tecnico, contabile e amministrativo
dell'esecuzione del contratto" e "Il Direttore
dell'Esecuzione: modalità di svolgimento delle funzioni di
coordinamento, direzione e controllo tecnico-contabile
dell'esecuzione del contratto" (Consiglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 03.11.02016 n. 2282). |
EDILIZIA PRIVATA: La
circostanza che l’Amministrazione comunale non si sia mai
avveduta, nei plurimi atti emessi con riguardo all’immobile
di cui si discute e nei quarantatre anni decorsi dalla sua
costruzione, dell’abusività del medesimo non vale per sé
sola a rendere illegittimo il provvedimento sanzionatorio
qui gravato.
Invero, costituisce orientamento giurisprudenziale
consolidato quello per cui «anche nel caso di abuso
risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere
edilizie abusive costituisce atto dovuto, non potendo il
semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo
affidamento del contravventore, poiché il potere di
ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine
di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile».
In definitiva, il lungo lasso di tempo intercorso e
l’esistenza di atti dell’Amministrazione che implicitamente
presupponevano la legittimità dell’edificazione di per sé
non sono preclusivi dell’esercizio da parte del Comune del
potere sanzionatorio.
---------------
Quanto al terzo motivo di impugnazione, con cui si lamenta
il superamento del termine di conclusione del procedimento
sanzionatorio, in quanto avviato nel luglio 2015 e portato a
termine nel gennaio 2016, va osservato che, in assenza di
una norma che qualifichi espressamente come perentorio detto
termine, ad esso va attribuita funzione meramente
acceleratoria.
Tanto più che tale conclusione è coerente con l’affermata
imprescrittibilità del potere di repressione degli illeciti
edilizi, in quanto finalizzato alla tutela dell’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo del territorio.
Ne consegue che il suo superamento non determina la
consumazione del potere, e non comporta l’illegittimità del
provvedimento tardivamente adottato, ma solo consente
l’attivazione dei rimedi contro l’inerzia
dell’Amministrazione.
Nemmeno assurge a causa di illegittimità la prospettata
attivazione del procedimento sanzionatorio al solo scopo di
paralizzare la richiesta risarcitoria avanzata dal
ricorrente nei confronti del Comune in altro giudizio, come
dimostrerebbe la scelta di adottare l’ordine di demolizione
qui impugnato proprio a ridosso dell’udienza di discussione
di detta altra causa.
Invero, trattandosi di atto vincolato, il provvedimento
sanzionatorio non può essere viziato da eccesso di potere,
in particolare per sviamento.
---------------
L’Amministrazione comunale, prima di ordinare la demolizione
del fabbricato, avrebbe dovuto spiegare perché ha ritenuto
di non applicare la sanzione pecuniaria alternativa ex
articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n. 19/2009.
E tale obbligo di motivazione è, nel caso di specie,
particolarmente incisivo, tenuto conto che la sanzione
dell’abuso interviene a quarantatre anni di distanza dalla
sua commissione, e tenuto altresì conto che la violazione
contestata è stata qualificata come variazione essenziale
solamente a partire dalla entrata in vigore dell’articolo 8
L. n. 47/1985, ovverosia successivamente alla realizzazione
del fabbricato medesimo.
---------------
Invero, sottoposta al vaglio di legittimità di questo
Tribunale è l’ordinanza-ingiunzione n. 1/2016 del 20.01.2016
con la quale il Comune di Pinzano al Tagliamento ha ordinato
al signor Gi.De.Ba. la demolizione del fabbricato costruito
sul mappale n. 257 del Foglio 13, in quanto realizzato con
ubicazione e orientamento diversi da quelli a suo tempo
assentiti.
Sono infondati i primi tre motivi di impugnazione, salvo
quanto si dirà con riferimento al quarto motivo di
impugnazione.
Quanto al primo e al secondo motivo, la
circostanza che l’Amministrazione non si sia mai avveduta,
nei plurimi atti emessi con riguardo all’immobile di cui si
discute e nei quarantatre anni decorsi dalla sua
costruzione, dell’abusività del medesimo non vale per sé
sola a rendere illegittimo il provvedimento sanzionatorio
qui gravato.
Dalla documentazione versata in atti emerge che in data
14.04.1973 era stata autorizzata l’edificazione di un
fabbricato ad uso ricovero per bestiame sul mappale 87 del
foglio 13 con il lato lungo con orientamento lungo la
direttrice nord-sud, emerge altresì detto fabbricato è stato
realizzato sul mappale 85 (da cui origina l’attuale mappale
257) e con il lato lungo ruotato lungo la direttrice
est-ovest. Il manufatto risulta, dunque, non conforme al
titolo abilitativo.
Ora l’allegazione di parte ricorrente, che successivamente
sia stata approvata una variante al titolo edilizio che
abilitava le modifiche poi effettuate e di cui probabilmente
si è persa traccia in conseguenza degli eventi sismici del
1976, così da spiegare perché mai in precedenza si sia
contestato alcuna irregolarità, rimane allo stato una
congettura priva di riscontro.
Parimenti, la circostanza che in precedenza
l’Amministrazione comunale non abbia rilevato alcuna
irregolarità non vale a superare, men che mai per fatti
concludenti, la difformità del fabbricato a uso stalla dal
titolo edilizio.
D’altro canto, costituisce orientamento giurisprudenziale
consolidato, e al quale questo Collegio senz’altro aderisce,
quello per cui «anche nel caso di abuso risalente nel
tempo l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
costituisce atto dovuto, non potendo il semplice trascorrere
del tempo giustificare il legittimo affidamento del
contravventore, poiché il potere di ripristino dello status
quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è
tacitamente rinunciabile» (così, testualmente, C.d.S,
Sez. V, sentenza n. 3435/2016).
In definitiva, il lungo lasso di tempo intercorso e
l’esistenza di atti dell’Amministrazione che implicitamente
presupponevano la legittimità dell’edificazione di per sé
non sono preclusivi dell’esercizio da parte del Comune del
potere sanzionatorio.
Quanto al terzo motivo di impugnazione, con cui si
lamenta il superamento del termine di conclusione del
procedimento sanzionatorio, in quanto avviato nel luglio
2015 e portato a termine nel gennaio 2016, va osservato che,
in assenza di una norma che qualifichi espressamente come
perentorio detto termine, ad esso va attribuita funzione
meramente acceleratoria.
Tanto più che tale conclusione è coerente con l’affermata
imprescrittibilità del potere di repressione degli illeciti
edilizi, in quanto finalizzato alla tutela dell’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo del territorio (cfr., TAR
Campania–Napoli, Sez. IV, sentenza n. 1823/2016).
Ne consegue che il suo superamento non determina la
consumazione del potere, e non comporta l’illegittimità del
provvedimento tardivamente adottato, ma solo consente
l’attivazione dei rimedi contro l’inerzia
dell’Amministrazione (cfr., TAR Abruzzo–Pescara, sentenza n.
160/2016; TAR Molise, sentenza n. 449/2015).
Nemmeno assurge a causa di illegittimità la prospettata
attivazione del procedimento sanzionatorio al solo scopo di
paralizzare la richiesta risarcitoria avanzata dal
ricorrente nei confronti del Comune in altro giudizio
(segnatamente, quello iscritto al n. 459/2011 di R.G.), come
dimostrerebbe la scelta di adottare l’ordine di demolizione
qui impugnato proprio a ridosso dell’udienza di discussione
di detta altra causa.
Invero, trattandosi di atto vincolato, il provvedimento
sanzionatorio non può essere viziato da eccesso di potere,
in particolare per sviamento (cfr., TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza n. 398/2016; TAR Campania–Napoli, Sez. VIII,
sentenza n. 1397/2016).
E’ di contro fondato il
quarto motivo di impugnazione.
Stabilisce, infatti, l’articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n.
19/2009 che in caso di intervento edilizio realizzato in
assenza di permesso di costruire, in difformità da esso o
con variazioni essenziali l’Autorità può applicare la
sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria quando
ricorra anche una sola delle seguenti condizioni:
a) che l’intervento risalga a prima della L. n. 765/1967 ovvero sia
stato eseguito in conseguenza di calamità naturali per le
quali è stato dichiarato lo stato di emergenza;
b) che gli immobili siano conformi alla disciplina urbanistica
vigente o a quella vigente al momento dell’intervento
edilizio e poi non siano più stati modificati;
c) che gli immobili siano in possesso del certificato di
abitabilità o agibilità ovvero siano in regola, nello stato
di fatto in cui si trovano all’atto dell’accertamento, con
le leggi di settore applicabili, nonché con gli obblighi di
natura fiscale e tributaria.
Ora risulta per tabulas che la costruzione del
fabbricato a uso ricovero animali sia stato a suo tempo
assentito perché conforme alla disciplina urbanistica allora
vigente e non risulta che il mappale sul quale è stato
realizzato il fabbricato avesse una diversa qualificazione,
né risulta che nelle more sia stato sottoposto a modifiche.
Sicché paiono integrati i presupposti di cui alla
su richiamata lettera b) del comma 2 dell’articolo 45 della
L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Né, d’altro canto, la difesa del Comune, per contrastare la
domanda risarcitoria formulata dal ricorrente, ha sostenuto
che l’attuale disciplina urbanistica non consenta di
realizzare esattamente ove ora si trova un fabbricato
analogo a quello per cui è causa. Sicché anche per questa
via risulta soddisfatta la condizione posta dalla precitata
lettera b).
Il che di per sé è sufficiente per poter applicare nel caso
in esame la sanzione pecuniaria in luogo di quella
demolitoria, ponendosi come alternative le ipotesi enucleate
al comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Nondimeno, poiché la questione è oggetto di specifica
censura da parte del ricorrente, va osservato come nella
fattispecie concreta risulti integrata pure l’ipotesi sub
lettera c) del comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n.
19/2009.
Il ricorrente non nega di non aver mai richiesto il rilascio
del certificato di abitabilità per l’immobile de quo.
E, tuttavia, il Collegio concorda che quando esso venne
costruito non vi fosse un obbligo di verifica di salubrità
dei locali.
Vero è, infatti, che all’epoca operavano gli articoli 220 e
221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati
a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o
rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i
locali, quale quello di cui qui si discute, destinati al
ricovero di animali. Solo successivamente è stato
introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale,
l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la
destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince
chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il
più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”,
che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati
a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma
che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi
o per quelli che subiscono delle modifiche tali da
giustificare una verifica delle relative condizioni di
sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio
energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma
2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor
Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a
quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono
modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato.
Ne consegue, in primo luogo, che risulta inutilizzabile
l’argomento della mancata richiesta da parte
dell’interessato di rilascio del certificato di
abitabilità/agibilità, portato dal Comune a sostegno del
provvedimento sanzionatorio adottato; e, in secondo luogo,
che la circostanza non è di per sé ostativa all’applicazione
della sanzione pecuniaria alternativa.
In conclusione l’Amministrazione comunale, prima di ordinare
la demolizione del fabbricato, avrebbe dovuto spiegare
perché ha ritenuto di non applicare la sanzione pecuniaria
alternativa ex articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n. 19/2009.
E tale obbligo di motivazione è, nel caso di specie,
particolarmente incisivo, tenuto conto che la sanzione
dell’abuso interviene a quarantatre anni di distanza dalla
sua commissione, e tenuto altresì conto che la violazione
contestata è stata qualificata come variazione essenziale
solamente a partire dalla entrata in vigore dell’articolo 8
L. n. 47/1985, ovverosia successivamente alla realizzazione
del fabbricato medesimo (cfr., C.d.S., Sez. VI, sentenza n.
2512/2015).
L’ordinanza-ingiunzione di demolizione impugnata viene,
pertanto, annullata, per difetto di motivazione su tale
specifico punto.
Non spetta, tuttavia, a questo Giudice stabilire, così come
pretende il ricorrente, l’ammontare della sanzione
pecuniaria alternativa, ostandovi il divieto di cui
all’articolo 34, comma 2, Cod. proc. amm., di pronuncia su
poteri dell’Amministrazione non ancora esercitati.
Peraltro, l’accoglimento del quarto motivo di ricorso,
determina il non esame della domanda risarcitoria formulata
dal ricorrente con il quinto motivo, per il caso in cui, in
esecuzione del provvedimento gravato, egli fosse stato
costretto a demolire il fabbricato in discussione per poi
ricostruirlo identico
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 03.11.2016 n. 497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All'epoca di costruzione
del manufatto operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n.
1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a
certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o
rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i
locali, quale quello di cui qui si discute, destinati al
ricovero di animali.
Solo successivamente è stato introdotto, sia a livello
statale, sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti
gli edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del
certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince
chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il
più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di
“abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai
luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma
che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi
o per quelli che subiscono delle modifiche tali da
giustificare una verifica delle relative condizioni di
sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio
energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma
2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici preesistenti e non
destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la
propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono
tenuti ad ottenere detto certificato.
---------------
E’ di contro fondato il quarto motivo di
impugnazione.
Stabilisce, infatti, l’articolo 45, comma 2, L.R. F.V.G. n.
19/2009 che in caso di intervento edilizio realizzato in
assenza di permesso di costruire, in difformità da esso o
con variazioni essenziali l’Autorità può applicare la
sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria quando
ricorra anche una sola delle seguenti condizioni:
a) che l’intervento risalga a prima della L. n. 765/1967 ovvero sia
stato eseguito in conseguenza di calamità naturali per le
quali è stato dichiarato lo stato di emergenza;
b) che gli immobili siano conformi alla disciplina urbanistica
vigente o a quella vigente al momento dell’intervento
edilizio e poi non siano più stati modificati;
c) che gli immobili siano in possesso del certificato di
abitabilità o agibilità ovvero siano in regola, nello stato
di fatto in cui si trovano all’atto dell’accertamento, con
le leggi di settore applicabili, nonché con gli obblighi di
natura fiscale e tributaria.
Ora risulta per tabulas che la costruzione del
fabbricato a uso ricovero animali sia stato a suo tempo
assentito perché conforme alla disciplina urbanistica allora
vigente e non risulta che il mappale sul quale è stato
realizzato il fabbricato avesse una diversa qualificazione,
né risulta che nelle more sia stato sottoposto a modifiche.
Sicché paiono integrati i presupposti di cui alla
surrichiamata lettera b) del comma 2 dell’articolo 45 della
L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Né, d’altro canto, la difesa del Comune, per contrastare la
domanda risarcitoria formulata dal ricorrente, ha sostenuto
che l’attuale disciplina urbanistica non consenta di
realizzare esattamente ove ora si trova un fabbricato
analogo a quello per cui è causa. Sicché anche per questa
via risulta soddisfatta la condizione posta dalla precitata
lettera b).
Il che di per sé è sufficiente per poter applicare nel caso
in esame la sanzione pecuniaria in luogo di quella
demolitoria, ponendosi come alternative le ipotesi enucleate
al comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n. 19/2009.
Nondimeno, poiché la questione è oggetto di specifica
censura da parte del ricorrente, va osservato come nella
fattispecie concreta risulti integrata pure l’ipotesi sub
lettera c) del comma 2 dell’articolo 45 della L.R. F.V.G. n.
19/2009.
Il ricorrente non nega di non aver mai richiesto il rilascio
del certificato di abitabilità per l’immobile de quo.
E, tuttavia, il Collegio concorda che quando esso venne
costruito non vi fosse un obbligo di verifica di salubrità
dei locali.
Vero è, infatti, che all’epoca operavano gli articoli 220 e
221 R.D. n. 1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati
a certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o
rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i
locali, quale quello di cui qui si discute, destinati al
ricovero di animali. Solo successivamente è stato
introdotto, sia a livello statale, sia a livello regionale,
l’obbligo di dotare tutti gli edifici, qualunque ne sia la
destinazione d’uso, del certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince
chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il
più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”,
che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati
a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma
che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi
o per quelli che subiscono delle modifiche tali da
giustificare una verifica delle relative condizioni di
sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio
energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma
2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor
Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a
quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono
modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 03.11.2016 n. 497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Costituisce
approdo oramai consolidato della giurisprudenza la
sussunzione della responsabilità della pubblica
Amministrazione per atto amministrativo illegittimo nel
paradigma della responsabilità extracontrattuale ex articolo
2043 Cod. civ., con il conseguente assoggettamento della
tutela risarcitoria al corrispondente regime civilistico.
---------------
Quanto al termine di proposizione dell’azione, nel caso di
specie, essendo l’atto generatore del danno (i.e. l’atto
amministrativo illegittimo) e l’introduzione del relativo
giudizio caducatorio anteriori all’entrata in vigore del
nuovo Codice di rito, l’azione di risarcimento del danno,
ancorché proposta ai sensi del D.Lgs. n. 104/2010, non è
assoggettata al termine decadenziale di 120 giorni ma a
quello di prescrizione di 5 anni.
Con il superamento della teoria della pregiudiziale
amministrativa, non risultando più necessario l’annullamento
dell’atto presupposto per ottenere il risarcimento del
danno, il dies a quo del termine prescrizionale coincide con
la data di adozione del provvedimento amministrativo o –ove
diversa– dalla data nella quale questo ha prodotto effetti
nella sfera giuridica del destinatario.
Detto termine, ai sensi degli articoli 2943 e 2945 Cod.
civ., è, tuttavia, interrotto con la proposizione
dell’azione di annullamento avanti al Giudice
amministrativo, in quanto manifestazione della volontà del
destinatario di reagire alla lesione subita, e rimane
sospeso per tutta la durata del giudizio, tornando a
decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza.
---------------
L’accoglimento della domanda risarcitoria passa
necessariamente per la prova da parte di colui che si assume
danneggiato dall’azione della pubblica Amministrazione della
ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito
aquiliano, e segnatamente del danno ingiusto, dell’elemento
soggettivo in capo all’assunto danneggiante e del
nesso di causalità tra la condotta del danneggiante e il
nocumento patito dal danneggiato.
Con riguardo
all’elemento soggettivo, va precisato che esso –al di
fuori delle cause che hanno a oggetto procedure per
l’affidamento di pubblici appalti– non è assorbito nella
illegittimità dell’atto medesimo, ma consiste nella colpa o
nel dolo dell’Amministrazione procedente.
In particolare, l’elemento soggettivo dell’illecito
aquiliano risulta integrato quando l’adozione e l’esecuzione
dell’atto amministrativo sia avvenuta in violazione delle
regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle
quali l’esercizio della funzione deve costantemente
ispirarsi. Cosicché la responsabilità della Amministrazione
può essere affermata solamente quando la violazione risulti
grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in
un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da
palesare la negligenza e l’imperizia nell’assunzione del
provvedimento viziato.
Al contrario, la suddetta responsabilità va esclusa laddove
sia ravvisabile un errore scusabile per via di un contrasto
giurisprudenziale, della complessità della vicenda fattuale,
per l’incertezza o la novità della normativa da applicarsi.
Procedendo nella disamina degli elementi
costitutivi dell’illecito aquiliano, va ricordato che il
nesso di causalità tra condotta e evento è regolato
dagli articoli 40 e 41 Cod. pen., in forza dei quali esso
sussiste se, ferme restando le altre condizioni, l’evento
non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita
(cd. teoria della condicio sine qua non), e sempre che, con
una valutazione ex ante, l’evento non appaia una conseguenza
del tutto inverosimile della condotta medesima (cd. teoria
della causalità adeguata).
Una volta accertata la sussistenza del nesso di causalità,
non tutti i danni prodotti dalla condotta illecita sono
risarcibili, ma solamente le perdite subite e i guadagni non
realizzati che, ai sensi del combinato disposto degli
articoli 2056 e 1223 Cod. civ., costituiscono conseguenza
diretta e immediata dell’illecito, ovverosia quelli che non
appaiono del tutto inverosimili, così come richiesto dalla
cosiddetta teoria della causalità adeguata o della
regolarità causale.
--------------
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor
Gi.De.Ba. agisce per l’ottemperanza della sentenza di questo
Tribunale n. 698/2010, divenuta definitiva, e per il
risarcimento del danno patito.
Con la precitata pronuncia è stata annullata la nota del
Sindaco del Comune di Pinzano al Tagliamento contenente il
parere contrario alla modifica della destinazione d’uso -da
rurale ad attività ricettivo-agrituristica– del fabbricato
di proprietà dell’odierno ricorrente, per contrarietà alle
misure di salvaguardia del Piano stralcio per la sicurezza
idraulica del medio e basso corso del Fiume Tagliamento
adottato dall’Autorità di Bacino.
L’annullamento giudiziale è intervenuto per un duplice
ordine di ragioni, e precisamente:
- perché la delibera di adozione del su richiamato Piano
stralcio era stata nelle more annullata dal Tribunale
Superiore delle Acque;
- perché le misure di salvaguardia del Piano non vietavano
ogni intervento edilizio, in particolare non vietavano gli
interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
restauro o di risanamento conservativo, di ristrutturazione
edilizia (esclusa la demolizione costruzione) senza aumento
di superficie coperta e di volume dei fabbricati esistenti.
Il Comune resistente si oppone alle domande avversarie
evidenziando l’abusività del fabbricato di controparte, per
il quale, infatti, è stata adottata ordinanza-ingiunzione di
demolizione.
Su tale specifico punto, il Collegio deve dare atto che
questo Giudice con decisione assunta nella medesima camera
di Consiglio e in corso di pubblicazione, in accoglimento di
due distinti ricorsi promossi dal signor Ba., ha annullato
il summenzionato provvedimento sanzionatorio.
Con questa precisazione il ricorso è fondato nei termini che
si vanno a indicare.
Quanto alla domanda di ottemperanza, verificato che
risultano sussistere tutti presupposti di cui agli articoli
112 e ss. Cod. proc. amm., si ordina al Comune di Pinzano al
Tagliamento di dare esecuzione alla sentenza di questo
Tribunale n. 698/2010, provvedendo sulla domanda il cambio
di destinazione d’uso da rurale ad attività
ricettivo-agrituristica del fabbricato di proprietà del
ricorrente, nel termine di giorni 30 (trenta) decorrente
dalla comunicazione in via amministrativa della presente
decisione, ovvero dalla sua notificazione a cura di parte se
anteriore.
Per il caso di perdurante inerzia dell’Amministrazione
comunale oltre il prefissato termine, si nomina sin da ora,
ai sensi dell’articolo 114, comma 4, lettera d), Cod. proc.
amm., il commissario ad acta, designandolo nella
persona del dirigente del settore pianificazione del
territorio del Comune di Pordenone, o di altro dipendente
del medesimo Comune di Pordenone con qualifica non inferiore
a quella di funzionario, da lui delegato, affinché compia
–previa sollecitazione di parte- nel termine di giorni 30
(trenta), decorrente dalla suddetta sollecitazione, tutti
gli atti necessari in luogo del Comune di Pinzano al
Tagliamento, con riserva di liquidazione del compenso –a
carico del bilancio dell’Amministrazione inottemperante- in
esito alla presentazione, da parte del medesimo commissario,
di un’istanza che documenti l’attività espletata.
Quanto alla domanda risarcitoria, va preliminarmente
delibata l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla difesa
di parte resistente con riguardo ai danni verificatisi
anteriormente al 27.09.2006, ovverosia anteriormente al
quinquennio ex articolo 2947, comma 1, Cod. civ., decorrente
dal perfezionamento per il Comune resistente del ricorso
introduttivo del presente giudizio.
Ora, costituisce approdo oramai consolidato della
giurisprudenza, anche di questo Tribunale amministrativo
(cfr. sentenza n. 526/2015) la sussunzione della
responsabilità della pubblica Amministrazione per atto
amministrativo illegittimo nel paradigma della
responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 Cod. civ.,
con il conseguente assoggettamento della tutela risarcitoria
al corrispondente regime civilistico.
Quanto al termine di proposizione dell’azione, nel caso di
specie, essendo l’atto generatore del danno (i.e.
l’atto amministrativo illegittimo) e l’introduzione del
relativo giudizio caducatorio anteriori all’entrata in
vigore del nuovo Codice di rito, l’azione di risarcimento
del danno, ancorché proposta ai sensi del D.Lgs. n.
104/2010, non è assoggettata al termine decadenziale di 120
giorni, ma a quello di prescrizione di 5 anni (cfr., C.d.S.,
Ad. pl., sentenza n. 6/2015).
Con il superamento della teoria della pregiudiziale
amministrativa, non risultando più necessario l’annullamento
dell’atto presupposto per ottenere il risarcimento del
danno, il dies a quo del termine prescrizionale
coincide con la data di adozione del provvedimento
amministrativo o –ove diversa– dalla data nella quale questo
ha prodotto effetti nella sfera giuridica del destinatario
(cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 66/2016).
Detto termine, ai sensi degli articoli 2943 e 2945 Cod.
civ., è, tuttavia, interrotto con la proposizione
dell’azione di annullamento avanti al Giudice
amministrativo, in quanto manifestazione della volontà del
destinatario di reagire alla lesione subita, e rimane
sospeso per tutta la durata del giudizio, tornando a
decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza (cfr.,
TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 679/2014; C.d.S.,
Sez. IV, sentenza n. 2856/2014).
Orbene, risulta per tabulas che il diniego di cambio
di destinazione d’uso reca la data del 21.09.1998; che
l’atto lesivo è stato tempestivamente impugnato nel termine
decadenziale di 60 giorni; che in data 14.10.2010 è stata
depositata la sentenza di annullamento; che il ricorso
introduttivo del presente giudizio risarcitorio è stato
portato dal ricorrente alla notifica in data 26.09.2011.
Pertanto, non si è maturata alcuna prescrizione del
risarcimento dei nocumenti arrecati al signor Ba. dal
suddetto diniego.
Nondimeno, l’accoglimento della domanda risarcitoria passa
necessariamente per la prova da parte di colui che si assume
danneggiato dall’azione della pubblica Amministrazione della
ricorrenza nel caso di specie di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito aquiliano, e segnatamente del
danno ingiusto, dell’elemento soggettivo in capo
all’assunto danneggiante e del nesso di causalità tra
la condotta del danneggiante e il nocumento patito dal
danneggiato (cfr., TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n.
411/2014; C.d.S., Sez. III, sentenza n. 3707/2015).
L’illegittimità dell’atto amministrativo non è più in
discussione in quanto definitivamente accertata con la
sentenza di cui qui si chiede l’ottemperanza.
Con riguardo all’elemento soggettivo, va precisato
che esso –al di fuori delle cause che hanno a oggetto
procedure per l’affidamento di pubblici appalti– non è
assorbito nella illegittimità dell’atto medesimo, ma
consiste nella colpa o nel dolo dell’Amministrazione
procedente (cfr., C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 1099/2015).
In particolare, l’elemento soggettivo dell’illecito
aquiliano risulta integrato quando l’adozione e l’esecuzione
dell’atto amministrativo sia avvenuta in violazione delle
regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle
quali l’esercizio della funzione deve costantemente
ispirarsi. Cosicché la responsabilità della Amministrazione
può essere affermata solamente quando la violazione risulti
grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in
un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da
palesare la negligenza e l’imperizia nell’assunzione del
provvedimento viziato. Al contrario, la suddetta
responsabilità va esclusa laddove sia ravvisabile un errore
scusabile per via di un contrasto giurisprudenziale, della
complessità della vicenda fattuale, per l’incertezza o la
novità della normativa da applicarsi (cfr., C.d.S., Sez. III,
sentenza n. 1272/2015).
Ebbene, nessuna delle suvviste esimenti ricorre nel caso di
specie.
Vero è, infatti, che, come risulta documentalmente,
l’Amministrazione comunale si fosse inizialmente pronunciata
favorevolmente rispetto al progettato cambio di destinazione
d’uso per cui è causa, e che il successivo mutamento di
posizione non fosse affatto giustificato dalle sopravvenute
misure di salvaguardia del Piano stralcio di tutela
idraulica, il quale non vietava qualsivoglia intervento
edilizio, ma solamente quelli di nuova edificazione e quelli
sui fabbricati esistenti che comportavano l’aumento della
superficie coperta e del volume.
La ricostruzione fattuale emergente dalla stessa sentenza
che qui si chiede di ottemperare, evidenzia come sarebbe
stata sufficiente un’ordinaria attività istruttoria per
concludere il procedimento con un provvedimento coerente con
la disciplina posta, sia pure provvisoriamente, dal Piano
urbanistico sovraordinato. Non richiedeva, infatti, una
complessa attività di accertamento la verifica se il cambio
di destinazione d’uso progettato dal signor Ba. comportasse
o meno l’aumento della superficie coperta e del volume, così
come non richiedeva una difficile attività di ricostruzione
ermeneutica l’apprezzamento che il Piano stralcio dettava
una disciplina differenziata per gli interventi edilizi sui
fabbricati esistenti a seconda, per l’appunto, che
comportassero o meno l’aumento della superficie coperta e
del volume.
E la leggerezza del Comune è ancora più grave se si
considera che nel frattempo l’interessato aveva ottenuto un
finanziamento pubblico per realizzare l’intervento, che il
diniego di cambio di destinazione d’uso ostava alla
conservazione di detto beneficio, e che di tanto
l’Amministrazione era informata. Anzi, risulta
documentalmente che lo stesso Ente regionale deputato
all’erogazione del contributo, proprio al fine di evitare la
decadenza dal beneficio, sollecitava l’Ente comunale a
verificare se l’intervento progettato dal signor Ba. non
rientrassi tra quelli esclusi dal vincolo del Piano di
sicurezza idraulica, senza che –a quanto consta– il Comune
di Pinzano al Tagliamento si sia peritato di verificare la
circostanza.
Né certo esime il Comune da responsabilità la circostanza,
particolarmente valorizzata dalla difesa di parte
resistente, che il fabbricato per cui è causa fosse privo
del certificato di abitabilità/agibilità in quanto mai
richiesto.
Deve, infatti, considerarsi che detto fabbricato risale al
1973.
Ora, all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n.
1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a
certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o
rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i
locali destinati al ricovero di animali. Solo
successivamente è stato introdotto, sia a livello statale,
sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli
edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del
certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince
chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il
più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”,
che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati
a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma
che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi
o per quelli che subiscono delle modifiche tali da
giustificare una verifica delle relative condizioni di
sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio
energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma
2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor
Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a
quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono
modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato.
Viceversa, era ed è obbligo del ricorrente, una volta mutata
la destinazione d’uso del proprio fabbricato in
ricettivo-agrituristica, chiedere e ottenere il certificato
di agibilità.
Procedendo, pertanto, nella disamina degli elementi
costitutivi dell’illecito aquiliano, va ricordato che il
nesso di causalità tra condotta e evento è regolato
dagli articoli 40 e 41 Cod. pen., in forza dei quali esso
sussiste se, ferme restando le altre condizioni, l’evento
non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita
(cd. teoria della condicio sine qua non), e sempre
che, con una valutazione ex ante, l’evento non appaia
una conseguenza del tutto inverosimile della condotta
medesima (cd. teoria della causalità adeguata).
Una volta accertata la sussistenza del nesso di causalità,
non tutti i danni prodotti dalla condotta illecita sono
risarcibili, ma solamente le perdite subite e i guadagni non
realizzati che, ai sensi del combinato disposto degli
articoli 2056 e 1223 Cod. civ., costituiscono conseguenza
diretta e immediata dell’illecito, ovverosia quelli che non
appaiono del tutto inverosimili, così come richiesto dalla
cosiddetta teoria della causalità adeguata o della
regolarità causale (cfr., ex plurimis, Cass. civ.,
Sez. III, sentenza n. 21086/2015)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 03.11.2016 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fabbricato per cui è causa è privo del
certificato di abitabilità/agibilità in quanto mai
richiesto. Invero, deve considerarsi che detto fabbricato
risale al 1973.
Ora, all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n.
1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a
certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o
rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i
locali destinati al ricovero di animali. Solo
successivamente è stato introdotto, sia a livello statale,
sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli
edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del
certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince
chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il
più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di
“abitabilità”, che per definizione si adatta solamente ai
luoghi destinati a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma
che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi
o per quelli che subiscono delle modifiche tali da
giustificare una verifica delle relative condizioni di
sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio
energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma
2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, preesistenti e non
destinati all’uso abitativo, fino a quando non mutano la
propria destinazione ovvero non sono modificati, non sono
tenuti ad ottenere detto certificato. Viceversa, era ed è
obbligo del ricorrente, una volta mutata la destinazione
d’uso del proprio fabbricato in ricettivo-agrituristica,
chiedere e ottenere il certificato di agibilità.
---------------
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor
Gi.De.Ba. agisce per l’ottemperanza della sentenza di questo
Tribunale n. 698/2010, divenuta definitiva, e per il
risarcimento del danno patito.
Con la precitata pronuncia è stata annullata la nota del
Sindaco del Comune di Pinzano al Tagliamento contenente il
parere contrario alla modifica della destinazione d’uso -da
rurale ad attività ricettivo-agrituristica– del fabbricato
di proprietà dell’odierno ricorrente, per contrarietà alle
misure di salvaguardia del Piano stralcio per la sicurezza
idraulica del medio e basso corso del Fiume Tagliamento
adottato dall’Autorità di Bacino.
L’annullamento giudiziale è intervenuto per un duplice
ordine di ragioni, e precisamente:
- perché la delibera di adozione del su richiamato Piano
stralcio era stata nelle more annullata dal Tribunale
Superiore delle Acque;
- perché le misure di salvaguardia del Piano non vietavano
ogni intervento edilizio, in particolare non vietavano gli
interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
restauro o di risanamento conservativo, di ristrutturazione
edilizia (esclusa la demolizione costruzione) senza aumento
di superficie coperta e di volume dei fabbricati esistenti.
Il Comune resistente si oppone alle domande avversarie
evidenziando l’abusività del fabbricato di controparte, per
il quale, infatti, è stata adottata ordinanza-ingiunzione di
demolizione.
Su tale specifico punto, il Collegio deve dare atto che
questo Giudice con decisione assunta nella medesima camera
di Consiglio e in corso di pubblicazione, in accoglimento di
due distinti ricorsi promossi dal signor Ba., ha annullato
il summenzionato provvedimento sanzionatorio.
Con questa precisazione il ricorso è fondato nei termini che
si vanno a indicare.
Quanto alla domanda di ottemperanza, verificato che
risultano sussistere tutti presupposti di cui agli articoli
112 e ss. Cod. proc. amm., si ordina al Comune di Pinzano al
Tagliamento di dare esecuzione alla sentenza di questo
Tribunale n. 698/2010, provvedendo sulla domanda il cambio
di destinazione d’uso da rurale ad attività
ricettivo-agrituristica del fabbricato di proprietà del
ricorrente, nel termine di giorni 30 (trenta) decorrente
dalla comunicazione in via amministrativa della presente
decisione, ovvero dalla sua notificazione a cura di parte se
anteriore.
Per il caso di perdurante inerzia dell’Amministrazione
comunale oltre il prefissato termine, si nomina sin da ora,
ai sensi dell’articolo 114, comma 4, lettera d), Cod. proc.
amm., il commissario ad acta, designandolo nella
persona del dirigente del settore pianificazione del
territorio del Comune di Pordenone, o di altro dipendente
del medesimo Comune di Pordenone con qualifica non inferiore
a quella di funzionario, da lui delegato, affinché compia
–previa sollecitazione di parte- nel termine di giorni 30
(trenta), decorrente dalla suddetta sollecitazione, tutti
gli atti necessari in luogo del Comune di Pinzano al
Tagliamento, con riserva di liquidazione del compenso –a
carico del bilancio dell’Amministrazione inottemperante- in
esito alla presentazione, da parte del medesimo commissario,
di un’istanza che documenti l’attività espletata.
Quanto alla domanda risarcitoria, va preliminarmente
delibata l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla difesa
di parte resistente con riguardo ai danni verificatisi
anteriormente al 27.09.2006, ovverosia anteriormente al
quinquennio ex articolo 2947, comma 1, Cod. civ., decorrente
dal perfezionamento per il Comune resistente del ricorso
introduttivo del presente giudizio.
Ora, costituisce approdo oramai consolidato della
giurisprudenza, anche di questo Tribunale amministrativo
(cfr. sentenza n. 526/2015) la sussunzione della
responsabilità della pubblica Amministrazione per atto
amministrativo illegittimo nel paradigma della
responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 Cod. civ.,
con il conseguente assoggettamento della tutela risarcitoria
al corrispondente regime civilistico.
Quanto al termine di proposizione dell’azione, nel caso di
specie, essendo l’atto generatore del danno (i.e.
l’atto amministrativo illegittimo) e l’introduzione del
relativo giudizio caducatorio anteriori all’entrata in
vigore del nuovo Codice di rito, l’azione di risarcimento
del danno, ancorché proposta ai sensi del D.Lgs. n.
104/2010, non è assoggettata al termine decadenziale di 120
giorni, ma a quello di prescrizione di 5 anni (cfr., C.d.S.,
Ad. pl., sentenza n. 6/2015).
Con il superamento della teoria della pregiudiziale
amministrativa, non risultando più necessario l’annullamento
dell’atto presupposto per ottenere il risarcimento del
danno, il dies a quo del termine prescrizionale
coincide con la data di adozione del provvedimento
amministrativo o –ove diversa– dalla data nella quale questo
ha prodotto effetti nella sfera giuridica del destinatario
(cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 66/2016).
Detto termine, ai sensi degli articoli 2943 e 2945 Cod.
civ., è, tuttavia, interrotto con la proposizione
dell’azione di annullamento avanti al Giudice
amministrativo, in quanto manifestazione della volontà del
destinatario di reagire alla lesione subita, e rimane
sospeso per tutta la durata del giudizio, tornando a
decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza (cfr.,
TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 679/2014; C.d.S.,
Sez. IV, sentenza n. 2856/2014).
Orbene, risulta per tabulas che il diniego di cambio
di destinazione d’uso reca la data del 21.09.1998; che
l’atto lesivo è stato tempestivamente impugnato nel termine
decadenziale di 60 giorni; che in data 14.10.2010 è stata
depositata la sentenza di annullamento; che il ricorso
introduttivo del presente giudizio risarcitorio è stato
portato dal ricorrente alla notifica in data 26.09.2011.
Pertanto, non si è maturata alcuna prescrizione del
risarcimento dei nocumenti arrecati al signor Ba. dal
suddetto diniego.
Nondimeno, l’accoglimento della domanda risarcitoria passa
necessariamente per la prova da parte di colui che si assume
danneggiato dall’azione della pubblica Amministrazione della
ricorrenza nel caso di specie di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito aquiliano, e segnatamente del
danno ingiusto, dell’elemento soggettivo in capo all’assunto
danneggiante e del nesso di causalità tra la condotta del
danneggiante e il nocumento patito dal danneggiato (cfr.,
TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 411/2014; C.d.S., Sez. III,
sentenza n. 3707/2015).
L’illegittimità dell’atto amministrativo non è più in
discussione in quanto definitivamente accertata con la
sentenza di cui qui si chiede l’ottemperanza.
Con riguardo all’elemento soggettivo, va precisato che esso
–al di fuori delle cause che hanno a oggetto procedure per
l’affidamento di pubblici appalti– non è assorbito nella
illegittimità dell’atto medesimo, ma consiste nella colpa o
nel dolo dell’Amministrazione procedente (cfr., C.d.S., Sez.
VI, sentenza n. 1099/2015).
In particolare, l’elemento soggettivo dell’illecito
aquiliano risulta integrato quando l’adozione e l’esecuzione
dell’atto amministrativo sia avvenuta in violazione delle
regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle
quali l’esercizio della funzione deve costantemente
ispirarsi. Cosicché la responsabilità della Amministrazione
può essere affermata solamente quando la violazione risulti
grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in
un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da
palesare la negligenza e l’imperizia nell’assunzione del
provvedimento viziato. Al contrario, la suddetta
responsabilità va esclusa laddove sia ravvisabile un errore
scusabile per via di un contrasto giurisprudenziale, della
complessità della vicenda fattuale, per l’incertezza o la
novità della normativa da applicarsi (cfr., C.d.S., Sez. III,
sentenza n. 1272/2015).
Ebbene, nessuna delle suvviste esimenti ricorre nel caso di
specie.
Vero è, infatti, che, come risulta documentalmente,
l’Amministrazione comunale si fosse inizialmente pronunciata
favorevolmente rispetto al progettato cambio di destinazione
d’uso per cui è causa, e che il successivo mutamento di
posizione non fosse affatto giustificato dalle sopravvenute
misure di salvaguardia del Piano stralcio di tutela
idraulica, il quale non vietava qualsivoglia intervento
edilizio, ma solamente quelli di nuova edificazione e quelli
sui fabbricati esistenti che comportavano l’aumento della
superficie coperta e del volume.
La ricostruzione fattuale emergente dalla stessa sentenza
che qui si chiede di ottemperare, evidenzia come sarebbe
stata sufficiente un’ordinaria attività istruttoria per
concludere il procedimento con un provvedimento coerente con
la disciplina posta, sia pure provvisoriamente, dal Piano
urbanistico sovraordinato. Non richiedeva, infatti, una
complessa attività di accertamento la verifica se il cambio
di destinazione d’uso progettato dal signor Ba. comportasse
o meno l’aumento della superficie coperta e del volume, così
come non richiedeva una difficile attività di ricostruzione
ermeneutica l’apprezzamento che il Piano stralcio dettava
una disciplina differenziata per gli interventi edilizi sui
fabbricati esistenti a seconda, per l’appunto, che
comportassero o meno l’aumento della superficie coperta e
del volume.
E la leggerezza del Comune è ancora più grave se si
considera che nel frattempo l’interessato aveva ottenuto un
finanziamento pubblico per realizzare l’intervento, che il
diniego di cambio di destinazione d’uso ostava alla
conservazione di detto beneficio, e che di tanto
l’Amministrazione era informata. Anzi, risulta
documentalmente che lo stesso Ente regionale deputato
all’erogazione del contributo, proprio al fine di evitare la
decadenza dal beneficio, sollecitava l’Ente comunale a
verificare se l’intervento progettato dal signor Ba. non
rientrassi tra quelli esclusi dal vincolo del Piano di
sicurezza idraulica, senza che –a quanto consta– il Comune
di Pinzano al Tagliamento si sia peritato di verificare la
circostanza.
Né certo esime il Comune da responsabilità la circostanza,
particolarmente valorizzata dalla difesa di parte
resistente, che il fabbricato per cui è causa fosse privo
del certificato di abitabilità/agibilità in quanto mai
richiesto.
Deve, infatti, considerarsi che detto fabbricato risale al
1973.
Ora, all’epoca operavano gli articoli 220 e 221 R.D. n.
1265/1934, a mente dei quali erano assoggettati a
certificato di abitabilità solamente i fabbricati urbani o
rurali destinati a essere abitati, mentre non lo erano i
locali destinati al ricovero di animali. Solo
successivamente è stato introdotto, sia a livello statale,
sia a livello regionale, l’obbligo di dotare tutti gli
edifici, qualunque ne sia la destinazione d’uso, del
certificato di agibilità.
Si tratta indubbiamente di un obbligo nuovo, come si evince
chiaramente dalla scelta del legislatore di utilizzare il
più ampio termine “agibilità” in luogo di quello di “abitabilità”,
che per definizione si adatta solamente ai luoghi destinati
a ospitare gli uomini.
E si tratta di un obbligo che non opera retroattivamente, ma
che, al contrario vale esclusivamente per gli edifici nuovi
o per quelli che subiscono delle modifiche tali da
giustificare una verifica delle relative condizioni di
sicurezza, di igiene, di salubrità e di risparmio
energetico, come del resto precisato dall’articolo 24, comma
2, D.P.R. n. 380/2001.
Sicché, in conclusione, gli edifici, quali quelli del signor
Ba., preesistenti e non destinati all’uso abitativo, fino a
quando non mutano la propria destinazione ovvero non sono
modificati, non sono tenuti ad ottenere detto certificato.
Viceversa, era ed è obbligo del ricorrente, una volta mutata
la destinazione d’uso del proprio fabbricato in
ricettivo-agrituristica, chiedere e ottenere il certificato
di agibilità.
Procedendo, pertanto, nella disamina degli elementi
costitutivi dell’illecito aquiliano, va ricordato che il
nesso di causalità tra condotta e evento è regolato dagli
articoli 40 e 41 Cod. pen., in forza dei quali esso sussiste
se, ferme restando le altre condizioni, l’evento non si
sarebbe verificato in assenza della condotta illecita (cd.
teoria della condicio sine qua non), e sempre che,
con una valutazione ex ante, l’evento non appaia una
conseguenza del tutto inverosimile della condotta medesima
(cd. teoria della causalità adeguata).
Una volta accertata la sussistenza del nesso di causalità,
non tutti i danni prodotti dalla condotta illecita sono
risarcibili, ma solamente le perdite subite e i guadagni non
realizzati che, ai sensi del combinato disposto degli
articoli 2056 e 1223 Cod. civ., costituiscono conseguenza
diretta e immediata dell’illecito, ovverosia quelli che non
appaiono del tutto inverosimili, così come richiesto dalla
cosiddetta teoria della causalità adeguata o della
regolarità causale (cfr., ex plurimis, Cass. civ.,
Sez. III, sentenza n. 21086/2015) (TAR Friuli Venezia
Giulia,
sentenza 03.11.2016 n. 496 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, sin da tempi risalenti, è stato
affermato il principio per cui “l’obbligatorietà del parere
della commissione edilizia è limitata alle sole questioni
che interessano l’attuazione, sotto il profilo tecnico, di
uno specifico progetto costruttivo in relazione alla vigenza
di prescrizioni generali e speciali nella materia
edilizio-urbanistica”; da tale principio si è fatto
discendere il corollario secondo il quale “è legittimo il
diniego di concessione edilizia in assenza del parere della
commissione edilizia comunale, qualora tale diniego si basi
esclusivamente su ragioni giuridiche”.
L’attualità di tale insegnamento è presidiata da solide
ragioni logiche: laddove infatti non vi siano problematiche
di fattibilità dell’intervento progettato, ma l’unico dubbio
da risolvere si incentri su problematiche di natura
giuridica non avrebbe senso appesantire il procedimento
richiedendo l’apporto di un organo squisitamente tecnico,
quale è la Commissione Edilizia, né tampoco l’assenza di
tale apporto tecnico potrebbe viziare alcunché.
---------------
3. Accertato quindi che l’unica questione da scrutinare
riposa nella fondatezza delle censure contenute nell’appello
principale, osserva il Collegio che questo è all’evidenza
fondato, sia in punto di fatto, che in punto di diritto, in
quanto:
a) sotto il profilo fattuale, il parere era stato espresso
dalla Commissione Edilizia in data 19.04.2000, in
termini favorevoli “a condizione che vengano forniti i
chiarimenti richiesti nel parere del Settore Edilizia
Privata con riferimento alla titolarità e diritti ed alle
condizioni poste nel parere regionale”; la carenza del
parere della Commissione Edilizia, avuto riguardo al
segmento procedimentale culminato nel diniego espresso
recante prot. n. 398 del 05.04.2002 medio tempore emesso
dal Comune di Genova in realtà non sussiste, posto che il
diniego suddetto (impugnato dalla odierna parte appellata) è
stato emesso in sede di riesame della prima dichiarazione di improcedibiltà e, quindi, in seno ad un unico procedimento
(la fase del riesame inequivocabilmente “accedeva” al primo
procedimento) ed a fronte di un quadro normativo rimasto
immutato;
b) inoltre, deve osservarsi che il primo parere espresso
dalla Commissione Edilizia in data 19.04.2000, in
termini favorevoli “condizionati” aveva già provveduto a perimetrare, in fatto, quale fosse l’unico profilo ostativo
individuabile, ed esso era certamente non tecnico, ma
giuridico, in quanto riposava nella legittimazione e
titolarità dell’area;
c) all’ultima considerazione formulata, se ne lega un’altra,
dirimente, e da sola idonea a supportare l’accoglimento
dell’appello: per costante giurisprudenza, sin da tempi
risalenti (tra le tante si vedano Cons. Stato, sez. V, 17.12.1984, n. 921; id., 29.01.1999, n. 77) è stato
affermato il principio per cui “l’obbligatorietà del parere
della commissione edilizia è limitata alle sole questioni
che interessano l’attuazione, sotto il profilo tecnico, di
uno specifico progetto costruttivo in relazione alla vigenza
di prescrizioni generali e speciali nella materia edilizio-urbanistica”; da tale principio si è fatto
discendere il corollario secondo il quale “è legittimo il
diniego di concessione edilizia (nella specie, in sanatoria)
in assenza del parere della commissione edilizia comunale,
qualora tale diniego si basi esclusivamente su ragioni
giuridiche”;
d) l’attualità di tale insegnamento è presidiata da solide
ragioni logiche: laddove infatti non vi siano problematiche
di fattibilità dell’intervento progettato, ma l’unico dubbio
da risolvere si incentri su problematiche di natura
giuridica (e così, incontestatamente, era nel caso di
specie) non avrebbe senso appesantire il procedimento
richiedendo l’apporto di un organo squisitamente tecnico,
quale è la Commissione Edilizia, né tampoco l’assenza di
tale apporto tecnico potrebbe viziare alcunché
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.11.2016 n. 4578 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione conseguente all’accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso
presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro
l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando
direttamente nella sua sfera di controllo.
