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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2015

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aggiornamento al 21.07.2015

aggiornamento al 10.07.2015

aggiornamento al 03.07.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 21.07.2015

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COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA:
dopo aver iniziato a "smontare" la
circolare 26.06.2009 n. 33 del Segretario generale MIBACT ora è il turno anche della nota 13.09.2010 n. 16721 di prot. dell’Ufficio legislativo (sempre del MIBACT).

EDILIZIA PRIVATA: Una circolare amministrativa non può ovviamente modificare una norma di legge.
Per cui nessun rilievo riveste la circolare del Mi.B.A.C. del 13/09/2010, la quale conduce ad una interpretazione sostanzialmente abrogatrice dell’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, norma che esprime invece un principio chiarissimo e cioè che l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non è consentita laddove l’abuso abbia dato luogo alla creazione di nuova volumetria.
E sotto questo profilo non fa alcuna differenza se la volumetria abusiva è pari ad 1 mc. o a 100 mc. o a 1000 mc., non contenendo l’art. 167 alcuna distinzione al riguardo.

- quanto ai profili paesaggistici, va in primo luogo messo in evidenza il fatto che una circolare amministrativa non può ovviamente modificare una norma di legge. Per cui nessun rilievo riveste la circolare del Mi.B.A.C. del 13/09/2010, la quale conduce ad una interpretazione sostanzialmente abrogatrice dell’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, norma che esprime invece un principio chiarissimo (la cui ratio è ben evidenziata, da ultimo, nella sentenza del TAR Campania, Napoli, III, n. 1718/2015, nella quale è stata delibata anche la questione di costituzionalità dell’art. 167) e cioè che l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non è consentita laddove l’abuso abbia dato luogo alla creazione di nuova volumetria. E sotto questo profilo non fa alcuna differenza se la volumetria abusiva è pari ad 1 mc. o a 100 mc. o a 1000 mc., non contenendo l’art. 167 alcuna distinzione al riguardo (in tema, vedasi la sentenza del TAR Marche n. 111/2012);
- dalla documentazione fotografica allegata alle domande di sanatoria presentate dal ricorrente e rigettate dal Comune emerge peraltro che l’abuso in parola non è affatto irrilevante dal punto di vista paesaggistico (e a questo proposito non può essere in alcun modo condivisa la sostanziale sottovalutazione da parte del sig. F. del vincolo paesaggistico esistente nella zona in cui ricade l’immobile per cui è causa, perché il vincolo esiste da decenni e non può certo essere il singolo proprietario ad arrogarsi il potere di stabilire se un’opera avente rilievo edilizio è o meno compatibile con l’assetto urbanistico e territoriale), visto che il manufatto in parola sporge vistosamente dalla sagoma dell’edificio principale e, inoltre, sul lastrico della parte in ampliamento è stato realizzato un terrazzo a servizio dell’appartamento situato al primo piano.
Dalla planimetria dell’edificio originario emerge invece che il garage era inserito all’interno del perimetro dell’originario edificio principale (il che è confermato dal tecnico di fiducia del ricorrente nella relazione depositata in data 02/03/2015), per cui l’abuso ha modificato completamente la sagoma dell’edificio stesso, il che induce a concludere nel senso della notevole rilevanza, sotto tutti i profili, dell’immobile abusivo.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, la sanatoria non era comunque ammissibile (TAR Marche, sentenza 22.05.2015 n. 413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento più rigoroso, pure presente nel panorama giurisprudenziale italiano, l’art. 167, comma quarto, lett. a) non può essere letto in una prospettiva riduttiva, essendo la disposizione chiara nel prevedere che “l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, …, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; …”.
Il Collegio ritiene preferibile l’orientamento da ultimo richiamato, che fornisce un criterio certo che l’amministrazione preposta alla tutela del paesaggio deve seguire, mentre l’interpretazione suggerita dal parere dell’Ufficio legislativo del Ministero per i Beni culturali del 2010, più volte citato, aprirebbe il varco alle percezioni soggettive e quindi alla possibilità che casi identici siano soggetti a trattamenti differenti.
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Quanto alle nozioni di superficie e di volume che devono essere tenute presenti nei calcoli e nelle misurazioni necessari ai fini dell’accertamento di conformità di cui trattasi, non vi sono ragioni per aderire alla tesi, sostenuta da parte ricorrente, secondo cui dovrebbe farsi riferimento a concetti autonomi di superficie e di volume ai sensi di alcune disposizioni del regolamento edilizio e del regolamento urbanistico vigenti nel Comune.
La normativa statale che dev’essere applicata e che l’amministrazione ha applicato non consente interpretazioni che comportino applicazioni non omogenee nei diversi Comuni.

Il nucleo essenziale della controversia attiene alla qualificazione delle opere effettuate, sotto il profilo degli effetti alle stesse ricollegabili quanto a superficie e volume; come si è già accennato, secondo parte ricorrente non vi sarebbe alcun incremento di superficie utile e di volume degli edifici, ove i calcoli tengano conto di un concetto autonomo di superficie e di volume ai sensi di alcune disposizioni del regolamento edilizio e del regolamento urbanistico vigenti nel Comune di Viareggio.
Secondo parte resistente, invece, l’articolo 167 del decreto legislativo numero 42 del 2004 non farebbe riferimento ai parametri della superficie e del volume in senso urbanistico (variabili quindi da Comune a Comune), bensì al volume geometrico, dovendosi pertanto computare interamente le superfici e i volumi.
Parte ricorrente insiste poi molto sulla non percepibilità delle modifiche apportate ai fabbricati in questione, posto che la funzione essenziale della tutela paesaggistica sarebbe da riferire sempre all’aspetto visibile del territorio. A sostegno di tale tesi, parte ricorrente richiama il parere rilasciato dall’Ufficio legislativo del Ministero per i Beni e le Attività culturali, su richiesta dell’ANCI (parere numero 16721 del 13.09.2010), che intendeva conoscere appunto l’esatto significato di “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” di cui al più volte citato articolo 167, comma quarto, lettera a), del decreto legislativo numero 42 del 2004.
Di segno opposto, sul punto, le tesi difensive dell’amministrazione resistente: nel rapporto ministeriale depositato dalla difesa erariale si nega la rilevanza della percepibilità della modifica esteriore del bene paesaggisticamente tutelato, criterio che si applicherebbe soltanto per l’articolo 146 della predetta medesima fonte normativa.
Infine, la società ricorrente contesta l’operato dell’amministrazione resistente anche sotto il profilo procedimentale, rilevando che i provvedimenti comunali impugnati, recanti definitivo diniego delle istanze di sanatoria presentate, non hanno indicato le ragioni per le quali sono state disattese le osservazioni presentate dall’interessata; ciò in asserita violazione dell’articolo 10-bis della legge numero 241 del 1990.
Il Collegio ritiene opportuno prendere le mosse dal parere ministeriale invocato da parte ricorrente, atteso che il punto nodale della controversia consiste nello stabilire se l’art. 167 del codice dei beni culturali del 2004 debba essere interpretato e applicato nel senso rigoroso voluto dall’amministrazione resistente ovvero in quello propugnato da parte ricorrente, che fa leva (in base appunto al parere ministeriale già menzionato) sul criterio della percepibilità immediata dell’abuso, che dovrebbe cioè essere rilevabile senza necessità di fare ricorso a minuziose misurazioni.
Il contenuto del parere in questione (reso in data 13.09.2010 dall’Ufficio legislativo del Ministero per i Beni e le Attività culturali), per quel che in questa sede rileva, può essere così riassunto: viene in esso richiamato un precedente parere e una precedente circolare aventi il medesimo oggetto; vi si afferma la necessità di privilegiare un’interpretazione finalistica dell’articolo 167, comma quarto, del più volte richiamato codice dei beni culturali, osservandosi che l’interpretazione della disposizione di cui trattasi deve essere coerente con la funzione essenziale della tutela paesaggistica, con le esigenze di semplificazione, con il principio di proporzionalità che deve sempre ispirare la risposta dell’ordinamento all’effettiva portata lesiva dell’abuso.
La concezione del paesaggio alla quale si ispira il parere di cui trattasi è centrata sulla visibilità del dato materiale, quindi sull’idea del paesaggio “come elemento del patrimonio culturale, come fenomeno riferibile alla semiosfera piuttosto che alla ecosfera, in quanto oggetto sociale e culturale, piuttosto che oggetto puramente fisico”.
Nel parere si fa anche riferimento alla Convenzione europea sul paesaggio (Firenze, 20.10.2000, ratificata con legge 09.01.2006, numero 14) e dal codice del 2004, che definisce il paesaggio in termini di percezione e di significato identitario della porzione di territorio considerata, ovvero come parte di territorio come percepita dalla popolazione.
In giurisprudenza non si registra univocità di orientamenti.
Alcune pronunce hanno sposato le considerazioni del ripetuto parere, affermando (Tar Piemonte, II, n. 1310/2011) che “la funzione essenziale della tutela paesaggistica è da sempre (ed ora ritraibile dall’art. 1 della Convenzione europea sul paesaggio, ratificata con legge 09.01.2006, n. 14, e dagli artt. 131, 146, comma 1, e 149 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42) da ricondursi all’aspetto visibile del territorio, conseguendone che, costituendo la percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto un prerequisito di rilevanza paesaggistica del fatto, la sua insussistenza è da ritenersi idonea ad elidere, alla radice, non solo la sussistenza dei presupposti di sanzionabilità dell’illecito commesso, ma finanche la necessità stessa del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, senza che possa darsi, dunque, corso a valutazioni o apprezzamenti di sorta sull’esistenza di superfici utili o di volumi”.
Altra decisione (Tar Campania−Napoli, VIII, n. 4072/2012), ha ritenuto costituzionalmente legittimo il combinato disposto degli artt. 146, comma quarto, e 167, commi quarto e quinto d.lgs. n. 42/2004, sospettati di violazione dell’art. 42 e dell’art. 3 della Carta costituzionale, proprio in quanto ha escluso “l’irragionevolezza della citato disposto normativo ove lo stesso sia interpretato in conformità della circolare dell’Ufficio Legislativo del Ministero BB.AA.CC. 16721 del 13/09/2010, già condivisa dalla Sezione, (ex multis sentenza n. 2463 del 05.05.2011; sentenza n. 5829 del 13.10.2011) secondo la quale deve ritenersi ammissibile la sanatoria postuma in relazione ad opere comportanti aumenti minimali di superficie, da non essere neppure percepibili all’esterno, rientrando detti interventi fra quelli liberi, di cui all’art. 149 d.lgs. 42/2004”.
Il Tar di Palermo ha ritenuto invece di sollevare dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione della compatibilità della disciplina in esame con i principi comunitari (ordinanza della I Sezione n. 802 del 10.04.2013).
In particolare, l’art. 167, comma quarto, violerebbe, secondo il Tar siciliano, l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE sul diritto di proprietà e il principio di proporzionalità come principio generale del diritto europeo, poiché esclude la possibilità di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli interventi comportanti incremento di volume o di superficie in via presuntiva, ossia indipendentemente dall’accertamento concreto della compatibilità di tali interventi con i valori di tutela paesaggistica indicati dal vincolo specifico che grava sull’area. L’impossibilità di ottenere la sanatoria senza accertamenti di compatibilità paesaggistica per interventi che determinano nuovi volumi o superfici comporterebbe una rilevante lesione del diritto di proprietà in tutti i casi in cui i privati, avendo realizzato abusi meramente formali −ossia opere conformi agli strumenti urbanistici ma prive di titolo abilitativo− possono sanarli sotto il profilo urbanistico - edilizio attraverso l’accertamento di conformità in sanatoria (artt. 36 e 37 del DPR n. 380/2001), ma sotto il profilo paesaggistico sono soggetti a demolizione.
Secondo il giudice del rinvio, la materia del paesaggio rientrerebbe nella materia della tutela dell’ambiente, di sicura competenza comunitaria.
La Corte di Giustizia ha invece ritenuto (sentenza del 06.03.2014) la propria incompetenza, affermando la netta distinzione tra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente.
In pratica, né le disposizioni dei trattati UE e FUE richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive 2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa invece il diritto italiano.
Da ciò la Corte ha tratto la conseguenza che non vi sono elementi che consentano di ritenere che le disposizioni del decreto legislativo n. 42/2004 rilevanti nella controversia principale rientrino nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione, poiché esse non costituiscono attuazione di norme del diritto dell'Unione.
Dall'ordinanza di rinvio −afferma la Corte− non emerge l'esistenza di un rischio di violazione dei diritti ritenuti fondamentali dal diritto dell’Unione.
Non sarebbe stata dimostrato dall’ordinanza di rinvio che l'articolo 167, comma quarto, lettera a), del decreto legislativo n. 42/2004 rientra nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione o costituisce attuazione del medesimo, come non sarebbe stata dimostrata la competenza della Corte a interpretare il principio di proporzionalità attraverso la prova di un collegamento sufficiente.
Secondo l’orientamento più rigoroso, pure presente nel panorama giurisprudenziale italiano, l’art. 167, comma quarto, lett. a) non può essere letto in una prospettiva riduttiva, essendo la disposizione chiara nel prevedere che “l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, …, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; …” (Tar Lombardia–Brescia, I, n. 1481/2012).
Il Collegio ritiene preferibile l’orientamento da ultimo richiamato, che fornisce un criterio certo che l’amministrazione preposta alla tutela del paesaggio deve seguire, mentre l’interpretazione suggerita dal parere dell’Ufficio legislativo del Ministero per i Beni culturali del 2010, più volte citato, aprirebbe il varco alle percezioni soggettive e quindi alla possibilità che casi identici siano soggetti a trattamenti differenti.
Alla luce delle su esposte premesse, le doglianze incentrate sull’interpretazione elastica della normativa in questione non possono trovare adesione.
Quanto alle nozioni di superficie e di volume che devono essere tenute presenti nei calcoli e nelle misurazioni necessari ai fini dell’accertamento di conformità di cui trattasi, non vi sono ragioni per aderire alla tesi, sostenuta da parte ricorrente, secondo cui dovrebbe farsi riferimento a concetti autonomi di superficie e di volume ai sensi di alcune disposizioni del regolamento edilizio e del regolamento urbanistico vigenti nel Comune di Viareggio; la normativa statale che dev’essere applicata e che l’amministrazione ha applicato non consente interpretazioni che comportino applicazioni non omogenee nei diversi Comuni.
Tanto basta a respingere il ricorso, essendo appena il caso di precisare che le censure attinenti al procedimento non potrebbero in ogni caso condurre all’annullamento del provvedimento impugnato nel caso in cui si tratti, come nella controversia in esame −in cui è coinvolto il potere di accertamento e repressione degli abusi edilizi− di provvedimenti vincolati (Tar Campania−Napoli, IV, n. 2627/2009) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.07.2014 n. 1216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed ancora sul fatto che un volume edilizio abusivo, quale esso che sia, non può conseguire la compatibilità paesaggistica:

EDILIZIA PRIVATA: Va escluso che la norma di cui all’art. 167, c. 4, lett. a), possa essere letta secondo la prospettiva riduttiva proposta dalla ricorrente e cioè che detto divieto -ove letto in connessione con l’art. 146 e l’art. 149- non sarebbe da intendere come assoluto, bensì sussisterebbe solo quando i volumi o le superfici aggiuntive siano percepibili dall’esterno. .
La disposizione è chiara nel prevedere che: “l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, …, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; …”.
Il D.Lgs. n. 42/2004 ha stabilito -all’art. 146- il principio che l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, consentendo solamente (per effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 157 del 2006 e del D.Lgs. n. 63 del 2008) la sanabilità degli abusi minori di cui all’art. 167, c. 4 e 5.

Con ricorso notificato il 06.04.2011 e depositato presso la Segreteria della Sezione il successivo giorno 15 (rubricato al n. 540/2011 R.G.), G.G.C. impugna il provvedimento del Consorzio del Parco dei Colli di Bergamo recante il diniego dell’istanza di accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167 D.lgs. n. 42 del 2004, presentata in data 11.12.2008 avente ad oggetto “copertura pergolato e posa in opera di serramenti mobili sul fronte dello stesso”.
Il provvedimento -rilevato che “trattasi di richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica per ampliamento locale accessorio ad uso residenziale al piano terra con modifiche alla sagoma del fabbricato che hanno determinato aumento volumetrico e di superficie utile realizzate in assenza di parere di conformità al piano territoriale di coordinamento del Parco dei colli e suoi piani di settore, nonché della relativa autorizzazione paesaggistica"- osserva che "l'intervento di trasformazione del pergolato definisce nuovo volume superficie utile, come evidenziato negli allegati grafici allegati, pertanto non è riconducibile alla tipologia di lavori di cui possa essere richiesta la compatibilità paesaggistica ai sensi del comma 4 dell'articolo 167 del decreto legislativo 42/2004."
...
Con il primo motivo, G.G.C. prospetta innanzitutto l’erronea interpretazione del divieto posto dall’art. 167, c. 4, lett. a), del D.lgs. n. 42/2004, sostenendo che detto divieto -ove letto in connessione con l’art. 146 e l’art. 149- non sarebbe da intendere come assoluto, bensì sussisterebbe solo quando i volumi o le superfici aggiuntive siano percepibili dall’esterno.
Sotto altro aspetto, evidenzia che, nella fattispecie, i lavori eseguiti sono sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo paesaggistico, dato che si tratta di volumetria esigua (il 2,57%) rispetto a quella degli edifici complessivi e peraltro collocati in aderenza al muro di confine ed in continuità ad altri fabbricati sì da non rendere percepibile alcuna modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto.
La doglianza va disattesa.
Va escluso che la norma di cui all’art. 167, c. 4, lett. a), possa essere letta secondo la prospettiva riduttiva proposta dalla ricorrente.
La disposizione è chiara nel prevedere che: “l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, …, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; …
”.
Il D.Lgs. n. 42/2004 ha stabilito -all’art. 146- il principio che l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, consentendo solamente (per effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 157 del 2006 e del D.Lgs. n. 63 del 2008) la sanabilità degli abusi minori di cui all’art. 167, c. 4 e 5.
Con riguardo all’intervento in questione occorre rilevare che -come emerge dal doc. n. 4 della ricorrente- D.I.SRL (dante causa della ricorrente) in data 13.12.2004 otteneva dal Comune di Bergamo autorizzazione paesaggistica ex art. 159 D.Lgs. n. 42/2004 n. 3908/2002 per “opere di formazione pergolato”, secondo le tavole progettuali allegate (che non sono state prodotte in atti).
Circa la nozione di pergolato, va rilevato che (cfr. Cons. St. Sez. IV 29.09.2011 n. 5409) “ai fini edilizi si intende per pergolato un manufatto avente natura ornamentale realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni”.
Al riguardo è stato altresì osservato (cfr. Cass. pen Sez. III 19.05.2008 n. 19973) che mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l’abitabilità dell’immobile.
In ogni caso la stessa G.C. riconosce che venne poi (abusivamente) effettuato “un intervento di riqualificazione di un pergolato esistente” consistente “nella copertura della struttura accessoria con manto in tegole curve antiquate e nella chiusura del fronte con serramenti mobili in legno”.
In tale contesto, va escluso che potesse ritenersi già impegnata una volumetria già in forza della precedente autorizzazione paesaggistica per la realizzazione del pergolato.
Posto che -attraverso le opere abusivamente realizzate sopra descritte- è stata realizzata una nuova volumetria, opera il divieto di rilascio della certificazione di conformità paesaggistica correttamente eccepito dal Consorzio del Parco, senza che si possa fare questione di percentuale dell’abuso così come di visibilità o meno dalla strada.
Quelle poste dalla ricorrente sono questioni tutte irrilevanti (a prescindere dalla fondatezza dei rilievi svolti, sui quali pure si potrebbero svolgere osservazioni critiche), posto che il legislatore ha escluso tout court la sanabilità nel caso di aumento di volumi (senza distinguere fra grandi o piccoli, visibili o invisibili).
Con il secondo motivo, la ricorrente sostiene che il Parco dei Colli si è limitato a contestare l’astratta violazione dell’art. 167 e 181 del D.Lgs. n. 42/2004, senza motivare in ordine alla sussistenza di un concreto pregiudizio arrecato al paesaggio e non ha controdedotto alle osservazioni presentate dalla ricorrente a seguito dell’emissione del preavviso di diniego, in particolare sulla conformità urbanistica dell’intervento.
La censura va rigettata.
Quanto al primo aspetto va ribadito quanto appena enunciato sopra: il legislatore non ha affatto attribuito all’Amministrazione un potere di valutazione caso per caso, ma ha stabilito che l’autorizzazione postuma non è concedibile ogni qualvolta venga in rilievo un’ipotesi di aumento di volumetrie e superfici utili.
Relativamente al secondo profilo, occorre muovere dal rilievo che il Consorzio ha rimarcato un elemento fattuale -la realizzazione, attraverso le opere abusivamente poste in essere, di un incremento volumetrico- comportante la inammissibilità dell’accertamento di conformità e rilevando che le osservazioni proposte dal ricorrente non risultavano capaci di superare tale profilo.
Orbene, posto che le osservazioni si fondavano sulla tesi della conformità urbanistica dell’intervento (e sulla esistenza di una disposizione delle NTA che avrebbe consentito di non considerare superficie utile quella dell’intervento) non può affermarsi che l’osservazione non sia stata esaminata e ritenuta non condivisibile.
Il ricorso originario risulta così infondato (
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.08.2012 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

PATRIMONIOLa proprietà delle scarpate stradali. Chi deve provvedere alla manutenzione e come si determinano i confini.
Le scarpate stradali sono da considerarsi parti delle strade su cui insistono, in quanto pertinenze la cui staticità influisce sull'agibilità delle strade stesse. In tal senso, esse possono essere paragonate ai fossi e alle banchine.
Del resto, lo stesso articolo 3, n. 10), del decreto legislativo n. 285/1992 (Codice della strada) prevede espressamente che in assenza di atti di acquisizione o di fasce di esproprio di progetto, i confini stradali vadano rinvenuti nel piede della scarpata, se la strada è in rilevato, o nel ciglio superiore della scarpata, se la strada è in trincea.
I soggetti onerati della manutenzione delle scarpate.
Da quanto detto, deriva che proprietario delle scarpate e onerato del loro mantenimento è esclusivamente l'ente proprietario della strada. I privati proprietari dei fondi limitrofi, invece, non hanno alcun obbligo in tal senso.
Su questi ultimi, piuttosto, ricade un obbligo manutentivo relativamente alle ripe che sono situate nei fondi limitrofi alle strade, ovverosia relativamente a quelle zone di terreno immediatamente sovrastanti o sottostanti le scarpate.
Sulla base dell'articolo 31 del Codice della strada, infatti, i proprietari delle ripe sono chiamati a mantenerle in una condizione tale da non rischiare di causare frane, cedimenti o ingombri delle strade, cadute di massi o materiali o qualsiasi ulteriore insidia atta a generare danni.
Del resto, l'ente proprietario della strada, pur se chiamato, ai sensi dell'articolo 14 del Codice della strada, a provvedere alla manutenzione e alla pulizia non solo della sede stradale in senso stretto ma anche delle sue pertinenze, non può veder esteso il proprio obbligo di tutela della sicurezza degli utenti della strada sino al punto di doversi occupare della gestione anche di zone estranee ad essa, pur se circostanti.
Il parere n. 2158/2012 del Consiglio di Stato.
Sulla questione si sono espressi in diverse occasioni sia i giudici di merito che i giudici di legittimità, ma una particolare rilevanza la assume il parere n. 2158 reso dal Consiglio di Stato in data 09.05.2012, con il quale, nel respingere il ricorso dinanzi al Presidente della Repubblica fatto da un privato cittadino avverso una delle numerose ordinanze emesse dai Comuni nei confronti dei proprietari dei fondi limitrofi alle sedi stradali, si è fatta chiarezza circa i confini degli obblighi manutentivi dei privati rispetto a quelli degli enti gestori delle strade.
Tale parere risulta rilevante, peraltro, anche per aver precisato, confermando la sentenza della Cassazione n. 1730 del 25.06.2008, come per la definizione di "strada" (e in conseguenza della scarpata) assuma rilievo la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico e non la titolarità pubblica o privata della proprietà (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
Per la definizione di “strada” assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà.
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L’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor S.V. avverso l’ordinanza del Comune di Terni concernente esecuzione di lavori su terreni confinanti con strada pubblica;
...
Premesso:
Con ordinanza n. 13217 del 21.01.2009, il sindaco del Comune di Terni, ai sensi degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, ha intimato a tutti i proprietari ed ai soggetti aventi titolo sui terreni confinanti con il corpo delle strade di pubblico transito, di tenere regolate le siepi, togliere i rami che si protendono oltre il confine stradale, rimuovere gli alberi che cadono sul piano stradale, non piantare alberi, siepi, piantagioni nelle fasce di rispetto laterali alle strade all’esterno di centri abitati relativamente ai tratti in rettilineo o in curva, nonché nelle aree di visibilità in corrispondenza delle intersezioni.
L’ordinanza prevede che i suddetti lavori debbano essere eseguiti entro il 20.05.2009, disponendo, in caso di violazione, l’avvio di azioni di tutela ed ingerenza straordinaria con rivalsa della spesa a carico dell’inadempiente e con irrogazione delle sanzioni amministrative previste dalla legge per le specifiche violazioni accertate secondo le procedure di cui all’art. 211 del Codice della Strada, salvi gli interventi di indifferibile urgenza.
Avverso tale ordinanza propone ricorso straordinario al Capo dello Stato il signor S.V., proprietario di alcune particelle di terreno prospicienti strade, chiedendone l’annullamento per eccesso di potere per falsità dei presupposti, travisamento dei fatti e illogicità manifesta.
In sintesi il ricorrente, premesso che le strade di interesse sono diventate di pubblico transito raramente per cessione volontaria ma soprattutto per acquisizione appropriativa e/o accessione invertita, con ampliamenti non risultanti in catasto (per cui pende causa civile attivata dal ricorrente), ritiene che le opere imposte relativamente alle scarpate confinanti con la strada siano di competenza del Comune.
Ciò in quanto l’area di pertinenza sotto la responsabilità del Comune è delimitata dal “confine stradale” inteso come “limite del corpo stradale che contiene la sede stradale, ovvero la carreggiata e le fasce di pertinenza (comprese le scarpate), come afferma peraltro la stessa ordinanza imponendo il taglio “dei rami che protendono oltre il confine stradale”.
Doglianze queste ribadite e sviluppate con memoria aggiunta presentata, a confutazione delle controdeduzioni del Comune, in data 04.01.2010.
L’Amministrazione, acquisite le controdeduzioni del Comune, che deduce preliminarmente la inammissibilità del ricorso per difetto di concretezza dell’interesse fatto valere, ritiene chiede conclude per la reiezione del ricorso.
Considerato:
Pur considerando che il gravame è volto avverso un atto generale e che il ricorrente non fornisce una prova concreta degli effetti immediati dell’atto sulla propria situazione fattuale, ritiene la Sezione di poter considerare il ricorso ammissibile, tenuto conto che trattasi di atto potenzialmente in grado di incidere sui diritti e interessi del ricorrente, in quanto proprietario di aree confinanti con strade pubbliche.
Nel merito il ricorso è da respingere.
In ordine alle connotazione dei luoghi effettuata dal ricorrente, va considerato come, per la definizione di “strada”, assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del codice della strada, la destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o privata della proprietà (cfr., Cass. Sez. II, sent. 17350 del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è volta a precisare e ad imporre gli obblighi manutentivi, ordinari e straordinari, previsti ai fini della sicurezza, che incombono sui proprietari e gli aventi titolo dei terreni confinanti con il “corpo stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3, punto 10, del d. leg.vo n. 285 del 1992 stabilisce che, “qualora non vi siano atti di acquisizione o fasce di esproprio di progetto", come nel suo caso, il “confine stradale” è identificato “nel piede della scarpata se la strada è in rilevato o dal ciglio superiore della scarpata se la strada è in trincea”, gli obblighi manutentivi ed il taglio dei sensi insistenti sulla strada e involgenti le scarpate non sono legittimamente addossabili ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato, nell’imporre ai confinanti gli obblighi ivi previsti, nel richiamare esplicitamente la normativa vigente al riguardo, non appare adottato in violazione della suddetta normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e l’esecuzione dei lavori, relativamente a coloro che siano proprietari o abbiano comunque titolo nei terreni “confinanti” con il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto dall’ordinanza in questione, diretta a soggetti responsabili di terreni privati posti oltre il confine stradale, mentre rimangono a carico del Comune gli interventi riguardanti le strade in quanto tali, comprese le fasce di rispetto e le scarpate, ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale responsabilità del confinante che abbia illecitamente operato sulla sede stradale medesima.
Il ricorrente, d’altra parte, non evidenzia situazioni concrete che possono, nei suoi confronti, concretare una illegittima applicazione dell’ordinanza in questione che, se verificata, potrà determinare l’attuazione di specifici rimedi contenziosi.
Né assumono consistenze le osservazioni svolte in ordine alla procedura sanzionatoria di cui l’atto impugnato fa ricognizione, coerente alle disposizioni normative vigenti, mentre non assume alcun rilievo la lamentata entità delle spese necessarie ad assicurarne l’adempimento delle prescrizioni, in luogo di una astratta azione preventiva, che rientra a pieno titolo nei poteri-doveri della Pubblica Amministrazione.
Per le esposte considerazioni l’atto impugnato non è affetto dai lamentati vizi di legittimità ed il ricorso è da respingere (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 09.05.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Decreti Efficienza Energetica.
Sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 162 del 15.07.2015 -Supplemento Ordinario n. 39- i tre decreti, approvati lo scorso 26 giugno, che completano a livello nazionale il quadro normativo in materia di efficienza energetica negli edifici:
il primo decreto è volto alla definizione delle nuove modalità di calcolo della prestazione energetica e i nuovi requisiti minimi di efficienza per i nuovi edifici e quelli sottoposti a ristrutturazione;
il secondo decreto adegua gli schemi di relazione tecnica di progetto al nuovo quadro normativo, in funzione delle diverse tipologie di opere;
il terzo decreto aggiorna le linee guida per la certificazione della prestazione energetica degli edifici (APE).
I tre provvedimenti che entreranno in vigore il 01.10.2015 introducono importanti novità. Il nuovo modello di Attestato di Prestazione Energetica sarà valido su tutto il territorio nazionale e avrà un volto completamente nuovo per fornire maggiori informazioni riguardo l’efficienza dell’edificio e degli impianti, consentendo così un più facile confronto della qualità energetica di unità immobiliari differenti. Sono inoltre previsti nuovi standard minimi di prestazione energetica che gli edifici di nuova costruzione e quelli ristrutturati dovranno raggiungere per rispettare le disposizioni della direttiva sugli edifici a energia quasi zero.
È disponibile una presentazione che illustra le principali novità introdotte dalla nuova normativa.
Regione Lombardia pubblicherà a breve una Delibera che andrà a disciplinare le modalità per certificare gli edifici a valle dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni (16.07.2015 - tratto da www.cened.it).

CONDOMINIO - VARI: Le liti tra vicini e condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Schema del Ministro della pubblica amministrazione decreto recante procedure e criteri di mobilità ex art. 1, comma 423, della legge n. 190 del 2014 – Le osservazioni del CSA (CSA Roma, nota 14.07.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 21.07.2015, "Modifiche al regolamento regionale 10.02.2004 n. 1 (Criteri generali per l’assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica) in attuazione dell’art. 5 della legge regionale 24.06.2014, n. 18 (Norme a tutela dei coniugi separati o divorziati, in condizione di disagio, in particolare con figli minori)" (Regolamento Regionale 17.07.2015 n. 7).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 20.07.2015, "Indirizzi regionali in merito alle modalità di versamento delle tariffe istruttorie nei procedimenti di autorizzazione unica ambientale (AUA) ai sensi del d.p.r. 13.03.2013, n. 59" (deliberazione G.R. 14.07.2015 n. 3827).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 17.07.2015,  "Aggiornamento degli allegati della l.r. 02.02.2010, n. 5 – Norme in materia di valutazione di impatto ambientale – Con contestuale disapplicazione di parte della normativa regionale di riferimento, alla luce dei disposti del d.m. del Ministero dell’Ambiente della tutela del territorio e del mare 30.03.2015 avente ad oggetto: «Linee Guida per la verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale dei progetti di competenza delle regioni e provincie autonome, previsto dall’articolo 15 del decreto legge 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116» ed in applicazione del principio di corrispondenza ex art. 2, comma 9 della l.r. 5/2010" (deliberazione G.R. 14.07.2015 n. 3826).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 15.07.2015 n. 162, suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto ai fini dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);

APPALTI: G.U. 15.07.2015 n. 162 "Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti" (Legge 13.07.2015 n. 107).
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Di interesse si legga:
- art. 1, comma 169, che rinvia all'01.11.2015 l'entrata in vigore delle Centrali di committenza: "169. All’articolo 23-ter , comma 1, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, e successive modificazioni, le parole: «1º settembre 2015» sono sostituite dalle seguenti: «1º novembre 2015».".

PATRIMONIO: G.U. 14.07.20145 n. 161 "Regolamento recante modifica al decreto 12.11.2011, n. 226, concernente i criteri di gara per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 20.05.2015 n. 106).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 10.07.2015 n. 158 "Attuazione della direttiva 2013/37/UE che modifica la direttiva 2003/98/CE, relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico" (D.Lgs. 18.05.2015 n. 102).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuove norme sull’efficienza energetica negli edifici (edifici ad energia quasi zero) (ANCE di Bergamo, circolare 17.07.2015 n. 163).

AMBIENTE-ECOLOGIA - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Rischio chimico – valutazione (ANCE di Bergamo, circolare 17.07.2015 n. 160).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: prolungamento del congedo parentale per figli con disabilità in situazione di gravità. Elevazione dei limiti temporali di fruibilità da 8 a 12 anni. Modalità di presentazione della domanda nel periodo transitorio (INPS, messaggio 16.07.2015 n. 4805 - link a www.inps.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: Catasto. Sentenza della Corte Costituzionale n. 154 del 24.06.2015. Annullamento art. 26, c. 7-ter, della legge 28.02.2008 n. 31 (Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, circolare 17.07.2015 n. 2617 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: PEC-Posta Elettronica Certificata. Utilizzo esclusivo. PEC rilasciate gratuitamente agli iscritti nell’Albo e-mail professionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati (Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, circolare 15.07.2015 n. 2600 di prot.).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: stato attuazione Durc on-line (Commissione Nazionale Paritetica per le Casse Edili, lettera-circolare 14.07.2015 n. 30/2005).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Durc on-line – Criticità – Lettera Circolare CNCE n. 28/2015 (ANCE di Bergamo, circolare 13.07.2015 n. 159).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: ADR 2015, norme in vigore dal 1° luglio (ANCE di Bergamo, circolare 10.07.2015 n. 157).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Problematiche Durc on-line (Commissione Nazionale Paritetica per le Casse Edili, lettera-circolare 09.07.2015 n. 28/2005).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

COMPETENZE PROGETTUALINo all'estensione agli agrotecnici dell'abilitazione in materia di atti catastali (16.07.2015 - tratto da www.ispoa.it).

APPALTI: S. Previti, Quali i limiti operativi del principio dell’immodificabilità soggettiva delle A.T.I.? (Tar Campania-Salerno, Sez. I, 23/06/2015, n. 1436) (07.07.2015 - link a www.diritto.it).

APPALTI: M. De Giorgi, Sui limiti del sindacato giurisdizionale della valutazione di anomalia dell'offerta (Tar Campania-Napoli, sez. I, 24/06/2015, n. 3349) (07.07.2015 - link a www.diritto.it).

APPALTI: G. Cassano, Sui requisiti che legittimano la partecipazione alle gare pubbliche (Tar Puglia, Bari, sez. I, 23/06/2015, n. 936) (07.07.2015 - link a www.diritto.it).

APPALTI: G. Patti, La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica (C. Cass, civ., Sez. I, Sent., 12/05/2015, n. 9636) (07.07.2015 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. G. Laratta, Il fenomeno del c.d. Mobbing: le ultime sentenze in materia (06.07.2015 - tratto da www.diritto.it).

PATRIMONIO: A. Cogliandro, Art. 14 C.d.s. - Poteri e compiti degli enti proprietari della strada (26.06.2015 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Panozzo, Sulla natura del diritto di accesso (25.06.2015 - tratto da www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Panozzo, Introduzione al(lo studio del) diritto di accesso: (superamento del) principio di segretezza e riferimenti comunitari e costituzionali (08.06.2015 - tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: V. Gastaldo, Le opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri (2013 - tratto da http://amsdottorato.unibo.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Danno erariale se la p.a. assume violando la legge.
Le amministrazioni pubbliche che assumano dipendenti a tempo indeterminato in violazione dei vincoli imposti dall'articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014 (Legge di Stabilità 2015) poiché danno vita ad assunzioni nulle, vanno incontro a responsabilità erariale.

La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo del Veneto, col parere 25.06.2015 n. 305 mette in evidenza un aspetto connesso alla legge di stabilità che molte amministrazioni, specie locali, nel tentativo di divincolarsi dal congelamento delle assunzioni imposto per consentire la ricollocazione del personale provinciale, hanno fortemente sottovalutato.
E cioè che il congelamento (sia pure solo biennale) delle assunzioni è talmente forte che qualsiasi reclutamento al di fuori dei binari imposti è affetto da nullità; ne consegue che il pagamento degli stipendi intercorso tra l'assunzione nulla ed il provvedimento che l'accerti risulterebbe del tutto privo di titolo. Dunque, secondo la Sezione si apre «la strada a eventuali ipotesi di responsabilità erariale che potrebbe ben sorgere in capo ai soggetti che hanno derogato a tale vincolo».
È un'ulteriore tessera del complicatissimo e caotico mosaico normativo che disciplina la riforma delle province. Talmente caotico da riflettersi anche sui pareri delle sezioni regionali della Corte dei conti. Infatti, la sezione Veneto che si è pronunciata con la deliberazione 305/2015 citata, sul quesito posto dal comune di Lastebasse, ha ritenuto, con delibera 313/2015 inammissibile il quesito del comune di Pedemonte, in tutto e per tutto identico a quello sul quale ha invece espresso il parere.
Sta di fatto che la sezione Veneto irrigidisce ulteriormente, secondo una lettura corretta delle disposizioni della legge di Stabilità 2015, le indicazioni fornite dalla sezione autonomie, con la deliberazione 19/2015.
La delibera della 305/2015 della sezione Veneto ricorda che il comma 424 della legge 190 crea, di fatto, un regime assunzionale «speciale», che come tale deroga e supera le disposizioni generali sulle assunzioni. Tale regime è limitato al biennio 2015-2016 ed è specificamente finalizzato all'assunzione dei vincitori di procedure concorsuali vigenti o approvate alla data dell'01/01/2015, nonché al riassorbimento del personale delle Province dichiarato in sovrannumero.
Si crea, dunque un «binario preferenziale» per il personale soprannumerario che, ricorda la Corte dei conti smentendo le dichiarazioni a più riprese rilasciate da esponenti del governo, «rischierebbe, ove non riassorbito presso altri enti, di essere collocato in posizione disponibilità prima, avviandosi poi, fallita la procedura di salvaguardia dei livelli occupazionali di cui agli artt. 34 e 34-bis del dlgs 165/2001, verso il licenziamento».
Per questa ragione, l'articolo 1, commi 423, 424 e 425, impedisce radicalmente di destinare quote di assunzioni a tempo indeterminato alle procedure di concorso ordinariamente previste dall'articolo 6 del dlgs 165/2001, derogato e disapplicato, per gli anni 2015 e 2016, dalla legge 190/2014.
La sezione Veneto della Corte dei conti sottolinea che il recente decreto enti locali (dl 78/2015) costituisce elemento di comprova inconfutabile della chiara volontà del legislatore di bloccare le assunzioni diverse da quelle consentite dalla legge di stabilità, finché non si sia ricollocato il personale. Esso, infatti, prevede una serie di deroghe per regioni ed enti locali, ai divieti di assunzioni derivanti dal mancato rispetto dei tempi di pagamento delle fatture, o del patto di stabilità.
Ciò, secondo la magistratura contabile, dimostra il «primario interesse al conseguimento del fine sopra richiamato fino al punto da far venir meno le sanzioni, quali i divieti di assunzioni, conseguenti a violazioni dei vincoli di corretta tenuta dei conti pubblici» (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015).

ENTI LOCALISiti web senza limiti di spesa. I costi per il portale istituzionale sfuggono al tetto del 20%. La Corte conti Liguria ha risposto a un quesito del comune di S. Margherita Ligure.
Le spese per la creazione, la conservazione e l'implementazione di un sito internet istituzionale costituiscono adempimenti richiesti obbligatoriamente dalle disposizioni in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. Ne consegue che tali spese, rientrando in un obbligo da assolvere, non soggiacciono alla limitazione prevista dall'art. 6, comma 8, del decreto legge n. 78/2010, dove si impone (dal 2011) un tetto non superiore al venti per cento di quelle sostenute nel 2009.

È quanto ha precisato la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la regione Liguria, nel testo del parere 17.06.2015 n. 54 con cui, in risposta ad alcuni quesiti formulati dal comune di Santa Margherita Ligure, ha precisato l'esclusione dalle riduzioni imposte dal legislatore con il citato dl n. 78, delle spese per la creazione e l'ottimizzazione del sito web istituzionale di un'amministrazione locale.
Come ha correttamente precisato il collegio della magistratura contabile ligure, emerge chiaramente dal dettato normativo imposto dal dlgs 14.03.2013, n. 33 (cui sono tenuti anche gli enti locali), l'obbligo di dotarsi della più ampia opera di pubblicazione nei propri siti istituzionali con riferimento a vari aspetti della propria organizzazione e dell'attività svolta.
Tra i tanti impegni, vi sono quelli informativi che riguardano gli atti di carattere normativo e amministrativo generale, i provvedimenti amministrativi adottati, l'anagrafe e i curricula degli organi di indirizzo politico, di amministrazione e gestione, nonché l'articolazione degli uffici, le competenze e le risorse a disposizione di ciascun ufficio e, in particolare, i servizi erogati al cittadino.
Pertanto, appare palese che sia la creazione sia il mantenimento di un sito internet istituzionale costituiscano adempimenti richiesti obbligatoriamente dalla legge e, pertanto, la Corte ha ritenuto che le spese per l'aggiornamento e lo sviluppo del sito non siano sottoposte alla limitazione prevista dall'art. 6, comma 8, del dl n. 78/2010, in quanto riferibili a una forma di pubblicità obbligatoria.
Conclusione che può valere anche per gli oneri sostenuti per assicurare un assetto informativo utile ad accrescere la conoscenza da parte della collettività dei servizi pubblici come, per esempio, la creazione di indirizzi di posta elettronica istituzionali o l'informazione relativa alla presenza dell'amministrazione comunale sui social network, ma sempre che ciò avvenga «con modalità e scopi meramente informativi e in funzione di una più efficace ed efficiente erogazione dei servizi stessi».
Infine, la Corte risolvendo un altro quesito posto, ha specificato che le spese relative genericamente all'organizzazione di manifestazioni di tipo culturale o con fini di promozione turistica, sono da considerare riconducibili alle nozioni di «convegni» o di «relazioni pubbliche» e, come tali, rientranti nel vincolo di spesa imposto dal dl n. 78 (articolo ItaliaOggi del 14.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’applicazione dei comuni canoni ermeneutici sanciti nell’art. 12 delle preleggi impone all’interprete di privilegiare, tra le possibili interpretazioni, quella più conforme alla lettera della norma (la quale, come già detto, esclude espressamente dall’incentivo in argomento “le attività manutentive”).
Peraltro, depone in tal senso anche la ratio legis che chiaramente traspare dalla richiamata novella, dovendosi ritenere che il legislatore, nel ridisegnare presupposti e limiti al riconoscimento dell’incentivo de quo, abbia tenuto ben presente l’orientamento, consolidatosi in seno alla giurisprudenza contabile come diritto vivente, favorevole all’estensione del beneficio in parola alle (sole) attività di manutenzione straordinaria.
Né, d’altra parte, appare convincente la sopra richiamata tesi che ricorre alla disciplina delle spese di investimento per trarne elementi utili a fondare una diversa conclusione. Invero, l’attrazione delle opere di manutenzione straordinaria nell’alveo delle spese di investimento, operata dalla legge 350 del 2003, obbedisce ad una ratio di tutela del patrimonio immobiliare degli enti pubblici al fine di evitare che gli enti dilapidino il proprio patrimonio per fronteggiare impellenti esigenze di cassa.
La normativa che disciplina l’incentivo di progettazione tende, invece, a valorizzare al massimo le competenze e professionalità tecniche possedute dal personale dipendente degli enti pubblici e ad evitare nel contempo di ricorrere, per l’attività di progettazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche, a professionalità esterne con conseguente aggravio di costi.

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1) nessun incentivo di progettazione può essere corrisposto per l’attività di manutenzione ordinaria svolta dall’Ente;

2) per le attività di progettazione interna –concernenti opere di manutenzione straordinaria di opere pubbliche, compiute a seguito di una gara, con esclusione pertanto dei lavori eseguiti in economia– poste in essere in data antecedente al 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del D.L. 90/2014) e per le quali non è stato liquidato alcun incentivo, l’Ente dovrà attenersi ai criteri stabiliti dal regolamento adottato ai sensi dell’art. 93 del D.Lgs. 163/2006, in conformità ai principi stabiliti dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 24.03.2015 n. 11.

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Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di Foligno, dopo aver richiamato la disposizione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. 163/2006, sottopone all’attenzione della Sezione alcune problematiche applicative della normativa anzidetta, con particolare riferimento all'esclusione delle attività manutentive dal fondo per la progettazione e innovazione.
A tale riguardo, viene riferito un contrasto interpretativo insorto tra alcune Sezioni di controllo della Corte dei conti, ed in particolare tra la Sezione regionale delle Marche, che con il parere 17.12.2014 n. 141 ha ritenuto che le manutenzioni straordinarie sarebbero riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche al compimento delle quali la norma subordina l'erogazione dell'incentivo, e la Sezione di controllo della Toscana, che con parere 12.11.2014 n. 237 si è espressa nel senso che la novella di cui al D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla L. 11.08.2014, n. 114, preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità dell'incentivo all'intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione.
Tanto premesso, vengono proposti alla Sezione i seguenti quesiti:
1) La inclusione od esclusione delle attività di manutenzione straordinaria fra quelle "manutentive" escluse dall'incentivazione del fondo ai sensi del comma 7-ter dell'art. 93;
2) Nel secondo caso, la sussistenza di possibili criteri univoci per identificare le attività escluse;
3) Il comportamento da adottare in merito alla liquidazione o meno delle incentivazioni per favorì consistenti in attività manutentive, previste ed impegnate prima della conversione dei D.L. 90/2014, a seconda che si tratti di attività di manutenzione ordinaria o straordinaria.
...
Con il primo quesito il Comune di Foligno chiede di conoscere se l’attività di manutenzione straordinaria rientri o meno fra quelle "manutentive" escluse dall'incentivazione del fondo ai sensi del comma 7-ter dell'art. 93 del citato D.Lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
La questione interpretativa sottesa al predetto quesito è stata più volte oggetto di esame da parte della giurisprudenza di questa Corte nell’esercizio della funzione consultiva, che ha enucleato nel tempo le condizioni necessarie per rendere applicabile l’incentivo di progettazione anche agli interventi di manutenzione. Ciò sul presupposto della portata eccezionale della normativa istitutiva dell’incentivo stesso, pertanto insuscettibile di applicazione analogica, essendosi consolidato l’orientamento secondo cui il beneficio in parola costituisce una fattispecie derogatoria del principio di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione.
Le numerose pronunce intervenute in argomento (ex multis: Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72, parere 28.05.2014 n. 188,
parere 01.10.2014 n. 246 e parere 13.11.2014 n. 300; Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24, parere 24.10.2014 n. 60, parere 16.12.2014 n. 73 e parere 22.12.2014 n. 75; Sez. controllo Piemonte, parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana, parere 13.11.2012 n. 293, parere 19.03.2013 n. 15 e parere 12.11.2014 n. 237; Sez. controllo Puglia, parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114; Sez. controllo Marche, parere 17.12.2014 n. 141) hanno enucleato alcuni principi largamente condivisi:
a) la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori e non si estende agli appalti di servizi manutentivi;
b) in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva);
c) vanno esclusi dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (come in caso di lavori di manutenzione eseguiti in economia).

In base ad altro diffuso orientamento, formatosi anch’esso prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 90 del 24.06.2014 e della legge di conversione n. 114 dell’11.08.2014, è ammessa l’erogabilità dell’incentivo nei casi di manutenzione straordinaria, mentre per i casi di manutenzione ordinaria tale possibilità o viene esclusa a priori (cfr. Sez. controllo Toscana, parere 19.03.2013 n. 15; Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24) oppure, laddove viene ritenuta astrattamente possibile, essa presenta margini di applicazione molto limitati riconoscendosi all’ente un’area di valutazione discrezionale nell’individuare la soglia minima di complessità tecnica e progettuale che ne giustifichi la corresponsione (v. Sez. controllo Puglia, parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114).
La sostenibilità di siffatto orientamento deve ora essere sottoposto a verifica alla luce dell’entrata in vigore del citato D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla Legge 11.08.2014, n. 114, che ha comunque mantenuto ferma la possibilità di attribuire, nell’ambito di un apposito “fondo per la progettazione e l’innovazione”, un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica.
L’art. 13-bis, introdotto dalla legge di conversione, nell’abrogare il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, ha inserito, nel corpo dell’art. 93 del citato d.lgs. n. 163/2006, quattro i commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies.
Il comma 7-ter, che qui maggiormente interessa, così recita: “L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”.
Diverse Sezioni regionali di controllo, valorizzando il tenore letterale della norma (la quale, come si evince dalla formulazione della norma, espressamente prevede che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”) hanno espressamente escluso la riconoscibilità, per il futuro, dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (ex multis, Sezione Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300; Sez. Toscana, parere 12.11.2014 n. 237; Sez. Emilia-Romagna, parere 19.09.2014 n. 183; Sez. Liguria, parere 24.10.2014 n. 60).
A conclusione opposta è, invece, pervenuta altra Sezione regionale (Sez. Marche, parere 17.12.2014 n. 141), secondo cui non sussistono motivi per discostarsi dall’orientamento interpretativo formatosi sulla precedente formulazione dell’art. 92 del codice dei contratti pubblici, orientamento che aveva escluso dalle attività remunerabili con l’incentivo in questione gli interventi di manutenzione ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni straordinarie (cfr. Sezione controllo Toscana parere 19.03.2013 n. 15), riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche al compimento delle quali la norma subordina l’erogazione dell’incentivo.
A tale conclusione detta Sezione è pervenuta ritenendo che “la modifica al testo dell’art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi relativi agli interventi di manutenzione straordinaria”, precisando ulteriormente che “premesso che nel sistema delineato dall’art. 92 cit. l’erogazione dell’incentivo è collegato alla realizzazione di un’opera pubblica, si evidenzia che l’art. 3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 equipara espressamente gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli come spese d’investimento per le quali, peraltro, è consentito il ricorso all’indebitamento”.
Detta ultima posizione non può essere condivisa.
Ritiene il Collegio che
l’applicazione dei comuni canoni ermeneutici sanciti nell’art. 12 delle preleggi impone all’interprete di privilegiare, tra le possibili interpretazioni, quella più conforme alla lettera della norma (la quale, come già detto, esclude espressamente dall’incentivo in argomento “le attività manutentive”).
Peraltro, depone in tal senso anche la ratio legis che chiaramente traspare dalla richiamata novella, dovendosi ritenere che il legislatore, nel ridisegnare presupposti e limiti al riconoscimento dell’incentivo de quo, abbia tenuto ben presente l’orientamento, consolidatosi in seno alla giurisprudenza contabile come diritto vivente, favorevole all’estensione del beneficio in parola alle (sole) attività di manutenzione straordinaria.
Né, d’altra parte, appare convincente la sopra richiamata tesi che ricorre alla disciplina delle spese di investimento per trarne elementi utili a fondare una diversa conclusione. Invero, l’attrazione delle opere di manutenzione straordinaria nell’alveo delle spese di investimento, operata dalla legge 350 del 2003, obbedisce ad una ratio di tutela del patrimonio immobiliare degli enti pubblici al fine di evitare che gli enti dilapidino il proprio patrimonio per fronteggiare impellenti esigenze di cassa.
La normativa che disciplina l’incentivo di progettazione tende, invece, a valorizzare al massimo le competenze e professionalità tecniche possedute dal personale dipendente degli enti pubblici e ad evitare nel contempo di ricorrere, per l’attività di progettazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche, a professionalità esterne con conseguente aggravio di costi.

II
Con il terzo quesito si chiede l’avviso di questa Sezione sul comportamento da adottare in merito alla liquidazione o meno delle incentivazioni per favorì consistenti in attività manutentive, previste ed impegnate prima della conversione dei D.L. 90/2014, a seconda che si tratti di attività di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Il quesito pone una questione di diritto intertemporale in merito al diritto alla liquidazione dell’incentivo di progettazione per attività svolte dal personale interno prima della riforma attuata con il D.L. 90/2014 e relativa legge di conversione n. 114/2014, entrata in vigore il 19.08.2014.
Sulla questione si è già affermato l’orientamento secondo cui la richiamata novella non costituisce interpretazione autentica e non si applica retroattivamente. E’ apparso evidente, infatti, che le nuove regole trovano applicazione per i lavori e le opere avviate a partire dal 19.08.2014, mentre sono stati sollevati dubbi in ordine agli incentivi riferiti a lavori e opere portate a compimento prima di tale data, ma che l'amministrazione non ha ancora provveduto a liquidare.
Di recente è intervenuta la Sezione delle Autonomie, chiamata a risolvere la questione di massima, sollevata dalla Sezione di controllo per la Liguria con la deliberazione 22.12.2014 n. 75, concernente la possibilità o meno per l’ente locale di applicare l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014, data di entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014.
La predetta questione di massima è stata originata da un contrasto interpretativo insorto tra alcune Sezioni regionali di controllo sulla corretta applicazione della nuova normativa sull’incentivo in esame.
La Sezione remittente, analogamente alla Sezione Emilia Romagna (v.
parere 19.09.2014 n. 183), richiamando e condividendo le conclusioni cui è pervenuta la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle Autonomie (che qui si intendono richiamate) ha ritenuto che “l’obbligo di non superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, di cui al terzultimo capoverso del comma 7-ter dell’articolo 93, sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014. Di converso, sulle liquidazioni, e conseguenti pagamenti, effettuati dopo il 19.08.2014, ma riferiti ad attività portate a compimento dai dipendenti prima di tale data, vale, secondo tale Sezione, il principio della non retroattività della legge, con l’ulteriore precisazione secondo cui “il diritto all’incentivo costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav. sent. n. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso” (deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG citata)”.
Una diversa interpretazione, sostiene detta Sezione, farebbe dipendere dal mero momento materiale del pagamento (e/o da quello prodromico della liquidazione) l’applicazione del nuovo tetto complessivo annuo previsto dalla legge per i c.d. “incentivi alla progettazione”.
La Sezione di controllo per la Lombardia, pronunciandosi su identica questione (posta dal Presidente della provincia di Mantova), con il
parere 13.11.2014 n. 300 ha invece stabilito che il computo del limite del 50 per cento vada applicato anche alle attività svolte in precedenza, ma non ancora liquidate, dovendosi avere riguardo al momento della corresponsione dell’incentivo, sostenendo al riguardo che “la norma effettua un chiaro riferimento al momento della corresponsione e non condiziona la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinare (per relationem rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare massimo. L’ente, rimanendo per il resto libero nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con riferimento al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione”.
Posizione particolare ha assunto sulla questione la Sezione di controllo per la Basilicata (v. parere 12.02.2015 n. 3), secondo la quale
la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia non sarebbe da ricercarsi né nel momento in cui l’attività incentivata viene compiuta e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata, bensì nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento.
La Sezione delle Autonomie ha ritenuto che
la questione di diritto intertemporale, posta dalla Sezione Liguria, possa essere risolta (così come gli altri quesiti formulati dal Comune di Genova in merito alla disciplina della fase di passaggio fra il vecchio ed il nuovo sistema di riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione), “facendo ricorso al principio di irretroattività della norma, da cui discende, alla luce della giurisprudenza costituzionale, la considerazione che la disposizione retroattiva, specie quando determini effetti pregiudizievoli rispetto ai diritti soggettivi “perfetti” che trovino la loro base in rapporti di durata di natura contrattuale convenzionale -pubbliche o private che siano le parti contraenti– deve, comunque, essere assistita da una causa normativa adeguata, intendendosi per tale una funzione della norma che renda accettabilmente penalizzata la posizione del titolare del diritto compromesso, attraverso contropartite intrinseche allo stesso disegno normativo e che valgano a bilanciare le posizioni delle parti (Corte Cost. sentenza n. 92/2013)”.
In tal modo, vengono sostanzialmente confermati i principi interpretativi affermati dalla stessa Sezione delle autonomie nella richiamata deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG. Viene, infatti, precisato che “
nonostante le modifiche introdotte dal legislatore in merito alla costituzione del fondo per la progettazione ed ai criteri per la sua ripartizione, non appare, in concreto, mutata, la natura del diritto al beneficio e la corrispondenza sinallagmatica fra incentivo ed attività compensate, derivante dal riconoscimento, sancito anche dalla Suprema Corte (cfr. Cassaz. Sez. Lav. n. 13384 del 19.07.2004) della qualifica di vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, che inerisce al rapporto di lavoro, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere”.
Aggiunge, inoltre, la Sezione delle Autonomie, nella citata deliberazione 24.03.2015 n. 11, che “
Il riferimento, contenuto nella disposizione in esame (art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, n.d.r.), al momento della corresponsione (gli incentivi complessivamente corrisposti), che privilegia l’aspetto prettamente contabile, potrebbe comportare, di fatto, il rischio di disparità di trattamento”, precisando ancora che “La soluzione che fa leva esclusivamente sul momento della liquidazione risulta, peraltro, legata a tempistiche che esulano, del tutto, dalla disponibilità del beneficiario e che, specificatamente, attengono alla fase della gestione di cassa. Fase che, alla luce delle regole di contabilità ma, soprattutto, dell’esigenza di salvaguardia degli equilibri di bilancio, dovrà essere stata, presumibilmente, preceduta da una previsione autorizzatoria e da un impegno regolarmente assunto dall’ente per vincolare la spesa alla soddisfazione della corrispondente obbligazione”.
A coronamento delle suesposte considerazioni, la Sezione delle Autonomie ha enunciato il seguente principio di diritto, al quale sono tenuti a conformarsi tutte le Sezioni regionali di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012: “
l’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90”.
Il Collegio non ha motivo di discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuta la Sezione delle Autonomie con la richiamata deliberazione 24.03.2015 n. 11.
Pertanto, alla stregua del sopra riportato principio di diritto,
la Sezione afferma che:
1) nessun incentivo di progettazione potrà essere corrisposto per l’attività di manutenzione ordinaria svolta dall’Ente;
2) per le attività di progettazione interna –concernenti opere di manutenzione straordinaria di opere pubbliche, compiute a seguito di una gara, con esclusione pertanto dei lavori eseguiti in economia– poste in essere in data antecedente al 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del D.L. 90/2014) e per le quali non è stato liquidato alcun incentivo, l’Ente dovrà attenersi ai criteri stabiliti dal regolamento adottato ai sensi dell’art. 93 del D.Lgs. 163/2006, in conformità ai principi stabiliti dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 24.03.2015 n. 11 (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 14.05.2015 n. 71).

APPALTI: Debiti fuori bilancio Serve la copertura. Non sono riconosciuti con il piano di riequilibrio.
I debiti fuori bilancio non sono riconosciuti con il piano di riequilibrio finanziario.

Questo è il principio affermato dalla sezione di controllo della Corte dei Conti per la Regione siciliana che, con il parere 13.05.2015 n. 177, ha esaustivamente chiarito la rilevanza del piano di riequilibrio finanziario pluriennale ex art. 243-bis del Tuel in merito alla ricognizione dei debiti fuori bilancio anche in considerazione delle linee guida dettate dalla deliberazione 16/Sezaut/2012/Inpr.
Come richiamato dalla deliberazione, l'approvazione o la rimodulazione del piano di riequilibrio al consiglio comunale non equivale al riconoscimento ex art. 194 del Tuel con il quale l'approvazione consiliare autorizza il pagamento dei debiti fuori bilancio, ancorché contenuti nel piano stesso. Ove occorra, è lo stesso comma 7 dell'art. 243 del Tuel che distingue chiaramente tra la ricognizione dei debiti, contenuta nel piano di riequilibrio, e l'effettivo riconoscimento al quale se ne dà rinvio anche temporale. La ricognizione non comporta di per sé la copertura della spesa connessa al debito fuori bilancio.
Per quanto riguarda la necessità di tale copertura, il Collegio deliberante ha condiviso le argomentazioni del parere 23.05.2013 n. 213 della sezione regionale di controllo per la Campania, che ha affermato che: «In base a quanto esposto non è possibile aderire all'interpretazione proposta dall'ente ammettendo un riconoscimento solo formale del debito da parte del consiglio con rinvio del pagamento dello stesso a successiva approvazione del bilancio e ciò al solo fine di impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria e ulteriori spese legali.
È indubbio che la delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio deve necessariamente provvedere a indicare i mezzi finanziari destinati alla loro copertura, completandosi in questo modo il procedimento che ha per fine quello di far rientrare nella corretta gestione di bilancio quelle spese che ne erano del tutto fuori. Tra l'altro è consentito farvi fronte con ogni mezzo finanziario a disposizione dell'ente, secondo quanto espressamente indicato dall'art. 193, comma 3, del Tuel
».
Si rammenta che «la mancata adozione, da parte dell'ente, dei provvedimenti di riequilibrio previsti dal presente articolo è equiparata a ogni effetto alla mancata approvazione del bilancio di previsione. Da quanto esposto consegue che il riconoscimento di un debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva necessita di regolare copertura finanziaria negli stanziamenti di bilancio, presupposto ineliminabile dell'attivazione del procedimento di spesa nel sistema di bilancio».
Pertanto, conclude il collegio deliberante, in assenza di riconoscimento ai sensi del Tuel, non si è autorizzati al pagamento dei debiti fuori bilancio solo perché l'ente ha approvato il piano di riequilibrio finanziario (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015).

APPALTIIn materia di debiti fuori bilancio:
1) non è corretto sotto il profilo contabile il pagamento del debito nascente da sentenza esecutiva prima del suo riconoscimento come debito fuori bilancio da parte del Consiglio Comunale;
2)
 in assenza di deliberazione di riconoscimento ex art. 194 TUEL, gli uffici non sono autorizzati al pagamento dei debiti fuori bilancio sol perché l'ente ha approvato e rimodulato il piano di riequilibrio finanziario nell'anno 2014;
3) durante l'esercizio provvisorio di un ente, che ha dichiarato e approvato di ricorrere allo strumento del Piano di riequilibrio pluriennale finanziario, non si possono riconoscere debiti fuori bilancio.