---------------
L’ingiunzione di demolizione, in
quanto atto dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o
in totale difformità da esso, è in linea di principio
sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata
abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva
l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia
dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi
questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di
congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
Si è dedotto, pertanto, che soltanto laddove “le difformità
rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un
notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un
ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca
alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione
nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato”.
---------------
1. L’appello è infondato e va respinto.
2. Va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello
per genericità, in quanto nell’atto di impugnazione sono
sufficientemente specificate le ragioni di critica alla
motivazione della sentenza.
3. Nel merito, si osserva che:
a) per incontroversa giurisprudenza (tra le tante vedasi Cons.
Stato, sez. III, 14.04.2015, n. 2411) “l’ordine di
demolizione conseguente all’accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso
presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro
l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando
direttamente nella sua sfera di controllo”;
b) la tesi secondo cui l’appellante si era limitata solamente ad
eseguire lavori di manutenzione straordinaria sul manufatto
preesistente (consistiti nella posa in opera di pareti e di
coperture esterne in lamiera sorrette da strutture di
sostegno in ferro) e senza aumento di volumetria, oltre ad
essere a sproposito ed intempestivamente proposta
nell’odierno grado di appello (semmai l’appellante avrebbe
dovuto contestare la ritenuta natura abusiva in primo grado)
e quindi inammissibile in quanto resa in spregio del divieto
di motivi “nuovi” ex art. 104 del c.p.a. e 345 c.p.c.
sarebbe comunque priva di prova, in quanto soltanto
labialmente affermata, ed inaccoglibile, in quanto lo spazio
in oggetto era prima aperto, e solo attraverso detti lavori
è stato creato un incremento volumetrico;
c) né in primo grado, né in appello, è stata documentata la
pertinenzialità di ogni singolo garage a singoli immobili
adibiti ad abitazione, ed in ogni caso, la tesi sarebbe
inaccoglibile, in quanto per incontroversa giurisprudenza
penale (cfr. Cass. pen., sez. III, 09.12.2004, n. 5465; id.,
15.03.1994) “in materia di reati edilizi, la nozione di
pertinenza urbanistica, sottratta al regime della
concessione edilizia e assoggettata a quello
dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e
distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una
propria identità fisica ed una propria conformazione
strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva
dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta
in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un
autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non
deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da
quella a servizio dell’immobile cui accede. Pertanto è priva
di un oggettivo nesso di ‘strumentalità funzionale’ la
costruzione di una parte di edificio in ampliamento e
adiacente a quello principale, benché destinato ad
autorimessa, in quanto è evidente che tale vano può mutare
la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente
in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa
essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua
strumentalità rispetto all’immobile principale sia
oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non
soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal
possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta
costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una
pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto
di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso”
(Cass. pen., sez. III, 06.12.1989, Cameran, in C.E.D. Cass.,
n. 183106);
d) quanto all’ultima censura, rammenta il Collegio che per costante
giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2016, n.
1393) “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto
dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera
edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da
esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve
intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso
di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il
protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento
nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si
ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto
riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il
pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si è dedotto, pertanto, che soltanto laddove “le
difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso
un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo
un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca
alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione
nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato”.
Nel caso di specie, il numero dei garages abusivi, e la loro
consistenza, impedisce di ritenere l’abuso di modesta
entità, per cui correttamente è stato ritenuto dal Tar che
il Comune non era tenuto a fornire nessuna ulteriore
motivazione in punto di pubblico interesse alla rimozione
delle opere suddette.
L’appellante, poi avrebbe ben potuto presentare domanda di
sanatoria (si rammenta che il processo di primo grado venne
sospeso con ordinanza collegiale n. 83 del 2004 proprio per
la pendenza dei termini per la proposizione dell’istanza di
condono a i sensi del d.l. 269 del 2003), per cui i supposti
–e comunque non dirimenti ai sensi dell’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge
n. 15 del 2005- vizi infraprocedimentali del provvedimento
impugnato comunque nessun danno in concreto gli avrebbero
cagionato, sotto tale profilo.
4. Conclusivamente, l’appello deve essere integralmente
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.11.2016 n. 4577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
incontroversa giurisprudenza penale “in materia di reati
edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al
regime della concessione edilizia e assoggettata a quello
dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e
distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una
propria identità fisica ed una propria conformazione
strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva
dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta
in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un
autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non
deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da
quella a servizio dell’immobile cui accede.
Pertanto è priva di un oggettivo nesso di ‘strumentalità
funzionale’ la costruzione di una parte di edificio in
ampliamento e adiacente a quello principale, benché
destinato ad autorimessa, in quanto è evidente che tale vano
può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile
economicamente in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa
essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua
strumentalità rispetto all’immobile principale sia
oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non
soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal
possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta
costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una
pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto
di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso”.
---------------
1. L’appello è infondato e va respinto.
2. Va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello
per genericità, in quanto nell’atto di impugnazione sono
sufficientemente specificate le ragioni di critica alla
motivazione della sentenza.
3. Nel merito, si osserva che:
a) per incontroversa giurisprudenza (tra le tante vedasi Cons.
Stato, sez. III, 14.04.2015, n. 2411) “l’ordine di
demolizione conseguente all’accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento
dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso
presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro
l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando
direttamente nella sua sfera di controllo”;
b) la tesi secondo cui l’appellante si era limitata solamente ad
eseguire lavori di manutenzione straordinaria sul manufatto
preesistente (consistiti nella posa in opera di pareti e di
coperture esterne in lamiera sorrette da strutture di
sostegno in ferro) e senza aumento di volumetria, oltre ad
essere a sproposito ed intempestivamente proposta
nell’odierno grado di appello (semmai l’appellante avrebbe
dovuto contestare la ritenuta natura abusiva in primo grado)
e quindi inammissibile in quanto resa in spregio del divieto
di motivi “nuovi” ex art. 104 del c.p.a. e 345 c.p.c.
sarebbe comunque priva di prova, in quanto soltanto
labialmente affermata, ed inaccoglibile, in quanto lo spazio
in oggetto era prima aperto, e solo attraverso detti lavori
è stato creato un incremento volumetrico;
c) né in primo grado, né in appello, è stata documentata la
pertinenzialità di ogni singolo garage a singoli immobili
adibiti ad abitazione, ed in ogni caso, la tesi sarebbe
inaccoglibile, in quanto per incontroversa giurisprudenza
penale (cfr. Cass. pen., sez. III, 09.12.2004, n. 5465; id.,
15.03.1994) “in materia di reati edilizi, la nozione di
pertinenza urbanistica, sottratta al regime della
concessione edilizia e assoggettata a quello
dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e
distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una
propria identità fisica ed una propria conformazione
strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva
dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta
in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un
autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non
deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da
quella a servizio dell’immobile cui accede. Pertanto è priva
di un oggettivo nesso di ‘strumentalità funzionale’ la
costruzione di una parte di edificio in ampliamento e
adiacente a quello principale, benché destinato ad
autorimessa, in quanto è evidente che tale vano può mutare
la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente
in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa
essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua
strumentalità rispetto all’immobile principale sia
oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non
soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal
possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta
costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una
pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto
di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso”
(Cass. pen., sez. III, 06.12.1989, Cameran, in C.E.D. Cass.,
n. 183106);
d) quanto all’ultima censura, rammenta il Collegio che per costante
giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2016, n.
1393) “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto
dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera
edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da
esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve
intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso
di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il
protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento
nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si
ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto
riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il
pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si è dedotto, pertanto, che soltanto laddove “le
difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso
un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo
un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca
alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione
nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato”.
Nel caso di specie, il numero dei garages abusivi, e la loro
consistenza, impedisce di ritenere l’abuso di modesta
entità, per cui correttamente è stato ritenuto dal Tar che
il Comune non era tenuto a fornire nessuna ulteriore
motivazione in punto di pubblico interesse alla rimozione
delle opere suddette.
L’appellante, poi avrebbe ben potuto presentare domanda di
sanatoria (si rammenta che il processo di primo grado venne
sospeso con ordinanza collegiale n. 83 del 2004 proprio per
la pendenza dei termini per la proposizione dell’istanza di
condono a i sensi del d.l. 269 del 2003), per cui i supposti
–e comunque non dirimenti ai sensi dell’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge
n. 15 del 2005- vizi infraprocedimentali del provvedimento
impugnato comunque nessun danno in concreto gli avrebbero
cagionato, sotto tale profilo.
4. Conclusivamente, l’appello deve essere integralmente
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.11.2016 n. 4577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ritiene che ai fini della esenzione prevista
dall’art. 16, comma 1, del d.p.r. 380 del 2001 a tale titolo
debbano ricorrere due requisiti.
In primo luogo oggetto dell’attività edilizia deve
essere un’opera annoverabile fra quelle di urbanizzazione
secondaria ai sensi dell’art. 4, comma 2, della L. 847 del
1964 (che ne elenca la tipologia).
In secondo luogo la realizzazione della stessa deve
avvenire in attuazione di una specifica previsione di uno
strumento urbanistico generale o attuativo. Non è
sufficiente, a tal fine, che l’opera sia semplicemente
consentita dal il p.r.g. ma è necessario che il piano
regolatore ne preveda la localizzazione in una zona
destinata alle infrastrutture essenziali la cui
realizzazione è normalmente riservata alla mano pubblica.
La norma, non si riferisce solo alle ipotesi in cui, sulla
base di una convenzione di lottizzazione i privati,
realizzino le opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri
per poi cederle alla p.a., ma abbraccia anche i casi nei
quali le infrastrutture pubbliche, per la cui realizzazione
sarebbe stato normalmente necessario un procedimento
espropriativo, in base alla previsione di piano, possano
essere da essi gestite in regime di convenzionamento secondo
un modello ispirato al principio di sussidiarietà che ha
trovato avallo anche nella giurisprudenza della Corte
costituzionale.
Anche in tali fattispecie, infatti, la realizzazione
dell’opera assolve alle esigenze infrastrutturali
programmate nell’ambito dei piani urbanistici o territoriali
e, quindi, non integra il presupposto del debito
contributivo che è dato dalla creazione di nuovo carico
urbanistico andando, anzi, a coprire la necessità di nuove
opere indotta dall’espansione urbana.
---------------
L'obbligo contributivo previsto dall’art. 16 del D.P.R. 380
del 2001 deriva direttamente dalla legge e non è
suscettibile di negoziazione alcuna.
Un eventuale atto convenzionale che ne preveda il versamento
al di fuori delle ipotesi in cui esso è legalmente dovuto
risulta, quindi, privo di causa e, quindi, nullo.
Lo stesso deve dirsi qualora analoga previsione sia
contenuta nel permesso di costruire. Tale atto, infatti, non
può imporre al suo destinatario obbligazioni pecuniarie che
non trovano giustificazione nella disciplina legale. La
previsione del versamento del contributo in esso
eventualmente contenuta non ha, quindi, carattere
costitutivo ma meramente ricognitivo.
---------------
La S.r.l. Sa., premesso:
a) di essere proprietaria di
un’area sita in comune di Arezzo lungo il viale ... fatta oggetto di una variante al p.r.g.
finalizzata alla realizzazione a sua cura e spese di un
edificio destinato ad ospitare la casa di cura Poggio del
Sole, gestita in regime di accreditamento dalla omonima
società sua controllata, ed alla contestuale realizzazione
di una residenza protetta per soggetti portatori di handicap
previa cessione al comune del relativo terreno;
b) di aver
stipulato per la realizzazione della predetta clinica una
convenzione urbanistica con il comune di Arezzo con la quale
si è impegnata, fra l’altro, a pagare gli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria ed il contributo di
costruzione ad essa relativi;
c) di essersi avveduta dopo il
pagamento della prima rata di poter beneficiare della
esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione
prevista dall’art. 16, comma 1, del D.P.R. 380 del 2001 per le
opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti e per le opere di
urbanizzazione eseguite anche da privati in attuazione degli
strumenti urbanistici;
d) di non aver tuttavia ottenuto dal
comune di Arezzo l’autorizzazione all’esonero del
contributo;
tanto premesso la Sa. S.r.l. chiede che l’adito
Tribunale, previo annullamento in parte qua del permesso di
costruire e della convezione urbanistica, laddove prevedono
il pagamento del contributo, dichiari la non debenza dello
stesso disponendo la restituzione dei ratei corrisposti.
Il ricorso è fondato nella parte in cui afferma che la
clinica sia esente da contributo in quanto opera di
urbanizzazione da realizzarsi in attuazione degli strumenti
urbanistici.
La giurisprudenza ritiene che ai fini della esenzione
prevista dall’art. 16, comma 1, del d.p.r. 380 del 2001 a tale
titolo debbano ricorrere due requisiti.
In primo luogo oggetto dell’attività edilizia deve essere
un’opera annoverabile fra quelle di urbanizzazione
secondaria ai sensi dell’art. 4, comma 2, della L. 847 del
1964 (che ne elenca la tipologia).
In secondo luogo la realizzazione della stessa deve avvenire
in attuazione di una specifica previsione di uno strumento
urbanistico generale o attuativo. Non è sufficiente, a tal
fine, che l’opera sia semplicemente consentita dal il p.r.g.
ma è necessario che il piano regolatore ne preveda la
localizzazione in una zona destinata alle infrastrutture
essenziali la cui realizzazione è normalmente riservata alla
mano pubblica (Cons. Stato, IV, 595/2016; TAR Brescia n.
1111/2014; TAR Firenze 1596/2014; TAR Milano 4672/2009).
La norma, non si riferisce solo alle ipotesi in cui, sulla
base di una convenzione di lottizzazione i privati,
realizzino le opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri
per poi cederle alla p.a., ma abbraccia anche i casi nei
quali le infrastrutture pubbliche, per la cui realizzazione
sarebbe stato normalmente necessario un procedimento
espropriativo, in base alla previsione di piano, possano
essere da essi gestite in regime di convenzionamento secondo
un modello ispirato al principio di sussidiarietà che ha
trovato avallo anche nella giurisprudenza della Corte
costituzionale (nella nota sentenza n. 179 del 1999).
Anche in tali fattispecie, infatti, la realizzazione
dell’opera assolve alle esigenze infrastrutturali
programmate nell’ambito dei piani urbanistici o territoriali
e, quindi, non integra il presupposto del debito
contributivo che è dato dalla creazione di nuovo carico
urbanistico andando, anzi, a coprire la necessità di nuove
opere indotta dall’espansione urbana.
Nel caso di specie l’istruttoria disposta dal Collegio ha
consentito di appurare che la variante urbanistica in forza
della quale la clinica è stata realizzata classificava la
relativa area nell’ambito delle zone F destinate ad
infrastrutture di interesse generale in cui sono ammessi
solamente servizi per l’assistenza socio-sanitaria e
similari.
Le n.t.a. di zona prevedono altresì che l’intervento sulle
predette aree debba essere riservato in via principale alla
p.a., essendo ammessa l’iniziativa privata solo previa
redazione di una specifica convenzione regolante il regime
giuridico del suolo nonché le modalità e le forme di
utilizzazione del bene che ne garantiscano la funzione
pubblica.
Il comune di Arezzo nelle sue difese sostiene che l’esonero
dal contributo non potrebbe essere concesso non essendo
stata stipulata fra le parti una convenzione che disciplini
le modalità di uso della struttura, assicurando che essa
conservi la sua destinazione pubblica.
L’osservazione è infondata e, in ogni caso, prova troppo.
Alla luce di quanto sopra detto un uso meramente privato
della clinica (e cioè per l’offerta di servizi sanitari che
non rientrano nel servizio sanitario nazionale) non sarebbe
consentito dalla destinazione urbanistica ad essa attribuita
dal p.r.g. che si riferisce ad infrastrutture di interesse
generale. Qualora un tale utilizzo dovesse verificarsi esso
integrerebbe un abuso edilizio passibile di sanzione.
A ciò si aggiunga che Sa. ha stipulato con il comune di
Arezzo un accordo ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990 che
richiama espressamente la predetta variante trasfondendone i
contenuti nell’ambito di una disciplina convenzionale dalla
quale scaturiscono reciproci diritti ed obblighi. Con la
conseguenza che un eventuale uso dell’immobile difforme
dalla sua destinazione urbanistica integrerebbe oltre che un
abuso edilizio anche un inadempimento contrattuale.
Peraltro, qualora la tesi del comune di Arezzo fosse fondata
ne conseguirebbe non tanto il venir meno del diritto
all’esonero dal contributo quanto la illegittimità tout
court dello stesso permesso di costruire in quanto
rilasciato senza le garanzie previste dalle n.t.a. relative
alla zona F.
Il Comune di Arezzo eccepisce altresì che anche nell’ipotesi
in cui l’obbligo contributivo non trovasse base legale lo
stesso dovrebbe, comunque, considerarsi esistente in quanto
previsto dal menzionato accordo.
Anche tale eccezione deve essere respinta.
Infatti, l’obbligo contributivo previsto dall’art. 16 del
D.P.R. 380 del 2001 deriva direttamente dalla legge e non è
suscettibile di negoziazione alcuna.
Un eventuale atto convenzionale che ne preveda il versamento
al di fuori delle ipotesi in cui esso è legalmente dovuto
risulta, quindi, privo di causa e, quindi, nullo.
Lo stesso deve dirsi qualora analoga previsione sia
contenuta nel permesso di costruire. Tale atto, infatti, non
può imporre al suo destinatario obbligazioni pecuniarie che
non trovano giustificazione nella disciplina legale. La
previsione del versamento del contributo in esso
eventualmente contenuta non ha, quindi, carattere
costitutivo ma meramente ricognitivo.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto con assorbimento
degli altri motivi di censura
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 02.11.2016 n. 1570 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
piantumazione ex novo o il rinfoltimento di una siepe in
zona agricola non danno certo luogo ad un intervento di
rilievo edilizio (e men che mai a problematiche connesse
alla tipologia dei materiali usati), ma pongono
eventualmente questioni connesse alla necessità di garantire
fasce di rispetto della sede stradale.
---------------
Il tratto della recinzione realizzato ex novo (costituita
da paletti in cemento e rete metallica plastificata)
richiede(va) il previo titolo autorizzativo.
---------------
1. Il sig. Ma. -coltivatore diretto e imprenditore agricolo
a titolo principale- impugna il provvedimento con il quale
il Comune di Gradara gli ha ingiunto la demolizione delle
seguenti opere realizzate in assenza dei necessari titoli
autorizzativi sul terreno agricolo di sua proprietà
ricadente in Via Ghetto, angolo Strada vicinale Treponti:
- capanno in legno appoggiato su platea in cemento, avente
dimensioni di m 4,10 x 6,00 x 2,75-2,35h;
- container avente dimensioni di m 6,85 x 2,45 x 2,40h;
- tettoia di collegamento fra i due suddetti manufatti,
avente dimensioni di m 3,10 x 5,00 x 2,10h;
- recinzione costituita da paletti in cemento e rete
metallica plastificata, sul cui lato interno è stata
piantumata una siepe di cipressi;
- riporto di terreno finalizzato alla realizzazione di un
piazzale pianeggiante utilizzato come parcheggio di mezzi
agricoli (vedasi anche la documentazione fotografica
allegata alla relazione istruttoria depositata in giudizio
dal Comune in data 12/01/2016).
2. Il ricorso è affidato ai seguenti motivi:
- violazione degli artt. 3 e 31 T.U. n. 380/2001, degli
artt. 146, 147 e 149 D.Lgs. n. 42/2004, degli artt. 3 e 8
L.R. Marche n. 13/1990, dell’art. 41-septies L. n.
1150/1942. Eccesso di potere per travisamento dei fatti,
difetto di motivazione, manifesta contraddittorietà e
illogicità (il ricorrente, in sintesi, evidenzia che: le
prime tre opere di cui è stata ingiunta la demolizione non
sono stabilmente infisse al suolo e soddisfano esigenze
temporanee dell’azienda agricola; quanto alla recinzione,
l’intervento è consistito per la gran parte nella
sostituzione di una recinzione preesistente e
nell’infittimento della siepe anch’essa preesistente; il
livellamento del piazzale non ha implicato alcuna
sostanziale modifica dell’assetto territoriale e, comunque,
si tratta di intervento a suo tempo assentito dal Comune;
tutti gli interventi sono conformi al PRG e alla L.R. n.
13/1990 e sono assentibili anche ex post dal punto di
vista paesaggistico).
3. Con ordinanza n. 218/2015 il Tribunale ha accolto la
domanda cautelare, fissando per la trattazione del merito
l’udienza del 15.04.2016 e disponendo istruttoria a carico
del Comune.
La trattazione della causa è stata poi differita al
21.10.2016, stante la pendenza del procedimento di
autorizzazione all’esecuzione di lavori di costruzione di un
manufatto accessorio e di miglioramento ambientale
complessivo dell’area, avviato dal ricorrente con istanza
presentata in data 14/03/2016.
Alla pubblica udienza del 21 ottobre la causa è passata in
decisione.
4. Il ricorso merita accoglimento solo in parte, come si
dirà infra.
Va in premessa evidenziato che, non avendo parte ricorrente
comunicato al Tribunale lo stato attuale e/o (se già
intervenuto) l’esito del procedimento di autorizzazione
all’esecuzione degli interventi di sistemazione complessiva
dell’area, il ricorso va esaminato nel merito.
Questa puntualizzazione si rende necessaria anche alla luce
di quanto evidenziato a pagina 3 della memoria difensiva
depositata dal sig. Ma. in data 15.03.2016: in effetti,
anche a voler ammettere che il lotto non abbia esaurito la
volumetria ammessa dal PRG e dalla L.R. n. 13/1990, ciò non
rende di per sé legittime le opere realizzate sine titulo,
ma consente per l’appunto di conseguire la sanatoria
(laddove, naturalmente, ne sussistano i presupposti) oppure
il rilascio di un atto che autorizzi ex novo la
costruzione dei manufatti accessori ritenuti indispensabili
per la conduzione del fondo.
Sempre in premessa va osservato che, con riguardo ai profili
paesaggistici, il ricorrente sostiene in maniera apodittica
e unilaterale la conformità delle opere de quibus con
il vincolo paesaggistico ex D.M. 31/07/1985 insistente
sull’area. Tale conformità, laddove esistente, non può
ovviamente che essere affermata dalla competente
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
delle Marche e non certo dall’autore dell’abuso edilizio.
5. Ciò detto, il ricorso va respinto con riguardo alle
seguenti opere:
- capanno, container e tettoia di collegamento fra i
predetti manufatti;
- livellamento del piazzale,
mentre va accolto con riguardo alla siepe e, parzialmente,
per quanto concerne la recinzione.
6. Partendo proprio dalla siepe, l’accoglimento del ricorso
discende dalla duplice considerazione che:
- nel provvedimento impugnato il Comune ha considerato solo
i profili urbanistico-edilizi degli abusi in parola;
- la piantumazione ex novo o il rinfoltimento di una
siepe in zona agricola non danno certo luogo ad un
intervento di rilievo edilizio (e men che mai a
problematiche connesse alla tipologia dei materiali usati),
ma pongono eventualmente questioni connesse alla necessità
di garantire fasce di rispetto della sede stradale. Ma
poiché nel provvedimento non si fa menzione di tale profilo,
in parte qua il ricorso va accolto.
Quanto alla recinzione, il ricorso va accolto limitatamente
alla parte che è stata oggetto di semplice sostituzione
della recinzione preesistente.
Al riguardo va solo evidenziato che nel provvedimento il
Comune non ha spiegato la ragione per la quale l’intervento
si pone in contrasto con l’art. 82 delle NTA per ciò che
concerne i materiali utilizzati e che in questa sede
l’amministrazione non ha confutato l’affermazione del
ricorrente circa la parziale preesistenza della recinzione.
Il tratto della recinzione realizzato ex novo
richiedeva invece il previo titolo autorizzativo, il che è
comprovato dagli stessi argomenti spesi a pagina 5, ultimo
periodo, del ricorso (laddove il ricorrente si limita ad
evidenziare che la recinzione insiste su un tratto di strada
vicinale chiusa dopo 150 metri dall’incrocio e non
trafficata e che la rete metallica e la siepe sono state
collocate in perfetto allineamento con le piante già
esistenti. Tali circostanze, però, non hanno alcuna
rilevanza ai fini edilizi e paesaggistici)
(TAR Marche,
sentenza 02.11.2016 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è rilevante la modalità con la quale un
manufatto è infisso al suolo al fine di stabilire se si è in
presenza di opere precarie e temporanee (le quali non
abbisognano quindi del titolo edilizio) o, al contrario, di
stabili trasformazioni del territorio.
Ciò che rileva è l’uso oggettivo del manufatto che il
proprietario o l’autore dell’intervento abbiamo posto in
essere dopo la sua realizzazione.
A voler diversamente opinare si darebbe la possibilità
indiscriminata di eludere gli indici edificatori previsti
dal PRG, e ciò mediante la posa in opera di casette
prefabbricate, container, roulottes, camper, etc., ossia di
opere che non sono ancorate al suolo nello stesso modo degli
edifici tradizionali ma che, opportunamente collocate ed
eventualmente nel tempo “rinforzate”, finiscono per
assolvere alle medesime finalità (se non residenziali,
certamente accessorie alla residenza – magazzini, garages,
legnaie, etc.).
---------------
7. Per il resto, invece, le doglianze formulate in ricorso
non possono trovare condivisione.
7.1. La giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, V, n.
3321/2000 e VI, n. 2842/2014; Cass. pen., III, n.
36040/2012) ha ormai da tempo chiarito che non è rilevante
la modalità con la quale un manufatto è infisso al suolo al
fine di stabilire se si è in presenza di opere precarie e
temporanee (le quali non abbisognano quindi del titolo
edilizio) o, al contrario, di stabili trasformazioni del
territorio. Ciò che rileva è l’uso oggettivo del manufatto
che il proprietario o l’autore dell’intervento abbiamo posto
in essere dopo la sua realizzazione.
A voler diversamente opinare si darebbe la possibilità
indiscriminata di eludere gli indici edificatori previsti
dal PRG, e ciò mediante la posa in opera di casette
prefabbricate, container, roulottes, camper, etc., ossia di
opere che non sono ancorate al suolo nello stesso modo degli
edifici tradizionali ma che, opportunamente collocate ed
eventualmente nel tempo “rinforzate”, finiscono per
assolvere alle medesime finalità (se non residenziali,
certamente accessorie alla residenza – magazzini, garages,
legnaie, etc.).
Nella specie, come del resto ammesso in ricorso e confermato
anche nella citata memoria difensiva del 15 marzo 2016, le
opere in argomento esistono da alcuni anni e sono utilizzate
dal sig. Ma. per la ordinaria conduzione del fondo, ergo le
stesse non possono essere qualificare come opere precarie e
temporanee, essendo destinate a dare un’utilità prolungata
nel tempo. E, del resto, il fatto stesso che sia stata
richiamata la possibilità della sanatoria postuma dimostra
che il ricorrente ha interesse a conservarne l’uso anche in
futuro.
Le opere in questione, poi, sviluppano anche volumetria, il
che rileva ai sensi dell’art. 167, comma 4, D.Lgs. n.
42/2004.
7.2. Discorso analogo va fatto, in generale, per
l’intervento di livellamento del piazzale, dovendosi
ulteriormente precisare che lo stesso:
- dà luogo a trasformazione permanente del suolo (e dunque
necessitava di titolo abilitativo);
- non può dirsi autorizzato permanentemente con la presa
d’atto del Comune di cui alla nota prot. n. 1685 del
26/2/2011, la quale aveva efficacia autorizzativa di due
anni, come è giusto che sia per opere dichiaratamente
temporanee (si veda l’istanza presentata a suo tempo dal
ricorrente documento - allegato n. 3 al ricorso);
- ai sensi e per gli effetti dell’art. 167, comma 4, D.Lgs.
n. 42/2004, non ha sviluppato alcuna volumetria.
8. In conclusione, il ricorso va accolto solo in parte
(TAR Marche,
sentenza 02.11.2016 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
presupposto espressamente richiesto dall’art. 36 DPR
380/2001 per potersi conseguire il permesso di costruire in
sanatoria per opere realizzate senza il previo rilascio del
necessario titolo edilizio, è che “l’intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda” (cd. “doppia
conformità”).
Ed infatti in giurisprudenza è stato univocamente chiarito
come la norma sia diretta a sanare opere solo formalmente
abusive e non sia suscettibile di applicazione analogica né
di una interpretazione riduttiva, per cui non basterebbe,
per poterne fruire, la sola conformità delle opere alla
strumentazione urbanistica vigente all’epoca di proposizione
dell’istanza di accertamento.
-----------------
Corollario di tanto è che il permesso di costruire in
sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché
altrimenti, in contrasto appunto con l’art. 36 DPR 380/2001,
postulerebbe non già la “doppia conformità” delle opere
abusive richiesta dalla disposizione in parola, ma una sorta
di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle
prescrizioni e quindi non esistente né al momento della
realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione
della domanda di sanatoria, bensì -eventualmente– solo alla
data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato
a tali prescrizioni.
Ulteriore e ovvia conseguenza del descritto quadro giuridico
è, altresì, l’inapplicabilità della normativa posta
dall’art. 15 DPR 380/2001 in tema di termini per l’inizio e
il completamento dei lavori assentiti con permesso di
costruire, nonché delle conseguenze del loro mancato
rispetto (proprio perché, per definizione, non può esservi
alcun lavoro ulteriore a farsi).
---------------
Questione centrale da dirimere nel presente giudizio è
quella relativa alla assoggettabilità, o meno, del permesso
di costruire n. 88/2013, rilasciato ai ricorrenti, alla
disciplina di cui all’art. 15, co. 1 e 2, DPR 380/2001 (“1.
Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio
e di ultimazione dei lavori. 2. Il termine per l'inizio dei
lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del
titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve
essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei
lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto
per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla
scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere
accordata, con provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari.”), atteso che il Comune
di Trentola Ducenta, con il provvedimento impugnato a mezzo
del ricorso introduttivo, ha dichiarato la decadenza di
detto titolo edilizio applicando appunto la citata
disposizione (nonché richiamando anche quella analoga posta
dall’art. 15 del Regolamento Edilizio comunale, ma avente
evidentemente rango secondario), sulla base dei seguenti
assunti: “- che ad un anno dal rilascio non è pervenuta agli
atti di ufficio la dovuta comunicazione di inizio e fine
lavori; - che a seguito di apposito sopralluogo tecnico al
protocollo comunale n. 4/U.T.C. del 13.04.2015 si è
riscontrata la presenza di opere non conformi al Permesso di
Costruire in Sanatoria n. 88/2013; - che la decadenza
disciplinata dall’art. 15 del R.E.C. discende
automaticamente dalla circostanza obiettiva del mancato
inizio dei lavori e quindi è un effetto dell’inerzia
dell’interessato”.
A fronte di tale operato, i ricorrenti sostengono che,
trattandosi di un permesso di costruire in sanatoria, ovvero
volto a legalizzare opere ormai realizzate, non avrebbe
alcun senso o funzione applicare una disposizione
riguardante specificamente lavori assentiti con titolo
edilizio ordinario e ancora da farsi; tanto più che in tal
senso deporrebbe anche la collocazione sistematica della
norma (visto che l’art. 15 è inserito nel Titolo II,
inerente i "Titoli abilitativi", al Capo II, rubricato
"Permesso di Costruire"; mentre l’art. 36 è inquadrato nel
Titolo IV, intitolato alla "Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, responsabilità e sanzioni", al Capo II,
dedicato alle "Sanzioni", del D.P.R. 380/2001).
Di contro, il Comune di Trentola Ducenta, nelle proprie
difese, sostiene la legittimità dell’operato del proprio
Ufficio Urbanistica, deducendo che, in realtà, il Permesso
di Costruire n. 88/2013 non sarebbe stato rilasciato secondo
lo schema ordinario previsto dall’art. 36 DPR 380/2001,
bensì si sarebbe trattato di un più complesso provvedimento,
autorizzante anche l’esecuzione di lavori necessari a
rendere l’immobile conforme alla disciplina urbanistica, o
comunque impositivo di prescrizioni necessarie per il
conseguimento della sanatoria (ed all’uopo fa riferimento
agli esiti di un sopralluogo effettuato in data 13.04.2015,
evidenzianti la sussistenza di più difformità rispetto
appunto al permesso di costruire n. 88/2013).
La tesi difensiva del Comune non può essere condivisa.
Invero, va premesso che il presupposto espressamente
richiesto dall’art. 36 DPR 380/2001 per potersi conseguire
il permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate
senza il previo rilascio del necessario titolo edilizio, è
che “l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda” (cd. “doppia conformità”); ed
infatti in giurisprudenza è stato univocamente chiarito come
la norma sia diretta a sanare opere solo formalmente abusive
e non sia suscettibile di applicazione analogica né di una
interpretazione riduttiva, per cui non basterebbe, per
poterne fruire, la sola conformità delle opere alla
strumentazione urbanistica vigente all’epoca di proposizione
dell’istanza di accertamento (cfr. TAR Calabria-Reggio
Calabria n. 861 del 25.08.2015; TAR Campania-Napoli n. 4717
dell’08.10.2015; TAR Campania-Napoli n. 2004 dell’08.04.2015;
TAR Campania-Napoli n. 1690 del 20.03.2014; TAR Campania-Napoli n. 3153 del
03.07.2012; TAR Campania-Napoli n.
17398 del 10.09.2010).
Corollario di tanto è che il permesso di costruire in
sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché
altrimenti, in contrasto appunto con l’art. 36 DPR 380/2001,
postulerebbe non già la “doppia conformità” delle opere
abusive richiesta dalla disposizione in parola, ma una sorta
di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle
prescrizioni e quindi non esistente né al momento della
realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione
della domanda di sanatoria, bensì -eventualmente– solo
alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia
ottemperato a tali prescrizioni (cfr. TAR Liguria n. 45 del
15.01.2016; TAR Liguria n. 1003 del 16.12.2015; TAR Liguria
n. 995 del 03.12.2015; TAR Campania-Napoli n. 1527 del
12.03.2015; TAR Campania-Salerno n. 1017 del 28.05.2014; TAR Campania-Salerno n. 1034 del
02.05.2013; TAR Lazio-Latina n.
1004 del 20.12.2012; TAR Lombardia-Milano n. 7311 del
22.11.2010).
Ulteriore e ovvia conseguenza del descritto quadro giuridico
è, altresì, l’inapplicabilità della normativa posta
dall’art. 15 DPR 380/2001 in tema di termini per l’inizio e
il completamento dei lavori assentiti con permesso di
costruire, nonché delle conseguenze del loro mancato
rispetto (proprio perché, per definizione, non può esservi
alcun lavoro ulteriore a farsi).
Quanto alla concreta fattispecie in esame, va detto che è
indiscutibile che il permesso di costruire n. 88/2013, a
differenza di quanto sostenuto dal Comune di Trentola
Ducenta, sia stato rilasciato “in sanatoria”, ai sensi
dell’art. 36 DPR 380/2001, sia perché è con riferimento a
tale norma che la relativa richiesta è stata presentata in
data 05.06.2013, con il prot. n. 6945 (cfr. copia dell’istanza
e allegata relazione tecnica); sia perché quest’ultima
riguardava opere già realizzate e interessate da una
precedente ordinanza demolitoria (la n. 1 del 17.01.2013,
come riportato nell’ordinanza di demolizione oggetto di
gravame a mezzo dei motivi aggiunti); sia perché tanto
appare riconosciuto nello stesso Permesso di Costruire,
oltre che nei successivi atti del Comune di Trentola Ducenta
(e, in particolare in quelli in questa sede impugnati).
Orbene, pur non essendo ben chiaro se con il rilascio del
permesso di costruire in parola fossero state anche imposte
particolari ed essenziali prescrizioni riguardanti ulteriori
attività edilizie da porsi in essere ad opera degli
interessati, ovvero di quali prescrizioni in concreto si
trattasse, per quel che qui interessa va detto che
l’eventuale apposizione di prescrizioni, per un verso,
stante il principio di tipicità degli atti amministrativi,
non avrebbe potuto snaturare il provvedimento adottato (così
che, al massimo, avrebbe potuto trattarsi di imposizioni del
tutto secondarie e accessorie); e, per altro verso, che la
loro presenza avrebbe potuto eventualmente incidere sulla
legittimità del titolo (determinando la sussistenza di un
vizio suscettibile di determinare l’esercizio dei poteri di
autotutela), ma non certo costituire il presupposto per
applicarsi l’art. 15 DPR 380/2001 al di fuori della sua
portata. In altre parole, o per le opere di cui era stata
chiesta la sanatoria era sussistente, al momento del
rilascio del Permesso di Costruire n. 88/2013, la cd.
“doppia conformità”, per cui, a prescindere dall’apposizione
di eventuali prescrizioni (di carattere necessariamente solo
accessorio e marginale), la P.A. non avrebbe potuto
intervenire utilizzando la decadenza prevista dall’art. 15
DPR 380/2001 al fine di sanzionare il mancato rispetto
appunto delle prescrizioni; oppure la cd. “doppia
conformità” non era riscontrabile, per essere le
prescrizioni apposte essenziali e decisive proprio per la
sanatoria, ed allora la P.A., senza poter intervenire
applicando la citata decadenza ex art. 15 DPR 380/2001, al
più avrebbe potuto, in presenza dei presupposti di legge,
annullare il titolo, poiché erroneamente rilasciato senza
che vi fosse la cd. “doppia conformità”: in entrambe le
ipotesi, come si vede, in ogni caso non vi sarebbe stato
spazio per dichiarare una decadenza del titolo edilizio in
applicazione dell’art. 15 cit., per mancata esecuzione di
lavori oggetto di “prescrizioni”.
La determinazione n. 8 - n. 294 d'ordine reg. gen. del
29.04.2015 dell'Ufficio Urbanistica della Città di Trentola
Ducenta, avente ad oggetto la decadenza della validità del
permesso di costruire in sanatoria n. 88/2013, è pertanto
illegittima secondo quanto lamentato dai ricorrenti in
ricorso introduttivo; e per tale ragione la stessa va
annullata.
L’acclarata illegittimità della determinazione n. 8 - n. 294
d'ordine reg. gen. del 29.04.2015 dell'Ufficio Urbanistica
della Città di Trentola Ducenta riverbera, poi, effetti
decisivi quanto all’impugnazione –interposta a mezzo dei
motivi aggiunti– dell’ordinanza demolitoria n. 26 del
06.07.2015 sopravvenuta in corso di giudizio, con cui il
responsabile dell’Area Urbanistica del Comune di Trentola
Ducenta ha ingiunto ai ricorrenti la demolizione di opere
qualificate come abusive.
Invero, l’unico presupposto su cui è fondata l’ingiunzione
di demolizione suddetta (come evincibile dal suo testo) è
proprio l’intervenuta decadenza del permesso di costruire in
sanatoria n. 88/2013, in conseguenza del cui venir meno il
Comune di Trentola Ducenta ha ritenuto abusive le opere per
il tramite dello stesso in precedenza assentite: è chiaro,
perciò, che, in via derivata, in conseguenza
dell’illegittimità (e del disposto annullamento
giurisdizionale) dell’unico atto presupposto, deriva
l’illegittimità anche dell’ordinanza demolitoria in parola,
per cui anche di essa va disposto l’annullamento.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione
civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più
recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.10.2016 n. 5010 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità di un provvedimento
interdittivo antimafia per traffico illecito di rifiuti, di
cui all'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Il disvalore sociale e la portata del danno ambientale
connesso al traffico illecito di rifiuti, di cui all'art.
260 del d.lgs. n. 152 del 2006, costituiscono, già di per se
stessi, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i
contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto
oggettivamente esposti al malaffare e, sempre più di
frequente, al concreto pericolo di infiltrazioni delle
associazioni criminali di stampo camorristico.
Non a caso, infatti, l'art. 84, c. 4, lett. a), del d.lgs.
n. 159 del 2011 prevede che le situazioni relative ai
tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo
all'adozione dell'informativa, sono desunte, tra l'altro,
dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il
giudizio o che recano una condanna, anche non definitiva,
per taluni dei delitti di cui all'art. 51, c. 3-bis, c.p.p.,
tra i quali figura, espressamente, il delitto previsto
dall'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 28.10.2016 n. 4557 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La relazione geologica deve essere allegata, dai
concorrenti ad una procedura di affidamento di un appalto
integrato, al progetto esecutivo presentato in sede di gara
se contenente integrazioni o modifiche al progetto
definitivo posto a base di gara.
Le concorrenti ad una procedura di affidamento di un appalto
integrato di progettazione e lavori devono allegare al
progetto esecutivo presentato in sede di gara la relazione
geologica se contenente integrazioni o modifiche alla
corrispondente relazione facente parte del progetto
definitivo posto a base di gara.
Peraltro si precisa che in caso di modifiche o integrazioni
di tale rilievo l'esclusione dalla gara può essere
giustificata non già dall'integrazione della lex
specialis ad opera di quella regolamentare contenuta nel
d.P.R. n. 207 del 2010 e relativa ai livelli di
progettazione in materia di appalti pubblici di lavori, ma
per la carenza di un elemento essenziale dell'offerta.
Pertanto, non è condivisibile l'orientamento
giurisprudenziale a mente del quale le relazioni
specialistiche allegate al progetto, ivi compresa la
relazione geologica devono essere elaborate a cura dei
concorrenti in sede di offerta tecnica nell'ambito di una
procedura di affidamento di un appalto integrato anche a
prescindere da uno specifico obbligo imposto dal bando
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.10.2016 n. 4553 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PATRIMONIO:
Sussiste la giurisdizione del g.o. per la
controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto
la ristrutturazione di un impianto sportivo comunale, nonché
la sua successiva gestione: presupposti.
Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la
controversia relativa ad una convenzione avente ad oggetto
l'integrale ristrutturazione ed ampliamento di un impianto
sportivo comunale (come è, nel caso di specie), nonché la
sua successiva gestione pluriennale, ove, nella comparazione
tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti
preminente e tale da identificare il vero oggetto del
contratto, la realizzazione delle opere rispetto alla
gestione degli impianti, che, per il canone richiesto,
assume rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato
dell'impresa, la remunerazione necessaria, restando al
contempo soddisfatto l'interesse dell'amministrazione al
funzionamento dei servizi sportivi.
Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la
controversia relativa alla fase di esecuzione di una
convenzione avente ad oggetto la costruzione e la
ristrutturazione di un complesso immobiliare destinato ad
area termale, nonché l'affidamento in gestione al
concessionario dell'offerta al pubblico degli impianti e
servizi relativi, previa corresponsione al comune di un
canone annuo, non avendo rilievo la precedente distinzione
tra concessione di sola costruzione e concessione di
gestione dell'opera (o di costruzione e gestione congiunti),
sussistendo piuttosto l'unica categoria della concessione di
lavori pubblici, nella quale la gestione funzionale ed
economica dell'opera non costituisce più un accessorio
eventuale della concessione di costruzione, ma la
controprestazione principale e tipica a favore del
concessionario (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2016 n. 4539 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Presupposti per l'applicazione del nuovo rito appalti ex
art. 120, comma 6-bis, c.p.a.
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Contratti della P.A. – Aggiudicazione – Impugnazione –
Rito – Art. 120, commi 2 bis e 6 bis, c.p.a. – Applicazione
– Presupposti.
I commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120
c.p.a., introdotti dall’art. 204 del nuovo Codice dei
contratti pubblici, non si applicano se non si è
perfezionato l'iter procedimentale previsto dal suddetto
Codice, e quindi se le determinazioni della Commissione di
gara sono contenute in verbali pubblicate sul sito della
stazione appaltante e non sul profilo del comune
committente, come prescritto dal nuovo Codice.
Peraltro, seppure l'art. 120 c.p.a., nella sua attuale
formulazione, è norma processuale, con la conseguenza che
dovrebbe affermarsi la sua immediata applicazione, non
appare ragionevole l’estensione del rigoroso regime, dalla
stessa previsto in ordine ai ristretti termini di decadenza,
a provvedimenti di ammissione adottati più di 30 giorni
prima della sua entrata in vigore, con conseguente
spostamento del dies a quo a tale data.
---------------
Fermo restando la necessità di un maggiore approfondimento
nella fase di merito, non sembrerebbe fondata l’eccezione di
irricevibilità sollevata dalla controinteressata, la quale
sostiene che, in base al disposto dell’art. 120, comma
6-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, comma 1, lettera d),
del d.lgs.vo n. 50 del 18.04.2016, costituente norma
processuale, il provvedimento di ammissione contenuto nel
verbale del 19.01.2016 avrebbe dovuto essere impugnato entro
il termine perentorio di 30 giorni decorrenti dalla data di
entrata in vigore della nuova disposizione.
Sembra, infatti, al collegio che, indipendentemente dalla
complessa questione dell’applicabilità di tale disposizione
a una gara bandita sulla base del previgente d.lgs.vo n. 163
del 2006, non appare ragionevole l’estensione del rigoroso
regime dalla stessa previsto a provvedimenti di ammissione
adottati più di 30 giorni prima della sua entrata in vigore
con conseguente spostamento del dies a quo a tale
data.
Nel merito, il ricorso è assistito da adeguato fumus boni
juris in quanto la controinteressata sembrerebbe priva
del requisito tecnico richiesto dal bando quanto meno con
riferimento alla parte riferita alla gestione di “centri
comunali di raccolta, presso uno o più comuni con
popolazione cumulativamente non inferiore a 10.000 abitanti”.
Tale disposizione sembrerebbe, infatti, richiedere la
gestione di almeno un centro di raccolta posto a servizio di
una popolazione pari ad almeno 10.000 abitanti appartenenti
a uno o più Comuni.
La controinteressata ha, invece, gestito più centri di
raccolta riferiti a Comuni con popolazione inferiore a tale
limite dimensionale.
Ritiene, pertanto, il collegio che, tenuto conto
dell’esigenza di evitare l’interruzione del servizio, alle
esigenze cautelari prospettate dalla parte ricorrente può
darsi adeguata tutela senza sospendere gli effetti degli
atti e fissando l’udienza per la trattazione del merito del
ricorso (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
ordinanza 28.10.2016 n. 1082 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della P.A. – Gara – Documentazione – Omessa allegazione di
copia del documento d’identità all’autocertificazione e
mancata apposizione della data al curriculum professionale –
Soccorso istruttorio - Possibilità.
Ai sensi dell’art. 83, comma 9,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, costituiscono irregolarità
sanabili a seguito del c.d. soccorso istruttorio, e non
determinano quindi l’esclusione del concorrente dalla gara,
l’omessa allegazione di copia del documento d’identità
all’autocertificazione e la mancata apposizione della data
al curriculum professionale versato nella documentazione
allegata alla domanda di partecipazione.
---------------
II – Il ricorso è ammissibile e fondato.
III - Il ricorso rientra nel “rito appalti”, di cui
all’art. 120 comma sesto del c.p.a. e come tale appartiene
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
trattandosi nella specie di procedura inquadrabile tra
quelle finalizzate all’acquisizione di servizi, di cui
all’art. 36, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 50/2016 (nuovo
Codice degli appalti).
Ciò si evince dagli elementi quali la qualificazione
giuridica di “selezione per l’acquisizione di servizi”,
data dalla stessa Amministrazione nell’avviso pubblico, il
carattere della prestazione richiesta, la coerenza della
procedura attivata con la normativa sulle procedure
semplificate di appalto per l’affidamento sotto-soglia di
servizi, di cui al citato art. 36, comma 2, lett. b), del
Codice degli appalti.
IV - Tale considerazione radica, come già detto, la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e rende
ammissibile il ricorso, anche nelle sue forme espresse, ad
eccezione del contributo unificato versato dalla parte
ricorrente per la causa che, tuttavia, può essere
regolarizzato in via postuma.
V – A prescindere dalle questioni di ammissibilità del
gravame –peraltro genericamente sollevate ed eccepite
dall’Amministrazione resistente– il ricorso è fondato
nell’ultimo motivo.
IV - Invero, le censure d’illegittimità dell’ammissione
della controinteressata alla procedura selettiva, sono da
ritenersi inattendibili, atteso che le irregolarità
dell’autocertificazione e del curriculum vitae
-prodotti dalla controinteressata nella sua documentazione–
sembrerebbero sanabili in sede di soccorso istruttorio e non
sarebbero causa di esclusione del candidato. Invero, l’art.
83, comma nono, del Codice degli appalti (D.Lgs. n. 50/2016)
prevede che costituiscano irregolarità essenziali non
sanabili in sede di soccorso istruttorio “le carenze
della documentazione che non consentono l'individuazione del
contenuto o del soggetto responsabile della stessa”.
A tenore della stessa normativa, “le carenze di qualsiasi
elemento formale della domanda possono essere sanate
attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al
presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza
e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con
esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed
economica”.
Si può, pertanto, ritenere ininfluenti, ai fine della
legittimità della procedura, la mancata allegazione di copia
del documento d’identità e la mancata datazione del
curriculum professionale.
Nondimeno, il fatto –non contestato dall’Amministrazione
resistente- che la commissione di gara abbia fissato i
sub-criteri di valutazione dei titoli, solo dopo aver preso
visione della documentazione dei titoli delle concorrenti,
unitamente al fatto che la valutazione dei titoli ha
influito e pesato in modo determinante nella redazione della
graduatoria finale, evidenzia un profilo di eccesso di
potere e di violazione dei principi di trasparenza e
imparzialità, che inficia non solo l’esito della gara ma
l’intera procedura.
La determinazione a posteriori di una ponderazione degli
elementi valutativi dei titoli delle concorrenti, in
ipotesi, ha potuto influenzare la valutazione stessa e ciò
vìola i principi di parità di trattamento, di non
discriminazione e di trasparenza (cfr.: Tar Puglia Bari I,
06.09.2011 n. 1295)
(TAR Molise,
sentenza 28.10.2016 n. 444 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di reati edilizi, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione, impartito dal giudice a seguito dell'accertata
edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è
escluso dall'alienazione del manufatto abusivo a terzi,
anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo
perché l'ordine di demolizione, avendo carattere
reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto
con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi,
con la sola conseguenza che l'avente causa, se estraneo
all'abuso, potrà rivalersi nei confronti del dante causa, o
dei suoi eredi, a seguito dell'avvenuta demolizione.
Infatti l'ordine di demolizione delle opere
abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e
natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato.
Ne consegue che l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, legittimamente adottato,
deve essere eseguito nei confronti del proprietario
dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche
autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far
valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa.
Pertanto, l'ordine di demolizione del
manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti di
qualunque acquirente dal condannato, stante la preminenza
dell'interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela
è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal
giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla
conservazione del manufatto, dell'avente causa del
condannato.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 09.02.2015, il Tribunale di Trapani
rigettava la richiesta di Gi.Co., diretta ad ottenere la
revoca o la sospensione dell'ordine di demolizione di opere
abusive, quale pronunzia consequenziale ad una sentenza di
condanna del Tribunale di Trapani, sez. distaccata di
Alcamo, divenuta irrevocabile il 07.07.2004.
Il Tribunale affermava che l'ordine, avendo la sanzione
natura reale, avrebbe esplicato effetto nei confronti di
chiunque avesse la disponibilità del manufatto, né avrebbe
potuto ostare alla demolizione l'acquisizione dell'immobile
al patrimonio comunale, in assenza di elementi idonei ad
affermare l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento
dell'opera.
2. Ricorre per cassazione Gi.Co., svolgendo un unico motivo.
Assume il ricorrente che, avendo egli dato prova della
cessione a terzi del manufatto, sarebbe stato onere del
giudice dell'esecuzione disporre la citazione dell'attuale
proprietario, anche al fine di verificare le istanze
amministrative ai fini della sanatoria dell'abuso. Ed
infatti, l'immobile era stato trasferito a tale Ro.Co., con
decreto del giudice dell'esecuzione civile il 02.10.2007.
Nel suo parere, reso per iscritto, il Procuratore Generale
ha sollecitato il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Questa Corte ha recentemente ribadito il principio di
diritto secondo il quale, in tema di reati
edilizi, l'esecuzione dell'ordine di demolizione, impartito
dal giudice a seguito dell'accertata edificazione in
violazione di norme urbanistiche, non è escluso
dall'alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo
[Sez. 3, n. 42699 del 23/10/2015, Curcio, Rv. 265193; Sez.
3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802]
perché l'ordine di demolizione, avendo carattere
reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto
con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi,
con la sola conseguenza che l'avente causa, se estraneo
all'abuso, potrà rivalersi nei confronti del dante causa, o
dei suoi eredi, a seguito dell'avvenuta demolizione.
Infatti l'ordine di demolizione delle opere
abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e
natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato
(ex multis, Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni,
Rv. 245403; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv.
232175).
Ne consegue che l'ordine di demolizione del
manufatto abusivo, legittimamente adottato, deve essere
eseguito nei confronti del proprietario dell'immobile
indipendentemente dall'essere egli stato anche autore
dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul
piano civile, la responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa
(Sez. 3, n. 39322 del 13/07/2009, Berardi, ed altri Rv.
244612).
Pertanto, l'ordine di demolizione del
manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti di
qualunque acquirente dal condannato, stante la preminenza
dell'interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela
è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal
giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla
conservazione del manufatto, dell'avente causa del
condannato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.10.2016 n. 45433). |
APPALTI: Deve
ribadirsi l’assunto di diritto per cui la riscontrata
violazione (totale assenza dell'impegno di un fideiussore a
garantire l'esecuzione del contratto) non risulta
suscettibile di successivo recupero attraverso l’invocato
meccanismo del soccorso istruttorio in ragione della sua
intima connessione con la formulazione dell’offerta e
(proprio per questa ragione) della sua espressa imposizione
normativa a pena di esclusione (art. 75, comma 8, del d.l.vo
2006 n. 163).
Sul punto il Collegio ritiene di dover sottolineare il
diverso regime che astringe le irregolarità relative alla
cauzione provvisoria (non potendosi in tal caso senz’altro
escludere il concorrente che abbia presentato una siffatta
cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre
irregolarità) dalla diversa ipotesi, quale verificatasi nel
caso di specie, di mancata presentazione dell'impegno di un
fideiussore a rilasciare la fideiussione definitiva che,
differentemente dalla prima, integra una causa testuale di
esclusione, coerente con il canone della tassatività in
ragione della sua stretta connessione strutturale e
funzionale con la formulazione dell’offerta.
---------------
Occorre ribadire che la violazione ora indicata è sanzionata
con l'esclusione dall'art. 75, comma 8, del Cod. dei
contratti, dal quale è previsto come corredo necessario
dell'offerta e riflette le esigenze sottese alla previsione
dell'art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006 n. 163.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che:
1) l'art. 75, comma 1, del d.l.vo n. 163 del 2006 prevede che
l'offerta è corredata da una garanzia, pari al due per cento
del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto
forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente
e il successivo comma 6 indica che la garanzia copre la
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario ed è svincolata automaticamente al momento
della sottoscrizione del contratto medesimo. L'art. 75,
comma 8, invece, prevede che l'offerta è altresì corredata,
"a pena di esclusione", dall'impegno di un fideiussore a
rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del
contratto, di cui all'art. 113, qualora l'offerente
risultasse affidatario;
2) la diversa formulazione delle due norme consente di ritenere
sanabile o regolarizzabile la mancata presentazione della
cauzione provvisoria, al contrario dell'impegno per la
cauzione definitiva, previsto "a pena di esclusione", che
garantisce l'impegno più consistente della corretta
esecuzione del contratto e giustifica, in caso di omissione,
l'esclusione dalla gara;
3) insomma, la diversa formulazione letterale del comma 6, in
relazione al comma 8, dell'art. 75 rende evidente l'intento
di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata
prestazione della cauzione provvisoria e non la mancata
presentazione dell'impegno di un fideiussore a garantire
l'esecuzione del contratto, impegno ben più consistente,
essendo riferito all'integrale adempimento delle
obbligazioni contrattuali.
Ne consegue che la giurisprudenza, con argomentazioni e
conclusioni qui pienamente condivise, ha ammesso che,
“mentre la norma sulla cauzione provvisoria va intesa nel
senso che la stazione appaltante non può escludere il
concorrente che abbia presentato una cauzione di importo non
sufficiente o connotata da altre irregolarità, dovendosi
consentire, in tali casi, in applicazione del c.d. soccorso
istruttorio di cui all'art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del
2006, la regolarizzazione della cauzione prodotta, al
contrario la mancata presentazione dell'impegno di un
fideiussore a rilasciare la garanzia per l'esecuzione del
contratto integra una causa testuale di esclusione, coerente
con il canone della tassatività posto dall'art. 46, comma
1-bis, del d.l.vo 2006 n. 163”.
---------------
Il ricorso –sia nella dimensione finale al conseguimento
dell’aggiudicazione della gara de qua, sia
nell’ottica strumentale della ripetizione dell’intera
procedura– è infondato e va respinto per le ragioni che
seguono, di talché può prescindersi dall’esame del gravame
incidentale.
Quanto al primo profilo ed in relazione alle censure volte a
contestare la disposta esclusione dell’offerta dell’odierna
ricorrente, deve ribadirsi l’assunto di diritto, già
enucleato in sede di decisione sull’istanza cautelare, per
cui la riscontrata violazione (totale assenza dell'impegno
di un fideiussore a garantire l'esecuzione del contratto)
non risulta suscettibile di successivo recupero attraverso
l’invocato meccanismo del soccorso istruttorio in ragione
della sua intima connessione con la formulazione
dell’offerta e (proprio per questa ragione) della sua
espressa imposizione normativa a pena di esclusione (art.
75, comma 8, del d.l.vo 2006 n. 163).
Sul punto, pur nella riscontrata diversità di approcci
ermeneutici, il Collegio ritiene di dover sottolineare il
diverso regime che astringe le irregolarità relative alla
cauzione provvisoria (non potendosi in tal caso senz’altro
escludere il concorrente che abbia presentato una siffatta
cauzione di importo non sufficiente o connotata da altre
irregolarità) dalla diversa ipotesi, quale verificatasi nel
caso di specie, di mancata presentazione dell'impegno di un
fideiussore a rilasciare la fideiussione definitiva che,
differentemente dalla prima, integra una causa testuale di
esclusione, coerente con il canone della tassatività in
ragione della sua stretta connessione strutturale e
funzionale con la formulazione dell’offerta.
Premesso in fatto che non è contestato che la ricorrente, in
sede di presentazione dell'offerta, abbia omesso di
presentare la garanzia de qua e che, a differenza dei
precedenti da essa citati, non si tratta (anche) di una non
corretta presentazione in termini di misura del quantum
correlata alla cauzione provvisoria, occorre ribadire che la
violazione ora indicata è sanzionata con l'esclusione
dall'art. 75, comma 8, del Cod. dei contratti, dal quale è
previsto come corredo necessario dell'offerta e riflette le
esigenze sottese alla previsione dell'art. 46, comma 1-bis,
del d.l.vo 2006 n. 163.
La stessa lex specialis di gara
(punto A.4) –lungi, secondo la non condivisibile prospettazione di parte ricorrente, dallo smentire tale
ricostruzione– limita l’attività di postuma
regolarizzazione alle sole situazioni di “difformità” (non
riconducibili alla diversa ipotesi di radicale carenza) ed
in relazione soltanto a quanto previsto “ai fini della
presentazione per il deposito cauzionale”.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che:
1) l'art.
75, comma 1, del d.l.vo n. 163 del 2006 prevede che
l'offerta è corredata da una garanzia, pari al due per cento
del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto
forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente
e il successivo comma 6 indica che la garanzia copre la
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario ed è svincolata automaticamente al momento
della sottoscrizione del contratto medesimo. L'art. 75,
comma 8, invece, prevede che l'offerta è altresì corredata,
"a pena di esclusione", dall'impegno di un fideiussore a
rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del
contratto, di cui all'art. 113, qualora l'offerente
risultasse affidatario;
2) la diversa formulazione delle due norme consente di
ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata presentazione
della cauzione provvisoria, al contrario dell'impegno per la
cauzione definitiva, previsto "a pena di esclusione", che
garantisce l'impegno più consistente della corretta
esecuzione del contratto e giustifica, in caso di omissione,
l'esclusione dalla gara (cfr. ex multis, Consiglio di Stato,
sez. III, 01.02.2012, n. 493);
3) insomma, la diversa formulazione letterale del comma 6,
in relazione al comma 8, dell'art. 75 rende evidente
l'intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata
prestazione della cauzione provvisoria e non la mancata
presentazione dell'impegno di un fideiussore a garantire
l'esecuzione del contratto, impegno ben più consistente,
essendo riferito all'integrale adempimento delle
obbligazioni contrattuali (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II,
19.04.2013, n. 3983; TAR Lazio Roma, sez. III, 20.11.2013, n. 9939; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 19.03.2013, n. 647; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 23.12.2013, n. 2595).
Ne consegue che la giurisprudenza (cfr. da ultimo TAR Lazio-Roma, sez. II, 30/11/2015, n. 13503), con
argomentazioni e conclusioni qui pienamente condivise, ha
ammesso che, “mentre la norma sulla cauzione provvisoria va
intesa nel senso che la stazione appaltante non può
escludere il concorrente che abbia presentato una cauzione
di importo non sufficiente o connotata da altre
irregolarità, dovendosi consentire, in tali casi, in
applicazione del c.d. soccorso istruttorio di cui all'art.
46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, la regolarizzazione
della cauzione prodotta, al contrario la mancata
presentazione dell'impegno di un fideiussore a rilasciare la
garanzia per l'esecuzione del contratto integra una causa
testuale di esclusione, coerente con il canone della
tassatività posto dall'art. 46, comma 1-bis, del d.l.vo 2006
n. 163”.
Nel caso che occupa, non si verte in un'ipotesi di necessità
di successiva regolarizzazione della garanzia, in quanto, al
momento della presentazione dell'offerta, questa si
manifestava priva del necessario corredo e non invece
accompagnata da una garanzia insufficiente.
Dalle letture ermeneutiche sopra riportate si può far
discendere, dunque, per quanto qui interessa, che
l'esclusione è giustificata dall'incompletezza dell'offerta
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 27.10.2016 n. 4988 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
Va premesso in punto di diritto che se è vero che
in ordine all’apprezzamento discrezionale —insindacabile nel
merito— la cognizione del Giudice Amministrativo deve
ritenersi piena (in conformità all’indirizzo
giurisprudenziale formatosi a partire dalla nota decisione
del Consiglio di Stato, sez. IV, 09.04.1999, n. 601, in cui
si chiarisce come il sindacato giurisdizionale non possa
essere limitato ad un esame estrinseco della valutazione
discrezionale, secondo i noti parametri di logicità,
congruità e completezza dell’istruttoria, dovendo invece
l’oggetto del giudizio estendersi alla esatta valutazione
del fatto, secondo i parametri della disciplina nella
fattispecie applicabile), nondimeno ciò deve aver luogo
senza prescindere dalla priorità che deve essere accordata
alle scelte dell’Amministrazione, ove di tali scelte —pur
opinabili— sia comunque pienamente comprensibile la logica
interna, sulla base di circostanze di fatto non smentite da
chi vi abbia interesse, o di mere affermazioni difensive,
che non possono costituire di per sé principio di prova, su
questioni scientificamente complesse.
---------------
Parimenti infondata si presenta la seconda serie di
doglianze volte a conseguire, in un’ottica strumentale di
interesse alla ripetizione della gara in presenza di sue
soli partecipanti, l’esclusione dell’offerta dell’odierna
controinteressata per significativa divergenza della stessa
rispetto ai requisiti tecnici richiesti dai documenti di
gara.
Al riguardo va premesso in punto di diritto che se è vero
che in ordine all’apprezzamento discrezionale —insindacabile nel merito— la cognizione del Giudice
Amministrativo deve ritenersi piena (in conformità
all’indirizzo giurisprudenziale formatosi a partire dalla
nota decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 09.04.1999, n.
601, in cui si chiarisce come il sindacato giurisdizionale
non possa essere limitato ad un esame estrinseco della
valutazione discrezionale, secondo i noti parametri di
logicità, congruità e completezza dell’istruttoria, dovendo
invece l’oggetto del giudizio estendersi alla esatta
valutazione del fatto, secondo i parametri della disciplina
nella fattispecie applicabile); nondimeno ciò deve aver
luogo senza prescindere dalla priorità che deve essere
accordata alle scelte dell’Amministrazione, ove di tali
scelte —pur opinabili— sia comunque pienamente
comprensibile la logica interna, sulla base di circostanze
di fatto non smentite da chi vi abbia interesse, o di mere
affermazioni difensive, che non possono costituire di per sé
principio di prova, su questioni scientificamente complesse
(cfr. di recente Consiglio di Stato, sez. VI, sent.
23/03/2016, n. 1196).
Orbene, nella specie, con riguardo alle dedotte difformità
rispetto sia al requisito della risoluzione della proiezione
(4K) che di illuminazione della struttura, si rileva di
contro come per un verso non vi sia alcun diretto ed
evidente contrasto con quanto indicato nel disciplinare,
soddisfacendo l’offerta dell’odierna controinteressata i
parametri tecnici minimi ivi indicati; e, per altro verso,
la contestazione si risolva in una soggettiva gradazione di
profili qualitativi che, in assenza di profili di erroneità
o evidente irragionevolezza, tendono a risolversi in
un’inammissibile sostituzione delle valutazioni operate
dalla pubblica amministrazione.
In definitiva il ricorso principale va respinto di talché
non vi è interesse alla disanima delle censure formulate, in
chiave esclusivamente paralizzante, in sede di ricorso
incidentale che pertanto va dichiarato improcedibile
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 27.10.2016 n. 4988 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Per le
gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l'obbligo di
indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non
sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in
contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta
rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione
del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo
stesso sia stato invitato a regolarizzare.
---------------
1. E’ fondato ed
assorbente delle altre censure il secondo motivo di gravame
con il quale è denunciata la violazione dei principi del
favor partecipationis, di ragionevolezza,
proporzionalità ed adeguatezza dell'azione amministrativa,
nonché affermata la doverosa applicazione del soccorso
istruttorio.
1.1. La statuizione del TAR è invero conforme alle
indicazioni dettate in funzione nomofilattica dalle Adunanze
Plenarie, 20.03.2015, n. 3 e 02.11.2015, n. 9.
In particolare, al tempo della decisione di prime cure,
l’Adunanza plenaria n. 3 del 2015 aveva chiarito che in
tutti gli appalti (anche in quelli di lavori) vi era
l’obbligo, a pena di esclusione, di indicare nell’offerta
economica gli oneri di sicurezza, specificando altresì che
essi costituivano un elemento essenziale dell’offerta e che,
quindi, la loro mancata indicazione non era sanabile
mediante il soccorso istruttorio.
L’Adunanza plenaria n. 9 del 2015 aveva inoltre affermato
che tale principio, stante la natura dichiarativa e non
costitutiva dell’interpretazione giurisprudenziale, avrebbe
dovuto valere anche per gare in cui la fase di presentazione
delle offerte si fosse esaurita prima della pubblicazione
dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2015.
1.2. Nelle more del giudizio d’appello si è tuttavia
nuovamente pronunciata l’Adunanza Plenaria, affrontando, in
particolare, i profili della compatibilità con il diritto
dell’Unione Europea della soluzione adottata con la sentenza
n. 9 del 2015. All’esito di una compiuta ed approfondita
ricognizione dei principi comunitari, essa ha ritenuto che “l’automatismo
dell’effetto escludente si ponga in contrasto con i principi
di certezza del diritto, tutela dell’affidamento, nonché con
quelli, che assumono particolare rilievo nell’ambito delle
procedure di evidenza pubblica, di trasparenza,
proporzionalità e par condicio”.
Muovendo dal recente indirizzo della Corte di giustizia
(Sesta Sezione, sentenza 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo),
ha, per quanto qui rileva, concluso con il seguente
principio di diritto “per le gare bandite anteriormente
all'entrata in vigore del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nelle
ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi
di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge
di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista
sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza
aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere
disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a
regolarizzare…”.
2. Il collegio ritiene che non vi siano motivi per
discostarsi da tale autorevole e recente arresto.
3. Ne consegue, in riforma della sentenza gravata, il
rigetto del ricorso introduttivo di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 27.10.2016 n. 4527 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza formatasi sulla norma statale (art. 34 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380) ha chiarito che “…il primo atto
del procedimento per la repressione di abusi edilizi è
costituito dalla diffida dell'autorità comunale al
responsabile dell'opera, perché demolisca, adeguandosi
spontaneamente all'ordine di ripristino della legalità
edilizia, restando all'amministrazione la successiva scelta
della sanzione pecuniaria o della demolizione, in ragione
delle concrete esigenze della fattispecie"; con la
conseguenza che l'ingiunzione di demolizione costituisce la
prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in
quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di
tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria…”.
Inoltre, la giurisprudenza ha affermato che la sanzione
pecuniaria va applicata “soltanto nel caso in cui sia
oggettivamente impossibile procedere alla demolizione” e che
“il privato sanzionato con l’ordine di demolizione per la
costruzione di un’opera edilizia abusiva non può invocare
l’applicazione in suo favore dell’art. 34, comma 2, del
D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), che comporta
l’applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in
cui l’ingiunta demolizione non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull’utilizzazione del bene
residuo, perché per impedire l’applicazione della sanzione
demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante
parte dell’edificio, consistente in una menomazione
dell’intera stabilità del manufatto”.
---------------
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce l’illegittimità
del provvedimento impugnato per violazione e falsa
applicazione degli artt. 80 e sss. della legge provinciale
n. 13 del 1997 e per eccesso di potere, sotto i profili
della erroneità della motivazione, del travisamento dei
fatti e del difetto istruttorio.
Il ricorrente afferma che il Comune di San Pancrazio avrebbe
dovuto, anziché ordinare la demolizione delle opere,
limitarsi ad applicare una sanzione amministrativa, come
previsto dall’art. 83, comma 2, della legge provinciale n.
13 del 1997, visto che “risulta pacifico che le opere di
cui si chiede la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio per la parte eseguita in conformità”.
La censura non è fondata.
L’art. 83 della legge provinciale n. 13 del 1997 (“Opere
eseguite in parziale difformità dalla concessione”),
così recita: “1. Le opere eseguite in parziale difformità
dalla concessione sono demolite a cura e spese dei
responsabili dell'abuso entro il termine congruo, e comunque
non oltre 120 giorni, fissato dalla relativa ordinanza del
sindaco. Dopo tale termine sono demolite a cura del comune e
a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il sindaco applica una
sanzione pari al doppio del costo di costruzione, stabilito
in base all'articolo 73 della parte dell'opera realizzata in
difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari
al doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio
estimo provinciale, per le opere adibite ad usi diversi da
quello residenziale”.
Osserva il Collegio che la norma citata suddivide il
procedimento amministrativo in due fasi distinte: una prima
fase (disciplinata dal comma 1), avente natura vincolata,
nella quale il Sindaco diffida il responsabile a demolire le
opere eseguite in parziale difformità alle concessioni
edilizie, e una successiva fase, avente natura
discrezionale, in cui, su richiesta del responsabile e
previa dimostrazione da parte dello stesso del requisito
dell’impossibilità di demolire le opere senza recare
pregiudizio alle parti eseguite in conformità, il Sindaco
applica la sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di
costruzione, stabilito in base all’art. 73 della stessa
legge.
La giurisprudenza formatasi sulla corrispondente norma
statale (art. 34 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380), di pari
tenore per quanto concerne il procedimento da seguire, ha
chiarito che “…il primo atto del procedimento per la
repressione di abusi edilizi è costituito dalla diffida
dell'autorità comunale al responsabile dell'opera, perché
demolisca, adeguandosi spontaneamente all'ordine di
ripristino della legalità edilizia, restando
all'amministrazione la successiva scelta della sanzione
pecuniaria o della demolizione, in ragione delle concrete
esigenze della fattispecie"; con la conseguenza che
l'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria…” (cfr. TAR
Brescia, Sez. I, 27.07.2011, n. 1205).
Inoltre, la giurisprudenza ha affermato che la sanzione
pecuniaria va applicata “soltanto nel caso in cui sia
oggettivamente impossibile procedere alla demolizione”
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912) e
che “il privato sanzionato con l’ordine di demolizione
per la costruzione di un’opera edilizia abusiva non può
invocare l’applicazione in suo favore dell’art. 34, comma 2,
del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), che comporta
l’applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in
cui l’ingiunta demolizione non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull’utilizzazione del bene
residuo, perché per impedire l’applicazione della sanzione
demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante
parte dell’edificio, consistente in una menomazione
dell’intera stabilità del manufatto” (cfr. TAR Sicilia,
Catania, Sez. I, 15.04.2016, n. 1038; nello stesso senso,
Tar Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.01.2015, n. 43, TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 03.02.2015, n. 759 e TAR Lazio,
Roma, Sez. I-quater, 27.05.2013, n. 5277).
Orbene, considerato che il provvedimento impugnato concerne
la prima fase del procedimento repressivo (art. 83, comma 1,
L.P. n. 13/1997) la censura del ricorrente non è pertinente.
In ogni caso, qualora il ricorrente intenda far valere
all’Amministrazione comunale l’applicazione dell’art. 83,
comma 2 della citata legge provinciale n. 13/1997, può
presentare al Comune di San Pancrazio un’apposita istanza,
corredata dalla documentazione idonea a dimostrare, sul
piano tecnico, che la demolizione delle parti eseguite in
difformità dalle concessioni edilizie non può avvenire senza
pregiudizio delle parti eseguite in conformità. Spetterà poi
all’Amministrazione comunale valutare tale prova e decidere
sulla relativa istanza del ricorrente
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 26.10.2016 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
pronuncia di decadenza di un permesso di costruire, in
particolare allorquando consegua ad una comunicazione di
avvio dei lavori e si fondi sulla qualificazione difforme
tra le parti di opere eseguite, debba necessariamente essere
preceduta da comunicazione di avvio del procedimento ai
sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, senza che a
ciò osti la natura vincolata del provvedimento di decadenza.
Come ha chiaramente rilevato il Consiglio di Stato
“riferendosi la misura di decadenza ad un titolo in virtù
del quale sono comunque iniziate e si sono realizzate opere,
una comunicazione di avvio del procedimento in cui fossero
adeguatamente precisati i presupposti che inducevano
l’amministrazione a ritenere invece il mancato inizio
sarebbe stata in grado (oltre a fornire un adeguato
preavviso a chi aveva confidato di operare secondo diritto
in virtù della copertura fornita dal permesso e del silenzio
tenuto dall’Amministrazione….) di avviare un utile
contraddittorio sui presupposti del provvedimento e di
consentire alla stessa amministrazione di fornire
un’adeguata motivazione a supporto della sua azione”.
---------------
Nella specie la comunicazione di avvio del procedimento di
decadenza è mancata, così come è mancata la comunicazione
dei motivi ostativi rispetto all’istanza di variante.
Né appare che la violazione delle norme procedimentali di
cui agli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 possa
essere supplita dalla indicazione contenuta nel
provvedimento gravato nella quale si afferma che “le
eventuali osservazioni e/o memorie scritte inerenti il
procedimento in oggetto dovranno essere depositate entro e
non oltre 10 gg. dal ricevimento della presente”; il senso
della previsione non è chiaro, essendo contenuto non in atto
endo-procedimentale emesso nel corso del procedimento, bensì
nel provvedimento finale, assunto al termine del
procedimento, così che le osservazioni e memorie
eventualmente presentate dal privato non avrebbero
possibilità alcuna di essere valutate nel procedimento che è
ormai chiuso, potendo al più condurre ad una rivalutazione
nell’ambito di nuovo e successivo procedimento di
autotutela.
----------------
Nella declaratoria di decadenza del permesso di costruire,
ove l'assunto è contenuto -peraltro- in motivazione assai
sintetica secondo cui non vi sarebbe stato avvio dei lavori
in quanto i pilastri di fondazione, pur effettivamente
rinvenuti, non corrisponderebbero al progetto assentito, la
motivazione non pare sufficiente a negare che vi sia stato
un “inizio dei lavori”, ai sensi dell’art. 15 del DPR n. 380
del 2001, giacché non risulta una inerzia totale, indice di
mancanza di volontà di dar corso ai lavori assentiti, ma
semmai una difformità tra opere assentite e opere
realizzate, che potrà condurre al altri provvedimenti
dell’Amministrazione ma non ad una pronuncia di decadenza.
---------------
7 – Con il secondo e decimo motivo, che devono essere
congiuntamente esaminati, i ricorrenti contestano il gravato
provvedimento per violazione delle norme sulla
partecipazione procedimentale (artt. 7 e art. 10-bis della
legge n. 241 del 1990) e contestano altresì la previsione
contenuta dell’atto inerente alla possibile presentazione di
memorie e documenti dopo l’emanazione dell’atto stesso.
Le censure sono fondate.
Ritiene in primo luogo il Collegio che una pronuncia di
decadenza di un permesso di costruire, in particolare
allorquando consegua ad una comunicazione di avvio dei
lavori e si fondi sulla qualificazione difforme tra le parti
di opere eseguite, com’è nella specie, debba necessariamente
essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento
ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, senza che
a ciò osti la natura vincolata del provvedimento di
decadenza.
Come ha chiaramente rilevato il Consiglio di
Stato “riferendosi la misura di decadenza ad un titolo in
virtù del quale sono comunque iniziate e si sono realizzate
opere, una comunicazione di avvio del procedimento in cui
fossero adeguatamente precisati i presupposti che inducevano
l’amministrazione a ritenere invece il mancato inizio
sarebbe stata in grado (oltre a fornire un adeguato
preavviso a chi aveva confidato di operare secondo diritto
in virtù della copertura fornita dal permesso e del silenzio
tenuto dall’Amministrazione….) di avviare un utile
contraddittorio sui presupposti del provvedimento e di
consentire alla stessa amministrazione di fornire
un’adeguata motivazione a supporto della sua azione”
(Cons. Stato, sez. III, 04.04.2013, n. 1870).
Nella specie la comunicazione di avvio del procedimento di
decadenza è mancata, così come è mancata la comunicazione
dei motivi ostativi rispetto all’istanza di variante.
Né
appare che la violazione delle norme procedimentali di cui
agli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 possa
essere supplita dalla indicazione contenuta nel
provvedimento gravato nella quale si afferma che “le
eventuali osservazioni e/o memorie scritte inerenti il
procedimento in oggetto dovranno essere depositate entro e
non oltre 10 gg. dal ricevimento della presente”; il
senso della previsione non è chiaro, essendo contenuto non
in atto endo-procedimentale emesso nel corso del
procedimento, bensì nel provvedimento finale, assunto al
termine del procedimento, così che le osservazioni e memorie
eventualmente presentate dal privato non avrebbero
possibilità alcuna di essere valutate nel procedimento che è
ormai chiuso, potendo al più condurre ad una rivalutazione
nell’ambito di nuovo e successivo procedimento di
autotutela; si aggiunga che il richiamo alla sentenza del
Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4823 del 2015, contenuto
nella memoria difensiva comunale a suffragio della condotta
dell’ufficio, è anch’esso non convincente, quella pronuncia
affermando la necessaria emanazione di atto formale di
decadenza, che per quanto meramente dichiarativo ha comunque
la funzione di far chiarezza nei rapporti tra le parti, ma
non essendo da intendere come giustificativa di un
contraddittorio “dopo il provvedimento”, bensì
nell’utilità in sé del provvedimento anche meramente
dichiarativo in quanto emesso in esito allo svolgimento di
un contradditorio (previo) tra le parti.
8 – Con il quarto motivo i ricorrenti censurano il
provvedimento gravato, sul rilievo della insussistenza dei
presupposti per la declaratoria di decadenza del titolo
edilizio.
La censura è fondata.
Osserva il Collegio che non appare nella specie convincente
l’assunto dell’Amministrazione, contenuto peraltro in
motivazione assai sintetica, secondo cui non vi sarebbe
stato avvio dei lavori, in quanto i pilastri di fondazione,
pur effettivamente rinvenuti, non corrisponderebbero al
progetto assentito.
Ciò non pare sufficiente a negare che vi
sia stato un “inizio dei lavori”, ai sensi dell’art.
15 del DPR n. 380 del 2001, giacché non risulta una inerzia
totale, indice di mancanza di volontà di dar corso ai lavori
assentiti, ma semmai una difformità tra opere assentite e
opere realizzate, che potrà condurre al altri provvedimenti
dell’Amministrazione ma non ad una pronuncia di decadenza.
Ciò anche per la mancanza di articolata motivazione in
ordine alla tempistica di realizzazione delle opere
rinvenute e alla conseguente dimostrazione della inerzia di
parte ricorrente dopo l’assentimento del permesso di
costruire n. 14 del 2012
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 25.10.2016 n. 1537 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare:
solo la mancata dimostrazione del pagamento del contributo
Anac comporta l’esclusione.
Ancorché il mancato pagamento del
contributo previsto dell'art. 1, commi 65 e 67, della l.
23.12.2005, n. 266, costituisca causa di esclusione,
l’estromissione dalla gara si giustifica solamente nei casi
in cui il versamento della somma prescritta sia stato
completamente omesso ma non qualora esso sia stato eseguito
modalità diverse da quelle impartite dall'Autorità stessa.
Di tale principio è stata fatta applicazione anche in una
fattispecie nella quale il partecipante non aveva indicato
nella ricevuta il codice GIG identificativo della gara alla
quale il contributo si riferiva
---------------
Il ricorso per motivi aggiunti è fondato.
Il Collegio concorda con i pareri più volte espressi dalla
Autorità Anticorruzione in base ai quali ancorché il mancato
pagamento del contributo previsto dell'art. 1, commi 65 e
67, della l. 23.12.2005, n. 266, costituisca causa di
esclusione, l’estromissione dalla gara si giustifica
solamente nei casi in cui il versamento della somma
prescritta sia stato completamente omesso ma non qualora
esso sia stato eseguito modalità diverse da quelle impartite
dall'Autorità stessa (parere di precontenzioso n. 199 del
20/11/2013).
Di tale principio è stata fatta applicazione anche in una
fattispecie nella quale il partecipante non aveva indicato
nella ricevuta il codice GIG identificativo della gara alla
quale il contributo si riferiva (Parere n. 156 del
20.12.2007).
Nel caso di specie la ricorrente non ha omesso di versare il
contributo né ha mancato di fornire alla stazione appaltante
la relativa dimostrazione ma ha semplicemente indicato nella
ricevuta prodotta un codice GIG errato in quanto
corrispondente ad un lotto di gara diverso.
Tale errore, tuttavia, non pregiudicava l’idoneità della
documentazione prodotta a comprovare l’avvenuto pagamento in
quanto era facilmente intuibile (con l’uso della normale
diligenza) che l’indicazione di un diverso codice
identificativo si dovesse attribuire ad un errore materiale
in quanto lo stesso contrassegnava una procedura di
aggiudicazione riferita alla fornitura di un prodotto che la
Ip. nemmeno commercializza ed alla quale la stessa non ha,
conseguentemente, partecipato.
Del resto Es., qualora avesse avuto in proposito dei dubbi,
ben avrebbe potuto chiarire la questione esercitando i
poteri di soccorso istruttorio senza per questo violare il
principio della par condicio
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.10.2016 n. 1545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza è costante nell’affermare che “allorché sia
controversa la legittimità di un provvedimento fondato su
una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti,
l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di
esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che
diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di
interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti
ragioni”.
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi e più di
recente ha ribadito che “In caso di provvedimento
plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare
una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di
interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori
doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente” ed inattaccabile.
---------------
3.1. Con il primo si duole che l’annullamento in autotutela
della dia del 02.04.2007 e il rigetto delle predette istanze
di accertamento di conformità e di autorizzazione alla
riduzione in pristino non sia stato preceduto dalla
comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10–bis, L. n.
241/1990, privando l’interessata del prescritto contradittorio procedimentale.
2.3. La doglianza è infondata in fatto e va disattesa.
Risulta, infatti, dal corpo del provvedimento che la
Mo. sia più volte intervenuta nel corso del
procedimento preordinato all’adozione del provvedimento
impugnato.
Invero si dà in esso atto che l’istante presentava richiesta
di riesame del provvedimento dell’U.T.C. prot. 10462 del
05.05.2009 con cui le si comunicava il parere contrario della
Commissione edilizia di cui al verbale n. 16 del 28.04.2009,
secondo il quale non risultava l’esistenza sul fondo di
alcuna preesistenza edilizia.
La ricorrente presentava, dunque, richiesta di riesame il
07.05.2009, prot. 10761, allegando invece la “sussistenza, su
terreno acquistato in atto del 2005, di un manufatto non
censito in catasto”.
Di poi, sempre il provvedimento all’esame, dà ulteriormente
atto di una nuova richiesta di riesame in autotutela
presentata dall’interessata il 16.09.2009 prot. 13765.
Contrariamente a quanto assume la ricorrente nessuna lesione
delle garanzie partecipative ovvero privazione delle stesse
è dato, dunque, al Collegio ravvisare a carico del
provvedimento impugnato.
3.1. Il secondo mezzo, con il quale
si lamenta, tra l’altro, travisamento dei fatti,
sostenendosi che non è esatto che sul terreno de quo non
esistesse un precedente manufatto, ad avviso del Collegio è
inammissibile per difetto di interesse poiché la avversata
circostanza non è la sola ragione di diniego della richiesta
sanatoria, che, come ben si evince dal provvedimento, si
fonda, oltre che sulla contestata inesistenza di precedente
manufatto, su una pluralità di motivi (esistenza sull’area
dei vincoli ex d.lgs. n. 42 del 2004 e di c.d. zona rossa ex
L. R. n. 21/2003 nonché a quelli di cui alla L. n. 374/1991, Perimetrazione del Parco nazionale del Vesuvio – zona “2”;
non qualificabilità degli interventi come manutenzione
ordinaria o straordinaria e conseguente divieto di
accertamento della compatibilità paesaggistica ex art. 167,
co. 5, D.lgs. n. 42 del 2004; sottoposizione dell’intero
territorio comunale al rischio sismico - S9 -).
3.2. Al riguardo giova rammentare che la giurisprudenza è
costante nell’affermare che “allorché sia controversa la
legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di
ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento
dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a
sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in
sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le
doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005, n. 2767; in termini
anche TAR Liguria, Sez. I, 17.03.2006, n. 252; TAR
Basilicata, Sez. I, 28.6.2010, n. 456).
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi (TAR
Campania-Napoli, Sez. III, 09.07.2012 n. 3300 e TAR
Campania-Napoli, Sez. III, 27.09.2013 n. 4450) e più di
recente ha ribadito che “In caso di provvedimento plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare
una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di
interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori
doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente” (TAR Campania-Napoli, sez. III, 22/10/2015,
n. 4972) ed inattaccabile
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tra gli interventi di ristrutturazione edilizia
sono soggetti a permesso di costruire e pertanto
sanzionabili a norma dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001,
ai sensi dell'art. 10, d.P.R. n. 380 citato comma 1, lett.
c), gli interventi che portino ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino
aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della
sagoma, dei prospetti o delle superfici.
---------------
4.1. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta che
erroneamente il Comune ha ingiunto la demolizione del
fabbricato in questione, avendo ella realizzato lavori che
al più rientrerebbero nella categoria edilizia della
ristrutturazione che non porta ad un organismo edilizio
diverso dal precedente e che pertanto è sono soggetti al
regime della D.I.A. ex art. 22, D.P.R. n. 380 del 2001.
La
conseguenza che da tale assunto l’esponente fa discendere è
l’applicazione ai suoi interventi edilizi, della sola
sanzione pecuniaria prescritta per opere eseguite in assenza
di d.i.a. dall’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
4.2. Ad avviso del Collegio tale doglianza è infondata, e va
pertanto disattesa, anzitutto per assenza di prova in ordine
all’asserita natura, dei lavori in controversia, di
ristrutturazione senza creazione di un organismo edilizio
diverso dal precedente sostenuta dalla deducente.
Rimarca, anzi il Collegio, che dalla stessa produzione della
parte ricorrente emergono elementi di prova di opposto
segno, militanti nel senso che il fabbricato edificato a
seguito della demolizione e ricostruzione del “comodo rurale
preesistente sul fondo”, consista in un quid novi ossia in
un edificio diverso dal preesistente, quanto meno in termini
di maggior volume ed incrementata superficie.
Invero, dalla relazione tecnica allegata all’istanza di
ripristino dello stato dei luoghi presentata al Comune il
28.10.2008 (doc. 6 del ricorso), si evince che le tabelle
“superfici e volumi” raffigurano prima dell’intervento (pag.
4 relazione cit.) un “comodo rurale” avente, prima
dell’intervento, una superficie coperta totale pari a mq.
65, 10 ed un volume totale pari a mc. 198,56, mentre la
medesima tabella sullo “stato attuale” post intervento (pag.
8, relazione cit.) descrive un immobile avente una
superficie coperta totale di mq. 94,88, ossia incrementata
di circa 30 mq. rispetto a quella preesistente.
Non può quindi sostenersi l’identità del manufatto, con il
che è provata la sua assoggettabilità non a d.i.a. ma a
permesso di costruire.
Dalla rilevata infondatezza in fatto della prospettazione di
parte ricorrente consegue l’infondatezza della censura anche
in diritto alla luce del combinato disposto di cui agli
artt. 10, comma 1 (che stabilisce la necessità del permesso
di costruire), lett. c) (che definisce gli interventi di
ristrutturazione edilizia soggetti al permesso di costruire)
e 33 (che stabilisce la relativa sanzione) del Testo Unico
sull’edilizia.
Soccorre al riguardo la giurisprudenza del Tribunale,
secondo cui “Tra gli interventi di ristrutturazione edilizia
sono soggetti a permesso di costruire e pertanto
sanzionabili a norma dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001,
ai sensi dell'art. 10, d.P.R. n. 380 citato comma 1, lett.
c), gli interventi che portino ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino
aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della
sagoma, dei prospetti o delle superfici” (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 16.07.2013 n. 3708 ).
Tuttavia nella specie, come si è detto, è da escludere che
l’intervento in questione fosse di ristrutturazione edilizia
che presuppone la dimostrazione di una demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma del
manufatto preesistente
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pacifica giurisprudenza predica che il reclamato
giudizio ed accertamento sulla fattibilità tecnica della
demolizione costituisce incombente della fase esecutiva
dell’ordine demolitorio, la quale scatta solo ove il
destinatario dello stesso non esegua l’ingiunzione a
demolire impartita dal Comune.
In argomento la Sezione ha da tempo sancito che “La
valutazione circa la possibilità di dar corso alla sanzione
pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, disciplinata
dall'art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, costituisce
una mera eventualità della fase esecutiva, successiva
all'atto di diffida a demolire. Conseguentemente, l'esito
negativo di tale valutazione non può costituire un vizio
dell'ordine di demolizione ma, al più, della fase di
esecuzione in danno”.
Tale opzione è stata poi seguita in giurisprudenza,
essendosi ribadito che “La sanzione ripristinatoria
costituisce il rimedio ordinario di reazione contro l'abuso
edilizio, mentre l'applicazione della sanzione pecuniaria
sostitutiva rappresenta solo un'ipotesi subordinata, come si
evince dalla normativa di riferimento (oggi, art. 33 comma
2, d.P.R. n. 380 del 2001)”.
L’orientamento di questo Tribunale è pacificamente attestato
sulla delineata esegesi, avendo anche di recente affermato,
in termini anche più rigorosi, che “L'ingiunzione di
demolizione costituisce, anche rispetto alla fattispecie di
cui all'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, la prima e
obbligatoria fase del procedimento repressivo: la norma in
argomento individua, infatti, come prima opzione
sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma
della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo
autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo
semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà
tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di
irrogare la sanzione pecuniaria. Tale evenienza rileva,
appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza
nell'ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale
presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non
può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino”.
Il rassegnato indirizzo corrisponde ormai ad una tesi
diffusa in giurisprudenza: “Il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del
2001) può essere effettuato soltanto quando il soggetto
privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (questa volta non
indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi
dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in
materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto,
soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria”.
---------------
5.1. Con il quarto motivo la deducente si duole che
quand’anche dovesse invece ritenersi l’intervento per cui è
causa da ascrivere alla categoria della ristrutturazione
edilizia con creazione di un organismo diverso, il Comune
avrebbe dovuto sanzionarlo in forza non dell’art. 31 bensì
dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che
non possa essere irrogata la sanzione della demolizione
qualora “il ripristino dello stato dei luoghi non sia
possibile” senza pregiudizio della parte conforme.
L’impugnata ordinanza è dunque illegittima perché adottata
senza il previo accertamento della fattibilità tecnica della
demolizione senza pregiudizio della parte di opera conforma.
5.2. A parere del Collegio tale doglianza –a parte ogni
considerazione sull’inapplicabilità dell’art. 33, invocato
dalla ricorrente in via subordinata- è comunque infondata
in diritto siccome contraddetta da pacifica giurisprudenza,
espressa anche dalla Sezione, che predica che il reclamato
giudizio ed accertamento sulla fattibilità tecnica della
demolizione costituisce incombente della fase esecutiva
dell’ordine demolitorio, la quale scatta solo ove il
destinatario dello stesso non esegua l’ingiunzione a
demolire impartita dal Comune.
In argomento la Sezione ha da tempo sancito che “La
valutazione circa la possibilità di dar corso alla sanzione
pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, disciplinata
dall'art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, costituisce
una mera eventualità della fase esecutiva, successiva
all'atto di diffida a demolire. Conseguentemente, l'esito
negativo di tale valutazione non può costituire un vizio
dell'ordine di demolizione ma, al più, della fase di
esecuzione in danno” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 10.05.2010 n. 3420).
Tale opzione è stata poi seguita in giurisprudenza,
essendosi ribadito che “La sanzione ripristinatoria
costituisce il rimedio ordinario di reazione contro l'abuso
edilizio, mentre l'applicazione della sanzione pecuniaria
sostitutiva rappresenta solo un'ipotesi subordinata, come si
evince dalla normativa di riferimento (oggi, art. 33 comma
2, d.P.R. n. 380 del 2001)” (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
04.04.2013, n. 471).
5.3. L’orientamento di questo Tribunale è pacificamente
attestato sulla delineata esegesi, avendo anche di recente
affermato, in termini anche più rigorosi, che “L'ingiunzione
di demolizione costituisce, anche rispetto alla fattispecie
di cui all'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, la prima e
obbligatoria fase del procedimento repressivo: la norma in
argomento individua, infatti, come prima opzione
sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma
della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo
autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo
semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà
tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di
irrogare la sanzione pecuniaria. Tale evenienza rileva,
appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza
nell'ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale
presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non
può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 17.04.2015 n. 2203).
Il rassegnato indirizzo corrisponde ormai ad una tesi
diffusa in giurisprudenza: “Il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto quando il soggetto privato
non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (questa volta non
indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi
dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in
materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto,
soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 31.10.2014, n. 2648) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha coerentemente precisato che
“Alle opere abusive realizzate
prima della modifica dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004
introdotta dall'art. 27, comma 1, d.lgs. 24.03.2006 n. 157
rimane applicabile il regime previgente, che consentiva
all'Amministrazione di scegliere tra la rimessione in
pristino e il risarcimento del danno ambientale”.
Si è anche condivisibilmente puntualizzato che “Per gli
immobili in area vincolata, anche l'art. 33, comma 3, D.P.R.
n. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia
pur indicando criteri e modalità diretti a ricostruire
l'originario organismo edilizio”.