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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Modica, premesso che l’ente ha deliberato il ricorso al piano di riequilibrio (tuttora all’esame della Commissione ministeriale), chiede:
1)- se sia corretto sotto il profilo contabile il pagamento del debito nascente da sentenza divenuta esecutiva prima che il Consiglio comunale ne deliberi il riconoscimento come debito fuori bilancio;
2)- se gli uffici possano ritenersi autorizzati al pagamento dei debiti fuori bilancio, visto che l'ente ha approvato e rimodulato il piano di riequilibrio finanziario nell'anno 2014; ciò, infatti, presuppone che il consiglio comunale abbia avuto conoscenza dei debiti fuori bilancio;
3)- se si possano riconoscere debiti fuori bilancio durante l'esercizio provvisorio da parte di un ente che ha deliberato di ricorrere allo strumento del Piano di riequilibrio pluriennale finanziario, considerando che comunque il Consiglio comunale, adottando lo schema del piano, ha già avuto contezza della situazione debitoria dell'ente.
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1)- Con il primo quesito viene chiesto se sia corretto sotto il profilo contabile il pagamento del debito nascente da sentenza esecutiva prima che il Consiglio comunale ne deliberi il riconoscimento come debito fuori bilancio.
In via preliminare, il Collegio osserva che i debiti fuori bilancio costituiscono posizioni debitorie maturate al di fuori del sistema del bilancio, poiché si riferiscono ad uscite per le quali manca un’originaria previsione di spesa ovvero a spese effettuate in violazione delle procedure stabilite dalle norme di contabilità.
La corretta programmazione e gestione finanziaria dell’Ente locale, per contro, impone che tutte le spese siano anticipatamente previste nel documento di bilancio approvato dal Consiglio comunale e che le decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle norme giuscontabili che ne disciplinano la procedura (artt. 151 e 191 TUEL).
Tutto ciò costituisce la diretta conseguenza della funzione autorizzatoria a cui assolve il bilancio di previsione degli Enti Locali che possono effettuare le sole spese autorizzate dal Consiglio comunale che, attraverso l’approvazione del bilancio annuale e pluriennale, esercita le sue prerogative di organo di indirizzo dell’attività politico-amministrativa dell’Ente. Per effetto della deliberazione consiliare il debito fuori bilancio viene ricondotto all’interno del sistema del bilancio dell’Ente e, conseguentemente, si rende possibile provvedere al relativo pagamento.
L’art. 194 del TUEL contiene l’elencazione delle fattispecie debitorie che possono essere riconosciute. Ai sensi della citata disposizione sono riconoscibili i debiti relativi a: sentenze esecutive (lettera a); copertura di disavanzi di consorzi, aziende speciali ed istituzioni (lettera b); ricapitalizzazione di società di capitali (lettera c); procedure espropriative o di occupazione di urgenza per opere di pubblica utilità (lettera d); acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi dei primi tre commi dell’art. 191 del TUEL, nei limiti dell’utilità e dell’arricchimento dell’Ente (lettera e).
La giurisprudenza della Corte dei conti ha già messo in risalto la sostanziale diversità tra la fattispecie concernente le sentenze esecutive e le altre ipotesi previste dall’art. 194 TUEL (SSRR n. 12/2007/QM).
Infatti,
mentre nel caso di sentenza di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di discrezionalità per valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale che, ad esempio, riguardo alla lett. e), concerne l’accertamento dell’utilità e dell’arricchimento derivanti dalla fornitura effettuata in violazione delle procedure di spesa.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le “sentenze esecutive”, tuttavia, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 194 TUEL ai sensi del quale il “riconoscimento” del debito avviene, prima del pagamento, con atto del Consiglio comunale. Bisogna infatti constatare che in tutte le ipotesi previste dall’art. 194 TUEL la delibera del Consiglio serve per riportare all’interno del sistema del bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato al di fuori delle normali procedure di programmazione e di gestione delle spese.
E’ vero che il mancato tempestivo pagamento espone l’ente locale al rischio di azioni esecutive; nondimeno, i 120 giorni di tempo dalla notifica del titolo esecutivo previsti dall’art. 14, del Decreto Legge 31.12.1996, n. 669 (convertito in legge 28.02.1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23.12.2000, n. 288) -ai fini dell’avvio di procedure esecutive nei confronti della P.A.- costituiscono un periodo sufficientemente ampio per provvedere agli adempimenti di cui all’art. 194 TUEL.
La competenza esclusiva del Consiglio comunale nel riconoscimento del debito fuori bilancio è stata ribadita dalla deliberazione di questa Sezione n. 55/2014/PAR, ove si è chiarito che: “
Superando il precedente orientamento (Sezioni Riunite per la Regione siciliana in sede consultiva, delibera n. 2/2005), la più recente giurisprudenza (da ultimo, cfr. delibera n. 21/2013/VSGF, n. 74/2013/PRSP, n. 270/2011/GEST) formatasi in materia ha posto particolare attenzione sull’imprescindibile attività valutativa da parte dell’organo consiliare, ascrivibile alla funzione di indirizzo e controllo politico amministrativo, che non ammette alcuna possibilità di interposizione, sia pur in via d’urgenza, da parte di altri organi. Nel quadro appena delineato, i responsabili dei servizi hanno l’obbligo di effettuare periodiche ricognizioni (art. 193 del TUEL) ai fini di un controllo concomitante e costante della situazione gestionale, teso alla tempestiva segnalazione delle passività all’organo consiliare”.
Nello stesso senso la Sezione si è espressa con deliberazione n. 80/2015/PAR, ove si è sostenuto che: “
Il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo consiliare risulta dunque necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno di esso (pr. cont. 2.101). Anche in questi casi, infatti, l’avvio del procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano logico, una positiva valutazione dell’Organo consiliare sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
Le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale o provinciale non sono infatti circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria, atti che, come noto, transitano necessariamente anch’essi attraverso l’atto programmatorio generale e di natura autorizzatoria, che è appunto il bilancio di previsione.
Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa, l’attività gestionale, affidata dalla legge ai dirigenti, rappresenta espressione di un momento necessariamente successivo e, quindi, inevitabilmente conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è intestata la responsabilità politica dell’azione amministrativa.
La fase gestionale, di natura prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque validamente allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti sovvertita la fondamentale distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività gestionale.

L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant’altro non elimina perciò la necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105; Sezione controllo per la Basilicata, delibera n. 6/2007/PAR)
”.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che, allo stato, non sussistano motivi per discostarsi dall’orientamento maggioritario sopra illustrato, che viene integralmente condiviso.
Di conseguenza, al primo quesito può rispondersi nel senso che
non è corretto sotto il profilo contabile il pagamento del debito nascente da sentenza esecutiva prima del suo riconoscimento come debito fuori bilancio da parte del Consiglio Comunale.
2)- Con il secondo quesito viene chiesto se gli uffici comunali possano ritenersi autorizzati al pagamento dei debiti fuori bilancio, poiché l'ente ha approvato e rimodulato il piano di riequilibrio finanziario nell'anno 2014; quest’ultima circostanza, infatti, presuppone che il consiglio comunale abbia avuto comunque conoscenza dei debiti fuori bilancio.
La giurisprudenza non si è ancora espressa in merito alla specifica questione, anche se è palese il nesso tra debiti fuori bilancio e piani di riequilibrio, come emerge da alcune considerazioni presenti nella deliberazione 114/2014/PAR della Sezione regionale di controllo per la Basilicata: “La delibera di riconoscimento del debito costituisce il presupposto giuridico per l’individuazione delle misure volte alla sua copertura finanziaria, e ciò in conformità alle misure individuate dal combinato disposto degli artt. 193 e 194 Tuel. La copertura finanziaria di tale tipologia di debiti è, infatti, funzionale a salvaguardare ovvero a ripristinare gli equilibri di bilancio incisi dall’emersione di tali posizioni debitorie (cfr. art. 193 Tuel, comma 2).
Qualora tali strumenti non fossero sufficienti allo scopo, l’Ente corre il rischio di versare, di fatto, in uno stato di dissesto ai sensi dell’art. 244 Tuel.
Al fine di ovviare a tale situazione, l'Ente può ricorrere, sussistendone i relativi presupposti, alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall'art. 243-bis del Tuel. Ai sensi del comma 7 di tale articolato normativo “(..) per il finanziamento dei debiti fuori bilancio l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata massima pari agli anni del piano di riequilibrio, compreso quello in corso, convenuto con i creditori”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 43 del Dl 133/2014, convertito nella legge 164/2014 «Gli enti locali che hanno deliberato il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, ai sensi dell'articolo 243-bis del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono prevedere, tra le misure di cui alla lettera c) del comma 6 del medesimo articolo 243-bis necessarie per il ripiano del disavanzo di amministrazione accertato e per il finanziamento dei debiti fuori bilancio, l'utilizzo delle risorse agli stessi enti attribuibili a valere sul "Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali” di cui all'articolo 243-ter del decreto legislativo n. 267 del 2000».
Sul punto si è peraltro di recente espressa la Sezione Autonomie di questa Corte, nell’ambito dell’audizione sul “DDL- Disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche. A.C 2162” del 21.03.2014, confermando che “La chiara individuazione e la conseguente correzione dei fattori di squilibrio strutturale, da un lato, e l’alleggerimento delle gestioni dal peso dei debiti fuori bilancio, dall’altro, possono contribuire, attraverso il piano di rientro decennale, ad un effettivo risanamento dei bilanci”.
A tale scopo, però, è necessario che l’Ente effettui in via preliminare una “(…) ricognizione di tutti i debiti fuori bilancio riconoscibili ai sensi dell'articolo 194” (cfr. comma 7, art. 243-bis Tuel), e ciò al fine di consentire l’emersione della complessiva situazione debitoria dell’Ente, funzionale all’adozione di un piano di risanamento del bilancio dell’Ente, effettivo ed efficace. In caso contrario, oltre a violare lo specifico disposto di cui all’art. 243-bis Tuel, si altererebbe l’attendibilità complessiva del piano, con tutte le conseguenze a questo connesse anche in termini di sussistenza dei presupposti per la sua approvazione da parte degli organi competenti
”.
In merito alla tematica in esame, va sottolineato che l’art. 243-bis TUEL attribuisce notevole rilievo proprio alla ricognizione dei debiti fuori bilancio, su cui peraltro la Sezione delle Autonomie si è soffermata nelle Linee guida contenute nella deliberazione 16/SEZAUT/2012/INPR.
Nello schema allegato, in particolare, sono indicate alcune valutazioni necessarie che la Corte deve compiere relativamente ai debiti fuori bilancio nel piano di riequilibrio: “9.4 Verificare se l’Ente abbia acquisito, da tutti i responsabili dei servizi, ciascuno per le spese di sua competenza, un’attestazione sull’esistenza o meno di debiti fuori bilancio non riconosciuti, per i quali devono essere ancora assunti provvedimenti di riconoscimento sussistendone i presupposti di legge.
9.4.a Laddove venga attestata l’esistenza di debiti fuori bilancio non riconosciuti è necessario che l’Ente indichi: motivazioni per le quali il debito è sorto, con la specificazione del capitolo di spesa di competenza al quale si riferisce; l’utilità e l’arricchimento per l’Ente; se sono stati individuati i mezzi di finanziamento precisando quali; la sussistenza di tutti i requisiti per il riconoscimento ai sensi di legge.
9.5 Verificare se nel corso di eventuali verifiche a campione, fino alla data della delibera per l’accesso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, sia stata riscontrata la presenza di spese che, pur avendo la natura di debiti fuori bilancio, sono state imputate agli stanziamenti correnti senza aver operato il riconoscimento, da parte del Consiglio, previsto dall’art. 194 del TUEL.
9.6 Passività potenziali - Indicare se siano state identificate e valutate eventuali sopravvenienze o insussistenze passive probabili, specificandone la natura, l’entità e la provenienza
”.
Ciò premesso, occorre osservare che la deliberazione del piano di riequilibrio non equivale al riconoscimento dei debiti fuori bilancio ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 194 TUEL; a tal proposito, va rimarcato che il comma 7 dell’art. 243-bis TUEL distingue chiaramente tra la ricognizione dei debiti, contenuta nel piano di riequilibrio, e l’effettivo riconoscimento ai sensi dell’art. 194 TUEL; il citato comma 7 dell’art. 243-bis TUEL, infatti, prevede che: “Ai fini della predisposizione del piano, l'ente è tenuto ad effettuare una ricognizione di tutti i debiti fuori bilancio riconoscibili ai sensi dell'articolo 194. Per il finanziamento dei debiti fuori bilancio l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata massima pari agli anni del piano di riequilibrio, compreso quello in corso, convenuto con i creditori”.
La formulazione letterale implica che la ricognizione, per quanto indispensabile ai fini del piano di riequilibrio, non equivale alla deliberazione ex art. 194 TUEL, tant’è che il testo normativo si riferisce a “debiti riconoscibili”, lasciando intendere che il riconoscimento è atto successivo alla ricognizione. Se il legislatore avesse inteso equiparare ricognizione ex art. 243-bis TUEL e riconoscimento ex art. 194 TUEL, la disposizione avrebbe avuto un tenore letterale diverso.
Va poi aggiunto che la ricognizione non comporta di per sé la copertura finanziaria della spesa connessa al debito fuori bilancio da riconoscere ex art. 194 TUEL. Per quanto riguarda la necessità di tale copertura, si condividono le argomentazioni della deliberazione n. 213/2013/PAR della Sezione regionale di controllo per la Campania, che ha affermato che: “In base a quanto esposto non è possibile aderire all’interpretazione proposta dall’ente interpellante ammettendo un riconoscimento solo “formale” del debito da parte del Consiglio comunale con rinvio del pagamento dello stesso a successiva approvazione del bilancio e ciò al solo fine di impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria e ulteriori spese legali. In base a quanto esposto è indubbio, in quanto connaturata alla sua funzione, che la delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio deve necessariamente provvedere ad indicare i mezzi finanziari destinati alla loro copertura, completandosi in questo modo il procedimento che ha per fine quello di far rientrare nella corretta gestione di bilancio quelle spese che ne erano del tutto fuori.
Tra l’altro è consentito farvi fronte con ogni mezzo finanziario a disposizione dell'ente, secondo quanto espressamente indicato dall’art. 193, comma 3, del Tuel, richiamato dall’art. 194 citato: ... Si rammenta altresì che “la mancata adozione, da parte dell'ente, dei provvedimenti di riequilibrio previsti dal presente articolo è equiparata ad ogni effetto alla mancata approvazione del bilancio di previsione di cui all'articolo 141, con applicazione della procedura prevista dal comma 2 del medesimo articolo ad eccezione delle entrate provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle aventi specifica destinazione per legge, nonché con i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili”.
Da quanto esposto consegue che il riconoscimento di un debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva necessita di regolare copertura finanziaria negli stanziamenti di bilancio, presupposto ineliminabile dell’attivazione del procedimento di spesa nel sistema di bilancio (cfr. Principio contabile n. 2 per gli enti locali- Gestione nel sistema del bilancio, n. 65-73)
”.
Sulla stessa linea si pone pure la deliberazione n. 78/2014/PAR di questa Sezione: “La deliberazione consiliare non ha solo la funzione di riconoscere la legittimità di un’obbligazione e, nei casi di cui alla lett. e) dell’art. 194 del TUEL, di valutare l’utilità e l’arricchimento dell’ente, ma anche una funzione giuscontabilistica e una garantista; la prima consiste nella salvaguardia degli equilibri di bilancio e si esplica attraverso il reperimento delle risorse necessarie a finanziare il debito, la seconda si sostanzia nell’individuazione del responsabile… La deliberazione consiliare, proprio perché finalizzata a preservare l’equilibrio economico–finanziario dell’ente, deve individuare una “regolare copertura finanziaria negli stanziamenti di bilancio, presupposto ineliminabile dell’attivazione del procedimento di spesa nel sistema”.
Da quanto sopra illustrato si evince che la deliberazione ex art. 194 TUEL deve avere specifici contenuti, che non possono rinvenirsi nella ricognizione effettuata con il piano di riequilibrio.
In definitiva, il tenore letterale dell’art. 243-bis, comma 7, TUEL e la ratio sopra esposta della deliberazione ex art. 194 TUEL inducono ad esprimersi in maniera negativa rispetto all’opzione interpretativa prospettata dal Comune.
Al secondo quesito può quindi rispondersi nel senso che,
in assenza di deliberazione di riconoscimento ex art. 194 TUEL, gli uffici non sono autorizzati al pagamento dei debiti fuori bilancio sol perché l'ente ha approvato e rimodulato il piano di riequilibrio finanziario nell'anno 2014.
3)- Con il terzo quesito viene chiesto se si possano riconoscere debiti fuori bilancio durante l'esercizio provvisorio da parte di un ente che ha dichiarato e approvato di ricorrere allo strumento del Piano di riequilibrio pluriennale finanziario.
La domanda viene formulata sul presupposto che il Consiglio comunale, approvando lo schema del piano, in cui i due pilastri sono il ripianamento di disavanzo e il pagamento debiti fuori bilancio, avrebbe già avuto contezza della situazione debitoria dell'ente.
Per quanto attiene alla disciplina dell’esercizio provvisorio nell’anno 2015, la Sezione si è già espressa con la deliberazione 167/2015/PAR, ove si è rilevato che l’art. 163 del TUEL, concernente l’esercizio provvisorio, è stato novellato dall’art. 74, comma 1, n. 12), del D.Lgs. 23.06.2011, n. 118 , aggiunto –a sua volta- dall’art. 1, comma 1, lett. aa), D.Lgs. 10.08.2014, n. 126 , entrato in vigore il 12.09.2014.
L’art. 74 sopra citato è inserito nel titolo IV “Adeguamento delle disposizioni riguardanti la finanza regionale e locale” del d.lgs. n. 118 del 2011. Tale dato sulla collocazione della disposizione è rilevante alla luce dell’art. 80, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 118 del 2011, che prevede che: “1. Le disposizioni del Titolo I, III, IV e V si applicano, ove non diversamente previsto nel presente decreto, a decorrere dall'esercizio finanziario 2015, con la predisposizione dei bilanci relativi all'esercizio 2015 e successivi, e le disposizioni del Titolo II si applicano a decorrere dall'anno successivo a quello di entrata in vigore del presente decreto legislativo”.
Ciò premesso, si evidenzia che l’art. 74 del d.lgs. n. 118 del 2011, essendo collocato nel titolo IV del d.lgs. n. 118 del 2011, si applica a partire dall’esercizio 2015 con la predisposizione dei bilanci per tale anno.
Pertanto, l’esercizio provvisorio del 2015, in quanto precede il bilancio del 2015, resta soggetto alla previgente disciplina dell’art. 163 del TUEL (cioè a quella antecedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 126 del 2014). Non vi sono poi indici testuali nel medesimo decreto, che portino a una soluzione interpretativa diversa; e infatti, trattandosi di deroga, sarebbe necessaria una disposizione espressa, che, per il profilo analizzato, riguarda solo gli enti sperimentatori.
In breve, durante l’esercizio provvisorio dell’anno 2015 non va applicata la nuova disciplina sostanziale dell’art. 163 TUEL, come modificato dall’art. 74, comma 1, n. 12), del D.Lgs. 23.06.2011, n. 118, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. aa), del D.Lgs. 10.08.2014, n. 126. Tutto ciò implica che esulano dal presente parere le questioni derivanti dall’interpretazione della nuova formulazione dell’art. 163 TUEL e dei principi contabili contenuti nel d.lgs. n. 118 del 2011.
Ciò premesso, in relazione ai rapporti tra l’art. 163 TUEL, che deve quindi applicarsi nel testo previgente, e l’art. 194 TUEL, concernente i debiti fuori bilancio, la Sezione si è pronunciata in senso contrario al riconoscimento dei debiti durante l’esercizio provvisorio. Con la deliberazione n. 78/2014/PAR, infatti, è stato rilevato che: “Non è possibile procedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio, per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la delibera di riconoscimento può essere adottata solo in occasione di precise scansioni temporali, in particolare in sede di approvazione del bilancio di previsione, ovvero in occasione della delibera di salvaguardia degli equilibri di bilancio ex art. 193, comma 2, del TUEL, ferma restando la possibilità di disporre a livello regolamentare che si possa provvedere in ogni fase dell'esercizio, secondo il dettato del comma 1° dell’art. 194 del TUEL. Si tratta, non a caso, dei momenti in cui gli equilibri di bilancio vengono valutati in maniera approfondita e complessiva. In quest’ottica, ipotizzare che si possa provvedere proprio durante la “vacanza” del bilancio, costituirebbe un’inammissibile aporia logica.
In secondo luogo, il principio di tipicità e tassatività delle spese consentite nel corso dell’esercizio provvisorio esclude che si possa procedere all’adempimento di obbligazioni che non rientrano nei casi contemplati e, ancor più, di quelli di carattere eccezionale come i debiti fuori bilancio; a fortiori, non è ammissibile che si possano prendere in considerazione spese di ammontare superiore ai dodicesimi a disposizione, calcolati sullo stanziamento dell’ultimo bilancio approvato
”.
Si può anche rammentare la deliberazione n. 55/2014/PAR di questa Sezione: “Condivisibili, a riguardo, appaiono le conclusioni ermeneutiche cui approda la Sezione regionale di controllo per la Campania (cfr. parere 23.05.2013 n. 213), circa l’impossibilità, durante il periodo di esercizio provvisorio, di provvedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio per via dell’eccezionalità della fattispecie di cui all’art. 194 del Tuel rispetto alle ipotesi previste dall’art. 163, comma 3, del Tuel, ma soprattutto per la mancanza del bilancio d’esercizio, cui ricondurre le passività emerse. L’esigenza di urgente ripristino degli equilibri di bilancio -recentemente assurti a rango costituzionale– impone la necessità di abbreviare al massimo, nella fattispecie, la durata dell’esercizio provvisorio, che di per sé costituisce una fase eccezionale e transitoria (cfr., sul punto, Sezione delle Autonomie, delibera n. 23/SEZAUT/2013/INPR).
Giova ricordare, peraltro, che l’art. 191, comma 5, del Tuel introduce forti limitazioni per gli enti locali che presentino, nell’ultimo rendiconto deliberato, disavanzo di amministrazione o che indichino debiti fuori bilancio per i quali non sono stati validamente adottati i provvedimenti di cui all’art. 193 del Tuel, vietando agli stessi di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge, salve le spese da sostenere a fronte di impegni già assunti in esercizi precedenti
”.
In sintesi, tenuto conto della risposta già fornita al quesito n. 2, va ribadito che la ricognizione dei debiti fuori bilancio presente nel piano di riequilibrio non equivale al riconoscimento ex art. 194 TUEL, che, quindi, resta soggetto alla disciplina desumibile dalle norme citate (artt. 163 e 194 TUEL) come interpretate dalla richiamata giurisprudenza, che –con orientamento unanime- ha comunque escluso il riconoscimento dei debiti fuori bilancio durante l’esercizio provvisorio.
Inoltre, le motivazioni di natura sistematica poste a fondamento dell’orientamento qui condiviso tanto più devono sostenersi per gli enti che si avvalgono del piano di riequilibrio, poiché quest’ultimo è sottoposto a una rigorosa scansione temporale e procedurale.
Al terzo quesito può quindi rispondersi nel senso che
durante l'esercizio provvisorio di un ente, che ha dichiarato e approvato di ricorrere allo strumento del Piano di riequilibrio pluriennale finanziario, non si possono riconoscere debiti fuori bilancio (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 13.05.2015 n. 177).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’art. 13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, nel confermare la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata applicativa della disciplina precedente.
Si registra in particolare, per quanto di specifico interesse ai fini del presente parere, l’esclusione del personale con qualifica dirigenziale dal novero dei potenziali beneficiari degli incentivi che rimangono ad appannaggio dei dipendenti privi di tale qualifica che svolgano la funzione di responsabile del procedimento o siano direttamente incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché dei loro collaboratori.
Non è ammessa la remunerazione per attività manutentive e sono soppressi gli incentivi per gli atti di pianificazione.
Risultano inoltre ridotte le risorse dirette a remunerare le attività svolte, posto che la somma non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara da far confluire nel fondo per l’incentivazione è ripartita tra i dipendenti non più per l’intero, ma nella misura dell’80 per cento, con il rimanente 20 per cento destinato all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione.
La riforma prevede infine che gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.
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In mancanza di un’espressa disposizione transitoria, la questione non può che essere risolta in via interpretativa.
Questa Sezione ritiene di dover ribadire, al riguardo, l’orientamento già espresso in materia
secondo il quale il diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate senza che possa essere modificato da disposizioni di legge successive che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità.
Ne viene pertanto che i compensi erogati dopo l’entrata in vigore della riforma, ma concernenti attività realizzate in precedenza, rimangono assoggettati alla previgente disciplina normativa.
Si ritiene, in accordo con l’indirizzo espresso dalla Corte di Cassazione (Cass., Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004), che il diritto all’incentivo costituisca “un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso”.
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive che non hanno alcuna efficacia retroattiva.

Si precisa inoltre che “
ai fini della nascita del diritto quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta”.
La Sezione delle Autonomie, nella deliberazione citata, conclude stabilendo che
la stazione appaltante, per i compensi da pagare dalla data di entrata in vigore della riforma, per la parte residua dello stanziamento utilizzabile (ossia quello al netto delle somme pagate per le attività compiute prima di tale data) dovrà rimodulare la somma da ripartire e la conseguente misura del beneficio, secondo le nuove disposizioni.
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La natura retributiva del diritto all’incentivo in parola, che matura con il compimento dell’attività richiesta senza poter subire modifiche in conseguenza di leggi sopravvenute prive di efficacia retroattiva, porta a ritenere che le attività compiute prima dell’entrata in vigore della riforma possano essere remunerate con gli incentivi fissati secondo le modalità e i criteri definiti nell’ambito del previgente quadro normativo anche se la liquidazione avvenga in data successiva.
Si deve tuttavia precisare che il riconoscimento del diritto e quindi l’effettiva erogazione dei compensi rimangono subordinati, come riconosciuto dallo stesso comune richiedente, all’avvio della gara pubblica, quantunque successivo alla data di entrata in vigore della riforma.
Si richiama sul punto l’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza contabile secondo il quale
l’ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (e non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori) esclude la previsione e l’erogazione del compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito.
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Quesito lettera A, punto 1.
L’attività relativa a lavori di manutenzione svolta prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
Si deve ritenere che l’incentivo in parola spetti anche per i lavori di manutenzione a condizione che le relative attività siano state realizzate prima dell’entrata in vigore della riforma che ne ha espressamente escluso la remunerazione e sempre che si tratti di attività che abbiano richiesto la progettazione di un’opera e non la mera manutenzione della stessa.
Come più volte affermato nei pareri resi in materia dalle Sezioni regionali di controllo di questa Corte “
l’incentivo alla progettazione non può essere riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria un’attività progettuale”.
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Quesito lettera A, punto 2.
L’attività svolta dal personale dirigente prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
Si deve ritenere che l’incentivo spetti anche al personale con qualifica dirigenziale per le attività realizzate prima che la riforma li escludesse dal novero dei beneficiari, ripristinando nei confronti degli stessi il principio dell’onnicomprensività della retribuzione.
Si condividono sul punto le conclusioni cui è pervenuta la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna ove si afferma che “
fino all’entrata in vigore della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al principio dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi per la progettazione”.
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Quesito lettera A, punto 3.
Quando devono ritenersi compiute le diverse attività relative al processo di progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori pubblici tenuto conto del fatto che alcune potrebbero avere avuto un'elaborazione anteriormente al 19/08/2014 ma confluire in un atto approvato successivamente a tale data?
I soggetti incaricati della redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi positivamente i successivi controlli che ne attestino la regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che, rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa del dipendente, potranno pertanto intervenire anche successivamente alla data di entrata in vigore della riforma.
Si richiama al riguardo il
parere 16.01.2014 n. 8 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte ove si afferma che “la circostanza che l’Amministrazione non proceda nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme di legge vigenti, non fa venir meno la diretta corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati. L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente condizionata quantomeno all’approvazione da parte dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere necessariamente finanziato”.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa, maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo l’entrata in vigore della riforma.

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Quesito lettera A, punto 4.
Nell'ambito delle attività dei "collaboratori" possono essere previste tutte le attività di supporto ai compiti delle figure professionali tecniche espressamente previste dal decreto legislativo 163/2006 e dal Regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n. 207/2010?
I destinatari dei predetti incentivi possano essere solo i dipendenti che, in ragione della specifica professionalità, siano stati chiamati a svolgere determinate attività altrimenti non rientranti nei doveri d’ufficio.
Questi sono espressamente indicati dalla legge, oltre che nelle figure del responsabile del procedimento, e degli incaricati del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo anche nei loro collaboratori.
La finalità della normativa in discorso, illustrata nei termini di cui sopra, impone che i “collaboratori” siano individuati, in primo luogo, tra i dipendenti del ruolo tecnico che abbiano attivamente ed effettivamente partecipato alla redazione dei vari elaborati (progetti e relative varianti, piano di sicurezza, certificato di collaudo o di regolare esecuzione, etc.) o al compimento delle altre attività (direzione dei lavori) con specifiche prestazioni di natura materiale o intellettuale non riconducibili agli ordinari compiti d’ufficio.
Si ritiene peraltro che dal novero dei collaboratori destinatari dell’incentivo non possa escludersi a priori il personale amministrativo.

Appare evidente sotto questo profilo che le attività incentivabili, soprattutto con riferimento ai compiti del R.U.P., non si esauriscano in interventi di tipo tecnico, ma richiedano anche adempimenti di carattere amministrativo-contabile da assegnare al personale appartenente ai relativi profili in quanto in possesso delle necessarie competenze professionali.
Si ritiene opportuno in ogni caso che l’amministrazione individui in sede regolamentare le singole figure professionali dei collaboratori, avendo cura di limitare la previsione ai soggetti, anche appartenenti al ruolo amministrativo, la cui prestazione sia strettamente collegata all’attività di progettazione, coordinamento della sicurezza, direzione lavori e collaudo, con l’esclusione del personale che svolge ordinarie funzioni tecniche e amministrative anche se appartenente al medesimo ufficio.
Si ricorda inoltre che l’art. 92, comma 7-ter, del codice dei contratti richiede espressamente che l’erogazione dell’incentivo debba essere corrisposta previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
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Quesito lettera B.
Ove l’attività di pianificazione sia stata svolta dal personale (compreso il personale dirigente) prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014? Tale attività deve ritenersi compiuta con l’approvazione dell’atto di pianificazione?
I soggetti incaricati dell’attività di pianificazione, anche appartenenti ai ruoli della dirigenza, maturano il diritto all’incentivo a condizione che l’atto di pianificazione sia stato redatto prima dell’entrata in vigore della riforma anche se destinato ad essere liquidato successivamente a tale data.
La liquidazione non diversamente che per altre attività incentivanti deve ritenersi subordinata all’approvazione che ne attesti la regolarità e consenta l’avvio della gara.
Si richiede in ogni caso che l’attività di pianificazione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza contabile maturato in vigenza della precedente normativa sia strettamente connessa con la realizzazione di un’opera pubblica.
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Quesito lettera C.
Con riguardo all’erogazione delle incentivazioni relative alle attività previste nei punti precedenti si chiede come deve essere interpretata la disposizione che prevede di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo? Tale limite è applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori ed opere avviati dopo il 19/08/2014 oppure è applicabile a tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19/08/2014 data anche se riferiti a lavori ed opere portati a compimento prima di tale data? Ai fini della predetta normativa cosa si intende per trattamento economico complessivo?
Per la determinazione dell’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, l’ente devea fare riferimento al limite inderogabile fissato dalla norma con riguardo al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione anche rispetto ad attività compiute precedentemente all’entrata in vigore della riforma.
Si è rilevato al riguardo che la disposizione di legge richiamata effettua un chiaro riferimento al momento della corresponsione e che non condiziona la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne (per relationem rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare massimo.
Si ribadisce, in coerenza con l’orientamento espresso con la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, che
nonostante le modifiche introdotte dal legislatore in merito alla costituzione del fondo per la progettazione ed ai criteri per la sua ripartizione, non appare, in concreto, mutata, la natura del diritto al beneficio e la corrispondenza sinallagmatica fra incentivo ed attività compensate, derivante dal riconoscimento, sancito anche dalla Suprema Corte (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 13384 del 19.07.2004) della qualifica di vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, che inerisce al rapporto di lavoro, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere.
Il riferimento, contenuto nella disposizione in esame, al momento della corresponsione (gli incentivi complessivamente corrisposti), che privilegia l’aspetto prettamente contabile, potrebbe comportare, di fatto, il rischio di disparità di trattamento. La soluzione che fa leva esclusivamente sul momento della liquidazione risulta, peraltro, legata a tempistiche che esulano, del tutto, dalla disponibilità del beneficiario e che, specificatamente, attengono alla fase della gestione di cassa. Fase che, alla luce delle regole di contabilità ma, soprattutto, dell’esigenza di salvaguardia degli equilibri di bilancio, dovrà essere stata, presumibilmente, preceduta da una previsione autorizzatoria e da un impegno regolarmente assunto dall’ente per vincolare la spesa alla soddisfazione della corrispondente obbligazione.
La scrivente Sezione regionale di controllo per la Lombardia, preso atto della pronuncia della Sezione delle Autonomie, si conforma al principio di diritto ivi formulato nella soluzione del quesito per cui “
l’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90”.
Si ritiene infine che la nozione di “trattamento economico complessivo annuo lordo” debba corrispondere a quella già indicata dalla previgente normativa quale limite agli incentivi riconoscibili al singolo dipendente.
Non vi è infatti motivo di credere che la riforma, con il ridurre il predetto limite del 50 per cento, abbia voluto modificare gli istituti retributivi riconducibili al trattamento economico complessivo che, come precisato più volte dalla giurisprudenza contabile, deve ritenersi comprensivo del trattamento fondamentale (stipendio tabellare, tredicesima, indennità integrativa speciale ove prevista, retribuzione individuale di anzianità, ove spettante, indennità di comparto) e del trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile.

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Con la nota sopra citata il Sindaco del comune di Milano formula una serie di quesiti riguardanti la nuova disciplina dei "fondi per la progettazione e l'innovazione" prevista dall’art. 13-bis della legge 11.08.2014, n. 114 di conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90.
Si premette al riguardo che l’art. 13 del decreto legge sopra citato ha abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la previgente disciplina relativa agli incentivi spettanti ai dipendenti degli enti locali per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato, di contro, una nuova disciplina in materia, confluita nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
Tale disciplina affida ai regolamenti delle amministrazioni aggiudicatrici il recepimento dei criteri e delle modalità di attribuzione degli incentivi definiti in sede di contrattazione decentrata, nel rispetto dei limiti previsti dalla medesima legge che potranno essere corrisposti esclusivamente ai dipendenti cui sono conferiti incarichi tecnici o di supporto nell'ambito delle sole procedure di progettazione, aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica.
Descritta nei termini sopra riferiti l’evoluzione normativa in materia, si evidenzia che il procedimento di progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori pubblici possa investire un lungo arco di tempo e che pertanto si possa verificare la circostanza che talune attività siano state realizzate prima della riforma (19/08/2014) e non siano state ancora liquidate e che altre attività relative alla medesima opera/lavoro siano realizzate successivamente all'entrata in vigore della legge.
Si richiama sul punto il
parere 19.09.2014 n. 183 della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, che, intervenendo sulla disciplina di riforma, ha affermato che la stessa non è "applicabile retroattivamente, non essendo norma d’interpretazione autentica".
Si sostiene pertanto che mentre è stato chiarito che le nuove regole trovano applicazione per tutti i lavori e le opere avviate a partire dal 19.08.2014, sussistono dubbi interpretativi in ordine alla disciplina da applicare agli incentivi riferiti a lavori e opere o ad atti di pianificazione portati a compimento prima di tale data e che l'Amministrazione non ha ancora provveduto a liquidare.
Sussistono inoltre dubbi applicativi per quanto attiene il capoverso della norma che recita: “gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo”.
Ciò premesso e considerato si formulano i quesiti di seguito riportati.
A.
Con riguardo all’attività di progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori pubblici, sempre che sia avviata la gara ad evidenza pubblica per l'affidamento dei lavori e che si sia pertanto costituito il fondo per l'erogazione dell'incentivo, anche se l'avvio della gara sia avvenuto successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 114/2014 (19.08.2014):
1. L’attività relativa a lavori di manutenzione svolta prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
2. L’attività svolta dal personale dirigente prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
3. Quando devono ritenersi compiute le diverse attività relative al processo di progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori pubblici tenuto conto del fatto che alcune potrebbero avere avuto un'elaborazione anteriormente al 19/08/2014 ma confluire in un atto approvato successivamente a tale data, in particolare:
   a) l’attività di progettazione può ritenersi compiuta al momento dell’approvazione del progetto?
   b) l’attività di coordinatore della sicurezza in fase di progettazione può ritenersi compiuta al momento dell'approvazione del progetto di cui è parte essenziale ed integrante il piano di Sicurezza e di coordinamento?
   c) le attività dell'Ufficio di direzione dei lavori, poiché si realizzano in prestazioni di durata possono considerarsi per frazioni temporali di attività da calcolarsi in base al numero dei giorni di attività svolte prima o dopo l'entrata in vigore della riforma (19/08/2014)?
   d) le attività coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, poiché si realizzano in prestazioni di durata possono considerarsi per frazioni temporali di attività da calcolarsi in base al numero dei giorni di attività svolte prima o dopo l'entrata in vigore della riforma (19/08/2014)?
   e) le attività coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, poiché si realizzano in prestazioni di durata possono considerarsi per frazioni temporali di attività da calcolarsi in base al numero dei giorni di attività svolte prima o dopo l'entrata in vigore della riforma (19/08/2014)?
   f) l’attività di collaudo può ritenersi compiuta al momento dell'approvazione del certificato di collaudo?
g) per le opere di particolare complessità, le attività di cui alle lettere c) d) c) f) possono ritenersi compiute in corso d'opera al momento dei singoli stati di avanzamento dei lavori
?
4. L’art. 93, comma 7-ter, stabilisce che il “…fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori”.
Nell'ambito delle attività dei "collaboratori" possono essere previste tutte le attività di supporto ai compiti delle figure professionali tecniche espressamente previste dal decreto legislativo 163/2006 e dal Regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n. 207/2010?
B.
Con riguardo alla pianificazione, sempre che essa risulti strettamente connessa con la realizzazione di un’opera pubblica:
1. Ove l’attività di pianificazione sia stata svolta dal personale (compreso il personale dirigente) prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
Tale attività deve ritenersi compiuta con l’approvazione dell’atto di pianificazione?
C.
Con riguardo all’erogazione delle incentivazioni relative alle attività previste nei punti precedenti si chiede:
- Come deve essere interpretata la disposizione che prevede di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo?
- Tale limite è applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori ed opere avviati dopo il 19/08/2014 oppure è applicabile a tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19/08/2014 anche se riferiti a lavori ed opere portati a compimento prima di tale data?
- Ai fini della predetta normativa cosa si intende per trattamento economico complessivo?
...
Le questioni sottese ai quesiti proposti richiedono chiarire, in primo luogo, l’ambito di applicazione temporale della nuova disciplina in materia di c.d. “compensi incentivanti”, introdotta dall’art. 13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114.
Come ricordato dal comune istante nella nota richiamata in premessa, l’art. 13 del decreto legge sopra citato ha abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la previgente disciplina relativa agli incentivi spettanti a dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato una nuova normativa in materia, confluita nell’art. 93, del codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata applicativa della disciplina precedente.
Si registra in particolare, per quanto di specifico interesse ai fini del presente parere, l’esclusione del personale con qualifica dirigenziale dal novero dei potenziali beneficiari degli incentivi che rimangono ad appannaggio dei dipendenti privi di tale qualifica che svolgano la funzione di responsabile del procedimento o siano direttamente incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché dei loro collaboratori.
Non è ammessa la remunerazione per attività manutentive e sono soppressi gli incentivi per gli atti di pianificazione.

Risultano inoltre ridotte le risorse dirette a remunerare le attività svolte, posto che la somma non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara da far confluire nel fondo per l’incentivazione è ripartita tra i dipendenti non più per l’intero, ma nella misura dell’80 per cento, con il rimanente 20 per cento destinato all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione.
La riforma prevede infine che gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.

Rilevata, nei termini sopra riferiti, la successione temporale delle leggi in materia, si tratta di stabilire quale sia la disciplina applicabile alle attività compiute, ma non ancora liquidate alla data di entrata in vigore della riforma.
In mancanza di un’espressa disposizione transitoria, la questione, da ritenersi preliminare rispetto all’esame degli specifici quesiti formulati dal comune, non può che essere risolta in via interpretativa.
Questa Sezione ritiene di dover ribadire, al riguardo, l’orientamento espresso in materia con il
parere 13.11.2014 n. 300 secondo il quale il diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate senza che possa essere modificato da disposizioni di legge successive che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità.
Ne viene pertanto che i compensi erogati dopo l’entrata in vigore della riforma, ma concernenti attività realizzate in precedenza, rimangono assoggettati alla previgente disciplina normativa.
Gli argomenti a supporto della predetta interpretazione, condivisa anche da altre Sezioni regionali di controllo di questa Corte (Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna:
parere 19.09.2014 n. 183; Sezione regionale di controllo per la Liguria: parere 16.12.2014 n. 73) sono ricavabili dalla deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle Autonomie riguardante una analoga questione derivante da una precedente riformulazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
Se ne richiamano di seguito i principali passi della motivazione.
Si ritiene, in accordo con l’indirizzo espresso dalla Corte di Cassazione (Cass., Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004), che
il diritto all’incentivo costituisca “un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso”.
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive che non hanno alcuna efficacia retroattiva.

Si precisa inoltre che “
ai fini della nascita del diritto quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta”.
La Sezione delle Autonomie, nella deliberazione citata, conclude stabilendo che
la stazione appaltante, per i compensi da pagare dalla data di entrata in vigore della riforma, per la parte residua dello stanziamento utilizzabile (ossia quello al netto delle somme pagate per le attività compiute prima di tale data) dovrà rimodulare la somma da ripartire e la conseguente misura del beneficio, secondo le nuove disposizioni.
Alla luce delle predette considerazioni possono trovare risposta i quesiti formulati dal comune.
La natura retributiva del diritto all’incentivo in parola, che matura con il compimento dell’attività richiesta senza poter subire modifiche in conseguenza di leggi sopravvenute prive di efficacia retroattiva, porta a ritenere che le attività compiute prima dell’entrata in vigore della riforma possano essere remunerate con gli incentivi fissati secondo le modalità e i criteri definiti nell’ambito del previgente quadro normativo anche se la liquidazione avvenga in data successiva.
Si deve tuttavia precisare che il riconoscimento del diritto e quindi l’effettiva erogazione dei compensi rimangono subordinati, come riconosciuto dallo stesso comune richiedente, all’avvio della gara pubblica, quantunque successivo alla data di entrata in vigore della riforma.
Si richiama sul punto l’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza contabile secondo il quale
l’ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (e non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori) esclude la previsione e l’erogazione del compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 15.10.2013 n. 442).
Dal quadro interpretativo sopra illustrato è quindi possibile ricavare la soluzione ai quesiti formulati alla lettera A ai punti 1 e 2 della richiesta di parere.
Quesito lettera A, punto 1.
L’attività relativa a lavori di manutenzione svolta prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
Si deve ritenere che l’incentivo in parola spetti anche per i lavori di manutenzione a condizione che le relative attività siano state realizzate prima dell’entrata in vigore della riforma che ne ha espressamente escluso la remunerazione e sempre che si tratti di attività che abbiano richiesto la progettazione di un’opera e non la mera manutenzione della stessa.
Come più volte affermato nei pareri resi in materia dalle Sezioni regionali di controllo di questa Corte “
l’incentivo alla progettazione non può essere riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria un’attività progettuale” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 246, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 15.10.2013 n. 442).
Quesito lettera A, punto 2.
L’attività svolta dal personale dirigente prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014?
Allo stesso modo
si deve ritenere che l’incentivo spetti anche al personale con qualifica dirigenziale per le attività realizzate prima che la riforma li escludesse dal novero dei beneficiari, ripristinando nei confronti degli stessi il principio dell’onnicomprensività della retribuzione.
Si condividono sul punto le conclusioni cui è pervenuta la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna nel parere reso con il
parere 19.09.2014 n. 183 ove si afferma che “fino all’entrata in vigore della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al principio dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi per la progettazione”.
Quesito lettera A, punto 3.
Quando devono ritenersi compiute le diverse attività relative al processo di progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori pubblici tenuto conto del fatto che alcune potrebbero avere avuto un'elaborazione anteriormente al 19/08/2014 ma confluire in un atto approvato successivamente a tale data?
Posto che il diritto all’incentivo, come sopra riferito, dipende dall’effettivo compimento delle attività richieste, si tratta di stabilire quando debbano considerarsi compiute, a tale effetto, attività avviate prima dell’entrata in vigore della riforma, ma inserite in una sequenza procedimentale destinata a concludersi dopo tale data.
Le attività incentivabili possono essere distinte, sotto questo profilo, a seconda che richiedano la redazione di specifici atti formali, sottoposti ai controlli di regolarità ed efficacia stabiliti dalla legge oppure prestazioni di durata da svolgersi per un determinato periodo di tempo senza comportare l’adozione di atti puntuali.
Si può affermare, sulla base dei principi sopra richiamati, che
i soggetti incaricati della redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi positivamente i successivi controlli che ne attestino la regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che, rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa del dipendente, potranno pertanto intervenire anche successivamente alla data di entrata in vigore della riforma.
Si richiama al riguardo il
parere 16.01.2014 n. 8 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte ove si afferma che “la circostanza che l’Amministrazione non proceda nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme di legge vigenti, non fa venir meno la diretta corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati. L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente condizionata quantomeno all’approvazione da parte dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere necessariamente finanziato”.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa, maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo l’entrata in vigore della riforma.
Si rimette in ogni caso al comune istante, sulla base delle indicazioni sopra fornite, la determinazione dell’incentivo spettante ai dipendenti incaricati delle specifiche attività descritte nella richiesta di parere (punto 3, lettere a.,b.,c,.d.,e.,f.) in ragione degli atti compiuti o delle prestazioni espletate precedentemente al 19.08.2014.
Quesito lettera A, punto 4.
Nell'ambito delle attività dei "collaboratori" possono essere previste tutte le attività di supporto ai compiti delle figure professionali tecniche espressamente previste dal decreto legislativo 163/2006 e dal Regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n. 207/2010?
Sulla questione relativa alla precisa individuazione dei collaboratori dei dipendenti incaricati delle attività incentivabili, la giurisprudenza contabile si è più volte pronunciata in vigore della precedente disciplina, pervenendo a conclusioni che possono essere mantenute anche nel quadro normativo successivo all’entrata in vigore della legge di riforma.
Con l’assegnazione di specifici incentivi a favore del personale dipendente impegnato in attività connesse alla realizzazione di opere e lavori pubblici la legge si propone di valorizzare le professionalità interne all’amministrazione, assicurando alla stessa un risparmio di spesa rispetto agli oneri da sostenere per l’affidamento di incarichi di identico contenuto a professionisti esterni.
Ne deriva che
i destinatari dei predetti incentivi possano essere solo i dipendenti che, in ragione della specifica professionalità, siano stati chiamati a svolgere determinate attività altrimenti non rientranti nei doveri d’ufficio.
Questi sono espressamente indicati dalla legge, oltre che nelle figure del responsabile del procedimento, e degli incaricati del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo anche nei loro collaboratori.
La finalità della normativa in discorso, illustrata nei termini di cui sopra, impone che i “collaboratori” siano individuati, in primo luogo, tra i dipendenti del ruolo tecnico che abbiano attivamente ed effettivamente partecipato alla redazione dei vari elaborati (progetti e relative varianti, piano di sicurezza, certificato di collaudo o di regolare esecuzione, etc.) o al compimento delle altre attività (direzione dei lavori) con specifiche prestazioni di natura materiale o intellettuale non riconducibili agli ordinari compiti d’ufficio.
Si ritiene peraltro che dal novero dei collaboratori destinatari dell’incentivo non possa escludersi a priori il personale amministrativo.

Appare evidente sotto questo profilo che le attività incentivabili, soprattutto con riferimento ai compiti del R.U.P., non si esauriscano in interventi di tipo tecnico, ma richiedano anche adempimenti di carattere amministrativo-contabile da assegnare al personale appartenente ai relativi profili in quanto in possesso delle necessarie competenze professionali.
Si ritiene opportuno in ogni caso che l’amministrazione individui in sede regolamentare le singole figure professionali dei collaboratori, avendo cura di limitare la previsione ai soggetti, anche appartenenti al ruolo amministrativo, la cui prestazione sia strettamente collegata all’attività di progettazione, coordinamento della sicurezza, direzione lavori e collaudo, con l’esclusione del personale che svolge ordinarie funzioni tecniche e amministrative anche se appartenente al medesimo ufficio.
Si ricorda inoltre che l’art. 92, comma 7-ter, del codice dei contratti richiede espressamente che l’erogazione dell’incentivo debba essere corrisposta previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
Quesito lettera B.
Ove l’attività di pianificazione sia stata svolta dal personale (compreso il personale dirigente) prima della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento e dal contratto vigente nel momento del compimento delle rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il 19/08/2014? Tale attività deve ritenersi compiuta con l’approvazione dell’atto di pianificazione?
Le medesime considerazioni svolte con riferimento ai quesiti formulati alla lettera A della richiesta di parere consentono di dare soluzione anche al quesito indicato alla successiva lettera B riguardante la pianificazione che la novella non annovera più tra le attività che danno diritto all’incentivo.
Si deve pertanto ritenere che
i soggetti incaricati dell’attività di pianificazione, anche appartenenti ai ruoli della dirigenza, maturino il diritto all’incentivo a condizione che l’atto di pianificazione sia stato redatto prima dell’entrata in vigore della riforma anche se destinato ad essere liquidato successivamente a tale data.
La liquidazione non diversamente che per altre attività incentivanti deve ritenersi subordinata all’approvazione che ne attesti la regolarità e consenta l’avvio della gara.
Si richiede in ogni caso che l’attività di pianificazione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza contabile maturato in vigenza della precedente normativa sia strettamente connessa con la realizzazione di un’opera pubblica (Corte dei conti, Sezione della Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Quesito lettera C.
Con riguardo all’erogazione delle incentivazioni relative alle attività previste nei punti precedenti si chiede come deve essere interpretata la disposizione che prevede di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo? Tale limite è applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori ed opere avviati dopo il 19/08/2014 oppure è applicabile a tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19/08/2014 data anche se riferiti a lavori ed opere portati a compimento prima di tale data? Ai fini della predetta normativa cosa si intende per trattamento economico complessivo?
A fronte del dato testuale dell’art. 92, comma 7-ter, del codice dei contratti pubblici, per cui “gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo”, questa Sezione, con il citato
parere 13.11.2014 n. 300, ha ritenuto che per la determinazione dell’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, l’ente debba fare riferimento al limite inderogabile fissato dalla norma con riguardo al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione anche rispetto ad attività compiute precedentemente all’entrata in vigore della riforma.
Si è rilevato al riguardo che la disposizione di legge richiamata effettua un chiaro riferimento al momento della corresponsione e che non condiziona la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne (per relationem rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare massimo.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria, chiamata a pronunciarsi sulla medesima questione, ha ravvisato un contrasto fra la soluzione sopra richiamata adottata da questa Sezione e quella proposta dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna che, con il
parere 19.09.2014 n. 183, ha ritenuto, sulla base del principio di irretroattività della legge, che l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti ad attività tecnico-professionali espletate da dipendenti dopo il 19.08.2014.
La stessa Sezione regionale di controllo per la Liguria, con la deliberazione 22.12.2014 n. 75, ravvisando la necessità di un indirizzo interpretativo univoco in materia, ha sottoposto al Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213,
Il Presidente della Corte dei conti, con l’ordinanza n. 7 del giorno 04.02.2015, ha deferito la questione alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge n. 174/2012.
La Sezione delle Autonomie, con la deliberazione 24.03.2015 n. 11, ha stabilito che la questione di diritto intertemporale oggetto contrasto interpretativo possa essere risolta, alla stessa stregua di altri quesiti affrontati dalle Sezioni regionali, facendo ugualmente ricorso al principio di irretroattività della legge nei termini sanciti dalla giurisprudenza costituzionale.
Si ribadisce, in coerenza con l’orientamento espresso con la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, che
nonostante le modifiche introdotte dal legislatore in merito alla costituzione del fondo per la progettazione ed ai criteri per la sua ripartizione, non appare, in concreto, mutata, la natura del diritto al beneficio e la corrispondenza sinallagmatica fra incentivo ed attività compensate, derivante dal riconoscimento, sancito anche dalla Suprema Corte (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 13384 del 19.07.2004) della qualifica di vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, che inerisce al rapporto di lavoro, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere.
Il riferimento, contenuto nella disposizione in esame, al momento della corresponsione (gli incentivi complessivamente corrisposti), che privilegia l’aspetto prettamente contabile, potrebbe comportare, di fatto, il rischio di disparità di trattamento. La soluzione che fa leva esclusivamente sul momento della liquidazione risulta, peraltro, legata a tempistiche che esulano, del tutto, dalla disponibilità del beneficiario e che, specificatamente, attengono alla fase della gestione di cassa. Fase che, alla luce delle regole di contabilità ma, soprattutto, dell’esigenza di salvaguardia degli equilibri di bilancio, dovrà essere stata, presumibilmente, preceduta da una previsione autorizzatoria e da un impegno regolarmente assunto dall’ente per vincolare la spesa alla soddisfazione della corrispondente obbligazione.
Ad ulteriore sostegno della predetta interpretazione la Sezione della Autonomie ritiene difficilmente ipotizzabile -alla luce del fatto che le disposizioni contenute nell’art. 13-bis del decreto legge n. 90/2014 rappresentano sostanzialmente un corpo normativo unitario e sono accomunate da un’unica ratio ispiratrice- una soluzione interpretativa, che non sia univoca e non faccia riferimento all’intero impianto normativo novellato.
La scrivente Sezione regionale di controllo per la Lombardia, preso atto della pronuncia della Sezione delle Autonomie, si conforma al principio di diritto ivi formulato nella soluzione del quesito per cui “
l’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90”.
Si ritiene infine che la nozione di “trattamento economico complessivo annuo lordo” debba corrispondere a quella già indicata dalla previgente normativa quale limite agli incentivi riconoscibili al singolo dipendente.
Non vi è infatti motivo di credere che la riforma, con il ridurre il predetto limite del 50 per cento, abbia voluto modificare gli istituti retributivi riconducibili al trattamento economico complessivo che, come precisato più volte dalla giurisprudenza contabile, deve ritenersi comprensivo del trattamento fondamentale (stipendio tabellare, tredicesima, indennità integrativa speciale ove prevista, retribuzione individuale di anzianità, ove spettante, indennità di comparto) e del trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 28.05.2014 n. 114) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.05.2015 n. 191).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il consigliere non gestisce. Vietato assumere atti a rilevanza esterna. Il sindaco può delegare funzioni, ma senza travalicare i poteri della giunta.
Il sindaco può conferire ai consiglieri di maggioranza incarichi concernenti competenze tipicamente assessorili, o ciò determinerebbe un'impropria commistione tra funzioni di governo e funzioni di controllo politico nonché un aumento surrettizio del numero complessivo degli assessori rispetto a quello massimo previsto per legge?

Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre, tuttavia, considerare che, quale criterio generale, il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Poiché il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo. Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla legge.
Peraltro il Consiglio di Stato, con parere 26.11.2012 n. 4992, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava «una situazione, perlomeno potenziale, di conflitto di interesse» (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum del Consiglio.
Qual è la data entro la quale deve essere tenuta la seduta di seconda convocazione del consiglio comunale? Qual è il quorum necessario per la validità della seduta in seconda convocazione?

Nella fattispecie in esame il regolamento sul funzionamento dell'ente prevede che la seduta di seconda convocazione deve seguire, in giorno diverso, la seduta di prima convocazione andata deserta; inoltre stabilisce che il sindaco, in conformità a quanto disposto dall'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è tenuto a riunire il consiglio in un termine non superiore a 20 giorni, quando lo richieda almeno un quinto dei consiglieri in carica.
Il sindaco, non rinvenendo in alcuna norma regolamentare un vincolo temporale in ordine alle sedute di seconda convocazione, ha ritenuto non sussistente l'obbligo di convocare nuovamente l'assemblea entro i termini previsti dal regolamento, nel caso in cui la seduta consiliare, convocata una prima volta entro 20 giorni dalla richiesta formulata da un quinto dei consiglieri, sia andata deserta per mancanza del quorum strutturale.
In merito si ritiene che, attesa la formulazione letterale del citato art. 39, comma 2, nell'arco temporale di 20 giorni, decorrenti dalla presentazione della richiesta, debbano svolgersi tanto la convocazione che la materiale seduta consiliare finalizzata alla discussione degli argomenti proposti dal quinto dei consiglieri.
In ordine all'individuazione del quorum necessario per la validità della seduta in seconda convocazione, poiché nel caso di specie il regolamento richiede la presenza di almeno un terzo dei consiglieri, escluso il sindaco, deve operarsi l'arrotondamento aritmetico. Pertanto, qualora la cifra decimale sia pari o inferiore a 5 si procede con l'arrotondamento per difetto; se la stessa è superiore a 5 si procede con l'arrotondamento per eccesso (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso a prova di privacy. La p.a. può escludere dati personali dei singoli. Necessario un collegamento tra gli atti richiesti e l'attività consiliare.
È legittimo porre limitazioni in merito al rilascio in copia cartacea di documenti per i quali il regolamento comunale, in base al quale i consiglieri possono prendere visione della posta in entrata e uscita che transita nel protocollo dell'ente, pone restrizioni in quanto riservati o soggetti a privacy e, pertanto, ritenuti «ipersensibili» e non strettamente connessi all'espletamento del mandato amministrativo?

Il diritto di accesso e il diritto di informazione dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina specifica nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, il quale riconosce il «diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato».
La materia è soggetta a normazione statutaria e regolamentare da parte dell'ente, nel quadro dei principi della citata norma di legge dalla quale si evince il riconoscimento, in capo al consigliere comunale, di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10, Tuel) che, più in generale, nei confronti della p.a. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (cfr. commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, pareri del 23.06.2011 e del 07.07.2011).
Per quanto concerne il rilascio periodico del riepilogo del protocollo generale dell'ente, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita, la giurisprudenza, con orientamento costante, ha ritenuto non conforme a legge il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del sindaco. In particolare, il Tar Sardegna ha affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sempre il medesimo Tar, con sentenza n. 1363, del 28.05.2010, ha specificato che «il registro di protocollo generale del comune è pienamente riconducibile alle categorie di documenti suscettibili di accesso, in quanto idoneo a fornire notizie e informazioni utili all'espletamento del mandato dei consiglieri comunali. Sotto il profilo organizzativo l'accesso al protocollo comunale deve essere effettuato in modo da non creare intralcio all'attività degli uffici». Anche il Tar Lombardia (Milano) con sentenza n. 2363 del 23/09/2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune.
Tuttavia, in ordine alla fattispecie concernente la richiesta di atti relativi al registro di minori in affido, lo stesso Tribunale amministrativo della Lombardia, con la medesima sentenza n. 2363/2014 ha specificato che «i limiti interni all'esercizio dell'accesso consiliare possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste di documentazione inutile all'espletamento del mandato, ovvero assolutamente generiche, e, per altro verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da non aggravare eccessivamente la corretta funzionalità degli uffici».
Il Tar, pertanto, rilevando che il consigliere richiedente aveva ribadito l'indispensabilità delle informazioni cui aveva richiesto accesso senza tuttavia allegare specificamente il motivo per cui ciascuna di esse risultasse indispensabile, ai fini dell'espletamento del proprio mandato (essendo tale l'interesse), ha ritenuto che «l'attività che il ricorrente intende effettuare una volta presa conoscenza delle informazioni per come indicata in ricorso, non ha necessità di avere contezza dei dati personali dei singoli soggetti (né minori, né genitori, né operatori), che quindi non risultano utili, ai sensi del citato art. 43 del Tuel
».
Fermo restando, dunque che «deve sussistere un collegamento tra gli atti richiesti e l'attività consiliare, così da consentire al consigliere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, la p.a. può escludere i dati personali di dettaglio relativi ai singoli la cui conoscenza sia ininfluente ai fini precostituiti dal richiedente» (articolo ItaliaOggi del 10.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI FORNITURE: Fornitura energia elettrica impianti comunali.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate categorie merceologiche, tra cui l'energia elettrica. In particolare, in alternativa all'obbligo di approvvigionamento mediante le Convenzioni Consip o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip, il ricorso al libero mercato postula il necessario esperimento di procedure ad evidenza pubblica, nonché la stipula di contratti che prevedano corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle convenzioni o accordi quadro messi a disposizione da Consip Spa.
In caso di ricorso al libero mercato, la necessità di assicurare il servizio di fornitura di energia elettrica senza soluzione di continuità tra la scadenza del contratto in essere e la stipula del nuovo accordo può essere soddisfatta attraverso un acquisto in economia, ai sensi dell'art. 125, comma 10, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006 (per importi inferiori a 40.000, mediante affidamento diretto ai sensi del comma 11, ultimo periodo, del medesimo art. 125).
Nell'ipotesi in cui la procedura ad evidenza pubblica non andasse a buon fine, l'Ente rientrerebbe nel cosiddetto regime di salvaguardia, applicato ai clienti finali di energia elettrica senza fornitore di energia elettrica o che non abbiano scelto il proprio fornitore nel libero mercato dell'energia (art. 1, comma 4, D.L. n. 73/2007).