---------------
6.1. Con il quinto motivo, con cui si rubrica violazione ed
omessa applicazione dell’art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004, n.
42, la ricorrente sostiene che l’Autorità competente avrebbe
dovuto operare una scelta, preceduta dalla necessaria
istruttoria, tra la sanzione demolitoria e quella
pecuniaria, poiché l’art. 167, D.Lgs. n. 42 del 2004 ha
previsto, per gli abusi compiuti in zone vincolate,
l’alternativa tra la riduzione in pristino e il pagamento di
un’indennità commisurata alla maggior somma tra il danno
ambientale arrecato all’immobile e il profitto conseguito
mediante l’abuso.
6.2. Ritiene il Collegio che la censura sia infondata, e
vada pertanto disattesa, poiché la propugnata necessità di
scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria vigeva
per gli interventi abusivamente realizzati, su immobili
vincolati, prima della modifica dell’invocata norma, operata
con il d.lgs. n. 156 del 24.03.2006.
Il testo della norma in analisi, oggi, non consente né
legittima alcuna scelta, ma obbliga senz’altro l’autorità
procedente a comminare la demolizione dell’opera abusiva.
Il primo comma dell’art. 167, d.lgs. n. 42/2004 nel vigente
testo, ratione temporis applicabile all’abuso per cui è
causa siccome realizzato nel 2007, stabilisce infatti che
“In caso di violazione degli obblighi e degli ordini
previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è
sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”.
Segnala il Collegio che sul punto la giurisprudenza ha
coerentemente precisato che “Alle opere abusive realizzate
prima della modifica dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004
introdotta dall'art. 27, comma 1, d.lgs. 24.03.2006 n. 157
rimane applicabile il regime previgente, che consentiva
all'Amministrazione di scegliere tra la rimessione in
pristino e il risarcimento del danno ambientale” (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I, 05.10.2015, n. 1246).
Si è anche condivisibilmente puntualizzato che “Per gli
immobili in area vincolata, anche l'art. 33, comma 3, D.P.R.
n. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia
pur indicando criteri e modalità diretti a ricostruire
l'originario organismo edilizio” (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI, 06.02.2014 n. 785)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istituto dell’accertamento di conformità è
disciplinato dall'art. 36 del T.U., che consente la
presentazione dell’istanza di conservazione fino alla
scadenza dei termini di cui all’art. 31, comma 3, 33, comma
1, e 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle
sanzioni amministrative, concependo dunque l’stanza di
sanatoria come successiva alla notifica dell’ordine di
demolizione.
In presenza di un opera abusivamente realizzata
l’Amministrazione deve, quindi, senz’altro procedere ad
ordinarne la demolizione, non essendo tenuta a una
preventiva valutazione della sanabilità della stessa senza
che l’interessato abbia presentato l’istanza di sanatoria,
la cui produzione è rimessa esclusivamente ad una libera
scelta del destinatario dell’ordinanza di demolizione, il
quale potrebbe avere interesse a demolire l’opera piuttosto
che sopportare gli oneri economici derivanti della
presentazione di un’istanza di sanatoria
---------------
7.1. Con il sesto ed ultimo mezzo la deducente si duole che
il provvedimento impugnato non sia stato preceduto
dall’istruttoria tesa a verificare la previa sanabilità
dell’opera abusivamente realizzata.
7.2. La censura non persuade il Collegio e va disattesa, non
sussistendo a carico dell’autorità Comunale che abbia
accertato l’esecuzione di opere abusive, alcun previo onere
di valutazione della loro sanabilità in assenza di apposita
istanza dell’interessato.
La Sezione ha da tempo affermato il delineato principio
precisando al riguardo che “Coerentemente, invero,
l’istituto dell’accertamento di conformità è disciplinato
dal successivo art. 36 del T.U., che consente la
presentazione dell’istanza di conservazione fino alla
scadenza dei termini di cui all’art. 31, comma 3, 33, comma 1,
e 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni
amministrative, concependo dunque l’stanza di sanatoria come
successiva alla notifica dell’ordine di demolizione. In
presenza di un opera abusivamente realizzata
l’Amministrazione deve, quindi, senz’altro procedere ad
ordinarne la demolizione, non essendo tenuta a una
preventiva valutazione della sanabilità della stessa senza
che l’interessato abbia presentato l’istanza di sanatoria,
la cui produzione è rimessa esclusivamente ad una libera
scelta del destinatario dell’ordinanza di demolizione, il
quale potrebbe avere interesse a demolire l’opera piuttosto
che sopportare gli oneri economici derivanti della
presentazione di un’istanza di sanatoria” (TAR Campania-Napoli Sez. III,
09.07.2012, n. 3302)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
virtù del principio di tassatività delle cause di
esclusione, il superamento delle dimensioni dell’offerta
(non rileva se in forma cartacea o digitale) non può
costituire, di per sé, motivo per l’estromissione dalla
procedura dell’impresa che non vi si sia attenuta.
--------------
Devono, le norme del bando, essere interpretate secondo il
senso fatto palese dal loro testo e non ricercando
significati impliciti ed assegnando la prevalenza la
principio del favor partecipationis e all’affidamento dei
concorrenti.
--------------
considerato che:
- come rilevato da controparte il chiarimento menzionato
dalla ricorrente non risulta pubblicato sul sistema
telematico START e, dunque, non poteva essere conosciuto
dagli altri concorrenti e, comunque, tale limite non era
imposto a pena di esclusione dalla lex specialis di
gara;
- inoltre è consolidato ormai l’orientamento della
giurisprudenza secondo cui, in virtù del principio di
tassatività delle cause di esclusione, il superamento delle
dimensioni dell’offerta (non rileva se in forma cartacea o
digitale) non può costituire, di per sé, motivo per
l’estromissione dalla procedura dell’impresa che non vi si
sia attenuta (Cons. di Stato sez. V, 21.06.2012 n. 3677; TAR
Abruzzo, L'Aquila, 01.06.2016 n. 344; TAR Emilia-Romagna,
sez. I, 18.12.2014 n. 1242);
- in ogni caso non risulta dimostrato che la maggiore
ampiezza del file utilizzato dalla controinteressata abbia
determinato la possibilità di una più incisiva illustrazione
dell’offerta a cui di conseguenza sarebbe stata, per tale
sola ragione, attribuito il miglior punteggio;
- d’altra parte neppure la legge di gara sembra suscettibile
di univoca interpretazione riferendo alternativamente il
limite in parola “ad esempio all’offerta economica, alla
domanda di partecipazione e scheda di rilevazione relativa i
requisiti di ordine generale” dovendo perciò le norme
del bando essere interpretate secondo il senso fatto palese
dal loro testo e non ricercando significati impliciti ed
assegnando la prevalenza la principio del favor
partecipationis e all’affidamento dei concorrenti (ex
multis, Cons. Stato, sez. V, 12.05.2016 n. 1889; TAR
Emilia-Romagna, Parma 30.06.2016 n. 223);
ritenuto che:
- il ricorso risulta perciò, per tali profili, sprovvisto di
fondamento mentre gli altri motivi, una volta che sia
confermata l’aggiudicazione si palesano inammissibili per
carenza di interesse;
- in ogni caso, per le ragioni già esposte, non può
ritenersi che il sistema di gara attraverso la piattaforma
START abbia alterato gli esiti della procedura dal momento
che, a fronte dell’inesistenza di una clausola di
esclusione, il sistema non avrebbe potuto rifiutare di “caricare”
un file di dimensioni maggiori di quelle indicate nella
lettera d’invito, spettando alla commissione di gara ogni
valutazione in merito
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 24.10.2016 n. 1524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche la
semplice realizzazione di un soppalco, pur senza modifiche
volumetriche, determina
un incremento della superficie utile calpestabile, con
necessità di permesso
di costruire e conseguente configurabilità del reato
edilizio.
Ed invero, questa
Corte ha affermato che le cosiddette "opere interne" non
sono più previste nel
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di
intervento edilizio
sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di
ristrutturazione edilizia quando
comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei
volumi, dei prospetti
e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso.
---------------
L'apertura di "pareti finestrate" sulla
facciata di un edificio,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire,
integra il reato previsto
dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di
un intervento edilizio
comportante una modifica dei prospetti non qualificabile
come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale,
quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio
attività.
---------------
5. Tanto premesso, è sufficiente, nell'affrontare il primo
motivo, ripercorrere sinteticamente
la motivazione della sentenza impugnata per rendersi conto
dell'inammissibilità dei relativi profili di doglianza.
Dall'istruttoria era infatti emerso quanto segue:
a)
all'interno dell'immobile di
proprietà dell'imputato era stato creato -in difformità
della d.i.a. presentata, che
aveva per oggetto opere di manutenzione ordinaria e
straordinaria, con sostituzione
del solaio preesistente- un nuovo piano ammezzato, suddiviso
in due stanze
e due bagni mediante realizzazione di un soppalco
"intermedio" -così definito
dal tecnico comunale assunto quale teste ex art. 603 c.p.p.
all'udienza tenutasi
davanti alla Corte d'appello- nella realizzazione di una
scala interna che conduceva
al soppalco medesimo e di due finestre, definite come "luci"
dal predetto
tecnico, nonché, soprattutto, di un innalzamento del solaio
di copertura preesistente;
b) il tecnico, sentito dalla Corte d'appello al fine di
fornire gli opportuni
chiarimenti rispetto a quanto era stato argomentato nella
sentenza assolutoria
del primo giudice, aveva precisato categoricamente:
- che il
solaio di copertura era
stato innalzato, rispetto alla posizione originaria indicata
nei grafici allegati al
progetto, di 50 cm; che dai resti del solaio preesistente,
ancora presenti sui luoghi
al momento dell'accertamento, era stato possibile accertare
che nei grafici la
quota del solaio esistente era stata falsamente
rappresentata ad un'altezza di 80
cm., maggiore rispetto a quella effettivamente esistente
prima dei lavori, cosicché
alla fine l'altezza del nuovo solaio di copertura risultava
di fatto maggiore di
130 cm. rispetto a quello originario;
- che la maggiore
altezza di 25 cm. del nuovo solaio realizzato, la quale
aveva tratto in inganno il primo giudice, non lo era
rispetto
alla posizione del solaio originario così come indicata nei
grafici, bensì rispetto
all'altezza del solaio dell'edificio viciniore.
Pertanto,
precisavano i giudici
di appello, la sopraelevazione del solaio di copertura
realizzata -anche a voler
limitare ai soli 50 cm. indicati in contestazione-
unitamente all'apertura delle due
luci ed alla creazione del solaio intermedio (opere che nel
loro insieme avevano
permesso di ricavare all'interno dell'immobile due nuove
stanze e due bagni) si
presentava idonea ad integrare i reati oggetto di
contestazione.
6. La Corte d'appello, in particolare, con riferimento al
reato edilizio, ha correttamente
ricordato come, secondo la giurisprudenza di questa Corte
anche la
semplice realizzazione di un soppalco, pur senza modifiche
volumetriche, determina
un incremento della superficie utile calpestabile, con
necessità di permesso
di costruire e conseguente configurabilità del reato
edilizio; ed invero, questa
Corte ha affermato che le cosiddette "opere interne" non
sono più previste nel
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di
intervento edilizio
sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di
ristrutturazione edilizia quando
comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei
volumi, dei prospetti
e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso
(Sez. 3, n. 47438 del
24/11/2011 - dep. 21/12/2011, Truppi, Rv. 251637;
fattispecie relativa proprio
alla realizzazione di un soppalco all'interno di un'unità
immobiliare nella quale
questa Corte ha affermato che per la sua esecuzione è
necessario il permesso di
costruire o, in alternativa, la denuncia di inizio
attività).
7. I giudici di appello hanno poi correttamente affrontato
il tema, sollevato e sostanzialmente
replicato nel primo motivo di ricorso, relativo alla
applicabilità della
novella introdotta con il decreto-legge n. 133 del 2014; a
tal proposito correttamente
la Corte d'appello evidenzia la irrilevanza di tale modifica
legislativa rispetto
al caso in esame, non essendovi stata solo creazione di
nuova superficie
utile interna mediante la realizzazione di un solaio
intermedio, ma anche
l'apertura di luci ed una sopraelevazione del solai di
copertura preesistente pari
ad almeno 50 cm; vi è stato dunque, in aggiunta al mero
aumento di superficie
utile, anche un aumento di volumetria e una modifica dei
prospetti.
A tal proposito
correttamente richiamando la Corte territoriale la
giurisprudenza di questa
Corte secondo cui l'apertura di "pareti finestrate" sulla
facciata di un edificio,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire,
integra il reato previsto
dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di
un intervento edilizio
comportante una modifica dei prospetti non qualificabile
come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale,
quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio
attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014 - dep. 11/07/2014, Limongi, Rv.
259905, relativa a fattispecie in cui l'intervento era
consistito, come nel caso in
esame, nella realizzazione di alcune "luci" su di una parete
verso l'esterno).
8. Afferma dunque correttamente la Corte d'appello come nel
caso in esame si
rientri nell'ambito di quegli interventi di ristrutturazione
edilizia per i quali è necessario
il permesso di costruire anche a seguito delle modifiche
introdotte dal
predetto decreto-legge n. 133 del 2014; sul punto, inoltre,
correttamente i giudici
d'appello evidenziano come il predetto aumento di volumetria
fosse ostativo
anche a far rientrare quanto realizzato nell'ambito degli
interventi di manutenzione
straordinaria, così confutando la identica doglianza
riproposta in sede di ricorso
per cassazione; a tal proposito la Corte d'appello confuta
la tesi difensiva
secondo cui detto aumento volumetrico non sussisterebbe a
seguito di una d.i.a.
in precedenza presentata, nell'intero immobile all'interno
del quale si trova anche
la proprietà dell'imputato nel quale è stata innalzata la
quota del calpestio di
25 cm., motivo per cui l'aumento di altezza del solaio di
copertura avrebbe compensato
la volumetria conseguente all'innalzamento del piano di
calpestio.
Trattasi
di doglianza suggestiva ma infondata, come correttamente
evidenziato dai
giudici d'appello, in quanto la formulazione dell'art. 10,
lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, si riferisce alla
volumetria complessiva esistente al momento dell'intervento
e non a quella esistente in un qualsiasi altro precedente
momento della vita del fabbricato e che però, al momento del
nuovo intervento da effettuare, si era già ridotta, come
appunto avvenuto nel caso in esame; puntualizza
correttamente peraltro la Corte d'appello come, nel caso di
specie, vi fosse stata anche la modifica dei prospetti a
seguito della realizzazione delle luci, e ciò stato sarebbe
sufficiente a rendere necessario il permesso di costruire
anche in base al novellato articolo 10 del testo unico
dell'edilizia
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato paesaggistico di cui
all'articolo 181 del
decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo
astratto che non richiede
un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Invero, il reato di
pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42, non richiede ai
fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per
l'ambiente, essendo sufficiente
l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di
interventi che
siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene
giuridico tutelato, le
cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche
se l'amministrazione
competente attesta la compatibilità paesaggistica delle
opere eseguite.
--------------
L'applicabilità dell'art.
131-bis, c.p. non avrebbe
comunque potuto essere riconosciuta, tenuto conto della
contemporanea violazione
di più disposizioni della legge penale (art. 181, d.lgs. n.
42 del 2004;
art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001).
Infatti, è
stato affermato da questa
Corte che la causa di esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto
di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere applicata,
ai sensi del terzo comma
del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più
reati della stessa
indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse
disposizioni penali
sorrette dalla medesima "ratio punendi"), poiché è la stessa
previsione normativa
a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima",
secondo una valutazione
complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare
tenuità dei singoli
segmenti in cui esso si articola.
---------------
9. La Corte d'appello, poi, passa a esaminare la questione
della configurabilità
del reato paesaggistico, osservando come, per la
realizzazione di tali interventi,
sarebbe stata necessaria anche l'autorizzazione richiesta
dall'art. 146 del decreto
Urbani; precisano i giudici d'appello correttamente come i
lavori di ristrutturazione
edilizia non rientrano tra quelli per i quali l'articolo 149
esclude la necessità
di tale autorizzazione; del resto, prosegue la Corte
d'appello, nel caso in esame
risultava accertato come le opere realizzate non fossero
solo prettamente interne,
essendo infatti consistite anche in una sopraelevazione ed
in una apertura di
luci, donde le stesse si presentavano astrattamente idonee
ad alterare lo stato dei luoghi, incidendo sul loro aspetto
esteriore in senso fisico ed estetico e modificando
di conseguenza i valori paesaggistici.
A tal proposito
correttamente la
Corte d'appello evidenzia come
il reato paesaggistico di cui
all'articolo 181 del
decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo
astratto che non richiede
un effettivo pregiudizio per l'ambiente. Trattasi di
affermazione giuridicamente
corretta, essendo pacifico l'orientamento di questa Corte
nel senso che il reato di
pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42, non richiede ai
fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per
l'ambiente, essendo sufficiente
l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di
interventi che
siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene
giuridico tutelato, le
cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche
se l'amministrazione
competente attesta la compatibilità paesaggistica delle
opere eseguite (da ultimo:
Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 - dep. 16/03/2015, Murgia,
Rv. 263289).
...
12. Quanto, poi, alla dedotta violazione di legge per omessa
applicazione
dell'art. 131-bis c.p., oggetto del secondo motivo, osserva
questa Corte come la
Corte d'appello, con argomentazione del tutto corretta ed
immune da vizi, escluda
la particolare tenuità del fatto, osservando come in virtù
della edificazione
mediante l'insieme delle sopra descritte opere di un nuovo
piano abitabile non
potrebbe parlarsi di offesa di particolare tenuità; a tal
proposito, confutando
l'argomentazione difensiva secondo cui l'altezza del
soppalco pari a 2,30 m. ne
escluderebbe l'abitabilità essendo l'altezza minima pari a
2,70 m., i giudici di appello
correttamente evidenziano come di fatto l'altezza realizzata
fosse assolutamente
sufficiente a garantire l'utilizzo a fini abitativi del
soppalco -come comprovato
anche dalla presenza dei due bagni-, sicché il mancato
raggiungimento
dell'altezza minima di legge ne avrebbe sì escluso
l'agibilità, ma non escludeva
che ci si trovasse di fronte ad un abuso edilizio che
costituiva manifestazione del
disinteresse di chi aveva abusivamente edificato a
rispettare le prescrizioni di
legge riguardo alle altezze.
A ciò, peraltro, va aggiunto che l'applicabilità dell'art.
131-bis, c.p. non avrebbe
comunque potuto essere riconosciuta, tenuto conto della
contemporanea violazione
di più disposizioni della legge penale (art. 181, d.lgs. n.
42 del 2004;
art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001): ed infatti, è
stato affermato da questa
Corte che la causa di esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto
di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere applicata,
ai sensi del terzo comma
del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più
reati della stessa
indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse
disposizioni penali
sorrette dalla medesima "ratio punendi"), poiché è la stessa
previsione normativa
a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima",
secondo una valutazione
complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare
tenuità dei singoli
segmenti in cui esso si articola (da ultimo: Sez. 5, n.
26813 del 28/06/2016,
Grosoli, Rv. 267262)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319). |
EDILIZIA PRIVATA:
Soccorre l'insegnamento giurisprudenziale secondo
il quale le perizie giurate depositate da una parte non sono
dotate di efficacia probatoria nemmeno rispetto ai fatti che
il consulente asserisce di avere accertato, ad esse
potendosi solo riconoscere valore di indizio, al pari di
ogni documento proveniente da un terzo, il cui apprezzamento
è affidato alla valutazione discrezionale del giudice, delle
quali pertanto egli, da un lato, non è obbligato in nessun
caso a tenere conto e, per converso, ove ritenga di farvi
riferimento, deve motivarne adeguatamente la forza
probatoria che intende loro assegnare.
Infatti, per principio giurisprudenziale consolidato,
l'onere della prova circa la data di realizzazione
dell'immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l'abuso
e solo la deduzione, da parte di quest'ultimo, di concreti
elementi a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce
il suddetto onere in capo all'amministrazione.
È stata infatti esclusa la possibilità che l’autore
dell’abuso comprovi la data di ultimazione delle opere
facendo ricorso alla testimonianza.
---------------
Quanto alle dichiarazioni giurate rese dai signori Se. e Di Ma. in
ordine alle dimensioni originarie del rudere (vedi
produzione D’Onise ottobre 2014), considerate nel
complessivo contesto fattuale non possono essere prese in
considerazione, trattandosi di dichiarazioni identiche,
laconiche, e comunque assolutamente non idonee a consentire
l’identificazione certa di preesistenze edilizie, le quali,
come è noto, necessitano di prove certe in ragione
dell’impatto che la loro legittimazione ha sul carico
urbanistico della zona, a maggior ragione se trattasi di
zona come quella in questione ove l’edificazione è
sostanzialmente inibita.
Va ribadito, al proposito, che sia la perizia giurata che le
dichiarazioni giurate di terzi non vincolano il Collegio sul
piano probatorio.
Al riguardo, invero, soccorre l'insegnamento
giurisprudenziale secondo il quale le perizie giurate
depositate da una parte non sono dotate di efficacia
probatoria nemmeno rispetto ai fatti che il consulente
asserisce di avere accertato, ad esse potendosi solo
riconoscere valore di indizio, al pari di ogni documento
proveniente da un terzo, il cui apprezzamento è affidato
alla valutazione discrezionale del giudice, delle quali
pertanto egli, da un lato, non è obbligato in nessun caso a
tenere conto e, per converso, ove ritenga di farvi
riferimento, deve motivarne adeguatamente la forza
probatoria che intende loro assegnare (Tar Lazio, sez. III-quater, 23.01.2014 n. 855; in argomento anche Cons.
Stato, sez. IV, 24.04.2009 n. 2579).
Infatti, per principio giurisprudenziale consolidato,
l'onere della prova circa la data di realizzazione
dell'immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l'abuso
e solo la deduzione, da parte di quest'ultimo, di concreti
elementi a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce
il suddetto onere in capo all'amministrazione (cfr. TAR
Campania Napoli sez. III, 20.04.2016 n. 1957; id., sez. VI, 17.09.2015 n. 4565; Tar Toscana, sez. III, 14.05.2014 n. 795; Cons. St., sez. IV, 13.01.2010, n.
45; id, sez. V, 09.11.2009, n. 6984).
È stata infatti esclusa la possibilità che l’autore
dell’abuso comprovi la data di ultimazione delle opere
facendo ricorso alla testimonianza (TAR Umbria, I, 30.08.2013, n. 462; Tar Lazio−Roma, III,
02.05.2013, n. 4383)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 19.10.2016 n. 4774 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, le opere edilizie
abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico
si considerano eseguite in totale difformità dalla
concessione e, anche ove costituenti pertinenze o volumi
tecnici, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo
della concessione.
---------------
5. Quanto al secondo motivo (realizzazione di una tettoia di 50 mq che,
secondo la ricorrente, non sarebbe passibile di
demolizione), esso va respinto in quanto è evidente che essa
comporta una rilevante alterazione dei profili paesaggistici
in zona vincolata e, come tale, non può essere mantenuta in
assenza di autorizzazione dell’autorità competente (ex plurimis, TAR Napoli sez. VI 22.10.2015 n. 4931), a
prescindere dal fatto che il regolamento edilizio, all’art.
3, consenta la realizzazione di tettoie fino al 30% della
Superficie non residenziale.
Infatti, per giurisprudenza costante, le opere edilizie
abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico
si considerano eseguite in totale difformità dalla
concessione e, anche ove costituenti pertinenze o volumi
tecnici, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo
della concessione (permesso di costruire che, nel caso di
specie, era necessario) (cfr. TAR Napoli (Campania) sez. VI 16.06.2016
n. 3027)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 19.10.2016 n. 4774 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel procedimento di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria, il parere della Commissione Edilizia
Comunale non è necessario, in assenza di una espressa
previsione normativa e in considerazione della specialità
del procedimento.
---------------
6. Va respinto anche il
quarto motivo (mancanza del parere
della Commissione edilizia), in quanto per giurisprudenza
consolidata nel procedimento di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria, il parere della Commissione Edilizia
Comunale non è necessario, in assenza di una espressa
previsione normativa e in considerazione della specialità
del procedimento (ex plurimis, TAR Lazio, sez. II, 14.10.2015 n. 11660; TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
05.03.2015 n. 1399)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 19.10.2016 n. 4774 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di
dati di fatto, quali aumenti volumetrici e mutamenti della
sagoma realizzati in zona vincolata, va ribadito che
l'ordinanza di demolizione resa in applicazione del severo
regime di cui all’art. 27 D.P.R. 280/2001 è da ritenersi
provvedimento doveroso e, in tal senso, rigidamente
vincolato.
Invero, in forza dell'art. 27, co. 2, D.P.R.
380/2001 «il dirigente o il responsabile, quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o
da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, (…) nonché in tutti i casi di difformità
dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate
alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n.
3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede
alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi,
previa comunicazione alle amministrazioni competenti le
quali possono eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa. …»).
---------------
L'ordine di demolizione, vincolato come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto.
Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente
il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla
strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza
che occorra, per la piana applicazione della normativa sopra
citata (art. 27 D.P.R. 380/2001) alcuna altra precisazione.
---------------
Ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a
vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto
esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa
acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la
conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere
pertinenziali o precarie e quindi, assentibili con mera
D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
autorizzazione paesistica.
Va ribadito che l'art. 27 citato, in presenza di manufatti
realizzati in zona sottoposta a vincolo, rende doverosa la
demolizione d'ufficio di tutti gli interventi realizzati
sine titulo e non solamente degli interventi realizzati
senza permesso di costruire.
Il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai
fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, a nulla rilevando la loro natura pertinenziale dal
punto di vista civilistico.
Il vincolo imposto ai fini di tutela del paesaggio,
preclude, in assenza del relativo titolo, qualsiasi nuova
edificazione.
---------------
8. I motivi da sei a
nove, avendo ad oggetto il reiterato ordine di
demolizione, possono essere esaminati di seguito e
congiuntamente.
In essi si censura la motivazione del provvedimento perché
priva di riferimento all’interesse pubblico all’eliminazione
in concreto delle opere abusive (sesto motivo), perché
comunque si tratterebbe di opere pertinenziali (settimo
motivo), perché sarebbero comunque volumi tecnici (ottavo
motivo) e perché avrebbe dovuto comunque applicarsi la
sanzione pecuniaria ex art. 33 TUED (nono motivo).
In primo luogo, deve rilevarsi che legittimamente la
demolizione è stata disposta ai sensi dell’art. 27 del
D.P.R. 380/2001.
Le opere, infatti, sono state edificate in area classificata
come zona F, parco territoriale e altre attrezzature e
impianti a scala urbana e territoriale, sottozona Fal, aree
agricole, dalla variante generale al Prg approvata con DPGRC
n. 323 del 11.06.2004 (BURC n. 29 del 14.06.2004),
disciplinata dagli artt. 45 e 46, e ricade in ambito 32 Camaldoli, art. 162; l'intervento rientra nel piano
territoriale paesistico di Agnano-Camaldoli come zona PI,
protezione integrale, e ricade nel perimetro del parco
regionale metropolitano delle colline di Napoli approvato
con delibera della Giunta regionale della Campania n. 855
del 10.06.2004 (BURC n. 36 del 26.07.2004) come zona
B, riserva generale.
Ebbene, in presenza di simili dati di fatto (aumenti
volumetrici e mutamenti della sagoma realizzati in zona
vincolata), va ribadito che, come rilevato nello stesso
provvedimento impugnato, l’ordinanza di demolizione resa in
applicazione del severo regime di cui all’art. 27 D.P.R.
280/2001 è da ritenersi provvedimento doveroso e, in tal
senso, rigidamente vincolato (cfr. art. 27, co. 2, D.P.R.
380/2001, cit. «il dirigente o il responsabile, quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o
da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, (…) nonché in tutti i casi di difformità
dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate
alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n.
3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede
alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi,
previa comunicazione alle amministrazioni competenti le
quali possono eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa. …»).
8.1. In merito all’invocato difetto di motivazione anche in
rapporto alla tutela dell’affidamento e all’interesse
pubblico alla demolizione va, poi, ribadito il consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui l'ordine di
demolizione, vincolato come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna
specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto
(ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, n.
3614/2016; id., sez. VI, 15.07.2016 n. 3555; Cons. St.,
sez. IV, 28.06.2016 n. 2908).
Al fine di disporre la demolizione è, infatti, sufficiente
il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla
strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza
che occorra, per la piana applicazione della normativa sopra
citata (art. 27 D.P.R. 380/2001) alcuna altra precisazione.
8.2. Si lamenta, poi, la mancata considerazione della natura
pertinenziale delle opere.
Sul punto basti ribadire che ove gli interventi edilizi
ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico,
stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi
risultano soggetti alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che,
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie
e quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della
sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (ex plurimis,
TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.03.2016 n. 1167).
In ogni caso, la natura pertinenziale delle opere avrebbe
potuto riguardare la sola tettoia, ma non certamente i due
grossi ampliamenti di 50 mq oggetto della domanda di
sanatoria.
8.3. Identico discorso in ordine alla natura assertivamente
tecnica dei volumi realizzati in mancanza di titolo.
Al di là del fatto che tale natura è indimostrata, va
ribadito che l'art. 27 citato, in presenza di manufatti
realizzati in zona sottoposta a vincolo, rende doverosa la
demolizione d'ufficio di tutti gli interventi realizzati
sine titulo e non solamente degli interventi realizzati
senza permesso di costruire. Il divieto di incremento di
volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione
di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume, a nulla rilevando la loro
natura pertinenziale dal punto di vista civilistico. Il
vincolo imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude,
in assenza del relativo titolo, qualsiasi nuova edificazione
(TAR Campania Napoli, sez. VI, 10.03.2015 n. 1444)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 19.10.2016 n. 4774 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce
la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo,
in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio
di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2,
TUED) può essere effettuato soltanto in un secondo momento,
cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato
spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana
l'ordine (indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta
dell'interessato in tal senso.
---------------
8.4. L’ultima censura è quella riportata al sub IX relativa
alla mancata valutazione dell’impossibilità di procedere
alla demolizione senza pregiudicare la statica dei volumi
residuali e applicando, quindi, la sanzione pecuniaria.
Essa è infondata per diversi ordini di ragioni che sono
state già fatte propria dalla Sezione nella sentenza
4065/2016 e che è opportuno riproporre.
In primo luogo, si osserva che l’argomento si sostanzia
nell’invocare l’applicazione dell’art. 33 D.P.R. 380/2001
nella parte in cui, appunto, impedisce la demolizione
allorché non sia possibile senza pregiudizio per la parte
legittima del fabbricato.
Sennonché, l’applicabilità dell’art. 33 D.P.R. 380/2001 va
esclusa, essendosi fatta, come si è detto, doverosa
applicazione dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 che prevede sempre
e comunque la demolizione senza che si debbano effettuare
ulteriori valutazioni.
Peraltro, come pure è stato sovente affermato da questo
Tribunale amministrativo, per gli immobili in area
vincolata, anche l’art. 33, al co. 3, D.P.R. 380/2001
prevede pur sempre la rimessione in pristino sia pur
«indicando criteri e modalità diretti a ricostituire
l'originario organismo edilizio» (v. TAR Campania, sez. VI, n. 785/2014).
Inoltre, quand’anche si ritenesse astrattamente applicabile
la particolare eccezione all’applicazione della sanzione
demolitoria secondo quanto argomentato dalla parte
ricorrente, la censura sarebbe egualmente infondata.
Va ribadito, infatti, che, mentre l’ingiunzione di
demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del
procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo
dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria (art. 33, co. 2, TUED) può essere effettuato
soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto
privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai
competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in
danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso;
soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta
dell'interessato in tal senso (ex multis, v. TAR Napoli,
sez. IV, n. 3120/2015, nonché id., sez. VII, 14.06.2010 n.
14156)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 19.10.2016 n. 4774 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Legittima la rimozione del dirigente per incompatibilità
ambientale.
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la
sentenza 18.10.2016 n. 21030, ha affermato che,
in materia di pubblico impiego, è legittima
l'assegnazione del dirigente a settori o mansioni diverse
rispetto a quelli finora svolti nei casi di incompatibilità
ambientale; nel caso in esame i giudici di legittimità hanno
ritenuto legittimo il trasferimento di un comandante della
Polizia Municipale per problemi legati ad abusi edilizi
nell'immobile di sua proprietà.
Il fatto
Un dipendente pubblico aveva citato in giudizio il Comune di
cui era dipendente per far dichiarare l'illegittimità della
sanzione disciplinare di sospensione di 10 giorni dal
servizio nonché della rimozione dalle funzioni di comandante
della Polizia e della contestuale assegnazione alla
Direzione del settore Affari sociali; sia il Tribunale, sia
la Corte d'Appello avevano rigettato la richiesta del
dipendente comunale.
L'analisi della Cassazione
Tra i diversi motivi del ricorso in Cassazione il dipendente
comunale denuncia anche la violazione e falsa applicazione
dell'articolo 72 del Dlgs 165/2001, lamentando che la Corte
territoriale avrebbe errato nel qualificare il provvedimento
di assegnazione di nuove mansioni come trasferimento per
incompatibilità ambientale, previsto dall'abrogato articolo
32 del Tu 3/1957.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso dell'ex comandante
dei vigili trasferito ad altro settore, ritiene corretto il
comportamento del Comune perché quest'ultimo ha, tra i suoi
poteri, anche quello di trasferire il dipendente che ha
violato i doveri fondamentali della prestazione lavorativa
ledendo l'immagine e la dignità della pubblica
amministrazione. Per i giudici di legittimità il motivo è
inammissibile perché il ricorrente non precisa se, e in
quale atto processuale, la questione relativa alla
qualificazione del trasferimento sia stata, e in quali
termini, sottoposta all'esame della Corte territoriale.
La Cassazione rileva che il dipendente ricorrente aveva
allegato la sua inamovibilità, deducendola dalla "unicità"
del corpo di Polizia municipale.
La Cassazione ritiene che il motivo sia, comunque, infondato
in quanto l'attuazione dei principi di cui all'articolo 97
della Costituzione può legittimare l'assegnazione a settori
o mansioni diverse del pubblico dipendente nei casi di
situazioni di fatto di incompatibilità ambientale, che, se
pure prescindono da ragioni punitive o disciplinari e sono
riconducibili in via sistematica all'articolo 2103 del
codice civile, si distinguono dalle ordinarie esigenze di
assetto organizzativo, in quanto costituiscono esse stesse
causa di disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per
sé, un'obiettiva esigenza di modifica e spostamento di
settore organizzativo o del luogo di lavoro.
I giudici di legittimità evidenziano che tale esigenza è
stata ravvisata dalla Corte territoriale, che ha accertato,
che l'affidamento delle mansioni già svolte non era più
possibile, in ragione della accertata sopravvenuta
incompatibilità ambientale dello svolgimento da parte del
dipendente, alle funzioni di vigile urbano.
Il dipendente ricorrente, inoltre, in uno dei motivi di
ricorso, denuncia illogica, omessa e insufficiente
motivazione, per non avere la Corte territoriale spiegato le
ragioni del mancato esercizio dei poteri istruttori in
ordine alla modifica delle mansioni.
In particolare, secondo il dipendente ricorrente, la Corte
territoriale avrebbe errato nella parte in cui ha ritenuto
di accogliere il motivo di censura relativo alla presunta
non equivalenza delle mansioni, anche sotto la
prospettazione della impossibilità di valutare le differenze
tra i concreti compiti della figura del Comandante del corpo
di Polizia municipale e quelli di istruttore amministrativo,
sostenendo che la Corte territoriale avrebbe potuto
individuare detti compiti dall'esame dello statuto del
Comune.
Tale motivo, per la Cassazione, è infondato in quanto la
Corte territoriale ha, infatti, affermato sulla scorta di un
accertamento, che le mansioni di istruttore direttore
amministrativo, categoria D, erano di rilievo e prestigio
pari a quelle svolte in precedenza e che l'assenza di
precise allegazioni non consentiva alcuna indagine ulteriore
sulla dedotta dequalificazione e sulle diverse competenze
professionali proprie dei nuovi compiti rispetto a quelli
propri della qualifica di Comandante della Polizia
municipale (commento tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).
---------------
MASSIMA
27. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai
sensi dell'art. 360, c. 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., violazione e
falsa applicazione dell'art. 72 del D.Lgs. 165 del 2001 ed
omessa motivazione su un punto decisivo e rilevante della
controversia, lamentando che la Corte territoriale avrebbe
errato nel qualificare il provvedimento di assegnazione di
nuove mansioni come trasferimento per incompatibilità
ambientale, istituto previsto dall'abrogato art. 32 del T.U.
3/1957.
28. Il motivo è inammissibile perché il ricorrente non
precisa se, ed in quale atto processuale, la questione
relativa alla qualificazione del trasferimento sia stata, ed
in quali termini, sottoposta all'esame della Corte
territoriale (cfr. decisioni richiamate nei punti 16 e 25 di
questa sentenza).
Va rilevato che dalla lettura della sentenza si evince che
l'odierno ricorrente aveva allegato la sua inamovibilità,
deducendola dalla "unicità" del corpo di P.M. (cfr.
decisioni richiamate nei punti 16 e 25 di questa sentenza).
29. Il motivo è, comunque, infondato in quanto
l'attuazione dei principi di cui all'art. 97 Cost.
può legittimare l'assegnazione a settori o mansioni diverse
del pubblico dipendente nei casi di situazioni di fatto di
incompatibilità ambientale, che, se pure prescindono da
ragioni punitive o disciplinari e sono riconducibili in via
sistematica all'art. 2103 c.c., si distinguono dalle
ordinarie esigenze di assetto organizzativo, in quanto
costituiscono esse stesse causa di disorganizzazione e
disfunzione realizzando, di per sé, un'obiettiva esigenza di
modifica e spostamento di settore organizzativo o del luogo
di lavoro (Cass.
SSUU 16102/2009; Cass. 4265/2007, in tema di mutamento della
sede di lavoro).
Esigenza ravvisata dalla Corte territoriale, che ha
accertato, con statuizione non censurata, che l'affidamento
delle mansioni già svolte non era più possibile, in ragione
della accertata sopravvenuta incompatibilità ambientale
dello svolgimento da parte del Pa. delle funzioni di Vigile
Urbano. |
APPALTI SERVIZI:
Il valore della concessione non può essere
computato con riferimento al c.d. "ristorno" e cioè al costo
della concessione, che è un elemento del tutto eventuale, ma
deve essere calcolato sulla base del fatturato.
Il valore della concessione non può essere computato con
riferimento al c.d. "ristorno" e cioè al costo della
concessione, che è un elemento del tutto eventuale, ma deve
essere calcolato sulla base del fatturato generato dal
consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio di
distribuzione automatica.
La correttezza di detto criterio di calcolo risulta
confermata dalla previsione contenuta nella direttiva
2014/23/UE che ha stabilito all'art. 8, c. 2, rubricato "soglia
e metodo di calcolo del valore stimato delle concessioni"
che "…. Il valore di una concessione è costituito dal
fatturato totale del concessionaria generato per tutta la
durata del contratto, al netto dell'IVA, stimato
dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente
aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi
oggetto della concessione, nonché per le forniture
accessorie a tali lavori e servizi. Tale valore stimato è
valido al momento dell'invio del bando….".
Inoltre, il c. 3 stabilisce che il valore della concessione
deve essere calcolato secondo un metodo oggettivo
specificato nei documenti della concessione, indicando poi
gli stessi elementi di valutazione, consentendo alle imprese
di poter verificare anche i criteri utilizzati dalla
stazione appaltante per la sua commisurazione. Detta
disposizione è stata recepita nell'art. 167 del D.Lgs. n.
50/2016 (non applicabile al caso di specie ratione
temporis).
Pertanto, nel caso di specie, il valore della concessione
non può essere ancorato ad un parametro -quello del canone
di concessione- non rispondente alla previsione normativa
recata dall'art. 29 del D.Lgs. 163/06, né può ritenersi che
la stima del fatturato possa essere demandata al concorrente
anziché all'amministrazione, né che possa essere desunta
sulla base degli elementi contenuti nel capitolato speciale,
perché in questa particolare tipologia di servizio è
difficile dall'esterno compiere attendibili previsioni di
stima, in quanto i fattori che incidono sui flussi di cassa
dipendono da una molteplice varietà di condizioni, relative
all'ubicazione delle strutture ospedaliere, alla
collocazione dei distributori automatici, alle abitudini
dell'utenza, alla localizzazione di altri punti di ristoro
nell'ambito della stessa struttura ospedaliera, all'accesso
di utenti esterni, e così via, tali da non consentire ai
concorrenti di stimare in modo attendibile il fatturato
sulla base dei soli elementi indicati nel capitolato
speciale (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.10.2016 n. 4343 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Essendo
il mercato degli spazi pubblici destinati agli impianti
pubblicitari contingentato, è necessaria la sottoposizione a
procedure pubbliche e trasparenti di ogni tipo di
attribuzione ai privati di utilità economicamente
appetibili.
Inoltre, anche se si attribuisse la prevalenza al momento
privatistico dell’attività di prestazione di servizi
pubblicitari, ritenendo che essa sia interamente soggetta a
regime autorizzatorio, il modulo della gara pubblica appare
lo stesso necessario, alla luce dell'art. 12 della direttiva
n. 123 del 2006 (direttiva Bolkestein), secondo la quale,
qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una
certa attività sia limitato per via della scarsità delle
risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli
Stati membri applicano una procedura di selezione tra i
candidati potenziali, che presenti garanzia di imparzialità
e trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata
pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento
e completamento.
---------------
... per l'annullamento della nota PG 125618/2012 del
21/02/2012 emessa dal Comune di Milano – Settore pubblicità,
con cui sono state rigettate le domande di autorizzazione
all’installazione di n. 51 impianti pubblicitari bifacciali
opachi di m. 2,70x2.
...
Con ricorso depositato il 17.05.2012 Nu.Sp. S.r.l., società
operante nel settore della pubblicità e affissioni,
impugnava il diniego di cui in epigrafe, deducendone
l’illegittimità per i seguenti motivi:
- motivazione soltanto apparente, in quanto l’affermazione
del Comune -secondo cui in assenza di una concessione del
suolo pubblico non vi potrebbe essere autorizzazione
all’esposizione pubblicitaria ricadente su di esso-
contrasterebbe con il fatto che Nu.Sp. S.r.l. aveva chiesto
la predetta concessione di suolo pubblico contestualmente
all’autorizzazione negata;
- carenza di motivazione e difetto di istruttoria, in
relazione all’assenza di allegazione del preventivo
nulla-osta ambientale alle istanze di autorizzazione, in
quanto secondo la società ricorrente tale nulla-osta sarebbe
in realtà il parere previsto dall’art. 153 del d.lgs. n.
42/2004, da acquisire pertanto di ufficio da parte
dell’amministrazione procedente;
- in generale, violazione dei canoni e principi di
correttezza, buona fede e imparzialità.
Si è costituito il Comune di Milano, che ha chiesto il
rigetto del ricorso, e la causa è stata trattenuta in
decisione alla pubblica udienza del 21.09.2016.
Il ricorso è infondato.
Il diniego del provvedimento impugnato si fonda su una
pluralità di autonomi motivi ostativi al rilascio
dell’autorizzazione richiesta.
In particolare, il Comune resistente ha reiterato nel
provvedimento finale quanto già argomentato nel preavviso di
diniego, con riferimento alla necessità di espletamento di
apposita procedura ad evidenza pubblica quale criterio base
per l’assegnazione di spazi/mezzi pubblicitari riconducibili
“alla totalità indistinta di beni (immobili) pubblici”.
L’amministrazione resistente ha esplicitamente basato tale
affermazione sul combinato disposto degli artt. 4, comma 21,
8 e 16 del regolamento comunale sulla pubblicità vigente
all’epoca dell’istanza, precisando nel diniego impugnato che
sarebbe stato “riduttivo” limitare tali disposizioni
soltanto all’ambito della “concessione del servizio di
pubblicità esterna”.
A fronte della suddetta argomentazione, la ricorrente,
ritenendo erroneamente che l’amministrazione abbia
abbandonato in sede di stesura del provvedimento definitivo
l’assunto della necessità di una procedura di gara per il
rilascio delle concessioni, ha appuntato inizialmente le sue
censure sugli altri motivi di rigetto, censurando solo
genericamente il motivo ostativo fondamentale (esistenza di
norme del regolamento comunale implicanti l’obbligatorietà
di una procedura concorsuale).
Nella memoria di replica depositata in data 28.07.2016,
peraltro, la difesa della ricorrente ha così precisato il
suo motivo di ricorso: “l'art. 16 è, innanzitutto,
sistematicamente collocato nel Regolamento comunale sulla
Pubblicità, in una apposita rubrica totalmente separata e
che nulla ha a che vedere con la disciplina
dell'autorizzazione all'installazione degli impianti
pubblicitari specificamente prevista dall'art. 4. L'articolo
in esame è, infatti, chiaramente volto a disciplinare il
caso della cd. concessione del servizio di Pubblicità
esterna, che investe, nella sua formulazione, la facoltà, e
non l'obbligo, per l'amministrazione di concedere a soggetti
individuati a seguito dell' espletamento di una gara ad
evidenza pubblica la possibilità di installare appositi
impianti pubblicitari o di utilizzare quelli di proprietà
comunale; tutto questo senza escludere l'ordinaria modalità
di rilascio delle autorizzazioni, essendo espressamente
prevista dalla norma citata la facoltà di affidare in
"concessione" una parte del territorio comunale, tramite,
per l'appunto, dei "lotti", potendo permanere, in tutta
evidenza, per le altre porzioni territoriali la disciplina
generale dettata dall'art. 4 (…)”.
Sul punto, il Collegio ritiene di dovere ribadire,
condividendolo, l’orientamento già espresso da questo
Tribunale nella sentenza n. 1261/2015, secondo cui, “essendo
il mercato degli spazi pubblici destinati agli impianti
pubblicitari contingentato, è necessaria la sottoposizione a
procedure pubbliche e trasparenti di ogni tipo di
attribuzione ai privati di utilità economicamente
appetibili. Inoltre, anche se si attribuisse la prevalenza
al momento privatistico dell’attività di prestazione di
servizi pubblicitari, ritenendo che essa sia interamente
soggetta a regime autorizzatorio, il modulo della gara
pubblica appare lo stesso necessario, alla luce dell'art. 12
della direttiva n. 123 del 2006 (direttiva Bolkestein),
secondo la quale, qualora il numero di autorizzazioni
disponibili per una certa attività sia limitato per via
della scarsità delle risorse naturali o delle capacità
tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una
procedura di selezione tra i candidati potenziali, che
presenti garanzia di imparzialità e trasparenza e preveda,
in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della
procedura e del suo svolgimento e completamento”.
Ne consegue che non ha pregio l’argomentazione della società
ricorrente secondo cui per ottenere l’autorizzazione
richiesta sarebbe bastato depositare i documenti previsti
dalla specifica “check-list” all’uopo predisposta
dall’amministrazione.
Dovendosi dunque ritenere accertata la legittimità e
l’autonoma lesività del motivo di diniego afferente alla
necessità, per rilasciare l’autorizzazione richiesta, di una
previa procedura concorsuale per la concessione degli spazi
pubblici da destinare agli impianti, risultano inammissibili
per sopravvenuta carenza di interesse o comunque assorbite
le ulteriori doglianze della ricorrente volte a chiedere
l’annullamento del provvedimento impugnato sotto altri
profili.
Resterebbe in ogni caso preclusa la possibilità per Nu.Sp.
s.r.l. di ottenere un provvedimento favorevole a fronte
delle sue richieste di autorizzazione.
Il ricorso è dunque complessivamente da respingere, con
spese del giudizio che seguono la soccombenza, e che sono
liquidate come da dispositivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.10.2016 n. 1871 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il
condomino è portatore di un interesse tutelato alla
conservazione e al corretto uso, anche sotto il profilo
estetico, della cosa comune, e possiede pertanto la
legittimazione a dolersi delle alterazioni che possano
incidere negativamente sul valore dello stesso agendo a
difesa dei diritti ed interessi, esclusivi e comuni,
inerenti all’edificio condominiale.
Ciò vale anche nell'ambito di una controversia, come quella
all’esame, che ha ad oggetto la richiesta di annullamento
del provvedimento che legittima il mantenimento della
struttura abusivamente realizzata che i ricorrenti hanno
interesse a che non sia regolarizzata perché peggiorativa
della fisionomia dell’edificio.
---------------
I ricorrenti e la controinteressata sono condomini in un
edificio ricompreso in un’area soggetta a vincolo
paesaggistico, sito al Lido di Venezia con affaccio sulla
laguna, costituito da un corpo centrale di cinque piani e da
due ali laterali di quattro piani, in una delle quali vi è
l’appartamento di proprietà della controinteressata che ha
una terrazza che funge da lastrico solare degli appartamenti
sottostanti.
La controinteressata ha realizzato sulla propria terrazza
una pompeiana con una struttura metallica schermata da reti
anch’esse metalliche dalla maglia di un centimetro a
copertura dell’intera terrazza.
Alcuni condomini nell’assemblea condominiale hanno
manifestato contrarietà al mantenimento di tale struttura
ritenendola peggiorativa dell’aspetto dell’edificio e di
ostacolo alla vista panoramica dagli altri appartamenti.
A seguito della segnalazione al Comune da parte dei vicini
della presenza dell’intervento abusivo, la controinteressata
il 03.11.2015 ha presentato un’istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 181, comma
1-quater, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, rispetto alla quale
la commissione edilizia integrata il 18.01.2016 ha espresso
parere contrario, ritenendo che il manufatto per tipologia,
materiali e posizione sia tale da provocare “un’alterazione
sostanziale dei profili paesaggistici del contesto in cui si
inserisce, data anche la posizione strategica del panorama a
partire dal bacino di San Marco antistante S. Elena”.
Nello stesso senso si è espressa la Soprintendenza in seno
alla conferenza di servizi svoltasi il 29.01.2016,
osservando che la struttura “percettivamente si presenta
come una volumetria che modifica l’alternanza tra vuoti e
pieni del fabbricato alterando i valori paesaggistici
dell’area tutelata visibile dalla laguna”.
Successivamente la controinteressata ha chiesto un riesame
in autotutela della determinazione negativa deducendo di
soffrire di una forma di fobia per le cavallette dimostrata
da una certificazione medica e precisando che il
mantenimento della struttura le avrebbe consentito di poter
continuare ad accedere alla terrazza con la sicurezza di
proteggersi dalla presenza degli insetti.
La Soprintendenza con parere reso nell’ambito della
conferenza di servizi del 31.03.2016, si è espressa
favorevolmente all’accertamento della compatibilità
paesaggistica nei seguenti termini “-OMISSIS-”.
Il Comune con provvedimento del 21.04.2016, ha quindi
rilasciato l’autorizzazione paesaggistica, disponendo il
pagamento dell’indennità risarcitoria e della sanzione
pecuniaria dovuta perché i lavori sono stati eseguiti in
assenza della comunicazione di inizio lavori.
Il parere vincolante della Soprintendenza ed i provvedimenti
del Comune sono impugnati da un gruppo di condomini con il
ricorso in epigrafe per le seguenti censure:
I) violazione dell’art. 167, commi 1, 2, 3, 4 e 5 e dell’art. 181
nonché dell’art. 27 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42,
perplessità, illogicità e contraddittorietà manifeste perché
è stata riconosciuto l’accertamento della compatibilità
paesaggistica al di fuori delle ipotesi tassativamente
previste dalla legge, in base a valutazioni che esulano
dalla tutela degli interessi paesaggistici che sono gli
unici che deve perseguire la Soprintendenza;
II) illogicità, contraddittorietà, carenza di istruttoria e di
motivazione perché, quand’anche fosse da ammettere una
qualche forma di discrezionalità e comparazione tra una
pluralità di interessi in capo alla Soprintendenza, sarebbe
mancata comunque l’acquisizione di documentazione idonea a
dimostrare univocamente l’effettiva necessità di una
struttura come quella realizzata e la mancanza di valide
alternative;
III) violazione degli artt. 1117 e 1127 c.c., difetto di
istruttoria e di motivazione perché il Comune ha irrogato
solamente una sanzione pecuniaria senza disporre la
rimozione della struttura nonostante fosse a conoscenza che
la stessa insiste su parti comuni del condominio, in quanto
realizzata sul lastrico solare, e che vi era l’espresso
dissenso degli altri condomini al suo mantenimento.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dei beni ed
attività culturali, il Comune di Venezia e la
controinteressata, eccependo gli ultimi due
l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione
e di interesse, e tutti concludendo per la reiezione del
ricorso.
Alla Camera di consiglio del 28.09.2016, fissata per l’esame
della domanda cautelare, avvisate le parti ai sensi
dell’art. 60 cod. proc. amm., la causa è stata trattenuta in
decisione.
Il Comune e la controinteressata eccepiscono il difetto di
legittimazione ed interesse dei ricorrenti perché gli stessi
rappresentano una minoranza di condomini dissenzienti
rispetto alla maggioranza che in assemblea condominiale si è
espressa favorevolmente, e perché l’ubicazione dei loro
appartamenti è tale da escludere la sussistenza di
un’effettiva riduzione della vista del paesaggio a causa
della presenza della struttura.
Tali eccezioni non possono essere accolte.
Il condomino infatti è portatore di un interesse tutelato
alla conservazione e al corretto uso, anche sotto il profilo
estetico, della cosa comune, e possiede pertanto la
legittimazione a dolersi delle alterazioni che possano
incidere negativamente sul valore dello stesso agendo a
difesa dei diritti ed interessi, esclusivi e comuni,
inerenti all’edificio condominiale (ex pluribus cfr.
Tar Friuli Venezia Giulia, 26.05.2011, n. 258; Tar Campania,
Napoli, Sez. IV, 06.06.2006, n. 6747; Tar Liguria,
07.04.2006, n. 355).
Ciò vale anche nell'ambito di una controversia come quella
all’esame che ha ad oggetto la richiesta di annullamento del
provvedimento che legittima il mantenimento della struttura
abusivamente realizzata che i ricorrenti hanno interesse a
che non sia regolarizzata perché peggiorativa della
fisionomia dell’edificio
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.10.2016 n. 1135 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di accertamento della compatibilità paesaggistica di
un intervento abusivo l’Amministrazione preposta alla tutela
del paesaggio non può svolgere un’opera di comparazione e
bilanciamento tra gli interessi coinvolti graduando il
proprio giudizio a seconda delle conseguenze che l’eventuale
rimozione dell’opera abusiva può determinare per gli
interessati.
Come è stato anche recentemente
chiarito, l’Amministrazione preposta alla tutela del
paesaggio non può esercitare valutazioni proprie della
discrezionalità amministrativa, che è connotata dalla
necessità di svolgere un’attività di comparazione e di
bilanciamento tra una pluralità di interessi in concreto
implicati nell’azione amministrativa, ma deve svolgere
valutazioni strettamente espressive di discrezionalità
tecnica che è caratterizzata dal perseguimento di un unico
interesse.
La Soprintendenza non può pertanto attenuare la tutela del
paesaggio, che è il bene alla cui cura è preposta,
comparandolo con interessi confliggenti di altra natura.
---------------
I ricorrenti e la controinteressata sono condomini in un
edificio ricompreso in un’area soggetta a vincolo
paesaggistico, sito al Lido di Venezia con affaccio sulla
laguna, costituito da un corpo centrale di cinque piani e da
due ali laterali di quattro piani, in una delle quali vi è
l’appartamento di proprietà della controinteressata che ha
una terrazza che funge da lastrico solare degli appartamenti
sottostanti.
La controinteressata ha realizzato sulla propria terrazza
una pompeiana con una struttura metallica schermata da reti
anch’esse metalliche dalla maglia di un centimetro a
copertura dell’intera terrazza.
Alcuni condomini nell’assemblea condominiale hanno
manifestato contrarietà al mantenimento di tale struttura
ritenendola peggiorativa dell’aspetto dell’edificio e di
ostacolo alla vista panoramica dagli altri appartamenti.
A seguito della segnalazione al Comune da parte dei vicini
della presenza dell’intervento abusivo, la controinteressata
il 03.11.2015 ha presentato un’istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 181, comma
1-quater, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, rispetto alla quale
la commissione edilizia integrata il 18.01.2016 ha espresso
parere contrario, ritenendo che il manufatto per tipologia,
materiali e posizione sia tale da provocare “un’alterazione
sostanziale dei profili paesaggistici del contesto in cui si
inserisce, data anche la posizione strategica del panorama a
partire dal bacino di San Marco antistante S. Elena”.
Nello stesso senso si è espressa la Soprintendenza in seno
alla conferenza di servizi svoltasi il 29.01.2016,
osservando che la struttura “percettivamente si presenta
come una volumetria che modifica l’alternanza tra vuoti e
pieni del fabbricato alterando i valori paesaggistici
dell’area tutelata visibile dalla laguna”.
Successivamente la controinteressata ha chiesto un riesame
in autotutela della determinazione negativa deducendo di
soffrire di una forma di fobia per le cavallette dimostrata
da una certificazione medica e precisando che il
mantenimento della struttura le avrebbe consentito di poter
continuare ad accedere alla terrazza con la sicurezza di
proteggersi dalla presenza degli insetti.
La Soprintendenza con parere reso nell’ambito della
conferenza di servizi del 31.03.2016, si è espressa
favorevolmente all’accertamento della compatibilità
paesaggistica nei seguenti termini “-OMISSIS-”.
Il Comune con provvedimento del 21.04.2016, ha quindi
rilasciato l’autorizzazione paesaggistica, disponendo il
pagamento dell’indennità risarcitoria e della sanzione
pecuniaria dovuta perché i lavori sono stati eseguiti in
assenza della comunicazione di inizio lavori.
Il parere vincolante della Soprintendenza ed i provvedimenti
del Comune sono impugnati da un gruppo di condomini con il
ricorso in epigrafe per le seguenti censure:
I) violazione dell’art. 167, commi 1, 2, 3, 4 e 5 e dell’art. 181
nonché dell’art. 27 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42,
perplessità, illogicità e contraddittorietà manifeste perché
è stata riconosciuto l’accertamento della compatibilità
paesaggistica al di fuori delle ipotesi tassativamente
previste dalla legge, in base a valutazioni che esulano
dalla tutela degli interessi paesaggistici che sono gli
unici che deve perseguire la Soprintendenza;
II) illogicità, contraddittorietà, carenza di istruttoria e di
motivazione perché, quand’anche fosse da ammettere una
qualche forma di discrezionalità e comparazione tra una
pluralità di interessi in capo alla Soprintendenza, sarebbe
mancata comunque l’acquisizione di documentazione idonea a
dimostrare univocamente l’effettiva necessità di una
struttura come quella realizzata e la mancanza di valide
alternative;
III) violazione degli artt. 1117 e 1127 c.c., difetto di
istruttoria e di motivazione perché il Comune ha irrogato
solamente una sanzione pecuniaria senza disporre la
rimozione della struttura nonostante fosse a conoscenza che
la stessa insiste su parti comuni del condominio, in quanto
realizzata sul lastrico solare, e che vi era l’espresso
dissenso degli altri condomini al suo mantenimento.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dei beni ed
attività culturali, il Comune di Venezia e la
controinteressata, eccependo gli ultimi due
l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione
e di interesse, e tutti concludendo per la reiezione del
ricorso.
Alla Camera di consiglio del 28.09.2016, fissata per l’esame
della domanda cautelare, avvisate le parti ai sensi
dell’art. 60 cod. proc. amm., la causa è stata trattenuta in
decisione.
Il Comune e la controinteressata eccepiscono il difetto di
legittimazione ed interesse dei ricorrenti perché gli stessi
rappresentano una minoranza di condomini dissenzienti
rispetto alla maggioranza che in assemblea condominiale si è
espressa favorevolmente, e perché l’ubicazione dei loro
appartamenti è tale da escludere la sussistenza di
un’effettiva riduzione della vista del paesaggio a causa
della presenza della struttura.
Tali eccezioni non possono essere accolte.
Il condomino infatti è portatore di un interesse tutelato
alla conservazione e al corretto uso, anche sotto il profilo
estetico, della cosa comune, e possiede pertanto la
legittimazione a dolersi delle alterazioni che possano
incidere negativamente sul valore dello stesso agendo a
difesa dei diritti ed interessi, esclusivi e comuni,
inerenti all’edificio condominiale (ex pluribus cfr.
Tar Friuli Venezia Giulia, 26.05.2011, n. 258; Tar Campania,
Napoli, Sez. IV, 06.06.2006, n. 6747; Tar Liguria,
07.04.2006, n. 355).
Ciò vale anche nell'ambito di una controversia come quella
all’esame che ha ad oggetto la richiesta di annullamento del
provvedimento che legittima il mantenimento della struttura
abusivamente realizzata che i ricorrenti hanno interesse a
che non sia regolarizzata perché peggiorativa della
fisionomia dell’edificio.
Nel merito il ricorso è fondato per le assorbenti censure di
cui al primo e terzo motivo.
Il Comune e la controinteressata ritengono che in sede di
accertamento della compatibilità paesaggistica di un
intervento abusivo l’Amministrazione preposta alla tutela
del paesaggio possa ed anzi debba svolgere un’opera di
comparazione e bilanciamento tra gli interessi coinvolti
graduando il proprio giudizio a seconda delle conseguenze
che l’eventuale rimozione dell’opera abusiva può determinare
per gli interessati.
Questo ordine di idee non può essere condiviso.
Come è stato anche recentemente chiarito (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 23.07.2015, n. 3652; cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 10.06.2013, n. 3205), l’Amministrazione
preposta alla tutela del paesaggio non può esercitare
valutazioni proprie della discrezionalità amministrativa,
che è connotata dalla necessità di svolgere un’attività di
comparazione e di bilanciamento tra una pluralità di
interessi in concreto implicati nell’azione amministrativa,
ma deve svolgere valutazioni strettamente espressive di
discrezionalità tecnica che è caratterizzata dal
perseguimento di un unico interesse.
La Soprintendenza non può pertanto attenuare la tutela del
paesaggio, che è il bene alla cui cura è preposta,
comparandolo con interessi confliggenti di altra natura.
Alla luce di tale principio l’illegittimità dell’atto
impugnato emerge dalla semplice lettura della motivazione
del parere della Soprintendenza nel quale l’Amministrazione,
pur ribadendo in modo espresso il proprio giudizio circa
l’incompatibilità sotto il profilo paesaggistico della
struttura, ha optato per il suo mantenimento facendo
riferimento alle condizioni soggettive e di salute della
controinteressata.
Anche il terzo motivo, con il quale i ricorrenti
lamentano sotto il profilo edilizio l’irrogazione della sola
sanzione pecuniaria, è fondato.
Infatti a fronte del conclamato dissidio tra condomini circa
l’intervento che riguarda parti comuni dell’edificio,
l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto prendere atto del
difetto di un titolo di godimento legittimante la
realizzazione e la sanabilità della struttura, disponendone
la demolizione (Tar Campania, Salerno, Sez. I, 09.05.2014,
n. 905).
Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.10.2016 n. 1135 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Omissioni
di atti d'ufficio: è nulla l'archiviazione senza avviso al
querelante che ne ha fatto richiesta.
Il delitto di omissione di atti di
ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen.,
integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua
realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon
andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il
concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione
o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto.
Ne consegue che il soggetto privato assume la posizione di
persona offesa dal reato ed è, pertanto, legittimato a
proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione
formulata dal P.m..
Invero, l'omesso avviso della
richiesta di archiviazione alla persona offesa, che ne abbia
fatto richiesta determina la violazione del contraddittorio
e la conseguente nullità, ex art. 127, comma quinto, cod.
proc. pen., del decreto di archiviazione emesso "de plano",
il quale è impugnabile con ricorso per cassazione nel
termine ordinario di quindici giorni, decorrente dal momento
in cui l'interessato ha avuto effettiva conoscenza del
provvedimento.
---------------
1. Con il decreto impugnato il G.i.p. del Tribunale di
Velletri ha disposto l'archiviazione del procedimento contro
ignoti per il reato di cui all'art. 328 cod. pen. originato
dalla querela sporta da Patrizi Mario il 29.07.2015.
2. Avverso il decreto di archiviazione propone ricorso il
Pa., che ne eccepisce la nullità per omessa notifica alla
persona offesa della richiesta di archiviazione e
conseguente violazione del contraddittorio.
Il ricorrente deduce di aver espressamente richiesto ai
sensi dell'art. 408, comma 3, cod. proc. pen. di essere
informato della richiesta di archiviazione, di non aver
ricevuto alcun avviso e di aver appreso in modo del tutto
casuale dell'emissione del decreto di archiviazione, affetto
da nullità per violazione dell'art. 178, lett. c), cod.
proc. pen.
3. Il ricorso è tempestivo e fondato.
Premesso che il delitto di omissione di
atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod.
pen., integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua
realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon
andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il
concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione
o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto, ne consegue
che il soggetto privato assume la posizione di persona
offesa dal reato ed è, pertanto, legittimato a proporre
opposizione avverso la richiesta di archiviazione formulata
dal P.m. (Sez. 2,
n. 17345 del 29/03/2011, Carota e altri, Rv. 250077), come
nella fattispecie.
Ed è principio consolidato che l'omesso
avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa,
che ne abbia fatto richiesta determina la violazione del
contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma
quinto, cod. proc. pen., del decreto di archiviazione emesso
"de plano", il quale è impugnabile con ricorso per
cassazione nel termine ordinario di quindici giorni,
decorrente dal momento in cui l'interessato ha avuto
effettiva conoscenza del provvedimento
(Sez. 5, n. 38758 del 25/05/2015, Rv. 265670).
Conseguentemente, il decreto impugnato va annullato senza
rinvio e gli atti vanno trasmessi al P.m. presso il
Tribunale di Velletri per l'ulteriore corso
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 13.10.2016 n. 43372). |
APPALTI:
I contratti degli enti pubblici devono essere
stipulati, a pena di nullità, in forma scritta.
In tema di attività jure privatorum della Pubblica
Amministrazione vige il principio secondo cui i contratti
degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di
nullità, in forma scritta, la quale assolve una funzione di
garanzia del regolare svolgimento dell'attività
amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il
contenuto del programma negoziale, anche ai fini della
verifica della necessaria copertura finanziaria e
dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria.
Ciò comporta non solo l'esclusione della possibilità di
desumere l'intervenuta stipulazione del contratto da una
manifestazione di volontà implicita o da comportamenti
meramente attuativi, ma anche la necessità che, salvo
diversa previsione di legge, l'intera vicenda negoziale sia
consacrata in un unico documento, contenente tutte le
clausole destinate a disciplinare il rapporto.
Tale principio trova applicazione non soltanto alla
conclusione del contratto, ma anche all'eventuale
rinnovazione dello stesso, a meno che la stessa non sia
prevista come effetto automatico da un'apposita clausola,
nonché alle modificazioni che le parti intendano in seguito
apportare alla disciplina concordata, le quali devono
pertanto risultare da un atto posto in essere nella medesima
forma del contratto originario, richiesta anche in tal caso
ad substantiam, non potendo essere introdotte in via
di mero fatto mediante l'adozione di pratiche difformi da
quelle precedentemente convenute, ancorché le stesse si
siano protratte nel tempo e rispondano ad un accordo
tacitamente intervenuto tra le parti in epoca successiva
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 13.10.2016 n. 20690 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il protrarsi delle operazioni di gara per lungo
tempo non rende illegittima ex se la procedura di gara.
Il protrarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non
rende illegittima ex se la procedura di gara, in
quanto, come afferma la costante giurisprudenza, il
principio di continuità e di concentrazione delle operazioni
non è di tale assolutezza e rigidità da determinare sempre e
comunque, laddove vulnerato, l'illegittimità degli atti di
gara, soprattutto allorquando, come nel caso di specie, la
procedura, per la complessità delle operazioni valutative,
per l'elevato numero dei concorrenti (inizialmente 29) o per
altre obiettive circostanze di rilievo (tra le quali, nel
caso di specie, anche l'attività svolta dall'Autorità
Nazionale Anticorruzione), si protragga nel corso di
numerose sedute.
Sebbene le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza
e speditezza dell'azione amministrativa postulino che le
sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al
principio di concentrazione e continuità, tale principio è
infatti soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga,
potendo verificarsi situazioni particolari che
obiettivamente impediscono l'espletamento di tutte le
operazioni in una sola seduta o in poche sedute ravvicinate.
La mancata indicazione nei verbali di operazioni
singolarmente svolte per la custodia delle buste, tra una
seduta e la successiva, non costituisce ex se causa
di illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato
-o siano quanto meno siano dalla ricorrente forniti adeguati
e ragionevoli indizi, nel caso di specie, mancanti- che la
documentazione di gara sia stata effettivamente manipolata
negli intervalli tra un'operazione e l'altra (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 11.10.2016 n. 4199 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Denuncia dei lavori e presentazione dei progetti
di costruzioni in zone sismiche - Zone a basso indice
sismico - Autorizzazione per l'inizio dei lavori da parte
del Genio civile - Normativa antisismica - Artt. 36, 44, 83,
93, 94 e 95 D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di cui agli artt. 93
e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001, non assume alcun rilievo la
circostanza che la zona sede dei lavori fosse, in ipotesi,
inclusa tra quelle a basso indice sismico.
L'art. 83, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, che rimanda
al decreto interministeriale con il quale vengono definiti i
criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche,
non pone alcuna distinzione in merito alle cd. "categorie"
delle zone medesime (Sez. 3, n. 8175, del 21/01/2016,
Piscella; Sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo; Sez. 3, n. 22312
del 15/02/2011, Marini).
Ciò in quanto si tratta di una normativa finalizzata,
comunque, a garantire l'esercizio del controllo preventivo
da parte della Pubblica amministrazione, e in particolare
del Genio Civile, sull'attività edificatoria che si svolge
in dette zone, in ragione della particolare situazione
determinante un pericolo astratto di pregiudizio per la
pubblica incolumità (in termini Sez. 3, n. 41617 del
02/10/2007, lavine; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo
ed altro).
Sicché il reato deve ritenersi integrato a prescindere dalle
menzionate categorizzazioni (Cass. Sez. 3, n. 22312 del
15/02/2011, Marini) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.10.2016 n. 42061
-
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della configurabilità del reato di cui agli artt. 93 e
95 del D.P.R. n. 380 del 2001, non assume alcun rilievo la
circostanza che la zona sede dei lavori fosse, in ipotesi,
inclusa tra quelle a basso indice sismico.
Infatti, l'art. 83, comma 2 del D.P.R. n. 380 del 2001, che
rimanda al decreto interministeriale con il quale vengono
definiti i criteri generali per l'individuazione delle zone
sismiche, non pone alcuna distinzione in merito alle cd.
"categorie" delle zone medesime.
---------------
4. Tanto premesso deve ritenersi che il primo motivo di
ricorso sia manifestamente infondato.
La sentenza impugnata, infatti, ha dato adeguatamente conto,
con motivazione immune da vizi logici, delle ragioni per le
quali ha ritenuto sussistenti i requisiti della
contravvenzione contestata al capo b).
Nel dettaglio, gli imputati lamentano per un verso che la
sentenza di primo grado non avrebbe considerato che il
Comune di Mongiuffi Melia era stato qualificato come "sismico
di II^ categoria", sicché l'autorizzazione dell'ufficio
del Genio civile sarebbe stata necessaria soltanto ove la
volumetria del manufatto fosse stata superiore ai 450 m3,
circostanza nella specie non ricorrente; e, per altro verso,
che l'Ufficio del Genio civile avesse rilasciato
autorizzazione per gli interventi in questione, in data
11/09/1991, a favore di Le.Lo., padre e dante causa di
Pa.Lo..
Per quanto attiene alla prima questione, tuttavia, va
ribadito che ai fini della configurabilità
del reato di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del
2001, non assume alcun rilievo
-contrariamente alle argomentazioni dei ricorrenti-
la circostanza che la zona sede dei lavori fosse, in
ipotesi, inclusa tra quelle a basso indice sismico.
Infatti, l'art. 83, comma 2 del D.P.R. n.
380 del 2001, che rimanda al decreto interministeriale con
il quale vengono definiti i criteri generali per
l'individuazione delle zone sismiche, non pone alcuna
distinzione in merito alle cd. "categorie"
delle zone medesime
(Sez. 3, n. 8175, del 21/01/2016, Piscella, non massimata;
Sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo, non massimata; Sez. 3, n.
22312 del 15/02/2011, Morini, Rv. 250369).
Ciò in quanto si tratta di una normativa
finalizzata, comunque, a garantire l'esercizio del controllo
preventivo da parte della Pubblica amministrazione, e in
particolare del Genio Civile, sull'attività edificatoria che
si svolge in dette zone, in ragione della particolare
situazione determinante un pericolo astratto di pregiudizio
per la pubblica incolumità
(in termini Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Iovine, Rv.
238007; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo ed altro, Rv.
237376).
Sicché il reato deve ritenersi integrato a
prescindere dalle menzionate categorizzazioni
(così Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Morini, Rv. 250369).
Quanto al secondo profilo, anche a voler prescindere dal
fatto che nella sentenza impugnata si fa unicamente
riferimento all'avvenuto rilascio della concessione edilizia
e non anche dell'autorizzazione da parte del Genio civile
richiesta dalla normativa antisismica, deve in ogni caso
osservarsi come l'intervento attuato al secondo piano (terzo
fuori terra) del manufatto fosse stato eseguito, secondo
quanto accertato dalla sentenza impugnata, al di fuori della
previsione del titolo abitativo rilasciato nel 1991, il
quale riguardava soltanto i primi due piani fuori terra.
Peraltro, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente,
secondo la deposizione dibattimentale del funzionario del
Genio civile, arch. Ba., in relazione all'intervento
edilizio in questione non era stato, comunque, riscontrato
alcun preavviso di lavori presso il competente ufficio del
Genio civile, né, tanto meno, risultava rilasciato alcun
titolo autorizzativo.
Ne consegue, pertanto, che, anche sotto tale aspetto, la
censura dedotta dai ricorrenti appare manifestamente
infondata
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.10.2016 n. 42061 - tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul sistema di organizzazione del servizio idrico
per ambiti territoriali ottimali.
Il singolo Comune non è più competente e legittimato a
costituire in proprio alcuna società o struttura consortile
a cui affidare, con gara o meno, la gestione del servizio
idrico.
Il sistema di organizzazione del servizio idrico per ambiti
territoriali ottimali ha tratto origine dalla legge Galli
(05.01.1994 n. 36, poi sostituita dal d.lgs. 152/2006, che
disciplina la materia agli artt.147 e ss.): questa,
nell'ottica del superamento della frammentazione della
gestione del servizio idrico integrato, ha stabilito
l'obbligatorietà della definizione di ambiti territoriali
ottimali in cui confluiscono tutti i comuni e ha individuato
le Regioni come soggetti competenti a delimitare gli ambiti
territoriali ottimali e a disciplinare le forme e i modi
della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel
medesimo ambito ottimale.
Spetta all'ATO individuare la figura gestoria più opportuna
mediante la quale provvedere all'erogazione del servizio
idrico integrato, sicché il singolo Comune non è più
competente e legittimato a costituire in proprio alcuna
società o struttura consortile a cui affidare, con gara o
meno, la gestione del servizio idrico (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 05.10.2016 n. 1229 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Reati edilizi e
diritto comunitario - Ordine di demolizione e diritto
"assoluto" alla inviolabilità del domicilio - Disciplina la
c.d. demolizione d'ufficio - Giurisprudenza CEDU - Artt. 27,
29, 31, 44, lett. b) e e), d.P.R. 380/2001 - Art. 181, comma
2, d.lgs. 42/2004.
In tema di reati edilizi, non sussiste alcun diritto "assoluto"
alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016,
Contadini, che, in motivazione, ha osservato che dalla
giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto
principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento
-in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le
disposizioni urbanistiche).
Del resto, la Corte di Strasburgo ha di recente ribadito la
legittimità 'convenzionale' della demolizione,
allorquando, valutandone la compatibilità con il diritto
alla abitazione, ha affermato che anche se il suo unico
scopo è quello di garantire l'effettiva attuazione delle
disposizioni normative che gli edifici non possono essere
costruiti senza autorizzazione, la stessa può essere
considerata come diretta a ristabilire lo stato di diritto;
salvo il rispetto della proporzionalità della misura con la
situazione personale dell'interessato, la Corte, richiamando
quanto previsto dall'art. 8, § 2, della Convenzione e.d.u.,
ha ritenuto che, nel contesto in esame, la misura può essere
considerata come rientrante nella "prevenzione dei
disordini", e finalizzata a promuovere il "benessere
economico del paese" (Corte EDU, Sez. V, 21/04/2016,
Ivanova e Cherkezov vs. Bulgaria).
Altrettanto importante appare l'affermazione della laddove
esclude che l'ordine di demolizione contrasti con l'art. 1
del protocollo n. 1 (protezione della proprietà), con la
precisazione che l'ordine, emesso dopo un ragionevole lasso
di tempo dopo la sua edificazione (per un precedente, cfr.
il caso Hamer c. Belgio, deciso il 27.11.2007, n. 21861/03),
ha l'obiettivo di garantire il ripristino dello "status
quo ante", così ristabilendo l'ordine giuridico violato
dal comportamento dell'autore dell'abuso edilizio, e di
scoraggiare altri potenziali trasgressori (§ 75).
Ordine di demolizione di un immobile
abusivo - Autonoma funzione ripristinatoria del bene
giuridico leso - Obbligo di fare - Tutela del territorio -
Esclusione della prescrizione stabilita dall'art. 173 cod.
pen..
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal
giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R.
380/2001, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha
natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico
leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha
carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in
rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o
meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue caratteristiche la demolizione non può
ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
Ordine 'giudiziale' di demolizione -
Natura di sanzione amministrativa a carattere
ripristinatorio - Revocabilità - Effetti della sentenza di
applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) -
Irrevocabilità della sentenza - Competenza del P.M. ad
eseguire l'ordine di demolizione.
L'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile
di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore in tal senso non mutuando il carattere tipico delle
sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili
l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010
(dep. 2011), D'Avino; resta eseguibile, qualora sia stato
impartito con la sentenza di applicazione della pena su
richiesta, anche nel caso di estinzione del reato
conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445,
comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del
23/03/2011, Abbate; non è estinto dalla morte del reo
sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza, cfr. Sez. 3,
n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la
cui emissione è demandata (anche) al giudice penale
all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al
fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del
procedimento di esecuzione della demolizione.
È pacifica, altresì, la competenza del P.M. ad eseguire
l'ordine di demolizione disposto con la sentenza di
condanna.
Ordine di demolizione - Finalità
ripristinatoria dell'assetto del territorio - Diversa natura
e finalità delle pene principali - Applicazione analogica
della norma sulla prescrizione - Esclusione.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un
lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono,
infatti, di individuare un elemento di identità tra i due "casi"
che consenta un'applicazione analogica della norma sulla
prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene 'principali'
hanno una natura lato sensu 'repressiva', ed
una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai
sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha
una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue
finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità
ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le
esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del
tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla
tutela collettiva di un bene pubblico (Cass. Sez. 3, n.
43006 del 10/11/2010, La Mela; Sez. 3, Sentenza n. 16537 del
18/02/2003, Filippi).
Ordine di demolizione dell'opera abusiva
- Natura di sanzione amministrativa di carattere reale a
contenuto ripristinatorio - Trasferimenti di proprietà del
bene da demolire - Competenza del P.M.
L'ordine di demolizione dell'opera abusiva, avendo natura di
sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto
ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei
confronti dell'erede o dante causa del condannato o di
chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di
godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui
siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo
del territorio, provvedimenti amministrativi con esso
assolutamente incompatibili (Cass., Sez. 3, n. 42699 del
07/07/2015, Curcio).
La natura reale della demolizione, dunque, implica che
l'esecuzione della sanzione prescinde dalla titolarità del
diritto di proprietà, e, di conseguenza, la stessa
competenza del P.M. rimane inalterata, anche in caso di
trasferimenti di proprietà del bene da demolire, derivando
dalla competenza istituzionale, stabilita in via generale
dall'art. 655 cod. proc. pen., che individua l'organo della
pubblica accusa come il soggetto incaricato dell'esecuzione
dell'ordine di demolizione emanato in sede giurisdizionale
(in termini, Sez. 3, n. 9139 del 07/07/2000, Del Duca).
C.d. demolizione d'ufficio - A
prescindere dall'individuazione di responsabili - Finalità
esclusivamente ripristinatoria dell'originario assetto del
territorio - Differenza tra art. 27 e 31 d.P.R. 380/2001 -
Acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune e
demolizione 'in danno' a spese dei responsabili dell'abuso.
In materia urbanistica, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001
disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta
dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia
attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul
solo presupposto della presenza sul territorio di un
immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una
finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario
assetto del territorio.
Mentre, l'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla
demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità
amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione
d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista
l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e,
comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio
del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno',
a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica
deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Reati edilizi - Opere abusive -
Richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di
demolizione - Istanza di condono o sanatoria successiva al
passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Poteri e
verifiche del giudice dell'esecuzione.
In tema di
reati edilizi, il giudice dell'esecuzione investito della
richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di
demolizione delle opere abusive di cui all'art. 31 d.P.R. n.
380 del 2001 in conseguenza della presentazione di una
istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i
possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento
amministrativo e, in particolare:
a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di
eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura,
che può determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel
caso di un suo rapido esaurimento (Sez. 3, n. 47263 del
25/09/2014, Russo).
Natura amministrativa della demolizione
- Potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità
amministrativa - Esclusione dell'estinzione della sanzione
per il decorso del tempo o per la prescrizione quinquennale
- Giurisprudenza.
La giurisprudenza di legittimità ha elaborato una serie di
principi che hanno costantemente ribadito la natura
amministrativa della demolizione, quale sanzione accessoria
oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente
giurisdizionale, esplicazione di un potere autonomo e non
alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il
quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (Cass.,
Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo; Sez. 3,
n.37906 del 22/05/2012, Mascia; Sez. 6, n. 6337 del
10/3/1994, Sorrentino; si vedano anche Sez. U., n. 15 del
19/06/1996, RM. in proc. Monter).
In tale quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione
della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art.
173 cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole
pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano; Sez. 3, n.
43006 del 10/11/2010, La Mela); ed altresì è stata negata
l'estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni
amministrative, stabilita dall'art. 28 L. 24.11.1981, n.
689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con
finalità punitiva ("il diritto a riscuotere le somme ...
si prescrive"), mentre l'ordine di demolizione integra
una sanzione 'ripristinatoria', che configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio (Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003,
Filippi) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2016 n. 41498 -
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
prelazione sui Beni Vincolati spetta al Consiglio e non alla
Giunta.
La giurisprudenza ha osservato, al riguardo:
- “L’atto con il
quale, ai sensi dell’art. 62, comma 3, d.lgs. 22.01.2004
n. 42, viene esercitato il potere di prelazione, rientrando
nella materia degli “acquisti ed alienazioni immobiliari” di
cui all’art. 42, comma 2, t.u. 28.08.2000 n. 267,
appartiene alla competenza del Consiglio comunale”;
-
"L’art. 42,
comma 2, lett. l), d.lgs. 18.08.2000 n. 267, attribuisce
espressamente al Consiglio comunale la competenza in materia
di “acquisti ed alienazioni immobiliari” senza alcuna
eccezione, pertanto è competente il consiglio anche in
ipotesi di deliberazione di acquisto a seguito di esercizio
della prelazione da parte del ministero per i beni culturali
ed ambientali in favore dell’ente locale”;
- “È illegittima la delibera con cui la giunta municipale
ha deciso di esercitare, ai sensi dell’art. 48 d.P.R. n.
327/2001, la prelazione sugli immobili oggetto di una
richiesta di retrocessione, considerato che, ai sensi
dell’art. 42 d.lgs. n. 267/2000, l’esercizio del diritto di
prelazione, previsto dall’art. 48 d.P.R. n. 327/2001,
rientra negli acquisti immobiliari di competenza del
consiglio comunale”.
---------------
... per l’annullamento:
A) del decreto del Dirigente del Settore Servizi Tecnici
della Provincia di Salerno, n. 2659 dell’11.02.2005,
notificato il 14.02.2005, con il quale è stata esercitata –dalla Provincia di Salerno– la prelazione per l’acquisto
dell’immobile denominato “Convento Santa Maria di
Costantinopoli” e dell’annesso terreno;
B) della deliberazione della Giunta Provinciale di Salerno,
n. 102 del 04.02.2005, con cui è stato deliberato il
predetto esercizio di prelazione;
C) di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali,
ivi compresa, ove occorra e nella parte d’interesse, della
deliberazione della Giunta Provinciale di Salerno, n. 1040
del 30.12.2004, nonché della nota, n. 35633 del 29.11.2004,
a firma del Soprintendente per i B.A.P.P.S.A.D. di Salerno e
Avellino;
...
Osserva il Tribunale che, ai sensi dell’art. 62 d.l.vo 42/2004, nel testo
vigente ratione temporis:
“1. Il soprintendente, ricevuta la denuncia di un atto
soggetto a prelazione, ne dà immediata comunicazione alla
regione e agli altri enti pubblici territoriali nel cui
ambito si trova il bene. Trattandosi di bene mobile, la
regione ne dà notizia sul proprio Bollettino Ufficiale ed
eventualmente mediante altri idonei mezzi di pubblicità a
livello nazionale, con la descrizione dell’opera e
l’indicazione del prezzo.
2. La regione e gli altri enti pubblici territoriali, nel
termine di trenta giorni dalla denuncia, formulano al
Ministero la proposta di prelazione, corredata dalla
deliberazione dell’organo competente che predisponga, a
valere sul bilancio dell’ente, la necessaria copertura
finanziaria della spesa.
3. Il Ministero, qualora non intenda esercitare la
prelazione, ne dà comunicazione, entro quaranta giorni dalla
ricezione della denuncia, all’ente interessato. Detto ente
assume il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento
di prelazione e lo notifica all’alienante ed all’acquirente
entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia medesima.
La proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la
prelazione dalla data dell’ultima notifica.
4. Nei casi di cui all’articolo 61, comma 2, i termini
indicati al comma 2 ed al comma 3, primo e secondo periodo,
sono, rispettivamente, di novanta, centoventi e centottanta
giorni dalla denuncia tardiva o dalla data di acquisizione
degli elementi costitutivi della denuncia medesima”.
Ai sensi dell’art. 61 cpv. dello stesso d.l.vo, in
particolare: “2. Nel caso in cui la denuncia sia stata
omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta,
la prelazione è esercitata nel termine di centottanta giorni
dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia
tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi
costitutivi della stessa ai sensi dell’articolo 59, comma
4”.
Tale disciplina va coordinata, al fine di individuare
l’organo dell’ente pubblico territoriale, competente a
deliberare la proposta di prelazione, predisponendo la
necessaria copertura finanziaria della spesa, con l’art. 42
del d.l.vo 267/2000, e in particolare con il comma 2, lett.
l), secondo cui: “2. Il consiglio ha competenza
limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) l) acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
giunta, del segretario o di altri funzionari”.
La giurisprudenza ha osservato, al riguardo: “L’atto con il
quale, ai sensi dell’art. 62, comma 3, d.lgs. 22.01.2004
n. 42, viene esercitato il potere di prelazione, rientrando
nella materia degli “acquisti ed alienazioni immobiliari” di
cui all’art. 42, comma 2, t.u. 28.08.2000 n. 267,
appartiene alla competenza del Consiglio comunale” (TAR
Perugia (Umbria), Sez. I, 10/04/2013, n. 221); conforme
Consiglio di Stato, Sez. IV, 24/06/2002, n. 3430: “L’art. 42,
comma 2, lett. l), d.lgs. 18.08.2000 n. 267, attribuisce
espressamente al Consiglio comunale la competenza in materia
di “acquisti ed alienazioni immobiliari” senza alcuna
eccezione, pertanto è competente il consiglio anche in
ipotesi di deliberazione di acquisto a seguito di esercizio
della prelazione da parte del ministero per i beni culturali
ed ambientali in favore dell’ente locale”; si tenga presente
anche TAR Napoli (Campania), Sez. V, 14/02/2008, n.
846: “È illegittima la delibera con cui la giunta municipale
ha deciso di esercitare, ai sensi dell’art. 48 d.P.R. n.
327/2001, la prelazione sugli immobili oggetto di una
richiesta di retrocessione, considerato che, ai sensi
dell’art. 42 d.lgs. n. 267/2000, l’esercizio del diritto di
prelazione, previsto dall’art. 48 d.P.R. n. 327/2001,
rientra negli acquisti immobiliari di competenza del
consiglio comunale”.
Nella specie (in disparte l’eccepito difetto di
giurisdizione del G.A. circa il dedotto tardivo esercizio
della prelazione, trattandosi d’aspetto non dirimente), la
decisione di “avvalersi del diritto di prelazione per
l’acquisto del bene culturale”, rappresentato dal Convento
di Santa Maria di Costantinopoli in Olevano sul Tusciano, e
dall’annesso terreno circostante, è stata illegittimamente
assunta, anziché dal Consiglio, dalla Giunta Provinciale di
Salerno, con l’impugnata deliberazione, n. 102 del 04.02.2005, la quale si presenta, per di più, anche
carente della predisposizione della necessaria copertura
finanziaria della spesa, a valere sul bilancio dell’ente,
essendo evidente come il rinviare, in detta deliberazione,
la stessa copertura alla futura accensione di un apposito
mutuo, non appare affatto rispettoso del precetto
legislativo (a tacer d’altro, l’espressione “a valere sul
bilancio dell’ente” indica la necessità della previsione di
un apposito capitolo di spesa esistente, piuttosto che
futuro e incerto, come nella specie).
A fortiori è illegittimo l’atto dirigenziale gravato che –in esecuzione della prefata delibera giuntale, affetta da
incompetenza– ha quindi decretato l’esercizio del diritto
di prelazione in oggetto.
Né, tampoco, le superiori conclusioni possono essere
revocate in dubbio, perché, come sostenuto dalla difesa
dell’Amministrazione Provinciale, essendo ancora pendente il
termine, cd. lungo, di giorni centottanta (emergente dal
combinato disposto degli artt. 61 cpv. – 62, comma 4, d.l.vo
42/2004), per l’esercizio della prelazione, da parte
dell’organo consiliare, e rappresentando –la delibera
giuntale in oggetto– esecuzione del piano triennale dei
lavori pubblici, adottato con delibera di G. P. n. 1040/2004
(il quale, relativamente al 2005, prevedeva una
disponibilità di € 300.000,00 per acquisti e restauri di
beni culturali in Olevano sul Tusciano), entrambe le
condizioni, previste dall’art. 62, comma 2, d.l.vo 42/2004,
per il legittimo esercizio della prelazione, sarebbero
potute dirsi, nella sostanza, rispettate.
La circostanza, in particolare, che il termine cd. lungo
fosse ancora pendente –e che, quindi, la Provincia avrebbe
potuto, in tesi, ancora adottare, eventualmente, un atto,
con effetti sostanzialmente sananti della delibera giuntale,
viziata da incompetenza– oltre che costituire implicita
ammissione della sussistenza del vizio in questione, nulla
toglie, evidentemente, all’illegittimità di quest’ultima,
sotto tale profilo; d’altronde, la circostanza che il piano
triennale dei LL. PP. prevedesse l’indicata disponibilità
finanziaria (ma, genericamente, per acquisti di beni
culturali in Olevano, piuttosto che per l’acquisizione dello
specifico bene immobile de quo) finisce per il contrastare,
chiaramente, con la volontà, pure espressa dall’ente, di
voler accendere uno specifico mutuo, per detto acquisto.
Del resto, non sono state segnalate al Tribunale, dopo
l’adozione dell’ordinanza che ha regolato la fase cautelare
del presente giudizio, deliberazioni del Consiglio
Provinciale, che andassero nei sensi, indicati nella memoria
difensiva dell’ente.
In aderenza alle superiori considerazioni, da ritenersi
assorbenti degli ulteriori profili di censura, il ricorso va
accolto e gli atti impugnati vanno annullati (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 04.10.2016 n. 2234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati in materia di normativa antisismica -
Pericolosità delle costruzioni - Configurabilità delle
contravvenzioni - Artt. 32, lett. a), 44, 64, 65, 71, 72,
93, 94 e 95 d.lgs. n. 380/2001 T.U.E. - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste
dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano
effettivamente pericolose, in quanto le contravvenzioni
puniscono inosservanze formali e la normativa è finalizzata
a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A.
sulle attività edificatorie in dette zone (Cass. Sez. 3, n.
41617 del 02/10/2007; Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012; Sez.
3, n. 27876 del 16/06/2015).
Intervento edilizio in zona sismica -
Titolo abilitativo - Direzione di professionista abilitato.
In materia urbanistica, anche dopo la entrata in vigore del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 qualsiasi intervento edilizio, ad
eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, ove
eseguito in zona sismica, che non sia preceduto dalla previa
denuncia al competente ufficio con presentazione di un
progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non
sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non
siano stati svolti sotto la direzione di professionista
abilitato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014; Sez. 3, n. 28514
del 29/05/2007; Sez. 3, n. 45958 del 26/10/2005).
Opere realizzate nelle zone sismiche -
Adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei
progetti allo sportello unico - Irrilevanza della natura
precaria dell'intervento.
Il reato antisismico, inoltre, sussiste nel caso di opere
realizzate nelle zone sismiche senza adempimento
dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti
allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e
senza la preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento
(Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011; Sez. 3, n. 48950 del
04/11/2015).
Zona sismica - Trasformazione di un
balcone in veranda - Permesso di costruire - Necessità -
Pertinenza - Esclusione - Un balcone costituisce parte
integrante dello stabile - Assenza di funzione autonoma.
La trasformazione di un balcone, anche di modesta
superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di
installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza,
né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro,
ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso
di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo
abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R.
n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep.
15/01/2014; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007).
Con riferimento alla realizzazione di un balcone, tale opera
pur non rientrando tra gli interventi di manutenzione
straordinaria, comporta aumento della superficie utile e
mutamento dell'aspetto del fabbricato ed è, quindi, soggetta
a permesso di costruire.
Essa esula, altresì, dalla nozione di pertinenza, poiché,
mentre quest'ultima deve essere autonoma, il balcone
costituisce parte integrante dello stabile (Sez. 3, n. 2627
del 20/05/1988, dep. 17/02/1989, Rv. 180562; Sez. 3, n.
42892 del 24/10/2008, Rv. 241542) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2016 n. 41151 - tratto da e
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Volume tecnico di rilevante ingombro -
Realizzazione senza permesso di costruire - Configurabilità
del reato edilizio ex art. 44, c. 1, lett. b), d.P.R. n.
380/2001.
La realizzazione senza permesso di costruire di un volume
tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere
oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni
integra il reato edilizio previsto dall'art. 44, comma
primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, n. 7217
del 17/11/2010, dep. 25/02/2011) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2016 n. 41151 - tratto da e
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche prima dell’entrata in vigore della legge n.
124 del 2015, la giurisprudenza aveva riconosciuto che, in
materia di SCIA, l'amministrazione può ancora intervenire
per contrastare l'attività edilizia non conforme alla
vigente normativa una volta spirato il termine per
l’esercizio del potere inibitorio, esercitando un potere di
autotutela sui generis (perché non avente ad oggetto un
provvedimento di primo grado) che condivide con l'ordinario
potere di autotutela i principi che ne governano
l’esercizio.
Era pertanto indispensabile, affinché tale potere potesse
dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità
amministrativa intervenisse “entro un termine ragionevole”.
Il legislatore, quindi, aveva individuato il limite
temporale per disporre l'annullamento d'ufficio secondo un
parametro indeterminato ed elastico che doveva essere
adattato alle circostanze del caso concreto, finendo per
lasciare al sindacato del giudice amministrativo il compito
di valutare, anche in relazione alla complessità degli
interessi coinvolti ed al loro consolidamento, la congruità
del termine intercorso tra l'adozione del provvedimento di
autotutela e l’atto originario.