Il Comune riferisce di avere aderito alla Convenzione Consip 2014 per la fornitura di energia elettrica agli impianti comunali, e di avere in corso con la società aggiudicataria un rapporto contrattuale in scadenza a luglio 2015.
Posto che non risulta possibile per il Comune aderire alla convenzione Consip 2015, atteso che la società affidataria di questa convenzione ha rifiutato la richiesta, sulla base del fatto che la media del quantitativo necessitato di energia elettrica risulta inferiore alla soglia minima ordinabile secondo le previsioni della convenzione stessa, l'Ente chiede se sia consentito proseguire il rapporto contrattuale con l'attuale fornitore di energia elettrica fino alla fine del 2015, stante la disponibilità dal medesimo manifestata.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012
[1], stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate categorie merceologiche, quali l'energia elettrica (per quanto qui di interesse), il gas, i carburanti, i combustibili per riscaldamento e telefonia.
Il comma 7 richiamato prevede che la fornitura dei predetti beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale caso, i contratti devono essere sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali che prevedano condizioni economiche di maggior favore.
L'art. 1, comma 8, D.L. n. 95/2012, stabilisce che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa i contratti stipulati in violazione di quanto previsto dal comma 7.
Il tenore letterale dell'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, pertanto, individua sostanzialmente tre modalità di approvvigionamento, da parte delle pp.aa., delle categorie merceologiche ivi previste (tra cui l'energia elettrica): 1) adesione alle Convenzioni o agli accordi quadro messi a disposizione da Consip s.p.a. e dalle centrali di committenza regionali di riferimento; 2) esperimento da parte dell'amministrazione di 'autonome procedure nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti sopra indicati'; 3) in alternativa, le pp.aa. possono rivolgersi ad altre centrali di committenza oppure possono svolgere autonome procedure di evidenza pubblica, purché, in tali casi, i corrispettivi ottenuti siano inferiori a quelli indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali di committenza regionali e sia prevista nello schema contrattuale la clausola risolutiva in caso di sopravvenute condizioni più vantaggiose da parte di Consip e delle centrali di committenza regionali.
Nel caso in esame, l'Ente ha stipulato nel 2014 un contratto per la fornitura di energia elettrica con una società aggiudicataria Consip, ora in scadenza, e si trova nella situazione di non poter nell'anno 2015 utilizzare una convenzione Consip, in quanto la società convenzionata ha comunicato che i quantitativi di energia richiesta sono sotto soglia minima.
Avuto riguardo al quadro normativo sopra delineato in tema di procedure di approvvigionamento di energia elettrica, l'Ente dovrà utilizzare a tal fine gli strumenti alternativi alle Convenzioni Consip espressamente previsti dall'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012 e sopra illustrati.
In particolare, il ricorso al libero mercato postula il necessario esperimento di procedure ad evidenza pubblica per l'individuazione del soggetto contraente, nonché la stipula di contratti che prevedano corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali.
Peraltro, a fronte dei tempi necessari all'esperimento delle procedure ad evidenza pubblica, si pone la necessità di assicurare il servizio di fornitura di energia elettrica senza soluzione di continuità, tra la scadenza del contratto in essere e la stipula del nuovo contratto a seguito di dette procedure ad evidenza pubblica.
Al riguardo, viene in considerazione e si rivela utile la previsione di cui all'art. 125, comma 10, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006, che consente il ricorso all'acquisizione in economia per prestazioni periodiche di servizi o forniture, a seguito della scadenza dei relativi contratti, nelle more dello svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del contraente, nella misura strettamente necessaria e nei limiti d'importo sotto la soglia di rilievo comunitario previsti dalla norma.
Va evidenziato che l'art. 125, comma 10, lett. c), citato è applicabile unicamente se la gara è iniziata prima della scadenza del contratto da affidare e riguarda il tempo strettamente necessario ad espletare le operazioni di gara. La norma non si riferisce ai casi in cui la procedura di selezione ha inizio successivamente rispetto alla scadenza del contratto e, soprattutto, non legittima ad effettuare affidamenti di durata superiore a quanto strettamente necessario a concludere detta procedura di gara
[2].
Con riferimento agli acquisti in economia, deve altresì richiamarsi l'art. 331 del d.p.r. 207/2010, a tenore del quale le procedure in economia devono essere sempre espletate nel rispetto del principio della massima trasparenza, contemperando altresì l'efficienza dell'azione amministrativa con i principi di parità di trattamento, non discriminazione e concorrenza tra gli operatori economici.
Peraltro, qualora l'importo della fornitura sia inferiore a 40.000, l'Ente potrebbe procedere all'affidamento diretto alla società attuale fornitrice di energia elettrica, ai sensi dell'art. 125, comma 10, lettera c) e 11, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 163/2006, per poter continuare ad approvvigionarsi dalla stessa, oltre la scadenza del rapporto contrattuale in essere, nella misura strettamente necessaria, fino alla conclusione della procedura ad evidenza pubblica, che deve essere attivata prima della scadenza del contratto in corso.
Questa soluzione appare possibile stante la disponibilità manifestata da detta società a continuare a garantire le prestazioni
contrattuali anche dopo la scadenza del contratto e consente invero di mantenere, nel frattempo, nelle more dello svolgimento della procedura ordinaria di individuazione del contraente, l'invarianza del prezzo quale indicato dalla Convenzione Consip 2014.
Per l'ipotesi in cui la procedura ad evidenza pubblica sul mercato libero non dovesse andare a buon fine nel reperire il fornitore di energia elettrica
[3], l'Ente rientrerebbe nel cosiddetto 'regime di salvaguardia', applicato ai clienti finali di energia elettrica senza fornitore di energia elettrica o che non abbiano scelto il proprio fornitore nel libero mercato dell'energia (art. 1, comma 4, D.L. n. 73/2007) [4]. Per cui, il fornitore di energia verrebbe ad essere la società aggiudicataria della fornitura del servizio di salvaguardia per l'area di riferimento, a seguito di asta pubblica (art. 1, comma 4, D.L. n. 73/2007) [5].
In proposito, si rileva che il prezzo applicato sul prelievo di energia elettrica in regime di salvaguardia può essere più oneroso di quello ottenuto da Consip S.p.a.
[6], a seconda dell'area territoriale di riferimento. Per cui, se il ricorso al regime di salvaguardia può costituire una soluzione temporanea per assicurare la continuità del servizio di energia elettrica, nel caso in cui si riveli infruttuosa la procedura ad evidenza pubblica sul libero mercato e qualora non sia possibile aderire alle Convenzioni Consip [7], va da sé che comunque il regime di salvaguardia dovrebbe durare il tempo strettamente necessario e lasciare il posto ad un contratto stipulato alle condizioni Consip, non appena possibile [8].
Comunque, in ragione della gravità delle sanzioni previste dal DL 95/2012, si suggerisce al Comune di segnalare formalmente a Consip s.p.a. tale problematica affinché possa valutare di tenerla in considerazione nella progettazione delle nuove procedure di affidamento delle convenzioni per la fornitura di energia elettrica.
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[1] D.L. 06.07.2012, n. 95, recante: 'Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese nel settore bancario'.
[2] Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Servizio contratti pubblici, Servizio supporto tecnico giuridico, Supporto tecnico giuridico: risposte ai quesiti più frequenti in materia di contratti pubblici, Volume 1°.
Il contenuto del comma 10 in argomento viene esplicitato, sia sul piano giurisprudenziale che su quello della prassi, nel senso che nelle ipotesi ivi previste, tipiche e tassative, il ricorso all'acquisizione in economia è consentito indipendentemente dalla circostanza che i beni e servizi da affidare siano ricompresi nella tipologia di beni e servizi previamente individuati con proprio provvedimento dall'amministrazione che intende procedere all'affidamento, comunque sempre nel rispetto del limite massimo di spesa (in giurisprudenza, cfr. TAR Marche, sez. I, 10.01.2013, n. 28, e 03.09.2013, n. 637. Il Giudice amministrativo marchigiano precisa che l'affidamento in economia, sulla base del parametro normativo di cui all'art. 125, può essere disposto, entro i limiti di importo di legge, per i servizi individuati dalle stazioni appaltanti con regolamenti o atti amministrativi generali, ovvero nelle fattispecie tipiche contemplate dal secondo periodo dell'art. 125, decimo comma del Codice dei contratti pubblici. Sul piano della prassi, v. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segretariato Generale, Dipartimento per le Politiche di Gestione e di Sviluppo delle Risorse Umane, Guida pratica per i contratti pubblici ci servizi e forniture, vol. 1°, Il mercato degli appalti, p. 79).
[3] La base d'asta per corrispettivi inferiori da quelli indicati nella Convenzione Consip, in ottemperanza all'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, potrebbe infatti non trovare risposte sul libero mercato.
[4] D.L. 18.06.2007, n. 73, recante: 'Misure urgenti per l'attuazione di disposizioni comunitarie in materia di liberalizzazione dei mercati dell'energia', convertito, con modificazioni, dalla L. n. 125/2007. In particolare, le pubbliche amministrazioni sono clienti finali, e dunque idonei, di energia elettrica (nel senso di poter usufruire del mercato libero dell'energia elettrica), ai sensi dell'art. 14, comma 5-bis, D.Lgs. 16.03.1999, n. 79, recante: 'Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica'.
[5] Nel settore dell'energia, per facilitare un passaggio graduale dal regime 'vincolato' al mercato libero, il legislatore italiano con il D.L. n. 73/2007, ha dettato un particolare regime di tutela per i clienti che non abbiano scelto un fornitore sul mercato libero, articolato attraverso due servizi: il 'servizio di maggior tutela', destinato ai clienti domestici e alle imprese connesse in bassa tensione, aventi meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo non superiore a 10 milioni di euro; il 'servizio di salvaguardia' destinato ai clienti finali non domestici, che abbiano autocertificato di non essere piccole imprese, che siano senza fornitore di energia elettrica o che non abbiano scelto il proprio fornitore nel libero mercato dell'energia. Il medesimo decreto ha previsto che l'erogazione del servizio di salvaguardia sia affidata a imprese scelte in base ad una procedura di gara. La relativa disciplina è stata individuata con decreto nel Ministero dello Sviluppo Economico del 23.11.2007 e con delibera 21.12.2007 n. 337 dell'Autorità per l'energia elettrica il gas e il sistema idrico (AEEG).
[6] Il costo del Servizio di salvaguardia varia sensibilmente tra le diverse regioni italiane, come emerge dagli esiti della procedura concorsuale, di cui all'art. 1, comma 4, D.L. n. 73/2007, pubblicati da Acquirente Unico per gli anni 2014, 2015 e 2016. (V. al seguente indirizzo web).
In proposito, si evidenzia che non è consentito all'ente pubblico stipulare col soggetto fornitore di energia elettrica in regime di salvaguardia contratti in regime di libero mercato, a condizioni più vantaggiose, senza esperire la necessaria procedura ad evidenza pubblica. Infatti, non vi è alcuna deroga alla normativa del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163/2006) per gli enti pubblici che intendano concludere contratti di fornitura nel mercato libero dell'energia elettrica con imprese che esercitano il ruolo di fornitore del servizio di salvaguardia. (Cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato, provvedimento n. 21205 del 09.06.2010).
[7] Perché, come nel caso di specie, la società aggiudicataria della Convenzione Consip rifiuta ordinativi di fornitura in quanto inferiori ad una determinata soglia minima.
[8] Va segnalato, infatti, che l'art. 1, commi 7 e 8, D.L. n. 95/2012, sanziona i costi sostenuti per l'energia elettrica in misura superiore ai parametri Consip
(12.06.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStato più leggero e nuova dirigenza. Ok della Camera alla delega Pa, ora ultimo passaggio al Senato - Madia: passo importante ma ancora lavoro da fare.
Una macchina burocratica più snella e più agile, con meno sedi periferiche a cominciare dalle prefetture, e ministeri con una nuova organizzazione flessibile. Taglio e riordino delle partecipate e riforma delle Camere di commercio. Riduzione da 5 a 4 delle forze di polizia con l’addio al Corpo forestale dello Stato che confluisce in un’altra forza (probabilmente i carabinieri) e per una piccola fetta nei Vigili del fuoco.
Un nuovo ruolo unico della dirigenza pubblica senza più distinzioni tra prima e seconda fascia, dalla quale restano esclusi prefetti, diplomatici, vigili del fuco e polizia penitenziaria, ma suddiviso in tre livelli (statale, regionale e locale). Con incarichi che non saranno più a vita (4 anni più altri 2 di eventuale proroga) e che diventeranno revocabili in caso di condanna da parte della Corte dei conti. Retribuzioni e carriere maggiormente legate al merito e possibilità di licenziamento dei dirigenti in caso di valutazione negativa dell’ultimo incarico ricoperto. Accesso ai concorsi senza più lo sbarramento del voto minimo di laurea.

Sono questi i tratti salienti del volto della delega Pa (ddl Atto Camera n. 3098) che può essere ormai considerato definitivo dopo l’ultimo restyling della Camera dalla quale ieri è arrivato il via libera con 253 sì, 93 no e 5 astenuti.
Il testo torna ora al Senato per l’approvazione definitiva che il Governo conta di incassare prima della pausa estiva dei lavori parlamentari. Subito dopo scatterà la fase attuativa con il varo di una ventina di decreti legislativi che il ministero della Pa punta a presentare il prossimo autunno.
«Il lavoro è ancora tanto, ma quello di oggi è certamente un passo importante», afferma soddisfatta dopo l’ok di Montecitorio il ministro della Pa, Marianna Madia. Che aggiunge: «La riforma sarà realtà solo quando la vita degli italiani sarà più semplice. È una riforma per dare risposte a 60 milioni di cittadini e mai a un settore solo».
Soddisfatti anche il numero due dei Democratici, Lorenzo Guerini, e il relatore alla Camera, Ernesto Carbone (Pd): «Finalmente abbiamo un Paese più semplice». Molto critica l’opposizione. A partire dal M5S, che è comunque riuscito a far passare alcuni ritocchi, e da Renato Brunetta (Fi): «La riforma è un’accozzaglia degna del peggior Governo Renzi». Critici anche i sindacati che parlano di scatola vuota.
Quella approvata ieri dalla Camera è una riforma a vasto raggio, che prevede anche un pacchetto di semplificazioni, la velocizzazione della Conferenza dei sevizi, misure per ridurre del 50% i tempi burocratici per la realizzazione delle grandi opere e termini perentori per il silenzio-assenso, con una scadenza rigida di 90 giorni per le questioni legate alla tutela ambientale, dei beni culturali e della salute. E in caso di contese tra amministrazioni centrali sui nulla-osta sarà direttamente il premier dopo un passaggio in Consiglio dei ministri a prendere la decisione per sbloccare la situazione.
Sempre Palazzo Chigi potrà far leva su maggiori poteri di controllo sulle Agenzie fiscali e sulle nomine dei manager pubblici. Arrivano la nuova carta della cittadinanza digitale e il nuovo numero unico europeo per le emergenze (112). Sul fronte del riassetto della macchina statale la riforma prevede il trasferimento del Pubblico registro automobilistico (Pra) al ministero delle Infrastrutture e trasporti, cui fa capo la Motorizzazione civile, con l’obiettivo di giungere a un’unica banca dati (a a un solo libretto) per la circolazione e la proprietà dei veicoli.
Prevista anche la soppressione degli uffici regolatori dell’Authority considerati “doppioni” di altri uffici ministeriale con un livellamento degli stipendi dei dipendenti delle Autorità garanti che dovranno seguire tutte «criteri omogenei» di finanziamento. Tutti potranno accedere via web a documenti e dati della Pa. E per importi inferiori a 50 euro alcuni pagamenti verso la Pa, come multe e bollette, potranno essere effettuati con un semplice “sms” ricorrendo al credito telefonico.
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Taglio delle partecipate nei decreti attuativi.
Municipalizzate. Per le società di servizio pubblico verrà fissato il numero massimo di esercizi in perdita: superato il limite scatterà la liquidazione coatta.

Nel capitolo dedicato alle partecipate, il lavoro della Camera sulla riforma Madia ha voluto premere con più decisione sugli obiettivi di sfoltimento della “giungla”, avvicinandosi un po’ ai piani originari targati Cottarelli, ma nel farlo sembra aver in parte sovrapposto il piano delle società di servizi pubblici locali con quello delle aziende strumentali, rigidamente separati nel testo uscito dalla prima lettura del Senato.
L’aspetto più significativo, almeno per quel che riguarda i principi, è aver assegnato l’obiettivo esplicito della “riduzione” ai decreti attuativi che il governo dovrà scrivere dopo l’approvazione definitiva della riforma. Per passare dalle parole ai fatti, evitando l’ennesimo episodio di regole coraggiose sulla carta ma assenti negli effetti concreti, i provvedimenti attuativi dovranno decidere che cosa “ridurre” e, da questo punto di vista, la delega lascia aperte parecchie strade.
Il testo approvato ieri si dedica infatti sia alle società che gestiscono «servizi pubblici di interesse economico generale», vale a dire i servizi locali come energia, trasporti, igiene ambientale, sia alle aziende attive nei «servizi strumentali» e nelle «funzioni amministrative», cioè quelle realtà legate a doppio filo alla Pubblica amministrazione proprietaria per la quale svolgono funzioni prima effettuate direttamente dalla Pa (per esempio le società che gestiscono i servizi informatici degli uffici pubblici).
Le prime rappresentano la minoranza delle partecipate locali, cioè circa 1.200 aziende su oltre 8mila (Cottarelli in verità ne ipotizzava 10mila, ma un censimento definitivo non ha mai visto la luce), ma sono quelle più importanti dal punto di vista economico e più strategiche per i servizi che offrono alla collettività. Per queste società, i decreti attuativi dovranno prima di tutto fissare un numero massimo di anni di perdite, dopo di che dovrebbe scattare l’obbligo di liquidazione.
L’obiettivo è ambizioso ma non semplice da attuare, per almeno due ragioni: prima di tutto occorrerà mettersi d’accordo sul concetto di «perdita», perché spesso il rosso effettivo è nascosto da contratti di servizio particolarmente generosi, che producono entrate extra in grado di riportare artificiosamente i bilanci in equilibrio, o direttamente da assegni da parte degli enti proprietari che evitano per questa via l’emergere del “rosso”.
In secondo luogo, occorrerà definire le modalità con cui i servizi continueranno a essere svolti anche dopo l’eventuale liquidazione della società, perché ad esempio una città con l’azienda di trasporto in perdita strutturale non può certo essere sanzionata dallo stop ai bus. La liquidazione, in ogni caso, rappresenta l’extrema ratio, dal momento che la stessa delega chiede al governo di disciplinare l’applicazione di «piani di rientro» per le società in perdita, con eventuale commissariamento quando gli obiettivi fissati nel piano di rientro non vengono rispettati. Un principio di delega, questo, scritto prima che si introducesse quello sulla “liquidazione”, quindi i decreti attuativi dovranno trovare il modo di coordinarli.
Per i servizi strumentali, dopo l’esperienza della “cura Monti” scritta nel 2012 (privatizzazione o liquidazione entro sei mesi) ma mai attuata perché troppo draconiana, la delega chiede al governo di fissare criteri chiari per capire in quali settori potranno essere mantenute le aziende e in quali invece occorrerà riportare il servizio all’interno della Pa propriamente detta.
Proprio qui, in realtà, dovranno concentrarsi gli sforzi se si vuol davvero raggiungere quell’obiettivo («da 8mila a mille» partecipate) che è finora rimasto confinato nel mondo degli slogan. In ogni caso, per superare uno degli ostacoli che finora hanno frenato qualsiasi tentativo di razionalizzazione, la delega chiede anche di introdurre strumenti di «tutela occupazionale» per i dipendenti delle società che saranno coinvolte nei piani di razionalizzazione, se questi partiranno davvero
 (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2015).

EDILIZIA PRIVATAStabilimenti più sicuri. Controlli stringenti sui pericoli di incidenti. Nuove regole dal 29 luglio con la pubblicazione in G.U. della Seveso III.
Nuove regole sul controllo del pericolo da incidenti rilevanti. Dal 29 luglio l'imprenditore dovrà infatti redigere un documento che definisca la propria politica di prevenzione degli incidenti rilevanti, allegando allo stesso il programma adottato per l'attuazione del sistema di gestione della sicurezza. Tale politica sarà proporzionata ai pericoli di incidenti rilevanti, comprende gli obiettivi generali e i principi di azione del gestore, il ruolo e la responsabilità degli organi direttivi, nonché l'impegno al continuo miglioramento del controllo dei pericoli di incidenti rilevanti, garantendo al contempo un elevato livello di protezione della salute umana e dell'ambiente
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Questo è quanto contenuto nel dlgs 26.06.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14.07.2015 n. 161) attuativo della direttiva 2012/18/Ue relativa al controllo del pericolo di incidenti connessi con sostanze pericolose (cosiddetta Seveso III).
Il 04.07.2012 è stata emanata, dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell'Unione europea, la direttiva 2012/18/Ue (cosiddetta «Seveso III») sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con sostanze pericolose. La disciplina Seveso è una normativa volta alla prevenzione del pericolo sul territorio e riguarda un numero limitato di stabilimenti (circa 1.000 a livello nazionale) caratterizzati da quantitativi significativi di sostanze e miscele pericolose.
È la norma stessa che fissa due diverse soglie quantitative per differenziare le tipologia di stabilimenti soggetti alla disciplina, i quantitativi limite, in funzione della pericolosità, vanno da qualche tonnellata a migliaia di tonnellate. L'attuazione della disciplina prevede lo svolgimento di istruttorie sulla sicurezza dei processi e degli stoccaggi/depositi e di ispezioni sul sistema di gestione della sicurezza presso gli stabilimenti, la pianificazione di emergenza, urbanistica e territoriale nella aree limitrofe a essi al fine di mantenere un adeguato livello di sicurezza della popolazione e dell'ambiente.
Sarà istituito, presso il ministero dell'ambiente, un coordinamento tra i rappresentanti di tale ministero, del dipartimento di protezione civile presso la presidenza del consiglio dei ministri, dei ministeri dell'interno, delle infrastrutture e trasporti, dello sviluppo economico, della salute, delle regioni i e province autonome, dell'associazione nazionale comuni d'Italia (articolo ItaliaOggi del 18.07.2015).

EDILIZIA PRIVATACostruzioni. Super Dia, arriva il modello.
Approvato lo schema unico semplificato per la super Dia, cioè la Dia alternativa al permesso di costruire utilizzata in molte regioni per nuove costruzioni, ristrutturazioni pesanti e ristrutturazioni urbanistiche. Le regioni e i comuni avranno 90 giorni (entro il 16.10.2015) per adeguarsi alla modulistica standardizzata. L'adeguamento al nuovo modello di super Dia nazionale è vincolante per le regioni a statuto ordinario, è opzionale per quelle a statuto speciale.

Nella seduta del 16 luglio la conferenza unificata ha dato il via libera allo schema unico semplificato per la cosiddetta super Dia (modello unico semplificato della denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire) (si veda ItaliaOggi del 10.07.2015).
La super Dia potrà essere utilizzata in luogo del permesso di costruire in tre diversi tipi di interventi: ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica. In alternativa al permesso di costruzione sarà possibile utilizzare la super Dia nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un immobile in tutto o in parte diverso dal precedente.
Potrà inoltre essere utilizzata nel caso in cui la ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso.
Anche nel caso di ristrutturazione urbanistica la super Dia potrà essere impiegata qualora gli interventi siano disciplinati da piani attuativi, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.
Gli interventi relativi a nuova costruzione potranno essere realizzati con la super Dia anziché con il permesso di costruire qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche (articolo ItaliaOggi del 18.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirigenti p.a., ora cambia tutto. Ruolo unico, incarichi a tempo, valutazione, merito. La camera ha approvato il ddl Madia. I pensionati potranno lavorare per i comuni ma gratis.
Ruolo unico, niente più incarichi a vita e carriere decise in base al merito. Al punto che una valutazione negativa potrà portare alla decadenza dal ruolo.

Sarà questo il futuro dei dirigenti pubblici secondo il ddl delega di riforma della p.a.
(ddl Atto Camera n. 3098) che ieri ha avuto il via libera della camera dei deputati con 253 voti favorevoli, 93 contrari e 5 astenuti. Il testo tornerà ora in senato per l'approvazione definitiva che il governo conta di ottenere prima della pausa estiva, visto che l'accordo politico all'interno della maggioranza prevede che palazzo Madama non modifichi il testo appena votato da Montecitorio.
I dirigenti potranno ricoprire solo incarichi di 4 anni (rinnovabili solo tramite concorso o, senza concorso, prorogabili per ulteriori due anni, ma una volta sola). Chi resterà disoccupato potrà essere retrocesso a funzionario, dopo un prolungato periodo di tempo di inattività, ma il licenziamento non potrà scattare in assenza di una valutazione negativa da parte dell'ente. Stop ai dirigenti condannati dalla Corte dei conti. Grazie a un emendamento del M5s, è stata prevista la revoca o il divieto dell'incarico (in settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione) per i dirigenti condannati dalla Corte dei conti, anche in via non definitiva.
Tra le novità introdotte alla camera, si segnala l'abolizione del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi pubblici. Il governo ha fatto invece dietrofront sulla discussa norma «valuta-atenei» che introduceva nei concorsi pubblici il criterio del peso dell'università in cui si è conseguita la laurea.
Esteso a 90 giorni (dagli iniziali 60) il termine per far scattare il meccanismo del silenzio-assenso nelle questioni che coinvolgono le p.a. in materia di ambiente e beni culturali. Gli enti potranno far valere il proprio potere di autotutela entro 18 mesi dall'adozione dell'atto. Anche quando questo si sia formato a seguito di silenzio-assenso. Inoltre, con un emendamento a firma del deputato Pd Giovanni Sanga è stato consentito ai pensionati di assumere incarichi pubblici e collaborazioni purché a titolo gratuito. Se si tratta di incarichi dirigenziali, però, la durata non potrà essere superiore a un anno per ciascun ente.
Per la Cna il ddl costituisce «una prima, importante, tappa per la costruzione di uno stato efficiente», anche se il riordino delle camere di commercio «presenta luci e ombre». Critica la Cisl secondo cui la riforma «è una scatola vuota perché non porterà cambiamenti nell'erogazione dei servizi ai cittadini» (articolo ItaliaOggi del 18.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirigenti Pa, arriva il ruolo unico. Stop ai condannati dalla Corte dei conti - Salta lo sbarramento del voto di laurea per i concorsi.
Riforma Pa. Rush di votazioni alla Camera sull’intero articolato, oggi il via libera finale - Incarichi ai pensionati con minori vincoli.

Riforma della dirigenza pubblica. Delega per la stesura di un testo unico sul pubblico impiego e riordino delle società partecipate e dei servizi pubblici locali. Con un rush finale in notturna l’Aula di Montecitorio s’è avviata ieri alla conclusione delle votazioni sull’intero articolato del Ddl Pa (ddl Atto Camera n. 3098) sul quale oggi dovrebbe arrivare il via libera finale della Camera. Il testo tornerà poi al Senato per la terza lettura che, se le intese politiche non verranno tradite, non dovrebbe aggiungere nuove modifiche.
Con l’approvazione dell’articolo 9, quello sulla dirigenza pubblica, l’iter della riforma ha compiuto un altro passo avanti importante. La delega prevede l’istituzione dei tre ruoli unici (Stato, regioni ed enti locali) e il superamento delle due fasce laddove esistono (ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici, università e presidenza del consiglio). Esclusi dal ruolo unico diplomatici, prefetti e dirigenti delle Authority. Gli incarichi saranno a termine (4 anni rinnovabili) e per i dirigenti che rimarranno senza incarico potrebbe scattare la retrocessione a funzionario dopo una procedura particolare, mentre l’ipotesi di licenziamento è vincolata a un valutazione negativa sull’ultimo incarico ricoperto.
La carriera e la retribuzione verranno agganciate a una valutazione delle performance e gli incarichi assegnati passeranno al vaglio di tre commissioni ad hoc (Stato, Regioni e comuni). Approvato anche un emendamento di M5S che prevede la revoca e il divieto dell’incarico in settori esposti a rischio corruzione ai dirigenti condannati anche in via non definitiva dalla Corte del conti al risarcimento del danno erariale per condotte dolose. Scompare poi la figura dei segretari comunali ma con una norma ponte che per tre anni consentirà ai medesimi di svolgere le stesse funzioni pur essendo confluiti nel ruolo unico dei dirigenti locali.
Novità anche per l’Avvocatura dello Stato, a cui è dedicato l’articolo 9-bis inserito durante i lavori in commissione a Montecitorio e che prevede il divieto di affidare posizioni direttive per chi è vicino alla pensione e incarichi sulla base del merito. Con un emendamento del Pd, riformulato dal relatore Ernesto Carbone si allargano poi le maglie per i pensionati nella Pa: il tetto di un anno (senza possibilità di rinnovo) vale solo per i ruoli direttivi. Le altre cariche e le collaborazioni sono comunque consentite.
L’altro articolo rilevante approvato ieri è il 13, che delega il governo ad adottare entro 18 mesi un nuovo testo unico sul pubblico impiego, un fronte che si incrocerà nel confronto sindacale con la riapertura del negoziato per il rinnovo dei contratti dopo la sentenza della Consulta del mese di giugno. Tra le novità dell’ultima ora l’emendamento che fa saltare lo sbarramento del voto minimo di laurea per i concorsi centralizzati che consentiranno l’accesso a tutte le amministrazioni. Ma nel nuovo testo unico ci sarà anche il superamento delle vecchie dotazioni organiche per facilitare i processi di mobilità, mentre verrà rafforzato il principio della separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione.
Infine i testi unici sulle partecipate e i servizi pubblici locali, deleghe che daranno ordine al settore introducendo regole più omogenee sulle nomine e indurranno ad accorpamenti e riduzione delle società.
La maratona notturna ha fatto seguito alla già lunga seduta di mercoledì con la quale è stato dato il via all’articolo 7 sulla riorganizzazione delle sedi periferiche dello Stato e i nuovi vincoli su stipendi e finanziamenti delle Authority. Sempre nella seduta di mercoledì è stato dato l’ok a un emendamento che prevede l’istituzione del nuovo numero unico europeo per le emergenze (112) su tutto il territorio nazionale con centrali operative regionali. Costo dell’operazione 58 milioni reperiti dai Fondi di riserva e speciali del ministero dell’Economia.
Il ministero della Pa, Marianna Madia, intervenendo ieri mattina in Aula ha tenuto a sottolineare che con la riforma «sarà superata la figura dei segretari comunali ma non le funzioni di legalità». Proprio i Comuni di fatto sono stati al centro di uno degli ultimi emendamenti presentati dal relatore, Ernesto Carbone (Pd). Il ritocco prevede che il governo dovrà definire i nuovi “requisiti” per la scelta dei futuri dirigenti generale dei Comuni con più di 100mila abitanti
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

VARIDai notai una guida sui diritti dei cittadini. Professioni. Tra responsabilità e obblighi.
Responsabilità civile, penale e disciplinare, obblighi informativi e di pubblicazione, diritti che è possibile attivare.
Ieri mattina è stata presentata contemporaneamente in 26 città la “Carta dei diritti del cittadino nei rapporti con il notaio”, realizzata dal Consiglio nazionale del notariato con dieci associazioni di consumatori: Adiconsum, Adoc, Assoutenti, Casa del consumatore, Cittadinanzattiva, Confconsumatori, Federconsumatori, Movimento consumatori, Movimento difesa del cittadino e Unione nazionale consumatori.
Una brochure e un poster serviranno a spiegare con parole semplici quali garanzie offre il notaio in fase di redazione dei suoi atti e quali diritti è possibile esercitare a propria tutela. Già da ieri sono stati distribuiti in tutti gli studi italiani.
I notai sono i primi a lanciare un’iniziativa di questo tipo tra le professioni dell’area giuridico economica: servirà a ridurre il gap informativo che colpisce in particolare alcune categorie di cittadini. «La loro tutela -spiega Albino Farina, consigliere del Notariato con delega ai rapporti con le associazioni di consumatori- è al centro del nostro lavoro. Abbiamo pensato che fosse il caso di illustrare le garanzie dei notai in maniera estremamente semplice».
Per Arrigo Roveda, presidente del Consiglio notarile di Milano, «nonostante gli sforzi continua ad esserci troppa poca conoscenza della complessa attività notarile e di tutte le utilità e certezze che il cittadino può ottenere, a costi pre-concordati, rivolgendosi a un notaio. Il notaio è un aiuto preparato e affidabile al fianco del cittadino in momenti importanti della sua vita».
La carta, oltre che negli studi, sarà presente anche sul sito del Notariato. «Ci siamo chiesti -dice il presidente del Consiglio nazionale, Maurizio D’Errico- in che modo avremmo potuto aiutare i cittadini, modernizzando i nostri rapporti con loro. Adesso dobbiamo andare ancora oltre, arrivando sui loro smartphone e tablet. Dobbiamo pensare sempre di più alla nostra funzione sociale».
Il documento si concentra soprattutto su tre capitoli. Sul fronte delle garanzie, ricorda che il notaio si occupa di assicurare gli interessi di tutte le parti coinvolte, evidenziando eventuali squilibri contrattuali, accertando la volontà e l’identità delle persone e versando tutte le imposte. Il secondo capitolo è dedicato ai diritti. Si parte dal diritto di ottenere un preventivo di massima. Poi, è obbligo del notaio verificare la sussistenza di benefici fiscali ed effettuare i controlli presso i pubblici registri, assicurandosi che i beni siano trasferibili. Ancora, il professionista dovrà leggere integralmente l’atto alle parti ed effettuare la registrazione all’Agenzia delle Entrate.
Il terzo capitolo chiave, infine, è dedicato alla responsabilità del notaio. Quella penale, se commette dei reati: in questo caso è coperto da un fondo di garanzia disciplinato dalla legge. Quella civile, se il professionista causa danni alle parti per l’inadempimento dei suoi doveri: in questo caso c’è una polizza assicurativa collettiva nazionale. Infine, c’è la responsabilità disciplinare: oltre alle semplici ammende, le situazioni più gravi sono sanzionate con il divieto di esercizio della professione per un periodo di tempo o con la destituzione.
     (articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOFigli disabili, congedo ampliato. I permessi per l'assistenza estesi fino ai 12 anni di età. Un messaggio Inps con le istruzioni per attuare il beneficio introdotto dal Jobs act.
Via libera al prolungamento del congedo parentale per assistere figli disabili. Dal 25 giugno, e per ora limitatamente all'anno 2015, è possibile fruire del congedo fino ai dodici anni di età del figlio (o dell'ingresso in famiglia, in caso di adozione o affidamento), in luogo del limite di otto anni operativo fino al 24 giugno. Il congedo è possibile per la durata di tre anni con diritto all'indennità del 30% della retribuzione.
Lo precisa l'Inps nel messaggio 16.07.2015 n. 4805 in cui illustra le novità del dlgs n. 80/2015 (attuazione del Jobs act).
Figli disabili. Le nuove istruzioni fanno il paio con quelle fornite dal messaggio n. 4576/2015 (su ItaliaOggi del 7 luglio) sull'estensione fino a dodici anni del congedo parentale. Stavolta l'Inps illustra le novità per i genitori di figli disabili in situazione di gravità (ai sensi dell'art. 3, comma 3, della legge n. 104/1992), ai quali il T.u. maternità (dlgs n. 151/2011) riconosce il prolungamento del congedo parentale fino alla durata di tre anni, in luogo dei sei/sette mesi ordinari, con facoltà di fruirne entro il compimento dell'ottavo anno del bambino. La novità fondamentale riguarda proprio il limite temporale per la fruizione, che è spostato in avanti (dall'ottavo) al dodicesimo anno di vita del bambino.
Maternità e adozione. L'ampliamento dell'arco temporale entro cui fruire del prolungamento del congedo parentale, precisa l'Inps, trova applicazione anche per i casi di adozione, nazionale e internazionale, e di affidamento. Pertanto, il prolungamento può essere fruito dai genitori adottivi e affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro dodici anni (non più otto) dall'ingresso in famiglia. In ogni caso, aggiunge l'Inps, resta fermo che il prolungamento:
a) decorre dalla conclusione del periodo di normale congedo parentale teoricamente fruibile dal genitore richiedente;
b) non può essere fruito oltre la maggiore età del minore.
In tabella sono indicate le prestazioni alternative al prolungamento del congedo parentale, di cui godono i genitori lavoratori dipendenti a fine di assistere i figli con disabilità in situazione di gravità.
Indennità fino a tre anni. L'Inps, ancora, precisa che i giorni fruiti fino al dodicesimo anno di vita del bambino (o fino al dodicesimo anno dall'ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o affidamento), sia a titolo di congedo parentale ordinario sia di prolungamento, non possono superare in tutto tre anni con diritto, per tutto questo periodo, all'indennità del 30% della retribuzione.
Efficacia temporale. Le novità, precisa sempre l'Inps, si applicano in via sperimentale esclusivamente per l'anno 2015 e per le sole giornate di astensione riconosciute nello stesso anno 2015, a partire dal 25 giugno che è la data di entrata in vigore.
La domanda su carta. Nelle more dell'adeguamento del sistema informatico di presentazione online, l'Inps consente da subito la presentazione della domanda su carta utilizzando il modello presente su internet con il codice «SR08». La domanda cartacea va utilizzata solo dai genitori lavoratori dipendenti che fruiscono di periodi di prolungamento di congedo parentale dal 25 giugno fino al 31.12.2015, per figli in età compresa tra gli otto e i dodici anni, oppure per minori in adozione o affidamento che si trovano tra l'ottavo e il dodicesimo anno d'ingresso in famiglia.
Negli altri casi (figli di età inferiore agli 8 anni), la domanda continua a essere presentata in via telematica. La presentazione delle domande cartacee è consentita soltanto per il mese di luglio (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALIAgrotecnici. Serve un indirizzo Pec univoco.
Ad ogni impresa o professionista deve corrispondere un indirizzo Pec univoco, nella titolarità esclusiva dell'imprenditore o del professionista, in modo tale che la validità delle comunicazioni e notificazioni sia certa. Non è, pertanto, possibile utilizzare la Pec professionale, rilasciata dal rispettivo albo o dalla rispettiva cassa di previdenza, anche come Pec di impresa.

Questi i chiarimenti forniti dal Centro studi degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati con la circolare 15.07.2015 n. 2600 di prot..
Nel dettaglio il Centro studi ha risposto a più quesiti degli iscritti alla categoria aventi ad oggetto la possibilità per i professionisti di poter usare in modo diverso la stessa Pec. Ma la risposta è stata negativa.
Sia il Mise sia il Mingiustizia hanno, infatti, più volte sottolineato come «se una Pec è già in uso a un professionista, la stessa Pec non può essere utilizzata anche per identificare una impresa iscritta alla Camera di commercio e a nulla rileva che per l'Ente camerale quella Pec sia conosciuta per la prima volta (i liberi professionisti infatti, non essendo imprese, non sono iscritti alle Camere di commercio)» (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIBilanci, proroga limitata. Al 30/9 solo per province e città metropolitane. Rinvio tra le polemiche in Stato-città. Ok al decreto sulla mobilità.
Slitta al 30 settembre il termine per l'approvazione del bilancio di previsione 2015. Ma la proroga riguarda solo province e città metropolitane, non i comuni, per i quali la dead-line rimane fissata al 30 luglio.

Lo ha deciso ieri la Conferenza stato-città e autonomie locali, che ha anche dato il via libera al riparto dei 530 milioni del fondo Imu-Tasi stanziati dal dl 78/2015.
Dalla Conferenza unificata è invece arrivato il semaforo verde al decreto che disciplina i criteri per le procedure di mobilità dei dipendenti delle province (si veda ItaliaOggi del 15 luglio).
Ora la macchina organizzativa per trovare una collocazione agli oltre 20 mila dipendenti provinciali in sovrannumero potrà avviarsi, anche se, come è stato fatto notare dall'Upi, con colpevole ritardo. «Apprezziamo il lavoro svolto dal dipartimento della funzione pubblica sul decreto che ha accolto le nostre osservazioni, ma non possiamo nasconderci che stiamo già scontando almeno sei mesi di ritardo», ha osservato Carlo Riva Vercellotti, vicepresidente dell'Upi.
«Adesso non ci sono altri alibi: ognuno faccia la propria parte, senza ulteriori ritardi per tutelare i lavoratori e i servizi ai cittadini. Dal 1° gennaio ad oggi, nonostante le indicazioni della legge di stabilità, i costi di questo personale sono rimasti in carico alle province, contribuendo a causare quelle criticità che stanno mettendo a rischio gli equilibri finanziari degli enti».
Proroga bilanci con giallo. Sui preventivi, si è verificato un piccolo giallo. Da giorni, si sapeva che l'Upi avrebbe presentato una richiesta di rinvio, viste le difficoltà a quadrare i conti denunciate dagli enti di area vasta, che anche nel corso delle audizioni sul disegno di legge di conversione del dl 78/2015 hanno evidenziato l'insostenibilità dei tagli previsti dall'ultima manovra e chiesto correttivi (si veda ItaliaOggi di ieri).
A tale richiesta, si è successivamente associata anche l'Anci, tanto che la lettera indirizzata al ministro dell'interno, Angelino Alfano, reca in calce la firma sia di Piero Fassino (presidente Anci) che di Achille Variati (n. 1 dell'Upi). Ma nel testo della missiva è rimasto il riferimento solo a province e città metropolitane e ad esso i rappresentanti del Viminale hanno fatto riferimento.
L'incidente ha creato però molto malcontento tra i sindaci (soprattutto quelli dei comuni andati alle urne a fine maggio) che ormai facevano affidamento sulla proroga a settembre. Le critiche contro il presidente dell'Anci, reo di tutelare gli interessi solo dei grandi comuni metropolitani, sono arrivate da un po' tutta Italia. Da Ciampino ad Alessandria, da San Giuliano Milanese a Montegiorgio (Fm). Anche perché la mancata proroga complica il dedalo di scadenze contabili in calendario nelle prossime settimane.
Un rinvio generalizzato dei bilanci avrebbe di fatto imposto di prorogare al 30 settembre anche il termine per la salvaguardia degli equilibri, che scade il 31 luglio. A tal fine, è già stato presentato un emendamento al dl 78, il quale chiarisce anche che la scadenza per la variazione generale di assestamento 2015 è al 30 novembre, superando le incertezze derivanti dalla formulazione dell'art. 175 del Tuel. In tal caso, sarebbe saltata l'annunciata circolare dello stesso Viminale finalizzata a rendere facoltativo l'adempimento di cui all'art. 193 Tuel per gli enti che approvano il preventivo nel mese di luglio. Ora si tratta di capire se comunque gli equilibri verranno rimandati a settembre per tutti o solo per gli enti di area vasta.
In ogni caso i comuni che non hanno ancora approvato il preventivo e che ora dovranno precipitarsi a farlo entro il 30 luglio, potranno comunque usufruire dei canonici 20 giorni prima che i prefetti si attivino. Dunque il bilancio potrà essere approvato in consiglio entro il 20 agosto a condizione che l'assemblea sia stata convocata entro il 30 luglio. Non sarà invece possibile godere di un extra time per l'approvazione delle delibere con le aliquote dei tributi locali. Il termine in questo caso resta il 30 luglio e, qualora gli enti non decidano in tempo, si applicheranno le aliquote dell'anno scorso.
Fondo Imu-Tasi. L'altro punto importante all'ordine del giorno della Stato-città di ieri riguardava il parere sullo schema di decreto chiamato a distribuire i 530 milioni del fondo Imu-Tasi previsti dall'art. 10, comma 8, del dl 78. In base a tale disposizione, le risorse sono state suddivise in due quote. La prima, pari a 472,5 milioni, andrà ai comuni che, avendo portato le aliquote Imu al massimo, non hanno margini di manovra sulla Tasi e sono penalizzati dai criteri di riparto del fondo di solidarietà.
In pratica, si tratta degli stessi 1800 comuni circa che lo scorso anno ricevettero complessivamente 625 milioni, tanto che il riparto viene disposto sulla base dei medesimi criteri; poiché, però, la torta è inferiore, ciascun beneficiario riceverà solo il 75,60% dell'importo 2014. Non indolori gli effetti sulle casse delle amministrazioni interessate: a Milano, ad esempio, il taglio è di quasi 22 milioni, a Napoli e Torino di circa 9 milioni, a Genova di oltre 6 milioni e a Roma di 5,5 milioni (si veda la tabella).
Inoltre, le entrate 2015 non valgono ai fini del Patto di stabilità interno. I restanti 57.5 milioni, invece, sono destinati ai circa 2.200 comuni che hanno subito tagli eccessivi per effetto di sovrastime dell'Imu terreni, in base alla risultanze della verifica di gettito effettuata ai sensi dell'art. 1, comma 9-quinquies, del dl 4/2015.
In tal caso, il contributo (comunque non rilevanti ai fini del Patto) concorre a ridurre, sempre nella misura del 75,60%, il divario fra le risorse da assegnazioni statali rimodulate in corrispondenza delle stime di gettito revisionate e i gettiti realizzati da ciascun comune (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015).

TRIBUTIIl Comune recupera morosità con il lavoro dei debitori. Baratto fiscale. Nel Novarese un municipio vara l’utilizzo di una norma contenuta nello «Sblocca Italia».
Quando i tempi si fanno duri rispunta il baratto. E al Comune di Invorio, con lodevole senso pratico, devono aver compreso che se un cittadino non ce la fa a pagare imposte e debiti comunali la soluzione è quella di prestare il proprio lavoro.
Così, dopo due anni di lavorìo in consiglio comunale, ecco una decisione che, ripescando una norma, già dimenticata, del decreto legge Sblocca Italia, punta al sodo e permette ai cittadini di presentare un progetto di pubblica utilità, realizzarlo e scontare il suo impegno dal debito tributario con il municipio.

Lo stabilisce la deliberazione G.C. 02.07.2015 n. 66, che in sostanza, autorizza a fornire «in corresponsione del mancato pagamento dei tributi comunali già scaduti, ovvero di contributi per inquilini morosi non colpevoli, offrendo all’ente comunale, e quindi alla comunità territoriale, una propria prestazione di pubblica utilità, integrando il servizio già svolto direttamente dai dipendenti e collaboratori comunali».
Il tutto viene chiamato ufficialmente «baratto amministrativo» e parte da un progetto che i cittadini devono presentare e che deve venir approvato. Forse alcuni giuristi, segnatamente civilisti e amministrativisti ma anche lavoristi, storceranno il naso (con qualche ragione) di fronte a una soluzione così semplice: ma per fortuna, almeno a prima vista, la legge che autorizza scelte del genere si presenta con un testo abbastanza ampio. E, una volta tanto, la genericità fa premio.
Secondo l’articolo 24 del Dl 133/2014 i Comuni possono deliberare i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
In cambio i Comuni possono esentare i cittadini volontari dalle imposte, per un periodo limitato e definito. Già in passato, quando nei Comuni la spesa pubblica non si era dilatata, i proprietari degli appezzamenti attraversati dalle strade municipali godevano di esenzioni se provvedevano al loro mantenimento in buono stato. Un’abitudine perduta nel caos dello spreco generale di soldi pubblici, di tempo e di lavoro.
A Invorio, insomma, hanno visto giusto e, anche se con un’interpretazione un po’ estensiva del Dl 133, ora il Comune potrà recuperare il debito che un cittadino aveva accumulato sui canoni non pagati di una casa popolare. Il suo lavoro consisterà nel dare manforte a chi pulisce le strade e durerà circa due mesi, per quattro ore al giorno. E l’esempio potrebbe estendersi facilmente in tutta Italia, con regolamenti tagliati su misura e in massima libertà in ciascun comune
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: P.a., annullabili d'ufficio anche i provvedimenti frutto di silenzio-assenso.
Annullabili d'ufficio anche i provvedimenti amministrativi frutto di silenzio-assenso dichiarati illegittimi da un'amministrazione pubblica: potranno, infatti, essere revocati «entro un tempo ragionevole» o, comunque, «non superiore a diciotto mesi» dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di «vantaggi economici».

È una delle novità scaturite ieri dall'esame, nell'aula della camera, del disegno di legge del ministro Marianna Madia in materia di riorganizzazione della P.a.
(ddl Atto Camera n. 3098).
Una regola, quella del silenzio-assenso, che aveva già sollevato una serie di polemiche quando, in una precedente seduta dell'assemblea di Montecitorio, era stato approvato un emendamento che fissa a 90 giorni il limite temporale massimo dopo cui si aziona il medesimo meccanismo tra amministrazioni coinvolte in questioni ambientali, o culturali; la critica più aspra è arrivata ieri dal sottosegretario ai beni culturali con delega al paesaggio, Ilaria Borletti Buitoni, che ha parlato di «uno strumento primitivo e assolutamente inefficace per governare la tutela del patrimonio culturale e ambientale, ambito complesso che necessita di un'attenzione e di risposte diverse da quelle previste» dal provvedimento su cui si stanno esprimendo i deputati. Ma per la titolare del dicastero della funzione pubblica «il silenzio-assenso per le amministrazioni non vuol dire cemento sulle coste, ma tempi certi per i sì, e per i no ai cittadini».
Rilevante, poi, il via libera al passaggio delle funzioni, dei mezzi e delle risorse contro gli incendi boschivi dal Corpo forestale dello stato (Cfs) ai Vigili del fuoco, grazie a un emendamento del relatore, Francesco Carbone (Pd); dopo le dure contestazioni in assemblea da parte delle opposizioni (soprattutto M5s e Sel), Madia ha respinto al mittente le «speculazioni», affermando che «il governo riconosce il valore dell'utilità e delle funzioni del Cfs», e che «l'intervento riformatore che ci accingiamo a varare vuole rafforzare quelle funzioni, rispettando le professionalità e valorizzando le specializzazioni in materia di tutela dell'ambiente. Ma qui il dato oggettivo è che avere meno catene di comando significa avere più risorse per fare i controlli», ha sottolineato il ministro.
Cura dimagrante per gli emolumenti dei membri delle Autorità, visto che una correzione del centrosinistra ha aperto la strada al livellamento degli stipendi dei dipendenti degli organismi e al loro stesso finanziamento; ma a essere messe a dieta sono pure le Authority, poiché un altro emendamento del relatore varato ha stabilito la possibilità di un'eventuale soppressione, se le loro funzioni si sovrapponessero a quelle degli uffici ministeriali.
Affermando, infine, il principio della trasparenza nella p.a. s'è acceso il semaforo verde sul ritocco, secondo cui le amministrazioni dovranno pubblicare sui siti istituzionali non solo lo stato dei pagamenti di servizi e forniture prestati da aziende esterne, bensì pure quelli riferiti alle «prestazioni professionali». E ciò dovrà avvenire «periodicamente» (articolo ItaliaOggi del 16.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Stop a varianti in corso d'opera. Premio a chi non le chiede.
Introdurre il divieto assoluto di varianti in corso d'opera e dare un premio alle imprese che non le chiedono; abrogare la legge obiettivo; appaltare i lavori sul più dettagliato livello progettuale, regolare l'incentivo del due per cento previsto per i tecnici della pubblica amministrazione, ridurre gli arbitrati liberi a favore degli arbitrati amministrati; contenere fortemente il numero delle stazioni appaltanti.

Sono queste alcune delle indicazioni che ha fornito ieri il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, nell'audizione presso la commissione ambiente della camera sul disegno di legge delega sugli appalti pubblici già approvato al senato.
Cantone, dopo avere richiamato i passaggi più rilevanti del testo all'esame della commissione, di cui ha apprezzato i contenuti elaborati nel primo passaggio parlamentare ha preso in esame la disciplina delle grandi infrastrutture, affermando che occorre abrogare la legge obiettivo perché il codice deve essere l'unico testo normativo da applicare, con limitatissime eccezioni legate a urgenze di protezione civile.
Sul general contractor, che è la tipologia di contratto più problematica nelle grandi opere il presidente Anac ha formulato la proposta «in qualche modo provocatoria», di stabilire il divieto assoluto delle varianti in corso d'opera, e ha proposto di dare un premio agli imprenditori che non chiedono varianti, per creare meccanismi incentivanti.
Non c'è stato affidamento a contraente generale senza varianti e aumenti costi. Sul tema dell'accesso al mercato delle piccole e medie imprese, nonostante le direttive comunitarie, qualcuno afferma che il ddl dedichi poca attenzione alle pmi; a suo avviso il presidente Cantone ha dichiarato che il tessuto connettivo del settore edile è caratterizzato da pmi, quindi le direttive comunitarie non è detto che vadano adottate così come sono proposte ma andrebbero adeguate tenendo conto della situazione italiana.
Sulle commissioni di gara, il presidente ha proposto commissioni da gara a estrazione, prevedendo un meccanismo di soglia e di tipologia di appalto, non contemplato nel testo del senato. Sulla progettazione, il presidente ha dichiarato che il testo su questa materia «ha fatto grandi passi in avanti, perché prova a inserire l'idea che l'opera deve essere messa in gara quanto più è avanzato il livello di progettazione».
Cantone ha poi posto il tema dell'incentivo del 2% che, ancorché non condivisibile, «ha però una sua ragion d'essere perché stimola alcune professionalità interne alle stazioni appaltanti, ma il codice potrebbe fissare dei tetti (sia quantitativi, sia collegato agli uffici e alle retribuzioni e una sua razionalizzazione, perché spesso l'incentivo viene spalmato a pioggia», il presidente è a favore di poche stazioni appaltanti e qualificate.
Sul contenzioso, partendo dall'esperienza dell'Autorità andrebbero ridotti gli arbitrati liberi (il terzo arbitro viene scelto dalle parti), adottando la regola che gli arbitrati siano sempre quelli che fanno riferimento al modello degli arbitrati amministrati (gestiti dalla camera arbitrale dell'Autorità), prevedendo inoltre che siano soggetti con qualifica di pubblico ufficiale (articolo ItaliaOggi del 16.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, le regole sulla mobilità. Dipendenti in sovrannumero verso regioni, comuni e Ssn. Il governo ha presentato la bozza di decreto. I sindacati: a rischio salari e competenze.
La mobilità dei dipendenti delle province scalda i motori. Il governo ha presentato ieri ai sindacati la bozza di decreto attuativo della legge di stabilità 2015 (commi 423, 424 e 425 della legge 190/2014) fissando un primo cronoprogramma che, dopo mesi di ritardi, soprattutto a causa dell'inerzia delle regioni nel legiferare sul destino dei dipendenti degli enti di area vasta, dovrebbe finalmente far partire le procedure di ricollocamento degli oltre 20 mila lavoratori provinciali in sovrannumero.
Il condizionale è però d'obbligo perché dai sindacati è arrivata una netta chiusura verso un testo che secondo Fp-Cgil Cisl-Fp e Uil-Fpl mette a rischio il salario accessorio e non ha «nessuna attenzione alle funzioni e nessun rispetto per le competenze». Diversi, ovviamente, i toni dell'esecutivo secondo cui il decreto assicura «certezze ai lavoratori e continuità nei servizi» (così il sottosegretario alla funzione pubblica, Angelo Rughetti).
La bozza conferma le destinazioni dei dipendenti provinciali, con qualche novità. Si prevede che i soprannumerari siano ricollocati prioritariamente presso regioni e comuni; si conferma che tra le amministrazioni dello stato il principale ricettore dei dipendenti provinciali sarà il ministero della giustizia. Novità assoluta, invece, è l'inclusione espressa, tra le amministrazioni verso le quali i soprannumerari potranno andare in mobilità, degli enti del servizio sanitario, che invece la circolare interministeriale funzione pubblica-affari regionali n. 1/2015 aveva in sostanza escluso, limitando fortemente le possibilità di ricollocazione.
Il cronoprogramma indicata dalla bozza di decreto riguarderà anche il personale dei corpi di polizia provinciale.
Entro 20 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, le province dovranno inserire nel portale «Mobilità.gov» gli elenchi dei dipendenti in sovrannumero. Entro 40 giorni dalla pubblicazione, regioni, enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e gli enti del Ssn, inseriranno i posti disponibili, in modo che entro 60 giorni, sempre decorrenti dalla pubblicazione in G.U., palazzo Vidoni possa rendere pubbliche le dotazioni disponibili.
A questo punto i dipendenti in sovrannumero (compreso il personale di polizia provinciale e i dipendenti della Croce rossa italiana) avranno 30 giorni di tempo per presentare le istanze di mobilità in relazione all'offerta di posti, compilando il modulo disponibile sul portale «Mobilità.gov». Al fine di favorire l'incontro tra domanda e offerta, lo schema di decreto prevede una serie di criteri. I dipendenti in comando o fuori ruolo verranno prioritariamente assegnati alle amministrazioni in cui prestano servizio.
Analogamente, la polizia provinciale verrà prioritariamente destinata ai comuni con funzione di polizia locale, mentre al ministero delle infrastrutture andranno coloro che nelle province si occupavano della gestione degli albi provinciali degli autotrasportatori. A parte questi criteri particolari, regola generale sarà l'assegnazione dei dipendenti in sovrannumero alle regioni e agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e quelli del Ssn.
Per i lavoratori della Croce rossa, la mobilità sarà verso le amministrazioni statali con priorità per il ministero della giustizia. Sul piano individuale sarà favorito chi gode dei benefici della legge 104/1992 e chi ha figli fino a tre anni di età.
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Assunzioni sbloccate negli enti di area vasta.
Sblocco delle assunzioni a tempo determinato nelle province e via libera ai comuni che in estate hanno la necessità di assumere lavoratori stagionali (in primis vigili urbani) indipendentemente dal completamento delle procedure di mobilità che interesseranno i dipendenti della polizia provinciale. Faranno rotta sulle esigenze delle province e delle città metropolitane, ossia le grandi assenti del decreto legge enti locali, gli emendamenti che governo e relatori presenteranno (forse già tra oggi e domani) al dl 78/2015.
Il provvedimento dovrebbe imbarcare il contenuto di altri due decreti legge attualmente all'esame del senato: il dl su Ilva e Fincantieri (che a sua volta dovrebbe essere diviso in due per confluire in parte nel dl sulle procedure fallimentari e in parte nel dl enti territoriali) e il decreto «Strade sicure». La decisione arriverà oggi dalla conferenza dei capigruppo, anche se appare scontata visto che sono già stati depositati emendamenti governativi in questo senso.
E sempre tra oggi e domani l'esecutivo potrebbe presentare la propria ricetta per risolvere la grana dei dirigenti dell'Agenzia delle entrate dichiarati illegittimi dalla sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale. Sul punto sono stati presentati tre emendamenti dai senatori (due da parte di Giorgio Santini e uno da Paolo Naccarato, si veda ItaliaOggi del 9 luglio) che puntano ad accelerare i concorsi in modo da sanare l'attuale situazione di illegittimità in cui versano i funzionari delegati. Il governo dovrà scegliere quale proposta di modifica avallare per il voto in commissione o, in alternativa, proporre una soluzione alternativa (articolo ItaliaOggi del 15.07.2015).

SICUREZZA LAVOROControlli elusi, scatta la reclusione. La punizione per chi intralcia o evita le verifiche può variare da sei mesi a tre anni.
Sicurezza. La legge 68/2015 contro i delitti ambientali punisce chi ostacola l’attività di vigilanza in materia di lavoro.

Può scattare la reclusione per chi ostacola l’attività di vigilanza in materia di sicurezza e igiene del lavoro. La legge 68/2015, entrata in vigore il 29 maggio, ha introdotto infatti una nuova ipotesi di reato con relativa pena.
Il legislatore, a seguito delle sentenze assolutorie nel processo Eternit, nel dettare articolate disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente, con l’articolo 1 della legge 68/2015 ha introdotto, tra l’altro, nel nostro ordinamento l’articolo 452-septies del codice penale, in base al quale «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisca, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».
La nuova sanzione non opera da sola ma fa da trascinamento perché ad essa, in caso di condanna, consegue la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto del reato o che servirono a commetterlo. Non finisce qui, perché la condanna prevista dall’articolo 452-septies comporta l’applicazione anche dell’articolo 32-quater del codice penale il quale prevede che tale reato commesso in danno o vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa comporta l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
A tali forme sanzionatorie si accompagna, tuttavia, una procedura attenuante (articolo 452-decies) che opera in caso di ravvedimento operoso nei confronti di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a ulteriori conseguenze o mediante la messa in sicurezza o al ripristino dello stato dei luoghi.
Tuttavia si ritiene che il nuovo quadro sanzionatorio introdotto dalla legge 68/2015 non possa trovare applicazione nella normale e ordinaria attività di vigilanza di prevenzione nei luoghi di lavoro, per quanto concerna la sicurezza e l’igiene del lavoro, salvo per l’ipotesi prevista dall’articolo 437 del codice penale (omissione dolosa delle misure di sicurezza) e salvo che non ci sia un infortunio mortale, per cui si procede anche ai sensi dell’articolo 589 del codice penale.
Infatti tutte le violazioni riguardanti la prevenzione infortuni (come quelle indicate nel Dlgs 81/2008, testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), rientrano nella fattispecie dei reati puniti con l’arresto e/o l’ammenda e, per i casi più gravi, a carico dell’imprenditore potrà essere adottata la sospensione dell’attività imprenditoriale nonché il provvedimento interdittivo alla contrattazione con le pubbliche amministrazioni e alla partecipazione a gare pubbliche (articolo 14 del testo unico).
Pertanto l’applicazione del nuovo articolo 452-septies del codice penale, che verte esclusivamente sul comportamento doloso di ostacolo all’attività di vigilanza mediante l’alterazione artificiosa dello stato dei luoghi e degli impianti sembra paradossale, dal momento che il soggetto rischia almeno sei mesi di reclusione oltre le varie pene accessorie di cui si è fatto cenno, per sottrarsi a una eventuale pena per un reato a cui corrisponde una contravvenzione che il più delle volte può essere definita in sede amministrativa a seguito di prescrizione obbligatoria ai sensi del Dlgs 758/1994.
Procedura che, ai sensi della legge 68/2015 (articolo 1, comma 9) viene estesa alle contravvenzioni previste e punite dal Dlgs 152/2006, per cui ora anche per i reati ambientali di minore allarme sociale rispetto a quelli introdotti dalla legge 68/2015, sarà possibile definire le eventuali contravvenzioni mediante l’adempimento alla prescrizione e al pagamento dell’ammenda nella misura pari a un quarto del massimo dell’importo stabilito per la violazione commessa
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIFerie lunghe a fronte di decadenze corte. Tar e CdS. La sospensione estiva.
La durata della sospensione feriale dei termini nei processi davanti ai Tar e al Consiglio di Stato è regolata con una disposizione specifica contenuta nel Codice del processo amministrativo varato nel 2010: l’articolo 54, comma 2, che la prevede dal 01.08. al 15 settembre di ogni anno.
In precedenza la stessa sospensione, della medesima durata, era regolata dall’articolo 1 della legge 742/1969, disposizione espressamente riferita alle giurisdizioni ordinarie ed amministrative. Quest’ultima disposizione nel corso del 2014 è stata modificata dal Dl 132/2014, convertito dalla legge 162/2014.
La novella ha ristretto il periodo di sospensione di 15 giorni, limitandolo al mese di agosto. In tale occasione il legislatore ha operato la modifica incidendo solo sulle date e quindi senza occuparsi dell’ambito oggettivo di applicazione (cioè lasciando nel testo letterale della norma modificata il riferimento alle giurisdizioni amministrative).
Questa dimenticanza -o piuttosto imperfezione redazionale- ha fatto dire a qualche commentatore che la norma del 2014 avrebbe tacitamente abrogato, in questa parte, il regime posto dal Codice del processo amministrativo. Si tratta peraltro di una posizione che non tiene conto di alcuni elementi formali e di un importante argomento sostanziale.
È pacifico l’effetto abrogativo che l’articolo 54, comma 2, del Codice ha operato sulla disposizione del 1969, nella parte in cui estendeva ai giudizi avanti ai Tar e al Consiglio di Stato il regime della sospensione feriale dei termini vigente per le giurisdizioni ordinarie. Questa abrogazione infatti risponde al principio posto dall’articolo 15 delle preleggi, che dispone questo effetto nel caso in cui la nuova legge regoli l’intera materia già regolata dalla legge anteriore.
Ne consegue che, a partire dal luglio 2010 e cioè dal momento in cui i processi amministrativi hanno trovato una nuova e specifica disciplina organica, si è avuta un’autonoma disciplina, in questo specifico settore, anche della sospensione dei termini. Il che fa sì che non si possa oggi parlare, con fondamento, di una sorta di abrogazione di una norma abrogatrice, evento che del resto la giurisprudenza pacificamente esclude se non nei caso in cui sia espressamente disposta dal legislatore.
Resta poi l’argomento sostanziale che giustifica un trattamento diverso e più favorevole, per questo aspetto, per il cittadino che deve rivolgersi ai giudici amministravi, in quanto in questo campo vige la regola della decadenza del diritto d’azione nel ben più ristretto termine di 60 giorni (in alcune materie ridotto a 30 giorni), rispetto a margini temporali più lunghi previsti per la prescrizione nelle materia di competenza del giudice civile (tre, cinque o dieci anni).
In altri termini: l’interruzione feriale breve, che il legislatore ha voluto disporre nel civile, se fosse stata estesa all’amministrativo (il che peraltro non è per le ragioni dette) avrebbe rischiato di compromettere il diritto di difesa nei confronti degli atti della pubblica amministrazione. La soluzione che qui si sostiene è quindi anche quella che appare maggiormente conforme ai principi costituzionali
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALIGestioni associate, altro che riforma L'Anci chiede ancora proroghe, poi si vedrà.
Sì alle gestioni associate. Ma con una nuova normativa e non prima del 2017.