---------------
L’art. 21-nonies citato prevede, nell’attuale formulazione,
un preciso sbarramento temporale all’esercizio del potere di
autotutela, laddove stabilisce che il potere di annullamento
d’ufficio non può comunque essere esercitato oltre “diciotto
mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
Pur trattandosi di previsione non applicabile ratione
temporis, essa assume sicuro rilievo, come già rilevato
dalla giurisprudenza amministrativa, per individuare il
termine “ragionevole” entro il quale può essere
legittimamente esercitato il potere di autotutela.
---------------
L’applicazione dei principi in materia di autotutela
comporta che l’amministrazione dia conto, nell’atto di
annullamento degli effetti della SCIA, delle prevalenti
ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da
quelle al mero ripristino della legalità violata, che
depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli
interessi dei destinatari e degli eventuali
controinteressati.
Nella fattispecie, l’atto impugnato è motivato con esclusivo
riferimento ai pretesi vizi di legittimità che inficerebbero
la SCIA, senza alcun riferimento agli interessi coinvolti
nella fattispecie.
Il Comune, quindi, non ha indicato le ragioni di interesse
pubblico che avrebbero giustificato l’annullamento della
SCIA, nonostante il potere di autotutela sia stato
esercitato dopo che i suoi effetti si erano consolidati da
oltre due anni e il privato, in conseguenza, aveva maturato
un affidamento qualificato al riguardo.
Ne deriva la sussistenza del vizio motivazionale denunciato
con il secondo motivo di ricorso.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 14/07/2014, prot.
n. 27921/20977, a firma del responsabile del Settore
edilizia privata, avente ad oggetto annullamento in
autotutela della SCIA 11/11/2011 presentata per intervento
di frazionamento e parziale mutamento di destinazione d’uso
del fabbricato di via ... n. 14, nonché per la condanna del
Comune intimato al risarcimento del danno.
...
1) E’ controversa la legittimità del provvedimento in data
14.07.2014, con cui il Comune di Andora ha disposto, per i
motivi ivi indicati, l’annullamento in autotutela degli
effetti della SCIA presentata l’11.11.2011 per un intervento
di frazionamento e parziale mutamento di destinazione d’uso
del fabbricato di proprietà della Società ricorrente.
2) Con il primo motivo di ricorso, l’esponente denuncia la
violazione delle regole di correttezza dell’azione
amministrativa, in relazione al notevole ritardo con cui è
stato esercitato il potere di autotutela.
La SCIA, infatti, era stata presentata in data 11.11.2011,
mentre l’impugnato provvedimento di annullamento d’ufficio è
stato adottato il 14.07.2014.
La difesa comunale si oppone alla censura in quanto, nella
fattispecie, non vi sarebbe stato alcun affidamento del
privato meritevole di tutela, dal momento che l’ordine di
non effettuare l’intervento edilizio era stato impartito già
con nota del 15.12.2011 e l’erroneo richiamo normativo ivi
contenuto sarebbe stato indotto dalle contraddizioni
emergenti dalla documentazione presentata dalla Società.
Inoltre, l’Amministrazione resistente rileva che i lavori
non hanno preso avvio nel breve periodo di applicabilità del
d.l. n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011, sicché la
SCIA, avente ad oggetto un intervento non compatibile con la
normativa sopravvenuta, avrebbe perso ogni carattere di
attualità.
La censura è fondata.
Anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del
2015, la giurisprudenza aveva riconosciuto che, in materia
di SCIA, l'amministrazione può ancora intervenire per
contrastare l'attività edilizia non conforme alla vigente
normativa una volta spirato il termine per l’esercizio del
potere inibitorio, esercitando un potere di autotutela sui
generis (perché non avente ad oggetto un provvedimento di
primo grado) che condivide con l'ordinario potere di
autotutela i principi che ne governano l’esercizio (cfr.
Cons. Stato, Ad. plen., 29.07.2011, n. 15).
Era pertanto indispensabile, affinché tale potere potesse
dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità
amministrativa intervenisse “entro un termine ragionevole”.
Il legislatore, quindi, aveva individuato il limite
temporale per disporre l'annullamento d'ufficio secondo un
parametro indeterminato ed elastico che doveva essere
adattato alle circostanze del caso concreto, finendo per
lasciare al sindacato del giudice amministrativo il compito
di valutare, anche in relazione alla complessità degli
interessi coinvolti ed al loro consolidamento, la congruità
del termine intercorso tra l'adozione del provvedimento di
autotutela e l’atto originario.
Tanto precisato, non dubita il Collegio che, nel caso di
specie, l’ampio lasso di tempo (oltre 30 mesi) trascorso dal
consolidamento della SCIA fosse più che sufficiente a
generare un affidamento qualificato in capo al privato,
anche perché si trattava di un intervento edilizio non
complesso e non confliggente con eventuali interessi di
terzi.
Va soggiunto che l’art. 21-nonies citato prevede,
nell’attuale formulazione, un preciso sbarramento temporale
all’esercizio del potere di autotutela, laddove stabilisce
che il potere di annullamento d’ufficio non può comunque
essere esercitato oltre “diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici”.
Pur trattandosi di previsione non applicabile ratione
temporis, essa assume sicuro rilievo, come già rilevato
dalla giurisprudenza amministrativa, per individuare il
termine “ragionevole” entro il quale può essere
legittimamente esercitato il potere di autotutela (Cons.
Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762; idem, 10.12.2015, n. 5625).
I rilievi della difesa comunale non valgono ad escludere,
infine, la sussistenza di un affidamento particolarmente
qualificato in capo al privato in quanto, a fronte della
chiara indicazione contenuta nel frontespizio della SCIA,
non potevano nutrirsi ragionevoli dubbi in ordine alla
normativa applicabile nella fattispecie.
L’ipotetico fraintendimento generato da alcune
contraddittorietà emergenti dalla documentazione allegata
alla SCIA, comunque, non poteva giustificare il grave
ritardo con cui, oltre due anni dopo la comunicazione di
avvio del relativo procedimento, è stato adottato il
provvedimento finale.
Non rileva, infine, il mancato avvio dei lavori (peraltro
contestato dalla parte ricorrente), poiché l’affidamento del
privato discende direttamente dal consolidamento degli
effetti della SCIA e dal successivo decorso del tempo.
Il provvedimento impugnato, in conclusione, è illegittimo e
deve essere annullato in quanto adottato ben oltre il
termine ragionevole entro il quale deve ritenersi consentito
l’esercizio del potere di autotutela.
3) L’applicazione dei principi in materia di autotutela
comporta che l’amministrazione dia conto, nell’atto di
annullamento degli effetti della SCIA, delle prevalenti
ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da
quelle al mero ripristino della legalità violata, che
depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli
interessi dei destinatari e degli eventuali
controinteressati (cfr., fra le ultime, TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 18.02.2016, n. 355).
L’atto impugnato è motivato con esclusivo riferimento ai
pretesi vizi di legittimità che inficerebbero la SCIA, senza
alcun riferimento agli interessi coinvolti nella
fattispecie.
Il Comune di Andora, quindi, non ha indicato le ragioni di
interesse pubblico che avrebbero giustificato l’annullamento
della SCIA, nonostante il potere di autotutela sia stato
esercitato dopo che i suoi effetti si erano consolidati da
oltre due anni e il privato, in conseguenza, aveva maturato
un affidamento qualificato al riguardo.
Ne deriva la sussistenza del vizio motivazionale denunciato
con il secondo motivo di ricorso (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 03.10.2016 n. 970 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968,
riguardante i "limiti di distanza
tra i fabbricati", prevede, al comma 1, che per le zone A le
distanze tra gli edifici
non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati
preesistenti, per i nuovi edifici ricadenti in altre zone la
distanza debba essere quella minima assoluta di metri 10 tra
pareti finestre e pareti di edifici antistanti,
e per le zone C, sia "altresì prescritta" la distanza minima
pari all'altezza del
fabbricato più alto.
Al comma 3, poi, prevede che "qualora
le distanze fra
fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori
all'altezza del fabbricato più
alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere
la misura
corrispondente all'altezza stessa", essendo "ammesse
distanze inferiori a quelle
indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni plano
volumetriche".
---------------
Appare coerente con il dato normativo l'assunto del P.M.
ricorrente secondo
cui la disposizione dell'ultimo comma sopra evidenziata
debba applicarsi anche a
tali diverse zone: da un lato la formulazione generale di
una disposizione posta
"a chiusura" dell'articolo e riferita testualmente alle
distanze "come sopra
computate", ivi dovendo intendersi dunque
in esse comprese anche le distanze per le
"altre zone", non può
lasciare dubbi sulla sua portata onnicomprensiva e,
dall'altro, anche sotto il
profilo sistematico, non si comprenderebbe perché, come
sostenuto
dall'ordinanza impugnata, per le parti del territorio
destinate a nuovi
insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati
(tale essendo le zone D
come definite dall'art. 2 del d.m. cit.), tale norma di
chiusura (che ragguaglia
come detto la distanza a quella raggiunta in altezza dal
fabbricato più alto) non
dovrebbe essere applicabile.
---------------
L'art. 9 cit. prevede, segnatamente in ipotesi
di costruzione di nuovi
edifici ricadenti in altre zone, che "la distanza minima
assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10
metri, con obbligo di
aumento della distanza sino all'altezza del fabbricato
finitimo più alto, se questo
sia maggiore di 10 metri", restando così confermata la
valenza generale del
comma 2 dell'art. 9 cit..
----------------
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Salerno ha proposto
ricorso avverso l'ordinanza in data 16/09/2015 del Tribunale
di Salerno che, in
accoglimento dell'istanza di riesame, ha annullato il
decreto di sequestro
preventivo del G.i.p. del 13/08/2015 di due fabbricati in
corso di costruzione per
i reati di cui agli artt. 323 c.p. e 44, lett. b), del d.P.R.
n. 380 del 2001.
In
particolare l'addebito edilizio muove dal presupposto della
illegittimità delle
opere edili per il fatto che i fabbricati sarebbero stati
realizzati a 10,60 metri di
distanza tra loro come assentito dal permesso di costruire,
mentre avrebbero
dovuto essere realizzati ad una distanza di 22 metri pari
alla loro altezza in forza
della disposizione di cui all'art. 9 del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968.
Con un unico motivo contesta l'assunto del provvedimento
impugnato secondo
cui il ragguaglio della distanza tra edifici, che comunque
non può mai essere
inferiore a 10 metri, alla altezza massima raggiunta dagli
stessi troverebbe
applicazione unicamente con riferimento ai nuovi fabbricati
da costruire nelle
zone territoriali omogenee di tipo C, mentre nelle altre
zone l'unico limite
sarebbe quello appunto di 10 metri previsto dall'art. 9 n. 2
del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968 indipendentemente dall'altezza
degli edifici.
Al
contrario, secondo il ricorrente, l'obbligo di osservare
tale distanza dovrebbe
trovare applicazione con riferimento alla zona A, alla zona
C, e anche per i nuovi
edifici, nella specie tali essendo quelli oggetto di
sequestro situati in zona D,
ricadenti in altre zone.
Aggiunge che la possibilità di
applicazione di distanze
inferiori sarebbe previsto dall'art. 9 unicamente nel caso
di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni
plano-volumetriche, mentre nel Comune di Pontecagnano non
sono stati ancora
approvati i piani particolareggiati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è fondato.
L'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968,
riguardante i "limiti di distanza
tra i fabbricati", prevede, al comma 1, che per le zone A le
distanze tra gli edifici
non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati
preesistenti, per i nuovi edifici ricadenti in altre zone la
distanza debba essere quella minima assoluta di metri 10 tra
pareti finestre e pareti di edifici antistanti,
e per le zone C, sia "altresì prescritta" la distanza minima
pari all'altezza del
fabbricato più alto.
Al comma 3, poi, prevede che "qualora
le distanze fra
fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori
all'altezza del fabbricato più
alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere
la misura
corrispondente all'altezza stessa", essendo "ammesse
distanze inferiori a quelle
indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni plano
volumetriche".
Ciò posto, ed incontestato che, nella specie, si abbia
riguardo a costruzioni
effettuate in zona D (e dunque edifici posti, secondo la
dizione dell'art. 9,
comma 1, n. 2, "in altre zone" nel senso di zone appunto
diverse dalla zona A e
dalla zona C espressamente richiamate rispettivamente dai nn.
1 e 3 del comma
1), appare coerente con il dato normativo l'assunto del P.M.
ricorrente secondo
cui la disposizione dell'ultimo comma sopra evidenziata
debba applicarsi anche a
tali diverse zone: da un lato la formulazione generale di
una disposizione posta
"a chiusura" dell'articolo e riferita testualmente alle
distanze "come sopra
computate", ivi dovendo intendersi dunque (anche in ragione
dell'ulteriore
espresso richiamo ai "precedenti commi" sia pure ai fini di
chiarire lo spazio di
operatività della deroga prevista per i piani
particolareggiati o le lottizzazioni
convenzionate) in esse comprese anche le distanze per le
"altre zone", non può
lasciare dubbi sulla sua portata onnicomprensiva e,
dall'altro, anche sotto il
profilo sistematico, non si comprenderebbe perché, come
sostenuto
dall'ordinanza impugnata, per le parti del territorio
destinate a nuovi
insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati
(tale essendo le zone D
come definite dall'art. 2 del d.m. cit.), tale norma di
chiusura (che ragguaglia
come detto la distanza a quella raggiunta in altezza dal
fabbricato più alto) non
dovrebbe essere applicabile.
Del resto il censurato, dal Tribunale, risultato di
omogeneità cui si giungerebbe
per effetto della generalizzata applicazione dell'ultimo
comma, lungi dall'essere il
frutto di una distorsione interpretativa (secondo
l'ordinanza impugnata
erroneamente propugnata dal consulente del P.M.), sarebbe a
ben vedere, in
realtà, l'esito della stessa volontà del legislatore che a
tale omogeneità ha
peraltro derogato laddove, come già visto, ha previsto la
possibilità di distanze
inferiori a quelle indicate nei commi 1 e 2 nel caso di
gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con
previsioni plano-volumetriche.
Né in senso contrario possono condurre le citata, dal
Tribunale, sentenze del
Tar Lombardia n. 671 e 1429 del 2012 posto che anzi,
secondo quanto
affermato dal Cons. di Stato nella più recente pronuncia di
Sez. 4, n. 2130 del
17/03/2015, l'art. 9 cit. prevede, segnatamente in ipotesi
di costruzione di nuovi
edifici ricadenti in altre zone, che "la distanza minima
assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10
metri, con obbligo di
aumento della distanza sino all'altezza del fabbricato
finitimo più alto, se questo
sia maggiore di 10 metri", restando così confermata la
valenza generale del
comma 2 dell'art. 9 cit.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.09.2016 n. 40694). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L’avvocato che trascina il cliente in causa lo risarcisce.
Condanna esemplare: fino a 20mila euro a
carico dell’avvocato che spinge il cliente a impugnare la
sentenza sfavorevole pur non avendo possibilità di successo.
«…E noi facciamo appello; che tanto ci daranno
sicuramente ragione» potrebbe dirti un avvocato poco
professionale e scorretto. Tanto poi, chi perde è il cliente
ed è quest’ultimo a pagare. Invece no: secondo una sentenza
di ieri della Cassazione [1],
l’avvocato che spinge l’assistito inesperto a fare
opposizione contro la sentenza sfavorevole è tenuto a
risarcirgli i danni. Danni che possono arrivare anche a
20.000 euro.
Una pronuncia che imporrà, d’oggi in poi, ad ogni legale
scrupoloso, di “mettere tutto per iscritto” e far
firmare, al cliente, una liberatoria con cui, avvisandolo
dei rischi connessi all’appello o al ricorso per cassazione,
lo esonera da ogni responsabilità. In questo modo,
quantomeno, dinanzi a un foglio scritto, l’assistito avrà la
possibilità e tutto il tempo per meditare su una scelta
delicatissima: chi soccombe, infatti, nel giudizio di
impugnazione può essere condannato non solo alle spese
processuali, ma anche a sanzioni economiche particolarmente
elevate.
Si tratta, nelle intenzioni della sentenza in commento, di
un valido effetto deterrente contro le facili impugnazioni:
una sorta di sanzione per via indiretta a carico del legale
(su iniziativa del cliente) per essere questi un soggetto
esperto e, in quanto tale, tenuto a sapere quando
l’impugnazione è pretestuosa o meno.
Da oggi, quindi, pagheranno anche gli avvocati? Non così
facilmente.
Secondo la Cassazione, presupposto per rivalersi contro il
proprio avvocato è che: I) sia stato quest’ultimo a
insistere e a fare, sostanzialmente, la scelta definitiva
dell’impugnazione; II) e che il ricorso sia palesemente
infondato.
Prove che devono essere fornite ovviamente dall’assistito e
che difficilmente potranno essere offerte se il legale è
stato previdente da farsi autorizzare per iscritto,
facendosi firmare un liberatoria. Mentre, quando ciò non
avviene, si potrebbe profilare il rischio di doppia
condanna: la prima, alle spese processuali, nei confronti
del cliente; la seconda, in via di rivalsa, nei confronti
dell’avvocato [2].
In questo modo si consente al privato di recuperare le somme
dovute alla controparte grazie alla condanna del
professionista, con tempi più rapidi e con minori oneri a
carico dello Stato.
Sempre ieri, ma in un’altra sentenza,
la stessa Cassazione ha avuto modo di ribadire la
possibilità dell’azione di risarcimento dei danni contro
l’avvocato che conosceva o doveva conoscere l’infondatezza e
la temerarietà dell’opposizione e che, nonostante ciò, abbia
spinto il cliente alla causa. In tale ipotesi, scatta il
cosiddetto abuso del processo per la sua condotta gravemente
colposa.
Il presupposto della richiesta di risarcimento, da parte
dell’assistito, è la violazione di una regola fondamentale
posta dal codice civile in tema di esecuzione dei contratti
(ivi compreso quello tra professionista e cliente): la
giusta diligenza nell’esercizio del mandato cui è chiamato
ad adempiere chi svolge una prestazione professionale
altamente qualificata, come quella dell’avvocato
(commento tratto da e link a www.laleggepertutti.it).
---------------
[1] Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 29.09.2016 n. 19285
[2] Il tutto in linea con lo scopo dell’art. 96, co. 3, cod.
proc. civ. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Legge 104 anche ai conviventi. Permessi retribuiti per
assistere il compagno con handicap. Per la Corte costituzionale l'esclusione è illegittima:
conta la salute psico-fisica del disabile.
Diritto ai permessi retribuiti dal lavoro anche per
assistere il convivente portatore di handicap. Non solo per
il coniuge o gli stretti parenti.
Lo ha stabilito la Corte
costituzionale con la sentenza
23.09.2016 n. 213, che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'articolo 33, comma 3, della legge
104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i
soggetti legittimati a fruire del permesso mensile
retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in
situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o
affine entro il secondo grado.
La norma bocciata, in effetti, concede il diritto a permessi
retribuiti al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che
assiste persona con handicap in situazione di gravità,
coniuge, parente o affine entro il secondo grado, o entro il
terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona
con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i
sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti
da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
La disposizione, dunque, non include il convivente more
uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza
al portatore di handicap in situazione di gravità.
Nel caso specifico si trattava della dipendente di una
azienda sanitaria che ha chiesto il riconoscimento dei
permessi per poter assistere il proprio compagno affetto dal
morbo di Parkinson e che si è opposta alla richiesta di
restituzione del valore delle ore di permesso fruite in un
primo tempo su autorizzazione, poi revocata, della stessa
Asl.
La Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto di fruire
dei permessi anche tra conviventi.
La legge 104/1992, spiega la Consulta, intende favorire
l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in
ambito familiare e, quindi, l'interesse primario è
assicurare la continuità nelle cure e nell'assistenza del
disabile che si realizzino in ambito familiare,
indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio
dell'assistito.
Il permesso mensile retribuito è, dunque, in rapporto di
stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite
dalla legge n. 104 del 1992, in particolare con quelle di
tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di
handicap.
La salute psico-fisica del disabile è, tra l'altro, un
diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'articolo
32 della Costituzione.
A questo punto la sentenza rileva che il diritto alla salute
psico-fisica, comprensivo della assistenza e della
socializzazione, è garantito e tutelato, al soggetto con
handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in
quanto facente parte di una formazione sociale.
Tra le formazioni sociali c'è anche la convivenza more
uxorio. È questa la ragione per cui è irragionevole che
nell'elencazione dei soggetti legittimati a fruire del
permesso mensile retribuito, non sia incluso il convivente
della persona con handicap in situazione di gravità.
Ormai è principio consolidato nella giurisprudenza della
Consulta quello per cui la distinta considerazione
costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non
esclude l'equiparazione rispetto a istituti specifici in
presenza di situazioni analoghe.
In questo caso l'elemento unificante tra le due situazioni è
dato proprio dall'esigenza di tutelare il diritto alla
salute psico-fisica del disabile grave, collocabile tra i
diritti inviolabili dell'uomo.
Altrimenti ci troveremmo di fronte a un assurdità: la minore
tutela del disabile deriverebbe non dal fatto che non ci
sono persone a lui legate affettivamente, ma solo per il
fatto che il rapporto affettivo sia qualificato dal rapporto
di parentela o di coniugio (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016). |
APPALTI: Commissari,
conta qualificata esperienza. Per il
cds la durata è secondaria.
L'esperienza di un commissario di gara di una gara di
appalto pubblico va accertata nel concreto dal punto di
vista qualitativo e non soltanto con riferimento alla durata
dell'esperienza nel settore oggetto della gara.
Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 20.09.2016 n. 3911 che ha precisato
alcuni profili di particolare interesse riguardanti la
nomina dei commissari di gara e la loro esperienza.
Preliminarmente, rispetto al tema dei compiti affidati alla
commissione di gara, i giudici richiamano l'articolo 83,
comma 4 del previgente decreto 163/2006 che limita la
discrezionalità della commissione aggiudicatrice nella
specificazione dei diversi elementi di valutazione
dell'offerta e del peso da attribuire ad essi, escludendo
ogni facoltà per la stessa d'integrare il bando, unica sede
in cui devono essere fissati criteri, pesi ed eventuali
sub-criteri o sub-pesi di valutazione.
In ordine, invece, alla portata applicativa del comma 2
dell'articolo 84 del previgente codice, secondo cui «la
commissione, nominata dall'organo della stazione appaltante
competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario
del contratto, è composta da un numero dispari di
componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello
specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto»,
il Consiglio di stato affronta una questione particolare ma
di rilievo, cioè se la previsione secondo cui i commissari
devono essere esperti del settore significhi fare
riferimento ad una esperienza da considerare dal solo punto
di vista cronologico, nel senso che l'esperienza necessaria
potrà dirsi sussistente solo se maturata nell'ambito di un
arco temporale minimo, ovvero se riguardi un dato di
carattere qualitativo e sostanziale, nel senso che
un'esperienza particolarmente qualificata, pur se
concentrata in un ambito temporale limitato, possa comunque
soddisfare il richiamato requisito.
La sentenza opta per la seconda soluzione. Per cui, per
verificare se il commissario di gara sia realmente esperto,
non si deve guardare ad un periodo temporale bensì ad
elementi sostanziali che dimostrino l'effettiva esperienza
del commissario ancorché recente o ristretta in un periodo
limitato di tempo. Non conta quindi l'anzianità ma la
qualificata esperienza, anche se limitata nel tempo
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
5. Con il terzo motivo di
appello la Mi.Te. lamenta che i primi Giudici abbiano
erroneamente respinto il primo motivo di ricorso, con il
quale si era lamentata l’illegittima composizione della
Commissione giudicatrice, i cui componenti non
garantirebbero professionalità dotate dei necessari
requisiti di esperienza per espletare al meglio il delicato
ruolo di Commissario.
L’appellante ritiene di poter condividere l’orientamento
richiamato dal TAR, secondo cui il requisito dell’esperienza
enunciato dall’articolo 84, comma 2 del previgente ‘Codice’
dei contratti non vada inteso in senso –per così dire– ‘atomistico’,
ma vada riferito alla Commissione nel suo complesso.
Tuttavia, la stessa appellante sottolinea che risulti quanto
mai rilevante ai fini del decidere la pressoché totale
mancanza di esperienza che caratterizzava almeno due dei tre
membri della Commissione.
5.1. Il motivo non può trovare accoglimento.
Si tratta qui di chiarire, in relazione alle peculiarità del
caso in esame, la portata applicativa del comma 2
dell’articolo 84 del previgente ‘Codice dei contratti’,
secondo cui “la commissione, nominata dall'organo della
stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del
soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero
dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti
nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del
contratto”.
Ancora più in particolare si tratta di chiarire se la
previsione secondo cui i Commissari devono essere ‘esperti’
del settore stia ad individuare in modo necessario un dato
di tipo cronologico (nel senso che l’esperienza necessaria
potrà dirsi sussistente solo se maturata nell’ambito di un
arco temporale minimo), ovvero un dato di carattere
qualitativo e sostanziale nel senso che un’esperienza
particolarmente qualificata, pur se concentrata in un ambito
temporale limitato, possa comunque soddisfare il richiamato
requisito).
Ad avviso del Collegio la questione deve essere risolta nel
senso della seconda delle richiamate opzioni.
La ratio della disposizione dinanzi
richiamata è certamente quella di garantire che i membri
assicurino una competenza tecnica specifica e ragguagliata
alla tipologia delle prestazioni che si intendono affidare.
Ciò, al fine di assicurare che il giudizio espresso dai
membri della Commissione risulti il più possibile pertinente
in relazione al contenuto specifico delle offerte
presentate.
Ora, non può dubitarsi della piena pertinenza della
posizione professionale e dei percorsi formativi dei membri
della commissione in relazione al contenuto della gara per
cui è causa, laddove si consideri
- che il Presidente, Ing. Co.Bi., è il Direttore della
Divisione casa della M. s.p.a. e che, in tal veste, coordina
le attività di gestione di un patrimonio abitativo composto
da oltre 38mila unità. L’Ing. Bi. risulta altresì in
possesso di rilevanti certificazioni nel settore del
Project management e riveste il ruolo di responsabile
unico del procedimento nell’ambito di contratti di appalto
nel settore delle pulizie;
- che l’arch. Da.Ca. è responsabile della sede territoriale
Nord-Est della Divisione Casa di M. s.p.a. (e in tale veste
ha il compito di controllare l’attività prestata dai
fornitori per l’area territoriale di competenza, anche nel
campo delle pulizie) e vanta specifica esperienza nella
qualità di Commissario di gara;
- che il terzo membro, arch. Ve.Pi. è responsabile dei
servizi generali delle sedi della M. s.p.a., ha curato gli
atti di gara di decine di procedure e vanta un curriculum
formativo del tutto compatibile con l’oggetto della gara per
cui è causa (la stessa ha infatti conseguito un Master in ‘Economia
e finanza delle costruzioni e del mercato immobiliare’ e
un Master per la formazione di ‘Tecnici del controllo
della qualità e della gestione della sicurezza del cantiere’).
Ad avviso del Collegio, quindi, la
qualifica di ‘esperto nello specifico settore’ cui
inerisce l’appalto può essere riconosciuta –ed
auspicabilmente– nel caso di prolungata esperienza nel
settore in parola, ma può essere parimenti riconosciuta
nelle ipotesi in cui
–come nel caso in esame– risulti una
particolare significatività e qualità delle esperienze
formative e professionali vantate da ciascun Commissario. |
TRIBUTI:
La notifica dell'avviso va ben motivata.
Cassazione.
Anche la notifica dell'avviso di accertamento al
contribuente irreperibile deve essere ben motivata.
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza
19.09.2016 n. 18352, procede a consolidare
l'orientamento secondo cui, per il caso della notifica
dell'avviso di accertamento ad un contribuente che si è reso
irreperibile, il messo notificatore deve ampiamente
giustificare la mancata notifica nelle mani del
contribuente, documentando tutta la procedura di notifica
eseguita.
Il ricorso era stato presentato poiché la Ctr aveva ritenuto
corretta la notifica dell'atto, ai sensi dell'art. 60 del
dpr 600/1973 per il caso del contribuente irreperibile.
Tuttavia, in cassazione il contribuente ha lamentato che
proprio in virtù di tale norma la notifica deve avvenire
solo in via residuale, previa specifica ricerca nel comune
dove è situato il domicilio fiscale per verificare che il
trasferimento non sia in realtà un mero cambio di indirizzo
nello stesso comune.
In tale ipotesi (c.d. irreperibilità assoluta), pur non
richiedendosi «nuove e ulteriori ricerche», è pur
sempre necessario nonché «sufficiente che il messo
notificatore non reperisca il contribuente perché
sconosciuto all'indirizzo indicato»; presupposto che,
invece, non è risultato attestato nel caso di specie
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).
---------------
MASSIMA
4. Il primo motivo risulta meritevole di accoglimento.
5. I giudici di secondo grado si sono invero limitati ad
affermare che "l'Ufficio ha dimostrato che la notifica
dell'avviso di accertamento è stata effettuata regolarmente"
—perciò confermando la statuizione di inammissibilità del
ricorso in quanto tardivo, stante il ritenuto
perfezionamento della notifica, ai sensi dell'art. 60, comma
1, lett. e), del d.P.R. n. 600/1973, in data 30.12.2009 ("ottavo
giorno successivo alla data di affissione all'albo comunale")—
quando invece la relata di notifica, appositamente
trascritta in ricorso (pag. 7 e s.), recava solo la seguente
attestazione: "Deposito di atto ai sensi dell'art. 60
lettera "e" D.P.R. 600/1973. In data odierna, il
sottoscritto ho notificato l'atto dell'Agenzia delle Entrate
di Roma 2, ai sensi dell'art. 60 lettera "e" del DPR
600/1973 e dell'art. 171 del Divo 196/2003, deposita copia
dell'atto in busta chiusa presso la Casa Comunale di Roma
affiggendo l'avviso di deposito all'Albo Provinciale di
Roma", senza alcuna indicazione circa il fatto che il
destinatario della notifica fosse ivi risultato
"sconosciuto", né tantomeno delle ricerche all'uopo
effettuate, la valutazione della cui sufficienza sarebbe
spettata poi al giudice di merito, ai fini della ritualità
notifica dell'atto impositivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del
1973, art. 60, lett. e)" (v. Cass. n. 24082/2015; cfr.
Cass. n. 22796/2015).
6.
Costituisce infatti ius receptum di questa Corte il
principio per cui "la notificazione degli avvisi e degli
atti tributari impositivi, nel sistema delineato dal D.P.R.
29.09.1973, n. 600, art. 60, va effettuata secondo il rito
previsto dall'art. 140 c.p.c., quando siano conosciuti la
residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non si sia
potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro
possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto
indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile,
mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all'art.
60 cit., lett. e), quando il messo notificatore non
reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo
sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve
pervenire dopo aver effettuato ricerche nel comune dov'è
situato il domicilio fiscale del contribuente, per
verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto
in un mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso
comune" (da
ultimo, Cass. sez. V, n. 7523/2016; conf. Cass. nn.
6886/2016, 25436/2015, 23332/2015, 24260/2014, 14030/2011,
20425/2007, 7268/2002);
in questa seconda ipotesi (cd. irreperibilità assoluta), pur
non richiedendosi "nuove ed ulteriori ricerche", è
pur sempre necessario nonché "sufficiente che il messo
notificatore non reperisca il contribuente perché
sconosciuto all'indirizzo indicato"
(Cass. sez. V, n. 23588/2015 e n. 8676/2015, con riguardo
alla dicitura "sconosciuto"; conf. Cass. 25272/2014,
17064/2006, 906/2002, 8071/1995); presupposto che, come
visto, non risulta invece attestato nel caso di specie. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Su
e-mail e web controlli snelli. Strumenti di lavoro da
censire. Dal Garante della privacy
le indicazioni sul nuovo art. 4 dello Statuto dei
lavoratori.
Posta elettronica, internet e software applicativi sono
strumenti di lavoro. In base all'articolo 4 dello Statuto
dei lavoratori, come riscritto dal Jobs Act, non hanno,
quindi, bisogno dell'accordo sindacale o dell'autorizzazione
amministrativa per essere utilizzati.
A chiarirlo è il Garante per la privacy con
provvedimento
13.07.2016 n. 303 diffuso con la newsletter del 15 settembre (si
veda ItaliaOggi del 16 settembre).
Attenzione, però a non esagerare. Non sono strumenti di
lavoro, secondo il Garante, gli apparati e gli applicativi
che non toccano le mansioni, e con i quali, in background,
costantemente ed indiscriminatamente si filtrano,
monitorano, controllano e tracciano gli accessi a internet e
alla posta elettronica.
Controlli a distanza e oneri del datore di lavoro.
Dopo il
Jobs act, l'etichetta «strumenti di lavoro» semplifica la
vita ai datori di lavoro, i quali, se dallo strumento deriva
la possibilità di un controllo del lavoratori, non devono
preoccuparsi di fare accordi sindacali o di chiedere
l'autorizzazione alle direzioni territoriali del lavoro.
Il censimento dei beni strumentali è onere del datore di
lavoro. E, proprio per individuare i casi in cui si possano
effettuare controlli in modo «semplificato», o, al
contrario, si debba procedere con l'iter sindacale, dovrà
essere effettuato al più presto all'interno delle aziende.
Il censimento, o «check-list», degli strumenti di lavoro
mira, dunque, a dare risposta a una serie di domande: tra
gli strumenti che si utilizzano per le prestazioni
lavorative, quanti di questi danno la possibilità di
raccogliere dati sui lavoratori? Ci sono beni strumentali
(materiali o immateriali) non utilizzati dal lavoratore per
la prestazione lavorativa dai quali deriva la possibilità
sempre di raccogliere dati sui lavoratori, e che finalità
hanno? In azienda si utilizzano strumenti per la rilevazione
degli accessi e delle presenze?
La ripartizione dei beni strumentali aziendali nelle
categorie indicate indirizza, poi, a diversi adempimenti,
più, o meno, complicati.
Nel corso dell'approvazione del Jobs act, in sede di
audizione parlamentare, Antonello Soro, presidente del
Garante, aveva specificato che i controlli realizzati
mediante tali strumenti beneficiano dell'esonero dalla
procedura autorizzativa solo nella misura in cui siano
effettuati utilizzando le normali funzionalità degli
apparecchi forniti in dotazione, appunto, per rendere la
prestazione e non inserendo specifici sistemi modificativi
dei dispositivi, finalizzati al controllo personale del
lavoratore.
Non potrebbe, dunque, avvalersi dell'esonero il datore di
lavoro che intenda dotare di particolari software atti al
monitoraggio del lavoratore i dispositivi (il pc o il
telefono) forniti al dipendente per ragioni di servizio.
Le indicazioni del Garante.
Entrando nel dettaglio, nel
provvedimento citato, il Garante ha chiarito che sono
strumenti di lavoro solo i servizi, software o applicativi
strettamente funzionali alla prestazione lavorativa, anche
sotto il profilo della sicurezza.
Rientrano nella definizione di strumento di lavoro il
servizio di posta elettronica offerto ai dipendenti con
attribuzione di un account personale e gli altri servizi
della rete aziendale, fra cui anche il collegamento a siti
internet.
Costituiscono parte integrante di questi strumenti i sistemi
di logging per il corretto servizio di posta elettronica, ma
con conservazione dei soli dati esteriori, contenuti nella
cosiddetta «envelope» del messaggio, per una breve durata
non superiore ai sette giorni; lo stesso vale per i sistemi
di filtraggio anti-virus che rilevano anomalie di sicurezza
nelle postazioni di lavoro o sui server per l'erogazione dei
servizi di rete; idem per sistemi di inibizione automatica
di contenuti in rete inconferenti con il lavoro, senza
registrazione dei tentativi di accesso.
Invece, come accennato, non possono essere considerati
strumenti di lavoro gli apparati e i sistemi software che
consentono, con modalità non percepibili dall'utente (in
background) e in modo del tutto indipendente rispetto alla
normale attività, operazioni di monitoraggio, filtraggio,
controllo e tracciatura costanti ed indiscriminati degli
accessi a internet o al servizio di posta elettronica.
Ci sono poi altri strumenti come firewall o sistemi
antintrusione, agenti su base statistica o con il ricorso a
sorgenti informative esterne, che, non comportando un
trattamento di dati dei dipendenti, sono fuori dal campo di
applicazione dell'articolo 4 dello Statuto.
I dati raccolti mediante i controlli sugli strumenti di
lavoro possono essere utilizzati a tutti i fini connessi al
rapporto di lavoro (quindi anche per fini disciplinari),
purché sia data al lavoratore adeguata informazione:
- delle modalità d'uso degli strumenti e
- di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto
disposto dal Codice della privacy. Come ha rilevato il
Garante (audizione Antonello Soro, sopra citata) la
possibilità del controllo dell'adempimento della
prestazione, mediante gli strumenti di lavoro, diventa un
effetto naturale del contratto: una possibilità, però, non
illimitata, in quanto valgono le prescrizioni sulla
trasparenza delle informazioni, sulla proporzionalità e
liceità del controllo e sulla tutela della dignità del
lavoratore.
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Smartphone e Gps. Non serve accordo.
Il Gps è uno strumento di lavoro e non
c'è bisogno dell'accordo sindacale o della autorizzazione
amministrativa. Lo stesso per i controlli in cuffia nei call
center e per gli smartphone.
Lo ha precisato la
nota 10.05.2016 n.
5689 di prot. della Direzione interregionale di Milano
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Anche in questo documento si esaminano le ricadute operative
dell'articolo 4, comma 2, dello Statuto dei lavoratori e si
sottolinea esplicitamente che la grande novità è proprio
rappresentata dal fatto che l'accordo sindacale o
l'autorizzazione amministrativa non sono necessari per gli
strumenti di lavoro e gli strumenti di registrazione di
accessi e presenze.
La Direzione specifica che strumento di lavoro significa
strumento idoneo ad assolvere complessivamente una funzione
di mezzo necessario normalmente a rendere la prestazione
lavorativa.
Esemplificando, un Gps installato su un mezzo consegnato a
un lavoratore nel settore dell'autotrasporto è uno strumento
di lavoro.
Anzi, il parere alla Direzione interregionale di Milano
aveva ad oggetto proprio un sistema di geolocalizzazione su
autoveicoli aziendali dati in uso promiscuo a dipendenti
incaricati di mansioni di vendita.
Il parere è stato favorevole e ha considerato che il sistema
Gps, anche se montato successivamente alla originaria
consegna del veicolo non è da considerare separatamente
dall'auto e non è necessario il preventivo accordo sindacale
o la preventiva autorizzazione ministeriale. Sul medesimo
caso la risposta è stata, invece, differente da parte della
Direzione territoriale del lavoro di Latina, che ha
rilasciato un'autorizzazione ad installare un sistema di
geolocalizzazone sulle vetture di una società di vigilanza
privata (provvedimento dell'11.05.2016 n. 12519).
Proseguendo nella esemplificazione del parere della
Direzione di Milano, la semplificazione (niente accordo
sindacale o autorizzazione ministeriale) vale nei call-center per i cosiddetti «controlli in cuffia» con
cuffie e microfono assistiti da software che rilevano il
grado di stress del lavoratore. Idem per lo smartphone
aziendale consegnato ai venditori e dotato di app di mappe
utile per gli spostamenti.
In tutti questi casi non c'è obbligo di accordo sindacale o
di autorizzazione amministrativa.
Ma a questa liberalizzazione procedurale, corrisponde un
maggior rigore per gli adempimenti privacy.
Al lavoratore bisogna dare adeguata informazione sulle
modalità di uso degli strumenti e sulle modalità dei
controlli e bisogna rispettare i principi del codice della
privacy (principi di pertinenza, proporzionalità,
correttezza, necessità, ecc.). I controlli non possono
essere massivi, ma graduali e residuali e devono collegarsi
a specifiche anomalie e comunque seguire misure preventive
meno limitative dei diritti dei lavoratori.
Il Garante della privacy esemplifica: se il datore di lavoro
riscontra la presenza di virus sui pc aziendali, dovrebbe
dotarli di sistemi di filtraggio/blocco dei siti a rischio e
non procedere al monitoraggio dei siti visitati; il datore
di lavoro ha l'obbligo di individuazione preventiva della
lista dei siti considerati correlati alla prestazione
lavorativa, e di adottare filtri per il blocco dell'accesso
a determinati siti o del download di alcuni file.
L'argine, dunque, è il rispetto della privacy. Resta il
fatto che si passa a una dimensione esclusivamente di tutela
individuale, abbandonando un sistema di tutela attraverso
organismi rappresentativi o da parte dello stato.
Prima del Jobs Act, il controllo non era lasciato alla
iniziativa del singolo, che comunque molto spesso è parte
debole rispetto al datore di lavoro.
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Conservazione dati con limiti.
E-mail del lavoratore al riparo dagli occhi del datore di
lavoro. Così la Corte di Cassazione - Sez. I civile, con la
sentenza
19.09.2016 n. 18302 (tratta da
www.diritto-lavoro.com), che boccia sistemi di conservazione dei dati
relativi alla navigazione internet e alla posta elettronica
e alle utenze telefoniche.
Secondo la Cassazione
l'installazione e l'uso di tali sistemi, anche se relativi a
controlli difensivi (protezione del patrimonio aziendale)
devono essere preceduti da un accordo con i sindacati o, in
mancanza, dall'autorizzazione della direzione del lavoro.
Si
deve sottolineare però che la sentenza non tiene conto della
nuova versione dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori. La
nuova norma da un lato ha sdoganato i controlli difensivi,
assoggettati alla procedura concertativa, ma dall'altro ha
esonerato da questa procedura gli strumenti di lavoro.
Peraltro con riferimento ai controlli difensivi, anche nella
versione previgente dell'art. 4, la Cassazione li aveva
ripetutamente esonerati dall'accordo sindacale, se diretti
ad accertare comportamenti illeciti diversi da quelli
riguardanti l'esatto adempimento della prestazione
lavorativa.
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Audiovisivi, sanzioni in agguato.
Prescrizione obbligatoria» per l'azienda che ha installato
impianti audiovisivi senza accordo sindacale né
autorizzazione da parte della direzione territoriale del
lavoro, Dtl. In questi casi, infatti, l'ispettore deve
sanzionare il datore di lavoro e concedergli un «congruo
tempo» per porre rimedio all'irregolarità, cosa che può
avvenire soltanto dalla rimozione degli impianti illeciti.
I controlli a distanza.
La precisazione è arrivata dal ministero del lavoro (nota
prot. n. 11241/2016) a risposta della richiesta di parere in
merito al provvedimento di prescrizione da impartire quando,
nel corso d'ispezioni, sia accertata l'installazione e
l'impiego illecito d'impianti audiovisivi per finalità di
controllo a distanza dei lavoratori in orario di lavoro. La
disciplina (art. 4 legge n. 300/1970) è stata oggetto di
modifiche da parte del dlgs n. 151/2015 (riforma Jobs act).
Il potere di controllo e vigilanza, si ricorda, è
conseguenza del potere direttivo riconosciuto al datore di
lavoro nei rapporti di lavoro subordinato (dipendente).
Consiste nella facoltà di impartire regole alle prestazioni
lavorative. Tale controllo può essere esercitato
direttamente dal datore di lavoro o da personale
gerarchicamente preposto (nelle grandi aziende: direttori di
personale, capi ufficio ecc.) o ancora da personale
specializzato (addirittura anche agenzie investigative
esterne). In ogni caso, il potere di controllo non può
valicare i limiti imposti dalla legge n. 300/1970 (Statuto
dei lavoratori) per quanto concerne la disciplina dei
controlli a distanza, delle perquisizioni (o visite
personali di controllo) e degli accertamenti sanitari.
Quanto alla finalità dei controlli, il datore di lavoro può
effettuarli per motivi organizzativi o di sicurezza e, in
ogni caso, sono ritenuti leciti solamente se rispettano i
principi di pertinenza e di non eccedenza. Per esempio, nei
sistemi software è obbligatorio che essi siano programmati e
configurati in modo tale da cancellare periodicamente e
automaticamente i dati personali relativi agli accessi
internet e traffico telematico, qualora la conservazione non
sia necessaria.
Divieto alleggerito dal Jobs act.
Dal potere di controllo discende, per il datore di lavoro,
la facoltà (diritto) di verificare l'esatto adempimento
degli obblighi gravanti sul dipendente. Pertanto, il datore
di lavoro ha la facoltà (il potere) di controllare che il
lavoratore, nell'esecuzione della prestazione lavorativa,
usi la diligenza dovuta (art. 2104, del codice civile),
osservi le disposizioni impartitegli (sempre art. 2104),
rispetti gli obblighi di fedeltà (art. 2105 del codice
civile), anche al fine di poter poi esercitare un'eventuale
azione disciplinare nel caso in cui rilevi l'inosservanza di
tali obblighi (art. 2106 del codice civile e art. 7 dello
Statuto dei lavoratori).
Tale potere non è, tuttavia, assoluto, incontrando come
limite necessario il fatto che venga esercitato in modo tale
da non ledere diritti fondamentali del lavoratore, come la
dignità e la riservatezza. È a tal fine che l'art. 4 dello
Statuto dei lavoratori disciplina il divieto dei «controlli
a distanza» a carico dei datori di lavoro.
Dopo il Jobs act, in linea di principio, un divieto resterà:
quello, cioè, di poter far «uso di impianti audiovisivi e di
altri strumenti che abbiano quale finalità esclusiva il
controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». Rispetto
alla vigente norma, il nuovo dettato dell'art. 4 ha di più
quell'«esclusiva»: pertanto, il divieto è ridimensionato
all'unica ipotesi in cui l'utilizzo degli impianti abbia il
fine «esclusivo» di controllare l'attività dei lavoratori.
Non c'è divieto, invece, nel caso l'utilizzo di determinate
apparecchiature (da cui possa derivare un controllo
dell'attività dei lavoratori) sia necessario all'attività
lavorativa stessa (esigenze organizzative o produttive) o
per la sicurezza del lavoro o ancora per la tutela del
patrimonio aziendale. In base alla nuova formulazione,
dunque, l'utilizzo di questi impianti e apparecchiature non
è più un'eccezione a una regola (il divieto), ma una facoltà
del datore di lavoro dettata da specifiche esigenze e
comunque subordinata all'osservanza di una specifica
procedura.
Le novità fondamentali (del Jobs act).
Con la nota prot. n. 11241/2016, il ministero del lavoro ha
illustrato le principali novità che il Jobs act (dlgs n.
151/2015) ha apportato alla disciplina dei controlli sul
lavoro. In primo luogo, ha spiegato, anche la nuova
disciplina vieta l'installazione d'impianti di
videosorveglianza in assenza di specifico accordo sindacale
o dell'autorizzazione della Dtl (direzione territoriale del
lavoro).
Peraltro, ha aggiunto il ministero, la violazione
di tale divieto non è esclusa dal fatto che tali
apparecchiature siano solo installate e non ancora
funzionanti, né dall'eventuale preavviso dato ai lavoratori,
né dal fatto che il controllo è discontinuo perché
esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi
soltanto in maniera saltuaria, né infine perché si tratti
solamente di telecamere finte montate, cioè, a scopo
puramente dissuasivo.
Anche il garante privacy, ha fatto
presente il ministero, ha ribadito più volte che non è
legittimo provvedere all'installazione di un impianto di
video-sorveglianza senza che sia intervenuto il relativo
accordo con le rappresentanze sindacali o, in subordine,
senza l'autorizzazione rilasciata dalla Dtl.
Prescrizione obbligatoria.
Qualora nel corso dell'attività di vigilanza sia riscontrata
l'installazione d'impianti audiovisivi in assenza di
specifico accordo sindacale e dell'autorizzazione rilasciata
dalla Dtl competente, l'ispettore deve impartire una
prescrizione (ai sensi dell'art. 20 del dlgs n. 758/1994) al
fine di porre rimedio all'irregolarità, mediante l'immediata
cessazione della condotta illecita e la rimozione materiale
degli impianti audiovisivi.
Tale adempimento, ha sostenuto
il ministero del lavoro, può ritenersi l'unico adatto a
«eliminare la contravvenzione accertata». L'ispettore, a tal
fine, deve fissare nel verbale di prescrizione un termine
congruo per la regolarizzazione. Termine congruo significa
non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario
alla rimozione delle apparecchiature, tenendo conto che è
necessario l'intervento di personale specializzato.
Le sanzioni.