È questa la richiesta contenuta nel Manifesto approvato XV Conferenza nazionale dei piccoli comuni, che si è svolta la settimana scorsa al Teatro Massimo di Cagliari. È dal 2010 che la legge impone ai mini enti di associarsi (tramite unioni o convenzioni) per svolgere le proprie funzioni fondamentali (come istruzione, trasporti, raccolta rifiuti ecc.), ma finora i risultati sono pressoché nulli, come certificato anche dalla Corte dei conti. Anche perché, nel frattempo, sono intervenute svariate proroghe.
L'ultimo rinvio è stato disposto all'inizio dell'anno (dal dl 192/2015) e ha spostato la dead-line al prossimo 31 dicembre. Questo tempo, secondo quanto scritto di proprio pugno dal governo nella relazione di accompagnamento allo stesso dl 192, sarebbe dovuto servire per riscrivere la normativa che regola la materia, ma finora non si è visto nulla.
Come uscirne? In prima battuta, naturalmente, con una nuova proroga, da inserire già nella legge di conversione del dl 78/2015. E poi con una disciplina nuova di zecca, che preveda la «definizione di ambiti adeguati e omogenei» entro i quali realizzare «processi di riorganizzazione territoriale per rafforzare la rappresentanza degli enti, la capacità progettuale, quella dell'offerta dei servizi ai cittadini e alle imprese».
In tali ambiti, dovrebbe essere prevista la gestione associata di non meno di tre funzioni fondamentali, contro le dieci attualmente interessate dall'obbligo.
A ridisegnare la mappa della pa locale dovrebbe essere un «Comitato permanente per il coordinamento dei processi di riorganizzazione territoriale del sistema dei comuni», chiamato a chiudere i lavori entro 12 mesi dall'insediamento. Considerato che, come dichiarato a Cagliari dal presidente dell'Anci, Piero Fassino, se ne parlerà nella prossima legge di stabilità, è chiaro che per vedere qualche risultato dovremo aspettare il 2017. Insomma, chi si aspettava un'accelerazione, anche in un'ottica di spending review, è destinato a rimanere nuovamente deluso.
Inoltre, secondo il Manifesto, dovrebbero essere cancellate le soglie demografiche minime dei nuovi soggetti (che oggi sono fissate a 10.000 abitanti in pianura e a 3.000 in montagna) e che secondo i sindaci rappresentano «un ostacolo alla costruzione di processi associativi funzionali ed efficaci» (articolo ItaliaOggi del 14.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aua con declinazione locale. Vale la versione redatta da regioni e province autonome. Dal 30.06.2015 nuova modulistica standard per l'autorizzazione unica ambientale.
Dal 30.06.2015 le istanze di rilascio, rinnovo e modifica dell'autorizzazione unica ambientale devono essere presentate utilizzando il nuovo modello predisposto dalle amministrazioni locali sulla base di quello previsto dal Dpcm 08.05.2015.
Con tale regolamento (pubblicato sulla G.U. del 30.06.2015, n. 149) il governo ha, infatti, definito il modello semplificato e unificato per l'attivazione della nota Aua, l'istituto che dal 2013 sostituisce (per le imprese non soggette ad Aia o Via) i titoli abilitativi previsti dal dpr 59/2013 in materia di aria, acqua, rifiuti, rumore ed emissioni in atmosfera, più gli eventuali altri titoli ambientali aggiunti da regioni e province autonome.
Il nuovo modello unificato. La nuova modulistica nazionale, adottata in attuazione dell'articolo 10 del citato dpr 59/2013, è composta da: un modello di domanda (identificativo di gestore, referente Aua, ente/persona giuridica sottesa, impianto/attività da abilitare; titoli richiesti ed eventuali autorizzazioni già ottenute); schede relative ai singoli titoli abilitativi richiesti (da allegare, compilati, all'istanza); elenco dell'ulteriore e specifica documentazione che deve accompagnare le citate schede (con facsimile delle relazioni tecniche da presentare).
Ove l'impianto da autorizzare rientri tra quelli oggetto di verifica preliminare di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale ex dlgs 152/2006, dovranno altresì essere indicati gli estremi del provvedimento che all'esito di detto «screening» hanno sancito l'esclusione dalla Via.
Tra le informazioni richieste appaiono anche le certificazioni ambientali volontarie delle quali si è in possesso (tra le quali potranno dunque essere dichiarate quelle Emas o Ecolabel). In sede di rinnovo dell'Aua, qualora siano immutate le condizioni di esercizio alla base dei precedenti titoli, il modello d'istanza contempla (in ossequio alla previsione dell'articolo 5, dpr 59/2013) la possibilità di autocertificare l'invarianza della situazione con l'indicazione delle abilitazione già detenute, evitando quindi l'onere di dover presentare le specifiche summenzionate schede.
Sebbene il nuovo modello unificato introduca una standardizzazione a livello nazionale delle informazioni richieste, la versione cui fare operativamente riferimento all'atto della presentazione dell'istanza Aua è, come anticipato, quella declinata in base alla specifica normativa locale da parte della regione o della provincia autonoma nel cui territorio ha sede l'azienda interessata (le quali potranno integrarla anche con gli ulteriori titoli abilitativi rilasciabili).
I titoli sostituiti. L'Aua sostituisce sette titoli abilitativi previsti dall'articolo 3, comma 1, del dlgs 59/2013 più quelli aggiunti dalle singole regioni e province autonome.
Rientrano tra i primi (ora declinati nelle schede allegate al nuovo modello ex Dpcm 08.05.2015): l'autorizzazione agli scarichi di acque reflue ex dlgs 152/2006; la comunicazione preventiva per utilizzo agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del settore ex dlgs 152/2006; l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex articolo 269, dlgs 152/2006; l'«autorizzazione generale» per le emissioni scarsamente rilevanti in aria ex articolo 272, dlgs 152/2006; la comunicazione o nulla osta alle emissioni sonore ex legge 447/1995 da parte degli impianti produttivi, sportivi, ricreativi commerciali; autorizzazione per utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura ex dlgs 99/1992; la comunicazione per smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura semplificata ex dlgs 152/2006.
Soggetti interessati. A essere interessati dall'Aua sono le tre categorie di soggetti contemplate dal dpr 59/2013, ossia: piccole e medie imprese rientranti nei parametri disegnati dal dm 18.04.2005; imprese non soggette ad Autorizzazione integrata ambientale (c.d. «Aia»); imprese obbligate a valutazione di impatto ambientale solo «parziale» (ossia da integrare con altri e necessari atti autorizzatori).
Con circolare 07.11.2013 n. 49801, lo ricordiamo, il Minambiente ha già chiarito che in base a tale disposto normativo l'Aua interessi ogni impresa che, indifferentemente dalle dimensioni, non soggiaccia agli speciali regimi Aia o Via totale.
Ancora, in relazione alla necessità o meno di ricorrere all'Aua, lo stesso Dicastero ha precisato come, alla luce delle deroghe espressamente previste dagli articoli 3 e 7 del dpr 59/2013, il ricorso allo strumento dell'autorizzazione unica sia meramente facoltativo per gli impianti interessati esclusivamente a «comunicazione» e/o ad «autorizzazione generale alle emissioni» e per quelli che intendano unicamente aderire alla citata «autorizzazione generale alle emissioni».
Indirizzo e tempistica istanze. Domande di rilascio e rinnovo dell'Aua devono essere indirizzate direttamente al Suap territoriale di riferimento (lo Sportello unico delle attività produttive di competenza comunale) che provvede poi al rilascio del titolo unico previo concerto con le relative Autorità competenti (individuate dalla legislazione regionale).
Queste le tempistiche: per il rilascio, domanda entro la scadenza (indicata dalla relativa normativa di riferimento) del primo dei titoli abilitativi rientranti nell'«Aua» e comunque prima di effettuare modifiche sostanziali dell'attività o degli impianti; per rinnovo, domanda almeno sei mesi prima della scadenza della precedente Aua (che ha validità di quindici anni, salve le comunicazioni intermedie da effettuare secondo le specifiche attività poste in essere, come ricordato anche nel nuovo modello unificato); per modifiche ad attività o impianti, presentazione di preventiva nuova domanda Aua (secondo l'opzione prevista dalla nuova modulistica) o comunicazione a seconda che le variazioni siano da considerarsi, rispettivamente, sostanziali o meno.
Sono modifiche sostanziali quelle definite tali dalla specifica normativa (anche locale) di riferimento e quelle eventualmente reputate tali dallo stesso soggetto instante (che può, a monte, optare direttamente per la presentazione di nuova domanda Aua).
La comunicazione per le mere modifiche non sostanziali non legittima tuttavia l'immediata esecuzione delle stesse, essendo dal dpr 59/2013 condizionate al rispetto di un termine temporale: se la p.a. ritiene che le modifiche comunicate siano definirsi sostanziali, può infatti entro 30 giorni ordinare al gestore di presentare nuova domanda di Aua, subordinando la loro esecuzione al rilascio dell'autorizzazione; solo se la p.a. non fornisce alcuna risposta entro 60 giorni dalla comunicazione è invece legittimo procedere alle variazioni in parola (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, responsabilità estesa. Ampliate le nozioni di produttore e deposito temporaneo. Le modifiche del dl 92/2015. Obbligato al controllo chi affida a terzi la generazione.
Responsabili per la corretta gestione dei rifiuti sono anche i soggetti che, pur non producendoli materialmente, omettono dovuti controlli su terzi cui hanno affidato, nel proprio interesse, attività che ne comportano la generazione.

A estendere la definizione di «produttore di rifiuti» recata dal Codice ambientale alle persone cui la generazione di rifiuti sia anche solo «giuridicamente riferibile» è il decreto legge 04.07.2015 n. 92 che parallelamente amplia anche il raggio d'azione del connesso istituto del «deposito temporaneo di rifiuti» previsto dal medesimo dlgs 152/2006.
L'estesa nozione di produttore di rifiuti.
Il dl 92/2015 (pubblicato sulla G.U. del 04.07.2015 e in vigore dalla stessa data) rimodula la definizione di produttore iniziale di rifiuti recata dalla prima parte della lettera f), comma 1, articolo 183, del dlgs 152/2006, specificando come debba intendersi tale, oltre al «soggetto la cui attività produce rifiuti» anche quello cui (testualmente) sia «giuridicamente riferibile detta produzione».
Il provvedimento pare dunque allineare la definizione del dlgs 152/2006 all'indirizzo giurisprudenziale che (già sotto il precedente dlgs 22/1997 e ora sub Codice ambientale) ritiene produttore di rifiuti non solo il soggetto che materialmente li genera, ma anche la persona (fisica o giuridica) nel cui interesse tale attività di generazione viene effettuata (come evincibile dalla sentenza della Corte di cassazione 21.01.2000 n. 4957, da ultimo ripresa nella sentenza 10 febbraio 5916/2015).
La formalizzazione legislativa della figura del «produttore giuridico» di rifiuti appare promettere come principali conseguenze: il secco riconoscimento della qualifica di produttore di rifiuti in capo al soggetto che contrattualmente ne affidi la materiale generazione ad altri come normalmente avviene, per esempio, nella commissione di lavori edili; in stretta conseguenza, la responsabilità dello stesso soggetto per l'eventuale illecita gestione dei residui condotta dai terzi affidatari nel caso dell'omesso ma esigibile controllo sulla loro attività.
Come già evidenziato dalla stessa giurisprudenza, una posizione di garanzia con obbligo di attivarsi per impedire possibili illeciti di terzi (ex articolo 40 del Codice penale) è infatti rinvenibile in capo al produttore di rifiuti (oggi sia materiale che giuridico) ai sensi della disciplina sui rifiuti, e in termini di onere non trasferibile contrattualmente.
Già alla luce del citato dlgs 22/1997 e con sostanziale continuità normativa negli articoli 178 e 188 del dlgs 152/2006, la disciplina di settore, rispettivamente, sancisce infatti (in linea generale) la «responsabilizzazione e ( ) cooperazione di tutti i soggetti» coinvolti nella produzione e gestione dei rifiuti e (in linea particolare) prescrive gli oneri di produttori e detentori, ai quali impone di affidare la gestione dei rifiuti a soggetti autorizzati e (in relazione a particolari fattispecie) di effettuare un riscontro documentale sull'effettivo buon fine del loro trasporto.
Sebbene di primaria rilevanza nell'ambito dei rapporti d'impresa (fondati su contratti di appalto), la nuova definizione legale di «produttore giuridico di rifiuti» (con i connessi obblighi di vigilanza e controllo) appare potenzialmente coinvolgere anche l'agire di altri soggetti, prospettandosi pure per il mero proprietario di un'immobile abitativo che vorrà procedere a una ristrutturazione (quale potenziale produttore, appunto, «giuridico» di rifiuti) l'onere di prestare maggiore attenzione nella scelta del soggetto affidatario dei lavori che effettivamente (quale produttore «materiale») genererà fisicamente i residui e si occuperà della loro gestione.
L'allargato deposito temporaneo di rifiuti. Con un duplice intervento sul Codice ambientale il legislatore del dl 92/2015 ha altresì rivisitato, allargandone il campo applicativo, anche la nozione nazionale di deposito temporaneo di rifiuti, attività (lo ricordiamo) propria del produttore di rifiuti e conducibile ex articolo 208 del dlgs 152/2006 senza necessità di preventiva autorizzazione a condizione che vengano rispettate precise prescrizioni dettate dallo stesso Codice ambientale.
In primo luogo, viene trasposta nel dlgs 152/2006 la nozione di «deposito preliminare alla raccolta», definizione mutata dalla direttiva 2008/98/Ce che lo identifica nell'attività (rientrante in quella più generale della raccolta) di «deposito in attesa della raccolta in impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero o smaltimento» (indicandolo, in via alternativa, con il termine «deposito temporaneo» e distinguendolo anche dal punto di vista autorizzativo dal deposito di rifiuti in attesa del trattamento).
Suddetta nozione Ue di «deposito preliminare alla raccolta» (peraltro già inserita nell'Ordinamento nazionale tramite il dlgs 49/2014 in materia di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) è pedissequamente alla logica della direttiva 2008/98/Ce trasposta dal dl 92/2015 in due punti del Codice ambientale (con l'evidente fine di adattare quest'ultimo al dettato comunitario), ossia: nella lettera o), comma 1, articolo 183, del dlgs 152/2006 (recante la definizione di «raccolta» di rifiuti); nella successiva lettera bb) dello stesso comma (recante la definizione nazionale di «deposito temporaneo»).
In secondo luogo, tramite un ulteriore intervento sulla stessa definizione di «deposito temporaneo» ex articolo 183 del dlgs 152/2006, viene estesa la portata di quest'ultimo allo stoccaggio effettuato sull'«intera area in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti».
Ciò che deriva dal doppio intervento legislativo è dunque un'estesa nozione di «deposito temporaneo» ora coincidente (secondo il rinnovato testo del Codice ambientale) con «il raggruppamento dei rifiuti effettuato e il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, da intendersi quale l'intera area in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti».
Immutate restano le altre condizioni che consentono al produttore di rifiuti di effettuare tale stoccaggio in deroga al citato regime autorizzatorio, le quali continuano a essere: quelle relative alla quantità e qualità dei rifiuti ammissibili, al tempo di giacenza, alla organizzazione tipologica del materiale (come previsto dalla seconda parte della citata lettera bb), comma 1, articolo 183, del dlgs 152/2006); quelle di prevenzione ambientale, tra cui i limiti alla miscelazione dei rifiuti pericolosi, previste dalle altre disposizioni dello stesso Codice.
Le disposizioni «salva impianti» Aia. Con il dl 92/2015 arrivano infine disposizioni per evitare il possibile blocco dei nuovi stabilimenti industriali autonomi (tra cui ben possono figurare quelli che gestiscono rifiuti) rientranti nella disciplina sull'autorizzazione integrata ambientale alla luce delle modifiche introdotte dal dlgs 46/2014 nel dlgs 152/2006: il dl 92/2015 consente loro la prosecuzione delle attività in base alle autorizzazioni previgenti anche se, spirata la data dello scorso 07.07.2015, ancora non hanno ottenuto il dovuto rilascio dell'Aia da parte delle competenti Autorità (nel presupposto, sotteso, che ne abbiano fatto richiesta entro la deadline dello scorso 07.09.2014).
La disposizione segue l'intervento effettuato dal Minambiente con la nota 17.06.2015, laddove con un'interpretazione estensiva della stessa normativa si è chiarito che non subivano la citata deadline del 07.07.2015 i nuovi impianti funzionalmente collegati ad altre installazioni già soggette ad Aia (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Assicurazione per amministratori locali.
Consentire agli enti locali di assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato, prevedendo il rimborso delle spese legali da essi sostenute.
È quanto si propone uno degli emendamenti al decreto «enti locali» (dl 78/2015) presentato dall'Anci. Ricordiamo che il provvedimento è all'esame del senato e giovedì scorso è scaduto il termine per la presentazione dei correttivi.
Fra quelli presentati dall'Associazione dei comuni, ce n'è uno che punta a modificare il comma 5 dell'art. 86 del Tuel. Tale norma, nel testo attualmente vigente, recita: «I comuni, le province, le comunità montane, le unioni di comuni e i consorzi fra enti locali possono assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato».
Tale disciplina risulta alquanto carente, a differenza di quanto accade, ad esempio, per il personale dipendente, cui si applica l'art. 28 del Ccnl del Comparto regioni autonomie locali 14/09/2000. Sono quindi insorte notevoli incertezze applicative circa la possibilità di prevedere coperture assicurative per le spese legali sostenute dagli amministratori, anche qualora coinvolti in procedimenti giurisdizionali con esito assolutorio.
In materia, inoltre, esistono orientamenti giurisprudenziali contrastanti che se da una parte consentono l'estensione del citato art. 28 Ccnl anche ai politici (Consiglio di stato, sez. VI, sentenza n. 5367/2004), dall'altra ritengono invece applicabile per analogia quanto previsto dall'art. 1720 del codice civile, che regola il rapporto fondamentale esistente tra mandante e mandatario e l'obbligo del primo di risarcire le spese e i danni subiti dal secondo per l'espletamento dell'incarico ricevuto (Consiglio di stato, Sez. V, sentenza n. 2242/2000 e Consiglio di stato –Sez. III– parere n. 792/2004).
Sono intervenute inoltre alcune sezioni regionali della Corte dei conti –tra le quali, quella per la Lombardia, con il parere n. 86/2012 e quella per la Puglia, con la sentenza n. 787/2012– che hanno affermato con decisione la validità del riferimento normativo di cui all'art. 1720 c.c., quale presupposto fondante il diritto al rimborso delle spese legali a favore degli amministratori locali.
Con l'emendamento proposto, invece, verrebbe introdotta una disciplina compiuta, che consentirebbe il rimborso in presenza delle seguenti condizioni: 1) assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato; 2) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; 3) conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione; 4) assenza di dolo o colpa grave; 5) emanazione di un provvedimento di archiviazione.
In tal modo, si potrebbe restituire maggiore certezza all'intera materia, colmando definitivamente un vuoto normativo causa di disparità di trattamento e che rischia di rappresentare un forte disincentivo a ricoprire incarichi al servizio della collettività (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sui vigili stagionali la lettera di Madia complica le cose.
Una toppa peggiore del buco. La lettera 09.07.2015 n. 842 di prot. con la quale il ministro della pubblica amministrazione risponde al presidente dell'Anci sul problema del divieto di assumere vigili stagionali introdotto dal dl 78/2015 (noto come
«decreto enti locali») oltre a non risolvere la questione si presenta come un inedito invito a violare le disposizioni di legge.
Non si può definire altrimenti il passaggio nel quale l'inquilina di palazzo Vidoni invita i comuni a «valutare autonomamente se adottare soluzioni, in ambiti assolutamente circoscritti, che anticipino l'auspicato intervento normativo».
Come se, cioè, fosse lecito per i comuni assumere i vigili stagionali vigente il divieto assoluto imposto attualmente dall'articolo 5 del dl 78/2015, sulla base di una mera lettera del ministro della Funzione pubblica che ventila la possibilità di anticipare una modifica normativa ancora non esistente.
Una sorta illegittimità di «modica quantità», basata sull'inedita fonte giuridica costituita da una missiva.
La lettera di palazzo Vidoni appare l'ennesima conferma del caos inestricabile che attanaglia ed avvita su se stessa la riforma delle province.
Il dl 78/2015, era atteso già da marzo come correttivo ai guai che ha creato a province e comuni la legge 190/2014, col suo sistema mal congegnato di blocco delle assunzioni per favorire una ricollocazione fin qui assolutamente fallimentare dei 20 mila dipendenti provinciali in sovrannumero. Dal «decreto enti locali» ci si aspettava chiarezza sulla possibilità, per i comuni, di assumere figure non reperibili presso le province, come in particolare assistenti sociali e educatori negli asili nido e scuole materne, oltre ad altri correttivi alla disgraziata legge di stabilità del 2015.
Ma approvato con estremo ritardo rispetto alle attese, la stesura finale conteneva la sorpresa: niente soluzioni per le assunzioni delle figure professionali necessarie ai comuni (a questo ci ha dovuto pensare la Sezione Autonomie della Corte dei conti) e perfino l'irrigidimento del blocco delle assunzioni per i vigili nei comuni. Gli estensori del dl 78/2015, pensando di poter risolvere problemi complessi con soluzioni semplici, hanno ritenuto di forzare la ricollocazione dei vigili provinciali presso i comuni vietando ai comuni stessi di assumere vigili stagionali.
Un paradosso. I comuni assumono vigili a tempo determinato per esigenze stagionali non per capriccio, ma perché reclutare personale a tempo indeterminato per fabbisogni limitati nel tempo oltre che assurdo sarebbe anche danno erariale. Da giorni i sindaci invitano il governo a correggere il tiro, attraverso la strada maestra e unica della modifica urgente al dl 78/2015.
L'unico riscontro avuto è, invece, la lettera del ministro Madia che oltre a invitare a violare il divieto di assumere gli stagionali indica anche l'ovvio: «Un intervento normativo potrebbe consentire, in presenza di esigenze temporalmente circoscritte ed eccezionali connesse con i flussi stagionali, di ricorrere a personale di polizia stagionale». Cioè esattamente ciò che chiedono i sindaci, ma che il governo, per solito molto sollecito ad adottare decreti legge di urgenza, non ha deciso di fare, affidandosi ad una «lettera».
Tutto ciò che resta in mano ai sindaci, dunque, altro non è se non l'indiretta ammissione del ministro Madia dell'inidoneità del dl 78/2015 a risolvere i problemi di comuni e province e la speranza che la lettera da intento si trasformi in emendamento, per eliminare il divieto di assumere gli stagionali. Quando però la stagione turistica, iniziata da settimane, sarà agli sgoccioli (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, per la Super Dia pronto il modulo unico. Semplificazioni. Alla Conferenza unificata l’alternativa al permesso di costruire.
Semplificazioni in edilizia, il Governo accelera. Dopo il modulo unico per Scia e permesso di costruire, è pronto quello per la cosiddetta «Super Dia», ovvero la Dia alternativa al permesso di costruire.
Il tavolo di semplificazione istituito presso il ministero guidato da Marianna Madia ha infatti completato il lavoro sullo schema unico per la Super Dia e ha trasmesso alla Conferenza Unificata il testo dell’accordo tra Regioni, enti locali, Anci e Upi che dovrà essere ratificato dalla Conferenza.
Il testo non è ancora all’ordine del giorno, ma i tecnici ministeriali assicurano che sarà calendarizzato nella prima seduta utile e, soprattutto, che l’accordo esiste già e, dunque, la ratifica avverrà senza sorprese. Dalla riunione scatteranno i 90 giorni entro i quali la nuova modulistica dovrà essere adottata dalle Regioni e dai Comuni nei quali lo strumento è previsto.
Il modulo unico per la super Dia arriva dopo le standardizzazioni di Scia, permesso di costruire, Cil, Cila e Aua, realizzate dal Governo secondo la tabella di marcia riportata nell’Agenda per la semplificazione definita dal Governo e condivisa con Regioni e Comuni nell’intesa sancita in Conferenza unificata il 13.11.2014.
E ora l’Esecutivo punta all’obiettivo più ambizioso: il regolamento edilizio comunale unico che dovrebbe essere varato entro la fine dell’anno. La super Dia si può utilizzare in alternativa al permesso di costruire nei casi di nuove costruzioni, ristrutturazioni edilizie pesanti, ristrutturazioni urbanistiche
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ecco il modulo per la super Dia. Pronto il modello unico nazionale per le attività edilizie. Il formulario in Conferenza unificata per il via libera. Sostituisce il permesso di costruire.
Pronto il modello unico nazionale per la super Dia, cioè la Dia alternativa al permesso di costruire, utilizzata in molte regioni. La super Dia potrà essere utilizzata in luogo del permesso di costruire in tre diversi tipi di interventi: ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica.
Le regioni e i comuni avranno 90 giorni per adeguarsi alla modulistica standardizzata.

Lo schema unico per la super Dia è stato completato dal tavolo di semplificazione istituito presso il ministero per la semplificazione diretto da Marianna Madia. La modulistica e il testo dell'accordo tra regioni, enti locali, Anci e Upi sono stati inviati in conferenza unificata per ottenere il placet.
L'approvazione della super Dia si inserisce nel percorso di semplificazione in materia edilizia. L'azione semplificazione infatti prevede la sostituzione degli oltre 8.000 moduli (almeno uno per comune) utilizzati per la presentazione delle pratiche edilizie con un unico modulo (da adeguare, dove necessario, alle specificità regionali), al fine di agevolare l'informatizzazione delle procedure e la trasparenza nei confronti di cittadini e imprese.
Con l'accordo siglato il 12.06.2014 tra governo, regioni ed enti locali in Conferenza unificata sono stati già approvati i moduli unificati e semplificati per la presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (Scia) edilizia e la richiesta del permesso di costruire.
L'azione di snellimento delle pratiche edilizie prevede la predisposizione dei modelli per la presentazione della comunicazione di inizio lavori per interventi in edilizia libera, della agibilità, della «super Dia» e delle specifiche tecniche per la gestione telematica dei modelli unici, la predisposizione delle istruzioni per l'uso dei modelli che forniscono una guida per cittadini e imprese e l'adozione dei moduli semplificati (compresi quelli già predisposti per la Scia e il permesso di costruire) da parte delle regioni e dei comuni.
Tre diversi tipi di interventi. La super Dia potrà essere utilizzata in luogo del permesso di costruire in tre diversi tipi di interventi: ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica.
Ristrutturazione edilizia. In alternativa al permesso di costruzione sarà possibile utilizzare la super Dia nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un immobile in tutto o in parte diverso dal precedente. Potrà inoltre essere utilizzata nel caso in cui la ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso.
Ristrutturazione urbanistica. In questo caso la super Dia potrà essere impiegata qualora gli interventi siano disciplinati da piani attuativi, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.
Nuova costruzione. Gli interventi relativi a nuova costruzione potranno essere realizzati con la super Dia anziché con il permesso di costruire qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche (articolo ItaliaOggi del 10.07.2015).

ENTI LOCALI: Compensi tagliati, decide il Tar. Impugnata la delibera di nomina che riduce gli stipendi. L'Ancrel ha pagato le spese legali ai revisori scelti dal comune di Pescantina (Vr).
Detto, fatto. L'Ancrel ha incaricato a proprie spese i due avvocati amministrativisti Christian Chiarello e Andrea Coronin (chiarello@studiolegalecfgs.com) di Legnago a presentare ricorso al Tar di Venezia per conto dei tre revisori nominati circa due mesi fa dal comune di Pescantina, in provincia di Verona.
I legali chiedono, per conto dei loro assistiti, di sospendere l'efficacia della delibera di nomina dei revisori dei conti dell'ente in quanto carente di motivazione.
Ma ricostruiamo i fatti. Il consiglio comunale del comune di Pescantina delibera in data 23.04.2015 la nomina i tre revisori che la prefettura di Verona aveva comunicato a seguito di estrazione, per il triennio 2015/2018. Con la stessa delibera il consiglio determina il compenso spettante ai componenti dell'organo di controllo riconoscendo loro meno di quanto veniva riconosciuto ai revisori del triennio precedente, ma addirittura meno di quanto previsto di compenso massimo per i revisori di enti appartenenti alla fascia demografica inferiore.
I nuovi revisori fanno presente all'amministrazione che rispetto al passato hanno maggiori adempimenti oltre ad una situazione generale precaria dell'ente dovuta alle conseguenze post sequestro di una discarica e ad una difficile situazione con la partecipata Pescantina servizi, situazione che in passato ha già comportato uno stato di pre-dissesto finanziario, con prescrizioni di monitoraggio straordinario da parte dalla Corte dei conti e conseguenti ulteriori adempimenti in capo ai revisori.
Sostengono, i nuovi revisori, che quanto riconosciuto ai loro predecessori era già poco, se si tiene conto che i limiti massimi dei compensi spettanti all'organo di controllo previsti dal dm del 20.05.2005, non sono mai stati aggiornati, anche se la legge (art. 241, dlgs 267/2000) ne prevedesse la revisione triennale. Sono già saltati, pertanto, tre aggiornamenti da allora.
Nella delibera di nomina, in realtà, non potendo trovare altra motivazione valida per giustificare la riduzione dei compensi, tenuto conto appunto che gli adempimenti sono aumentati e non diminuiti, si commenta la riduzione applicata richiamando il dl 78/2010, ove la norma prevede il taglio del 10%, sottolineando che la riduzione è superiore al taglio previsto. Ma l'art. 6 del dl 78/2010 non è applicabile agli enti locali, come è stato sancito nel parere 4/2104 della sezione delle autonomie della Corte dei conti.
Infatti, la disposizione di cui al dl 78/2010 si riferisce genericamente alle pubbliche amministrazioni di cui al comma III dell'art. 1 della legge 196/2009 (che non contiene in realtà alcuna indicazione concreta di quali siano le pubbliche amministrazioni, facendo rinvio ad un rilievo da effettuarsi annualmente a cura dell'Istat), «fermo restando quanto previsto dall'art. 1, comma 58, della legge 23.12.2005, n. 266».
Cioè trattasi di disposizione integrativa di quella originaria della finanziaria 2005 cioè di una norma che pur richiamando le amministrazioni di cui all'art. 1, comma II, del dlgs 165/2001, non era applicabile agli enti locali territoriali come disponeva espressamente il successivo art. 1, comma 64, della legge 266/2005.
Manca quindi la motivazione nella delibera. E come sostiene il magistrato della Corte dei conti del Veneto Tiziano Tessaro, nel suo libro La redazione degli atti amministrativi del comune dopo l'armonizzazione contabile (Maggioli Editore – giugno 2015) a pagina 90, in merito ai casi di illegittimità degli atti, con riguardo all'elemento della forma, è necessario ricordare come l'obbligo di motivare sufficientemente i provvedimenti ed in generale gli atti amministrativi adottati con riguardo ai presupposti di fatto e alle norme di diritto che ne giustificano l'adozione sia stata consacrata nel disposto dell'art. 3 della legge n. 241/1990.
Tale obbligo, se violato, costituisce uno dei motivi, tra l'altro assai frequente, di vizio degli atti per violazione di legge. Sembra chiaro, pertanto, che l'efficacia della delibera in questione sia da sospendere in quanto illegittima (articolo ItaliaOggi del 10.07.2015).

ENTI LOCALI: Organo collegiale o monocratico? Conta lo stato di salute dell'ente.
La proposta di modifica normativa sulla composizione collegiale o monocratica dell'organo di revisione in relazione non alla popolazione residente, ma bensì all'entità delle entrate correnti e alle situazioni di crisi finanziaria sembra di estrema attualità con i nuovi compiti assegnati dalle recenti normative.
In particolare i nuovi compiti sono riferiti:
- al parere sul ripiano del disavanzo di amministrazione al 31/12/2014 entro la durata della consiliatura, e la controfirma del report semestrale da presentare al consiglio sullo stato di attuazione del piano di rientro;
- al parere sulla modalità di copertura del maggior disavanzo all'01/01/2015;
- la segnalazione alla Corte dei conti e al prefetto della mancata adozione della delibera consiliare sulle modalità di ripiano;
- la verifica in sede di relazione al rendiconto della quota effettivamente ripianata;
- la verifica della corretta applicazione della quota di ripiano nel parere sul bilancio preventivo.
Per gli enti tenuti al ripiano del disavanzo come per quelli soggetti al piano di risanamento le funzioni dell'organo di revisione diventano più delicate e complesse e non sempre possono essere affrontate da un organo monocratico.
Disavanzo e maggior disavanzo. Disavanzo e maggior disavanzo sono due entità distinte e la norma prevede tempi e modalità diverse di ripiano. Il disavanzo di amministrazione al 31/12/2014, accertato ai sensi dell'art. 186 del Tuel, può essere ripianato negli esercizi successivi considerati nel bilancio di previsione, in ogni caso non oltre la durata della consiliatura. Ripiano, pertanto, in un periodo massimo di tre anni (periodo breve) con penalizzazione per gli enti con la scadenza della consiliatura vicina. Il maggior disavanzo è invece quello derivante dalle operazioni di riaccertamento straordinario e dal primo accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità.
In particolare come indicato nel decreto del Mef del 02/04/2015 per gli enti non in sperimentazione il maggior disavanzo è pari a valore negativo indicato nella voce «totale parte disponibile» del prospetto di cui all'allegato 5/2 al dlgs 118/2011, se il risultato di amministrazione al 31/12/2014 era positivo o pari a zero, oppure alla differenza algebrica se il risultato di amministrazione al 31/12/2014 era negativo. Il ripiano del maggior disavanzo è possibile effettuarlo in quote costanti per un periodo massimo di 30 anni (periodo lungo).
La diversa periodicità del ripiano potrebbe portare gli enti ad aumentare l'entità del maggior disavanzo. L'eliminazione di residui attivi insussistenti o totalmente inesigibili al 31/12/2014, può portare ad un disavanzo da ripianare entro un massimo di tre anni. L'eliminazione degli stessi residui al 01/01/2015 porta invece a un maggior disavanzo da ripianare in 30 anni.
La sottostima di un residuo attivo all'01/01/2015, può consentire di ripianare il disavanzo in 30 anni con effetti positivi nel successivo riaccertamento.
La manovra tesa a evidenziare un «maggior disavanzo» doveva essere censurata nella relazione dell'organo di revisione al rendiconto 2014 o nel parere sul riaccertamento straordinario dei residui.
Se il rilievo non è stato fatto, in presenza di residui attivi erroneamente mantenuti al 31/12/2014, è opportuno richiedere il ricalcolo del disavanzo da ripianare nel periodo breve.
Risorse utilizzabili per il ripiano del disavanzo. Anche le risorse utilizzabili per il ripiano sono diverse tra disavanzo di amministrazione e maggior disavanzo. Il ripiano del disavanzo da effettuarsi ai sensi dell'art. 188 del Tuel può essere applicato al bilancio o ripartito in un massimo di tre esercizi previo l'approvazione da parte del consiglio di un piano di rientro da sottoporre al parere dell'organo di revisione.
Le risorse utilizzabili sono le economie di spesa o maggiori entrate ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di mutui e di quelle con vincolo di destinazione e per gli squilibri di parte capitale anche le entrate da alienazione di beni patrimoniali disponibili e con altre entrate in conto capitale.
Per reperire maggiori risorse con la delibera che approva il piano di rientro il consiglio può modificare con effetto retroattivo all'inizio dell'esercizio le aliquote e le tariffe relative ai tributi in deroga all'art. 1, comma 169, della legge 296/2006.
Il piano di rientro deve essere monitorato almeno semestralmente con una relazione al consiglio munita del parere dell'organo di revisione sulla concreta attuazione del piano.
L'eventuale ulteriore disavanzo che andrà a formarsi nel periodo del piano deve essere coperto non oltre la scadenza del piano.
Risorse utilizzabili per il ripiano del maggio disavanzo. I mezzi utilizzabili per il ripiano del maggior disavanzo sono indicati nel decreto del Mef del 02/04/2015 e devono essere indicati nella delibera consiliare unitamente alle quote annuali (massimo 30) di ripiano.
L'organo di revisione, che deve esprimere un parere da allegare alla delibera, è opportuno suggerisca la copertura più rapida possibile del disavanzo. Sembra contrario ad ogni principio di sana amministrazione utilizzare risorse (tipo avanzo disponibile) per maggiori spese ed accollare i debiti alle future generazioni.
Il maggior disavanzo può essere finanziato (in primo luogo e prima di ripartirlo in tempi lunghi) con:
- i proventi da alienazione di beni patrimoniali disponibili;
- lo svincolo di vincoli attribuiti autonomamente dall'ente sul risultato di amministrazione;
- la parte dell'avanzo d'amministrazione destinata a investimenti, purché non derivante da assunzione di prestiti o da altri vincoli di legge.
Nelle more di realizzazione dei proventi da alienazione si applica la deroga ai principi contabili indicata nel comma 6 dell'art. 2 del citato decreto del Mef del 02/04/2015.
L'organo di revisione deve segnalare la mancata adozione della delibera con le modalità di ripiano e l'applicazione delle quote al bilancio alla Sezione regionale della Corte dei conti e al prefetto (articolo ItaliaOggi del 10.07.2015).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICAIn sede di impugnazione di strumenti urbanistici generali o attuativi -a differenza di quanto comunemente si afferma laddove sia contestato direttamente un titolo abilitativo all'edificazione- la semplice vicinitas (ossia la situazione di stabile collegamento esistente tra la proprietà del ricorrente e quella interessata dal provvedimento censurato) non è sufficiente a fondare l'interesse all'impugnativa, occorrendo che il ricorrente alleghi e dimostri anche l'esistenza di uno specifico e concreto pregiudizio derivantegli dagli atti impugnati.
E questo, per evitare che un'eccessiva dilatazione del concetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., con riferimento ai piani urbanistici, consenta l'impugnativa anche ai soggetti titolari di un interesse di mero fatto

Ed invero, secondo l'insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, da cui il collegio non ha motivo di discostarsi, in sede di impugnazione di strumenti urbanistici generali o attuativi -a differenza di quanto comunemente si afferma laddove sia contestato direttamente un titolo abilitativo all'edificazione- la semplice vicinitas (ossia la situazione di stabile collegamento esistente tra la proprietà del ricorrente e quella interessata dal provvedimento censurato) non è sufficiente a fondare l'interesse all'impugnativa, occorrendo che il ricorrente alleghi e dimostri anche l'esistenza di uno specifico e concreto pregiudizio derivantegli dagli atti impugnati (cfr. tra le tante Sez. IV, 25.09.2014 n. 4816; 12.10.2010 n. 7439).
E questo, per evitare che un'eccessiva dilatazione del concetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., con riferimento ai piani urbanistici, consenta l'impugnativa anche ai soggetti titolari di un interesse di mero fatto (cfr. tra le tante Sez. IV, 13.07.2010 n. 4545; 30.11.2010 n. 8365) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.07.215 n. 3579 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La prestazione concernente l'installazione e la gestione dei distributori automatici è propriamente qualificabile come concessione di servizi.
Sui tratti distintivi della concessione di servizi rispetto all'appalto.

La prestazione concernente l'installazione e la gestione dei distributori automatici è propriamente qualificabile come concessione di servizi, che si differenzia dall'appalto di servizi in quanto il corrispettivo della fornitura "consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi, o in tale diritto accompagnato da un prezzo", ex art. 3, comma 12, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18CE).
L'art. 30 (Concessione di servizi) del medesimo Codice sottrae dette concessioni alle disposizioni riferite ai contratti pubblici, ma le assoggetta comunque -in armonia con quanto disposto nell'art. 27 (Principi relativi ai contratti esclusi)- al rispetto dei principi di "economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità", con residuale obbligo, pertanto, di procedure selettive che, anche attraverso una gara informale, assicurino il rispetto dei principi stessi.
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Con la concessione di servizi una pubblica amministrazione trasferisce ad altro soggetto la gestione di un servizio, che la medesima potrebbe direttamente (ma non può o non intende) svolgere nei confronti di utenti terzi.
Il concessionario -a differenza di quanto avviene nell'appalto di servizi (nell'ambito del quale l'Amministrazione riceve dal contraente una prestazione ad essa destinata, in cambio di un corrispettivo)- ottiene il proprio compenso non già dall'Amministrazione ma dall'esterno, ovvero dal pubblico che fruisce del servizio stesso, svolto dall'impresa con assetto organizzativo autonomo e con strumenti privatistici, come è usuale per i servizi alimentari, come quello in esame. Sul piano economico, il rapporto complessivo è dunque trilaterale, poiché coinvolge l'Amministrazione concedente (che resta titolare della funzione trasferita), il concessionario e il pubblico.
Il concessionario utilizza quanto ottiene in concessione (nel caso specie: il servizio con l'utilizzo di spazi interni alla sede dell'ente pubblico) a fini legittimi di lucro, assumendo -come richiede il diritto europeo- il rischio economico connesso alla gestione del servizio, svolto con mezzi propri; per godere delle risorse materiali appartenenti all'Amministrazione, il medesimo normalmente corrisponde un canone e non riceve dall'Amministrazione alcun corrispettivo.
In conformità all'art. 30 del Codice dei contratti pubblici, infatti, "la controprestazione [dell'Amministrazione] a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto [dato al concessionario] di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente [verso il pubblico] il servizio" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.07.2015 n. 3571 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATANon essendo dubbia l’individuazione delle opere abusive e della relativa consistenza nell'ordinanza di demolizione, ove la materiale indicazione delle particelle catastali, interessate dagli abusi, dovesse risultare non esattamente corrispondente, l’Amministrazione dovrà provvedere ovviamente alla correzione dell’errore materiale.
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A norma dell'art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, l’inottemperanza all’ordine di demolizione comporta acquisizione gratuita al patrimonio comunale non solo del bene e della relativa area di sedime, ma anche di “quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive”, purché l’area complessivamente acquisita non sia “superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
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Non invalidante appare l’indicazione nell’ordine di demolizione di un termine (trenta giorni) inferiore a quello di novanta, previsto dallo stesso art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001: è solo l’inutile decorrenza di quest’ultimo termine, infatti, che consente gli effetti acquisitivi previsti dalla legge, mentre il primo ha carattere solo diffidatorio.

Non puntuali appaiono ulteriori considerazioni, riferite alle particelle oggetto dell’acquisizione (che avrebbe pertanto oggetto incerto), in quanto potrebbero essere acquisite solo “l’opera e l’area di sedime […] esclusa ogni altra porzione di territorio limitrofo”, mentre, nel caso di specie, sarebbero state date “indicazioni generiche, ricomprendendo anche parti di lotto non edificato”, con ulteriore illegittima acquisizione anche delle “particelle 5001-503-504, oggetto di concessione in sanatoria”.
In rapporto a quanto sopra il Collegio deve sottolineare ancora una volta come gli abusi contestati siano puntualmente descritti e documentati dall’Amministrazione, cui non appare imputabile alcuna carenza di istruttoria. La presenza di un fabbricato, oggetto di sanatoria e non compreso, pertanto, fra le opere da demolire non appare ignorata ed è menzionata nell’atto sanzionatorio.
Ove la materiale indicazione delle particelle catastali, interessate dagli abusi, dovesse risultare non esattamente corrispondente, l’Amministrazione provvederebbe ovviamente alla correzione dell’errore materiale, non essendo dubbia l’individuazione delle opere abusive e della relativa consistenza.
Sia l’esatta individuazione delle particelle, sia l’effettiva inottemperanza, d’altra parte, non potrebbero non essere agevolate dalla collaborazione dell’appellante, che non può contestare eventuali inesattezze derivanti dall’impedito accesso alla proprietà dei tecnici comunali.
Si deve comunque rilevare che, a norma del citato art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, l’inottemperanza all’ordine di demolizione comporta acquisizione gratuita al patrimonio comunale non solo del bene e della relativa area di sedime, ma anche di “quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive”, purché l’area complessivamente acquisita non sia “superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Anche l’ordine di censure da ultimo esaminato non può quindi essere accolto, fatta salva la possibilità di individuare e correggere eventuali errori materiali, nella mera indicazione numerica delle particelle catastali interessate.
Non invalidante, inoltre, appare l’indicazione nell’ordine di demolizione di un termine (trenta giorni) inferiore a quello di novanta, previsto dallo stesso art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001: è solo l’inutile decorrenza di quest’ultimo termine, infatti, che consente gli effetti acquisitivi previsti dalla legge, mentre il primo ha carattere solo diffidatorio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.07.2015 n. 3555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla ratio della disciplina sull'informativa prefettizia antimafia.
La disciplina in tema di informativa prefettizia esprime la ratio di anticipare la soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, prescindendo dal livello di rilevanze probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l'affidabilità complessivamente intesa dell'impresa affidataria di lavori servizi pubblici o destinataria di ogni altra risorsa.
Le cautele antimafia non obbediscono, quindi, a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali.
Al riguardo il Prefetto dispone di un'ampia discrezionalità a tutela delle condizioni di sicurezza e di ordine pubblico nel delicato settore degli appalti pubblici e del trasferimento di risorse economiche dello Stato e degli altri enti pubblici, con la conseguenza che le valutazioni effettuate in merito sono suscettibili di sindacato in sede giurisdizionale nei soli limiti del vizio di eccesso di potere nei profili della manifesta illogicità, dell'erronea e travisata valutazione dei presupposti del provvedere, del difetto di proporzione al fine perseguito.
La validità del complessivo quadro indiziario non va considerato atomisticamente, ma nel suo complesso, e cioè come insieme di elementi e circostanze, che pur non dovendo necessariamente assurgere a livello di prova, sono tali da formare un mosaico di condotte, intrecci, interferenze e contiguità cui possa ricondursi il pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa,
Pertanto, nel caso di specie, se nel coacervo di elementi su cui si sofferma la valutazione prefettizia oggetto di contestazione taluni di essi -singolarmente presi in considerazione- potrebbero essere relegati in un quadro di marginalità ed occasionalità, nel loro complessivo valore indiziante e per il denominatore comune di essere espressione di un rapporto di contiguità diretta o indiretta con esponenti di organizzazione malavitose, corroborano per sommatoria il rapporto di contiguità ascritto all'impresa con società a loro volta colpite da provvedimento interdittivo per la possibile ingerenza nell'attività aziendale di associazioni mafiose (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.07.2015 n. 3539 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente "anti ebola".
Premesso che il potere di ordinanza contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, e in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale, la costante giurisprudenza afferma che la contingibilità deve essere intesa come «impossibilità di fronteggiare l’emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell’accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi» e l’urgenza come «l’assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile».
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Nel merito va allora riaffermato il principio secondo il quale il potere sindacale di cui agli articoli 50 e 54 del decreto legislativo numero 267 del 2000 trova il suo fondamento nell’esistenza di una emergenza sanitaria, la quale deve essere puntualmente dimostrata, anche in ordine alla limitazione territoriale tale da diversificare la posizione del cittadino residente nel comune, le cui peculiarità siano tali da giustificare l’adozione di misure straordinarie.
E ciò in particolare quando difettino accurati ed efficaci controlli sanitari da parte delle altre autorità preposte, non risultando tuttavia sufficiente una sorta di funzione sussidiaria a legittimare l’adozione di provvedimenti del tipo di quello adottato.

... per l'annullamento dell'ordinanza del sindaco di Padova del 17.10.2014 n. 42 del Registro delle ordinanze, pubblicata all'Albo Pretorio "ON LINE", che prescrive il divieto di dimora, anche occasionale, presso qualsiasi struttura di accoglienza, per persone prive di regolare documento di identità e di regolare certificato medico, nonché l'obbligo, da parte dei soggetti privi di regolare permesso di soggiorno ovvero di tessera sanitaria ed individuati nel corso di accertamenti da parte della Polizia Locale, di sottoporsi entro tre giorni a visite mediche presso le competenti ULSS.
...
Premesso che il potere di ordinanza contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, e in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale (Cons. St., sez. V, 25.05.2012, n. 3077), la costante giurisprudenza afferma che la contingibilità deve essere intesa come «impossibilità di fronteggiare l’emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell’accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi» e l’urgenza come «l’assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile» (Cons. St., sez. IV, 21.11.1994, n. 926).
Nel merito va allora riaffermato il principio secondo il quale il potere sindacale di cui agli articoli 50 e 54 del decreto legislativo numero 267 del 2000 trova il suo fondamento nell’esistenza di una emergenza sanitaria, la quale deve essere puntualmente dimostrata, anche in ordine alla limitazione territoriale tale da diversificare la posizione del cittadino residente nel comune, le cui peculiarità siano tali da giustificare l’adozione di misure straordinarie.
E ciò in particolare quando difettino accurati ed efficaci controlli sanitari da parte delle altre autorità preposte, non risultando tuttavia sufficiente una sorta di funzione sussidiaria a legittimare l’adozione di provvedimenti del tipo di quello adottato.
E sotto tale profilo il provvedimento impugnato è incapace di dimostrare questa posizione differenziata del comune resistente in ordine al tasso di rischio cui si espone la popolazione locale,
non essendo idonei i pochi casi rilevati di scabbia o di epatite C a giustificare quella particolare gravità sola legittimante l’ordinanza contingibile e urgente, mentre quanto al virus Ebola, dal nome dell’affluente del Congo ove negli anni 70 fu individuato, anche nella variante Marburg, dal nome della località tedesca nella quale erano state introdotte scimmie provenienti dalle zone africane fonte del contagio, come già rilevato in sede di accoglimento cautelare, il protocollo per la gestione della malattia redatto dall’unità locale socio sanitaria numero 16 di Padova escludeva la sussistenza di un’emergenza sanitaria.
Dunque dall’inesistenza di una emergenza sanitaria di carattere locale che giustifichi l’esercizio, pur sempre ammissibile nella sussistenza dei giusti presupposti, del potere di ordinanza, deriva l’accoglimento del primo motivo di ricorso, non spettando al sindaco l’adozione di misure a carattere esclusivamente locale, del secondo motivo, non esistendo alcuna situazione emergenziale, del terzo collegato motivo, non essendo stata effettuata una istruttoria adeguata al fine di evidenziare tale condizione, del quarto motivo, non essendo la misura che richiede una semplice certificazione medica idonea a contrastare l’eventuale emergere di una epidemia laddove le analisi non siano quelle specifiche atte all’individuazione della patologia, del quinto motivo, posto che effettivamente il provvedimento impugnato è rivolto nei confronti di categorie di soggetti che non sono nelle condizioni di poter adempiere tempestivamente agli ordini imposti, essendo privi di documenti di riconoscimento non per causa loro ma per la particolare condizione rivestita, mentre va respinto l’ultimo motivo, atteso che la censura di sviamento non può essere apprezzata positivamente, esistendo in astratto il potere derivante dalla competenza diretta al fine di legge, mancando tuttavia i requisiti per la spendita relativa, con accoglimento, appunto, del primo motivo di ricorso postulante l’incompetenza.
Il ricorso deve dunque essere accolto con l’annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 15.07.2015 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Il catasto è cosa di pochi. Agrotecnici fuori. Ma è colpa del parlamento. La Consulta boccia le competenze e punta il dito contro le camere.
Agrotecnici fuori dalle attività relative agli atti catastali e in materia estimativa nel settore immobiliare. La norma che estende alla categoria questa competenza è, infatti, contraria ai principi costituzionali sia nella forma che nella sostanza. La disposizione (art. 26, comma 7-ter dl 248/2007), infatti, non solo estende in capo agli agrotecnici una competenza che non hanno le caratteristiche per possedere ma, soprattutto, è stata inserita all'interno del testo sbagliato, ovvero all'interno di un dl Milleproroghe. Il tutto, non solo senza che ne sussistessero in alcun modo i requisiti di necessità e urgenza che sottendono l'emanazione di un decreto legge, questione tutto sommato superabile, ma denotando un uso improprio da parte del parlamento di un potere che la Costituzione gli attribuisce. La disposizione, per tanto, è contraria all'art. 77, comma 2, della Costituzione.

A stabilirlo, la Corte Costituzionale che, con la sentenza 15.07.2015 n. 154, ha dato una stoccata sia al parlamento sia agli agrotecnici.
A finire sotto la lente della Consulta, l'approvazione di un emendamento lampo nel corso dell'iter di approvazione del dl Milleproroghe con cui sono state estese agli agrotecnici competenze in materia catastale e in materia estimativa immobiliare.
Fatto già di per sé discutibile ad avviso della stessa Consulta che, con la sentenza n. 441 del 2000, aveva già sottolineato come «la competenza degli agrotecnici è rivolta prevalentemente agli aspetti economici e gestionali di un'azienda agraria, laddove le competenze in materia di catasto appaiono circoscritte a un livello descrittivo» ritenendo, quindi, ragionevole l'esclusione degli agrotecnici da questa specifica competenza. Oltre al danno, però, alla categoria è spettata anche la beffa.
Se, infatti, esisteva una pur remota possibilità che la norma fosse salvata nel merito (la discrezionalità legislativa in questo campo, infatti, non può essere limitata se esercitata in modo ragionevole) il fatto che essa sia stata inserita all'interno di un dl Milleproroghe ne ha sancito la condanna definitiva. La pronuncia della Corte, però, pesa in uguale misura sulla testa del parlamento insediato nel 2007 (governo Prodi-bis).
Ad avviso della Consulta, infatti, la disposizione pur non facendo parte del testo originario del dl Milleproroghe essendo stata inserita attraverso l'approvazione di un emendamento è chiaramente mirata alla risoluzione di un conflitto di competenze tra categorie professionali non andando, quindi, in alcun modo a prorogare imminenti scadenze né a salvaguardare il buon andamento della pubblica amministrazione. Fatto di per se stesso sufficiente ad accendere i campanelli d'allarme dei giudici di legittimità. Ogni disposizione introdotta in sede di conversione deve essere, infatti, collegata alla ratio dominante del testo normativo.
«In definitiva», ha precisato la Corte, «non solo regole di buona tecnica normativa a esigere che la legge di conversione rechi un contenuto omogeneo a quello del dl, anche se, proprio sotto questo profilo appare particolarmente inopportuno l'inserimento nel dl Milleproroghe di una norma di questo tenore. Deve piuttosto essere sottolineato che l'inserimento di norme eterogenee rispetto all'oggetto o alla finalità del dl determina la violazione dell'art. 77, comma 2, della Costituzione. E tale violazione, per queste ultime norme», ha concluso la Corte, «non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza, ma scaturisce dall'uso improprio, da parte del parlamento, di un potere che la Costituzione attribuisce ad esso, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un dl» (articolo ItaliaOggi del 16.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIIl cliente va informato. Difensori tenuti ad avvisare sulla lite in atto. La Cassazione sugli oneri professionali nel contrasto di giurisprudenza.
Il difensore è tenuto ad avvisare il cliente che sussiste un contrasto di giurisprudenza sull'interpretazione della norma giuridica che è al centro della controversia: l'informazione si rende necessaria perché l'assistito deve essere messo in condizioni di decidere se coltivare o meno la lite.
E il patrono deve prospettare la soluzione del ricorso per cassazione, se necessario: ecco allora che rischia il risarcimento per colpa professionale il commercialista chiamato alla difesa tecnica del contribuente di fronte alla Ctp laddove non risulta che abbia indicato la strada del ricorso di legittimità dopo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

È quanto emerge dalla sentenza 14.07.2015 n. 14639, pubblicata dalla III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Bilanciamento e soluzione
È accolto il ricorso dei soci della sas dopo l'accertamento che ha colpito società e componenti della compagine e il successivo condono fiscale che si è reso necessario. Il punto è che all'epoca esistenza un contrasto interpretativo sulla difesa tecnica nelle liti tributarie ex articolo 18, comma 3, del decreto legislativo 546/92. E la Commissione tributaria dichiara l'inammissibilità dei ricorsi proposti dai contribuenti in quanto sottoscritti dalla parti personalmente e non dal difensore tecnico come richiedeva la disposizione entrata in vigore nelle more.
Trova allora ingresso il ricorso degli assistiti laddove adombra che sia stato proprio l'atteggiamento del commercialista a far passare in giudicato le sentenze emesse dalla commissione tributaria regionale: ai giudici di legittimità non risulta che sul punto sia stata svolta un'indagine di merito. E invece il professionista doveva prospettare l'opportunità del ricorso di legittimità mettendo sui due piatti della bilancia l'ulteriore costo del rimedio impugnatorio e la possibilità per i contribuenti di ricavarne una concreta utilità, anche entrando nel merito delle opportune valutazioni sulle questioni tributarie dedotte in giudizio.
Va infatti ricordato che il difensore è comunque tenuto ad avvisare i clienti di tutti i rischi che possono produrre situazioni dannose e di sconsigliare l'assistito dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Ma ciò che più conta è che incombe sul professionista l'onere di fornire la prova della condotta serbata: il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie alla rappresentanza in giudizio non depone nella direzione dell'adempimento dell'obbligo di compiuta informazione in favore dell'assistito.
Nessun dubbio, infine, che si configuri la colpa professionale per il patrono quando l'inammissibilità del ricorso al giudice è dichiarata per un vizio formale riconducibile all'ignoranza di una norma processuale. Ciò che potrebbe essere accaduto all'epoca dell'introduzione della norma ex articolo ex articolo 18, comma 3, del decreto legislativo 546/1992. Parola al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi del 15.07.2015).
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MASSIMA
E' principio consolidato di questa Corte che nell'adempimento dell'incarico professionale conferito, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ. impone al professionista di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine
incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello "jus postulandi", stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass. n. 14597/2004; Cass. n. 16023/2002).
Nel caso di specie la motivazione della sentenza dei giudici del merito è carente proprio in punto di informazione. Non emerge, infatti, se il professionista nell'espletamento del suo mandato sia stato diligente nell'aver rappresentato, ed informato, i suoi clienti di tutte le circostanze necessarie per poter assumere una decisione consapevole finalizzata ad impugnare i provvedimenti della Commissione Tributaria Regionale.
In particolare, assunto il dato che circa l'obbligo di assistenza tecnica nel processo tributario di cui all'art. 18 d.lgs. n. 546/1992 sussisteva a quel tempo quanto meno un contrasto interpretativo, il professionista avrebbe avuto, per quanto premesso, il dovere di informare il cliente della possibilità di un ricorso per cassazione, allo scopo di sperimentare una possibilità di esito favorevole, fatte ovviamente le opportune valutazioni in concreto in ordine alla possibilità di successo del ricorso anche nel merito delle questioni tributarie dedotte in giudizio, attraverso cioè un ponderato bilanciamento tra il costo del rimedio impugnatorio ulteriore e le possibilità di ricavarne concreta utilità. Onde rimettere, in definitiva, la responsabilità della decisione ad una ponderata delibazione del cliente stesso.
Su tutto questo, non risulta che sia stata esperita una indagine di merito.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla differenza tra i lavori di restauro e risanamento conservativo e quelli di ristrutturazione edilizia.
I lavori di restauro e risanamento conservativo sono un’attività rivolta «… a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso) …, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «…il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie.
Di recente la Sezione ha ribadito i capisaldi dell’istituto, riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31 della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia risiede essenzialmente nella conservazione formale e funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi rispetto alla seconda.

Non è allora chi non veda come, perlomeno secondo tal descrizione ed in assenza d’un nuovo e/o diverso accertamento da parte delle Amministrazioni intimate sul punto, la vicenda in esame ben s’inquadri tra i casi di restauro e di risanamento conservativo, di cui all’art. 3, c. 1, lett. c), del DPR 380/2001.
Si tratta, per vero, di un’attività rivolta «… a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso) …, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «…il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente, come hanno adombrano le Soprintendenze, di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 17.03.2014 n. 1326; id., 17.07.2014 n. 3796; id., 05.09.2014 n. 4253).
Di recente la Sezione (cfr. Cons. St., IV, 25.07.2013 n. 3968) ha ribadito i capisaldi dell’istituto, riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31 della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia risiede essenzialmente nella conservazione formale e funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi rispetto alla seconda (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.07.2015 n. 3505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mancanza della firma dell'offerta non può considerarsi a guisa di mera irregolarità formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una espressa previsione della lex specialis.
Il collegio ritiene che mediante la possibilità di regolarizzazione della mancata sottoscrizione dell'offerta la controinteressata sia stata abilitata alla produzione dell’offerta tecnica in violazione del termine di scadenza per la presentazione delle offerte previsto dalla lex specialis di gara.
Ed invero, secondo la disciplina civilistica in materia di scrittura privata (libro VI, capo II, c.c.), tra i requisiti della scrittura vi sono la privatezza, l’autenticità e la genuinità; tra gli elementi della scrittura, invece, sono compresi il corpo, la sottoscrizione e il testo.
La scrittura privata, contrariamente all’atto pubblico, è formata dal suo autore e, per acquisire efficacia probatoria, deve essere munita di sottoscrizione riconosciuta, autenticata o verificata. Solo in questi casi la scrittura prodotta in giudizio fa piena prova fino a querela di falso della paternità del documento da parte di chi l’ha sottoscritto (art. 2702 c.c.).
Punto centrale nella logica della forma scritta è l’assunzione e la garanzia di paternità del documento. La sottoscrizione è parte integrante del documento e costituisce strumento di imputazione all’autore del documento e della dichiarazione in esso contenuta.
La sottoscrizione consta normalmente del nome e del cognome del sottoscrivente, per esteso. Essa svolge quattro funzioni: indicativa, servendo ad individuare l’autore del documento; dichiarativa, poiché essa consiste in una dichiarazione di assunzione della paternità del contenuto del documento; probatoria, per provare l’autenticità del documento; presuntiva, consentendo di risalire a determinate situazioni soggettive (che il sottoscrittore conosceva il testo della scrittura, che la dichiarazione sia definitiva, che la dichiarazione sia completa).
Dal complesso delle funzioni che svolge, la giurisprudenza è pervenuta all’affermazione consolidata che la sottoscrizione è elemento essenziale della scrittura privata.
La scrittura carente di sottoscrizione non può essere neppure definita scrittura privata e, pertanto non acquista alcun valore probatorio come scrittura.
Inoltre, ai sensi dell’art. 74 del d.lgs. n. 163/2006: “1. Le offerte hanno forma di documento cartaceo o elettronico e sono sottoscritte con firma manuale o digitale, secondo le norme di cui all'articolo 77.
2. Le offerte contengono gli elementi prescritti dal bando o dall'invito ovvero dal capitolato d'oneri, e, in ogni caso, gli elementi essenziali per identificare l'offerente e il suo indirizzo e la procedura cui si riferiscono, le caratteristiche e il prezzo della prestazione offerta, le dichiarazioni relative ai requisiti soggettivi di partecipazione.
(…)”.
E’ stato, quindi, affermato che l’offerta è l’impegno negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con prestazioni conformi al relativo oggetto; essa individua i caratteri del prodotto nella prospettiva comparativa e concorrenziale sottesa all’aggiudicazione.
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici di appalto la sottoscrizione assolve la funzione di assicurare la provenienza, la serietà, l’affidabilità dell’offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
La mancanza della firma, pertanto, non può considerarsi a guisa di mera irregolarità formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una espressa previsione della lex specialis.
E’, stato, inoltre, affermato nel parere dell’ex AVCP (ora ANAC) n. 92, del 22.05.2013, che, anche qualora la disciplina concorsuale risulti ambigua in merito ai documenti da sottoscrivere pena l’esclusione dalla gara, la sottoscrizione è richiesta alla luce dell’eterointegrazione legale del contratto (artt. 1339-1374 c.c.), ad opera dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
Sul punto, peraltro, l’ANAC è nuovamente intervenuta con la determina n. 1 dell’08.01.2015, con la quale si è cercato di fornire alcuni chiarimenti sull’interpretazione del combinato disposto degli artt. 38, comma 2-bis e 46, commi 1-ter e 1-bis, alla luce delle recenti modifiche normative operate dal d.l. n. 90/2014, così come convertito nella legge n. 114/2014.
In particolare, in tema di mancanza di sottoscrizione della domanda e dell’offerta richiesta dagli artt. 73 e 74 del d.lgs. n. 163/2006, la delibera, dopo avere opportunamente citato tutta la giurisprudenza a favore della tesi per la quale tale assenza determina l’obbligatorietà dell’esclusione dalla gara per mancanza di un elemento essenziale della domanda o dell’offerta, avendo la funzione di ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza, la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa, costituendo un elemento essenziale che attiene propriamente alla manifestazione di volontà di partecipare alla gara, conclude, invece, per la possibilità di regolarizzazione della stessa, trattandosi di un elemento sì essenziale, ma sanabile, “non impattando sul contenuto e sulla segretezza dell’offerta”.
Si legge, invero, nella determina, che: “ferma restando la riconducibilità dell’offerta al concorrente (che escluda l’incertezza assoluta sulla provenienza), dal combinato disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice, risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità (anche) degli elementi che devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge (al bando o al disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento della sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione prevista nel bando” (cfr. pagg. 13 e 14 della determina).
Deve, infatti, osservarsi che il nuovo comma 1-ter dell'articolo 46 del d.lgs. n. 163/2006, risultante dalle modifiche operate dal d.l. n. 90/2014, convertito nella legge n. 114/2014, estende l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 38, comma 2-bis, “a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
Tale norma, si ribadisce, deve essere letta, peraltro, in combinato disposto con il precedente comma 1-bis, ai sensi del quale “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione”.
Il fatto che il legislatore non sia intervenuto anche su tale disposizione induce, dunque, a ritenere che permangano ancora nel nuovo quadro normativo alcune ipotesi di errori insanabili, tra cui è ricompresa l'assenza di sottoscrizione, ai sensi dell'articolo succitato.
Il collegio ritiene, invero, che non possa ritenersi di certa provenienza una domanda non sottoscritta, contrastando tale interpretazione, irrimediabilmente, con le pacifiche conclusioni in tema di inesistenza di un documento non sottoscritto, nonché con lo stesso disposto dell’art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, che al comma 1-bis legittima, come visto, la stazione appaltante all’esclusione, tra le altre ipotesi, proprio di un candidato nel caso di incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta e per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali della stessa.
Questo approccio rigoristico è stato, peraltro, mantenuto fermo anche quando sono state ripudiate interpretazioni puramente formali delle regole di gara.
Si è, infatti, precisato che: il “difetto di sottoscrizione, per comportare la necessaria ed automatica esclusione del concorrente, deve determinare l’incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta, risolvendosi altrimenti in una mancanza di natura formale inidonea a produrre l’effetto sanzionatorio disposto dalla norma”. La finalità della sottoscrizione si è così ritenuta conseguita in presenza almeno della sigla in calce al documento.
Sulla base di analoghe considerazioni si è ritenuto che il difetto di firma digitale nella sottoscrizione dell’offerta tecnica, in presenza di una sottoscrizione autografa della stessa, non potesse costituire causa di esclusione, prevalendo in questo caso il principio del favor partecipationis.

Con il presente ricorso la cooperativa istante ha impugnato i provvedimenti indicati in epigrafe, con i quali la Centrale Unica di Committenza tra il comune di San Martino Siccomario ed il comune di Travaco’ Siccomario ha approvato le risultanze di gara ed ha aggiudicato definitivamente a F... Società Cooperativa Sociale il servizio di pulizia degli immobili di proprietà comunale, per tre anni dall'effettivo inizio del servizio.
A sostegno del proprio ricorso l’istante ha dedotto, sostanzialmente, con il primo motivo la violazione degli artt. 86 e ss. del d.lgs. n. 163/2006, in considerazione dell’anomalia dell’offerta della controinteressata con riferimento al costo del lavoro, nonché, con il secondo motivo, la violazione degli artt. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, degli artt. 1, 3 e 6 della legge n. 241/1990, dell’art. 97 della Costituzione, oltre a diversi profili di eccesso di potere in considerazione della mancanza di sottoscrizione in calce all’offerta tecnica della controinteressata.
...
Ed invero, si ritiene che il gravame si presenti manifestamente fondato in relazione al secondo motivo di diritto.
Con tale doglianza, l’istante ha dedotto, sostanzialmente, l’illegittimità della mancata esclusione della Cooperativa controinteressata, atteso che la stessa ha presentato un’offerta tecnica totalmente priva di sottoscrizione, in palese violazione dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
Dalla documentazione versata in atti emerge inequivocabilmente che la Cooperativa controinteressata ha prodotto in sede di gara un’offerta tecnica non sottoscritta e priva finanche di sigle in alcuna parte del documento.
Nonostante ciò, la commissione di gara ha ritenuto che la fattispecie potesse rientrare fra gli errori regolarizzabili con l’adesione al soccorso istruttorio, ai sensi dell’art. 10 della lettera di invito dell’11.03.2015 (cfr. in particolare pag. 8), pure oggetto della presente impugnazione; tale lettera d’invito è stata, infatti, redatta con riferimento alle prescrizioni dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice degli appalti, per il cui combinato disposto risulterebbe ora sanabile ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi che devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara, come risulta dalla lettura del verbale n. 1 del 30.03.2015, alle pagine 4 e 5, nelle cui conclusioni si legge che: “Per quanto sopra, il concorrente legale rappresentante della Cooperativa F... formula immediatamente e di proprio pugno, una dichiarazione, ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.Lgs. 445/2000, dove dichiara che la cooperativa dispone di tutta l’attrezzatura, del materiale e dell’equipaggiamento tecnico necessario per eseguire l’appalto”.
Il collegio ritiene che, in tal modo, mediante la possibilità di regolarizzazione, la controinteressata sia stata abilitata alla produzione dell’offerta tecnica in violazione del termine di scadenza per la presentazione delle offerte previsto dalla lex specialis di gara.
Ed invero, secondo la disciplina civilistica in materia di scrittura privata (libro VI, capo II, c.c.), tra i requisiti della scrittura vi sono la privatezza, l’autenticità e la genuinità; tra gli elementi della scrittura, invece, sono compresi il corpo, la sottoscrizione e il testo.
La scrittura privata, contrariamente all’atto pubblico, è formata dal suo autore e, per acquisire efficacia probatoria, deve essere munita di sottoscrizione riconosciuta, autenticata o verificata. Solo in questi casi la scrittura prodotta in giudizio fa piena prova fino a querela di falso della paternità del documento da parte di chi l’ha sottoscritto (art. 2702 c.c.).
Punto centrale nella logica della forma scritta è l’assunzione e la garanzia di paternità del documento. La sottoscrizione è parte integrante del documento e costituisce strumento di imputazione all’autore del documento e della dichiarazione in esso contenuta.
La sottoscrizione consta normalmente del nome e del cognome del sottoscrivente, per esteso. Essa svolge quattro funzioni: indicativa, servendo ad individuare l’autore del documento; dichiarativa, poiché essa consiste in una dichiarazione di assunzione della paternità del contenuto del documento; probatoria, per provare l’autenticità del documento; presuntiva, consentendo di risalire a determinate situazioni soggettive (che il sottoscrittore conosceva il testo della scrittura, che la dichiarazione sia definitiva, che la dichiarazione sia completa).
Dal complesso delle funzioni che svolge, la giurisprudenza è pervenuta all’affermazione consolidata che la sottoscrizione è elemento essenziale della scrittura privata.
La scrittura carente di sottoscrizione non può essere neppure definita scrittura privata e, pertanto non acquista alcun valore probatorio come scrittura.
Inoltre, ai sensi dell’art. 74 del d.lgs. n. 163/2006: “1. Le offerte hanno forma di documento cartaceo o elettronico e sono sottoscritte con firma manuale o digitale, secondo le norme di cui all'articolo 77.
2. Le offerte contengono gli elementi prescritti dal bando o dall'invito ovvero dal capitolato d'oneri, e, in ogni caso, gli elementi essenziali per identificare l'offerente e il suo indirizzo e la procedura cui si riferiscono, le caratteristiche e il prezzo della prestazione offerta, le dichiarazioni relative ai requisiti soggettivi di partecipazione.
(…)
”.
E’ stato, quindi, affermato che l’offerta è l’impegno negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con prestazioni conformi al relativo oggetto; essa individua i caratteri del prodotto nella prospettiva comparativa e concorrenziale sottesa all’aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 7987/2010).
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici di appalto la sottoscrizione assolve la funzione di assicurare la provenienza, la serietà, l’affidabilità dell’offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 528).
La mancanza della firma, pertanto, non può considerarsi a guisa di mera irregolarità formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una espressa previsione della lex specialis (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5547/2008; sez. IV, n. 1832/2010; sez. V, n. 528/2011).
E’, stato, inoltre, affermato nel parere dell’ex AVCP (ora ANAC) n. 92, del 22.05.2013, che, anche qualora la disciplina concorsuale risulti ambigua in merito ai documenti da sottoscrivere pena l’esclusione dalla gara, la sottoscrizione è richiesta alla luce dell’eterointegrazione legale del contratto (artt. 1339-1374 c.c.), ad opera dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 (Tra la giurisprudenza che ritiene tassativa la sottoscrizione in calce (anche) all’offerta tecnica, cfr. pure Cons. Stato, sez. V, n. 2317/2012).
Sul punto, peraltro, l’ANAC è nuovamente intervenuta con la determina n. 1 dell’08.01.2015, con la quale si è cercato di fornire alcuni chiarimenti sull’interpretazione del combinato disposto degli artt. 38, comma 2-bis e 46, commi 1-ter e 1-bis, alla luce delle recenti modifiche normative operate dal d.l. n. 90/2014, così come convertito nella legge n. 114/2014.
In particolare, in tema di mancanza di sottoscrizione della domanda e dell’offerta richiesta dagli artt. 73 e 74 del d.lgs. n. 163/2006, la delibera, dopo avere opportunamente citato tutta la giurisprudenza a favore della tesi per la quale tale assenza determina l’obbligatorietà dell’esclusione dalla gara per mancanza di un elemento essenziale della domanda o dell’offerta, avendo la funzione di ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza, la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa, costituendo un elemento essenziale che attiene propriamente alla manifestazione di volontà di partecipare alla gara, conclude, invece, per la possibilità di regolarizzazione della stessa, trattandosi di un elemento sì essenziale, ma sanabile, “non impattando sul contenuto e sulla segretezza dell’offerta”.
Si legge, invero, nella determina, che: “ferma restando la riconducibilità dell’offerta al concorrente (che escluda l’incertezza assoluta sulla provenienza), dal combinato disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice, risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità (anche) degli elementi che devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge (al bando o al disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento della sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione prevista nel bando” (cfr. pagg. 13 e 14 della determina).
Deve, infatti, osservarsi che il nuovo comma 1-ter dell'articolo 46 del d.lgs. n. 163/2006, risultante dalle modifiche operate dal d.l. n. 90/2014, convertito nella legge n. 114/2014, estende l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 38, comma 2-bis, “a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
Tale norma, si ribadisce, deve essere letta, peraltro, in combinato disposto con il precedente comma 1-bis, ai sensi del quale “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione”.
Il fatto che il legislatore non sia intervenuto anche su tale disposizione induce, dunque, a ritenere che permangano ancora nel nuovo quadro normativo alcune ipotesi di errori insanabili, tra cui è ricompresa l'assenza di sottoscrizione, ai sensi dell'articolo succitato.
Il collegio ritiene, invero, che non possa ritenersi di certa provenienza una domanda non sottoscritta, contrastando tale interpretazione, irrimediabilmente, con le pacifiche conclusioni in tema di inesistenza di un documento non sottoscritto, nonché con lo stesso disposto dell’art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, che al comma 1-bis legittima, come visto, la stazione appaltante all’esclusione, tra le altre ipotesi, proprio di un candidato nel caso di incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta e per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali della stessa.
Questo approccio rigoristico è stato, peraltro, mantenuto fermo anche quando sono state ripudiate interpretazioni puramente formali delle regole di gara.
Si è, infatti, precisato che: il “difetto di sottoscrizione, per comportare la necessaria ed automatica esclusione del concorrente, deve determinare l’incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta, risolvendosi altrimenti in una mancanza di natura formale inidonea a produrre l’effetto sanzionatorio disposto dalla norma” (Cons. Stato, sez. V, n. 4595/2014). La finalità della sottoscrizione si è così ritenuta conseguita in presenza almeno della sigla in calce al documento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 8933/2010).
Sulla base di analoghe considerazioni si è ritenuto che il difetto di firma digitale nella sottoscrizione dell’offerta tecnica, in presenza di una sottoscrizione autografa della stessa, non potesse costituire causa di esclusione, prevalendo in questo caso il principio del favor partecipationis (Cons. Stato, sez. V, n. 4595/2014).
Nella fattispecie all’esame del collegio, invece, non sussiste alcun elemento (sigla o altro) tale da poter in qualche modo ricondurre l’offerta tecnica prodotta alla cooperativa controinteressata, in modo da escluderne l’incertezza assoluta sulla provenienza.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati, compresa la clausola di cui all’art. 10 della lettera di invito dell’11.03.2015 (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.07.2015 n. 1629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' illegittima l'ordinanza contingibile ed urgente, assunta ai sensi dell’art. 54, d.lgs. n. 267/2000, sottoscritta dal dirigente anziché dal sindaco.
... per l'annullamento dell’ordinanza del Comune di Santa Giuletta R.G. n. 6 del 09.07.2014 notificata ai ricorrenti il 16.07.2014, nonché di ogni altro atto presupposto o consequenziale o comunque connesso anche non conosciuto dai ricorrenti, ivi inclusa la comunicazione di avvio di procedimento ex art. 7 della L. 241/1990 del 18.06.2014.
...
La signora Y.R. ed il sig. M.F. impugnano l’ordinanza con cui il responsabile del settore territorio dell’ufficio tecnico del Comune di Santa Giulietta ha ordinato loro la rimozione di una piscina prefabbricata, al fine di eliminare potenziali pericoli per la sicurezza e l’incolumità pubblica.
...
Il ricorso è fondato.
È, in particolare, fondata la censura con cui viene lamentata l’illegittimità del provvedimento impugnato -un’ordinanza contingibile ed urgente, assunta ai sensi dell’art. 54, d.lgs. n. 267/2000– per incompetenza.
L’atto è stato, invero, adottato dal responsabile del settore territorio del Comune anziché dal sindaco, come previsto dallo stesso articolo 54, d.lgs. n. 267/2000.
Dall’accertamento della sussistenza del vizio di incompetenza, e dunque di una situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, consegue l’assorbimento degli altri motivi dedotti, in applicazione di quanto previsto dall’art. 34, c. 2, cod. proc. amm. (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 5/2015).
Per le ragioni esposte, il ricorso è fondato e va pertanto accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.07.2015 n. 1610 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer principio consolidato, i lavori di edificazione possono ritenersi avviati nel termine prescritto quando le opere eseguite siano di consistenza tale da comprovare l’effettiva volontà del titolare del titolo edilizio di realizzare quanto progettato e non meramente simbolici o fittizi o, comunque, preparatori a quelli necessari a fini edificatori, alla stregua di una valutazione in concreto, tenuto conto della entità e delle dimensioni dell’intervento assentito.
In particolare, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione di interventi di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e manchino altri indizi idonei a comprovare il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione.
Nella fattispecie, gli interventi realizzati (sbancamento per realizzare una rampa di accesso al terreno, installazione di un cancello, edificazione di un muro di cinta e di una baracca per il deposito di attrezzi e materiali edili, installazione di tubature ed elementi per allacci ad impianti idrici ed elettrici, espianto delle alberature) non si prestano ad un positivo apprezzamento al fine di ritenere avviata l’edificazione nel termine annuale, tenuto conto anche della consistenza dell’intervento assentito, avente ad oggetto la realizzazione di un complesso edilizio da destinare ad uso produttivo e delle evidenze emergenti dalla documentazione prodotta dall’amministrazione comunale e dalla difesa della controinteressata.
La decorrenza dei termini normativamente stabiliti per l’inizio dei lavori comporta l’automatica decadenza del titolo edilizio, vendo in rilievo un provvedimento a carattere vincolato e meramente dichiarativo di un effetto che discende direttamente dalla legge, con conseguente infondatezza delle deduzioni dirette a contestare la carenza di motivazione della determinazione gravata.

... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 7 del 20.02.2015 con la quale l’amministrazione comunale di Casandrino ha dichiarato la decadenza del permesso di costruire n. 36/2010 del 26/03/2010 per mancato inizio lavori nei termini stabiliti dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- della comunicazione di avvio del procedimento avente ad oggetto la decadenza del permesso di costruire n. 36 del 26.03.2010;
...
Considerato:
- che il ricorso non merita accoglimento, ragione per cui il Collegio ritiene di poter prescindere dalla eccezione preliminare sollevata dalla difesa della controinteressata;
- che con il provvedimento gravato è stata dichiarata la decadenza del permesso di costruire n. 36 del 26.03.2010, relativo alla edificazione di un fabbricato ad uso produttivo commerciale in via Marinaro, su lotto catastalmente censito al foglio 3, particella n. 999, per omesso inizio dei lavori nel termine prescritto dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- che, per principio consolidato, i lavori di edificazione possono ritenersi avviati nel termine prescritto quando le opere eseguite siano di consistenza tale da comprovare l’effettiva volontà del titolare del titolo edilizio di realizzare quanto progettato e non meramente simbolici o fittizi o, comunque, preparatori a quelli necessari a fini edificatori, alla stregua di una valutazione in concreto, tenuto conto della entità e delle dimensioni dell’intervento assentito;
- che, in particolare, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione di interventi di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e manchino altri indizi idonei a comprovare il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 04.05.2015, n. 741);
- che, nella fattispecie, gli interventi realizzati (sbancamento per realizzare una rampa di accesso al terreno, installazione di un cancello, edificazione di un muro di cinta e di una baracca per il deposito di attrezzi e materiali edili, installazione di tubature ed elementi per allacci ad impianti idrici ed elettrici, espianto delle alberature) non si prestano ad un positivo apprezzamento al fine di ritenere avviata l’edificazione nel termine annuale, tenuto conto anche della consistenza dell’intervento assentito, avente ad oggetto la realizzazione di un complesso edilizio da destinare ad uso produttivo e delle evidenze emergenti dalla documentazione prodotta dall’amministrazione comunale e dalla difesa della controinteressata;
- che la decorrenza dei termini normativamente stabiliti per l’inizio dei lavori comporta l’automatica decadenza del titolo edilizio, vendo in rilievo un provvedimento a carattere vincolato e meramente dichiarativo di un effetto che discende direttamente dalla legge, con conseguente infondatezza delle deduzioni dirette a contestare la carenza di motivazione della determinazione gravata;
- che del tutto erronea si palesa, alla stregua delle considerazioni che precedono, la qualificazione del provvedimento gravato in termini di provvedimento di secondo grado, adottato nell’esercizio del potere di autotutela decisoria, non potendosi riconnettere alle pregresse determinazioni dell’amministrazione alcuna valenza in merito al rispetto del termine de quo;
- che, peraltro, le evidenze fattuali emergenti dalla documentazione prodotta in giudizio escludono la sussistenza di un legittimo affidamento da tutelare;
- che, infine, in relazione alla mancata previsione della restituzione delle somme corrisposte dagli interessati a titolo di oneri concessori, dedotta in via di subordine, il Collegio reputa sufficiente rilevare che tale profilo non incide sulla legittimità del provvedimento gravato; la difesa dell’ente resistente, inoltre, nel riconoscere l’obbligo restitutorio, ha attestato che parte ricorrente non ha avanzato alcuna richiesta al suddetto fine, circostanza, questa, non contestata;
- che, in conclusione, il ricorso va rigettato in quanto infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 09.
07.2015 n. 3654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIL'importo è complessivo nelle gare di progettazione. Tar Campania sui servizi di punta.
In una gara di progettazione l'importo dei due servizi di punta è complessivo e non riferito a ogni servizio; i servizi devono comunque fare riferimento a un soggetto, sia esso il mandante o il mandatario di un raggruppamento temporaneo.

È quanto afferma il TAR Campania-Salerno, Sez. II, con la sentenza 09.07.2015 n. 1560.
In particolare, i giudici prendono in considerazione la produzione del requisito dei due servizi «di punta» di cui all'articolo 263 del dpr 207/2010 per decidere se sia corretta la tesi in base alla quale i concorrenti avrebbero dovuto dimostrare lo svolgimento dei servizi per un importo (quantificato nello 0,60% del valore delle opere da progettare) riferibile a ognuno dei servizi relativi alle categorie di lavori messi a gara e individuate nel bando, o se tale importo dovesse essere riferito ai due servizi complessivamente considerati.
Il consiglio di stato afferma che la lettura della norma tesa a riferire il valore a ognuno dei due servizi «sarebbe eccessivamente penalizzante per la concorrenza» e pertanto ritiene che in base all'articolo 263, comma 1, lettera c), del Regolamento del codice dei contratti pubblici (dpr 207/2010) «la somma dei due servizi di punta debba rappresentare lo 0,60 volte il requisito richiesto e non che ciascuno dei due servizi debba rappresentare tale quota». Il Tar ha poi anche considerato un ulteriore profilo relativo ai soggetti che devono possedere il requisito.
Nel caso di specie nessuno dei professionisti facenti parte del raggruppamento aveva esercitato interamente i due servizi di punta. Secondo i giudici pertanto il raggruppamento avrebbe dovuto essere escluso perché è stato violato il principio della non frazionabilità dei due servizi di punta in capo a un solo soggetto del raggruppamento temporaneo.
Tale requisito, hanno aggiunto i giudici, risponde «all'interesse che ci sia un livello minimo di capacità per la partecipazione alle gare d'appalto» cioè all'«interesse a non polverizzare eccessivamente i requisiti di partecipazione; interesse sotteso alla normativa interna la quale vuole evitare che la riunione di imprese si traduca in uno strumento elusivo delle regole impositive di un livello minimo di capacità» (articolo ItaliaOggi del 17.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Sulla sussistenza della giurisdizione del g.a. in relazione alla controversia relativa alla partecipazione alla selezione pubblica indetta da un comune avente ad oggetto il conferimento di incarichi di componenti dello "OIV".
Sull'obbligo di ogni amministrazione pubblica di dotarsi singolarmente o in forma associata di un organismo indipendente di valutazione della performance.

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Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla controversia relativa alla partecipazione alla selezione pubblica indetta da un comune avente ad oggetto il conferimento di n. 3 incarichi di componenti dello "Organismo Indipendente di Valutazione della performance" ("OIV"), di durata triennale, ai sensi dell'art. 103, comma 1, Cost., poiché il soggetto che aspira alla nomina di componente dello "OIV", ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. 27.10.2009 n. 150, fa valere una posizione giuridica di interesse legittimo, come risulta altresì confermato dalla circostanza secondo cui, nel caso di specie, il comune ha indetto un'apposita procedura selettiva per la relativa individuazione.
Inoltre il componente dello "OIV", ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2009 è una figura riconducibile al genus del "funzionario onorario", il cui rapporto di servizio viene costituito con provvedimento amministrativo, soggetto alla generale giurisdizione amministrativa di legittimità, ai sensi dell'art. 7 c.p.a..
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L'art. 14 del D.Lgs. 27.10.2009 n. 150 prevede l'obbligo di ogni amministrazione pubblica, di dotarsi, singolarmente o in forma associata, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un organismo indipendente di valutazione della performance. Tale organismo indipendente sostituisce i servizi di controllo interno, comunque denominati, di cui al D.Lgs. 30.07.1999 n. 286, ed esercita, "in piena autonomia", le attività di cui al c. 4° dell'art. 14 del D.Lgs. n. 150/2009.
Ne discende che le predette funzioni di controllo (strategico, di valutazione dei dirigenti e di validazione delle metodologie di misurazione e valutazione della performance) devono essere espletate nel pieno rispetto delle garanzie di indipendenza e di terzietà, da soggetti la cui nomina, proprio per questo, non può avere carattere fiduciario ed "intuitu personae".
La l. 30.10.2013 n. 125 ha modificato i criteri della nomina dei componenti dello "OIV", aumentandone significativamente il grado di indipendenza e facendo assumere alla C.I.V.I.T. la denominazione di "Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche" ("ANAC."). L'"ANAC" conferma nelle Faq il divieto di estendere la partecipazione, per la nomina dei componenti dello "OIV" alle società, già esplicitato con la Delibera della "CIVIT" n. 29 del 05.12.2012 e ribadito con la successiva Delibera n. 12 del 24.02.2013 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.07.2015 n. 1190 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Cds: per aprire un lido non basta la Scia.
L'aver ottenuto la concessione demaniale non è presupposto sufficiente per iniziare l'attività con una Scia; ciò in quanto la tutela delle coste è di competenza della Soprintendenza che deve pronunciarsi prioritariamente in merito alle caratteristiche delle strutture utilizzate.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 08.07.2015 n. 3397.
La Sezione ha ritenuto legittima la decisione del Comune di Napoli che, dapprima ha revocato gli effetti della Scia e poi ha disposto il divieto di esercizio dell'attività di stabilimento balneare, ritenendo inapplicabile alla fattispecie l'istituto di semplificazione, venendo in gioco valutazioni afferenti profili paesaggistici e ambientali oltre che di tutela della sicurezza pubblica. Non è stata, in pratica, accolta la tesi che i profili di rilevanza paesaggistica sarebbero già stati valutati a monte dall'autorità demaniale in occasione del rilascio della concessione per finalità turistico ricreative.
Il Collegio ha motivato la sua decisione tenendo conto, in sostanza, di due questioni. La prima perché la competenza ad esprimere la valutazione di compatibilità delle opere funzionali allo stabilimento balneare con il regime proprio del vincolo paesaggistico cui è collegato l'uso del bene demaniale non spetta all'autorità demaniale ma, in quanto espressione specifica della funzione pubblica di tutela paesaggistica, alla competente Amministrazione per i beni culturali.
Inoltre, perché l'autorità demaniale non potrebbe, in ogni caso, svolgere ex ante una valutazione di compatibilità paesaggistica degli interventi in carenza di concreti elaborati progettuali che descrivano dettagliatamente le opere strumentali all'esercizio dello stabilimento balneare, che non hanno una conformazione identica in ogni fattispecie concreta.
In pratica, per quanto possa trattarsi di opere amovibili a carattere stagionale, nondimeno l'autorità competente a pronunciarsi sulla loro compatibilità con il vincolo paesaggistico che grava sulla fascia costiera, ai sensi dell'art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, non può che essere la competente Soprintendenza, la quale, come aveva già osservato il giudice di primo grado, non era mai stata coinvolta nel procedimento funzionale alla formazione del titolo per l'esercizio dello stabilimento balneare.
Peraltro, ha anche affermato la Sezione, il rilascio dell'autorizzazione di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 80 del Tulps, presuppone la verifica della solidità e della sicurezza degli edifici e l'esistenza di uscite pienamente adatte allo sgombero.
Da ciò ne consegue che il titolo autorizzatorio non poteva essere surrogato dalla Scia, fermo restando che la pubblica sicurezza è esclusa dal perimetro applicativo dell'articolo 19 della legge 241 del 1990 e non è applicabile ai casi in cui è necessaria la valutazione di interessi sensibili quali l'ambiente e il paesaggio, in ordine ai quali è richiesto un particolare schema procedimentale (articolo ItaliaOggi del 10.07.2015).

APPALTI: Avvalimento, specificare le risorse rese disponibili. Pronuncia del cds del 07.07.2015.
Nell'avvalimento è necessario rendere esplicita e concreta la volontà di mettere a disposizione i requisiti di fatturato e tecnici; illegittima la mera riformulazione del dato normativo perché è necessario specificare in dettaglio le risorse messe a disposizione.

È quanto chiarisce il Consiglio di Stato, III Sez., con la sentenza 07.07.2015 n. 3390 rispetto all'articolo 49 del codice dei contratti pubblici.
Il problema riguardava una dichiarazione di avvalimento formulata in termini molto generici sia per il fatturato globale, sia per i requisiti tecnici di cui l'impresa partecipante risultava sprovvista.
I giudici chiariscono che quando l'avvalimento è prestato al solo fine di garantire la solidità patrimoniale dell'impresa partecipante alla gara (cd. avvalimento di garanzia) lo scopo è quello di garantire l'affidabilità del concorrente a sostenere finanziariamente sia l'attuazione dell'appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante nel caso d'inadempimento.
A tale riguardo la sentenza specifica che «anche per l'avvalimento di garanzia i relativi atti non possono risolversi in formule generiche e svincolate da qualsiasi collegamento con le risorse materiali o immateriali rese disponibili».
Pertanto l'avvalimento di garanzia può svolgere «la sua funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai rischi di inadempimento contrattuale solo se rende palese la concreta disponibilità di risorse e dotazioni aziendali da fornire all'ausiliata. Il limite di operatività dell'istituto è dato, quindi, dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto».
Quindi, dice la sentenza, è necessario che dal contratto risulti un impegno chiaro e concreto dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di garanzia.
In pratica, l'obiettivo è quello di far congiuntamente fronte all'esecuzione del nuovo contratto in maniera tale da fornire oggettive garanzie sulla serietà e riscontrabilità dell'impegno aggiuntivo assunto (articolo ItaliaOggi del 10.07.2015).
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MASSIMA
10.- Il motivo riguarda la controversa questione dei contenuti che devono avere gli atti attraverso i quali, in sede di partecipazione ad una gara pubblica, un’impresa ausiliaria presta propri requisiti in favore di altra impresa ausiliata, che di quei requisiti è in tutto o in parte carente.
10.1.- Al riguardo, si deve ricordare che l'articolo 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 contempla, in materia di avvalimento nelle gare di appalto, un procedimento negoziale complesso composto da atti unilaterali del concorrente (lettera a) e dell’impresa ausiliaria (lettera d), indirizzati alla stazione appaltante, nonché da un contratto tipico di avvalimento (lettera f) stipulato tra il concorrente e l’impresa ausiliaria.
10.2.-
Per giurisprudenza costante, l’impresa ausiliaria deve, peraltro, impegnarsi a mettere a disposizione dell’impresa ausiliata il requisito soggettivo del quale quest’ultima è priva non «quale mero valore astratto» ma indicando chiaramente con quali proprie risorse può far fronte alle esigenze per le quali si è impegnata a sopperire ai requisiti dei quali l’impresa ausiliata è carente, a seconda dei casi, con mezzi, personale o risorse economiche.
Si è, in proposito, affermato, che l’esigenza di una puntuale individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento, «oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico, nella generale previsione codicistica che configura quale causa di nullità di ogni contratto l’indeterminatezza (ed indeterminabilità) del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure contrattuali del settore pubblico, nella necessità di non permettere -fin troppo- agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche»
(Consiglio di Stato, Sez. V, n. 412 del 27.01.2014, Sez. VI, n. 3310 del 13.06.2013).
10.3.- In conseguenza,
la pratica della mera riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è carente il concorrente (o di simili espressioni) è stata ritenuta tautologica e, come tale, indeterminata e quindi inidonea a permettere un sindacato, da parte della Stazione appaltante, sull’effettiva messa a disposizione dei requisiti (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 412 del 27.01.2014 cit.).
10.4.- L’art. 88, primo comma, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163) ha recepito, a livello normativo, tali principi stabilendo che il contratto di avvalimento deve riportare «in modo compiuto, esplicito ed esauriente …le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico».
11.- In concreto, come questa Sezione ha già di recente ricordato (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2539 del 19.05.2015),
il rispetto di tale principio è certamente più agevole nel cd. avvalimento operativo, nel quale l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’impresa ausiliata determinati requisiti di capacità tecnica o professionale. Mentre più complessa è l’applicazione concreta del principio quando l’avvalimento è prestato al (solo) fine di garantire la solidità patrimoniale dell’impresa partecipante alla gara (cd. avvalimento di garanzia).
12.- Con riferimento, in particolare, all’avvalimento di garanzia, questa Sezione, ha ricordato che
i requisiti di fatturato sono preordinati a garantire l’affidabilità del concorrente a sostenere finanziariamente sia l’attuazione dell’appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante nel caso d’inadempimento. Ciò posto, benché il c.d. avvalimento “di garanzia” debba essere distinto da quello “operativo”, anche per l’avvalimento “di garanzia" i relativi atti non possono risolversi in formule generiche e svincolate da qualsiasi collegamento con le risorse materiali o immateriali rese disponibili (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3057 del 17.06.2014).
L’avvalimento di garanzia può spiegare, infatti, la sua funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai rischi di inadempimento contrattuale solo se rende palese la concreta disponibilità di risorse e dotazioni aziendali da fornire all'ausiliata.
Il limite di operatività dell'istituto è dato, quindi, dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, ma è invece necessario che dal contratto risulti un impegno chiaro e concreto dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di garanzia (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2539 del 19.05.2015; n. 3057 del 17.06.2014).

APPALTI SERVIZI: Sull'illegittimità dell'affidamento diretto del servizio pubblico di raccolta rifiuti ad una cooperativa sociale.
E' illegittimo l'affidamento diretto del servizio pubblico di raccolta rifiuti ad una cooperativa sociale in quanto benché l'art. 5 della l. n. 381/1991 preveda che "gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione", possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di servizi "per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli sociosanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate", la norma consente all'amministrazione l'affidamento diretto del servizio alle cooperative, quando ricorrono le condizioni specificamente indicate, ossia qualora si tratti di appalti di fornitura di beni e servizi.
Tale tipologia di appalti presuppone, in coerenza con la causa del contratto, che la relativa prestazione sia rivolta all'amministrazione per soddisfare una sua specifica esigenza al fine di ottenere, quale corrispettivo, il pagamento di una determinata somma e non fa riferimento all'affidamento di servizi pubblici locali quale il servizio pubblico di raccolta rifiuti.
Inoltre, la summenzionata norma, derogando ai principi generali di tutela della concorrenza che presiedono alla svolgimento delle procedure di gara, ha valenza eccezionale ed in quanto tale deve essere interpretata in maniera restrittiva.
Ne consegue che non è possibile fare rientrare nel suo campo di applicazione contratti diversi da quelli specificamente indicati e, conseguentemente, tale norma non può trovare applicazione per il servizio pubblico di raccolta di rifiuti in parola (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 06.07.2015 n. 637 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANon c'è dubbio che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, la contravvenzione prevista e punita dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto l'illegittima emissione di gas, vapori, fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo, assuma il carattere della permanenza, non potendosi ravvisare la consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione di durata temporale non sempre individuabile.
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Va ricordato che per il reato di cui all'art. 674 cod. pen., l'evento dì molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi o vapori è apprezzabile a prescindere dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c..
E' comunque necessario che venga accertato, in modo rigoroso, il limite in questione.

2. Quanto all'eccepita violazione del principio del ne bis in idem, non c'è dubbio che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, la contravvenzione prevista e punita dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto l'illegittima emissione di gas, vapori, fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo, assuma il carattere della permanenza, non potendosi ravvisare la consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione di durata temporale non sempre individuabile.
Ne segue che, se la sentenza di primo grado abbia accertato la permanente attualità dell'attività produttiva in termini non diversi da quelli del momento della contestazione, quanto a strumenti di produzione, la permanenza nel reato deve ritenersi cessata con la pronuncia di detta sentenza (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 9293 del 10/08/1995).
2.1. Il ricorrente omette, però, di considerare che la sentenza passata in giudicato, come rilevato dal Tribunale, alla cui motivazione rinvia la Corte territoriale ( e come peraltro non risulta contestato), aveva ad oggetto fatti commessi fino all'11/12/2007 (pag. 3 sent. Trib).
Trattandosi di contestazione "chiusa", la permanenza doveva ritenersi, quindi, cessata (già prima della sentenza) alla data indicata nell'imputazione.
I fatti per cui si procede risultano accertati, invece, il 30 giugno ed il 03.11.2009.
Trattasi quindi di una condotta successiva che, come tale, non può essere coperta dal precedente giudicato.
3. In ordine al secondo motivo, va ricordato che per il reato di cui all'art. 674 cod. pen., l'evento dì molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi o vapori è apprezzabile a prescindere dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c. (Cass. Sez. 3 n. 34896 del 14.07.2011; e più di recente Cass. Sez. 3 n. 37037 in tema di "immissioni olfattive"). E' comunque necessario che venga accertato, in modo rigoroso, il limite in questione.
I Giudici di merito hanno ampiamente argomentato in ordine al superamento di siffatta normale tollerabilità.
Già il Tribunale aveva accertato che l'imputato, nell'esercizio dell'attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, avesse provocato l'emissione di fumi e vapori nauseabondi.
Che l'emissione fosse nauseabonda ed atta a molestare era stato direttamente constatato anche dagli Agenti di Polizia municipale, B. e S. (quest'ultimo, nel corso del sopralluogo veniva, addirittura, colto da un attacco di nausea) -pag. 2 sent. Trib. La Corte territoriale nel confutare i rilievi difensivi, ha ribadito che dalle risultanze processuali emergesse, in modo inequivocabile, l'emissione nell'atmosfera di fumi e vapori nauseabondi (pag. 4 sent. app.).
3.1.11 ricorrente, anziché censurare siffatte argomentazioni, ripropone doglianze in fatto (in ordine al buon funzionamento dell'impianto di areazione e deodorizzazione), oppure irrilevanti (quanto al mancato consenso da parte dei condomini alla installazione di una canna fumaria).
4. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento in favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in euro 1.000,00, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen.; ed infine alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile e che si liquidano come da dispositivo.
Va solo aggiunto che l'inammissibilità del ricorso preclude la possibilità di dichiarare ex art. 129, comma 1, cod. proc. pen. cause di non punibilità. Peraltro la eccepita prescrizione non è ancora maturata, non tenendo conto il ricorrente dei periodi di sospensione della stessa, intervenuti nel corso del giudizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.07.2015 n. 27562).

APPALTI:  Sulla finalità dell'istituto dell'avvalimento.
L'avvalimento può essere utilizzato anche per dimostrare la disponibilità dei requisiti soggettivi di qualità: condizioni.

L'istituto dell'avvalimento, di derivazione comunitaria, è finalizzato a garantire la massima partecipazione alle gare pubbliche, consentendo alle imprese non munite dei requisiti partecipativi, di giovarsi delle capacità tecniche ed economico-finanziarie di altre imprese; il principio generale che caratterizza l'istituto è quello secondo cui, ai fini della partecipazione alle procedure concorsuali, il concorrente, per dimostrare le capacità tecniche, finanziarie ed economiche, nonché il possesso dei mezzi necessari all'esecuzione dell'appalto e richiesti dal relativo bando, è abilitato a fare riferimento alla capacità e ai mezzi di uno o più soggetti diversi, ai quali può ricorrere tramite la stipulazione, appunto, di un contratto di avvalimento
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L'avvalimento può essere utilizzato anche per dimostrare la disponibilità dei requisiti soggettivi di qualità, atteso che la disciplina del codice non contiene alcuno specifico divieto in ordine ai requisiti soggettivi che possono essere comprovati mediante tale istituto (che ha pertanto una portata generale), fermo restando l'onere del concorrente di dimostrare che l'impresa ausiliaria non si impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità, e quindi, a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto dell'appalto. L'istituto dell'avvalimento è ritenuto quindi ammissibile anche quanto alla certificazione SOA.
Tuttavia, la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessario che dal contratto risulti chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
In altri termini, è insufficiente allo scopo la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente", o espressioni equivalenti.
Pertanto è legittima l'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati, atteso che l'esigenza di una puntuale analitica individuazione dell'oggetto del contratto di avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico nella generale previsione codicistica che configura quale causa di nullità di ogni contratto l'indeterminatezza (e l'indeterminabilità) del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure contrattuali pubbliche, nella necessità di non consentire facili e strumentali aggiramenti del sistema dei requisiti di partecipazione alle gare (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 01.07.2015 n. 1165 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIAppalti. Esclusione. Chance persa, danno solo se la vittoria è probabile.
In caso di esclusione dall’appalto, il «danno da perdita di chance» non è provato dal «prestigio commerciale» dell’impresa, ma solo dalla «significativa» probabilità di successo in gara.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato nella sentenza 30.06.2015 n. 3249, depositata dalla V Sez., accogliendo il ricorso di un consorzio condannato a risarcire un’azienda per l’esclusione da un bando per lavori su un inceneritore allora a “licitazione privata” o ad invito (oggi “procedura ristretta” in base al Dlgs n. 163/2006).
A causa del breve tempo concesso, c’erano state solo due offerte su 14 ditte invitate. La ditta aveva chiesto solo la proroga dei termini.
Per i giudici, chi chiede il risarcimento deve «provare gli elementi atti a dimostrare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazione equitativa del danno, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, presuppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile» e il danno a tale possibilità «presuppone che sussista una probabilità di successo (…) almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative».
Nel caso in esame, vi è «una mera “aspettativa di fatto”» senza «alcun oggettivo e specifico elemento di prova (non potendosi annettere decisiva importanza al “prestigio commerciale”), da cui poter dedurre una significativa chance di successo (…) tanto in considerazione del numero non ristretto di ditte che hanno effettivamente manifestato interesse alla partecipazione alla gara (…) e della ulteriore circostanza che, se fosse stato disposto il richiesto differimento, avrebbero verosimilmente presentato le proprie offerte»
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2015).
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MASSIMA
Considerato che:
f) in relazione al «risarcimento del danno da perdita di chance» derivante dalla mancata partecipazione a procedure di gara indette per l’aggiudicazione di appalti pubblici, va osservato, in una con la consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n. 131 del 2015; Sez. V, n. 3082 del 2014; Sez. V, n. 2195 del 2014; Cass. civ., n. 20351 del 2010 e n. 21255 del 2013, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 120, co. 10, c.p.a.) che:
   I)
il danno da «perdita di chance» è da intendersi, in linea di principio, quale lesione della concreta occasione favorevole di conseguire un determinato bene, occasione che non è mera aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione;
   II)
in ordine alla prova del grado di concreta ed effettiva possibilità di conseguire il bene della vita, va rilevato come, superata la teoria ‘ontologica’ secondo cui la risarcibilità sarebbe svincolata dalla idoneità presuntiva della chance ad ottenere il risultato finale, si sia affermato il diverso indirizzo c.d. eziologico, legato al criterio della c.d. causalità adeguata o ‘regolarità causale’ o ‘probabilità prevalente’;
   III)
pertanto il danno da perdita di chance può essere in concreto ravvisato e risarcito (ove ne ricorrano i presupposti anche in via equitativa), solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita e, cioè, in ragione della maggiore o minore probabilità dell'occasione perduta;
   IV) in questo senso si è più volte precisato, con argomentazioni estensibili al caso di specie, che
il ricorrente ha l'onere di provare gli elementi atti a dimostrare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazione equitativa del danno, ai sensi dell'articolo 1226 del codice civile, presuppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile; in particolare, la lesione della possibilità concreta di ottenere un risultato favorevole presuppone che sussista una probabilità di successo (nella specie di vedersi aggiudicato l'appalto) almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative;
g) nella specie, il ricorrente non ha addotto alcun oggettivo e specifico elemento di prova (non potendosi annettere decisiva importanza all’elemento del ‘prestigio commerciale’ della medesima azienda), da cui poter inferire l'esistenza di una significativa chance di successo, in termini di rilevante probabilità di aggiudicazione dell'appalto e, tantomeno, nella misura del 50 per cento; tanto in considerazione del numero non ristretto di ditte che hanno effettivamente manifestato interesse alla partecipazione alla gara (pari a 8, ovvero le due che hanno effettivamente preso parte alla procedura e le 6 che hanno chiesto alla stazione appaltante un congruo lasso temporale per elaborare le offerte), e della ulteriore circostanza che, se fosse stato disposto il richiesto differimento, avrebbero verosimilmente presentato le proprie offerte;
h) in tale contesto, quindi, l'aspirazione della ditta Secir al conseguimento dell'appalto rimane relegata ad una mera ‘aspettativa di fatto’, non meritevole di tutela risarcitoria;
i) l’appello va pertanto accolto, con reiezione del ricorso di primo grado, mentre, attesa la novità della questione di fatto, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

APPALTI SERVIZI: Sull'insussistenza del divieto di partecipazione alle nuove gare nei confronti degli affidatari diretti di servizi pubblici locali.
Il divieto di partecipazione alle gare per l'affidamento di servizi pubblici locali stabilito dall'art. 23-bis del D.L. n. 112/2008, conv.con mod. in l. n. 133/2008, è venuto meno per effetto della nota abrogazione referendaria della norma, la quale non ha comportato la reviviscenza dell'art. 113 T.U.E.L. nelle parti abrogate dallo stesso art. 23-bis (sent. Corte Cost., 26.01.2011, n. 24).
D'altro canto, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 4 del D.L. n. 138/2011, dettato dal legislatore per colmare il vuoto originato dall'abrogazione dell'art. 23-bis, la materia dei servizi pubblici trova ora la sua composita disciplina nell'art. 34 del D.L. n. 179/2012, nell'art. 25 del D.L. n. 1/2012, nell'art. 3-bis del D.L. n. 138/2011 e in una serie di disposizioni "sparse", oltre che nelle previsioni settoriali relative ad alcuni settori: coacervo normativo dal quale non è dato evincere alcun formale divieto di partecipazione alle nuove gare nei confronti degli affidatari diretti di servizi pubblici locali (salvo il divieto, che nel caso di specie non rileva, stabilito per il settore della distribuzione del gas naturale dall'art. 14 del D.Lgs. n. 164/2000) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 29.06.2015 n. 981 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Variare i volumi, la Scia non basta. La Cassazione sulle ristrutturazioni.
Necessita del permesso a costruire, e non di sola Dia (oggi Scia) la ricostruzione di un immobile demolito con modificazioni tipologiche, variazione di destinazione d'uso e con parziale incremento volumetrico. In seguito all'innovazione legislativa (dl n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013) costituita dalla modificazione introdotta nel dpr n. 380/2001 (testo unico edilizia) «il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della Dia, ora, della Scia».

Tutto questo lo sostiene la Corte di cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 25.06.2015 n. 26713.
Sottolineano i giudici di piazza Cavour proprio con riferimento alla sopravvenuta innovazione legislativa (decreto fare) integra il reato di cui all'articolo 44 del dpr n. 380 del 2001 la ricostruzione di un edificio demolito senza il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e o di ristrutturazione, di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'articolo 30 del decreto del fare che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della Scia, o in passato della Dia, richiede l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili.
Ricordiamo dal 21.08.2013, sono compresi tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e ricostruzione di un immobile con la stessa volumetria di quello precedente, senza che sia necessario rispettarne la sagoma (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione dopo il d.l. 69 del 2013.
E' ben vero che, per effetto del dl n. 69 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013 il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA, ma non va, tuttavia, trascurato che anche in questi casi è pur sempre necessario, onde accertare che sia rimasta invariata anche la, preesistente volumetria, che sia possibile operare la verifica della originaria consistenza in base a riscontri documentali od altri elementi certi è verificabili.
A questo punto non resta che da verificare se ed in che termini la impugnata ordinanza sia rispettosa dei principi legislativi in materia di ristrutturazione edilizia dettati, principalmente, dagli artt. 3 e 10 del dPR n. 380 del 2001, pure nel testo attualmente vigente a seguito della modifiche apportate, da ultimo, dall'art. 30 del dl n. 69 del 2013, come convertito dalla legge n. 98 del 2013, e, subordinatamente al rispetto dei principi fondamentali fissati dal legislatore nazionale in materia di governo del territorio, dall'art. 79, comma 2, lettera d), della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005.
Deve in via del tutto prioritaria precisarsi che spetta esclusivamente al legislatore nazionale, nell'esercizio della sua competenza in ordine alla fissazione dei principi fondamentali in tema di governo del territorio, dettare le nozioni e le definizioni degli istituti fondamentali rilevanti in tale materia.
Fra di esse vi è là indicazione delle tipologie di attività edilizie soggette al permesso a costruire; fra queste, secondo il chiaro tenore dell'art. 10 del dPR n. 380 del 2001, vi sono gli interventi di ristrutturazione edilizia che "portino ad un organismo edilizio in tutto od in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti".
Più in particolare l'art. 3, comma 1, lettera d), del medesimo dPR n. 380 del 2001, precisa che, nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, come tali subordinati al rilascio del permesso à costruire, vanno ricompresi "anche quelli consistenti, nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici crollati o demoliti, attraverso la (ori ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza".
Sulla base dei riportati dati normativi dovrebbe concludersi nel senso della corretta interpretazione che di essi ne è stata fatta dal Tribunale di Grosseto; questo, infatti, ha ritenuto che necessitassero di permesso a costruire, e non di sola DIA, le opere realizzate dal P., trattandosi, alla luce delle cognizione sommaria propria della presente fase cautelare, della ricostruzione di manufatti demoliti con modificazioni tipologiche, variazione di destinazione d'uso 'e un parziale loro incremento volumetrico.
A tale proposito, e, proprio con riferimento alla sopravvenuta innovazione legislativa, costituita dalla ricordata modificazione introdotta nell'art. 10, comma 1, lettera c), del dPR n. 380 del 2001 per effetto della entrata in vigore del dl n. 69 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013, invocata dallo stesso ricorrente, questa Corte ha avuto occasione di precisare più volte che integra il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del 2001 la ricostruzione di un edificio demolito senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione, di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (convertito, in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della SCIA, o in passato della DIA, richiede l'accertamento dell'a preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili (Corte di cassazione, Sezione III penale, 30.09.2014, n. 40342).
E' ben vero che, come segnala lo stesso ricorrente, per effetto della ricordata innovazione legislativa il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA, ma non va, tuttavia, trascurato che anche in questi casi è pur sempre necessario, onde accertare che sia rimasta invariata anche la, preesistente volumetria, che sia possibile operare la verifica della originaria consistenza in base a riscontri documentali od altri elementi certi è verificabili (Corte di cassazione, Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912).
La circostanza che nel caso in esame tali elementi non sono stati forniti dal ricorrente al giudice della cautela con la necessaria efficacia probatoria, fa sì che non possa ritenersi escluso, tanto più in questa fase cautelare, caratterizzata, tenuto conto anche della natura reale del vincolo disposto col provvedimento de Gip di Grosseto, da un grado piuttosto sommario di cognizione, il fumus commissi delicti idoneo a giustificare la adozione ed il mantenimento del provvedimento oggetto di doglianza da parte del P..
Né siffatta ricostruzione può dirsi contraddetta da quanto il legislatore regionale ha disciplinato all'art. 79, comma 2, lettera d), della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, posto che tale disposizione consente che siano assentibili a seguito di mera SCIA anche gli interventi di ristrutturazione edilizia facenti seguito a precedenti demolizioni ma solo nel caso in cui essi consistano nella fedele ricostruzione dell'edificio preesistente, intendendosi per tale quella realizzata con gli stessi materiali o con materiali analoghi, con la stessa collocazione e con lo stesso ingombro planivolumetrico; requisiti tutti questi che, all'o stato degli atti, il Tribunale di Grosseto non è stato messo in grado di verificare ed in relazione ai quali non è stato eccepito dal ricorrente il fatto che essi, sebbene esistenti e suscettibili di verifica da parte del Tribunale maremmano, non siano stati da questo presi nella dovuta considerazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2015 n. 26713 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, sanzioni in base al peso urbanistico. Al Comune resta la chance dell’ordinanza di ripristino. Consiglio di Stato. In caso di sottoelevazioni o sopraelevazioni demolizione non scontata.
Sanzioni severe sugli abusi edilizi che modificano fondamenta o sottotetti di costruzioni già esistenti.
Questo l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nelle due sentenze della Sez. VI sentenza 23.06.2015 n. 3179 (presidente Patroni Griffi, estensore De Michele) e della Sez. IV sentenza 16.06.2015 n. 2980 (presidente Giaccardi, estensore Maggio).
Nel primo caso, l’edificio aveva un piano in più non realizzato in elevazione, ma attraverso lo sbancamento di tre metri di terreno. Il notevole aumento di volume aveva indotto il Comune ad adottare una sanzione di totale demolizione, ritenendo che il manufatto fosse diventato un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetria. Lo sbancamento, infatti, si cumulava a un mutamento di destinazione e ad altri abusi di minore entità.
L’aspetto interessante è che l’abuso lasciava apparentemente immutata la costruzione, perché l'ulteriore livello era ricavato al di sotto di quello assentito. Tale circostanza è stata sottolineata dai giudici amministrativi precisando che le sanzioni urbanistiche prevedono in astratto la “rimozione” delle difformità rispetto al progetto assentito.
La sanzione, tuttavia, non può essere irrazionale, perché principi di rilevanza anche comunitaria impongono proporzionalità e ragionevolezza. Applicandoli al caso specifico è stata esclusa la demolizione dell’intero manufatto, ma al Comune è rimasta la via dell’ordinanza di ripristino (interramento) e della sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore.
Stesso ragionamento è quello svolto dal Consiglio di Stato nella seconda sentenza: la realizzazione di un’altezza superiore nel sottotetto va sanzionata in misura pari al doppio del valore dell’intero volume, senza detrarre quello del sottotetto originariamente esistente. Anche in questo caso la demolizione è stata esclusa, perché avrebbe pregiudicato strutture legittime (l’edificio). Ma la sanzione pecuniaria è stata molto elevata (270mila euro per un ex sottotetto), perché i lavori abusivi avevano reso utilizzabile a fini residenziali una superficie in precedenza adibita a ripostiglio-lavanderia.
La repressione degli abusi edilizi, in entrambi i casi, si basa sul peso urbanistico dell’intervento e non delle opere edili necessarie a modificare le costruzioni. Il problema era già stato affrontato dal Consiglio di Stato nella sentenza 127/1983, escludendo che il valore del volume preesistente l’abuso potesse essere portato in detrazione dalla sanzione pecuniaria.
In altri termini, se per realizzare un nuovo volume residenziale si rinuncia a un locale accessorio, la sanzione pecuniaria che il Comune può irrogare in alternativa alla riduzione in pristino sarà pari al doppio del valore della residenza, senza detrarre il valore di quanto preesisteva all’abuso
 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire anche se manca il sì dei condòmini. Tar Campania. Il Comune non può pretenderlo.
In materia urbanistico–edilizia esistono diversi casi in cui prima dell’emanazione del provvedimento, vengono sentiti i soggetti interessati e i portatori di interessi diffusi.
Per esempio, è riconosciuta la partecipazione della collettività per quanto riguarda la formazione dei piani regolatori comunali, relativamente ai quali chiunque può prendere visione degli elaborati e presentare le proprie osservazioni in una visione di tipo partecipativo. Allo stesso modo, in caso di realizzazione di impianti industriali, laddove il Dpr 447/1998 prevede che i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, ai quali possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione dell’impianto, possono trasmettere memorie e chiedere di essere sentiti in contraddittorio.
Nulla di simile, però, è previsto invece nel caso di rilascio del permesso di costruire.
L’articolo 11 del Dpr 380/2001 infatti si limita a prevedere che «il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazioni dei diritti dei terzi».

Con la recentissima sentenza 22.06.2015 n. 1409 il TAR Campania-Salerno -Sez. I-  ha ricordato che il rilascio dei titoli edilizi abilitativi non è subordinato al consenso dei condòmini, in quanto i rapporti tra questi e l’istante hanno natura e rilevanza privatistica e non devono interessare l’amministrazione locale, anche perché vi è comunque la clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi prevista dall’articolo 11, comma 3, Dpr 380/2011.
Su questo presupposto il Tar ha escluso che, relativamente alla Scia, residui un potere di autotutela in capo all’Amministrazione una volta venuta a conoscenza della mancanza dell’autorizzazione condominiale.
La giurisprudenza ritiene che l’attività istruttoria non ha il fine di risolvere contrasti tra privati in merito alla titolarità dell’area, ma di accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
La verifica del titolo di proprietà non significa affatto che l’Amministrazione abbia l’obbligo incondizionato di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato (Tar Lombardia Milano 2766/2014).
Il permesso di costruire risulta quindi legittimamente rilasciato ancorché sia accertata, successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla proprietà del titolare del permesso.
In tal senso risulta illegittima la sospensione di una Dia ove sia dovuta al mancato assenso da parte del condominio, inerendo tematiche privatistiche.
Se normalmente l’Amministrazione non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza della richiesta edificatoria prodotta da un comproprietario, al contrario, qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il Comune deve verificare se l’istante abbia l’effettiva disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio (Tar Campania, Salerno, 210/2013; Tar Puglia, Lecce 49/2012; Tar Piemonte, I, 3182/2008).
Si può concludere ritenendo che il Comune verifica il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, in modo che il controllo si traduca in una semplice presa d’atto (Tar Campania, Napoli, 3666/2012)
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il giudice non può rilevare un interesse ex officio.
Sebbene il comma 3 dell'art. 34 c.p.a. preveda che «quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori», va osservato che, laddove tale interesse non sia stato attualizzato e concretizzato tramite la presentazione formale di una specifica domanda, non si può affermare che competa al giudice rilevare ex officio l'ipotetica presenza di un interesse, la cui azionabilità è ancora nel potere della parte interessata.

Lo hanno sottolineato i giudici della II Sez. del TAR Liguria con la sentenza 19.06.2015 n. 587.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi genovesi, un soggetto ricorrente agiva per l'annullamento della procedura di mobilità indetta dalla Asl, sul presupposto che questa, determinando la copertura del posto di dirigente medico a disposizione della Asl, frustrava la sua aspettativa all'assunzione nella medesima posizione mediante scorrimento della graduatoria previgente.
Tuttavia, poiché la procedura di mobilità si concludeva infruttuosamente con la rinuncia dell'unico candidato classificatosi, deve ritenersi che sia venuto meno –ex art. 84, comma 4, c.p.a.– l'interesse del ricorrente alla decisione della causa, non potendo derivargli alcun vantaggio da una eventuale pronuncia di annullamento di un atto che non ha mai esplicato –né potrà più esplicare– i suoi effetti lesivi (la copertura del posto disponibile).
Hanno altresì evidenziato i giudici liguri che né rileva, ai fini della persistenza dell'interesse alla decisione, l'eventuale effetto conformativo derivante da una pronuncia di annullamento, posto che resterebbe comunque nell'insindacabile ambito discrezionale dell'amministrazione la decisione di non procedere affatto alla copertura del posto vacante.
Analogamente, non residua neppure un interesse all'accertamento dell'illegittimità del bando ex art. 34, comma 3, c.p.a., «al fine dell'eventuale, successiva proposizione dell'azione risarcitoria» (così la memoria del ricorrente) (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015).

APPALTI: Avvalimenti specificati.
In tema di avvalimento è indispensabile la specificazione delle risorse e dei mezzi aziendali messi a disposizione dell'impresa concorrente al precipuo fine di rendere concreto e verificabile da parte della stazione appaltante il «prestito».

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 18.06.2015 n. 3125.
Secondo i supremi giudici amministrativi, in sostanza, il contratto deve avvenire attraverso l'assunzione da parte dell'ausiliaria, tanto nei confronti della concorrente quanto nei confronti della stazione appaltante, ai sensi delle lett. d) ed f) dell'art. 49, co. 1, del dlgs 163/2006, dell'obbligo di mettere a disposizione le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di capacità oggetto di avvalimento (e pertanto, a seconda dei casi: mezzi, personale, conoscenze tecniche e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti).
I giudici del Consiglio di Stato hanno altresì evidenziato che ciò in quanto il regime di responsabilità può operare soltanto se viene specificamente indicata la prestazione cui tale responsabilità si riferisce. Non è possibile postulare un inadempimento contrattuale e la conseguente responsabilità di un soggetto il cui obbligo è stato genericamente dedotto in contratto.
Ed anche ipotizzando che si fosse di fronte ad un solo avvalimento di garanzia, «il limite di operatività dell'istituto è dato dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessario che dal contratto risulti chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di garanzia» (si veda Cons. stato, da ultimo sez. III 19.05.2015 n. 2539) (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015).

VARI: Incroci e strisce pedonali Dalla multa non si scappa.
Chi supera l'auto dei vigili in centro abitato in prossimità di incroci e passaggi pedonali va incontro a una multa certa. Senza possibilità di smentita.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 17.06.2015 n. 12574.
Un automobilista distratto ha superato l'auto di servizio della polizia municipale in una zona densamente trafficata. Contro la conseguente multa per velocità pericolosa notificata per posta l'interessato ha proposto ricorso fino al palazzaccio ma senza risultati apprezzabili.
Il verbale per violazione dell'art. 141 del codice stradale, se adeguatamente motivato, non è censurabile.
Superare un veicolo di servizio che circola a circa 40 km/h in prossimità di incroci e passaggi pedonali rappresenta una chiara condotta di guida pericolosa. Se nella multa vengono indicati compiutamente tutti i dettagli della circostanza osservata dagli agenti la valutazione sintetica degli operatori di polizia è difficilmente attaccabile.
In buona sostanza la velocità pericolosa si basa su percezioni dei vigili che devono essere documentate nella multa. In questo caso risulterà difficile vincere un ricorso (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015).