La riforma del Jobs act ha introdotto una specifica sanzione
per i casi d'inosservanza della nuova disciplina sugli
impianti audiovisivi, ossia la sanzione già prevista
dall'art. 38 dello Statuto dei lavoratori.
Dunque, salvo che
il fatto non costituisca più grave reato, la sanzione è
l'ammenda da 154 a 1.549 euro o l'arresto da 15 giorni fino
ad un anno, con applicazione di entrambe le pene (sia
l'ammenda e sia l'arresto) nei casi più gravi e ferma
restando la possibilità, per il giudice, di quintuplicare
l'ammenda (facendola quindi arrivare a 7.745 euro) qualora
dovesse ritenerla inefficace negli importi ordinari, sulla
base delle condizioni economiche del datore di lavoro.
Tuttavia, ha spiegato il ministero, se durante il periodo di
tempo fissato dall'ispettore con l'atto di prescrizione
obbligatoria viene siglato l'accordo sindacale ovvero
rilasciata l'autorizzazione dalla competente direzione
territoriale del lavoro, poiché vengono così meno i
presupposti oggettivi dell'illecito l'ispettore potrà
ammettere «il contravventore a pagare in sede
amministrativa, nel termine di 30 giorni, una somma pari al
quarto del massimo dell'ammenda stabilità per la
contravvenzione commessa» (art. 21 dlgs n. 758/1994).
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Installazione degli impianti, serve l'ok
dei sindacati.
La procedura per l'autorizzazione all'installazione
d'impianti di controllo è, in via di principio, di tipo
sindacale. Se manca (se, cioè, l'accordo non viene
raggiunto) l'azienda può far ricorso a un'autorizzazione
ministeriale. Valgono due eccezioni: accordo sindacale e
autorizzazione non sono richiesti per gli strumenti
utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione
lavorativa (si pensi al computer) e per gli strumenti di
registrazione degli accessi e delle uscite.
Da questo punto
di vista, la nuova disciplina ha un ambito di applicazione
più ampio rispetto a quello prima vigente. Infatti,
considerando esclusi gli «strumenti» utilizzati dal
lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (anche de
da questi possa derivare la possibilità di controllo a
distanza), l'esonero è ben più ampio arrivando a comprendere
qualunque strumentazione, di ogni tipo, inclusi dispositivi
quali smartphone, tablet, posta elettronica, internet ecc.
L'accordo va stipulato con la rappresentanza sindacale
unitaria (Rsu) o con le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa).
In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive
ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in
più regioni, l'accordo può essere stipulato dalle
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale.
In mancanza di accordo sindacale, come detto, impianti e
strumenti possono essere installati previa autorizzazione
della direzione territoriale del lavoro (Dtl) o, in
alternativa, nel caso di imprese con unità produttive
dislocate negli ambiti di competenza di più direzioni
territoriali del lavoro, del ministero del lavoro. Infine,
si ricorda che le informazioni raccolte attraverso gli
impianti e strumenti restano in ogni caso soggetti alle
condizioni di poter essere utilizzabili solo a patto che sia
stata data al lavoratore adeguata informazione delle
modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei
controlli e nel rispetto del dlgs n. 196/2003
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: E-mail, no al Grande fratello.
Illegittimi controlli a tappeto sui device dei lavoratori.
La Corte di cassazione interviene su una vicenda che ha
visto protagonista il Poligrafico.
Sono illegittimi i controlli a tappeto su computer, posta
elettronica e telefoni da parte del datore di lavoro sui
propri dipendenti.
Lo ha sancito la I Sez. civile della Corte di Cassazione
con
sentenza
19.09.2016 n. 18302 (tratta
da www.diritto-lavoro.com) mettendo così la parola fine a una causa che aveva visto
contrapporsi l'Istituto poligrafico e zecca dello Stato e il
garante per la privacy.
Quest'ultimo, nel 2011, aveva emesso un provvedimento
vietando al Poligrafico «l'ulteriore trattamento, nelle
forme della conservazione e della categorizzazione, dei dati
personali dei dipendenti, relativi alla navigazione
Internet, all'utilizzo della posta elettronica e alle utenze
telefoniche chiamate dai lavoratori».
In particolare, il servizio di navigazione del web
predisposto dal Poligrafico sui dipendenti, «non si
limitava», sottolineava il garante, «a rifiutare la
connessione dei lavoratori ai siti non inerenti l'attività
del Poligrafico, ma memorizzava ogni accesso e anche ogni
tentativo di accesso» conservando i dati nel sistema per un
periodo da sei mesi a un anno.
Il garante censurava poi il
sistema di conservazione «per prolungato periodo di tempo»
sul server aziendale dei messaggi di posta elettronica
inviati e ricevuti dai dipendenti e la possibile
«visualizzazione integrale» da parte degli amministratori di
sistema, senza aver fornito una specifica informativa in
merito.
Stessa situazione, poi, era stata rilevata sul
traffico telefonico. Il Poligrafico, dunque, si era rivolto
al tribunale di Roma, che, nel 2013 aveva ritenuto che tali
controlli violassero quanto stabilito dall'articolo 4 dello
Statuto dei lavoratori: «L'utilizzazione di tali impianti e
apparecchiature per esigenze organizzative e produttive -aveva sottolineato il giudice di merito- è consentita al
datore di lavoro ma solo a condizione di raggiungere
un'intesa con le rappresentanze sindacali dei lavoratori
oppure a seguito dell'espletamento delle procedure
suppletive indicate dalla legge, mentre la loro
utilizzazione è senz'altro vietata se attuata con la
specifica finalità di esercitare una vigilanza sull'attività
dei lavoratori».
Contro tale pronuncia il Poligrafico aveva presentato un
ricorso in Cassazione, che è stato rigettato dai giudici di
piazza Cavour: con la sentenza depositata ieri la Cassazione
ricorda che la linea adottata dalla giurisprudenza di
legittimità prevede che «l'effettività del divieto di
controllo a distanza dell'attività dei lavoratori richiede
che anche per i cosiddetti controlli difensivi trovino
applicazione le garanzie» previste dall'articolo 4 dello
Statuto dei lavoratori e che «comunque questi ultimi non si
traducano in forme surrettizie di controllo a distanza
dell'attività lavorativa dei dipendenti».
Se, aggiungono i supremi giudici «per l'esigenza di evitare
attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi,
possono essere installati impianti e apparecchiature di
controllo che rilevino dati relativi anche all'attività
lavorativa» dei dipendenti, «la previsione che siano
osservate le garanzie procedurali» di cui parla l'articolo 4
dello Statuto dei lavoratori, «non consente che attraverso
tali strumenti, sia pure adottati in esito alla
concertazione con le r.s.a. si possa porre in essere»,
conclude la Cassazione, «anche se quale conseguenza
mediata, un controllo a distanza dei lavoratori»
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Serve il placet paesistico per avere l'ok alle estrazioni.
Il rapporto di necessaria presupposizione, tra
l'autorizzazione paesistica e l'autorizzazione all'esercizio
dell'attività estrattiva, impone che quest'ultima non possa
avere dei contenuti, come i «margini di flessibilità», che
non risultino già previsti e disciplinati
nell'autorizzazione paesistica; «on essendo consentito al
legislatore regionale di introdurre, ex novo, categorie
concettuali e istituti idonei, per la loro indeterminatezza,
a cagionare l'elusione dei precetti statali».
Questo è
quanto si legge nella sentenza
16.09.2016 n. 210 della Corte Costituzionale. Ma non è questo l'unico aspetto di
interesse. Infatti la sentenza è lo «spaccato» perfetto dei
rapporti tra stato e regioni.
Insomma la regione Liguria con diverse leggi (una sulle
attività estrattive un'altra sulle funzioni in materia di
ambiente ed energia) non fissa più un regime di prevalenza
del Piano paesaggistico su quello estrattivo. Essa
stabilisce più semplicemente la necessità di coordinamento
fra i due piani (e le due discipline) e quindi fra i
relativi atti autorizzativi.
Ma questo non è possibile e va ad alterare il rapporto tra
Stato e Regioni e il relativo riparto di competenze.
Infatti, come ha già affermato la Corte il bene ambiente è
certamente sovraordinato a qualsiasi altro e va inteso in
senso ampio e generale. La normativa statale con l'art. 145
del Codice dei beni culturali e ambientali sancisce in
maniera chiara la prevalenza dell'autorizzazione
paesaggistica.
È evidente che il meccanismo di coordinamento
vanifica questa «priorità». Inoltre la stessa disciplina
regionale prevede che con una semplice comunicazione possa
essere avviato il recupero dei siti dismessi da attività
cava. Anche ciò entra però in rotta di collisione con la
normativa statale. Il Testo unico ambientale (dlgs 152/2006
e successive modifiche integrazioni) richiama, infatti, le
procedure semplificate del dm 5/2/1998 (modificato nel
2006), ma ancora in vigore, che disciplinano i casi di
ripristini ambientali.
Inoltre, se non è possibile applicare
quelle semplificate devono essere applicate quelle
ordinarie. La sentenza è dunque un «classico» della
situazione dei rapporti tra Stato e Regioni. E del
contenzioso in materia che «affolla» il ruolo della
Consulta da qualche anno a questa parte
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2016). |
TRIBUTI: Le notifiche via Pec seguono il processo tributario
telematico.
La corte di cassazione delimita l'applicazione dell'invio
atti con la posta elettronica certificata.
Le notifiche a mezzo posta elettronica certificata sono
ammesse solo nei pochi ambiti territoriali in cui sono
operative le disposizioni sul processo tributario
telematico. Pertanto, in tutte le altre parti del territorio
nazionale la notifica della sentenze tramite Pec non fa
decorrere il termine breve di 60 giorni per la sua
impugnazione.
L'importante principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. V cicile, con l'ordinanza
12.09.2016 n. 17941.
I giudici di Piazza Cavour, dopo una breve ricostruzione del
quadro normativo, chiariscono «che le notifiche a mezzo
posta elettronica certificata nel processo tributario sono
consentite laddove è operativa la disciplina del c.d.
processo tributario telematico».
Aggiungono, inoltre, che in
deroga alle nuove norme sul processo tributario, contenute
nella legge di riforma (decreto legislativo 156/2015), che
fissano la sua entrata in vigore a partire dal 01.01.2016, le procedure telematiche «si applicano con decorrenza
e modalità previste dai decreti di cui al dm ministero
economia e finanze 23.12.2013, n. 163, art. 3, comma
3».
Nello specifico, l'articolo 16 del decreto ministeriale
del 04.08.2015 ha già previsto l'entrata in vigore del
processo telematico in via sperimentale «per i ricorsi
dinanzi alle commissioni tributarie provinciali e regionali
dell'Umbria e della Toscana».
Dunque, alla data del 05.12.2014, la notifica tramite Pec effettuata dal
difensore della contribuente all'amministrazione finanziaria
della sentenza resa dalla Ctr della Campania tra le parti,
non è idonea a far decorrere il termine breve per la
proposizione del ricorso per Cassazione». Secondo la
Cassazione la suddetta notifica, «in assenza della
previsione delle regole tecniche di attuazione, deve
ritenersi giuridicamente inesistente». E per le notifiche a
mezzo Pec delle sentenze tributarie va esclusa qualsiasi
forma di sanatoria per conseguimento dello scopo dell'atto.
Se non viene effettuata la notifica, o non è regolare,
l'impugnazione può essere proposta entro sei mesi dal
deposito della sentenza.
L'Agenzia delle entrate, con la circolare 37E/2010, ha
precisato che a seconda della modalità prescelta la
decorrenza del termine breve deve essere provata attraverso
la relata di notifica dell'ufficiale giudiziario o dei
messi, con la ricevuta rilasciata dall'ufficio locale al
quale è consegnata la sentenza o con l'avviso di
ricevimento. In quest'ultimo caso nell'avviso deve essere
indicata la data in cui il destinatario ha ricevuto la
sentenza in plico senza busta.
Qualora la sentenza non venga
notificata dall'ufficiale giudiziario o dal messo, deve
essere depositata in segreteria copia autentica della
sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della
ricevuta di deposito o della spedizione unitamente
all'avviso di ricevimento
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2016). |
TRIBUTI:
Il processo fiscale non ammette la Pec.
Nel processo fiscale non è ammessa la notifica tramite Pec,
almeno fino a quando il sistema telematico non si sia
consolidato. Bisogna aspettare che, nel contenzioso
tributario, il processo telematico vada a regime prima di
cominciare a utilizzare la notifica mediante la posta
elettronica certificata.
E quanto, sostanzialmente, si ricava dalla lettura della
ordinanza 12.09.2016 n. 17941,
con la quale la Corte di Cassazione -Sez. V civile- ha respinto il ricorso poiché in tali casi la notifica di
atti tra le parti con l'utilizzo della Pec è inesistente.
In particolare, la Suprema corte ha osservato che, se non è
espressamente disciplinata, la notifica via Pec non è
ammessa per la notifica degli atti in materia tributaria.
D'altronde, le disposizioni previste nel codice civile non
si possono applicare per analogia nel processo tributario
(legge n. 114 del 11.08.2014, in vigore dal 26.06.2014).
Così come le norme che regolano le notifiche degli atti
attraverso il sistema postale non possono essere messe alla
pari della «trasmissione del documento informatico per via
telematica». Viene, quindi, a mancare l'equivalenza tra le
due forme di notifica.
Peraltro, l'art. 16 del dlgs 546/1992 (per ultimo modificato
dalla legge n. 114/2014), prevedeva che soltanto le
comunicazioni di segreteria potessero essere effettuate con
l'uso della Pec, e non pure la notifica della sentenza della
Ctr a mezzo Pec all'Agenzia delle entrate come, invece,
avvenuto nel caso di specie.
La Corte di legittimità poi si è soffermata sulle novità che
sono intervenute con l'entrata in vigore del dlgs n. 156 del
24.09.2015 che, tra le altre cose, ha revisionato la
disciplina del contenzioso tributario.
Difatti, ora il nuovo art. 16-bis del dlgs n. 546/1992
(aggiunto dal dlgs 156/2015), prevede espressamente che le
notifiche tra le parti e i depositi presso la Commissione
tributaria possono avvenire in via telematica (decreto Mef
n. 163 del 23.12.2013, che si avvale dell'abilitazione
al Sigit, Sistema informativo della giustizia tributaria). È
stato perciò disposto l'avvio graduale del processo
tributario telematico in via sperimentale per i ricorsi
presso le Ctp e regionali dell'Umbria e della Toscana
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Notifica valida nella Pec dell'imprenditore
cessato.
Anche se l'imprenditore ha cessato la propria attività con
la cancellazione dal Registro delle imprese, il creditore
può comunque notificare l'atto nella Pec dello stesso
imprenditore/debitore.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- che, con la
sentenza 09.09.2016 n.
17884, ha ribaltato la decisione della Corte
d'appello che era stata favorevole all'imprenditore
individuale (debitore).
Tutto nasce con l'avvenuta dichiarazione di fallimento da
parte del Tribunale nei confronti del titolare di una ditta
individuale. L'uomo ha poi fatto reclamo alla Corte
d'appello lamentando il mancato perfezionamento della
notifica dell'avviso di udienza che, tuttavia, aveva avuto
esito positivo, in base alla ricevuta telematica che ne
segnalava la ricezione. Nonostante ciò l'imprenditore
pretendeva la notifica «esclusivamente di persona».
In particolare, la Corte d'appello, aveva accolto il reclamo
proposto ex art. 18 l. fall. contro la sentenza dichiarativa
del fallimento dell'impresa individuale, per l'omesso
perfezionamento della notifica dell'avviso di udienza, fatta
nella Pec risultante dal Registro delle imprese, presso la
sede dell'impresa, presso la casa comunale e anche presso
l'ultima residenza del debitore, ove lo stesso non è stato
trovato, e, quindi, per l'illegittimità della notifica nei
confronti dell'imprenditore individuale cancellato dal
Registro.
Ma per il giudice di legittimità questo non è bastato. Anzi,
la Cassazione ha ritenuto legittima la procedura di notifica
pre-fallimentare avvenuta mediante la comunicazione via Pec
e, poi, presso la casa comunale, poiché eseguita ai sensi
dell'art. 15, comma 3, l. fall., in conformità ai dettami
costituzionali. Secondo la Corte, l'irreperibilità è dipesa
dalla negligenza dell'imprenditore. Non si pongono, quindi,
particolari contrasti di tipo costituzionale.
Poi, essendosi trattato di un imprenditore individuale, non
ricorre neppure il caso di dovere identificarne, dopo la
cancellazione dal Registro, il rappresentante legale. Ne
consegue che nel caso di disattivazione della Pec nel
termine annuale di cui all'art. 10 l. fall.,
l'irreperibilità conseguente dell'imprenditore è a lui
direttamente imputabile
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
APPALTI:
L'azienda in gara anche se mancano oneri di
sicurezza.
Il Consiglio di stato applica perl a prima volta in fase
cautelare il nuovo orientamento dell'adunanza plenaria n.
19/2016 e conferma l'illegittimità dell'esclusione della
società dal bando di gara pur in assenza della specifica
indicazione degli oneri di sicurezza aziendali.
Con il deposito dell'ordinanza
09.09.2016 n. 3786, a seguito del ricorso
promosso per conto di una società per un appalto il
Consiglio di Stato -Sez. V- si è pronunciato per la prima
volta sulla questione della mancata indicazione, da parte
dell'impresa partecipante a un appalto pubblico, degli oneri
per la sicurezza aziendale.
Con il provvedimento n. 19 il Consiglio di Stato aveva fatto
marcia indietro rispetto a quanto affermato in precedenza,
dichiarando esplicitamente che «per le gare bandite
anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l'obbligo di
indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non
sia stato specificato dalla legge di gara (...) l'esclusione
del concorrente non può essere disposta».
La tematica è stata quindi affrontata dal Consiglio di stato
in occasione dell'udienza in camera di consiglio dell'8
settembre scorso e, con la prima applicazione nella fase
cautelare dei dettami di cui alla richiamata adunanza
plenaria del luglio 2016, il collegio ha confermato la bontà
delle argomentazioni svolte, accogliendo appieno il ricorso
e sospendendo l'esecutività del provvedimento oggetto di
gravame (articolo
ItaliaOggi del 21.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
URBANISTICA: Piccola edilizia senza Vas. Per i progetti su meno del 5%
dell'area urbana.
Le conclusioni dell'avvocato generale della Corte di
giustizia europea.
Una piccola area può essere legittimamente esclusa dalla
Valutazione ambientale strategica (Vas) a condizione che non
superi il 5% della zona di competenza.
Questo uno dei principi delle
conclusioni 08.09.2016 causa C-444/15 dell'Avvocato
generale Juliane Kokott nella causa promossa da
Italia Nostra contro la Regione Venero, presentate l'8
settembre scorso, davanti alla Corte di giustizia Ue.
Il casus belli, neanche a dirlo, è rappresentato dal piano
attuativo che disciplina l'assetto localizzativo, gli usi,
le volumetrie e le tipologie costruttive degli interventi,
prevedendo la costruzione di 84 unità abitative, distribuite
in 42 elementi edilizi (villette), aggregati in cinque
organismi edilizi, per 24.990 mc. su una superficie
territoriale di 29.195 mq.
La commissione regionale riteneva che detto piano non fosse
da sottoporre a Vas, in quanto, pur trattandosi di un piano
per il quale le autorità amministrative avevano ritenuto
necessaria una prima valutazione di incidenza, esso
riguardava solo l'uso di piccole aree a livello locale, non
produttive di effetti significativi sull'ambiente. La
valutazione di incidenza veniva effettuata ai sensi della
Direttiva Habitat.
Italia Nostra impugnava la deliberazione con la quale veniva
approvato, appunto senza Vas, detto piano attuativo avente
ad oggetto il recupero di un ambito territoriale tutelato
dal punto di vista paesaggistico e naturalistico sia a
livello nazionale sia a livello europeo.
Il Tar Veneto, con ordinanza del 04.08.2015, sollevava
tre questioni pregiudiziali relative alla direttiva 2001/42,
avente ad oggetto la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull'ambiente (la direttiva Vas, Valutazione ambientale strategica), la prima di
validità e le altre due interpretative.
Lo stesso Tar Veneto
rilevava come la stessa direttiva Vas escluda
l'obbligatorietà della valutazione ambientale strategica per
i piani e programmi per i quali si ritiene necessaria una
valutazione di incidenza, quando tali piani e programmi
«determinano l'uso di piccole aree a livello locale».
La
questione, quindi, è se questa esclusione in ragione di un
dato meramente quantitativo (le piccole dimensioni
dell'area) sia compatibile con gli obiettivi e i principi
affermati dal Tfue sull'obbligo di salvaguardia, tutela e
miglioramento della qualità dell'ambiente, di utilizzazione
accorta e razionale delle risorse naturali, di perseguimento
di un elevato livello di tutela. Di qui la questione sulla
validità della direttiva.
Nelle sue conclusioni dell'Avvocato generale, nel ricordare
che la direttiva Vas non da indicazioni in concreto per
piani e programmi, ma prevede disposizioni per le procedure
degli Stati membri, ritiene si sufficiente la valutazione di
incidenza fatta per escludere l'applicazione della direttiva
Vas, ma che riguardi aree piccole di competenza
dell'autorità locale.
Ricorda che non è compito del legislatore nazionale fissare
un soglia, ma che è competenza di quello nazionale.
Per il legislatore nazionale (dlgs 03.04.2006, n. 152)
rientrano nella nozione di «piccolo» le superfici fino a 40
ettari per i progetti di sviluppo di aree urbane e le
superfici fino a 10 ettari per progetti di riassetto o
sviluppo di aree urbane all'interno di aree urbane
esistenti.
Comunque secondo l'Avvocato generale un'area non può essere
considerata piccola se è maggiore del 5% della superficie
del territorio dell'amministrazione locale competente. Anche
se nel caso di enti locali con estensione particolarmente
grande, l'applicazione di tale parametro non è di norma
ammissibile
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul territorio cognizione Tar.
Le violazioni di procedimenti e piani.
Nel caso di atti e comportamenti in violazione di norme che
regolano il procedimento e la programmazione, pianificazione
e organizzazione del territorio (art. 34.1 e 2, dlgs n.
80/1998, come modificato dall'art. 7 della legge n. 205/2000),
nell'interesse dell'intera collettività nazionale, competerà
al giudice amministrativo la cognizione esclusiva delle
relative controversie sulla sussistenza in concreto dei
diritti vantati.
Lo hanno affermato i giudici delle Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza
07.09.2016 n. 17674.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza
Cavour vedeva Tizio e Caio che con atto di citazione
convennero dinanzi al Tribunale il Comune e la s.p.a.
Autostrade per l'Italia chiedendone, ai sensi degli artt.
2043-2051 cod. civ., la condanna, anche in solido, al
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali,
previo accertamento dell'intollerabilità/illegittimità e
pericolosità per la salute delle immissioni acustiche ed
atmosferiche derivate a loro e all'immobile di loro
proprietà dall'esecuzione dei lavori di potenziamento, senza
previo assoggettamento alla procedura di compatibilità
ambientale, dalla cui esecuzione era derivata la conversione
di tratti di circolazione stradale a doppio senso in tratti
a senso unico, collegandoli tramite una bretella che
realizzava un anello chiuso e il dirottamento del traffico
proveniente da altro Comune.
Aggiungeva Tizio che un'area di sua proprietà era stata
espropriata per l'esecuzione di detti lavori e che per il
ripristino della recinzione e la realizzazione di idonea
pannellatura antirumore aveva ricevuto dalla società
Autostrade una determinata somma. Il Tribunale con sentenza
declinò la giurisdizione.
La Corte di appello invece, con sentenza, ha ritenuto la
propria giurisdizione e condannava in solido la s.p.a.
Autostrade per l'Italia e il Comune pagare euro 2.000,00 a
ciascuno degli attori per ogni anno a decorrere dalla
domanda
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).
---------------
MASSIMA
1.- Il ricorrente principale con il primo motivo deduce:
"Difetto di giurisdizione dell' AGO. Violazione dell'art.
34 D.L.gs. n. 80 del 1998 come modificato dall'art. 7 della
legge n. 205 del 2000" per non avere la Corte di merito
valutato che le pretese risarcitorie degli attori si
ricollegano all'esercizio dell' attività amministrativa
urbanistica, estrinsecazione dei potere autoritativo della
P.A., ed in particolare della disciplina pianificatoria del
territorio e pertanto, pur se la domanda non è di
annullamento di atti amministrativi, tuttavia appartiene al
G.A. che può anche risarcire il danno ingiusto anche per
lesione di diritti soggettivi fondamentali conseguenti
all'esercizio del potere pubblico in quanto giudice naturale
della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica, ed
anche se non è chiesta la tutela demolitoria dell'atto
amministrativo che si pretende illegittimo.
1.1- Con il primo motivo di ricorso incidentale adesivo la
s.p.a. Autostrade per l'Italia deduce: "Difetto di
giurisdizione (art. 362, comma 1, n. 1 c.p.c.) Violazione
degli artt. 24 e 32 Costit. nonché dell'art. 24 DLgs.
80/1998 come modificato dall'art. 7 legge n. 205/2000 e
dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004,
nonché degli artt. 7 e 133 D.Lgs. 104/2010; violazione dell"art.
386 c.p.c. (art. 362, comma 1, n. 3 c.p.c.)" avendo gli
attori sottoposto, anche in via indiretta, al G.O. il
sindacato sulla legittimità/correttezza degli atti
amministrativi delle autorità competenti.
Ed infatti non è stata scrutinata una mera condotta
materiale della P.A., ma un complesso e articolato iter
urbanistico, espressione di potere autoritativo della P.A. e
della scelta di gestione e uso del territorio, avendo i Fo.
chiesto di acquisire la documentazione attestante la
progettazione e la realizzazione dell' opera e di
riclassificare la zona di ubicazione dell'immobile
deprezzato da essa e questi sono la causa petendi ed
il petitum sostanziale da cui sono derivati i pretesi
danni, anche patrimoniali.
I motivi, connessi, sono fondati.
Va infatti ribadito che anche in materia di
diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione allorché la
loro lesione sia dedotta come effetto del se e del come la
funzione pubblica si sia estrinsecata in materia riservata
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
come nel caso atti e comportamenti in violazione di norme
che regolano il procedimento e la programmazione,
pianificazione e organizzazione del territorio
-art. 34.1 e 2 DLgs. del 1998 n. 80, come modificato
dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, in cui rientrano
anche le modalità di regolamentazione del traffico viario e
di predisposizione delle infrastrutture imposte dalla legge,
caratterizzate da ambiti di discrezionalità-
nell'interesse dell'intera collettività nazionale,
compete al giudice amministrativo la cognizione esclusiva
delle relative controversie sulla sussistenza in concreto
dei diritti vantati, direttamente incisi dal potere
autoritativo di cui si contestano le scelte, ed il
contemperamento o limitazione di essi con l'interesse
generale all'ambiente salubre
(Corte Costituz. nn. 204 del 2004, 191 del 2006, 140 del
2007, S.U. n. 2052 del 2016), che non può esser demandato ad
un ausiliare del G.O.. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Diritto soggettivo leso, parola al tribunale.
Contestazioni in merito ai danni provocati dalla pubblica
amministrazione.
Nel caso in cui ci sia contestazione in merito al diritto
soggettivo che viene leso dalla p.a., sarà competenza del
giudice ordinario quella di conoscere dell'azione proposta
dal danneggiato per il conseguente risarcimento del danno.
Lo hanno affermato i giudici delle Sezz. unite civili della Corte
di Cassazione con la
sentenza
07.09.2016 n. 17673.
Il thema decidendum vide, nel caso di specie, Tizio, Caio e
Sempronio convenire nel 2005 dinanzi al Tribunale, Alfa
s.p.a., deducendo di esser proprietari di un immobile in un
caseggiato situato nel Comune interessato dai lavori di
realizzazione della nuova linea ferroviaria, appaltati da
Alfa s.p.a. alla Beta impresa, e che durante l'esecuzione
dei lavori di scavo di una galleria artificiale a ridosso
dell'edificio il caseggiato aveva subito consistenti lesioni
che ne avevano compromesso la stabilità e la sicurezza.
L'accertamento tecnico preventivo aveva confermato i fatti e
pertanto, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., chiesero di
accertare la responsabilità dei convenuti anche per
inadempimento agli obblighi assunti con essi attori, e la
condanna all'esecuzione delle opere di consolidamento dello
stabile e al risarcimento dei danni per il diminuito valore
dell'immobile. L'impresa appaltatrice chiamò in garanzia
l'Assicurazione.
Disposta Ctu, il Tribunale declinò la
giurisdizione ai sensi dell'art. 34, dlgs n. 80 del 1998,
ravvisando la natura pubblica delle opere per il raddoppio
della linea ferroviaria implicante atti e provvedimenti in
materia edilizia e urbanistica, essendo irrilevante la
natura privata dell'impresa appaltatrice, da equiparare alla
p.a. nel perseguimento degli interessi pubblici, ed essendo
competente la giurisdizione amministrativa sulle domande di
risarcimento del danno causato da comportamenti
riconducibili ad atti amministrativi nell'esercizio, anche
mediato, del potere pubblico. Con sentenza la Corte di
appello respingeva l'appello.
Pertanto Tizio, Caio e
Sempronio ricorrevano per Cassazione. I giudici di piazza
Cavour hanno altresì evidenziato che il g.o. possa svolgere
indagine alcuna al fine di sindacare se la p.a. abbia
convenientemente apprezzato gli interessi della collettività
e scelto i mezzi idonei a soddisfarli, e può indagare se i
mezzi discrezionalmente scelti siano stati messi in opera in
modo adeguato e corretto o, invece, con imperizia o
negligenza o imprudenza, cioè colposamente, trattandosi di
un'indagine condotta in base a criteri puramente tecnici e
diretta non a censurare l'attività discrezionale della p.a.,
ma a porre in rilievo un eventuale illecito
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016).
----------------
MASSIMA
1.- Ed infatti
per principio assolutamente consolidato di queste Sezioni
Unite, fermo il potere della P.A. di apprezzare liberamente
gli interessi pubblici,
come l'idoneità dei mezzi da adottare per soddisfarli,
ed escluso, entro tale ambito, che il giudice ordinario
possa svolgere indagine alcuna al fine di sindacare se la
P.A. abbia convenientemente apprezzato gli interessi della
collettività e scelto i mezzi idonei a soddisfarli, è
altrettanto fermo che, rispettati tali limiti, il giudice
ordinario possa indagare se i mezzi discrezionalmente scelti
siano stati messi in opera in modo adeguato e corretto o,
invece, con imperizia o negligenza o imprudenza, cioè
colposamente, trattandosi di un'indagine condotta in base a
criteri puramente tecnici e diretta non a censurare
l'attività discrezionale della P.A., ma a porre in rilievo
un eventuale illecito.
Pertanto,
se la P.A. ha il potere di stabilire in modo discrezionale
ed insindacabile i criteri ed i mezzi secondo i quali
un'opera pubblica
(nella specie, la realizzazione della nuova linea
ferroviaria "Pontremolese"),
deve essere eseguita, tuttavia la sua discrezionalità trova
un limite nel dovere di osservare non solo le norme
legislative e regolamentari, ma anche quelle tecniche,
quelle elementari della prudenza e della diligenza, nonché
la norma primaria e fondamentale del neminem laedere,
limite esterno posto a detta discrezionalità, il quale
impone anche alla pubblica amministrazione di evitare che
dalla costruzione dell'opera pubblica derivino danni alla
vita, alla incolumità o all'integrità dei patrimonio dei
cittadini.
E se in conseguenza dell'inosservanza di dette norme siano
derivati danni a terzi, la P.R. è tenuta a rispondere di
quelli che siano conseguenza immediata e diretta
dell'esecuzione stessa, in base ai comuni principi sulla
responsabilità per colpa.
Né è dubbio che dell'azione proposta dal danneggiato per il
risarcimento del danno sia competente a conoscere il giudice
ordinario, cadendo la contestazione sul diritto soggettivo
leso dalla P.A. -ovvero dalla società privata incaricata
dell' esecuzione dell'opera pubblica- dalla mancata adozione
di idonee cautele protettive del patrimonio privato ed
essendo perciò il giudice ordinario chiamato a conoscere gli
effetti dei comportamento colposo della P.A., non anche a
sindacare l'uso che del suo potere discrezionale questa
abbia fatto (ex multis S.U. 25982 del 2010, 5926 del
2011). |
CONDOMINIO - PATRIMONIO:
Niente tassa sugli ascensori. Ma serve sicurezza
sugli impianti antecedenti al 1999.
Parere del Cds sul regolamento Mise che ha rottamato
l'obbligo di adeguamento.
La «tassa sull'ascensore» non ci sarà. Ma per il Consiglio
di stato, la decisione del governo di fare dietrofront
sull'obbligo di messa in sicurezza degli impianti installati
prima del 1999, rischia di creare un certo allarme. Perché
gli ascensori più vecchi, a meno che non siano stati oggetto
di autonomi interventi di adeguamento, non garantiscono a
chi li utilizza il medesimo livello di sicurezza offerto da
quelli installati in conformità alla direttiva 95/16/Ce.
In ogni caso, ha riconosciuto palazzo Spada, la scelta di
non intervenire «è stata legittima» e non censurabile in
quanto si tratta di «materia attinente all'incolumità
pubblica». Ma il governo dovrebbe provvedere con urgenza
poiché «vi è un'esigenza, particolarmente avvertita
nell'attuale fase storica, di sicurezza a tutti i livelli da
parte della comunità nazionale, il cui soddisfacimento ha un
impatto fondamentale sul rapporto di fiducia dei cittadini
nei confronti dello stato».
Con il
parere 06.09.2016 n. 1852
(Schema di decreto del Presidente della Repubblica
recante regolamento concernente modifiche al decreto del
Presidente della Repubblica 30.04.1999, n. 162, per
l’attuazione della direttiva 2014/33/UE relativa agli
ascensori ed ai componenti di sicurezza degli ascensori
nonché per l’esercizio degli ascensori), i supremi giudici amministrativi hanno acceso il semaforo
verde sul discusso regolamento del ministero dello sviluppo
economico che recepirà nel nostro ordinamento la nuova
direttiva 2014/33/Ue in materia di ascensori.
Il regolamento
era finito subito nel mirino di Confedilizia preoccupata
proprio per le conseguenze economiche che i controlli di
sicurezza richiesti per gli impianti ante 1999 avrebbero
potuto produrre sulle tasche dei proprietari. Ne era sorto
un duro botta e risposta tra l'associazione guidata da
Giorgio Spaziani Testa e il ministero di via Veneto (si veda
ItaliaOggi del 17/02/2016) culminata nella decisione da parte
dell'esecutivo di eliminare, dal testo definitivo del dpr
approvato dal consiglio dei ministri il 20 giugno scorso, il
riferimento all'obbligo di adeguamento. Un dietrofront che
la confederazione della proprietà edilizia aveva subito
accolto con favore.
«Diamo atto al presidente del consiglio
e al nuovo ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda,
di aver varato un provvedimento attento alla sicurezza dei
cittadini, ma privo di inutili e costosi adempimenti
aggiuntivi per la proprietà, già pesantemente provata dalla
congiuntura economica e dall'imposizione fiscale», aveva
dichiarato Spaziani Testa.
Ora la sezione consultiva atti normativi guidata da Franco
Frattini, con il parere favorevole sul testo, mette il
sigillo anche sulla scelta di non insistere sulla tassa
sull'ascensore. Ma lo fa esprimendo più di una perplessità.
Nel parere si citano i dati forniti dagli operatori del
settore che evidenziano come su 700.000 ascensori installati
prima del 1999, circa il 40% sia ancora caratterizzato da
inadeguata precisione di arresto della cabina (problema che
dà origine a più di un terzo degli infortuni rilevati),
circa il 35% presenti problemi sull'adeguatezza dei sistemi
di protezione contro urti e schiacciamento della cabina e
circa il 70% sia sprovvisto di adeguati dispositivi di
illuminazione di emergenza o di richiesta di aiuto dalla
cabina.
Ciononostante, i giudici riconoscono che «formalmente la
scelta di non intervento è legittima, poiché la materia è
disciplinata non dalla direttiva cui si dà attuazione con il
regolamento (2014/33/Ue) ma con la raccomandazione europea
95/216/Ce che è atto non vincolante».
Il governo, ha ricordato palazzo Spada, «sfruttando
l'occasione offerta dalla direttiva, ha avviato la relativa
analisi di impatto concludendo circa la necessità di
approfondire la tematica, rinviando l'intervento a un
autonomo atto normativo».
«Trattandosi di materia attinente
all'incolumità pubblica», il Consiglio di stato non ha
potuto censurare la scelta di rinvio, ma ha segnalato al
governo l'esigenza di provvedere con urgenza, proprio per
l'esigenza di sicurezza sempre più forte nella popolazione.
Non solo. «Non è caso di correre il rischio», ha concluso il
Consiglio di stato, «che una significativa differenza degli
standard di sicurezza tra vecchi e nuovi impianti sia
percepita come un'ingiustificata discriminazione a carico
dei proprietari di edifici acquistati in epoca più antica»
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Garage
senza Tari se non producono rifiuti.
Autorimesse e garage sono soggetti al pagamento della tassa
rifiuti, ma i contribuenti sono esonerati dal pagamento se
provano che questi immobili non producono rifiuti.
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione -Sez. VI
civile- con l'ordinanza
05.09.2016 n. 17623.
I giudici di piazza Cavour con la [...]
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Strada sbarrata alle motivazioni apodittiche.
La corte di cassazione si sofferma sulle
fonti delle sentenze.
Sussiste il vizio di mancanza di motivazione su punto
decisivo, implicante l'annullamento della sentenza, nel caso
in cui, per l'assoluta genericità e l'assoluta
indeterminatezza delle fonti di convincimento, la
motivazione si risolve in una affermazione apodittica, che
non consente ne la ricostruzione del procedimento logico, ne
l'individuazione delle ragioni che condussero alla adottata
soluzione del punto controverso.
Ad affermarlo sono stati i giudici della VI Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza 01.09.2016 n. 17500.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì aggiunto che tale
mancanza di motivazione, inoltre, correlativamente non
consente la possibilità di controllo della logicità e
congruità della ratio decidendi, e pertanto restano
frustate le finalità perseguite dalla legge con
l'imposizione dell'obbligo della motivazione.
Il thema decidendum sottoposto all'attenzione degli
Ermellini vedeva il circolo Alfa e Tizio che avevano
stipulato con la società Beta sas un contratto di vendita a
consegne ripartite. Dopo sette mesi la società Beta aveva
elevato il prezzo del prodotto e spostato il termine, poiché
secondo la società Beta alla scadenza del contratto il
circolo Alfa non aveva ancora provveduto a ritirare il
prodotto e non aveva provveduto a pagare la merce.
In seguito con un secondo contratto veniva stabilito
l'obbligo per il circolo Alfa di acquisto una certa quantità
di prodotto dalla venditrice mediante ritiri mensili per il
prezzo pari al listino ufficiale della Beta sas depositato
alla Cciaa.
Secondo la società Beta alla scadenza del secondo contratto
il circolo e il Tizio erano debitori ancora di una certa
somma.
Pertanto la società M., persistendo l'inadempimento chiedeva
e otteneva dal Tribunale decreto ingiuntivo per la
complessiva somma.
Il decreto ingiuntivo notificato veniva opposto dal circolo
e da Tizio e specificando che constatato che, nel 2003, il
prodotto aveva una qualità inferiore a quelle sempre
fornita, il circolo, aveva dovuto approvvigionarsi altrove e
constato, ancora, che, nel gennaio 2004, il prodotto
continuava a essere di scarsa qualità, avevano ritenuto
opportuno chiudere il rapporto con la società Beta.
Eccepivano che il diritto per cui la società Beta agiva si
era estinto per prescrizione.
Il Tribunale rigettava l'opposizione e confermava il decreto
ingiuntivo.
La Corte di appello, su impugnazione proposta dal Circolo e
da Tizio, accoglieva l'appello, revocava il decreto opposto,
condannava il circolo, condannava la società Beta alla
restituzione di quanto ottenuto con la sentenza di primo
grado, respingeva la domanda riconvenzionale avanzata dal
circolo, condannava il circolo al pagamento di un terzo
delle spese del secondo grado del giudizio e compensava il
resto
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Deliberazione non sufficiente. La pubblicazione
ufficializza la consegna della sentenza.
La Corte di cassazione distingue tra atti
meramente interni ed efficacia esterna.
Nella sentenza sarà la pubblicazione ex
art. 133 c.p.c. a ufficializzare la consegna della sentenza
stessa attribuendole giuridica esistenza nel mondo esterno,
mentre, eccetto per casi particolari, la deliberazione della
sentenza rappresenterà solo una mera fase del procedimento
di formazione della decisione.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
24.08.2016 n. 17297.
Infatti, la deliberazione della sentenza è un atto meramente
interno e acquista efficacia esterna per effetto del suo
deposito contestualmente attestato dal cancelliere che
attribuisce ad essa l'efficacia di certezza pubblica.
Tizio, ricorrente, denunciava la violazione dell'art. 133
c.p.c., per avere dato rilievo decisivo all'attività,
interna all'ufficio, di deposito della sentenza in
cancelleria, invece che a quella di pubblicazione tramite la
necessaria attestazione del cancelliere, avvenuta, nella
specie, in data successiva alla proposta di concordato
preventivo, non esaminata perché erroneamente considerata
tardiva.
I giudici di piazza Cavour hanno premesso che tale
fattispecie non è quella, cui si riferisce la sentenza delle
Sezioni unite n. 13794 del 2012, seguita dalla
giurisprudenza successiva (si veda anche Corte cost. n. 3
del 2015), della cosiddetta doppia data di pubblicazione
della sentenza, «quando vi sia un contrasto tra
l'annotazione del deposito della sentenza (completa della
firma del presidente e dell'estensore) da parte del
cancelliere e l'annotazione successivamente apposta dallo
stesso cancelliere relativa all'attestazione
dell'intervenuta pubblicazione della sentenza medesima».
Infatti, i giudici della Cassazione osservano che il
deposito della sentenza di primo grado non è stato
certificato contestualmente dal cancelliere, il quale ha
rilasciato successivamente, a richiesta del curatore, una
postuma certificazione di deposito della sentenza in data
anteriore.
Secondo gli Ermellini una simile certificazione,
evidentemente, non può ritenersi idonea ad attestare la
pubblicazione della sentenza in una data diversa ed
anteriore a quella ufficiale, coincidente con l'attestazione
del cancelliere.
E sarà questa la data da considerare ai fini della
valutazione della tempestività della proposta di concordato
preventivo, la quale impedirà temporaneamente la
dichiarazione di fallimento, essendo stata avanzata in data
precedente (si veda: Cass., sez. un., n. 9935 del 2015)
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
VARI:
Ragioni d'ordine pubblico giustificano il foglio
di via.
Lo scopo del foglio di via è quello di limitare la libertà
di spostamento di cui normalmente godono i cittadini quando
una persona pericolosa socialmente venga identificata fuori
del suo luogo di residenza senza un legittimo motivo. Si
tratta di una misura di polizia fortemente limitante una
delle più scontate libertà costituzionali quale quella di
locomozione, ma si giustifica per esigenze di ordine
pubblico.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Emilia
Romagna-Bologna con la
sentenza 19.08.2016 n. 794.
Il thema decidendum aveva il seguente oggetto: a Tizio
veniva notificato dalla Questura un foglio di via
obbligatorio per essere stato sorpreso nell'atto di
affiggere dei manifesti di contenuto politico e in virtù di
precedenti di polizia. Tizio ricorreva, quindi, in via
gerarchica al Prefetto che però non adottava alcun
provvedimento facendo maturare il termine per il
silenzio-rigetto di cui all'art. 6, dpr 1199/1971.
Pertanto lo stesso Tizio presentava un ricorso sulla base di
due motivi. Il primo denunciava la violazione dell'art. 2,
dlgs 159/2011 nonché l'eccesso di potere per travisamento
dei fatti, carenza di presupposti e difetto di istruttoria.
Tizio non si trovava in una città fuori del territorio di
residenza, presupposto indefettibile per l'applicazione del
foglio di via; egli infatti aveva fissato la sua dimora
abituale in quella città dove frequentava il secondo anno di
un Corso di Laurea essendo stato titolare di un contratto di
locazione in passato e attualmente assegnatario di un
alloggio di residenza universitaria.
La residenza va intesa secondo la definizione dell'art. 43
c.c. rispetto alla quale le iscrizioni anagrafiche hanno un
valore puramente indicativo. Il secondo motivo censurava le
medesime norme sotto altro profilo in quanto il ricorrente
non appartiene a nessuna della categorie alle quali sono
applicabili misure di prevenzione quale quella a lui
irrogata.
Per definirlo pericoloso la Questura faceva
riferimento a non meglio precisati precedenti di polizia che
probabilmente sono solo segnalazione di partecipazioni a
manifestazioni espressione della libertà di manifestazione
del pensiero e della libertà di associazione.
Il Ministero dell'Interno si costituiva in giudizio
chiedendo il rigetto del ricorso. Il ricorso secondo il
tribunale amministrativo era, pertanto, fondato
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
TRIBUTI:
Notifica ok a parenti non conviventi.
La notificazione di un atto tributario eseguita presso
l'abitazione del contribuente, con consegna a persona
qualificatasi come «cognata», seppur non convivente, è
regolare. Il notificatore, infatti, non è tenuto a indagare
sullo stato di convivenza o sulla effettività del rapporto
di parentela che si presume «iuris tantum» dalle
dichiarazioni a costui rese: spetta, semmai, al contribuente
fornire la prova contraria, circa l'inesistenza di un legame
con il consegnatario ovvero l'occasionalità della presenza
dello stesso nell'abitazione.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 05.08.2016 n. 16499
della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Si discuteva sulla presunta irregolarità della notifica di
atti tributari, prodromici rispetto all'impugnata cartella
di pagamento: la mancata notifica di detti atti avrebbe
inficiato la cartella. La Ctr di Roma, con sentenza
favorevole al contribuente, annullava la cartella, poiché la
notifica dei suddetti atti era avvenuta a persona rinvenuta
nell'abitazione e qualificatasi come «cognata»: poiché era
stato dimostrato che la cognata non era «convivente» con il
destinatario del plico, l'organo laziale aveva ritenuto
irregolari le notifiche.
La Corte di cassazione ha annullato
la sentenza regionale, rinviando gli atti ad altra sezione
del collegio di via Labicana. In base alle previsioni
dell'articolo 139 del cpc, richiamato dall'articolo 60 del
dpr 600/1973, se il destinatario del plico non si trova nel
luogo in cui viene eseguita la notifica, il notificatore
«consegna copia dell'atto a una persona di famiglia o
addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, purché non
minore di quattordici anni o non palesemente incapace».
Lo
status di persona di famiglia o addetto alla casa, e quindi
un legame con l'effettivo destinatario e la stabilità della
presenza del consegnatario in quel luogo, sono condizioni
che si presumono iuris tantum, dal fatto che il
consegnatario si trovi in quel luogo al momento della
notifica e dalla dichiarazione (eventualmente) rilasciata al
notificatore. Dunque, spiega la Cassazione, la presunzione
di legge reca la sussistenza tra i soggetti di una relazione
tale da far ritenere la regolare trasmissione dal primo al
secondo del plico notificato.
Sebbene tale presunzione non
abbia natura assoluta e sia suscettibile di prova contraria,
tale onere spetta comunque al destinatario che, dimostrando
l'insussistenza del dichiarato rapporto di familiarità, la
solo occasionale presenza del familiare nella casa, o
entrambe le cose insieme, assuma di non aver ricevuto l'atto
notificato con le modalità prescritte dalla legge.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Osserva la Corte che il giudice di merito non ha
considerato che, in base all'articolo 139 cpc (richiamato
dall'articolo 60 del dpr n. 600/1973), l'ufficiale giudiziario
non è tenuto a svolgere indagini o ricerche particolari in
ordine all'effettività dello stato di convivenza; e nemmeno,
nel caso di consegna a persona di famiglia, a espressamente
indicare tale stato nella relata di notificazione.
E ciò,
nella specie, per la basilare ragione che il rapporto di
convivenza non è prescritto dal comma 2, dell'art. 139 cit.