TRIBUTI: Le aree vincolate pagano la Tasi. I divieti posti dal comune non precludono la tassazione. La Cassazione: l'edificabilità di un'area non è esclusa dalla presenza di limiti ambientali.
I divieti amministrativi posti dal comune per l'edificazione di un'area e i vincoli ambientali che gravano su di essa non escludono che l'immobile sia soggetto al pagamento dell'Ici, dell'Imu e della Tasi.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 11.06.2015 n. 12169.
Per i giudici di piazza Cavour, che hanno affermato l'assoggettamento a Ici delle aree edificabili soggette a vincoli, ma la regola vale anche per Imu e Tasi, la presenza di limiti nei piani regolatori comunali non fa venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili.
L'edificabilità di un'area non può essere esclusa dalla presenza di vincoli ambientali o di particolari destinazioni urbanistiche. Si tratta di una questione controversa e dibattuta da tempo quella che riguarda l'assoggettabilità alle imposte locali delle aree vincolate. Anche la posizione della Cassazione non è stata univoca. Tuttavia, ha costantemente ribadito la regola che la presenza di vincoli ha comunque un'incidenza sul valore venale in comune commercio dell'area e sulla base imponibile. Quindi, l'imposta va versata in misura ridotta.
Del resto, per quantificare il valore dell'area occorre fare riferimento anche alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità e alla destinazione d'uso consentita.
In senso contrario si è espressa sempre la Cassazione con la sentenza 25672/2008, affermando che se il piano regolatore generale del comune prevede che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare. L'area, dunque, non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta dallo strumento urbanistico.
L'orientamento non è uniforme neppure nella giurisprudenza di merito. Per esempio, secondo la commissione tributaria regionale di Milano (sentenza 71/2013) un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene.
Per il giudice d'appello lo strumento urbanistico destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport, rendendo palese il vincolo di utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità (articolo ItaliaOggi del 09.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Deroga al Prg per interesse pubblico. Edifici riconvertiti.
Se è garantita «fruibilità collettiva», il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici può essere rilasciato anche per trasformare un edificio privato storico in centro commerciale.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato -Sez. IV- nella sentenza 05.06.2015 n. 2761, bocciando il ricorso di un’associazione ambientalista contro la riqualificazione di un immobile privato del 1500, già sede di Poste, e sotto vincolo paesaggistico.
Il progetto –con l’«ok» di Consiglio comunale e Soprintendenza- prevedeva l’uso pubblico gratuito di spazi interni per almeno 10 giorni l’anno. Ciò, per la ricorrente, non assicurava l’«interesse pubblico» richiesto dal Testo unico dell’edilizia (articolo 14, Dpr n. 380/2001) che ammette la deroga «esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale» e nel rispetto del Codice dei beni culturali (Dlgs n. 42/2004).
Per il collegio, invece, con beni privati «occorre verificare se vi sia un interesse pubblico che possa concorrere con quello privato al recupero ed allo sfruttamento commerciale» e «non è necessario che l’interesse pubblico attenga al carattere pubblico dell'edificio o del suo utilizzo, ma è sufficiente che coincida con gli effetti benefici per la collettività che dalla deroga potenzialmente derivano, in una logica di ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità del caso, ed esulante da considerazioni meramente finanziarie».
Nel caso di specie, si è accertato che la deroga –con densità e altezza immutate- «ha un peso comparativamente minimo rispetto ai miglioramenti che ne derivano (…) (recupero, accessibilità, fruibilità, incremento occupazionale, eccetera»
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAi fini della sussistenza della contravvenzione di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., è sufficiente che l'evento di disturbo, in relazione alla capacità diffusiva dei rumori, sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se di fatto se ne lamentino solo alcune o addirittura nessuna, potendosi, comunque, ritenere leso il bene giuridico tutelato dalla norma e cioè quello dell'ordine pubblico inteso come tranquillità pubblica.
Il disturbo previsto dall'art. 659 cod. pen. si identifica infatti con una sensibile alterazione delle normali condizioni in cui si svolgono il riposo, le occupazioni o le altre attività previste dalla norma, con la conseguenza che il fatto di reato è integrato ogni qualvolta si verifichi un concreto pericolo di disturbo che superi i limiti di normale tollerabilità, a prescindere dal mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia per i mestieri rumorosi, la cui valutazione deve essere effettuata con criteri oggettivi riferibili alla media sensibilità delle persone che vivono nell'ambiente dove i suoni o i rumori vengono percepiti.
Ne consegue che, ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen., l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità.
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In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell'ambito di una attività legittimamente autorizzata, è configurabile:
a) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, ove si verifichi solo il mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia;
b) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato;
c) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustica.

2. Come si evince dal testo della sentenza impugnata, è emerso, in punto di fatto, che il denunziante G.R. -esaminato come teste quale condomino del fabbricato sito in Trani al Corso .... (dove è ubicata la palestra ....A.s.d., gestita dal ricorrente) ed occupante, unitamente alla sua famiglia, l'appartamento al quinto piano- ha riferito la propagazione quotidiana dalla palestra di emissioni sonore provocate dalla diffusione di musica ad alto volume ed incitamenti degli istruttori mediante sistema di amplificazione di notevole potenza.
Il medesimo ha specificato che le attività della palestra avevano inizio alle ore nove-dieci del mattino e proseguivano fino alle ore 21:30, con una temporanea sospensione per la pausa pranzo, in maniera incalzante ed incisiva con basi musicali, urla di sollecitazione e di comando dell'attività fisica ad eseguirsi da parte dei frequentatori.
Ha precisato, inoltre, che le immissioni sonore, già in precedenza intollerabili erano divenute ancora più invasive allorquando il ricorrente aveva realizzato delle prese d'aria sul solaio del piano interrato, sede della palestra, proprio in corrispondenza di un terrazzino interno allo stabile, lasciate, ovviamente, aperte durante le ore di lezione per il cambio d'aria, unitamente all'apertura dei vetri delle finestre poste perimetralmente al locale, ubicate nella zona di transito dei box condominiali.
Ha riferito, ancora, di una serie di esposti rivolti alle forze di Polizia Vigili Urbani e Carabinieri da parte di centinaia di cittadini residenti nella zona di Corso Don Luigi Sturzo e aree limitrofe, senza alcun esito nonché di alcuni controlli fonometrici eseguiti, non completamente attendibili in quanto realizzati dai tecnici in contraddittorio con il C. e, quindi, previo avviso del loro arrivo e delle operazioni in corso, con conseguente preventiva notevole riduzione del volume delle emissioni da parte del titolare della palestra.
Ha avuto, altresì, modo di evidenziare una serie di limitazioni subite nel godimento della casa e disagi di natura psico-fisica personali, della moglie e dei figli, anche relativamente alla necessaria concentrazione per gli studi nelle ore pomeridiane.
Ha riferito, infine, di aver raccolto personalmente le lamentele e le firme di almeno cinquanta delle novantacinque firme poste in calce all'esposto del 27.05.2010 che aveva poi determinato l'avvio dell'azione penale da parte della Procura in sede.
Le dichiarazioni rese dal R. sono risultate in parte confermate dagli stessi testi escussi su richiesta della difesa (alcuni clienti iscritti alla palestra, un istruttore, il fratello dell'imputato), nella parte in cui hanno riferito della pratica di attività ginnico-ricreative all'interno della palestra con ausilio di basi musicali diffuse mediante un sistema di amplificazione (mixer più casse acustiche) mentre è stata registrata una divergenza tra le dichiarazioni dei testi a discarico e quelle rese dal R. esclusivamente riguardo il livello delle emissioni sonore e dei rumori provocati dalle attività svolte nella palestra.
3. Alla stregua delle richiamate risultanze, deve ritenersi che correttamente il primo giudice sia pervenuto ad affermare la responsabilità dell'imputato sul rilievo che, ai fini della sussistenza della contravvenzione di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., è sufficiente che l'evento di disturbo, in relazione alla capacità diffusiva dei rumori, sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se di fatto se ne lamentino solo alcune o addirittura nessuna, potendosi, comunque, ritenere leso il bene giuridico tutelato dalla norma e cioè quello dell'ordine pubblico inteso come tranquillità pubblica.
Il disturbo previsto dall'art. 659 cod. pen. si identifica infatti con una sensibile alterazione delle normali condizioni in cui si svolgono il riposo, le occupazioni o le altre attività previste dalla norma, con la conseguenza che il fatto di reato è integrato ogni qualvolta si verifichi un concreto pericolo di disturbo che superi i limiti di normale tollerabilità, a prescindere dal mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia per i mestieri rumorosi, la cui valutazione deve essere effettuata con criteri oggettivi riferibili alla media sensibilità delle persone che vivono nell'ambiente dove i suoni o i rumori vengono percepiti (Sez. 1, n. 3261 del 23/02/1994, Floris, Rv. 199107).
Ne consegue che, ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen., l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (Sez. 1, n. 20954 del 18/01/2011, Toma, Rv. 250417).
Nel caso di specie, relativo all'accertamento della natura molesta della musica, riprodotta ad alto volume, dei suoni e dei rumori provenienti da una palestra per la durata di oltre dieci ore al giorno, esclusa una breve interruzione per la pausa pranzo, il Giudice del merito con congruo accertamento di fatto, insuscettibile di sindacato di legittimità, in quanto fondato su argomentazioni non manifestamente illogiche, ha ritenuto provata, mediante la testimonianza resa da un condomino del fabbricato dove era ubicata la palestra gestita dal ricorrente, la capacità diffusiva dei rumori, come tale idonea a realizzare un concreto pericolo di disturbo tale da superare i limiti di normale tollerabilità, siano stati o meno conseguenza dell'esercizio di una professione o mestiere rumoroso e, in tale ultimo caso, indipendentemente dal mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia.
Il numero (circa un centinaio) delle persone che, per fatto incontroverso, hanno inoltrato l'esposto dal quale sono originate le indagini (il teste ha riferito di avere egli stesso raccolto circa cinquanta firme) dà conto del fatto che il disturbo sia stato patito da un numero indeterminato di persone. Trattandosi di un reato di pericolo, ciò che rileva, dunque, non è il disturbo della tranquillità individuale, bensì la potenzialità diffusiva del rumore e quindi l'idoneità a infastidire un numero indeterminato di persone senza che sia necessario il conseguimento della prova circa l'effettivo disturbo di esse.
Il tribunale si è attenuto a tali principi rilevando come le emissioni sonore ed i rumori cagionati all' interno della palestra, come descritti dai testi escussi, si verificano continuamente per l'intera giornata almeno dalle ore 09 alle ore 21,30, con conseguente propagazione di essi all'interno di uno stabile condominiale costituito, per lo più, da appartamenti per civile abitazione in zona centrale.
Peraltro, il tribunale ha affermato che, dalla stessa documentazione esibita dalla difesa allegata alla memoria difensiva prodotta all'udienza del 24.01.2014, in particolare dalla relazione tecnica redatta dalla M. sulla valutazione del potenziale impatto acustico, per il rispetto dei limiti di rumore nei locali pubblici, è risultato un possibile disturbo alle abitazioni limitrofe provocato dalla sorgente sonora puntiforme esistente all'interno della palestra (impianto di amplificazione), tenuto conto della propagazione resa possibile dal lucernaio esistente all'interno del locale, a diretto contatto con le aree condominiali, correggibile attraverso la chiusura del punto d'aria e con la diminuzione dei volumi del mixer degli impianti audio.
Da ciò il tribunale ha correttamente tratto, con maggiore evidenza ed ineccepibile deduzione logica, la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato ritenuto in sentenza.
4. Né la condotta contestata può essere sussunta nella fattispecie sanzionata in via amministrativa.
Sul punto, questa Corte, con condivisibile orientamento al quale occorre dare continuità, ha affermato che, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell'ambito di una attività legittimamente autorizzata, è configurabile:
a) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, ove si verifichi solo il mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia;
b) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato;
c) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustica (Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658).
Secondo la ricostruzione fattuale, emergente dagli accertamenti conseguiti nel corso del giudizio di merito, deve ritenersi, in assenza di contrarie allegazioni in proposito, che il disturbo, quantunque arrecato nell'esercizio di un mestiere rumoroso, quale può essere, a determinate condizioni, una palestra, abbia ecceduto le sue normali modalità e l'attività sia stata svolta attraverso un uso smodato dei tipici mezzi di svolgimento dell'attività stessa, avendo il ricorrente unito ai rumori necessari altri rumori non necessari e tali dunque da provocare disturbo ad un numero indeterminato di persone sicché, essendo stato superato il limite della normale tollerabilità, deve trovare applicazione il primo comma dell'art. 659 cod. pen..
Ne consegue che la condotta conserva il rilievo penale assegnato dal primo giudice (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2015 n. 23235).

EDILIZIA PRIVATASia il condono edilizio che la sanatoria edilizia riguardano l’opera per come è stata realizzata e non implicano l’approvazione di un progetto funzionale a rendere l’opera abusiva conforme alle norme edilizie, urbanistiche e paesaggistiche (nel condono ciò è legato anche al fatto che, per accedere al beneficio, occorre che le opere siano state eseguite entro una certa data, per cui gli interventi successivi a tale data rendono inaccoglibile la domanda di condono).
La domanda di condono o di sanatoria, cioè, riguarda l’opera abusiva per come essa è stata realizzata e non la futura sistemazione del manufatto onde renderlo conforme al contesto paesaggistico o ad altri parametri incidenti sulla regolarità sostanziale delle opere.
Al riguardo, si è chiarito che in sede di sanatoria o di condono sono ammissibili solo limitate prescrizioni che riguardino l’ornato dei manufatti, quali ad esempio l’utilizzo di tinte che siano più confacenti al contesto paesaggistico, l’impiego di tecniche di finitura più tradizionali, e così via, ma non anche prescrizioni che abbiano l’effetto di modificare in senso sostanziale il manufatto abusivo.

11. Volendo comunque esaminare anche in punto di fatto le prospettazioni di parte ricorrente (contenute sia nel ricorso e nell’atto di motivi aggiunti sia nelle relazioni tecniche prodotte a sostegno delle domande di sanatoria), va osservato che:
- nel respingere la domanda di sanatoria nel 2011 il Comune aveva esaminato anche la questione relativa alla presunta “invisibilità” dell’abuso dal punto di vista paesaggistico ed urbanistico, osservando che la sistemazione del terreno proposta dal tecnico di fiducia del sig. F. era da ritenere artificiale, non conforme al contesto circostante e finalizzata unicamente a recuperare volumetria non altrimenti autorizzabile (vedasi la nota comunale prot. n. 21839 del 20/09/2011, che in parte qua non era stata contestata nel precedente giudizio dal sig. F.).
Sotto questo profilo va evidenziato che sia il condono edilizio che la sanatoria edilizia riguardano l’opera per come è stata realizzata e non implicano l’approvazione di un progetto funzionale a rendere l’opera abusiva conforme alle norme edilizie, urbanistiche e paesaggistiche (nel condono ciò è legato anche al fatto che, per accedere al beneficio, occorre che le opere siano state eseguite entro una certa data, per cui gli interventi successivi a tale data rendono inaccoglibile la domanda di condono - vedasi al riguardo la citata sentenza del TAR Marche n. 122/2015).
La domanda di condono o di sanatoria, cioè, riguarda l’opera abusiva per come essa è stata realizzata e non la futura sistemazione del manufatto onde renderlo conforme al contesto paesaggistico o ad altri parametri incidenti sulla regolarità sostanziale delle opere.
Al riguardo, vedasi la sentenza di questo TAR n. 449/2013, in cui si è chiarito che in sede di sanatoria o di condono sono ammissibili solo limitate prescrizioni che riguardino l’ornato dei manufatti, quali ad esempio l’utilizzo di tinte che siano più confacenti al contesto paesaggistico, l’impiego di tecniche di finitura più tradizionali, e così via, ma non anche prescrizioni che abbiano l’effetto di modificare in senso sostanziale il manufatto abusivo;
- le predette relazioni tecniche di parte incorrono in un ulteriore errore laddove calcolano la volumetria del manufatto abusivo rispetto a quella complessiva del fabbricato principale (questo al fine di evidenziare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 5, lett. b), della L.R. n. 14/1986, che l’abuso è contenuto comunque nel 2% della volumetria complessiva).
In effetti, poiché risulta che il sig. F. è proprietario esclusivo solo dell’appartamento sito al piano terra e poiché lo stesso ha sempre dichiarato di essere l’autore dell’abuso, è evidente che la volumetria abusiva va rapportata a quella del solo piano terra e non anche a quella dell’appartamento e della mansarda siti ai piani primo e secondo.
Va peraltro rilevato che nella specie viene in evidenza comunque il disposto del citato art. 5, lett. a), perché si è avuto un cambio di destinazione d’uso del preesistente garage che implica aumento del carico urbanistico (tale essendo ovviamente la destinazione d’uso residenziale), per cui si è in ogni caso in presenza di una variazione essenziale ex L.R. n. 14/1986 (TAR Marche, sentenza 22.05.2015 n. 413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base alla normativa statale di principio, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente -intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia…e quindi non vi è una parte conforme e una parte difforme.
12. In ragione di quanto precede va anche rilevato che l’asserita impossibilità di demolire la parte difforme senza pregiudizio per la parte conforme in realtà non sussiste, in quanto:
- dal punto di vista processuale, sul punto si è formato il giudicato (visto che anche il Consiglio di Stato ha ritenuto non provata tale asserzione e che la questione non poteva più essere riproposta sfruttando la presentazione della nuova domanda di sanatoria);
- dal punto di vista giuridico, l’abuso in parola consiste in una nuova costruzione (e al riguardo va segnalata la recente sentenza della Sez. IV del Consiglio di Stato n. 1763/2015, nella quale si è riaffermato il principio per cui “…In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente -intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia…”) e quindi non vi è una parte conforme e una parte difforme;
- dal punto di vista tecnico, infine, l’esecuzione dell’ordinanza di demolizione consiste nel riportare l’edificio allo stato originario. E siccome parte ricorrente ha potuto realizzare l’abuso senza pregiudizio per la parte preesistente (visto che non risulta che, a seguito della realizzazione del manufatto abusivo, l’edificio principale abbia subito conseguenze in punto di staticità), ne consegue che anche il ripristino dello status quo ante è tecnicamente fattibile.
Al riguardo si evidenzia inoltre che, pur non essendo esaminabili nel merito le argomentazioni rassegnate dal tecnico di fiducia del ricorrente nella citata relazione del 02/03/2015 (in quanto si tratta di censure nuove e non notificate alla controparte), nella specie non rileva il fatto che la demolizione del manufatto abusivo danneggia anche l’appartamento sito al primo piano, e ciò in quanto anche il terrazzo che serve tale appartamento - realizzato, come detto, sul lastrico della parte in ampliamento - è anch’esso abusivo (TAR Marche, sentenza 22.05.2015 n. 413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Per l'avvocato porte aperte al lavoro nella p.a.. Tar valle d'aosta/non rileva l'assistere attualmente privati contro un ente.
Non può ritenersi sussistente alcun conflitto di interessi tra la posizione di chi assiste attualmente un soggetto privato contro un ente pubblico e la posizione di chi aspira, per il futuro e solo in caso di esito vittorioso della relativa procedura ad evidenza pubblica, a divenire affidatario dei servizi di assistenza legale per conto degli enti riconducibili a quest'ultimo.

Lo hanno ribadito i giudici del TAR Valle d'Aosta con la sentenza 15.05.2015 n. 40.
Il thema decidendum sul quale i giudici amministrativi aostani sono stati chiamati ad esprimersi aveva ad oggetto una denuncia di violazione di un articolo del disciplinare di gara, relativo ai requisiti di ordine generale e alle dichiarazioni da presentare a corredo della domanda di partecipazione, nella parte in cui prescrive che i concorrenti non si devono trovare «in alcuna situazione di divieto e/o di incompatibilità che riguardano l'esercizio della professione di avvocato».
L'avvocato Tizio, capogruppo del raggruppamento aggiudicatario, avrebbe falsamente dichiarato l'inesistenza di situazioni di divieto all'esercizio dell'attività professionale in quanto, al momento della presentazione dell'offerta, stava svolgendo un'attività di assistenza e consulenza legale in favore dell'impresa X, relativamente al rilascio di un permesso di costruire da parte del Comune che faceva parte del consorzio appaltante.
Sussisterebbe in capo all'avvocato, perciò, una situazione di conflitto di interessi che, unitamente alla dichiarazione non veritiera, avrebbe dovuto comportare l'esclusione dalla gara del raggruppamento di cui lo stesso è mandatario.
Secondo i giudici del Tar la prospettazione di parte ricorrente appare priva di pregio giuridico nonché tale da comportare, qualora la si volesse condividere, un'illogica restrizione del confronto concorrenziale, dal quale resterebbero esclusi proprio gli avvocati che, in ragione dell'attività professionale svolta nel contesto locale, possono vantare maggiori requisiti di esperienza.
I divieti e le incompatibilità cui fa riferimento l'articolo del disciplinare, configurandoli quale circostanze preclusive alla partecipazione alla gara, infatti, sono pacificamente solo quelli previsti dall'art. 16 del codice deontologico forense (ora dall'art. 6 del nuovo codice) e dall'art. 18 della legge n. 247/2012 sull'ordinamento della professione forense, vale a dire le situazioni ostative alla permanenza dell'avvocato nel relativo albo professionale, non le transitorie incompatibilità con la stazione appaltante o con le amministrazioni che vi fanno capo.
Pertanto, nessuna situazione ostativa sussisteva nel caso dell'avvocato Tizio, come comprovava la nota versata agli atti del giudizio che ne attestava la regolare iscrizione nell'albo professionale del Consiglio dell'Ordine forense (articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Ingegneri junior tutelati. Possono firmare offerte tecniche migliorative. Il Tar Campania estende le prerogative degli iscritti alla sezione B.
Anche l'ingegnere junior può firmare l'offerta senza far perdere la gara alla sua impresa se si tratta di migliorare un progetto già indicato in via generale dalla stazione appaltante.

È quanto emerge dalla sentenza 14.04.2015 n. 797, pubblicata dalla II Sez. TAR Campania-Salerno.
Collaborazione consentita
Niente da fare per l'azienda arrivata seconda nella procedura bandita dal Comune per la realizzazione di lavori per le fogne e l'impianto di depurazione: fallisce il tentativo di far revocare l'aggiudicazione alla concorrente sul rilievo che l'ingegnere junior non avrebbe avuto i titoli per firmare l'offerta tecnica.
Nel caso di specie l'offerta economicamente più vantaggiosa per l'amministrazione è individuata in base alla presentazione di progetti capaci di individuare soluzioni tecniche migliorative della rete fognaria e dell'impianto di depurazione.
Il documento contestato, dunque, s'innesta su un progetto già redatto dalla stazione appaltante e che nella sua intima struttura non può essere modificato ma soltanto migliorato.
I paletti posti dalla normativa all'ingegnere junior nascono per evitare che al professionista con una qualifica «ridotta» possa essere affidata la progettazione di opere pubbliche complesse.
Ma per il settore ingegneria civile e ambientale chi è iscritto alla sezione B del dpr 328/2001 ben può porre in essere attività di concorso e collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie.
In base alla legge l'ingegnere junior può occuparsi anche di: progettazione, direzione dei lavori, vigilanza, contabilità e liquidazione relative a costruzioni civili semplici con l'uso di metodologie standardizzate.
Ed è anche titolato a compiere i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e storica e i rilievi geometrici di qualunque natura. È esattamente ciò che avviene nel caso delle fogne e del depuratore da ristrutturare su indicazione del Comune campano nell'ambito del progetto già esistente, che non può ritenersi un'attività di competenza esclusiva degli ingegneri appartenenti alla sezione A.
All'azienda esclusa non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015).

VARI: Cane imbratta muro della facciata di edificio: cosa rischia il padrone?
Il proprietario che porta a passeggio il proprio cane deve ridurre il più possibile il rischio che questi possano lordare i beni di proprietà di terzi quali i muri di affaccio degli stabili o i mezzi di locomozione ivi parcheggiati.
A chiarirlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 18.02.2015 n. 7082.
Firenze. Il caso riguarda un uomo che, mentre stava facendo una passeggiata, ha “permesso” al proprio cane di urinare sul muro di un edificio nel centro storico di Firenze.
Il proprietario dell’edificio ha dichiarato che l’immobile è stato dichiarato di valore storico architettonico e che, quindi, le facciate dello stesso non dovevano essere imbrattate. Per tale ragione ha deciso di denunziare il proprietario del cane ex art. 639, 2° comma, del codice penale (deturpamento ed imbrattamento di cose altrui).
Il Giudice di Pace ha dato ragione al proprietario del palazzo.
Il Tribunale di Firenze ha, invece, accolto l’appello del padrone del cane in quanto lo stesso ha versato immediatamente dell’acqua per ripulire la macchia provocata dall’urina del cane.
La questione approda in Cassazione ove viene evidenziata una forte contrapposizione tra la tutela dei beni di proprietà e la posizione di chi conduce animali da compagnia sulla pubblica via: situazioni, sottolinea la Corte, inserite in un panorama costituito da elementi come la convivenza, il rispetto civile, la tolleranza e il malcostume.
La Suprema Corte non ha ritenuto fondato il ricorso proposto dal proprietario dell’edificio.
I Giudici di legittimità hanno corroborato la tesi del Giudice d’appello del Tribunale di Firenze in quanto «dall’istruttoria svolta nel corso del giudizio di primo grado è risultato provato che il cane di proprietà dell’odierno imputato abbia orinato sul muro della facciata dell’edificio dichiarato di notevole interesse architettonico e lo abbia momentaneamente macchiato. Tuttavia va osservato che il reato contestato all’Imputato (art. 639 co. 2 c.p.) è un delitto, per la cui configurabilità è richiesta la sussistenza del dolo anche generico. ….[…].. Oltretutto è la stessa persona offesa che dichiara che dopo che il cane aveva orinato, si era preoccupato di ripulire la parte del muro imbrattata, versandovi dell’acqua, circostanza questa Incompatibile con la volontà di imbrattare il muro. A ciò va aggiunto che è del tutto inverosimile che il…[….] abbia indotto il suo animale a sporcare il muro con l’urina, in quanto da un iato è emerso pacificamente che l’imputato aveva con sé una bottiglietta ed ha usato li liquido ivi contenuto per pulire il muro ed inoltre viene in considerazione un istinto fisiologico del cane che il suo padrone non avrebbe potuto orientare».
La Cassazione ha ritenuto di svolgere sulla questione esaminata un doveroso esame in punto di diritto non solo ai fini di giustizia ma in quanto la stessa coinvolge interessi diffusi nella vita quotidiana nella quale si contrappongono i diritti e gli interessi di milioni di persone divisi tra la legittima tutela dei beni di proprietà e la posizione di chi accompagna animali da compagnia sulla pubblica via.
Ed infatti viene evidenziato che “Si tratta di rapporti, interessi ed esigenze talvolta contrapposti che si inseriscono in un più ampio quadro di convivenza, di rispetto civile, di tolleranza ma anche di malcostume di fronte ad un fenomeno che non può essere sottaciuto in quanto parte della realtà quotidiana soprattutto nei grandi agglomerati urbani”.
La Corte, poi, analizzando gli elementi oggettivo e soggettivo del reato di cui all’art. 639 c.p., si sofferma ad analizzare il rapporto tra dolo eventuale e colpa cosciente, richiamando le argomentazione delle Sezioni Unite esposte nella recente pronunzia n. 38343 del 24/04/2014.
Traslando i principi della suddetta pronunzia, nel caso concreto vengono evidenziati ulteriori aspetti.
a) è un dato di comune esperienza che li condurre un cane sulla pubblica via apre la concreta possibilità che l’animale possa imbrattare con l’urina o con le feci beni di proprietà pubblica o privata;
b) è però anche un dato di comune esperienza che, per quanto l’animale possa essere stato bene educato, il momento in cui io stesso decide di espletare i propri bisogni fisiologici è talvolta difficilmente prevedibile trattandosi di un istinto non altrimenti orientabile e, comunque, non altrimenti sopprimibile mediante il compimento di azioni verso l’animale che si porrebbero al confine del maltrattamento nei confronti dello stesso;
c) ancora, è un dato di comune esperienza che i cani non esplicano i propri bisogni fisiologici all’interno degli appartamenti o degli altri luoghi chiusi di privata dimora, con la conseguenza che i possessori dei predetti animali che risiedono in agglomerati urbani si vedono necessitati a condurli sulla pubblica via con tali finalità: non sempre le Autorità locai sono in grado di predisporre luoghi appositi ove detti animali possano espletare i loro bisogni fisiologici e comunque non può essere escluso che gli animali decidano (con tempi e modalità che, come detto, non è possibile inibire) di espletare tali bisogni altrove o prima del raggiungimento dei luoghi a ciò deputati.
Ciò che compete a chi conduce sulla pubblica via gli animali è quella, dunque, di evitare e ridurre il più possibile il rischio che questi possano sporcare i beni di proprietà di terzi quali i muri di affaccio degli stabili od i mezzi di locomozione ivi parcheggiati.
Sia chiaro, sottolinea la Corte, che ciò, al di là dei possibili aspetti sanzionatori (in chiave penale od amministrativa) delle condotte, deve essere frutto primario del rispetto dei principi di civiltà e di educazione che debbono più in generale caratterizzare le condotte di chiunque è chiamato ad interagire con terzi ed a convivere con essi in società.
Assodato, dunque, che la possibilità che un cane condotto sulla pubblica via possa quindi imbrattare beni di proprietà di terzi è un rischio certamente prevedibile ma non altrimenti evitabile.
Ciò che si può, quindi, richiedere a chi è necessitato a condurre un cane sulla strada è solo un corretto controllo di tale rischio.
Il comportamento del padrone del cane è corretto se riduce il più possibile il rischio (prevedibile ma non evitabile) che l’animale possa sporcare i beni di proprietà di terzi.
Il padrone deve quindi vigilare attentamente sui comportamenti dell’animale, limitandone la libertà di movimento in modo che il cane desista -quanto meno nell’immediatezza- dall’azione.
In conclusione, questo il vademecum della Cassazione per chi conduce il cane sulla strada:
• il proprietario deve mettere in atto una attenta vigilanza sui comportamenti dell’animale;
• deve limitarne libertà di movimento in modo che non sia totale (se del caso tenendolo con un guinzaglio);
• deve intervenire con atteggiamenti tali da farlo desistere - quantomeno nell'immediatezza - dall’azione;
• nell’impossibilità di vietare al cane di fare pipì è bene portarsi dietro una bottiglietta d’acqua per ripulire. Diversamente, il proprietario o il conducente potrà essere imputato di «sciatteria o imperizia nella conduzione dell'animale».
Avere una cane è una scelta individuale e non della collettività, ecco perché nella sentenza esaminata vengono stabilite una serie di regole per garantire una pacifica armonia tra tutti (link a www.altalex.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPer le spese legali rimborsi ai dipendenti con vincoli precisi. Responsabilità civile nella Pa.
Con sempre maggiore frequenza vengono sottoposte all’attenzione dei giudici controversie relative al rimborso da parte dell’ente pubblico delle spese legali sostenute dal dipendente in conseguenza dell’apertura nei suoi confronti di un procedimento di responsabilità civile, contabile o penale per fatti inerenti all’espletamento delle sue mansioni.
Il rimborso delle spese legali, previsto dalle norme dei contratti collettivi, mira a tenere indenne il dipendente dalle conseguenze negative che, senza dolo o colpa grave, si siano verificate nello svolgimento della sua attività di lavoro, in analogia a quanto disposto dall’articolo 1720 del codice civile in materia di mandato. Per poter riconoscere tale tutela è tuttavia necessario verificare la sussistenza di alcuni presupposti, da accertare caso per caso.
Il primo è che i fatti per i quali si è aperto il procedimento a carico del dipendente siano avvenuti nell’esercizio delle sue mansioni, mentre non è sufficiente che si siano svolti semplicemente durante la prestazione di lavoro o in occasione del suo espletamento.
Per poter accedere al patrocinio legale, inoltre, è necessario verificare che non sussista alcun conflitto di interessi tra l’amministrazione e il proprio dipendente.
La valutazione della sussistenza di un eventuale conflitto di interessi deve essere effettuata al momento dell’apertura del procedimento, ma può essere rilevata anche successivamente, sulla base di un accertamento in concreto e senza automatismi: persino in caso di assoluzione nel giudizio penale, infatti, non può essere escluso il conflitto di interessi ove i fatti, pur non costituendo reato, manifestino un contrasto tra il comportamento del dipendente e le finalità pubbliche dell’amministrazione (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 04.03.2014 n. 4978).
Per quanto attiene, inoltre, all’instaurazione del procedimento dal quale può conseguire il patrocinio legale, occorre tener presente un discutibile orientamento dell’Aran, secondo il quale, per accedere alla tutela, deve essere stato avviato un procedimento giudiziario che si concluda con una sentenza, escludendo, quindi, che possano essere rimborsate le somme eventualmente sostenute dal dipendente in sede di mediazione oppure nell’ambito di procedimenti, come ad esempio l’accertamento tecnico preventivo (articolo 696 del codice di procedura civile) o la consulenza tecnica preventiva (articolo 696-bis del codice di procedura civile), che non sfociano in una pronuncia giurisdizionale.
Ove sussistano i presupposti indicati, l’amministrazione potrà procedere al rimborso delle spese legali nella misura che dovrà essere opportunamente predeterminata da atti regolamentari dell’ente sulla base dei parametri per la liquidazione dei compensi degli avvocati, fatta salva l’ipotesi di refusione delle spese legali disposta dal giudice contabile in favore del dipendente sottoposto a giudizio contabile.
In proposito, infatti, la Corte dei Conti della Toscana (sentenza 16.10.2013 n. 310) ha ritenuto che, in caso di proscioglimento nel merito, il rimborso debba avvenire entro i limiti della liquidazione disposta dal giudice, rimanendo a carico del dipendente la differenza tra la somma liquidata in sede giudiziale e gli onorari richiesti dal legale con la propria parcella
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIFermo restando che il consigliere comunale è legittimato a impugnare gli atti adottati dall'organo collegiale o da altro organo dell’ente locale soltanto ove deduca vizi direttamente lesivi del munus di cui è investito, nel caso di specie il conferimento delle deleghe in questione incide sull’esercizio del munus di consigliere comunale, in quanto comporta un ampliamento delle funzioni di taluni consiglieri rispetto agli altri membri dell’organo collegiale e ingenera il rischio di interferenze sul corretto esercizio del mandato conferito dagli elettori.
In altri termini, si realizza un disquilibrio tra le attribuzioni dei consiglieri e una confusione di ruoli nel Consiglio stesso, potenzialmente in grado di turbare la regolare e leale dialettica assembleare e, quindi, confliggente con il personale interesse dei consiglieri alla salvaguardia delle proprie prerogative, che sono prioritariamente rivolte a indirizzare e controllare l’attività della giunta comunale.
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Assume valore determinante ed assorbente ai fini dell’accoglimento del ricorso in esame, la dedotta violazione delle disposizioni dello Statuto e del Regolamento del Consiglio comunale.
Infatti, nel caso di specie il potere del sindaco di conferire specifiche deleghe trova un limite innanzitutto nell’art. 53 dello statuto comunale, che prevede espressamente che il sindaco possa conferire speciali deleghe agli assessori nelle materie che la legge e lo statuto riservano alla sua competenza; possa delegare la firma di atti e funzioni di indirizzo e controllo agli assessori per materie omogenee, possa delegare, quale capo dell’amministrazione, la firma di atti di propria competenza al segretario generale e ai responsabili delle unità organizzative.
Un ulteriore limite alla facoltà di delega da parte del sindaco si ricava dall’art. 10 del regolamento del consiglio comunale, che così recita: “Ai Consiglieri possono essere affidati dal consiglio comunale speciali incarichi su materie specifiche, nei limiti e secondo le modalità fissate nella delibera di incarico”.
Orbene è di tutta evidenza che le controverse deleghe esulano dalle ipotesi previste dalla richiamata normativa comunale e ne disattendono, quindi, le prescrizioni. Sul punto non può essere condivisa l’argomentazione difensiva dell’Amministrazione che, mancando nella normativa comunale un’esplicita previsione che vieti al sindaco di conferire ai consiglieri comunali deleghe di studio e consulenza, il loro conferimento sarebbe legittimo.
In disparte i vincoli per i consiglieri comunali derivanti dal sopracitato art. 10 del regolamento del consiglio comunale, non si può disconoscere che l’esercizio delle deleghe in questione comporti il coinvolgimento dei consiglieri comunali delegati in funzioni di amministrazione attiva e determini una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto d'interessi e di sovrapposizione di ruoli e di responsabilità.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza di sospensiva, proposto con presentazione diretta, ex art. 11 del d.P.R. n. 1199 del 1971, dai signori V.M., C.G. e D.S. per l’annullamento del provvedimento del sindaco di Fara in Sabina (RI) concernente il conferimento di deleghe a consiglieri comunali.
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Premesso.
Con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, i signori V.M., C.G. e D.S., in qualità di consiglieri comunali di Fara in Sabina hanno chiesto l’annullamento, previa sospensiva: a) del decreto n. 59 in data 03.06.2011, con il quale il sindaco di Fara in Sabina ha conferito ai consiglieri comunali F.S., F.B. e S.F. le deleghe in materia di protezione civile, rapporti con i territori e istituti di partecipazione, sport; b) di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, compreso il parere reso dal segretario generale del Comune con nota n. 18162 del 04.08.2011.
Premesso in fatto che dette deleghe sono state attribuite a tre consiglieri di sesso maschile, i ricorrenti deducono che le stesse sono illegittime, in quanto Statuto e regolamento comunale (art. 10) prevedono deleghe ai consiglieri soltanto da parte del Consiglio comunale. Inoltre, poiché attengono a materie proprie degli assessorati, son suscettibili di interferire con le attività degli stessi.
A parere dei ricorrenti, non valgono a confutare tale valutazione neppure le argomentazioni esposte dal segretario generale del Comune nella impugnata nota del 04.07.2011, nella quale si afferma che gli atti di delega, su ben definite e specifiche materie, si sono resi necessari in ragione dell’ampiezza del territorio comunale e della molteplicità delle problematiche che investono un grande comune, quale è Fara in Sabina.
I ricorrenti sostengono, poi, che le contestate deleghe, anche nel caso fossero ritenute ammissibili, risulterebbero adottate in violazione all’art. 45 dello Statuto che impone al Sindaco di garantire la presenza dei due sessi nell’esercizio del potere di nomina. L’inosservanza della disposizione statutaria, a parere dei deducenti, violerebbe, altresì, l’art. 51 della Costituzione; l’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 198 del 2006; l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000; la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna; l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; gli artt. 2 e 3 del Trattato istitutivo della Comunità Europea; l’art. 1-bis del trattato istitutivo dell’Unione Europea.
Il Comune di Fara in Sabina, nelle controdeduzioni, ha eccepito l'irricevibilità del ricorso, poiché è stato depositato presso il Comune il 04.10.2011, senza la prova dell'avvenuta notifica ai controinteressati; nonché l'inammissibilità del gravame per carenza di interesse dei ricorrenti sotto più profili, in quanto:
- il Consiglio comunale all’unanimità e con il voto dei ricorrenti ha preso atto della determinazione del sindaco, ratificando di fatto gli incarichi conferiti ai consiglieri;
- i ricorrenti non si sono peritati di indicare il pregiudizio che sarebbe stato arrecato loro dal provvedimento impugnato;
- la signora S. è priva di una posizione differenziata rispetto al quisque de populo, in quanto non ha fornito alcuna elemento probante dal quale si possa dedurre il possesso di un curriculum paragonabile a quello dei colleghi ai quali è stata conferita la delega.
- il giudizio amministrativo è azionabile dai consiglieri comunali allorché vengono in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio e non per risolvere controversie interpersonali all’interno dell’organo collegiale.
Nel merito il Comune ha precisato che il sindaco ha inteso, con il provvedimento impugnato, assegnare compiti di studio e monitoraggio di determinate materie nel quadro delle generali funzioni di indirizzo e coordinamento dei consiglieri e non attribuire speciali incarichi su materie specifiche del Consiglio comunale, né delegare funzioni proprie alla qualifica di ufficiale di governo. Per ciò che riguarda la violazione dell'art. 45 dello Statuto ha osservato che mentre quest'ultimo attiene alle nomine dei componenti della giunta, delle commissioni consiliari, delle commissioni tecniche, degli organismi o commissioni, il provvedimento del sindaco non costituisce alcun provvedimento di nomina.
Il Ministero dell’interno ritiene infondata l'eccezione di irricevibilità del ricorso sollevata dal Comune, poiché il gravame risulta notificato ad almeno uno dei controinteressati e depositato presso il Comune il 04.10.2011, nel termine di 120 giorni dall'adozione del decreto n. 59 del 03.06.2011, mentre la prova dell'avvenuta notifica del ricorso ai controinteressati è pervenuta al Comune il 21.11.2011, ossia decorso tale termine.
Nel merito, è del parere che il ricorso debba essere respinto.
Considerato.
Ritiene la Sezione che l’eccezione di irricevibilità proposta dal Comune debba essere respinta per le considerazioni già espresse dal Ministero dell’interno.
Non può neppure essere condivisa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti pure dedotta dal Comune.
Infatti, fermo restando che il consigliere comunale è legittimato a impugnare gli atti adottati dall'organo collegiale o da altro organo dell’ente locale soltanto ove deduca vizi direttamente lesivi del munus di cui è investito, nel caso di specie il conferimento delle deleghe in questione incide sull’esercizio del munus di consigliere comunale, in quanto comporta un ampliamento delle funzioni di taluni consiglieri rispetto agli altri membri dell’organo collegiale e ingenera il rischio di interferenze sul corretto esercizio del mandato conferito dagli elettori.
In altri termini, si realizza un disquilibrio tra le attribuzioni dei consiglieri e una confusione di ruoli nel Consiglio stesso, potenzialmente in grado di turbare la regolare e leale dialettica assembleare e, quindi, confliggente con il personale interesse dei consiglieri alla salvaguardia delle proprie prerogative, che sono prioritariamente rivolte a indirizzare e controllare l’attività della giunta comunale.
Ciò anteposto, assume valore determinante ed assorbente ai fini dell’accoglimento del ricorso in esame, la dedotta violazione delle disposizioni dello Statuto e del Regolamento del Consiglio comunale.
Infatti, nel caso di specie il potere del sindaco di conferire specifiche deleghe trova un limite innanzitutto nell’art. 53 dello statuto comunale, che prevede espressamente che il sindaco possa conferire speciali deleghe agli assessori nelle materie che la legge e lo statuto riservano alla sua competenza; possa delegare la firma di atti e funzioni di indirizzo e controllo agli assessori per materie omogenee, possa delegare, quale capo dell’amministrazione, la firma di atti di propria competenza al segretario generale e ai responsabili delle unità organizzative.
Un ulteriore limite alla facoltà di delega da parte del sindaco si ricava dall’art. 10 del regolamento del consiglio comunale, che così recita: “Ai Consiglieri possono essere affidati dal consiglio comunale speciali incarichi su materie specifiche, nei limiti e secondo le modalità fissate nella delibera di incarico”.
Orbene è di tutta evidenza che le controverse deleghe esulano dalle ipotesi previste dalla richiamata normativa comunale e ne disattendono, quindi, le prescrizioni. Sul punto non può essere condivisa l’argomentazione difensiva dell’Amministrazione che, mancando nella normativa comunale un’esplicita previsione che vieti al sindaco di conferire ai consiglieri comunali deleghe di studio e consulenza, il loro conferimento sarebbe legittimo.
In disparte i vincoli per i consiglieri comunali derivanti dal sopracitato art. 10 del regolamento del consiglio comunale, non si può disconoscere che l’esercizio delle deleghe in questione comporti il coinvolgimento dei consiglieri comunali delegati in funzioni di amministrazione attiva e determini una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto d'interessi e di sovrapposizione di ruoli e di responsabilità.
Per le considerazioni espresse il ricorso in parola deve essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 26.11.2012 n. 4992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO - VARIContro la pubblicità in casella un cartello fuori dal portone. Comunicazione. La consegna di opuscoli non richiesti può integrare il reato di molestia o disturbo alle persone.
Negli ultimi anni si è assistito alla proliferazione di un fenomeno ben noto a chi risiede in condominio o ne è amministratore: la pubblicità in buca. L’eccesso di depliant causa spesso una vera e propria ostruzione della casella postale dei condòmini, inoltre la gran parte del materiale viene gettato nella raccolta differenziata, venendo a costituire un costo aggiuntivo per lo stabile in termini di tassa sui rifiuti.
Non è possibile, però, che una pubblica amministrazione vieti con ordinanza la distribuzione di materiale pubblicitario in quanto tale norma violerebbe i principi costituzionali di eguaglianza e libertà dell’iniziativa economica privata (articoli 3 e 41 della Costituzione).

Tale principio è stato espresso dal TAR Lombardia-Brescia -Sez. II- con la sentenza 17.04.2012 n. 641 che affermava che «la distribuzione di volantini a mano lungo le strade e in generale nei luoghi pubblici, anche in prossimità degli edifici (ove sono collocate le bussole che ospitano la posta ed il materiale pubblicitario) è un’attività essenzialmente libera, e l’amministrazione non vanta poteri regolatori suscettibili di incidere direttamente nel rapporto tra gli operatori commerciali e i potenziali clienti».
Come, quindi, difendersi da questa invasione cartacea? Anzitutto affiggendo un’insegna al di fuori dello stabile comunicando la volontà dei comproprietari di non ricevere la pubblicità e avvertendo che la consegna di opuscoli può integrare il reato di cui all’articolo 660 del Codice penale (molestia o disturbo alle persone). Ulteriore difesa introdotta dal Decreto Sviluppo del 2011 è la possibilità per i cittadini di inserire il proprio indirizzo nel Registro Pubblico delle Opposizioni, fino ad allora utilizzato solo per limitare la pubblicità telefonica (ancora, però, in attesa del regolamento attuativo).
Nel caso in cui non vi fosse unanimità sul blocco della pubblicità, che potrebbe invece essere voluta da alcuni condòmini, si potrà deliberare l’istituzione di una casella postale esterna al condominio, deputata unicamente alla consegna dei dépliant informativi.
Infine, una soluzione ottimale parrebbe quella di dotare lo stabile di un indirizzo di posta elettronica certificata (a libero accesso da parte dei condòmini) al quale le aziende potrebbero inviare le pubblicità senza tempestare di volantini le caselle postali di tutti i condòmini.
In ogni caso l’amministratore dovrà inserire nell’ordine del giorno dell’assemblea condominiale la volontà di istituire la casella postale condominiale dedicata alla pubblicità (sia questa fisica o informatica) e farsi parte diligente per la creazione della stessa in caso di voto positivo dei condòmini
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2015).

EDILIZIA PRIVATALa sottoscritta convenzione –che si configura come un atto facente parte del procedimento che porta al rilascio della concessione edilizia– determina con l’accordo sottoscritto il contenuto dei relativi obblighi secondo i principi del codice civile, così come precisato nell’art. 11 della legge n. 241/1990. In particolare lo scomputo degli oneri di urbanizzazione e la sua misura sono stati oggetto di una determinazione consensuale che non può essere modificata unilateralmente.
E’ infatti giurisprudenza costante che l’art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma 1, della legge n. 10/1977 e che corrisponde sostanzialmente anche all’art. 26, comma 11, della legge regionale n. 52/1999 come modificato con la legge regionale n. 43/2003) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e con conseguente acquisizione delle opere al patrimonio indisponibile del comune.
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La concessione edilizia è normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di gratuità (artt. 3-9 della legge n. 10/1977, trasfusi nel d.p.r. n. 380/2001 – art. 16).
Gli oneri di urbanizzazione (che unitamente al costo di costruzione sono gli elementi della onerosità) sono stati previsti dal legislatore a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di costui al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico che si realizza nella zona in ordine all’aumento della necessaria dotazione dei servizi (rete viaria, fognature, ecc.); esigenze, queste, cui prioritariamente doveva provvedere il comune appunto con questi proventi (art. 12 della legge n. 10/1977, norma non più riprodotta nella normativa successiva in ossequio al principio dell’autonomia degli enti locali ).
Detti oneri prescindono dall’esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare siffatte opere. Infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 (e della normativa precedente), essi sono stabiliti dai comuni secondo tabelle parametriche definite dalla regione per classi di comuni (ampiezza e andamento demografico, caratteristiche geografiche, destinazioni di zona, limiti e rapporti minimi inderogabili di cui al d.m. n. 1444 del 02.04.1968).
I commi 7, 7-bis e 8 dello stesso art. 16 recano un elenco tassativo delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria cui sono connessi i relativi oneri. Essi sono dovuti anche in caso di modifica della destinazione d’uso dell’immobile, quando sia necessaria la concessione edilizia (ora: permesso di costruire), indipendentemente dalla realizzazione di nuove opere edilizie.
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La società ricorrente –che non può vantare un “diritto” allo scomputo, dal momento che la legge configura la facoltà di esecuzione diretta con possibilità di scomputo nei soli limiti accettati dalla controparte pubblica- era perfettamente consapevole che al momento della sottoscrizione della convenzione con il Comune dovevano essere precisati tutti i relativi obblighi, perché è in quel momento che si realizza l’incontro delle volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale; ed anche se alcuni contenuti dell’accordo sono proposti dall’Amministrazione in termini non modificabili dal privato, ciò non esclude che la parte privata che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto e senza apporvi nessuna riserva, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata.
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Firmata la convenzione e non esistendo nell’ordinamento un “diritto allo scomputo”, le clausole relative e gli impegni assunti non possono unilateralmente essere rimessi in discussione, a meno di non invocare vizi della volontà o ipotesi di risoluzione del contratto (es.: per vizi della volontà o per eccessiva onerosità dell’accordo sottoscritto) nella specie non dedotti.
Dette opere sono finalizzate alla fruizione dell’area ad uso esclusivo della società ricorrente, che è un soggetto che svolgerà un’attività dalla quale ritrarrà necessariamente un utile d’impresa.
Nessuna delle opere realizzate dalla ricorrente sarà trasferita al Comune in quanto trattasi di svincoli di strade regionali o statali.
Non si può quindi fondatamente ritenere che il Comune, negando lo scomputo, si viene ad arricchire delle opere realizzate direttamente, perché, si ripete, trattasi opere tutte a beneficio della realizzazione dell’Autoporto e con nessun riflesso diretto (peraltro non dimostrato) per la collettività.
Viceversa, è proprio la realizzazione della nuova struttura e della creazione degli asseriti nuovi posti di lavoro che potrà determinare una futura, nuova urbanizzazione anche di carattere residenziale per coloro che vi lavorano, il che comporta che il Comune si dovrà addossare altri oneri di urbanizzazione per finalità pubbliche; ecco che si giustifica il fatto di non aver previsto, negli atti tutti della procedura, nessuno scomputo ulteriore rispetto a quello esplicitamente determinato nella misura di circa 160.000 euro.

1. La controversia ha ad oggetto la corretta quantificazione degli oneri di urbanizzazione, primaria e secondaria, dovuti per la realizzazione di un Autoporto nel Comune di Collesalvetti; la previsione dell’opera è la risultante di un accordo tra la Regione toscana e taluni enti locali (Provincia di Livorno e comuni di Livorno e di Collesalvetti) per la qualificazione di una determinata zona e la realizzazione di una piattaforma per lo stoccaggio delle auto provenienti dal porto di Livorno, e in relazione ad essa è stata anche prevista una variante urbanistica apposita.
Nel ricorso si lamenta in sostanza il mancato riconoscimento, da parte del Comune, di una maggiore quantità di opere di urbanizzazione, realizzate o realizzande direttamente dalla società titolare della concessione edilizia, da calcolare ai fini di un maggiore scomputo dagli oneri dovuti ai sensi dell’art. 16 del t.u. sull’edilizia (d.p.r. n. 380/2001).
In particolare si sostiene che anche le opere idrauliche, in quanto poste a servizio della collettività, devono essere considerate opere di urbanizzazione e quindi scomputate dagli oneri, come pure tutte le opere inerenti il piazzale. Si conclude quindi circa l’esistenza di un vero e proprio diritto ad ottenere lo scomputo di quanto realizzato direttamente.
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Va precisato che l’opera che sarà realizzata è di ingenti dimensioni (65 ettari) ed è costituita da un piazzale per lo stoccaggio delle autovetture (a detta del Comune, nel numero di 28.000) e da alcuni edifici, con rilevante impatto sia per l’impegno del suolo che per le ripercussioni sulla rete viaria e con creazione di 100 nuovi posti di lavoro, il che ha determinato la sua ammissione a finanziamento pubblico.
Per consentire la realizzazione dell’intervento il Comune di Collesalvetti, previ accordi di pianificazione con la Regione toscana, la Provincia di Livorno e il Comune di Livorno diretti a favorire la decongestione del porto di Livorno con la realizzazione della struttura in altra area, ha approvato una variante (delibera n. 48/2002) al proprio strumento urbanistico, variante che in tempi passati non era stata invece ammessa dalla regione stessa.
Anche per superare le difficoltà (pericolosità idraulica, viabilità) riscontrate a suo tempo dalla Regione, l’art. 31 delle N.T.A. della variante indica analiticamente le opere a carico del privato.
2.2. Nella convenzione sottoscritta in data 25.08.2003, accessiva alla concessione edilizia per la realizzazione dell’Autoporto, la società ricorrente quale “soggetto utilizzatore e realizzatore” dell’opera (definito anche come concessionario) si impegna (art. 3) a realizzare una serie di opere (finalizzate alla costruzione e gestione dell’Autoporto), tra le quali lo svincolo di accesso all’area sulla S.S. 206, l’adeguamento dello svincolo di Vicarello sulla S.S. Firenze-Pisa-Livorno, le opere di bonifica idraulica e geologica, secondo l’autorizzazione rilasciata dall’Autorità di bacino dell’Arno il 20.12.2002, ed altre opere.
Nell’art. 5 della convenzione è specificato che la società “si impegna e si obbliga a realizzare le opere di urbanizzazione primaria, oltre a quelle di allacciamento ai pubblici servizi secondo le normative igienico-sanitarie vigenti, così come individuate nell’elaborato grafico allegato alla presente convenzione”. E’ altresì previsto che “le opere di urbanizzazione realizzate all’interno dell’area dell’Autoporto rimangono in carico al soggetto utilizzatore e realizzatore che ha l’obbligo di assicurarne la funzionalità e la manutenzione”, mentre “le opere di urbanizzazione relative alla viabilità di accesso…e il primo lotto…dello svincolo di Vicarello e le altre poste all’esterno dell’area il Faldo richiamate nelle premesse saranno cedute gratuitamente all’ente concedente una volta realizzate e collaudate”.
Viene quindi concordato che “gli standard a parcheggio di cui al d.m. n. 1444/1968 e 122/1989 inseriti nell’Autoporto o a questo connessi sono classificati come parcheggi privati a uso pubblico e sono gestiti dal concessionario” e che “l’importo relativo alla realizzazione degli standard è di complessivi Euro 159.542,50 (pari a 3.250 mq. per Euro 49,09/mq.), dedotti dal computo metrico estimativo… che… saranno scomputati dagli oneri di urbanizzazione…”; quindi si precisa che “tutte le opere comprese nell’area sono subordinate al rilascio di concessione edilizia…soggetta al pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria pari a Euro 1.183.140,01 e urbanizzazione secondaria pari a Euro 998.102,42 per complessivi Euro 2.181.242,43”.
A sua volta la concessione edilizia riporta l’ammontare di 159.542,5 euro quale solo “oggetto di scomputo dagli oneri di urbanizzazione”.
Nello stesso atto consensuale, poi, all’art. 6 è previsto che la società “a garanzia della perfetta osservanza degli obblighi oggetto della …convenzione e delle norme tecniche per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione… costituisce apposita fideiussione per l’importo di Euro 4.362.484,00”; tale somma, come comunemente avviene, è esattamente il doppio di quanto dovuto per oneri concessori quantificati nel precedente art. 5.
2.3. Orbene, la detta convenzione –che si configura come un atto facente parte del procedimento che porta al rilascio della concessione edilizia– determina con l’accordo sottoscritto il contenuto dei relativi obblighi secondo i principi del codice civile, così come precisato nell’art. 11 della legge n. 241/1990. In particolare lo scomputo degli oneri di urbanizzazione e la sua misura sono stati oggetto di una determinazione consensuale che non può essere modificata unilateralmente.
E’ infatti giurisprudenza costante che l’art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma 1, della legge n. 10/1977 e che corrisponde sostanzialmente anche all’art. 26, comma 11, della legge regionale n. 52/1999 come modificato con la legge regionale n. 43/2003) consente al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e con conseguente acquisizione delle opere al patrimonio indisponibile del comune.
La ricorrente sostiene che la sottoscrizione della convenzione non può costituire acquiescenza all’obbligo del pagamento e rinuncia a ogni altro scomputo, perché la mancata effettuazione dello scomputo doveroso sarebbe emersa soltanto a seguito della nota del Comune 09.09.2003 nella quale è contenuto il calcolo degli oneri dovuti; nella convenzione viceversa viene solo quantificata la cifra complessiva degli oneri di urbanizzazione, ma non è specificato che da detto importo non saranno detratti i costi per le opere di urbanizzazione eseguite direttamente; anzi l’approvazione, da parte del Comune, del computo metrico estimativo di dette opere redatto dal tecnico della ricorrente avrebbe indotto quest’ultima a ritenere accettato il doveroso scomputo, anche perché la realizzazione dell’intervento era stata prevista dalla variante urbanistica che poneva a carico del privato realizzatore ogni spesa necessaria per rendere attuabile l’intervento stesso; la contestuale richiesta di oneri per opere realizzate direttamente costituirebbe una indebita duplicazione.
La tesi non può essere condivisa.
La concessione edilizia è normalmente onerosa, tranne le tassative ipotesi di gratuità (artt. 3-9 della legge n. 10/1977, trasfusi nel d.p.r. n. 380/2001 – art. 16) che, nella specie, non vengono invocate.
Gli oneri di urbanizzazione (che unitamente al costo di costruzione sono gli elementi della onerosità) sono stati previsti dal legislatore a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di costui al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico che si realizza nella zona in ordine all’aumento della necessaria dotazione dei servizi (rete viaria, fognature, ecc.); esigenze, queste, cui prioritariamente doveva provvedere il comune appunto con questi proventi (art. 12 della legge n. 10/1977, norma non più riprodotta nella normativa successiva in ossequio al principio dell’autonomia degli enti locali ).
Detti oneri prescindono dall’esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare siffatte opere (Cons. di Stato, V, n. 462/1977). Infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 (e della normativa precedente), essi sono stabiliti dai comuni secondo tabelle parametriche definite dalla regione per classi di comuni (ampiezza e andamento demografico, caratteristiche geografiche, destinazioni di zona, limiti e rapporti minimi inderogabili di cui al d.m. n. 1444 del 02.04.1968).
I commi 7, 7-bis e 8 dello stesso art. 16 recano un elenco tassativo delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria cui sono connessi i relativi oneri. Essi sono dovuti anche in caso di modifica della destinazione d’uso dell’immobile, quando sia necessaria la concessione edilizia (ora: permesso di costruire), indipendentemente dalla realizzazione di nuove opere edilizie (Cons. di Stato, V, n. 529/1977).
La ricorrente si sofferma molto nelle sue difese nel sostenere che le opere idrauliche che essa si è impegnata a realizzare sono da considerarsi opere di urbanizzazione (primaria o secondaria?), sia perché rivolte alle esigenze della collettività sia perché previste nella specifica variante che ha appunto consentito la realizzazione dell’intervento dell’Autoporto.
La tesi non può essere condivisa perché è indubbio che l’opera sia da ricomprendere tra le iniziative imprenditoriali private che, seppur prevista in uno strumento urbanistico, non per questo diventa opera pubblica o di pubblico interesse tale da fruire di particolari misure derogatorie rispetto al sistema legale della concessione edilizia onerosa. Al contrario, tutte le opere previste nello strumento urbanistico, alla cui esecuzione è subordinato il rilascio della concessione edilizia, sono state indicate al solo scopo di rendere tecnicamente possibile l’intervento stesso e non servono a rendere vivibile la zona nell’interesse della collettività ma nell’esclusivo interesse dell’imprenditore che realizzerà e gestirà l’opera con il consueto utile di impresa. Tali sono, oltre alle opere idrauliche, il piazzale di stoccaggio delle auto e gli interventi viari finalizzati, non ad una fruizione generale, ma solo al transito dei camion che trasportano le autovetture e quindi sempre per un interesse privato dell’impresa.
In ogni caso la società ricorrente –che non può vantare un “diritto” allo scomputo, dal momento che la legge configura la facoltà di esecuzione diretta con possibilità di scomputo nei soli limiti accettati dalla controparte pubblica- era perfettamente consapevole che al momento della sottoscrizione della convenzione con il Comune dovevano essere precisati tutti i relativi obblighi, perché è in quel momento che si realizza l’incontro delle volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale; ed anche se alcuni contenuti dell’accordo sono proposti dall’Amministrazione in termini non modificabili dal privato, ciò non esclude che la parte privata che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto e senza apporvi nessuna riserva, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata (Cons. di Stato n. 33/2003).
Avvalorano la conclusione anche le N.T.A. della specifica Variante urbanistica comunale (non impugnata) che ha consentito la realizzazione dell’opera, ove si precisa (art. 31), al punto D1F (Autoporto Faldo), che “l’intervento è attuabile mediante concessione convenzionata contenente l’impegno a realizzare tutti gli interventi presenti nel progetto, i relativi costi…” (tra cui lo svincolo di accesso all’area sulla strada statale, adeguamento di altro svincolo viario, attivazione di tratto ferroviario, opere di bonifica idraulica e geologica) nonché, alla lettera f, che l’“atto d’obbligo” del titolare della concessione edilizia dovrà contenere, tra l’altro, l’impegno a “effettuare i versamenti relativi agli oneri concessori secondo gli importi all’uopo stabiliti”. La variante non è stata impugnata.
Nemmeno la invocata circostanza che l’intervento è oggetto di un finanziamento pubblico, previsto dal Patto territoriale di Livorno e dell’area livornese, approvato con decreti interministeriali nn. 983 e 996 del 1999, può valere a considerare il complesso intervento come tutta un’opera di urbanizzazione.
Da tutto ciò deriva che, firmata la convenzione e non esistendo nell’ordinamento un “diritto allo scomputo”, le clausole relative e gli impegni assunti non possono unilateralmente essere rimessi in discussione, a meno di non invocare vizi della volontà o ipotesi di risoluzione del contratto (es.: per vizi della volontà o per eccessiva onerosità dell’accordo sottoscritto) nella specie non dedotti.
Dette opere sono finalizzate alla fruizione dell’area ad uso esclusivo della società ricorrente, che è un soggetto che svolgerà un’attività dalla quale ritrarrà necessariamente un utile d’impresa.
Nessuna delle opere realizzate dalla ricorrente sarà trasferita al Comune in quanto trattasi di svincoli di strade regionali o statali.
Non si può quindi fondatamente ritenere che il Comune, negando lo scomputo, si viene ad arricchire delle opere realizzate direttamente, perché, si ripete, trattasi opere tutte a beneficio della realizzazione dell’Autoporto e con nessun riflesso diretto (peraltro non dimostrato) per la collettività. Viceversa, è proprio la realizzazione della nuova struttura e della creazione degli asseriti nuovi posti di lavoro che potrà determinare una futura, nuova urbanizzazione anche di carattere residenziale per coloro che vi lavorano, il che comporta che il Comune si dovrà addossare altri oneri di urbanizzazione per finalità pubbliche; ecco che si giustifica il fatto di non aver previsto, negli atti tutti della procedura, nessuno scomputo ulteriore rispetto a quello esplicitamente determinato nella misura di circa 160.000 euro.
Per tal parte il ricorso non può essere accolto
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.09.2004 n. 3782 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla questione dell’astratta scomputabilità –dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria– del valore delle opere di urbanizzazione primaria eseguite o da eseguirsi.
Come previsto dalla legge 28.01.1977 n. 10, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal comune a scomputo totale o parziale degli oneri di urbanizzazione primaria o secondaria (artt. 11 e 5).
L’obbligazione per oneri di urbanizzazione, a differenza di quella contributiva per costo di costruzione che è stata definita acausale perché connessa alla mera utilizzazione edificatoria del territorio e perciò ritenuta di natura paratributaria, deve ritenersi invece causale ed ha natura di corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, dovuto dal titolare della concessione edilizia per la partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione connessi all’edificazione.
Peraltro, la quota di urbanizzazione è stata anche qualificata come tassa, in quanto essenzialmente corrispettivo di una prestazione resa o da rendere da parte dell’amministrazione, o avente natura di corrispettivo di diritto pubblico.
Ad avviso del Collegio, si tratta, comunque, di una forma di partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici, ma sempre collegata all’attività di trasformazione del territorio; più precisamente, ha carattere di corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Pertanto, il relativo contributo può essere scomputato nei casi in cui, ricorrendone i presupposti e le condizioni, le opere di urbanizzazione siano realizzate dal titolare della concessione edilizia (art. 11, comma 1, citato, l. 10/1977).
Ne consegue che ben può ammettersi anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale.
La giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha già affermato che lo scomputo, totale o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 legge n. 10/1977) delle due categorie di opere vieta all’interprete di introdurre una siffatta distinzione.
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Come già chiarito, deve ammettersi la possibilità per il titolare della concessione edilizia di realizzare in tutto o in parte le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, a scomputo dei relativi oneri, “con le modalità e le garanzie stabilite dal comune”, ai sensi dell’art. 11 l. 10/1977 e, ora, dell’art. 16 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 (t.u. in materia edilizia) e dell’art. 26, comma 11, l.r.t. 52/1999.
Tale facoltà, peraltro, non implica in nessun caso una pretesa indiscriminata allo scomputo del valore di qualsiasi opera di urbanizzazione volontariamente seguita al di fuori di un preventivo accordo con il comune che è il soggetto destinatario degli oneri di urbanizzazione e, in caso di scomputo del valore delle opere direttamente eseguite dal concessionario, delle opere stesse che devono soddisfare, sotto il profilo quantitativo, qualitativo e funzionale le necessità del nuovo insediamento.
Pertanto, l’accertamento del se (e della misura in cui) le opere eseguite direttamente dal privato rispondano alle predette necessità non può che spettare al comune, in via preventiva o successiva alla realizzazione delle opere medesime.
Laddove sussista, la convenzione sugli oneri di urbanizzazione inserita nei procedimenti di concessione edilizia onerosa ha carattere di contratto di natura peculiare che viene ad innestarsi nel procedimento che si conclude con rilascio della concessione edilizia; pertanto, come la pubblica amministrazione non può apportare modifiche unilaterali alla convenzione urbanistica stipulata tra essa ed il privato con la quale siano stati quantificati gli oneri di urbanizzazione, così il concessionario non può mettere in discussione l’obbligazione convenzionalmente assunta.
Al più, ove modalità e garanzie non siano state oggetto di preventivo accordo con il comune, la giurisprudenza ritiene che la pretesa del concessionario sia subordinata alla valutazione comunale dell’entità e della effettiva utilizzazione delle opere realizzate.
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Infine, non appare condivisibile l’affermazione secondo cui il diritto allo scomputo delle eccedenze discende ex lege ove il privato si impegni –con le garanzie e le modalità concordate con l’amministrazione– alla realizzazione diretta (e alla cessione) delle opere di urbanizzazione primaria e tale diritto non sia stato convenzionalmente escluso o limitato dalle parti, soprattutto se, come nella fattispecie, la convenzione non abbia quantificato il valore delle opere di urbanizzazione secondaria e preveda la necessità del conguaglio solo in favore dell’amministrazione.
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Il presupposto dell’azione di indebito arricchimento, costituito dall’indebito oggettivo e individuato nella fattispecie nella pretesa eccedenza tra il valore delle opere di urbanizzazione primaria da realizzare e il contributo, a tale titolo, determinato in sede di convenzione tra le parti, è nella specie insussistente.
Infatti, l’azione di indebito arricchimento presuppone, come fatto oggettivo, l’avvenuto arricchimento di una parte e la correlativa diminuzione patrimoniale dell’altra, il che nella specie non si verifica, trattandosi di indebito riferito, dalla stessa parte ricorrente, al costo di opere ancora non eseguite.
Inoltre, condizione necessaria per l’esperimento dell’azione di arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione è il riconoscimento dell’utilità parziale o totale dell'opera, cosa o prestazione in quanto la configurabilità stessa di un arricchimento senza causa della p.a. resta affidata ad una valutazione discrezionale di quest’ultima, unica legittimata ad esprimere il relativo giudizio che presuppone il ponderato apprezzamento circa la rispondenza, diretta o indiretta, della cosa o della prestazione al pubblico interesse.

4 – In ordine alla questione dell’astratta scomputabilità –dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria– del valore delle opere di urbanizzazione primaria eseguite o da eseguirsi dalla ricorrente va premesso che, come previsto dalla legge 28.01.1977 n. 10, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal comune a scomputo totale o parziale degli oneri di urbanizzazione primaria o secondaria (artt. 11 e 5).
L’obbligazione per oneri di urbanizzazione, a differenza di quella contributiva per costo di costruzione che è stata definita acausale perché connessa alla mera utilizzazione edificatoria del territorio e perciò ritenuta di natura paratributaria, deve ritenersi invece causale ed ha natura di corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, dovuto dal titolare della concessione edilizia per la partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione connessi all’edificazione (da ultimo, Tar Campania, Salerno, II, 23.05.2003 n. 548).
Peraltro, la quota di urbanizzazione è stata anche qualificata come tassa, in quanto essenzialmente corrispettivo di una prestazione resa o da rendere da parte dell’amministrazione, o avente natura di corrispettivo di diritto pubblico (Tar Lombardia Milano, II, 06.11.2002 n. 4267).
Ad avviso del Collegio, si tratta, comunque, di una forma di partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici, ma sempre collegata all’attività di trasformazione del territorio (C.S., V, 06.05.1997 n. 462); più precisamente, ha carattere di corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (C.S., V, 23.05.1997 n. 529).
Pertanto, il relativo contributo può essere scomputato nei casi in cui, ricorrendone i presupposti e le condizioni, le opere di urbanizzazione siano realizzate dal titolare della concessione edilizia (art. 11, comma 1, citato, l. 10/1977).
Ne consegue che ben può ammettersi anche la scomputabilità del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione primaria dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale.
La giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha già affermato che lo scomputo, totale o parziale, della quota di contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede legislativa specifica (art. 11 legge n. 10/1977) delle due categorie di opere vieta all’interprete di introdurre una siffatta distinzione (da ultimo, Tar Toscana, III, 11.03.2004 n. 679 e giurisprudenza ivi richiamata).
Pertanto, deve ritenersi ammissibile la richiesta in tal senso formulata dalla ricorrente al comune resistente.
5 – Nello specifico, peraltro, la domanda di scomputo avanzata dalla ricorrente non è fondata.
Essa, infatti, si basa sui seguenti assunti:
- in base alla convenzione stipulata con il comune, l’ente pubblico ha diritto all’esecuzione (e cessione) a cura del privato di tutte le opere indicate nella convenzione medesima, indipendentemente dal loro valore;
- per la quantificazione (e l’eventuale scomputo) degli oneri rileva il valore in concreto sostenuto dal privato e non quello (implicitamente) presunto ai soli fini del calcolo della polizza fidejussoria dovuta;
- il valore delle opere che la ricorrente dovrebbe realizzare supera di ben tre volte quello degli oneri da essa dovuti al comune, pur utilizzando i criteri stabiliti dalla stessa amministrazione comunale.
Contrariamente alla tesi sostenuta dalla ricorrente, il Collegio ritiene quanto segue.
Come già chiarito, deve ammettersi la possibilità per il titolare della concessione edilizia di realizzare in tutto o in parte le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, a scomputo dei relativi oneri, “con le modalità e le garanzie stabilite dal comune”, ai sensi dell’art. 11 l. 10/1977 e, ora, dell’art. 16 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 (t.u. in materia edilizia) e dell’art. 26, comma 11, l.r.t. 52/1999.
Tale facoltà, peraltro, non implica in nessun caso una pretesa indiscriminata allo scomputo del valore di qualsiasi opera di urbanizzazione volontariamente seguita al di fuori di un preventivo accordo con il comune che è il soggetto destinatario degli oneri di urbanizzazione e, in caso di scomputo del valore delle opere direttamente eseguite dal concessionario, delle opere stesse che devono soddisfare, sotto il profilo quantitativo, qualitativo e funzionale le necessità del nuovo insediamento.
Pertanto, l’accertamento del se (e della misura in cui) le opere eseguite direttamente dal privato rispondano alle predette necessità non può che spettare al comune, in via preventiva o successiva alla realizzazione delle opere medesime.
Laddove sussista, la convenzione sugli oneri di urbanizzazione inserita nei procedimenti di concessione edilizia onerosa ha carattere di contratto di natura peculiare che viene ad innestarsi nel procedimento che si conclude con rilascio della concessione edilizia; pertanto, come la pubblica amministrazione non può apportare modifiche unilaterali alla convenzione urbanistica stipulata tra essa ed il privato con la quale siano stati quantificati gli oneri di urbanizzazione (C.G.A., 01.02.2001 n. 184), così il concessionario non può mettere in discussione l’obbligazione convenzionalmente assunta.
Al più, ove modalità e garanzie non siano state oggetto di preventivo accordo con il comune, la giurisprudenza ritiene che la pretesa del concessionario sia subordinata alla valutazione comunale dell’entità e della effettiva utilizzazione delle opere realizzate (Tar Lazio, II-bis, 22.07.2003 n. 6570 e giurisprudenza ivi citata).
Peraltro, nella fattispecie, la concessione n. 2267, per il completamento delle opere di urbanizzazione primaria, prevede che è concesso di eseguire i relativi lavori , secondo il progetto costituito da n. 21 tavole, relazione tecnica e computo metrico-estimativo, “quale parte integrante e sostanziale del presente atto”.
Essa, quanto agli oneri di urbanizzazione (art. 2), prescrive che i concessionari si obbligano a realizzare le opere di urbanizzazione primaria nel rispetto della convenzione e a cedere al comune le relative aree; la medesima concessione determina l’importo complessivo previsto per le suddette opere indicandolo nella misura di Euro 752.475,25.
Allo stesso provvedimento è allegato il computo metrico estimativo delle opere di urbanizzazione.
Sulla scorta delle circostanze precisate, ritiene il Collegio che la ricorrente non possa vantare una pretesa patrimoniale eccedente il valore delle opere che si era obbligata a realizzare, senza aver preventivamente, con l’amministrazione comunale, giustificato l’esistenza e concordato l’entità della differenza tra l’ammontare prestabilito e quello richiesto.
Né vale sostenere, da parte ricorrente, che l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria, convenzionalmente prevista, avrebbe un valore triplo rispetto a quello che sarebbe il costo degli oneri allo stesso titolo dovuti e che la convenzione non preclude lo scomputo delle eventuali somme eccedenti; non vale, neanche, richiamare che la giurisprudenza avrebbe ritenuto inammissibile la richiesta di scomputo solamente ove, in sede di convenzione, tale diritto sia stato espressamente escluso o limitato (cfr. C.S., V, 29.09.1999 n. 1209).
Invero, la sentenza citata dalla ricorrente non pare contribuire a sorreggere la tesi qui prospettata, limitandosi ad affermare la possibilità che la parte promittente possa liberamente assumere impegni patrimoniali più onerosi rispetto a quelli astrattamente previsti dalla legge (che ammette lo scomputo parziale, anziché totale).
Infine, non appare condivisibile l’affermazione secondo cui il diritto allo scomputo delle eccedenze discende ex lege ove il privato si impegni –con le garanzie e le modalità concordate con l’amministrazione– alla realizzazione diretta (e alla cessione) delle opere di urbanizzazione primaria e tale diritto non sia stato convenzionalmente escluso o limitato dalle parti, soprattutto se, come nella fattispecie, la convenzione non abbia quantificato il valore delle opere di urbanizzazione secondaria e preveda la necessità del conguaglio solo in favore dell’amministrazione (cfr. ricorso n. 73/04).
Vero è che la convenzione stipulata in data 28.05.2002 tra il comune e la ricorrente prevede: a) l’obbligo di rispettare la variante al piano di recupero approvato la cui attuazione avverrà “previa approvazione del nuovo progetto esecutivo delle opere di urbanizzazione primaria” (art. 2); b) che i presentatori del piano di recupero si obbligano alla realizzazione a propria cura e spese della urbanizzazione primaria e delle opere ….previste nel progetto esecutivo, composto da relazione tecnica, elaborati grafici, computo metrico estimativo il quale è redatto sulla base del prezzario ufficiale del Provveditorato alle opere pubbliche della regione Toscana (art. 3).
La stessa convenzione prevede, altresì, che al termine dei lavori dovrà essere presentato all’amministrazione comunale un quadro di raffronto tra le opere stimate e quelle effettivamente eseguite e che se la stima delle opere risulterà inferiore a quanto dovuto per gli oneri di urbanizzazione primaria, calcolati sulla base delle tabelle, dovrà esservi un conguaglio a favore del comune (art. 3 citato).
6 – Escluso, per le ragioni esposte, il “diritto” della ricorrente a scomputare, dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria, il valore corrispondente alle opere di urbanizzazione eccedente quello stabilito in convenzione, ne consegue l’infondatezza delle ulteriori domande proposte.
Secondo la ricorrente, atteso che dallo scomputo del maggior valore delle opere di urbanizzazione primaria direttamente realizzate o realizzande conseguirebbe l’inesistenza di alcun debito della ricorrente medesima per oneri di urbanizzazione secondaria, il credito nei confronti del comune, a suo tempo cedutole dalla sua dante causa (C.C.), risulterebbe, ad oggi, insoluto.
Sulla base di tali premesse, la ricorrente ha proposto domanda di condanna dell’amministrazione al pagamento della somma di cui risulterebbe debitrice.
Sennonché, venuta meno la premessa (il c.d. diritto allo scomputo delle somme eccedenti), resta a carico della ricorrente l’obbligazione relativa gli oneri di urbanizzazione secondaria.
Peraltro, come risulta dagli atti di causa, l’amministrazione ha provveduto a computare il costo delle opere di urbanizzazione eseguite dalla dante causa della ricorrente (cfr. relazione tecnica depositata come doc. 5, ed ivi riferimento alle opere “riutilizzabili”).
Ciò in conformità all’art. 5 della convenzione tra la ricorrente ed il comune che prevede che nel calcolo degli oneri concessori si debba tener conto di quanto già corrisposto dalla società Cooper Chianti e che sarà consentito l’eventuale conguaglio con le somme già pagate per oneri di urbanizzazione secondaria e costo di costruzione relativi ad interventi non eseguiti e/o non ultimati, previsti dalla precedente convenzione.
Restano da esaminare, infine, l’azione di indebito arricchimento del comune e la connessa domanda di condanna dell’amministrazione alla corresponsione dell’indennizzo ex art. 2041 c.c., proposte con il secondo ricorso in esame.
A fondamento dell’azione, la ricorrente deduce la corresponsione sine titulo, a favore del comune, del costo delle opere di urbanizzazione primaria indicato in circa 1.300.000 euro e del contributo di urbanizzazione secondaria a fronte del contributo dovuto in base alle tabelle parametriche, a titolo di urbanizzazione primaria, in misura pari a circa 410.000 euro.
L’assunto è infondato.
Il presupposto dell’azione di indebito arricchimento, costituito dall’indebito oggettivo e individuato nella fattispecie nella pretesa eccedenza tra il valore delle opere di urbanizzazione primaria da realizzare e il contributo, a tale titolo, determinato in sede di convenzione tra le parti, è nella specie insussistente.
Infatti, l’azione di indebito arricchimento presuppone, come fatto oggettivo, l’avvenuto arricchimento di una parte e la correlativa diminuzione patrimoniale dell’altra, il che nella specie non si verifica, trattandosi di indebito riferito, dalla stessa parte ricorrente, al costo di opere ancora non eseguite.
Inoltre, condizione necessaria per l’esperimento dell’azione di arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione è il riconoscimento dell’utilità parziale o totale dell'opera, cosa o prestazione in quanto la configurabilità stessa di un arricchimento senza causa della p.a. resta affidata ad una valutazione discrezionale di quest’ultima, unica legittimata ad esprimere il relativo giudizio che presuppone il ponderato apprezzamento circa la rispondenza, diretta o indiretta, della cosa o della prestazione al pubblico interesse (Cass. civ., II, 11.02.2002 n. 1884).
Nella fattispecie, per le considerazioni già illustrate, mancano entrambe le condizioni per un valido esperimento dell’azione di che trattasi (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.08.2004 n. 3181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConformemente ai precedenti di questa stessa Sezione, laddove la quantificazione dei contributi di concessione edilizia sia contenuta in una convenzione (e non derivi perciò da un atto unilaterale del Comune), questa diviene vincolante ed inderogabile per tutte le parti stipulanti, con la conseguenza che il Comune non può di norma apportare nessuna modifica a quanto ivi stabilito.
La determinazione del Comune di addivenire ad una convenzione in materia urbanistica segna il mutamento dei termini del rapporto tra le parti, facendo venir meno la possibilità di emenda delle determinazioni amministrative sull’oggetto del rapporto, (in quanto) la convenzione è stipulata anche nell’interesse pubblico, e la valutazione degli oneri che graveranno sull’intervento ha carattere unitario, sì che non è possibile pretendere di esercitare nuovamente il potere già esercitato (...) dopo la definizione del rapporto in termini convenzionali.

- Considerato che la società ricorrente espone di aver presentato al Comune di Oleggio un piano esecutivo convenzionato per l’edificazione di un appezzamento di terreno;
- Considerato che a seguito dell’approvazione di detto piano, disposta con deliberazione C.C. 06.09.2001, n. 51, essa ha stipulato con il Comune convenzione urbanistica per atto a rogito Notaio Cafagno di Novara in data 24.10.2001, rep. n. 35165/9291;
- Considerato che con l’art. 9 della convenzione le parti hanno stabilito che, per quanto interessa nella presente sede, “in relazione al disposto n. 2 dell’art. 45 L.R. 56/1977, il contributo per le opere di urbanizzazione primarie e secondarie viene determinato, di volta in volta, per ogni singolo intervento, applicando l’onere unitario stabilito dalle tariffe vigenti all’atto di ritiro della concessione, per il tipo di attività richiesta, in rapporto alla superficie progettata”;
- Considerato che con nota 08.03.2003, prot. n. 7801 il Comune, riferendosi alla richiesta di “variante in corso d’opera del progetto approvato con C.E. n. 80/02 del 30.07.2002”, ha comunicato che la Commissione Edilizia si era espressa in senso favorevole e che il rilascio della concessione era subordinato al pagamento dei contributi quantificati come in appresso:
- contributo per oneri di urbanizzazione primaria € 23.872,87 a scomputo;
- contributo per oneri di urbanizzazione secondaria € 9.214,09 a scomputo;
- quota smaltimento rifiuti € 16.543,38 a scomputo;
- Considerato che la ricorrente ha versato il totale richiesto in data 15.04.2003;
- Considerato che con nota 11.08.2003, prot. n. 24511 il Comune, riferendosi alla domanda presentata dalla ricorrente in data 09.04.2002, prot. n. 10478 per i lavori di “costruzione di un capannone industriale con annessi uffici e alloggio del custode”, la nota del Commissario Prefettizio in data 23.04.2003, prot. n. 14139 e la deliberazione C.C. 09.09.1977, n. 118, ha preteso il pagamento di ulteriori € 190.249,39 per “quota di smaltimento rifiuti”;
- Considerato che con il primo motivo la società ricorrente deduce che poiché tale voce contributiva non era prevista in convenzione, essa non è dovuta;
- Ritenuto, conformemente ai precedenti di questa stessa Sezione, che laddove la quantificazione dei contributi di concessione edilizia sia contenuta in una convenzione (e non derivi perciò da un atto unilaterale del Comune), questa diviene vincolante ed inderogabile per tutte le parti stipulanti, con la conseguenza che il Comune non può di norma apportare nessuna modifica a quanto ivi stabilito (TAR Piemonte, I, 21.11.2001, n. 2154);
- Ritenuto in particolare che “la determinazione del Comune di addivenire ad una convenzione in materia urbanistica segna il mutamento dei termini del rapporto tra le parti, facendo venir meno la possibilità di emenda delle determinazioni amministrative sull’oggetto del rapporto, (in quanto) la convenzione è stipulata anche nell’interesse pubblico, e la valutazione degli oneri che graveranno sull’intervento ha carattere unitario, sì che non è possibile pretendere di esercitare nuovamente il potere già esercitato (...) dopo la definizione del rapporto in termini convenzionali” (TAR Piemonte, I, 27.03.2002, n. 748);
- Ritenuto che occorre pertanto verificare l’esatta portata della pattuizione convenzionale;
- Considerato che questa menziona unicamente gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, senza alcuna precisazione o elencazione;
- Ritenuto che per la loro definizione occorre pertanto fare riferimento alla normativa in vigore all’atto del rilascio della concessione, così come espressamente stabilito in convenzione;
- Considerato che la richiesta di concessione cui afferisce in contributo richiesto è stata presentata il 09.04.2002, ma non consta dagli atti quale sia la data di rilascio della concessione medesima;
- Considerato che il nuovo testo unico in materia edilizia approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380 è entrato in vigore il 30.06.2002;
- Considerato in ogni modo che, fino a quella data ha trovato applicazione l’art. 4 L. 29.09.1964, n. 847, richiamato dall’art. 5 L. 29.01.1977, n. 10, che conteneva un elenco delle opere di urbanizzazione primarie (le uniche che rilevano in questa sede) comprendente: a) strade residenziali; b) spazi di sosta o di parcheggio; c) fognature; c) rete idrica; e) rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas; f) pubblica illuminazione; g) spazi di verde attrezzato;
- Considerato che il nuovo testo unico ha variato tale elencazione, includendovi, al suo art. 16, commi 7 e 7-bis, oltre alle opere precedentemente citate “i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai Comuni sulla base dei criteri definiti dalle Regioni”;
- Considerato che secondo l’art. 51 L.R. 05.12.1977, n. 56 l’elenco delle opere di urbanizzazione primaria comprende:
a) opere di risanamento e di sistemazione del suolo eventualmente necessarie per rendere il terreno idoneo all’insediamento;
b) sistema viario pedonale e veicolare, per il collegamento e per l’accesso agli edifici residenziali e non; spazi di sosta e di parcheggio a livello di quartiere; sistemazione delle intersezioni stradali pertinenti gli insediamenti residenziali e non; attrezzature per il traffico;
c) opere di presa, adduzione e reti di distribuzione idrica;
d) rete ed impianti per lo smaltimento e la depurazione dei rifiuti liquidi;
e) sistema di distribuzione dell’energia elettrica e canalizzazioni per gas e telefono;
f) spazi attrezzati di verde pubblico di nucleo residenziale o di quartiere; reti ed impianti di pubblica illuminazione per gli spazi di cui alla lettera b);
- Considerato che, in esito all’istruttoria disposta con precedente ordinanza collegiale 10.12.2003, n. 1459/i, il Comune di Oleggio ha riferito con nota 27.01.2004, prot. n. 2487 di aver quantificato la quota di contributo in contestazione richiamandosi al disposto della deliberazione C.R. 26.05.1977, n. 179-4170, che si riferisce alle “opere necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, l iquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi”;
- Considerato che, secondo il Comune, con tale provvedimento la Regione “correttamente distinse tale quota di contributo concessorio da quelle relative agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”;
- Ritenuto che dal tenore della sopra citata relazione comunale risulta che la quota di contributo in contestazione (smaltimento rifiuti) non si riferisce ai costi di costruzione delle opere a tale scopo necessarie (condotte fognarie), bensì a quelli del loro esercizio, quantificati forfetariamente;
- Ritenuto che tale conclusione è confermata sul piano logico dal fatto che le fognature sono comprese per legge fra le opere di urbanizzazione primaria, per cui non vi sarebbe ragione di scorporare la quota di contributo ad esse relativa dalla somma dovuta per l’urbanizzazione primaria medesima;
- Ritenuto che l’interpretazione del Comune, secondo cui la concessione edilizia (oggi, il permesso di costruire), sconterebbe, oltre alla quota di contributo commisurata agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, anche un’ulteriore quota commisurata allo “smaltimento rifiuti” non può essere né argomentata dalla deliberazione regionale sopra citata, né condivisa nel merito;
- Ritenuto infatti che la deliberazione regionale menziona espressamente le opere necessarie per lo smaltimento rifiuti (in pratica, le condotte fognarie), e non il loro esercizio;
- Ritenuto inoltre che lo smaltimento delle acque reflue sconta comunque una separata tariffa disciplinata da norme speciali (artt. 13, ss. L. 05.01.1994, n. 36) e che identiche considerazioni valgono per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e degli eventuali rifiuti industriali, esso pure soggetto a tributi particolari, disciplinati da norme speciali (art. 58 D.L.vo 15.11.1993, n. 507);
- Ritenuto perciò che i costi dell’attività di smaltimento rifiuti non concorrono a formare il contributo dovuto a fronte del rilascio della concessione edilizia o del permesso di costruire;
- Ritenuto che per le esposte considerazioni la quota di contributo di concessione pretesa dal Comune di Oleggio a titolo di “quota smaltimento rifiuti” non può considerarsi dovuta e le somme già versate dalla ricorrente a tale titolo dovranno essere rimborsate;
- Ritenuto che, dovendosi presumere la buona fede del Comune (in applicazione analogica dell’art. 1147, comma 2 cod. civ) e non avendo la ricorrente fornito prova contraria, tale somma potrà essere aumentata degli interessi legali secondo domanda soltanto a decorrere dalla data di notificazione del ricorso (art. 2033 cod. civ.);
- Ritenuto che entro tali limiti il ricorso merita conclusivamente accoglimento, con le consequenziali pronunce sopra indicate (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 21.04.2004 n. 643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARelativamente al contributo per oneri di urbanizzazione, dispone l’art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, ora trasfuso nell’art. 16 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che a “… scomputo totale o parziale della quota dovuta, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal comune” (comma 1).
Si è osservato, in proposito, che pur trattandosi di una “prestazione patrimoniale imposta” –sì da venire determinata senza tenere conto dell’utilità che riceve il beneficiario della concessione ovvero delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative alla costruzione assentita–, il contributo deve in ogni caso considerarsi come una prestazione “causale”, non finalizzata esclusivamente a procurare all’ente impositore un’entrata patrimoniale.
E allora, se la ragion d’essere del contributo è quella di far partecipare il privato ai costi relativi alle trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio, l’esecuzione diretta delle relative opere da parte del concessionario impone il correttivo dello scomputo delle spese in tal modo affrontate, senza peraltro distinguere tra opere di urbanizzazione primaria o secondaria –e quindi agendo sul contributo complessivo–, nel senso che l’eventuale eccedenza della spesa di una delle due categorie di opere rispetto all’importo della corrispondente quota di contributo può essere portata in detrazione da quanto dovuto per l’altra categoria; ad opinare diversamente, del resto, si darebbe luogo ad un ingiustificato arricchimento delle Amministrazioni comunali, trasferendo loro il valore di una parte delle opere eseguite dal privato, che sarebbe ciò nonostante tenuto a versare il restante ammontare del contributo.
Alla base dell’orientamento giurisprudenziale, già fatto proprio da questa Sezione, è in definitiva il principio per cui l’importo delle spese sostenute dal privato per l’esecuzione in proprio delle opere di urbanizzazione va sempre integralmente compensato con quanto dovuto a titolo di contributo complessivo per i relativi oneri, indipendentemente dalle voci che concorrono a determinare l’ammontare della prestazione patrimoniale che grava sul concessionario; questi, insomma, deve essere tenuto indenne dai costi dei lavori, anche se concernenti solo alcune delle opere di urbanizzazione necessarie, fino alla concorrenza del contributo totale.
L’Amministrazione, del resto, autorizza preventivamente l’effettuazione delle opere da parte del privato, e può quindi valutarne l’adeguatezza, opponendosi quando, pur sotto il profilo finanziario, emergano contrastanti ragioni di opportunità.
Di qui la fondatezza della pretesa azionata, e il conseguente annullamento in parte qua della concessione edilizia n. 148/2002 del 14.02.2003 e della nota prot. n. 18464 del 10.02.2003, in quanto il Comune di Parma ha illegittimamente concesso lo scomputo degli oneri di urbanizzazione nei limiti della quota di incidenza percentuale delle opere eseguite dalla ricorrente, alla luce dei parametri regionali (19% per le opere di urbanizzazione primaria e 25% per le opere di urbanizzazione secondaria), raccordando quindi il beneficio al corrispondente importo astratto delle voci di contributo anziché alla spesa effettivamente sostenuta.

Aziona la società ricorrente, titolare di concessione edilizia per la realizzazione di “comparto di progettazione unitaria – Direzionale Uffici Comunali (D.U.C.) – ambito C” nel territorio del Comune di Parma, il diritto a scomputare dal contributo per oneri di urbanizzazione le somme effettivamente spese per l’esecuzione diretta delle relative opere, con conseguente condanna dell’Amministrazione comunale alla restituzione di quanto a tale titolo indebitamente percepito, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria; inoltre, impugna in parte qua gli atti adottati dall’ente locale, nonché le determinazioni generali, anche di provenienza regionale, in tema di modalità di scomputo delle spese originate dalla diretta realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte del concessionario.
Assume di avere titolo all’integrale –e non parziale– compensazione degli oneri in tal modo sostenuti, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 10 del 1977, e quindi di dover essere completamente esonerata dal pagamento del contributo, essendo questo di importo inferiore alle spese affrontate.
Replica l’Amministrazione comunale che la detrazione è legittimamente avvenuta nei limiti dell’incidenza percentuale delle opere di urbanizzazione (realizzate) rispetto alla totalità degli interventi che concorrono a determinare l’importo globale del contributo. Il tutto in conformità delle tabelle parametriche regionali, che peraltro la ricorrente avrebbe espressamente accettato in sede di sottoscrizione di un “atto unilaterale d’obbligo”, tanto da dar luogo ad una sostanziale acquiescenza nei confronti delle previste modalità di scomputo delle spese per esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione, e comunque da privare di fondamento qualsiasi pretesa in contrasto con il regolamento negoziale che ne sarebbe scaturito.
Ciò stante, il Collegio è chiamato a definire entro quali limiti la società ricorrente, che con il preventivo assenso dell’Amministrazione comunale ha curato in proprio la realizzazione di alcune opere di urbanizzazione, possa far valere il diritto a compensare le spese a tale titolo sostenute con il contributo che grava su di essa in quanto titolare di concessione edilizia.
Orbene, relativamente al contributo per oneri di urbanizzazione, dispone l’art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, ora trasfuso nell’art. 16 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che a “… scomputo totale o parziale della quota dovuta, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal comune” (comma 1).
Si è osservato, in proposito, che pur trattandosi di una “prestazione patrimoniale imposta” –sì da venire determinata senza tenere conto dell’utilità che riceve il beneficiario della concessione ovvero delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative alla costruzione assentita–, il contributo deve in ogni caso considerarsi come una prestazione “causale”, non finalizzata esclusivamente a procurare all’ente impositore un’entrata patrimoniale (v. Cons. Stato, Sez. V, 27.06.1994 n. 716).
E allora, se la ragion d’essere del contributo è quella di far partecipare il privato ai costi relativi alle trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio, l’esecuzione diretta delle relative opere da parte del concessionario impone il correttivo dello scomputo delle spese in tal modo affrontate, senza peraltro distinguere tra opere di urbanizzazione primaria o secondaria –e quindi agendo sul contributo complessivo–, nel senso che l’eventuale eccedenza della spesa di una delle due categorie di opere rispetto all’importo della corrispondente quota di contributo può essere portata in detrazione da quanto dovuto per l’altra categoria; ad opinare diversamente, del resto, si darebbe luogo ad un ingiustificato arricchimento delle Amministrazioni comunali, trasferendo loro il valore di una parte delle opere eseguite dal privato, che sarebbe ciò nonostante tenuto a versare il restante ammontare del contributo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 04.12.1989 n. 806; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 11.06.2002 n. 459).
Alla base dell’orientamento giurisprudenziale, già fatto proprio da questa Sezione (v. sentt. n. 219 del 23.04.2002 e n. 7 del 13.01.1999), è in definitiva il principio per cui l’importo delle spese sostenute dal privato per l’esecuzione in proprio delle opere di urbanizzazione va sempre integralmente compensato con quanto dovuto a titolo di contributo complessivo per i relativi oneri, indipendentemente dalle voci che concorrono a determinare l’ammontare della prestazione patrimoniale che grava sul concessionario; questi, insomma, deve essere tenuto indenne dai costi dei lavori, anche se concernenti solo alcune delle opere di urbanizzazione necessarie, fino alla concorrenza del contributo totale.
L’Amministrazione, del resto, autorizza preventivamente l’effettuazione delle opere da parte del privato, e può quindi valutarne l’adeguatezza, opponendosi quando, pur sotto il profilo finanziario, emergano contrastanti ragioni di opportunità.
Di qui la fondatezza della pretesa azionata, e il conseguente annullamento in parte qua della concessione edilizia n. 148/2002 del 14.02.2003 e della nota prot. n. 18464 del 10.02.2003, in quanto il Comune di Parma ha illegittimamente concesso lo scomputo degli oneri di urbanizzazione nei limiti della quota di incidenza percentuale delle opere eseguite dalla ricorrente, alla luce dei parametri regionali (19% per le opere di urbanizzazione primaria e 25% per le opere di urbanizzazione secondaria), raccordando quindi il beneficio al corrispondente importo astratto delle voci di contributo anziché alla spesa effettivamente sostenuta.
Questa peraltro eccede l’ammontare complessivo del contributo –circostanza non contestata dall’Amministrazione–, sì che nulla poteva essere in conclusione richiesto al privato.
Non vi è invece motivo per procedere all’annullamento degli altri atti impugnati.
Quanto alle deliberazioni con cui la Regione Emilia-Romagna e il Comune di Parma hanno stabilito i criteri generali per la determinazione del contributo di urbanizzazione, va rilevato che le stesse non recano prescrizioni ostative all’invocato scomputo integrale degli oneri assunti dal concessionario (anche ove la spesa per l’esecuzione diretta sia superiore alla quota di contributo dovuta per le opere realizzate); in particolare, non è significativo che la deliberazione regionale n. 849 del 1998 regoli le modalità di scomputo nel caso di esecuzione in proprio di opere di urbanizzazione primaria mentre taccia di analoga eventualità nel caso di opere di urbanizzazione secondaria, o che la deliberazione comunale n. 140/1977 del 2000 non contempli l’ipotesi di spesa del privato in misura superiore alla corrispondente quota di contributo, o che l’art. 13 del regolamento urbanistico ed edilizio prenda a riferimento lo scomputo degli oneri di urbanizzazione per l’esecuzione diretta di parcheggi senza apparentemente consentire la detrazione dell’eventuale maggiore spesa, in quanto il diritto allo “scomputo” scaturisce ex lege, e nella normativa di rango primario trova la sua integrale disciplina, prevalendo su quella di rango secondario, ove rechi disposizioni incompatibili con la prima.
Né, ancora, è rilevante l’impegno precedentemente sottoscritto dalla ricorrente (“… Le opere descritte andranno a scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria e di urbanizzazione secondaria, secondo quanto stabilito dalle normative vigenti ed in funzione delle opere effettivamente realizzate …”). Il generico rinvio alla normativa in materia non poteva implicare alcuna rinuncia al meccanismo dell’integrale scomputo delle spese sostenute, essendo anzi la disciplina applicabile quella correttamente invocata dalla ricorrente. Ed è quindi infondata anche l ’eccezione di acquiescenza, alcun elemento inducendo in tal senso.
In definitiva, la società ricorrente ha diritto a che sia portato in detrazione dall’ammontare complessivo del contributo di urbanizzazione quanto speso per l’esecuzione diretta di opere preventivamente autorizzate dall’Amministrazione, anche se di importo superiore alla quota di contributo corrispondente.
Di conseguenza il Comune di Parma va condannato alla restituzione delle somme indebitamente percepite, coprendo lo scomputo l’intero ammontare del contributo; su dette somme, inoltre, competono gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale, mentre non spetta la rivalutazione monetaria, trattandosi di indebito oggettivo ex art. 2033 cod.civ., il quale genera esclusivamente l’obbligazione accessoria degli interessi (v., ex multis, TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 06.08.2002 n. 981) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 10.03.2004 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 10.07.2015

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Volume "tecnico" o non volume "tecnico" sempre volume è ... quindi, NIENTE COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA!!

     Altra recentissima sentenza del CdS che, riformando il pronunciamento del TAR, interpreta la legge per ciò che sta scritto e della  circolare 26.06.2009 n. 33 del Segretario generale MIBACT se ne scorda...

EDILIZIA PRIVATA: Non può conseguire la compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs 42/2204) l'intervento (abusivamente realizzato in assenza dell'autorizzazione paesaggistica) consistito nell’innalzamento per circa 90 cm del torrino ascensore e del solaio di copertura.
Come ha più volte osservato questo Consiglio di Stato, il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno.
Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: non è quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso codificato dal precedente art. 146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse.

... per la riforma
TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.11.2009 n. 6827, resa tra le parti, concernente diniego parere per sanatoria paesaggistica.
...
I) Il Ministero per i beni e le attività culturali chiede la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo della Campania ha accolto il ricorso proposto dalla società A. s.r.l. avverso la nota in data 13.01.2009, con la quale la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Napoli ha negato il parere, chiesto con istanza del 20.10.2008, per la sanatoria dell'intervento realizzato in assenza della necessaria autorizzazione paesaggistica in Gragnano, intervento consistente nell’innalzamento per circa 90 cm del torrino ascensore e del solaio di copertura, asseritamente necessario per il rispetto di norme tecniche.
Con il provvedimento impugnato in primo grado la Soprintendenza ha rilevato di non essere tenuta ad esprimere il proprio parere, non sussistendo i presupposti di cui agli artt. 146 e 167 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), così sostanzialmente rigettando la richiesta, poiché l’intervento aveva realizzato un aumento di volumetria.
La sentenza impugnata ha accolto il ricorso, sul presupposto che la realizzazione di un volume tecnico non rientra tra le ipotesi per le quali l’art. 167, comma 4, del Codice non consente l’accertamento di compatibilità paesaggistica in sanatoria, poiché l’interpretazione teleologica della norma conduce a ritenere che tale divieto si riferisca agli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuova superficie utile e di nuovo volume (tecnico).
II) L’appello proposto dall’Amministrazione avverso tale sentenza è fondato.
Come ha più volte osservato questo Consiglio di Stato (per tutte, sez. VI, 05.08.2013, n. 4079), il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno. Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: non è quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso codificato dal precedente art. 146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse.
In conclusione, la sentenza impugnata merita la riforma chiesta con l’appello, ma le spese anche di questo secondo grado possono essere compensate, sussistendone i presupposti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.07.2015 n. 3289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed prima ancora sempre il Consiglio di Stato ancor più rigoroso nell'interpretazione della norma...

EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno.
La disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si estende anche alle opere interrate che non risultino immediatamente percepibili all’occhio umano.

Come affermato dalla giurisprudenza, “non appare dubbio, invero, (che) alla luce dell’individuazione dei beni paesaggistici contenuta ….(negli artt. 136 e segg. del d.lgs. n. 42 del 2004) con il termine paesaggio il legislatore abbia inteso designare una determinata parte del territorio che, per le sue caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare tutela, che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile dell'area vincolata, così che ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio della prescritta autorizzazione”.
Tale nozione ampia di paesaggio coincide, peraltro, con la definizione contenuta nella Convenzione europea sul paesaggio, firmata a Firenze il 20.10.2000 e ratificata con la legge 09.01.2006, n. 14, secondo la quale il termine paesaggio “designa una determinata parte del territorio, così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
Osserva il Collegio che dalla predetta definizione di paesaggio deriva che il vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche con riferimento alle opere realizzate nel sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto, specie quando, come nel caso in esame, si tratti di opere di rilevante entità.
Quanto esposto risulta confermato, in primo luogo, dal contenuto dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, che vieta l'esecuzione di lavori “di qualsiasi genere” su beni paesaggistici senza la necessaria autorizzazione o in difformità da essa ed, in secondo luogo, dalla giurisprudenza che –da un lato- ha ritenuto che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno, e –dall’altro– che il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati’), pur quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati volumi in senso tecnico.
Ne deriva che la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria doveva negare l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere realizzate dalla società appellata nel sottosuolo del Comune in difformità da quanto previsto dal permesso di costruire, in quanto la disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si estende anche alle opere interrate che non risultino immediatamente percepibili all’occhio umano.

... per la riforma del TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.07.2008 n. 1547, resa tra le parti;
...
1. Con il ricorso n. 630 del 2008, proposto al Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, la società T. Immobiliare s.r.l. chiedeva l'annullamento, lamentandone l'illegittimità, del provvedimento n. 14041 del 26.05.2008, tramite il quale la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria accoglieva in parte l'istanza presentata dalla società ricorrente, considerando sanabile soltanto il mero mantenimento delle opere strutturali realizzate nel sottosuolo del Comune di Zoagli -sottoposto a vincolo paesaggistico- e non il successivo, non autorizzato, progetto di completamento.
La società T. Immobiliare s.r.l. chiedeva, inoltre, l'annullamento del provvedimento n. 9095 del 07.06.2008 -con il quale il Comune di Zoagli disponeva “la completa costipazione” delle opere interrate abusivamente realizzate dalla società istante- lamentandone l'illegittimità.
2. Con la sentenza n. 1547 del 2008 il Tar per la Liguria accoglieva il predetto ricorso, annullando gli atti impugnati.
3. Avverso detta sentenza il Ministero per i beni e le attività culturali ha proposto appello (ricorso n. 8956 del 2009).
4. All'udienza del 09.07.2013 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. L'Amministrazione appellante ha lamentato l'erroneità dell'impugnata sentenza del Tar per la Liguria che non solo non ha fatto alcun riferimento al duplice contenuto del parere della soprintendenza (accoglimento della sanatoria delle opere strutturali originariamente realizzate, reinterro dei volumi abusivamente realizzati), ma, accogliendo il ricorso della società appellata, ha ritenuto che “la potestà di tutela paesaggistica ha riguardo solo ai beni naturali od ai manufatti che sono percepibili dall’occhio di un uomo posto sulla superficie della terra o che la sorvola”.
Secondo l’Amministrazione appellante tale pronuncia limiterebbe il potere di cui alle disposizioni della parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio ai “meri aspetti visivi”, ponendosi in contrasto con l’art. 2 del Codice medesimo: la definizione di paesaggio fatta propria dal d.lgs. n. 42 del 2004, infatti, non farebbe alcuna distinzione fra suolo e sottosuolo in quanto “il concetto di paesaggio (andrebbe) identificato non con riferimento al dato fisico della percepibilità alla vista, bensì con riferimento al dato culturale dell’interazione fra uomo e territorio”.
In tale prospettiva anche il sottosuolo si deve intendere, quindi, sottoposto alle previsioni relative alle aree vincolate “allorché se ne progettino usi incompatibili con la tutela” dei valori paesaggistico-ambientali.
5.1. Il motivo è fondato.
Come affermato dalla giurisprudenza, “non appare dubbio, invero, (che) alla luce dell’individuazione dei beni paesaggistici contenuta ….(negli artt. 136 e segg. del d.lgs. n. 42 del 2004) con il termine paesaggio il legislatore abbia inteso designare una determinata parte del territorio che, per le sue caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare tutela, che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile dell'area vincolata, così che ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio della prescritta autorizzazione” (Cass. Pen., Sez. III, 16.02.2006, n. 11128).
Tale nozione ampia di paesaggio coincide, peraltro, con la definizione contenuta nella Convenzione europea sul paesaggio, firmata a Firenze il 20.10.2000 e ratificata con la legge 09.01.2006, n. 14, secondo la quale il termine paesaggio “designa una determinata parte del territorio, così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (Cass. Pen., Sez. III, 16.02.2006, n. 11128).
Osserva il Collegio che dalla predetta definizione di paesaggio deriva che il vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche con riferimento alle opere realizzate nel sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto, specie quando, come nel caso in esame, si tratti di opere di rilevante entità (Cass. pen., Sez. III, 16.01.2007, n. 7292).
Quanto esposto risulta confermato, in primo luogo, dal contenuto dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, che vieta l'esecuzione di lavori “di qualsiasi genere” su beni paesaggistici senza la necessaria autorizzazione o in difformità da essa ed, in secondo luogo, dalla giurisprudenza che –da un lato- ha ritenuto che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno (Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.1997, n. 102), e –dall’altro– che il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati’), pur quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati volumi in senso tecnico (Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578).
Ne deriva che la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria doveva negare l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere realizzate dalla società appellata nel sottosuolo del Comune di Zoagli in difformità da quanto previsto dal permesso di costruire n. 9 del 2006, in quanto la disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si estende anche alle opere interrate che non risultino immediatamente percepibili all’occhio umano.
La fondatezza del motivo presentato dall’Amministrazione appellante ed il suo conseguente accoglimento consente al Collegio di dichiarare assorbita l’ulteriore censura formulata avverso la sentenza impugnata, concernente l’erronea qualificazione che il giudice di primo grado avrebbe dato all’impugnato provvedimento soprintendentizio n. 14041 del 2008.
6. Per quanto sin qui esposto l’appello va accolto e, conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso di primo grado n. 630 del 2008 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.08.2013 n. 4079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

...riformando altro pronunciamento del TAR.

EDILIZIA PRIVATALa potestà di tutela paesaggistica ha riguardo solo ai beni naturali od ai manufatti che sono percepibili dall’occhio di un uomo posto sulla superficie della terra o che la sorvola.
E’ impugnato in principalità un atto del sopraintendente ai beni architettonici e paesaggistici con cui è stato negato l’accertamento di compatibilità paesaggistica relativamente all’attività edilizia posta in essere dall’interessata nel sottosuolo del comune di Zoagli.
Si tratta di un’area da decenni vincolata ai fini paesaggistici, in ragione della particolare bellezza del panorama che si gode percorrendo la via Aurelia, dal cui bordo il sito in questione dista poche decine di metri; nel corso della realizzazione dei lavori assentiti dal comune, l’impresa ha eseguito degli scavi più profondi rispetto a quanto in progetto, ed ha chiesto all’amministrazione comunale di poter destinare le aree così ricavate ad autorimesse.
La sopraintendenza ha negato il presupposto accertamento di compatibilità, a cui ha fatto seguito l’amministrazione comunale, che ha ricusato l’accertamento di conformità richiesto.
Con i motivi di impugnazione l’interessata osserva che la tutela del vincolo paesaggistico non può estendersi alla contestazione di quanto realizzato nel sottosuolo, posto che risulta contraddittorio esercitare una potestà attribuita dalla legge a fini paesaggistici per qualcosa che sfugge all’occhio umano.
Il collegio osserva che effettivamente la potestà di tutela paesaggistica ha riguardo solo ai beni naturali od ai manufatti che sono percepibili dall’occhio di un uomo posto sulla superficie della terra o che la sorvola: al contrario la nozione di paesaggio non può ricomprendere ciò che si trova nel sottosuolo, posto che quanto riguarda tali ubicazione ha riguardo al più alle norme urbanistiche o di tutela archeologica, storica o culturale.
Tale asserzione si pone in consapevole contrasto con la recente giurisprudenza della terza sezione penale della corte di cassazione (sentt. 16.01.2007, n. 7292 e 16.02.2006, n. 11128), che ha inteso il concetto di paesaggio in modo ampio, ed ha ritenuto doversi rispondere in sede penale anche per le violazioni commesse con riferimento alla parte del territorio che è celata alla fruizione dell’uomo.
A diversa conclusione non può indurre il testo dell’art. 181 del d.lvo 22.12.2004, n. 42 che sanziona l’esecuzione senza autorizzazione di ogni tipo di lavoro effettuato sui beni paesaggistici: la norma va infatti intesa nei limiti di quel che il legislatore ha inteso, riferendosi al bene tutelato che è appunto il paesaggio. Il termine qualsiasi va perciò interpretato nel senso che la tutela afferisce ad ogni bene che può incidere sulla corretta e libera fruizione di quel che è visibile.
In conclusione il ricorso merita condivisione e va accolto, dovendosi annullare gli atti impugnati (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.07.2008 n. 1547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

APPALTI: Centrali Uniche di Committenza (07.07.2015 - tratto da www.fondazioneifel.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Sportello unico. Richieste del 01.07.2015. Rilascio versione 4.0.1.34 del 01.07.2015 (INPS, messaggio 06.07.2015 n. 4580 - link a www.inps.it).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Congedo parentale. Elevazione dei limiti temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a 12 anni ed elevazione dei limiti temporali di indennizzo a prescindere dalle condizioni di reddito da 3 a 6 anni. Modalità di presentazione della domanda nel periodo transitorio (INPS, messaggio 06.07.2015 n. 4576 - link a www.inps.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: INGEGNERI IUNIORES - COMPETENZE PROFESSIONALI - SENTENZA TAR CAMPANIA 14.04.2015 N.797 – LAVORI DI COMPLETAMENTO ED ADEGUAMENTO DELLA RETE FOGNARIA E DELL’IMPIANTO DI DEPURAZIONE – ATTIVITÀ DI CONCORSO ALLE ATTIVITÀ DI PROGETTAZIONE DI OPERE EDILIZIE - LEGITTIMITÀ DELL’AFFIDAMENTO – CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 01.07.2015 n. 554 - link a www.cni-online.it).

ENTI LOCALI: OGGETTO: Sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 18.06.2015. Verifiche periodiche di funzionalità dei dispositivi di controllo della velocità dei veicoli (Ministero dell'interno, Dipartimento per la Pubblica Sicurezza, nota 26.06.2015 n. 300/A/4745/15/144/5/20/5 di prot.).

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Aeromobili a Pilotaggio Remoto - Vademecum e Prontuario per le infrazioni (Ministero dell'interno, Dipartimento per la Pubblica Sicurezza, nota 30.04.2015 n. 555/OP/0001369/2015/2 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 28 del 10.07.2015, "Legge di semplificazione 2015 – Ambiti istituzionale ed economico" (L.R. 08.07.2015 n. 20).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 28 del 10.07.2015, "Riforma del sistema delle autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento della specificità dei territori montani in attuazione della legge 07.04.2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni)" (L.R. 08.07.2015 n. 19).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2015, "Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 31.10.2014 n. X/2591 «Riordino dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei canoni di polizia idraulica»" (deliberazione G.R. 03.07.2015 n. 3792).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 07.07.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.06.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 02.07.201458 n. 99).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 04.07.2015 n. 153 "Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale" (D.L. 04.07.2015 n. 92).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: DURC on-line: sospeso lo Sportello Unico Previdenziale (07.07.2015 - tratto da www.ispoa.it).

PATRIMONIO - URBANISTICA: Trasferimenti di immobili pubblici e di edilizia economica e popolare e trasferimenti effettuati da fondi immobiliari dopo il decreto n. 133/2014 convertito in legge n. 164/2014 (c.d. decreto “Sblocca-Italia”) - Profili fiscali (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 06-08.05.2015 n. 46/2015/T).
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Sommario: 1. Premessa; 2. I trasferimenti di ‘immobili pubblici’: la interpretazione ‘combinata’ delle novelle del d.l. n. 133/2014 e della legge di stabilità n. 190/2014; 3. Il 'ripristino' delle disposizioni agevolative di cui all'art. 32, 2° comma, D.P.R. n. 601/1973; 3.1. In particolare gli atti di trasformazione del diritto di superficie in proprietà; 3.2. Atti di ridistribuzione fondiaria tra co-lottizzanti; 4. Fondi immobiliari e Siiq; 4.1. Il regime speciale su base ‘opzionale’ delle Siiq; 4.2. Le novelle recate dal decreto Sblocca-Italia; 4.3. Segnatamente in materia di fondi immobiliari.
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Lo studio in sintesi (Abstract): Il d.l. n. 133/2014 (cd. decreto “Sblocca-Italia”) convertito in legge n. 164/2014 contiene talune previsioni all’art. 20 che ‘ripristinano’ i regimi tributari di favore (stabiliti dalla previgente normativa) in materia di imposte indirette per:
a) i trasferimenti a titolo oneroso di immobili pubblici in particolari ipotesi (permuta, cartolarizzazione, dismissione e valorizzazione del patrimonio pubblico immobiliare);
b) i trasferimenti in materia di edilizia economica e popolare (verificando se anche per gli atti di trasformazione del diritto di superficie in proprietà e per gli atti di cd. redistribuzione fondiaria tra colottizzanti possa invocarsi il regime fiscale premiale di cui all'art. 32 D.P.R. n. 601/1973);
c) altri trasferimenti relativi ai fondi di investimento immobiliare e alle Siiq.
Inoltre anche nella legge di stabilità n. 190/2014 si rinvengono previsioni specifiche in materia di operazioni di cartolarizzazione, valorizzazione e privatizzazione di immobili pubblici.
Lo studio si prefigge di illustrare i coordinamenti non agevoli tra le novelle recate dal decreto n. 133 e quelle di cui alla legge di stabilità n. 190, per tentare di ricavarne un quadro interpretativo ed operativo, per quanto possibile, organico ed unitario sul piano fiscale.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Cauzioni per gli appalti al momento dell'offerta.
Le cauzioni per gli appalti rilasciate da soggetti non autorizzati determinano l'esclusione del concorrente; il «soccorso istruttorio» è utilizzabile per sanare l'esclusione a condizione che la cauzione sia stata comunque prestata al momento della presentazione dell'offerta; le stazioni appaltanti devono controllare sul sito della Banca d'Italia l'elenco dei soggetti legittimati a rendere cauzioni.

Sono questa alcune delle indicazioni formate dall'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del Presidente 01.07.2015 che prende in esame il tema delle cauzioni (provvisorie e definitive) rilasciate per partecipare ad appalti pubblici che devono essere rese da soggetti autorizzati (fra poco meno di un anno entrerà in vigore l'albo unico degli intermediari).
La materia riguarda le polizze fideiussorie presentate ai sensi degli artt. 75 e 113 del Codice dei contratti pubblici e la prima indicazione fornita dall'Anac è più che altro una raccomandazione a stazioni appaltanti e operatori economici: occorre verificare che le cauzioni siano rilasciate dai soggetti iscritti negli appositi elenchi consultabili sul sito internet della Banca d'Italia al seguente indirizzo.
Il comunicato chiarisce poi che «in caso di presentazione di una cauzione provvisoria rilasciata da un soggetto non autorizzato, la stazione appaltante dovrà procedere all'esclusione del concorrente dalla procedura di affidamento». La causa di esclusione scatta in quanto, come già chiarì l'Authority tre anni fa determina n. 4 del 10.10.2012), l'art. 75 del Codice «presenta un contenuto immediatamente prescrittivo e vincolante, tale per cui deve ritenersi che la presentazione della cauzione provvisoria configuri un adempimento necessario a pena di esclusione» e serve a garantire la serietà dell'offerta a tutela della pubblica amministrazione.
Pertanto se la cauzione è un elemento essenziale dell'offerta «e non un mero elemento di corredo della stessa», ne discende anche l'obbligo di esclusione dell'offerta non corredata da idonea garanzia provvisoria. Si tratta però di ipotesi sanabile con il «soccorso istruttorio», ma a condizione che quest'ultima sia stata già costituita alla data di presentazione dell'offerta (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113 del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni (comunicato del Presidente 01.07.2015 - link a www.http://www.autoritalavoripubblici.it).
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Con un Comunicato del Presidente del 01.07.2015 si forniscono indicazioni alle stazioni appaltanti e agli operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113 del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni.

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Oggetto: AG 41/2015/AC – regolamento incentivi per la progettazione ex art. 93, d.lgs. 163/2006 - richiesta di parere.
In esito a quanto richiesto con nota acquisita al prot. n. 134318 del 28.11.2014, si comunica che il Consiglio dell’Autorità, nell’adunanza del 27.05.2015, ha approvato le seguenti considerazioni.
Si richiama in via preliminare il disposto dell’art. 93, comma 7-bis, del Codice (introdotto dalla legge n. 114/2014) il quale prevede che a valere sugli stanziamenti di cui al comma 7 (stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti), le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione, risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare.
Il successivo comma 7-ter (aggiunto dalla stessa l. 114/2014) prevede che l’80% delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione.
Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo.
Il regolamento stabilisce, altresì, i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell’articolo 16 del d.p.r. 207/2010, depurato del ribasso d’asta offerto (a tali fini non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori, i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all’articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d).
La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il comma 7-ter non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
Ai sensi delle disposizioni sopra richiamate, pertanto, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione, risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro; con regolamento adottato dall’Amministrazione interessata, sono stabilite le modalità ed i criteri per la ripartizione del predetto fondo tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
E’, dunque, rimessa all’autonomia delle singole amministrazioni la disciplina della ripartizione del fondo de quo tra il personale impegnato nelle attività sopra indicate.
Sulla base di tale premesse, si osserva -con riferimento a quanto richiesto dall’Autorità Portuale- che è consuetudine dell’Autorità non esprimere avviso in ordine alla legittimità di singoli atti e provvedimenti adottati dalle stazioni appaltanti, tanto più in relazione al regolamento per la ripartizione dell’incentivo ex art. 93 del d.lgs. 163/2006, rimesso ex lege –come sopra evidenziato- all’esclusiva competenza delle singole amministrazioni.
Tuttavia, in subordine, in relazione allo schema di regolamento predisposto dall’Autorità Portuale, può osservarsi quanto segue.
Lo schema di provvedimento in parola stabilisce che l’incentivo da ripartire tra il personale indicato nell’art. 5, è costituito dall’80% delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione per ciascuna opera/lavoro (art. 7); la percentuale effettiva, nel limite massimo del 2%, è stabilita in rapporto al valore dell’opera (art. 8), con l’ulteriore precisazione che per i progetti individuati nei punti da 2 a 6 dell’art. 8, è possibile attribuire una maggiorazione, comunque non eccedente il limite massimo del 2%, qualora venga attestata dal RUP una delle condizioni ivi previste (multidisciplinarietà del progetto, accertamenti e indagini, etc.).
In ordine a tale ultima previsione, si rappresenta che con
deliberazione 07.05.2008 n. 18, l’Autorità ha ritenuto non conforme alla disciplina di settore la previsione regolamentare di una singola stazione appaltante, contemplante una graduazione dell’incentivo in ragione dell’importo delle opere, senza tener conto anche della complessità dell’opera da realizzare.
La previsione dello schema di regolamento de quo, dovrebbe dunque tener conto, ai fini del riconoscimento della percentuale effettiva di incentivo al personale interessato, oltre che dell’importo delle opere da realizzare, anche della complessità delle stesse.
Si evidenzia, altresì, che
non appaiono conformi alle disposizioni del Codice sopra riportate, le previsioni dello schema di regolamento contemplanti (artt. 5, 9 e 11) l’individuazione di ulteriori figure professionali, oltre quelle indicate nell’art. 93, co. 7-ter, del Codice, destinatarie di una quota dell’incentivo, come di seguito specificate: coordinatore del servizio gare e contratti, coordinatore del settore bilancio, coordinatore del settore personale, coordinatore del servizio sicurezza, coordinatore servizio ambiente, coordinatore ufficio protocollo, coordinatore ufficio permessi etc. e loro collaboratori.
Allo stesso modo,
non appare conforme alla disciplina di settore la previsione dello schema di regolamento (art. 9) a tenore della quale il Rup, nell’ambito del proprio incentivo, può disporre delle seguenti strutture, nella misura massima del 2%: servizio ambiente, consulenza legale, settore demanio, servizio coordinamento e controllo operativo.
Anche in virtù di tale ultima disposizione, quindi, una quota dell’incentivo potrebbe essere destinata –anche se con decisione rimessa evidentemente al Rup- a figure professionali non previste nell’art. 93, comma 7-ter, del Codice.
Si rappresenta al riguardo che l’Autorità, con
parere sulla normativa 21.11.2011 - rif. AG-22/12 e parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10, ha chiarito che l’incentivo «assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti dell’amministrazione che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali».
La ratio legis è di favorire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne ad ogni amministrazione e di assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno gli incarichi. L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo personale dell’ente che abbia materialmente redatto l’atto e ciò in funzione incentivante e premiale per l’espletamento di servizi propri dell’ufficio pubblico
(parere sulla normativa del 27.05.2015 - rif. AG 41/2015/AC - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Pareri Anac solo per appalti oltre 40 mila. Il regolamento è stato pubblicato in G.U..
L'Autorità nazionale anticorruzione emanerà pareri sulle gare in corso soltanto per appalti oltre i 40 mila euro; in caso di ricorso pendente di fronte al Tar il parere non potrà essere reso; i pareri saranno finalizzati a risolvere questioni di rilevanza interpretativa e non più soltanto a dirimere specifiche questioni.