2.3. In proposito l'esegesi giurisprudenziale del secondo
comma dell'art. 139 cpc, ha ampliato il concetto di «persona
di famiglia» fino a ricomprendervi non solo i parenti ma
anche gli affini e ha escluso che sia implicito nella
previsione codicistica che la «persona di famiglia» cui fa
riferimento la norma citata debba convivere col
notificatario.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha
ripetutamente affermato che in caso di notificazione ai
sensi dell'art. 139 cpc, comma 2, la qualità di persona di
famiglia o di addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda
di chi ha ricevuto l'atto si presume «iuris tantum» dalle
dichiarazioni recepite dall'ufficiale giudiziario nella
relata di notifica, incombendo sul destinatario dell'atto,
che contesti la validità della notificazione, l'onere di
fornire la prova contraria e, in particolare, di provare
l'inesistenza di un rapporto con il consegnatario
comportante una delle qualità su indicate ovvero la
occasionalità della presenza dello stesso consegnatario
(Cass. nn. 23368/2006, 21362/2010, 26501/2014, 7211/2016).
Non ha la Ctr dunque considerato che nel concorso di
circostanze fattuali assodate in giudizio (presenza della
consegnataria presso l'abitazione del destinatario X e
rapporto di affinità tra i due) ricorreva qui la presunzione
di legge circa la sussistenza tra i soggetti di una
relazione tale da far ritenere la regolare trasmissione dal
primo al secondo del plico notificato (v. tra le tante,
Cass. 21362/10 cit. e 23368/06).
È vero che tale presunzione
non ha natura assoluta e può, pertanto, essere superata
dalla prova contraria a onere del destinatario che,
deducendo l'insussistenza del dichiarato rapporto di
familiarità, la solo occasionale presenza del familiare
nella casa, ovvero entrambe le cose insieme, assuma di non
aver ricevuto l'atto notificato con le suddette modalità (ex multis, Cass. ord. 12181/13)
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
TRIBUTI:
Ici-Imu, la sanzione è ripetibile. Contribuenti
tenuti al pagamento finché c'è violazione. La Cassazione:
l'obbligo di dichiarazione prosegue per le annualità
successive.
Una sanzione ogni anno per l'omessa presentazione della
dichiarazione Ici e Imu. La violazione perdura fino a quando
il contribuente non la regolarizza presentando la denuncia
al comune sul cui territorio è ubicato l'immobile.
È questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione
-Sez. V civile- con la
sentenza 05.08.2016 n. 16484.
Per i giudici di legittimità, la violazione dell'obbligo di
dichiarazione Ici e Imu non ha natura istantanea ma si
ripete nel corso degli anni e il contribuente è soggetto al
pagamento della sanzione per ogni singola annualità.
Nonostante la legge preveda un unico obbligo a carico del
possessore dell'immobile, questo non comporta che incorra,
in caso di inadempimento, in una sola violazione e in una
sola sanzione. La sanzione, invece, va irrogata per ogni
singola annualità.
Del resto, secondo la Cassazione,
l'obbligo imposto dall'articolo 10, decreto legislativo
504/1992 di dichiarare il possesso e il valore degli
immobili incidente sulla determinazione dell'Ici, o dell'Imu
poiché la regola è la stessa, «non cessa allo scadere del
termine fissato dal legislatore con riferimento all'inizio
del possesso ma permane finché la dichiarazione (o la
denuncia di variazione) non sia presentata, e l'inosservanza
determina, per ciascun anno di imposta, un'autonoma
violazione punibile».
Se l'omissione riguarda diverse
annualità è irrogabile una sanzione per ogni anno.
All'unicità dell'adempimento per assolvere alla denuncia non
corrisponde l'unicità della sanzione.
Contribuenti tenuti all'adempimento.
La dichiarazione deve
essere presentata da coloro che vantino il diritto a fruire
di riduzioni d'imposta. Quindi, sono tenuti all'adempimento
i titolari di fabbricati inagibili o inabitabili e di fatto
non utilizzati, coloro che possiedono immobili di interesse
storico o artistico. Inoltre, vanno denunciati tutti i casi
in cui l'amministrazione comunale non possiede le notizie
utili per verificare la correttezza dell'operato dei
contribuenti.
Nello specifico, tra i casi più significativi,
l'adempimento è richiesto quando: l'immobile ha formato
oggetto di locazione finanziaria o di un atto di concessione
amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso
in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area
edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in
seguito alla demolizione di un fabbricato.
Va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o
traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un'area
fabbricabile. Il valore dell'area, che è quello di mercato,
deve sempre essere dichiarato dal contribuente, poiché
questa informazione non è presente nella banca dati
catastale. Ecco perché l'obbligo non sussiste quando viene
alienata un'area fabbricabile, se non ha subito modifiche il
suo valore di mercato rispetto a quello dichiarato in
precedenza.
L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili
posseduti dalle imprese e distintamente contabilizzati,
classificabili nel gruppo catastale D, che sono tenute a
dichiarare il valore venale del bene sulla base delle
scritture contabili, sia in aumento che in diminuzione, fino
all'anno di attribuzione della rendita catastale. La
dichiarazione, poi, deve essere presentata per gli immobili
relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche
rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta dovuta e
del soggetto obbligato al pagamento.
Anche gli enti non
commerciali che sono stati esonerati fino al 2011
dall'obbligo di presentare la dichiarazione Ici, sono invece
tenuti a denunciare ai comuni gli immobili posseduti per l'Imu.
Non è più applicabile per questi enti l'articolo 10 della
normativa Ici (decreto legislativo 504/1992), che escludeva
espressamente dall'obbligo dichiarativo gli immobili esenti.
Soggetti esclusi.
Le istruzioni ministeriali hanno ribadito
quanto già sostenuto con la circolare 3/2012 e cioè che non
devono presentare la dichiarazione coloro che fino al 2011
hanno già presentato la dichiarazione Ici. Non sono tenuti
all'adempimento coloro che possiedono immobili destinati a
prima casa, nella quale hanno fissato la residenza
anagrafica e la dimora abituale. Stesso trattamento viene
riservato alle pertinenze dell'abitazione principale.
Nelle
istruzioni viene precisato che la conoscenza da parte del
comune delle risultanze anagrafiche fa venire meno la
necessità di presentazione della dichiarazione. Anche per i
titolari di immobili adibiti a prima casa, però, è prevista
un'eccezione all'esonero generalizzato dall'obbligo
dichiarativo, nel caso in cui i componenti del nucleo
familiare possiedano più di un immobile nello stesso comune.
Com'è noto, la legge esclude il doppio beneficio per i
coniugi non legalmente separati. L'agevolazione è limitata a
un solo immobile nel quale risiede e dimora uno dei coniugi,
il quale è tenuto a presentare la dichiarazione.
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Tributi locali, termine unico entro il
30/6.
Termine unico per le denunce Imu, Tasi e Tari. Devono
infatti essere presentate entro il 30 giugno dell'anno
successivo alla data di inizio del possesso o della
detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in
comune di un immobile, la dichiarazione può essere
presentata solo da uno degli obbligati. Le dichiarazioni non
devono presentate se l'obbligo è stato già assolto e non
sono intervenute medio tempore delle variazioni o non sono
state effettuate nuove occupazioni.
Per la Tari restano
ferme le superfici già dichiarate per Tarsu, Tia1, Tia2 e
Tares. All'imposta sui servizi indivisibili, invece, si
applicano le stesse regole stabilite per l'imposta
municipale. La dichiarazione produce effetti anche per gli
anni successivi, sempreché non si verifichino modificazioni
dei dati già dichiarati da cui consegua un diverso ammontare
del tributo dovuto. In quest'ultimo caso, allo stesso modo,
le variazioni vanno dichiarate entro il 30 giugno dell'anno
successivo.
Il comma 687 della legge di Stabilità 2014
(147/2013) richiede per la Tasi l'osservanza delle
disposizioni dettate per la presentazione della
dichiarazione Imu. Anche per la Tasi, quindi, la
dichiarazione non va presentata se gli elementi rilevanti
sono acquisibili attraverso la consultazione della banca
dati catastale o gli enti sono già in possesso delle
informazioni necessarie per verificare il corretto
adempimento dell'obbligazione tributaria.
Va ricordato, infine, che per la dichiarazione Tasi può
essere utilizzato lo stesso modello già approvato per l'Imu.
Il dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia,
con la circolare 2/2015, ha chiarito che per l'imposta sui
servizi non serve un modello di dichiarazione ad hoc
e che i comuni in molti casi già dispongono delle
informazioni necessarie per effettuare i controlli e gli
accertamenti sui due tributi, nonostante siano diversi i
soggetti passivi, vale a dire proprietari, inquilini,
comodatari
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2016). |
VARI:
Rischio suicidio, paga anche lo psichiatra.
Lo psichiatra commette omicidio colposo se non vigila
severamente sui pazienti ad alto rischio di suicidio.
Lo chiarisce la Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
nella sentenza 01.08.2016 n. 33609,
che ha respinto il ricorso di un medico psichiatra
condannato per il suicidio di una paziente, affetta da
psicosi maniaco-depressiva, «una malattia caratterizzata da
un alto rischio di suicidio». La paziente, dopo aver tentato
il suicidio ben due volte, si è allontanata dalla stanza
della clinica dove era in cura, gettandosi da un'impalcatura
esterna dell'edificio, per porre fine alla sua vita.
I
giudici di piazza Cavour hanno accolto l'interpretazione
della Corte d'appello sull'atto d'accusa, secondo cui «si
rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti
gli interventi di tipo farmacologico –si legge nella
sentenza– a una stretta sorveglianza, intesa come
assistenza della paziente 24 ore su 24» e che purtroppo tale
misura «non fu in nessun caso e in nessun momento adottato
nei confronti della paziente che risultò pienamente libera
di muoversi per tutto l'edificio, senza alcuna
sorveglianza».
Da qui il richiamo dei porporati al principio
di diritto secondo cui «il medico psichiatra deve ritenersi
titolare di una posizione di garanzia nei confronti del
paziente, anche là dove quest'ultimo non sia sottoposto al
ricovero coatto, con la conseguenza che lo stesso, quando
sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche
suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele»
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Legittima l'Iva sulle parcelle. Non è limitazione
al diritto alla difesa giudiziale.
Sentenza della Corte di giustizia europea sui compensi
spettanti agli avvocati.
Pagare l'Iva sulle parcelle degli avvocati è legittimo.
Lo ha precisato la Corte di Giustizia dell'Unione europea
con
sentenza 28.07.2016 C-543-14, che sottolinea come
«non costituisce una limitazione al diritto alla difesa
giudiziale». Lussemburgo ha anche aggiunto che «gli
Stati membri possono legiferare e modificare le norme
interne e passare da un meccanismo di esenzione all'obbligo
di versare l'imposta».
L'attenzione della Corte Ue era stata sollecitata dal
Belgio, che aveva adottato una legge che poneva fine
all'esenzione Iva per i servizi prestati dagli avvocati
nell'esercizio della loro attività (escluso chi usufruisce
di un patrocinio gratuito).
La Corte ha riconosciuto che i costi di un procedimento
giudiziario (inclusa l'Iva) «possono influire sulla
decisione dell'individuo di far valere i propri diritti in
giudizio, facendosi rappresentare da un avvocato», e che
la tassazione «può essere messa in discussione solo se i
costi sono insormontabili, rendendo impossibile o molto
difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento
giuridico europeo». Il provvedimento continua a far
discutere, perché alcuni giuristi hanno sollevato il
problema se l'aumento Iva sia o meno compatibile col
principio della parità tra le parti, visto che
l'introduzione dell'aliquota non grava su chi usufruisce del
gratuito patrocinio e grava di fatto solamente su una parte.
Su questo Lussemburgo ha precisato che «poiché agli
avvocati è riconosciuto un diritto di detrazione per
l'acquisto di beni e servizi, non è certa la misura in cui i
legali riversino l'onere dell'Iva sui propri onorari, e
dunque sui clienti. Ma l'Iva non rappresenta la parte più
significativa dei costi di un procedimento giudiziario, e
non implica l'obbligo di un'assoluta parità tra i costi
finanziari sopportati dal processo».
Dunque la Corte europea ha interpretato la direttiva
2006/112 nel senso che «l'imposizione dell'Iva è
legittima, e non pregiudica l'equilibrio processuale delle
parti. In Italia la direttiva è stata recepita nel 2010 ed è
attualmente in vigore». E questo libera definitivamente
anche i professionisti del diritto che operano nel nostro
Paese a presentare ai clienti parcelle con Iva
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
1) Dall’esame dell’articolo 1, paragrafo 2, e
dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva
2006/112/CE del Consiglio, del 28.1.2006, relativa al
sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, alla luce del
diritto a un ricorso effettivo e del principio della parità
delle armi sanciti all’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, non è emerso alcun
elemento atto a inficiare la validità di tali disposizioni
nella parte in cui esse assoggettano all’imposta sul valore
aggiunto i servizi prestati dagli avvocati a individui che
non beneficino del gratuito patrocinio nell’ambito di un
regime nazionale di gratuito patrocinio.
2) L’articolo 9, paragrafi 4 e 5, della convenzione sull’accesso
alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai
processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia
ambientale, firmata ad Aarhus il 25.06.1998, non può essere
evocato al fine di valutare la validità dell’articolo 1,
paragrafo 2, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c),
della direttiva 2006/112.
3) L’articolo 132, paragrafo 1, lettera g), della direttiva
2006/112 deve essere interpretato nel senso che i servizi
prestati dagli avvocati a individui che beneficino del
gratuito patrocinio nell’ambito di un regime nazionale di
gratuito patrocinio, come quello di cui trattasi nel
procedimento principale, non sono esentati dall’imposta sul
valore aggiunto. |
CONDOMINIO: Cani
e gatti, condomini aperti. Nulli i divieti contenuti nei
regolamenti, anche originari. Una sentenza del tribunale di
Cagliari chiarisce la portata della legge n. 220/2012.
Animali domestici sempre ammessi in condominio. Deve infatti
ritenersi nullo l'eventuale divieto contenuto nel
regolamento condominiale e questo non solo quando
quest'ultimo sia stato approvato a maggioranza in assemblea,
ma anche laddove si tratti di un regolamento originario, di
natura cosiddetta contrattuale.
Questa la decisione contenuta nella recente sentenza
22.07.2016 del TRIBUNALE di Cagliari.
Le conclusioni alle quali è pervenuto il
giudice sardo in merito alla portata applicativa del nuovo
art. 1138 del codice civile, siccome modificato dalla legge
n. 220/2012, appaiono infatti nuove se confrontate con
quanto ritenuto dalla maggior parte dei commentatori della
riforma del condominio.
Il caso concreto.
Nella specie un condomino proprietario di un cane di piccola
taglia si era rivolto al tribunale di Cagliari per impugnare
il regolamento, chiedendo che venisse accertata la nullità
della disposizione contenente il divieto di tenere animali
domestici nel condominio. La domanda traeva spunto dalla
modifica dell'art. 1138 c.c. a opera della legge di riforma
del condominio, a mente della quale le norme del regolamento
non possono vietare di possedere o detenere animali
domestici.
L'amministratore, nel costituirsi in giudizio
nell'interesse del condominio, aveva però allegato la natura
contrattuale del regolamento, essendo stato lo stesso
predisposto dall'originario costruttore dell'edificio
condominiale e richiamato nei singoli atti di acquisto delle
unità immobiliari di proprietà esclusiva, con conseguente
infondatezza della domanda. Il tribunale ha tuttavia accolto
il ricorso presentato dal condomino ex art. 702-bis c.p.c.,
ritenendo che la disposizione impugnata fosse da ritenersi
invalida per violazione di legge, anzi addirittura nulla per
contrasto con la norma contenente principi di ordine
pubblico.
Il divieto di tenere animali in condominio.
Prima della riforma del 2012 si riteneva generalmente che un
divieto siffatto potesse essere contenuto soltanto in un
regolamento cosiddetto contrattuale, ossia originariamente
predisposto dal costruttore dell'edificio e accettato nei
vari atti di acquisto o, comunque, accettato espressamente
da tutti i comproprietari, in quanto una tale limitazione
delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei singoli
condomini non avrebbe potuto essere introdotta dalla
semplice maggioranza di essi.
Su questa posizione si era
attestata anche la giurisprudenza, sia di merito che di
legittimità, evidenziando la conseguente invalidità di
simili divieti contenuti in regolamenti cosiddetti
assembleari, ossia approvati dai condomini a maggioranza nel
corso delle periodiche riunioni condominiali. Si
evidenziava, in ogni caso, come una questione del tutto
diversa fosse quella della responsabilità del padrone per
gli eventuali danni procurati dall'animale nei confronti
degli altri condomini, vuoi per il disturbo della quiete che
per questioni igieniche.
Il nuovo art. 1138, ultimo comma, del
codice civile.
Come detto, con la legge n. 220/2012 di riforma del
condominio è stato introdotto un nuovo ultimo comma all'art.
1138 c.c. il quale, come parimenti evidenziato, prevede che
il regolamento non possa vietare di tenere animali domestici
nelle unità immobiliari di proprietà esclusiva.
Per tutta
una serie di motivi, però, la maggior parte dei commentatori
ha fino a oggi ritenuto che questa novità (valutata in
realtà come conferma dello status quo) valesse soltanto per
i regolamenti cosiddetti assembleari e non sovvertisse il
principio cui era pervenuta la giurisprudenza in precedenza
richiamata, vale a dire l'impossibilità di imporre a
maggioranza validi divieti che comportassero una limitazione
delle facoltà comprese nel diritto di proprietà.
La
conclusione di cui sopra è stata sostenuta sia alla luce di
un'interpretazione sistematica della norma (l'art. 1138 c.c.
si occupa di disciplinare il regolamento approvato in
assemblea) sia in ragione del tradizionale principio di
diritto appena richiamato (nella maggior parte dei casi la
riforma del 2012 ha infatti tradotto in disposizioni di
legge le conclusioni alle quali era pervenuta la più recente
giurisprudenza di legittimità).
Non è mancato, però, chi ha
al contrario evidenziato la valorizzazione operata
oggigiorno a livello normativo interno e comunitario del
rapporto uomo-animale, inferendo da ciò la necessità di
interpretare la novella legislativa in maniera più ampia ed
evoluta.
La decisione del tribunale di Cagliari.
Ed è proprio quest'ultimo lo spirito che sembra avere mosso
il giudice sardo all'innovativa interpretazione dell'ultimo
comma del novellato art. 1138 c.c.
Il tribunale, infatti, nell'accogliere il ricorso
introduttivo del condomino proprietario dell'animale
domestico, ha ritenuto che l'impugnata disposizione
regolamentare fosse affetta da «nullità sopravvenuta»,
conseguente all'introduzione della menzionata novità
normativa, essendo quest'ultima «applicabile ( ) a tutte le
disposizioni con essa contrastanti, indipendentemente dalla
natura dell'atto che le contiene, regolamento contrattuale
ovvero assembleare, e indipendentemente dal momento
dell'introduzione di quest'ultimo, prima o dopo la novella
del 2012».
Sempre secondo il giudice di primo grado, detto
divieto è da considerarsi addirittura nullo, in quanto
contrario ai principi di ordine pubblico «ravvisabili, per
un verso, nell'essersi indirettamente consolidata, nel
diritto vivente e a livello di legislazione nazionale, la
necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale e, per
altro verso, nell'affermazione di quest'ultimo principio
anche a livello europeo».
E, invero, non mancano nel panorama normativo interno e
comunitario le disposizioni che in questi ultimi anni hanno
migliorato la tutela giuridica degli animali. La legge
quadro n. 281/1991 in materia di animali di affezione e
prevenzione del randagismo aveva per esempio condannato gli
atti di crudeltà, i maltrattamenti e l'abbandono degli
animali, mentre la più recente legge n. 189/2004 ha
introdotto i reati di uccisione e maltrattamento degli
animali di cui agli artt. 544-bis e ss. del codice penale.
Successivamente le modifiche al Codice della strada e il
relativo decreto ministeriale di attuazione n. 217/2012
hanno disposto l'obbligo di fermarsi a soccorrere l'animale
eventualmente ferito in caso di incidente. A livello europeo
si possono invece ricordare la Convenzione per la protezione
degli animali da compagnia di Strasburgo del 1987 e l'art.
13 del Trattato Ue, il quale stabilisce che l'Unione e gli
stati membri devono tenere conto delle esigenze in materia
di benessere degli animali in quanto esseri senzienti.
Secondo il giudice sardo, quindi, la norma introdotta
all'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. sarebbe espressione di
principi già operanti nel diritto vivente, frutto
dell'evoluzione del comune sentire in ordine al rapporto
uomo-animale e da considerarsi compresi nei più generali
diritti inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione.
Per questo motivo la nuova disposizione deve essere
interpretata come espressione di principi di ordine
pubblico, con conseguente applicabilità a tutte le tipologie
di regolamento condominiale, a prescindere quindi
dall'approvazione all'unanimità o a maggioranza del relativo
divieto, e anche a quelli precedenti l'entrata in vigore
della legge n. 220/2012.
In particolare, il tribunale di Cagliari, prendendo
ulteriormente posizione sulla contraria opinione per la
quale la predetta disposizione riguarderebbe i soli
regolamenti cosiddetti assembleari, ha evidenziato come,
seppure sia innegabile che i commi dell'art. 1138 c.c. che
precedono quello aggiunto dal legislatore della riforma
riguardino soltanto quest'ultima tipologia di atto, sia la
rubrica della norma sia il predetto ultimo comma parlino,
genericamente, di «regolamento», consentendo quindi di
ritenere che il citato articolo del codice civile sia, per
così dire, un contenitore atto a recepire disposizioni su
entrambe le possibili forme di regolamento.
Viene inoltre
fatto notare come le conseguenze della violazione di tale
divieto siano specificamente previste dall'art. 155 disp.
att. c.c., a mente del quale «cessano di avere effetto le
disposizioni del regolamento di condominio che siano
contrarie alle norme richiamate nell'ultimo comma dell'art.
1138 del codice» (seppure detta norma si riferisse a quello
che era l'ultimo comma della disposizione in esame prima
della riforma del 2012, essendo probabile che il legislatore
non abbia aggiornato il riferimento per un difetto di
coordinamento sistematico del testo di legge).
Secondo il
tribunale di Cagliari, a ogni modo, questa sarebbe la
miglior prova della tesi della nullità della disposizione
regolamentare contenente siffatto divieto, «costituendo
l'inefficacia mera conseguenza di un'invalidità e non
invalidità essa stessa»
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Riqualificazione
energetica senza limiti.
Le detrazioni per le spese sostenute per le opere di
riqualificazione energetica possono essere fruite da ogni
titolare di reddito d'impresa, in relazione a qualunque
immobile posseduto, senza limitazioni relative ai c.d.
immobili merce o patrimoniali.
È quanto afferma la Ctp di Milano nella
sentenza 21.07.2016 n. 6418/22/2016.
La vertenza nasce dall'impugnazione di una cartella di
pagamento emessa da Equitalia, su iscrizione a ruolo
effettuata dall'Agenzia delle entrate, relativa al
disconoscimento delle detrazioni per le spese di risparmio
energetico.
In particolare, l'amministrazione finanziaria
intendeva negare la detrazione, poiché i lavori erano stati
eseguiti su un immobile destinato alla locazione e, quindi,
non strumentale all'attività d'impresa: secondo la tesi
dell'Agenzia, infatti, la detrazione è possibile per i soli
immobili strumentali, mentre restano escluse le
riqualificazioni di immobili merce o patrimonio. Detta
interpretazione troverebbe fondamento nell'interpretazione
dei commi da 344 a 347, articolo 1, della legge 296/2006
(Finanziaria 2007).
La Ctp di Milano ha accolto il ricorso e annullato
l'iscrizione a ruolo, ritenendo che la normativa in
questione non ponga affatto il limite sostenuto dall'Agenzia
delle entrate, frutto di un'interpretazione della stessa che
poco si confà alla ratio degli stessi provvedimenti di
agevolazione fiscale. La legge istitutiva del beneficio,
spiega il collegio di via Vincenzo Monti, non pone
distinzioni di soggetti beneficiari dell'agevolazione e
pertanto la stessa spetta «in modo oggettivo per le spese
documentate relative a interventi di riqualificazione
energetica che comportino il risparmio energetico di almeno
il 20%».
L'agevolazione in parola consiste in una detrazione
dall'Irpef o dall'Ires ed è concessa quando si eseguono
interventi che aumentano il livello di efficienza energetica
degli edifici esistenti, concernenti: la riduzione del
fabbisogno energetico per il riscaldamento; il miglioramento
termico dell'edificio (coibentazioni - pavimenti - finestre,
comprensive di infissi); l'installazione di pannelli solari;
la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale.
All'accoglimento del ricorso, la Ctp non ha fatto seguire la
condanna alle spese, che sono state interamente compensate
tra le parti.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] I motivi di doglianza del ricorrente sono i
seguenti: 1. Il ricorrente contesta il mancato
riconoscimento di spese mediche proprie e del coniuge a
carico. L'importo delle spese non riconosciute è di euro
19.050,00 al netto della franchigia di euro 129,11 che
comporta l'onere di Irpef di euro 3.620,00. Il ricorrente
allega al ricorso copia delle fatture e degli scontrini
delle spese sostenute. 2. Il ricorrente contesta il mancato
riconoscimento del beneficio del 55% di detrazione
dell'investimento per il risparmio energetico di euro
13.756,00 da cui origina l'addebito di Irpef di euro
7.567,00.
Il ricorrente precisa di essere socio
accomandatario nella società sas nella misura dell'87,87%
del capitale e di avere destinato l'investimento alla
riqualificazione energetica di un immobile di proprietà
sociale limitando il beneficio alla quota di partecipazione.
L'Agenzia delle entrate si costituisce nel giudizio e
riferisce quanto segue.
1. In relazione alla rettifica delle spese mediche,
l'Agenzia riferisce di non avere preso in considerazione gli
importi relativi ai «parafarmaci» e «dispositivi medici»
seguendo le istruzioni ministeriali. Fa inoltre presente in
uno scontrino la mancanza di evidenza della data di
emissione.
Con provvedimento in data 22/03/2016 il ricorrente è sgravato
dell'importo di euro 5.105,36 di cui euro 3.612,00 di Irpef
e l'Agenzia deposita copia dell'atto.
2. In relazione alla
rettifica della spesa di risparmio energetico, l'Agenzia fa
presente che alle imprese l'agevolazione compete
limitatamente agli immobili strumentali utilizzati per lo
svolgimento dell'attività restando esclusi gli immobili c.d.
«merce» e «patrimoniali». L'Agenzia attribuisce l'esclusione
dal beneficio all'interpretazione del disposto all'art. 1
c.c. da 344 a 347 della legge 296/2006 e motiva la ripresa
fiscale per il fatto che l'immobile è risultato destinato
alla locazione e pertanto non costituisce «strumento» per la
società.
La Commissione prende atto che l'Agenzia ha
sgravato l'onere addebitato per le spese mediche. In
relazione al mancato riconoscimento delle spese di
riqualificazione energetica, la Commissione ritiene fondata
l'argomentazione del ricorrente e pertanto la richiesta
meritevole di accoglimento. La Commissione rileva che la
legge 27/12/2006, n. 296 (Legge finanziaria 2007) non pone
distinzione dì soggetti beneficiari dell'agevolazione e
pertanto l'agevolazione compete in modo oggettivo per le
spese documentate relative a interventi di riqualificazione
energetica che comportino il risparmio energetico di almeno
il 20%.
Pertanto, la Commissione verifica che la tesi
dell'Agenzia non trova fondamento né nella legge né nella
normativa di attuazione. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
dirigente illegittimo risponde in proprio.
In caso di delega a sottoscrivere accertamenti conferita da
parte di un funzionario privo di regolare qualifica
dirigenziale l'atto è illegittimo. Inoltre lo stesso
funzionario reggente che ha disposto l'assegnazione
illecita, risponde personalmente del maggior onere
conseguente.
Lo ha stabilito, trasmettendo gli atti alla Corte dei conti
e alla procura della repubblica di Milano, la Sez. VII della
Commissione tributaria regionale Lombardia-Milano, nella
sentenza 14.07.2016 n. 4183/7/2016.
La vertenza riguarda un avviso di accertamento sottoscritto
da un funzionario per delega del direttore provinciale della
competente Agenzia delle entrate. Opponendo questo
accertamento, il contribuente, quale primo motivo di
ricorso, contestava sia la legittimità della delega che la
sottoscrizione dell'accertamento a norma dell'art. 42 del
dpr n. 600/1973.
La Commissione provinciale di Milano
rigettava il ricorso; il collegio di primo grado osservava
come l'atto fosse stato sottoscritto regolarmente da
funzionario delegato dal direttore provinciale.
La sezione
settima della Ctr di Milano è stata di tutt'altro avviso, e
ha annullato l'accertamento. «Nel caso di specie», si legge
nella sentenza, «l'avviso di accertamento risulta
sottoscritto dal capo area lavoratori autonomi, delegato
impersonalmente dal direttore provinciale, la cui relativa
qualifica da dirigente, consultando la pagina trasparenza
amministrativa del sito dell'Agenzia delle entrate, è stata
accertata come illegittimamente attribuita («nemo trasferre
potest quod non habet nec plus quam habet)».
La Commissione
prosegue affermando come il conferimento di incarichi
pubblici per cooptazione (e non per concorso pubblico) sia
inapplicabile a un ente pubblico non economico e costituisca
una palese violazione del «diritto a una buona
amministrazione» di cui all'articolo 41 della Carta dei
diritti fondamentali dell'Ue. Dalla sent. n. 37/2015 della
Corte costituzionale, precisa il Collegio tributario
meneghino, consegue la decadenza dell'incarico dirigenziale,
nonché l'invalidità di tutti gli atti impositivi
sottoscritti personalmente o per delega da questo presunto
funzionario per straripamento di potere.
In conclusione, il
collegio ha rilevato come il giudice tributario sia un
pubblico ufficiale e, ex art. 357 c.p., abbia un obbligo
giuridico diretto di trasmettere alla procura della Corte
dei conti un rapporto su eventuali responsabilità per danno
erariale, nonché alla Procura della repubblica per eventuali
rilievi penali, disponendo infine la condanna alle spese, a
carico delle Entrate.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Per effetto della sentenza n. 37/2015 della Corte
costituzionale, il conferimento di incarichi dirigenziali
pubblici per cooptazione (e non per concorso pubblico) è
inapplicabile a un ente pubblico non economico, titolare
esclusivo e generate dei poteri impositivo statale nonché
costituisce palese violazione dei «diritto a una buona
amministrazione», di cui all'art. 41 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea.
A tale sentenza
costituzionale consegue la decadenza dall'incarico
dirigenziale, con effetto retroattivo, di tutti coloro che
sono stati nominati in base alte norme dichiarate
incostituzionali nonché l'invalidità derivata di tutti gli
atti impositivi sottoscritti da costoro (personalmente o su
delega) per incompetenza assoluta in difetto di attribuzione
(art. 21-septies, legge 241/1990: è nullo il provvedimento
amministrativo, che è viziato da difetto assoluto di
attribuzione ...; trattasi di c.d. inesistenza giuridica.
Cass. sent. n. 12104/2003).
Nei casi di sopravvenuta
usurpazione di pubbliche finzioni, sia dei dirigenti
deleganti che di quelli delegati, si versa nell'ipotesi di
straripamento di potere; in particolare, mentre per la
rilevanza interna degli atti endoprocedimentali è
sufficiente la sottoscrizione del dirigente/funzionario,
addetto con un mero ordine di servizio, gli atti aventi
rilevanza esterna devono essere emessi dalla Direzione
provinciale e sottoscritti dal relativo legittimo dirigente
o, per formale delega nominativa di questi, dal sottoposto
capo dell'ufficio controllo, ovvero da altro dirigente e/o
funzionario, che possieda legittimamente la qualifica
dirigenziale o meramente direttiva, a seconda del livello
(dirigenziale o direttivo) richiesto in funzione della
rilevanza della sede.
La nullità assoluta per straripamento
di potere dell'atto consegue alla sottoscrizione da soggetto
divenuto usurpatore di pubbliche finzioni per sopravvenuto
retroattivo difetto assoluto di attribuzione. [omissis]
Considerato che il giudice collegiale tributario (pubblico
ufficiale ex art. 357 c.p.) ha un obbligo giuridico diretto
(ex art. 83, legge 1240/1923, art. 53 commi 2 e 3, rd
1214/1934, artt. 20 e 21 T.u. 3/1957, art. 1, comma 3, legge
20/1994) di trasmettere alla Procura della Corte dei conti un
rapporto su eventuali responsabilità per danno erariale,
nonché alla Procura della repubblica (ex art. 331 c.p.p.)
denuncia per eventuali rilievi penali e che responsabilità
contabili e penali incombono direttamente anche sul giudice
collegiale tributario che abbia omesso le doverose denunce
(361 c.p.), manda alla segreteria di sezione per la
trasmissione in copia dei fascicolo di causa alle locali
procure della repubblica, contabile e penale.
Ciò per debito
d'ufficio e per quanto di propria rispettiva ritenuta
competenza. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
TRIBUTI: Aree
a uso pubblico senza imposte comunali.
Non è dovuta l'imposta comunale sugli immobili concessi a
uso pubblico in forza di un contratto, indipendentemente dal
nomen juris assegnato all'atto e dal fatto che lo stesso non
sia ricompreso nel novero dei rapporti espressamente
menzionati dalla norma che stabilisce l'esenzione. Ciò che
rileva, infatti, è l'individuazione del rapporto concreto e
sostanziale: se esso prevede che il godimento sia, nei
fatti, a favore del Comune, l'ente non può pretendere il
pagamento dell'imposta.
È quanto si legge nella
sentenza
07.07.2016 n. 4088/65/2016 della Ctr di Brescia.
Un
comune della provincia di Bergamo intendeva assoggettare a
imposta comunale un'area su cui gravava una «servitù di uso
pubblico», o almeno così veniva denominato il diritto nel
contratto tra le parti, a sua volta denominato «costituzione
di uso pubblico a titolo gratuito».
Secondo la tesi
dell'ente comunale, il rapporto in essere sul terreno non
era fra quelli espressamente menzionati dall'articolo 4 del dlgs 504/92, secondo cui «l'imposta non si applica per gli
immobili di cui il comune è proprietario ovvero titolare dei
diritti indicati nell'articolo precedente», ovvero diritto
reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie.
La Ctr, riformando la sentenza emessa dai primi giudici, ha
invece ritenuto determinante l'individuazione del rapporto
effettivo, a prescindere dalla nomenclatura utilizzata nei
contratti, ove peraltro la «servitù di uso pubblico»
rappresenta un istituto neppure tipizzato normativamente.
Analizzando le modalità di godimento delle aree in
questione, il collegio regionale ha valutato che il rapporto
sottrae al proprietario la disponibilità dei beni, in favore
di interessi pubblici.
D'altronde, prosegue la sentenza,
l'articolo 825 del codice civile sottopone al regime del
demanio pubblico i diritti che spettano ai comuni «su beni
appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono
costituiti per il conseguimento di fini di pubblico
interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni
medesimi».
Dunque, in definitiva, sulle aree destinate a un uso
pubblico, in forza di un contratto che ne preveda tale
destinazione, a prescindere dal nomen juris dello stesso, il
Comune non può pretendere dal proprietario il pagamento
dell'imposta comunale.
All'accoglimento dell'appello non è seguita la condanna alle
spese, stante l'affermata «eccezionalità della materia del
contendere e in assenza di pronunce sul punto della Corte di
cassazione».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'art. 4, dlgs 504/1992 stabilisce che «L'imposta
non si applica per gli immobili di cui il comune è
proprietario ovvero titolare dei diritti indicati
nell'articolo precedente» ed espressamente individuati nel
«diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi,
superficie».
Al fine dell'individuazione del diritto esistente sui beni
in discussione, irrilevante risulta il nomen juris
attribuito dalle parti negli atti notarili, di volta in
volta diversamente definito e in più occasioni individuato
come una «servitù di uso pubblico», istituto normativamente
non contemplato.
A titolo esemplificativo, l'atto notarile
del 20/03/2006 tra [omissis] srl, dante causa di [omissis]
srl, e il comune di ... è denominato «costituzione di uso
pubblico a titolo gratuito», con il quale peraltro si
dichiara di costituire una «servitù di uso pubblico», a sua
volta trascritta nei Registri immobiliari come «costituzione
di diritti reali a titolo gratuito» per «il diritto di uso
pubblico».
Si rende pertanto necessario accertare in
concreto se il rapporto rientri nell'ambito di una servitù
ovvero di un diritto reale. E che il trasferimento riguardi
un vero e proprio diritto reale di godimento su beni privati
in favore della collettività, e dunque di «uso pubblico», si
evince dalle modalità di godimento delle aree in questione.
Il trasferimento del diritto al comune risulta di fatto
sottrarre al proprietario la libera disponibilità dei beni:
con l'atto unilaterale di asservimento dell'11/05/2005
[omissis] srl si impegnava ad assoggettare «a uso pubblico»
le aree in questione (art. 2). Il successivo art. 4 dispone
che «l'avvenuta costituzione della servitù pubblica permette
al Comune di utilizzare l'area asservita per qualsiasi
attività istituzionale», mentre l'art. 5 prevede il rilascio
da parte del Comune di una contestuale «concessione di suolo
pubblico di parte dell'area», stabilendo altresì «un canone concessorio annuo» (art. 7).
Si deve concludere che il
godimento del bene è nei fatti in favore del comune e di
conseguenza non può essere soggetto passivo dell'imposta il
privato proprietario, il cui godimento risulta sacrificato
in favore di interessi pubblici. Il tutto in linea
normativamente con il disposto dell'art. 825 c.c., che
sottopone al regime del demanio pubblico i diritti reali che
spettano tra gli altri ai comuni «su beni appartenenti ad
altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti ...
per il conseguimento di fini di pubblico interesse
corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi».
Né
può rilevare in senso contrario che il parcheggio sia
usufruibile da parte della clientela del centro commerciale,
considerato che l'accesso a esso è libero e consentito
all'intera collettività anche in orario notturno,
allorquando il centro commerciale non è in funzione.
[omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2016). |
TRIBUTI: Non esiste la notifica degli atti via posta elettronica
certificata. ACCERTAMENTI/ Il giudizio della Ctr lombarda favorevole al
contribuente.
La notifica di un accertamento tramite la posta elettronica
certificata non esiste. In quanto giuridicamente inesistente
la notifica in questione non può nemmeno risultare sanata
dal successivo comportamento del contribuente che si
costituisce in giudizio ed eccepisce il vizio della notifica
così eseguita.
Ad oggi nel nostro ordinamento tributario l'unica
disposizione che consente agli enti di notificare ai
contribuenti atti attraverso gli indirizzi di posta
elettronica certificata, è contenuto nel secondo comma
dell'articolo 26 del dpr 602/1973 che si applica unicamente
alle cartelle esattoriali e non può essere certamente esteso
agli avvisi di accertamento.
È questo, in estrema sintesi, il giudizio totalmente
favorevole alla società ricorrente, contenuto nella
sentenza 22.06.2016 n. 3700/6/2016 della Commissione
tributaria regionale della Lombardia-Milano, Sez. VI.
A eseguire la notifica di una serie di avvisi di
accertamento sulla posta elettronica certificata di una
società di capitali era stato l'ufficio tributi di un comune
in provincia di Como che contestava un insufficiente
pagamento della Tarsu.
Secondo i giudici della regionale lombarda la notifica di un
avviso di accertamento tramite un messaggio mail alla posta
certificata della società in oggetto, risulta priva dei
requisiti minimi necessari per configurare una vera e
propria notifica che per le concrete modalità con le quali
la stessa è stata effettuata, esce completamente dallo
schema legale degli atti di notificazione, configurando non
una mera nullità quanto piuttosto una reale inesistenza
della notifica stessa.
Il giudizio della regionale ha
completamente ribaltato il verdetto di primo grado della
Commissione tributaria provinciale di Como che aveva invece
respinto il ricorso della società ritenendo sanato il vizio
di nullità afferente la notifica dell'avviso di accertamento
eseguita a mezzo Pec. Contro tale sentenza si era
immediatamente appellata la società prospettando, in via
preliminare oltre ad altri motivi di gravame, proprio
l'erronea qualificazione in termini di nullità anziché di
inesistenza, con conseguente impossibilità di sanatoria,
della notifica dell'atto impositivo eseguita a mezzo Pec.
La
Commissione regionale dopo aver accolto la preliminare
eccezione del ricorrente in termini di inesistenza della
notifica in questione si è spinta anche oltre precisando
come nel caso di specie l'invio dell'avviso di accertamento
risultasse privo anche di tutti quegli elementi necessari ed
imprescindibili di una notifica. L'invio tramite Pec
effettuato dal comune risultava infatti privo del relativo
avviso, della relata di notifica e di una qualsiasi firma
digitale dell'atto di accertamento da parte di un
funzionario nominativamente individuato.
In una tale situazione, si legge nella parte motiva della
sentenza in commento, «siamo indubbiamente fuori da ogni
ipotesi di schema legale di notificazione, tanto che non può
parlarsi di notificazione meramente nulla quanto piuttosto
di notificazione del tutto inesistente, vizio radicale del
procedimento notificatorio insuscettibile di sanatoria,
specie in un caso come quello in esame in cui il ricorso
tributario presentato dal contribuente è stato volto ad
eccepire proprio l'inesistenza della notifica e prima di
ogni altra difesa in merito».
Si tratta di un arresto giurisprudenziale di estremo
interesse. L'avvento della notifica degli atti tributari
tramite la posta elettronica certificata deve
necessariamente trovare un limite nella legge e deve
comunque essere effettuata secondo formalità tali da
garantire al contribuente destinatario le stesse garanzie
previste nelle altre tipologie di notifica
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Centri
commerciali. Lo stop è legittimo.
Sentenza del Tar Piemonte dà ragione all'ente.
No a nuovi centri commerciali sul territorio del comune. Con
tanti saluti alle liberalizzazioni e alla concorrenza fra le
imprese. È legittimo lo stop imposto dal consiglio
municipale all'insediamento di nuovi punti vendita della
grande distribuzione perché la delibera approvata risulta
ispirata a finalità di tutela dell'ambiente urbano: punta
cioè a rivitalizzare il centro storico della città con i
suoi negozi tradizionali, messi in ginocchio dalla crisi.
È quanto emerge dalla
sentenza
06.05.2016 n. 612, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Piemonte.
Deve rassegnarsi la
società proprietaria: nella zona di ipermercati e outlet ce
ne sono già troppo. Inutile invocare la deregulation del
commercio inaugurata dal decreto Bersani e proseguita dal
decreto Salva Italia di Monti: la finalità del provvedimento
adottato non risulta lesiva della libera competizione e del
libero stabilimento delle imprese sul territorio.
L'obiettivo risulta esplicitato nella stessa delibera:
bisogna anzitutto riconvertire gli immobili del centro,
assicurando la presenza degli esercizi di vicinato in modo
da rilanciare il centro antico e con esso l'immagine
dell'intera cittadina.
Nulla di preconcetto contro la grande distribuzione, ma i
negozi al dettaglio contribuiscono a tenere vivo l'interesse
dei cittadini per alcune zone urbane e bisogna trovare forma
di commercio innovative che non si risolvano nel «cannibalizzare»
l'offerta esistente. Spese di giudizio compensate per la
novità e la complessità della questione
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
consolidati principi giurisprudenziali, “Sono devoluti alla
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche
tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto
della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o
eliminazione di un'opera idraulica riguardante acque
pubbliche, concorrono, in concreto, a disciplinare le
modalità di utilizzazione di dette acque, onde in tale
ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i
provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere
non strettamente attinente alla materia delle acque e
inerendo ad interessi più generali e diversi ed
eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici
relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti
concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque
l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera
diretta ed immediata sul regime delle acque; sono invece
escluse dalla giurisdizione del Tribunale superiore delle
acque pubbliche le controversie aventi a oggetto atti solo
strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a
incidere sul regime delle acque, le quali non richiedono le
competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore
necessarie -attraverso la configurazione di uno speciale
organo giurisdizionale, nella particolare composizione
richiesta- per la soluzione dei problemi posti dalla
gestione delle acque pubbliche”.
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che
“Sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche nella controversia avente ad oggetto gli
atti preordinati alla realizzazione di un argine di
protezione dell'impianto di depurazione delle acque reflue
comunali, il quale costituisce opera idraulica di quarta
categoria, secondo la classificazione di cui all'art. 9,
comma 1, r.d. 25.07.1904 n. 523, in quanto opera diretta a
garantire il contenimento delle acque”.
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7. Ritiene il collegio che sia fondata e assorbente
l’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo formulata dalle amministrazioni
resistenti, sussistendo sulla controversia in esame la
giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
7.1. Secondo consolidati principi giurisprudenziali, “Sono
devoluti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle
acque pubbliche tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che,
per effetto della loro incidenza sulla realizzazione,
sospensione o eliminazione di un'opera idraulica riguardante
acque pubbliche, concorrono, in concreto, a disciplinare le
modalità di utilizzazione di dette acque, onde in tale
ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i
provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere
non strettamente attinente alla materia delle acque e
inerendo ad interessi più generali e diversi ed
eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici
relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti
concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque
l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera
diretta ed immediata sul regime delle acque; sono invece
escluse dalla giurisdizione del Tribunale superiore delle
acque pubbliche le controversie aventi a oggetto atti solo
strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a
incidere sul regime delle acque, le quali non richiedono le
competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore
necessarie -attraverso la configurazione di uno speciale
organo giurisdizionale, nella particolare composizione
richiesta- per la soluzione dei problemi posti dalla
gestione delle acque pubbliche” (tra le tante, TAR
Campobasso, sez. I, 16/01/2015, n. 7; TAR Genova, sez. I, 12.11.2015, n. 912; TAR Pescara, sez. I,
09.06.2015,
n. 235; Cons. Stato, sez. V, 01.10.2015 n. 4594; Trib.
Sup. Acque Pubbliche, 04.04.2015 n. 69).
Questo stesso Tribunale ha avuto modo di affermare che
“Sussiste la giurisdizione del Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche nella controversia avente ad oggetto gli
atti preordinati alla realizzazione di un argine di
protezione dell'impianto di depurazione delle acque reflue
comunali, il quale costituisce opera idraulica di quarta
categoria, secondo la classificazione di cui all'art. 9,
comma 1, r.d. 25.07.1904 n. 523, in quanto opera diretta
a garantire il contenimento delle acque” (TAR Torino, sez.
I, 13/07/2012, n. 874).
7.2. Nel caso di specie, la controversia in esame attiene
alla realizzazione (ripristino) di un’opera idraulica –così
espressamente qualificata da tutte le parti contendenti– la
cui incidenza sul regime delle acque pubbliche è in re ipsa,
ed è resa altresì evidente dalla stessa motivazione del
provvedimento impugnato, nella quale si fa esplicito
riferimento al “rischio idraulico” a cui resterebbero
esposte “le infrastrutture a difesa dell’abitato di Balocco”
a causa della “modificazione del flusso idrico del Torrente
Cervo causato dalla mancata manutenzione della scogliera…”.
La stessa amministrazione procedente, in definitiva,
riconnette la necessità e l’urgenza di provvedere al
ripristino e alla manutenzione dell’opera idraulica al
pericolo di una possibile “modificazione del flusso idrico”
delle acque demaniali del Torrente Cervo, rendendo così
palese l’incidenza diretta dell’opera in questione sul
regime delle acque pubbliche.
7.3. Per di più, nel presente giudizio, le parti
controvertono anche sull’esatta qualificazione dell’opera
idraulica (di quinta categoria, secondo la parte ricorrente;
di terza categoria, secondo l’amministrazione comunale),
facendone discendere conseguenze diverse in ordine alla
imputazione dell’onere di ripristino dell’infrastruttura
spondale, o quanto meno in ordine alla misura del concorso
nelle relative spese: disputa interpretativa la cui
soluzione presuppone le competenze tecniche specialistiche
in possesso del giudice specializzato nella materia de qua,
alla cui cognizione è dunque necessario che la controversia
sia sottoposta per l’ulteriore seguito, anche in ordine alla
misura cautelare richiesta dalla parte ricorrente, sulla
quale la carenza di potere giurisdizionale impedisce a
questo giudice di pronunciarsi
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 08.04.2016 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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