È questo il nuovo orientamento che l'Autorità presieduta da Raffaele Cantone sta dando ad una delle più rilevanti attività che l'organismo di Via Minghetti svolge da anni che è quello di rendere pareri (anche se per ora non vincolanti) su questioni insorte in sede di gara, costituendo una sorte di giurisdizione alternativa e preventiva a quella ordinaria attivabile con i ricorsi al Tar.
Il tutto emerge dal nuovo regolamento 27.05.2015 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 del 27.06.2015 che, aggiornando il precedente regolamento dei primi di settembre del 2014, regola la presentazione di istanze di parere «per la formulazione di una ipotesi di soluzione della questione insorta durante lo svolgimento delle procedure di gara degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture», presentate da portatori di interessi pubblici o privati nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati.
L'Autorità ha espressamente previsto alcune ipotesi di inammissibilità delle istanze come ad esempio quelle concernenti questioni «interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti sanzionatori in corso di istruttoria presso l'Autorità»; altrettanto inammissibili sono le domande riguardanti questioni «di contenuto generico o contenenti un mero rinvio ad allegata documentazione e/o corrispondenza intercorsa tra le parti».
Sarà poi ritenuta non procedibile la richiesta di parere finalizzata «a un controllo generalizzato dei procedimenti di gara delle amministrazioni aggiudicatrici», quindi occorrerà porre un ben determinato quesito e non chiedere all'Anac di verificare la legittimità della procedura di gara. Andranno cestinate anche le richieste relative «gare di importo inferiore alla soglia di 40 mila euro»; ad esempio non sarà possibile procedere con pareri di precontenzioso per gli affidamenti in via diretta disposti dalle stazioni appaltanti.
In sostanza lo strumento del precontenzioso spesso utilizzato in maniera eccessiva e tale da ingolfare gli uffici dell'Autorità sarà sempre più indirizzato a risolvere questioni di carattere generale e di rilievo interpretativo, così da fornire agli operatori economici un riferimento utilizzabile in casi analoghi per risolvere a monte, prima di una possibile esclusione da una gara, un contenzioso fra stazione appaltante e partecipante alla gara.
Le istanze dovranno, per adesso, essere redatte secondo un modulo allegato al Regolamento e trasmesse tramite posta elettronica certificata, almeno fino a quando sarà (a breve) caricata sul sito internet dell'Anac una apposita scheda da compilare che così supererà l'attuale sistema che richiede l'invio esclusivamente tramite posta elettronica certificata (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, sedute vincolate. Insindacabili le ragioni della convocazione. Il presidente può solo verificare i requisiti formali della richiesta.
È legittima la richiesta di convocare il consiglio comunale avanzata da un quinto dei consiglieri, considerato che l'ente non è dotato di regolamento sul funzionamento del consiglio comunale?
E' necessario sottoporre ad approvazione i verbali delle sedute consiliari precedenti, inserendo tale adempimento nell'ordine del giorno di una seduta successiva?
I consiglieri possono chiedere riscontro alle interpellanze da loro proposte?

Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale deve essere adottato in virtù dell'esplicito rinvio operato dall'articolo 38, comma 2, del dlgs n. 267/2000, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, in quanto strumento necessario per il corretto funzionamento di tale organo. L'art. 43, comma 1, del Tuel, tuttavia, riconosce comunque a ciascun consigliere comunale il «diritto di iniziativa» su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio, oltre al diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e mozioni.
La disposizione normativa da ultimo citata, secondo cui il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai 20 giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste, sembra configurare un obbligo del presidente di procedere alla convocazione dell'organo assembleare, come si evince dalla previsione del termine di adempimento (20 giorni) per la trattazione delle questioni richieste. Sebbene la norma non contenga alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso, tuttavia, le richieste di convocazione non possono essere generiche.
In merito il Tar Liguria, sez I, 11/01/1994, n. 1121 ha affermato che l'ordine del giorno deve essere formulato «in maniera chiara ed in termini non ambigui, ma senza che ciò implichi l'esibizione di uno schema di provvedimento o l'impossibilità di apportare variazioni o modifiche dipendenti da valutazioni di merito che il consiglio ha il potere di effettuare». Circa la sindacabilità, da parte del presidente del consiglio (o del sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo la giurisprudenza consolidata, a questi spetta solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non può sindacarne l'oggetto, salvo che questo sia illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea (Tar Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Pertanto le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del consiglio.
Circa la natura degli argomenti per cui è richiesto l'inserimento nell'ordine del giorno da parte dei consiglieri, al fine di verificarne l'eventuale estraneità alle competenze del collegio, occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell'art. 42 del citato testo unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità che la trattazione, da parte del collegio, non debba necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento finale.
Nel caso di specie, ai consiglieri non è stato consentito di porre all'ordine del giorno la richiesta di «valutazione ed eventuale approvazione progettuale dell'intervento di consolidamento sistemazione del movimento franoso». Interessante alcune aree comunali, in quanto tra le competenze del consiglio «non rientrano la valutazione e l'approvazione di progetti già inseriti in piani triennali».
Considerato che il citato art. 42, c. 2, del dlgs n. 267/2000 alla lett. b) affida alla competenza del consiglio comunale, tra l'altro, i «programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie», la condizione della partecipazione del Consiglio comunale alla procedura sembra soddisfatta.
Tuttavia, poiché i consiglieri richiedenti evidenziano la mancata corrispondenza tra i costi programmati e quelli previsti per la realizzazione dei lavori, è opportuna una riconsiderazione di tale richiesta alla luce della deliberazione n. 28 del 09/05/2006 con cui l'Autorità nazionale anticorruzione ha puntualizzato che «la modifica dei parametri economici del progetto deve costituire oggetto di aggiornamento e riapprovazione degli strumenti di programmazione da parte degli organi competenti, nonché di eventuale ripubblicazione nei casi più rilevanti che determinano una variazione «di carattere sostanziale» della programmazione economica
».
Inoltre, il Tar Lombardia, sezione di Brescia, con sent. 10/03/2005, n. 150, ha puntualizzato «che le successive fasi progettuali potranno essere avviate solo dopo l'approvazione del programma e della lista annuale, quale decisione di realizzabilità politico-amministrativa dell'organo competente che, nell'ordinamento degli enti locali, è il consiglio comunale».
Riguardo alla necessità di sottoporre ad approvazione i verbali di sedute precedenti, pur non sussistendo un obbligo giuridico di procedere alla lettura e approvazione degli stessi -obbligo che può comunque essere contenuto nel prescritto regolamento sul funzionamento del consiglio comunale- è sempre ammissibile inserire tale adempimento tra quelli da trattare all'ordine del giorno di una seduta successiva. Ciò in quanto la lettura ed approvazione del verbale da parte del collegio deliberante non hanno lo scopo di rinnovare la manifestazione di volontà dell'organo collegiale, a suo tempo validamente espressa, ma solo quello di verificarne e controllarne la rispondenza con la trascrizione e documentazione fattane dal segretario, organo estraneo al consiglio.
Tale atto non attiene al procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona con la proclamazione del risultato della votazione, ma assolve ad una funzione di mera certificazione dell'attività dell'organo deliberante. La manifestazione di volontà del Consiglio comunale necessita, ab substantiam, di una esternazione costituita dal processo verbale, redatto dal segretario dell'ente, il quale pone in essere, mediante la verbalizzazione, un'attività strumentale di documentazione dell'atto.
Inoltre, «l'eventuale omissione di tale adempimento non è impeditiva dell'efficacia ovvero della stessa esistenza della delibera consiliare» che, conseguentemente, dovrebbe poter sempre essere sanabile sottoponendola all'approvazione del consiglio. Tuttavia, qualora emergano difficoltà nell'interpretazione dei brogliacci dei verbali, proprio per quella funzione di controllo demandata al consiglio, non può essere negato il diritto dei consiglieri di chiedere la convocazione per la loro approvazione definitiva. Riguardo alla richiesta di riscontro delle interpellanze, anche tale materia dovrebbe essere disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
In merito l'art. 43, c. 1, del dlgs n. 267/2000 prevede la possibilità di presentare interrogazioni e mozioni, mentre al comma 3 stabilisce che il sindaco o gli assessori delegati rispondono, entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni altra istanza di sindacato ispettivo (ivi comprese le interpellanze) presentata dai consiglieri. Le modalità della presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Part-time a dipendente dell'area polizia locale.
L'art. 12 del d.lgs. 81/2015 contempla un'espressa salvaguardia delle discipline speciali vigenti e della normativa che disponga diversamente. Pertanto, si è dell'avviso che il divieto di part-time disposto dall'art. 10, comma 7, della l.r. 9/2009 per il personale della polizia locale permanga anche alla luce delle disposizioni di favore contemplate all'art. 8 del d.lgs. 81/2015.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una richiesta di collocamento a part-time, inoltrata da dipendente a tempo indeterminato con la qualifica di Agente di polizia locale, motivata ai sensi dell'art. 12-bis, commi 2 e 3, del d.lgs. 61/2000 (norma di recepimento della Direttiva Comunitaria 97/81/CE).
In particolare, l'Ente si è posto la questione inerente all'accoglibilità di detta istanza, in relazione al contenuto dell'art. 10, comma 7, della l. r. 9/2009, che ha introdotto per il personale della polizia locale il divieto di fruire dell'istituto del part-time. In sostanza, si tratta di pronunciarsi sulla prevalenza, o meno, della richiamata norma di legge statale sulla previsione dettata dalla disposizione regionale citata
[1].
Preliminarmente si osserva che di recente l'art. 55 del d.lgs. 81/2015
[2] ha espressamente abrogato, fra le altre disposizioni di legge, anche il decreto legislativo 61/2000.
Quanto contemplato all'art. 12-bis richiamato in premessa è stato reintrodotto all'art. 8 del citato d.lgs. 81/2015, che ripropone le specifiche ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, a tutela di particolari e gravi situazioni, integrando ulteriormente quelle già previste dalla normativa previgente.
Il comma 3 prevede, infatti, che i lavoratori del settore pubblico e privato affetti da patologie oncologiche nonché da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa, eventualmente anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, accertata da una commissione medica istituita presso l'azienda unità sanitaria locale territorialmente competente, hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale. A richiesta del lavoratore il rapporto di lavoro a tempo parziale è trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno.
Il comma 4 dell'articolo in esame dispone inoltre che, in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice, nonché nel caso in cui il lavoratore o la lavoratrice assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, con connotazione di gravità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, che abbia necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, è riconosciuta la priorità della trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Il comma 5 altresì riconosce detta priorità anche in caso di richiesta del lavoratore o della lavoratrice, con figlio convivente di età non superiore agli anni tredici o con figlio convivente portatore di handicap ai sensi dell'art. 3 della l. 104/1992.
Particolare rilevanza, ai fini della soluzione al quesito prospettato, assume quanto esplicitato all'art. 12
[3] del decreto legislativo in argomento.
Detta previsione precisa infatti che, ai sensi dell'articolo 2, comma 2, del d.lgs. 165/2001, le disposizioni della sezione che disciplina il rapporto di lavoro a tempo parziale 'si applicano, ove non diversamente disposto, anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, con esclusione di quelle contenute negli articoli, commi 2 e 6, e 10 del medesimo decreto, e, comunque, fermo restando quanto previsto da disposizioni speciali in materia'.
La richiamata disposizione legislativa sancisce pertanto la permanenza della disciplina speciale in vigore per particolari categorie di lavoratori che, appunto, 'disponga diversamente'.
In tal contesto normativo (di disciplina speciale) si inserisce per l'appunto quanto disposto dall'art. 10, comma 7, della l.r. 9/2009, che stabilisce che, al fine di garantire l'efficace svolgimento delle funzioni di polizia locale e migliorare le condizioni di sicurezza urbana, l'articolo 1, comma 57, della l. 662/1996, concernente l'esclusione del rapporto di lavoro a tempo parziale per il personale militare, per quello delle Forze di polizia e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, si applica anche al personale di polizia locale, salvo che sia diversamente stabilito nei regolamenti dei rispettivi enti locali per esigenze di carattere stagionale.
Come rilevato a suo tempo dalla Corte costituzionale
[4], la disposizione contemplata al richiamato articolo 10, comma 7, della l.r. 9/2009, emanata nell'ambito della materia della polizia amministrativa locale, oggetto di competenza residuale delle Regioni, anche a statuto speciale, 'non interviene direttamente sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo parziale ma si limita a stabilire, per il futuro, che il personale addetto a funzioni di polizia locale non potrà usufruire di tale modalità di prestazione del rapporto di lavoro: questa previsione non altera il contenuto di un contratto regolato dalla legge statale, ma sceglie quale tipo di contratto dovrà essere applicato ad una determinata categoria di dipendenti (...) La disposizione impugnata non incide sulla struttura della disciplina del rapporto di lavoro ma regola l'uso di quell'istituto da parte delle amministrazioni locali, su cui la legge regionale ha competenza. In particolare, non disciplina il part-time con modalità diverse da quelle stabilite dalla legge statale, ma regola la sua applicabilità, con riferimento ad una categoria di dipendenti con caratteri e funzioni particolari, attinenti alla sicurezza, come emerge dalla stessa motivazione contenuta nella norma'.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, che muovono dall'espressa salvaguardia delle discipline speciali vigenti, sancita dall'art. 12 del citato d.lgs. 81/2015, si è quindi dell'avviso che permanga il divieto di part-time previsto dalla l.r. 9/2009 per il personale della polizia locale del Friuli Venezia Giulia anche nel caso prospettato da codesta Amministrazione.
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[1] Si osserva tra l'altro che, nel caso di specie, non si pone il problema del rapporto tra norme del diritto comunitario e quelle del diritto interno, atteso che, nel caso di specie, la direttiva comunitaria è stata recepita dallo Stato italiano con proprio decreto legislativo. Ne consegue che la fattispecie in esame necessita di essere analizzata sotto il profilo del rapporto tra norma di legge generale e lex specialis.
[2] Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10.12.2014, n. 183.
[3] Rubricato: Lavoro a tempo parziale nelle amministrazioni pubbliche, che ripropone quanto in precedenza stabilito dall'art. 10 del d.lgs. 61/2000.
[4] Cfr. sentenza n. 141 del 2012
(02.07.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti illeciti, sì alle fototrappole.
Il comune può utilizzare alcune fototrappole in zone periferiche e di campagna per contrastare alcuni fenomeni molto diffusi di scarico illecito di rifiuti ma la sua concreta attuazione richiede l'adozione di particolari cautele ed attenzioni per i connessi aspetti di tutela della privacy e della riservatezza della collettività coinvolta.
È consigliabile che il relativo progetto, prima della sua approvazione venga sottoposto a una verifica preliminare di ammissibilità da parte dell'autorità garante per la protezione dei dati personali.
Il progetto comunale, contenente le linee amministrative e operative dell'iniziativa, andrà approvato anche dall'organo collegiale esecutivo e demandato per la relativa esecuzione, con eventuale assegnazione delle risorse finanziarie necessarie (ulteriori videocamere, cartellonistica ecc.), al dirigente responsabile del servizio di polizia comunale o del dirigente cui risultano organizzativamente assegnate le relative funzioni in sede locale.

Questa è la risposta 02.07.2015 fornita dall'Anci su un quesito posto da un comune sui sistemi di videosorveglianza.
A mente delle prescrizioni dettate dal garante nel corso degli anni (ultimo dell'08.04.2010), sottolinea l'Anci i soggetti pubblici, in qualità di titolari del trattamento (articolo 4, comma 1, lettera f), del codice della privacy), possono trattare dati personali nel rispetto del principio di finalità, perseguendo scopi determinati, espliciti e legittimi soltanto per lo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali.
Ciò vale ovviamente anche in relazione a rilevazioni di immagini mediante sistemi di videosorveglianza. Anche per i soggetti pubblici sussiste l'obbligo di fornire previamente l'informativa agli interessati.
Nel caso di specie, però, il garante ha previsto particolari disposizioni a favore dei trattamenti effettuati dagli organi di polizia, che in alcuni casi affrancano in tutto o in parte dalle ordinarie forme di informativa, le cui modalità sono puntualmente chiarite e descritte nel richiamato provvedimento dell'08.04.2010, con particolare riferimento ai punti 3 e 5, oltre che agli allegati (modelli di informativa su supporto che indichino l'attivazione anche in orario notturno e possibile registrazione con sistemi simbolici o riassuntivi) (articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il sistema di videosorveglianza.
DOMANDA:
Il comune intende utilizzare alcune fototrappole (strumenti utilizzati soprattutto da cacciatori e polizia provinciale e che effettuano fotografie in sequenza molto rapida al passaggio davanti al loro raggio di azione) in zone periferiche e di campagna per contrastare alcuni fenomeni molto diffusi di scarico illecito di rifiuti.
Che accorgimenti occorre adottare? Occorre effettuare una programmazione da comunicare ad enti sovraordinati? Occorre installare della segnaletica a tutela della privacy o si possono effettuare accertamenti a sorpresa?
Il Comune intenderebbe utilizzarle, soprattutto di notte, senza segnalamento, travisate (sono grandi quanto una cassetta postale ordinaria) ed a rotazione (sono 4) in varie zone della città in modo da non dare punti di riferimento e scoraggiare lo scarico abusivo.
Occorre adottare qualche atto dirigenziale o dell'organo politico? Ci sono differenziazioni di tutela ove si utilizzino di notte in aperta campagna o nella mattina presso i cassonetti ovvero presso discariche abusive?
RISPOSTA:
L’iniziativa ipotizzata dal proponente del quesito è da ritenere non preclusa all’ente locale interessato, ma la sua concreta attuazione richiede l’adozione di particolari cautele ed attenzioni per i connessi aspetti di tutela della privacy e della riservatezza della collettività coinvolta.
A tal specifico proposito, salvo quanto in prosieguo si dirà sulla concreta organizzazione (amministrativa e logistica) dell’intervento, è consigliabile che il relativo progetto, prima della sua approvazione venga sottoposto ad una verifica preliminare di ammissibilità da parte dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali (artt. 17 e 154, comma 1, lettera c), del Codice della Privacy approvato con il D.Lgs. n. 196/2003).
L’iniziativa ipotizzata, infatti, concerne un progetto, nei termini e con le modalità sopra descritte, per finalità di sicurezza urbana tramite un preesistente sistema locale di videosorveglianza, da incrementare per gli scopi specifici.
In particolare, il sistema di sorveglianza, come pensato dal proponente, dovrebbe dispiegare la sua azione prolungata durante l’intera frazione notturna (o gran parte) della giornata.
Il progetto, come si accennava, è sicuramente esperibile, ma non potrà sottrarsi al rispetto delle (specifiche) prescrizioni in materia di informativa di cui all’art. 13 del citato Codice Privacy.
A mente delle prescrizioni dettate dal Garante nel corso degli anni (ultimo del 08.04.2010), i soggetti pubblici, in qualità di titolari del trattamento (art. 4, comma 1, lett. f), del Codice), possono trattare dati personali nel rispetto del principio di finalità, perseguendo scopi determinati, espliciti e legittimi (art. 11, comma 1, lett. b), del Codice), soltanto per lo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali. Ciò vale ovviamente anche in relazione a rilevazioni di immagini mediante sistemi di videosorveglianza (art. 18, comma 2, del Codice).
Anche per i soggetti pubblici sussiste l'obbligo di fornire previamente l'informativa agli interessati (art. 13 del Codice).
Nel caso di specie, però, il Garante ha previsto particolari disposizioni a favore dei trattamenti effettuati dagli organi di polizia, che in alcuni casi affrancano in tutto o in parte dalle ordinarie forme di informativa, le cui modalità sono puntualmente chiarite e descritte nel richiamato provvedimento del 2010, che si invita a consultare, con particolare riferimento ai punti 3 e 5, oltre che agli allegati (modelli di informativa su supporto che indichino l’attivazione anche in orario notturno e possibile registrazione con sistemi simbolici o riassuntivi).
Il progetto comunale, contenente le linee amministrative e operative dell’iniziativa, andrà approvato dall’organo collegiale esecutivo e demandato per la relativa esecuzione, con eventuale assegnazione delle risorse finanziarie necessarie (ulteriori videocamere, cartellonistica, ecc.), al dirigente responsabile del servizio di Polizia Comunale o del dirigente cui risultano organizzativamente assegnate le relative funzioni in sede locale (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il procedimento disciplinare.
DOMANDA:
Questo ente ha avviato un procedimento disciplinare a carico di un dipendente già precedentemente sospeso ai sensi dell'art. 5, comma 2, CCNL 22.04.2008, a seguito di rinvio a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro, fatti rispetto ai quali il procedimento disciplinare è stato sospeso ai sensi dell'art. 55-ter, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001.
Il nuovo procedimento disciplinare si riferisce a fatti accaduti prima della sospensione cautelare dal servizio ai sensi del predetto art. 5, comma 2.
Si chiede, nel caso in cui tale secondo procedimento disciplinare debba concludersi con la sospensione dal servizio, quali siano le modalità di applicazione di tale sospensione, se cioè essa debba essere applicata dopo il termine della sospensione cautelare (ad oggi sconosciuto), oppure sovrapponendone l'applicazione alla sospensione cautelare già in essere, o ancora con altra modalità.
RISPOSTA:
Il dipendente è attualmente sospeso dal servizio ai sensi dell'art. 5, comma 2, CCNL 22.04.2008, in quanto è stato rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro (o comunque tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento).
L'art. 55-ter, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 prevede infatti che "Per le infrazioni di maggiore gravità, l'ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente".
Il procedimento disciplinare è ripreso entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione di appartenenza del lavoratore ed è concluso entro centottanta giorni dalla ripresa. La ripresa avviene mediante il rinnovo della contestazione dell'addebito da parte dell'autorità disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis.
Dopo l'espletamento dell'eventuale ulteriore attività istruttoria, il responsabile della struttura conclude il procedimento, con l'atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell'addebito. Occorre ricordare che “La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso" (art. 653 c.p.p.).
L'art. 32-quinquies del c.p. dispone che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 importa altresì l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica. La Legge 27.03.2001 n. 97, all'art. 5, comma 4, prevede che "Salvo quanto disposto dall'articolo 32-quinquies del codice penale, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell'articolo 3, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare".
Si evidenzia che qualsiasi condanna per delitti commessi con l'abuso dei poteri, o con la violazione dei doveri propri di una pubblica funzione, o di un pubblico servizio, o di uno degli uffici indicati nel n. 3 dell'art. 28, o con l'abuso di una professione, arte, industria o di un commercio o mestiere, o con la violazione dei doveri a essi inerenti, importa l'interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione, arte, industria o dal commercio o mestiere. L'ente dovrà valutare, oltre alla tipologia di reato commessa, ogni aspetto aggravante o attenuante, conoscendo le condizioni effettive di svolgimento del lavoro e degli illeciti, comminando la sanzione più equa.
Sulla base delle considerazioni che precedono si rileva che:
- in merito al primo procedimento disciplinare (sospeso), l'amministrazione dovrà attendere la conclusione del procedimento penale;
- se questo si conclude con sentenza di condanna a reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320, il rapporto di lavoro si estingue. In questo caso, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, la sanzione disciplinare espulsiva retroagisce al momento dell’adozione della sospensione cautelare;
- se la sentenza è di condanna ma fuori dai casi di cui al punto precedente, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata ugualmente, a seguito di procedimento disciplinare. Anche in questo caso, la sanzione disciplinare espulsiva retroagisce al momento dell’adozione della sospensione cautelare;
- se la sentenza è di proscioglimento o di assoluzione, la sospensione perde efficacia e sull'amministrazione gravano gli oneri della restitutio in integrum.
In mancanza di informazioni più dettagliate circa la natura dei fatti contestati al dipendente nel secondo procedimento disciplinare, si dà per presupposto che essi non abbiano rilevanza penale. Si tratta, presumibilmente, di fatti che comportano -ai sensi dell'art. 3 CCNL 11.04.2008- della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio:
- con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni (assenza ingiustificata dal servizio, ritardo ingiustificato, comportamenti ingiuriosi, ecc);
- oppure con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi (insufficiente persistente scarso rendimento, recidiva, elusione dei sistemi di rilevamento elettronico della presenza, ecc..).
Preliminarmente, si esprime il parere che sarebbe opportuno non portare a conclusione il secondo procedimento disciplinare prima che sia definito il primo procedimento disciplinare (e relativo processo penale). Infatti va da sé che, se il primo procedimento si concludesse con la sanzione disciplinare estintiva del rapporto di lavoro, nulla quaestio anche per il secondo.
Il problema si porrebbe solo laddove il processo penale (correlato al primo procedimento disciplinare) si concludesse con una sentenza di assoluzione, o anche di condanna, ma non tale -anche in base alle risultanze del procedimento disciplinare- da determinare il licenziamento. In questo caso, comunque, il fatto di aver sospeso anche il secondo procedimento fino alla definizione del primo, elimina le difficoltà applicative di una eventuale sanzione di sospensione dal servizio, la quale troverà applicazione solo una volta conclusasi la precedente sospensione (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: I diritti di rogito spettano solo ai segretari comunali di fascia C.
I diritti di rogito competono ai soli segretari comunali di fascia C.

Lo ha chiarito la sezione delle Autonomie della Corte dei conti con la deliberazione 24.06.2015 n. 21, risolvendo in senso restrittivo il contrasto interpretativo insorto fra alcune sezioni regionali di controllo in merito alla corretta applicazione dell'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014.
Tale norma dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto dello stipendio in godimento
Muovendo da un'interpretazione strettamente letterale, la sezione regionale di controllo per la Lombardia (seguita poi da quella per la Sicilia) hanno individuato due distinte ipotesi legittimanti l'erogazione dei proventi: la prima, quella dei segretari preposti a comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non sarebbe rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il segretario preposto; la seconda, quella dei segretari che non possiedono qualifica dirigenziale, in cui l'attribuzione di quota dei diritti di rogito sarebbe ancorata allo status professionale del segretario preposto, prescindendo dalla classe demografica del comune di assegnazione.
Pertanto, accedendo a questa tesi, nel caso di comuni del tutto privi di personale con qualifica dirigenziale sarebbe possibile attribuire i diritti di rogito a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
A tale tesi, si è contrapposta quella della sezione regionale di controllo per il Lazio (cui si è aggiunta di recente quella per l'Emilia-Romagna), secondo cui l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C e non a quelli che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B, sia essa un effetto del galleggiamento in ipotesi di titolarità di enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale.
La sezione delle autonomie ha condiviso la seconda e più rigorosa lettura, evidenziando che essa, oltre a essere maggiormente coerente con il quadro normativo e contrattuale della materia (che si caratterizza sempre di più per la tendenza a contenere entro ristretti limiti le deroghe al principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici) è l'unica in grado di garantire gli effetti, anche finanziari, avuti in considerazione dal legislatore.
La stessa pronuncia, inoltre, ha chiarito che, in difetto di specifica regolamentazione nell'ambito del Ccnl di categoria successivo alla novella normativa, i diritti di rogito devono essere attribuiti integralmente ai segretari comunali aventi diritto, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell'esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario. Le somme destinate al pagamento dell'emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all'erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti. Ai comuni, in altri termini, non spetta al riguardo alcun potere di autonoma regolamentazione (articolo ItaliaOggi del 07.07.2015).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALIDiritti di rogito solo per i segretari di fascia «C». Corte dei conti. Il chiarimento.
Solo un gruppo ridottissimo di segretari, quelli di fascia C, in quanto non equiparati ai dirigenti, possono percepire i compensi per il diritto di rogito. A loro i tali compensi spettano nella intera quota incassata dall’ente fino a che la contrattazione collettiva nazionale non avrà deciso una soglia diversa. La misura di tale beneficio è da intendere come comprensiva degli oneri riflessi e dell’Irap a carico dell’ente.
Sono queste le indicazioni contenute nella deliberazione 24.06.2015 n. 21 della sezione autonomie della Corte dei Conti, che ha sciolto i dubbi interpretativi fin qui esistenti.
I dubbi possono essere così sintetizzati: la sezione di controllo della Lombardia ha sostenuto che questi compensi spettavano a tutti i segretari negli enti privi di dirigenti, anche nel caso di convenzioni tra Comuni con e senza la dirigenza, individuando nel Comune il soggetto chiamato a deliberare la quota spettante al segretario. La sezione della Sicilia, confermando la spettanza di tale beneficio ai segretari dei Comuni privi di dirigenti, aveva ritenuto che la determinazione della misura dei compensi spettasse al contratto nazionale e fino ad allora andasse erogato erogato quanto incassato dall’ente, garantendo il rispetto del tetto di un quinto del trattamento economico annuo in godimento.
Su un fronte diverso la sezione di controllo del Lazio ha ritenuto che questi compensi spettassero solamente ai segretari inquadrati in fascia C, cioè quelli che non sono assimilati ai dirigenti. E la sezione di controllo dell’Emilia Romagna ha aggiunto che essi potessero essere erogati a tale gruppo di segretari solamente nei Comuni in cui non vi sono dirigenti.
Il risultato determinato dalla deliberazione della sezione autonomie della Corte dei Conti è che i segretari di fascia C potranno ricevere questi compensi e, non essendo attualmente fissato un tetto se non quello di un quinto del trattamento economico annuo, si determinerà molto spesso l’aumento della misura tale beneficio, nonostante la disposizione parli di una “quota”. Mentre i segretari di fascia A e B dei Comuni privi di dirigenti, che sono la gran parte della categoria, non riceveranno questo compenso a fronte di un “galleggiamento”, cioè del diritto a percepire il trattamento economico accessorio più elevato in godimento nell’ente, in misura tutto sommato assai modesta.
La deliberazione della sezione autonomie fissa il seguente principio di diritto: «Alla luce della previsione di cui all’articolo 10, comma 2-bis, del Dl 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C. In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del Ccnl di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario. Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti».
Alla base di tale conclusione viene posta la finalità “perequativa” che la norma vuole raggiungere, sulla base delle modifiche apportate dal Parlamento al testo iniziale del Dl 90/2014 che prevedeva seccamente la abolizione della possibilità di percepire tale compenso
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2015).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Alla luce della previsione di cui all’art. 10 comma 2-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C.
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti.

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Con nota in data 24.12.2014 il Comune di Nave (BS) ha formulato alla Sezione regionale di controllo per la Lombardia una richiesta di parere in ordine alla corretta determinazione dei diritti di rogito da corrispondersi al segretario comunale, alla luce della novella recata dall’art. 10, comma 2-bis, d.l. 90/2014 a mente del quale “negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell’art. 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734 (….) è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento”.
Richiamato l’orientamento espresso dalla Corte dei conti per la Regione siciliana –che, in relazione allo specifico caso in cui gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del predetto segretario comunale, con deliberazione n. 194/2014 ha ritenuto doversi attribuire integralmente i proventi in esame all’avente diritto– il Comune istante ha chiesto di conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine alla possibilità per l’Ente di deliberare in autonomia la percentuale dei diritti introitati da corrispondere al segretario comunale: ciò anche al fine di scorporare dagli emolumenti in parola i c.d. oneri riflessi (oneri previdenziali ed Irap da versare in percentuale sul compenso corrisposto).
Lo stesso Comune, a sostegno della propria prospettazione, ha rilevato come in tal modo non vi sarebbero effetti pregiudizievoli a carico del bilancio dell’Ente atteso che la somma introitata (pari al 100%) varrebbe a coprire, in uno al compenso da corrispondersi al segretario rogante, anche gli oneri accessori analogamente, peraltro, a quanto avviene per altri compensi spettanti ai dipendenti (a titolo esemplificativo è richiamato il regime previsto per gli incentivi per la progettazione interna).
Scrutinati positivamente i profili di ricevibilità e di ammissibilità della richiesta, nel merito, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, condividendo i dubbi sollevati, ha ritenuto di non aderire alla ricostruzione operata dalla Sezione regionale di controllo per la Regione Siciliana evidenziando, al riguardo, come la stessa “oltre ad apparire più un obiter dictum che il frutto di un’analisi ex professo, non pare essere l’unica interpretazione consentita alla luce del dato normativo, che non sembra riservare alla sola contrattazione di settore la quantificazione delle risorse attribuibili ai segretari comunali”.
A tal riguardo la Sezione remittente ha, invero, argomentato come “in carenza di diversa previsione, la lettera della normativa ben potrebbe determinare la riespansione del più generale potere di autonomia regolamentare e organizzativa dell’ente che si appalesa (anche) nella determinazione delle risorse lato sensu rientranti nell’orbe dei compensi incentivanti” e come “sotto un profilo teleologico parrebbe contraddittorio che il legislatore, proprio in un atto legislativo finalizzato al contenimento dei costi della pubblica amministrazione, abbia sotto certi aspetti incrementato la quota di proventi complessivamente ripartibile ai destinatari del beneficio, precludendo qualsiasi possibilità di determinazione in peius da parte dell’ente interessato” (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 34/2015/PAR).
A completamento, ed a sostegno del proprio assunto, la Sezione regionale ha, peraltro, evidenziato come il riconoscimento in favore del Comune di un autonomo potere regolamentare consentirebbe allo stesso, anche in assenza di specifica disciplina contrattuale collettiva, di scorporare dai proventi introitati la quota-parte da corrispondere al beneficiario a titolo di oneri c.d. riflessi che, diversamente opinando, graverebbero sull’Ente erogatore quale datore di lavoro.
Il Presidente della Corte dei conti, ravvisando la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 6, comma 4, d.l. 174/2012, ha deferito la questione alla Sezione delle autonomie.
...

P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla questione di massima come richiamata in parte motiva pronuncia i seguenti principi di diritto:
Alla luce della previsione di cui all’art. 10 comma 2-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C.
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti
” (Corte dei Conti, Sez. delle Autonomie, deliberazione 24.06.2015 n. 21).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIContratti decentrati la sanatoria non ferma la Corte dei conti. Enti locali. Condanna per danno erariale ancora possibile.
La sanatoria dei contratti decentrati fuori regola, anche quando è applicabile, non cancella la responsabilità erariale a carico di chi ha deciso l'attribuzione di “premi” e indennità in eccesso.
Su questa base la Corte dei conti, Sez. giurisdizionale del Veneto, nella sentenza 17.06.2015 n. 98
depositata nei giorni scorsi, ha respinto le eccezioni dei difensori di un gruppo di dirigenti che in un Comune avevano erogato stipendi di troppo per 385mila euro nel periodo 2008-2010.
Le condanne hanno riguardato soltanto i dirigenti, perché a sindaco e assessori è stata applicata l’«esimente politica» dal momento che non è stato rilevato un «concorso sostanziale» nella creazione del danno.
Al di là delle caratteristiche specifiche del caso, però, è la mancata connessione fra la “sanatoria” scritta nel decreto Salva-Roma ter (articolo 4 del Dl 16/2014) e l’attivazione della responsabilità per danno erariale a rappresentare il capitolo più importante della sentenza, la prima a pronunciarsi sul tema. Gli stipendi “illegittimi”, relativi solo ai dirigenti del Comune, sono stati riconosciuti fra 2008 e 2010, dunque prima del 2013 che secondo la Corte dei conti della Lombardia rappresenta la data-limite dopo la quale la sanatoria non si applica (si veda Il Sole 24 Ore del 30 giugno).
Questa sanatoria, scritta per evitare che l’indennizzo per il trattamento accessorio riconosciuto come illegittimo (in genere dopo ispezioni della Ragioneria generale) sia chiesto direttamente al dipendente che ne ha beneficiato, secondo la Corte del Veneto è «irrilevante» sulla possibilità di attivare l’azione erariale. L’attività dei magistrati contabili, sostiene infatti la sentenza poggiandosi anche su pronunce della Corte costituzionale (in particolare la sentenza 453/1998) si muove su un doppio piano, quello «risarcitorio» ma anche quello «sanzionatorio».
L’articolo 4 del Salva-Roma, che prevede di indennizzare l’amministrazione per le uscite in eccesso con tagli equivalenti sui fondi decentrati degli anni successivi, non basta quindi a fermare i giudici. Le condanne per danno erariale, a carico ovviamente di chi ha infranto le regole con dolo o colpa grave, rispondono infatti ad altri obiettivi, che sono di sanzionare il comportamento illecito, offrire alla Pa «elementi di valutazione» del soggetto condannato che possono influire sul rapporto di lavoro e produrre gli «ulteriori effetti» previsti dall’ordinamento (come lo stop quinquennale per gli amministratori che con il loro danno erariale hanno portato il loro ente al dissesto).
Meccanismi risarcitori come quelli previsti dalla sanatoria, quindi, possono semmai alleggerire le condanne, ma non bloccare i procedimenti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2015).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIAAnche i committenti diventano produttori di rifiuti. Ambiente. Le misure del decreto legge 92/2015.
Il decreto legge 92/2015 incide sulla disciplina di rifiuti (chiarendo la portata di alcune definizioni) e concede alle imprese di continuare a operare anche se (nonostante l’abbiano richiesta poiché obbligati per la prima volta) non sono ancora in possesso dell’Aia (autorizzazione integrata ambientale). Inoltre, evitano lo spegnimento dell’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto dopo un mortale incidente sul lavoro. Il decreto 92 è stato pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 4 luglio ed è in vigore dalla stessa data.
Per quanto riguarda i rifiuti, il Dl tocca alcune definizioni del decreto legislativo 152/2006 (Codice ambientale) e precisamente:
- produttore iniziale dei rifiuti: ora è tale «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile la produzione». Quindi, il produttore dei rifiuti non è più solo chi esegue le opere (appaltatore) ma anche il committente (appaltante);
- raccolta: ora comprende, oltre al deposito, anche il deposito preliminare alla raccolta;
- deposito temporaneo: in tale tipologia di deposito, ascrivibile esclusivamente al produttore dei rifiuti e mai soggetto ad autorizzazione (ove si rispettino le caratteristiche previste), rientra anche il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto dei rifiuti in un impianto di trattamento.
Tale deposito riguarda l’intera area in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti.
Un “puzzle” definitorio che (soprattutto con riferimento al produttore) non mancherà di produrre i suoi effetti in numerosi ambiti operativi e sotto molti profili, ma che ora risolve la situazione dei rifiuti generati nel porto di Monfalcone. Qui la Cassazione (sentenza 5916/2015 del 10 febbraio) in sede di impugnativa cautelare, aveva stabilito che l’accumulo dei rifiuti prodotti dai subappaltatori di Fincantieri non potesse essere qualificato come un «deposito temporaneo» trattandosi di «stoccaggio»; quindi, doveva essere autorizzato. Nel cantiere navale, invece, tale attività era priva di atto di assenso preventivo.
La Cassazione correttamente individuava il deposito temporaneo nel raggruppamento di rifiuti effettuato «ad opera dello stesso produttore e nell’area dove il rifiuto viene prodotto». Il raggruppamento era invece effettuato da Fincantieri (subappaltante) sui rifiuti prodotti da soggetti diversi (subappaltatori), in un luogo (banchina del porto) diverso da quello dove i rifiuti erano stati prodotti (a bordo delle navi in costruzione).
In ragione del Dl 92/2015 i depositi temporanei degli scarti di lavorazione realizzati sulla banchina del cantiere di Monfalcone ora sono legittimi poiché i rifiuti derivanti dalla costruzione delle navi sono prodotti anche dalla Fincantieri che, come tale, può posizionarli in deposito temporaneo senza autorizzazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGODomanda su carta per il congedo parentale. Inps. Dagli 8 anni di età.
Per il mese di luglio, le domande di congedo parentale per figli dagli 8 ai 12 anni, dovranno essere presentate con modalità cartacea.
È quanto ha chiarito l’Inps con il messaggio 06.07.2015 n. 4576, in cui l’istituto, nell’attesa che vengano adeguate le procedure informatiche, dà indicazioni ai lavoratori su come poter da subito fruire delle nuove tutele in materia di congedo parentale introdotte dal Dlgs 80/2015.
Le modifiche apportate agli articoli 32 e 34 del Dlgs 151/2001 consistono nella possibilità di godere del congedo fino ai 12 anni di età del bambino (contro i precedenti 8), nonché nell’estensione del periodo indennizzabile dall’Inps al 30% fino al sesto anno di età (contro i precedenti 3). Le stesse novità sono state introdotte per il congedo parentale fruito in caso di adozione o affidamento.
Poiché le nuove regole sono diventate operative dal 25 giugno, l’Inps per consentirne l’utilizzo, e cioè per i congedi richiesti per figli di età compresa tra gli 8 e 12 anni, o per minori adottivi o affidati che si trovano tra l’ottavo e il dodicesimo anno di ingresso in famiglia, ha previsto, per il solo mese di luglio 2015, che la domanda sia presentata con modalità cartacea utilizzando il modulo SR23 rinvenibile nella sezione modulistica del sito dell’istituto.
Nel medesimo messaggio l’Inps ha precisato che per le domande per figli di età inferiore agli 8 anni devono continuare a utilizzarsi esclusivamente i canali telematici.
Non appena gli applicativi informatici saranno implementati, così da consentire di presentare telematicamente anche la domanda per congedi parentali di figli oltre gli 8 anni, sarà l’Inps stesso a darne immediata comunicazione, in quanto da tale data non potrà più essere utilizzata la modalità cartacea
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2015).

EDILIZIA PRIVATASu caldaie e bollino blu Regioni in ordine sparso. Impianti termici. I controlli relativi a fumi e rendimento
Nonostante sia in vigore da due anni il Dpr 74/2013, che fissa per tutta Italia nuove regole sulla frequenza dei controlli degli impianti termici fondata su una diversa suddivisione per potenza, le Regioni (e in certi casi anche le Province e i Comuni sopra i 40mila abitanti) continuano ad agire in ordine sparso su fumi delle caldaie e pagamento del bollino blu. Anche senza averne (il più delle volte) titolo.
La questione riguarda tutti gli impianti a gas, sia domestici sia condominiali di piccola e grande taglia, cioè fra i 35 e i 100 kW o sopra tale soglia e tocca il solo ambito delle ispezioni per l’efficienza energetica (a stabilire invece le tempistiche per la manutenzione degli impianti è il tecnico installatore per gli impianti di nuova installazione e il manutentore per quelli esistenti). Le Regioni che, dopo la svolta a livello statale, hanno recepito totalmente una disciplina per definire tempi e modi di verifiche e manutenzioni sono solo Lombardia, Marche, Umbria, Liguria e Toscana. Lo rivela un recente focus, realizzato dagli esperti di e-training, società di consulenza e formazione per installatori e tecnici.
Di queste Regioni, poi, solo la Lombardia è l’unica ad aver indicato nei propri testi il recepimento non solo del Dpr 74/2013, ma anche dell’ultima normativa europea sull’efficienza energetica (31/2010/Ue). In tutti gli altri casi viene invece citata la precedente direttiva 2002/91/Ce, ormai superata. Abruzzo, Piemonte, Puglia, Sicilia e Veneto sono, invece, scese in campo, ma in modo parziale. Il Piemonte ha deliberato alcune disposizioni circa il libretto di impianto, modificando leggermente la disciplina statale. La Puglia, con una circolare, ha dichiarato di adottare il Dpr 74/2013, demandando tutto a un successivo regolamento, così come l’Abruzzo, con la legge varata pochi giorni fa. Il Veneto ha deliberato per introdurre modifiche al libretto e istituire (per ora sulla carta) il catasto degli impianti così come la Sicilia ha deliberato il solo catasto.
Nelle altre Regioni, nulla è stato fatto per prendere atto del Dpr 74/2013. Con il risultato che si continua, praticamente ovunque, a utilizzare ancora la vecchia regola (Dpr 551/99 e Dlgs 192/2005), che prevede una temporalità diversa per l’invio dell’autocertificazione dell’avvenuto controllo e il pagamento del bollino e anche una diversa suddivisione in fasce degli impianti (classificati, per esempio, domestici non fra i 35 e i 100 kW ma fra 35 e 116 kW).
Infine, esistono casi in cui sono state le Province o addirittura il Comune a recepire il Dpr 74/2013 riadattandolo alle procedure in essere, snaturandone quindi ogni contenuto. Un vero puzzle, difficile da ricomporre, con danno per il cittadino
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le aziende di smaltimento di rifiuti possono lavorare. Nonostante il mancato rilascio dell'Aia da parte della p.a..
Salvate molte imprese di rifiuti. Da oggi, le aziende specializzate nelle attività di recupero e smaltimento dei rifiuti possono continuare a svolgere la proprie attività nonostante la mancata conclusione da parte della pubblica amministrazione dell'iter di concessione dell'autorizzazione integrata ambientale (Aia).

Tutto questo grazie al decreto legge 04.07.2015 n. 92 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 04.07.2015 n. 153 con cui il governo ha evitato il rischio (dal 7 luglio) blocco delle nuove installazioni per mancata conclusione da parte della Pa dell'iter di approvazione dell'autorizzazione unica integrata.
L'allarme del possibile blocco per le imprese di rifiuti è arrivato nei giorni scorsi dalle associazioni Fise Assoambiente (igiene ambientale, raccolta e smaltimento rifiuti) e Fise Unire (recupero dei rifiuti), che hanno più volte sollecitato il ministero dell'ambiente a porre rimedio alla situazione, che rischiava di avere conseguenze gravissime su tutto il sistema industriale italiano.
Ricordiamo che con il dlgs del 04.03.2014 n. 46 è stata recepita nel nostro ordinamento la direttiva europea sulle emissioni industriali. Con il provvedimento del 2014 veniva fissato al 07.07.2015 il termine entro cui la pubblica amministrazione è tenuta a rilasciare l'autorizzazione integrata ambientale, richiesta entro il 7 settembre scorso dalle imprese incluse (in base alle nuove disposizioni) tra le attività soggette alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento.
Oltre a ciò il legislatore nazionale ha previsto la sospensione dell'esercizio dell'impianto in attesa che si perfezioni il procedimento istruttorio, se questo non è concluso entro il 7 luglio. Le imprese, quindi, pur avendo rispettato la scadenza del settembre 2014 per la presentazione della domanda di autorizzazione integrata ambientale, si sarebbe trovate obbligate a bloccare la propria attività nel caso di ritardi nel rilascio del provvedimento da parte delle autorità competenti.
Le imprese che rischiavano il blocco non erano quelle già sottoposto ad Aia ma quelle che dovevano ottenerla per la prima volta. L'autorità competente conclude i procedimenti avviati in esito alle istanze di autorizzazione integrata ambientale, entro il 07.07.2015.
In ogni caso, nelle more della conclusione dei procedimenti, le installazioni possono continuare l'esercizio in base alle autorizzazioni previgenti, se del caso opportunamente aggiornate a cura delle autorità che le hanno rilasciate (articolo ItaliaOggi del 07.07.2015 - http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATA: Maternità, ecco i nuovi congedi. Il limite di età a 12 anni. E le istanze saranno su carta. Le istruzioni dell'Inps per fruire del prolungamento dell'astensione facoltativa.
Via libera alla fruizione del congedo parentale riformato dal Jobs Act. Mamme e papà possono astenersi dal lavoro, facoltativamente, finché il figlio non compia i 12 anni (precedentemente 8 anni), presentando domanda all'Inps in via telematica (richieste fino a otto anni) ovvero in forma cartacea (richieste tra 8 e 12 anni). Per ora, in attesa di adeguamenti informatici, le richieste in forma cartacea possono riguardare solo i congedi relativi al mese di luglio (dopo dovrebbe operare soltanto la modalità telematica).

A spiegarlo l'Inps nel
messaggio 06.07.2015 n. 4576.
Riforma Jobs Act. La novità scaturisce dal dlgs 80/2015, attuativo dell'art. 1, commi 8 e 9 della legge delega n. 183/2014, che tra l'altro ha modificato l'art. 32 T.u. maternità, in materia di congedo parentale.
Il provvedimento, in particolare, in vigore dal 25 giugno, consente ai genitori lavoratori o lavoratrici dipendenti di fruire dei periodi di congedo parentale fino ai 12 anni di vita del figlio oppure fino ai 12 anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, in luogo del precedente limite di 8 anni di vita operativo fino al 24 giugno.
Il prolungamento dell'astensione facoltativa, precisa l'Inps è possibile per ora solo con riferimento ai periodi di congedo fruiti (o da fruire) tra il 25 giugno e fino al 31.12.2015.
Congedi fino a 12 anni. La riforma prevede che i periodi congedo parentale fruiti dai tre ai sei anni di vita del figlio, ovvero dai tre ai sei anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, sono indennizzati, entro il limite massimo complessivo tra i due genitori di sei mesi, in misura del 30% della retribuzione media giornaliera, a prescindere dal condizioni di reddito. «Anche tale estensione», precisa l'Inps, «è per ora limitata ai periodi di congedo fruiti (o da fruire) tra il 25 giugno e il 31.12.2015».
I periodi di congedo fruiti tra i sei e gli otto anni di vita del bambino, oppure tra i sei anni e gli otto anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, sono indennizzabili, sempre in misura del 30% della retribuzione media giornaliera, a condizione che il reddito del genitore che ne fa richiesta sia inferiore a 2,5 volte il minimo di pensione (16.327 euro nel 2015). Invece, i periodi di congedo fruiti tra gli 8 anni e i 12 anni di vita del bambino, oppure tra gli 8 anni e i 12 anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, non sono mai indennizzabili.
Via libera alle domande. Per la riforma, spiega l'Inps, non è stato previsto un periodo di vacatio legis e, quindi, le novità sono già in vigore. Pertanto, nelle more dell'adeguamento degli applicativi informatici usati ai fini della trasmissione online delle domande, l'istituto consente da subito la presentazione delle richieste in forma cartacea, utilizzando il modello rinvenibile sul sito internet, seguendo il percorso: www.inps.it, modulistica, e digitando nel campo «ricerca modulo» il codice SR23.
La domanda cartacea, precisa l'Inps, va utilizzata solo dai genitori lavoratori dipendenti che fruiscono di periodi di congedo parentale dal 25 giugno al 31.12.2015, per figli in età compresa tra gli 8 e i 12 anni, oppure per minori in adozione o affidamento che si trovano tra l'ottavo e il dodicesimo anno di ingresso in famiglia. La domanda cartacea può riguardare anche periodi di congedo parentale fruiti in data antecedente a quella di presentazione della domanda cartacea, a partire comunque dal 25.06.2015.
Per gli altri genitori lavoratori dipendenti, aventi diritto al congedo parentale per figli di età inferiore agli 8 anni, la domanda continua ad essere presentata in via telematica. La presentazione delle domande cartacee, per i genitori interessati da questa modalità, è consentita per il solo mese di luglio 2015 (articolo ItaliaOggi del 07.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIInoltro e-mail, chi sbaglia paga. Attenzione alle insidie della posta elettronica. È un documento da trattare con cautela.
Il Garante: illegittima la diffusione a terzi di dati sensibili senza consenso del mittente.
Non bisogna farsi prendere la mano dalla facilità di utilizzo. Le funzioni sono a portata di click: «rispondi», «rispondi a tutti», «inoltra» sono tasti che vanno usati con coscienza.
Questo sempre, ma con particolare attenzione quando si tratta di corrispondenza di lavoro. In questo caso bisogna chiedersi se la facile trasmissione di un messaggio ricevuto necessiti o meno del consenso del mittente e se allo stesso bisogna dare l'informativa prevista dal codice della privacy.
Se si trascurano queste domande, può capitare che il mittente iniziale faccia valere i propri diritti che possono arrivare anche la risarcimento del danno. Come è successo in un recente caso (si veda altro articolo in pagina), in cui il Garante ha dichiarato l'illegittimità dell'inoltro di una e-mail contenente dati sanitari e il cellulare del primo mittente.
Naturalmente non si tratta di preoccuparsi di avere un lasciapassare iniziale da tutti quelli con cui si dialoga per posta elettronica. Si tratta, invece, di riflettere e pensare a quello che si sta facendo.
Se, per esempio, dialogo a voce con il mio interlocutore presente in un locale pubblico, posso riportare quanto mi ha detto gridandolo cosicché possano sentirmi anche dalla strada?
Se io giro la e-mail ricevuta a un gran numero di destinatari non è la stessa cosa?
In sostanza bisogna fare attenzione a ciò che si fa con lo strumento che si usa.
E qui tornano in causa i trabocchetti dello strumento elettronico, che sono molti.
Innanzi tutto la facilità di girare le e-mail, ma anche la velocità che ci induce lo strumento elettronico. Siamo reperibili ovunque e ad ogni ora e chiunque ci mandi una e-mail si aspetta una immediata risposta.
Il mezzo induce a seguire questa aspettativa: d'altra parte è così facile e così poco faticoso.
Questo induce a una minor ponderazione di ciò che si fa e magari si clicca il comando di invio prima di avere controllato e letto bene il testo, oppure di manda il messaggio di inoltro a terzo destinatario lasciando «sotto» il messaggio originario contenente informazioni che al terzo non dovevano essere trasmesse, oppure si comincia a computare le lettere iniziali del destinatario e il dispositivo propone un risultato, ma non è quello giusto e quindi si manda il messaggio a un soggetto diverso.
Errori e illeciti. Gli errori possono essere tanti. Alcuni di questi possono riguardare solo il bon ton, il galateo delle comunicazioni, come rileggere e correggere gli errori e inserire la punteggiatura.
Altri errori possono rappresentare veri e propri illeciti giuridici puniti dalla legge.
Nel caso trattato di recente dal garante, una e-mail promozionale di una attività consulenziale è stata fatta girare: ma chi ha inoltrato il messaggio non si è reso conto che ha fatto girare dati sensibili.
Naturalmente questo non significa affatto demonizzare le comunicazioni telematiche, significa, invece, non cadere nell'errore opposto credendo che qualsiasi comunicazione sia lecita e che si possa fare tutto senza pensieri.
Natura giuridica della e-mail. Il messaggio di posta elettronica è un documento informatico.
Il Codice dell'amministrazione digitale (dlgs 82/2005, articolo 21) precisa che il documento informatico da chiunque formato e la sua trasmissione sono validi e rilevanti agli effetti di legge, con alcuni distinguo. In particolare l'idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.
In qualche sentenza la e-mail è equiparata al telegramma (articolo 2705 codice civile).
Se, poi, il documento informatico è sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche, che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e l'immodificabilità del documento, ha l'efficacia prevista dall'articolo 2702 del codice civile (scrittura privata utilizzabile in giudizio).
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No alla circolazione di dati sulla salute, a prescindere dalla patologia.
Tutto è partito dal reclamo di una collaboratrice di una società di consulenza e assistenza informatica, che ha contestato la condotta di una agenzia immobiliare.
Questa signora ha inviato una e-mail «promozionale» all'agenzia, nella quale ha informato della convenienza dei servizi informatici offerti e ha invitato a sciogliere il contratto di assistenza con altra società.
Nella e-mail la signora ha indicato il numero di cellulare e ha fatto cenno a una operazione che avrebbe subito («Io la prossima settimana dovrei operarmi finalmente!!! (ho un po' paura in realtà)»; «[ ] fatemi sapere, così passo a trovarvi prima che mi ricoverano!!»)
Che cosa è successo a questa comunicazione di posta elettronica?
Una società operante per l'agenzia ha copiato in gran parte il testo e l'ha modificato, ritoccando il prezzo offerto; poi ha girato il tutto ad almeno 200 (duecento) indirizzi di posta elettronica di altrettanti agenzie immobiliari affiliate allo stesso gruppo.
La signora in questione è venuta a conoscenza di quanto avvenuto perché successivamente ha ricevuto molte telefonate sul numero di cellulare da parte di persone che volevano sincerarsi delle sue condizioni di salute. La signora ha, quindi, presentato il reclamo al garante. Vediamo come si è difesa l'agenzia.
Innanzitutto ha riferito che la e-mail è stata allegata solo a scopo dimostrativo, senza intenti o effetti lesivi.
L'agenzia ha aggiunto di non avere effettuato trattamento di dati personali, men che meno sensibili: secondo l'agenzia non sarebbe stato un trattamento di dati sensibili il generico riferimento a una non meglio precisata «operazione». Con queste motivazioni l'agenzia ha ritenuto che non dovesse procedere a informativa e a raccolta del consenso, altrimenti non avrebbe potuto utilizzare il servizio di posta elettronica. L'agenzia ha anche aggiunto che la e-mail era partita da un computer di una società collegata.
Il Garante della privacy (provvedimento n. 242 del 23.04.2015) ha ritenuto fondato il reclamo e ha dato ragione alla signora, fissando i seguenti principi.
L'operazione di inviare una e-mail rappresenta una «comunicazione» di dati personali (articolo 4, comma 1, lett. l del codice della privacy).
Delle responsabilità connesse a questa comunicazione può essere chiamata a rispondere anche l'agenzia immobiliare, per conto della quale ha operato la società esterna che materialmente ha trasmesso la e-mail.
La agenzia principale è chiamata a vigilare sull'operato dei propri responsabili (art. 29 del codice), anche rispetto a operazioni di trattamento poste in essere nell'ambito di servizi esternalizzati e, nel caso specifico, è stata ritenuta responsabile delle azioni dei consulenti informatici locali.
Nel merito delle contestazioni formulate, il Garante ha accertato la trasmissione della e-mail recante in allegato i dati personali della signora, tra cui il suo numero di cellulare; ha anche accertato che la comunicazione è avvenuta senza informare previamente l'interessata e senza acquisire il relativo consenso.
Il Garante ha ritenuto informativa e consenso preventivo presupposti necessari non già per l'utilizzo dello strumento di posta elettronica, ma per il corretto trattamento dei suoi dati personali.
Tra l'altro si è trattato di comunicazione di dati sensibili (condizioni di salute) e per la nozione di dato sanitario non è necessario indicare una specifica patologia.
Il Garante ha spiegato che la e-mail conteneva un riferimento alla persona dell'interessata e al suo prospettato «ricovero», nonché alle relative condizioni psicologiche: tutte informazioni idonee a rivelare lo stato di salute; e ciò, a prescindere dalla specifica tipologia di intervento.
Trasmette l'e-mail originariamente inviata ha comportato un illegittimo trattamento di dati anche sensibili.
Se poi l'inoltro fosse eseguito solo per finalità dimostrative, si dovrebbe oscurare i dati identificativi degli interessati.
Alla luce degli accertamenti eseguiti, il Garante ha dichiarato illecito il trattamento effettuato e ha vietato l'utilizzo ulteriore dei dati, anche se ha prescritto la conservazione della e-mail al fine di tutelare eventuali diritti in sede giudiziaria;
In effetti il garante ha sottolineato la possibilità per l'interessata di rivolgersi all'autorità giudiziaria per il risarcimento dei danni eventualmente subiti in conseguenza dell'indebito trattamento (articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOBuoni pasto, utilizzo in regola. La tracciabilità ridimensiona le possibilità di spesa. Gli effetti delle disposizioni sulla tassazione light dei ticket in formato elettronico.
Dal 01.07.2015 il fisco è più generoso con i buoni pasto erogati in formato elettronico: la quota non sottoposta a tassazione degli stessi è passata da 5,29 a 7 euro. Ma se da un lato datori di lavoro e dipendenti potranno trarre benefici dal maggior risparmio e potere di spesa, la modifica previste dalla legge di Stabilità 2015 porta con sé un'ulteriore conseguenza.
La tracciabilità garantita dai sistemi elettronici mette in fuorigioco la prassi (fiscalmente irregolare ma largamente diffusa e «tollerata») di utilizzare i ticket per fare la spesa al supermercato o cumulando più buoni tra di loro. I commi 16 e 17 della legge n. 190/2014 hanno modificato l'articolo 51, comma 2, lettera c), del Tuir. Tale norma fissa le regole per la detassazione dei buoni pasto, ossia le prestazioni e indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte da parte del datore di lavoro ai propri addetti.
I ticket restaurant spettano solo per i giorni effettivamente lavorati (escluse quindi giornate di malattia, ferie o trasferte fuori sede per le quali i pasti vengono rimborsati), sono incedibili, non cumulabili né convertibili in denaro. Tuttavia, molto spesso i buoni cartacei vengono utilizzati dai contribuenti senza osservare tali vincoli, per esempio per fare la spesa al supermarket, per pagare il ristorante nei fine settimana o addirittura cedendoli a terzi.
Sul tema non si registrano finora pronunce della giurisprudenza, a testimonianza del fatto che anche i controlli in materia non sono stati intensi negli anni passati, né a carico degli utilizzatori né a carico degli esercenti che ne hanno tollerato l'uso improprio. Ora però le cose potrebbero cambiare.
Nell'ottica della digitalizzazione e della maggiore convenienza fiscale, è verosimile che molte aziende decideranno gradualmente di passare dai carnet tradizionali al buono pasto elettronico, erogato sotto forma di tessera magnetica ricaricabile. Al punto che la Ragioneria generale dello stato, basandosi sui dati della Federazione italiana pubblica esercizi, ha stimato che a regime la quota di mercato delle card elettroniche salirà al 25%, a fronte del 15% attuale.
Le transazioni che passano attraverso gli appositi dispositivi elettronici (Pos) possono essere facilmente monitorate e rendicontate. Le società che emettono buoni pasto potranno fornire le informazioni alle imprese clienti e anche i controlli da parte dell'amministrazione finanziaria saranno più agevoli. Per chi utilizza i ticket al di sopra della quota giornaliera agevolata dal Tuir (5,29 per i buoni cartacei, 7 euro per quelli digitali) dovrebbe scattare la ripresa a tassazione dell'eccedenza. Ciò comporterebbe un maggiore reddito da lavoro imponibile ai fini Irpef per il lavoratore, ma anche l'obbligo per il sostituto d'imposta di operare le maggiori ritenute fiscali e previdenziali (nonché a versare la propria quota di contributi sulla parte non detassata).
Si ricorda che i buoni pasto vengono utilizzati da circa 2,3 milioni di lavoratori, per un totale di oltre 500 milioni di transazioni annue presso 150 mila esercenti convenzionati distribuiti in tutta Italia (articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAAia, l'applicazione è misurata. Esonerate le imprese a basso potenziale inquinante. Le indicazioni ministeriali sull'autorizzazione integrata a ridosso della scadenza del 7/7.
Obbligo di «Aia» per le sole installazioni industriali a effettivo elevato potenziale inquinante, più tempo per l'adeguamento di alcuni stabilimenti rientranti nella nuova disciplina, esonero dall'aggiuntiva «relazione di riferimento» per gli impianti che gestiscono esclusivamente rifiuti.

Arrivano alla vigilia del 07.07.2015, data entro la quale le installazioni esistenti incluse nella nuova autorizzazione integrata ambientale disegnata dal dlgs 46/2014 devono essere in possesso del relativo titolo abilitativo per poter continuare ad esercitare la propria attività, gli ulteriori chiarimenti del Minambiente sul campo di applicazione della disciplina in vigore dall'11.04.2014 in attuazione della direttiva 2010/75/Ue sull'«Integrated Pollution Prevention and Control» («Ippc»).
Adeguamento impianti. Con la nuova nota del 17.06.2015, che segue la circolare 22295/2014, il Minambiente chiarisce come tra gli impianti esistenti obbligati all'Aia dalla nuova normativa quelli funzionalmente collegati ad altre installazioni già soggette ad autorizzazione integrata non subiscono la deadline del 07.07.2015, data entro la quale (ex articolo 29, dlgs 46/2014) la prosecuzione delle attività è subordinata alla effettiva detenzione del titolo ambientale rilasciato dalle competenti Autorità (a seguito della domanda che andava presentata entro il 07.09.2014).
Per tali installazioni «collegate» sarà infatti sufficiente essere ricomprese nell'Aia in occasione del primo riesame o aggiornamento dell'autorizzazione principale. La precisazione del Minambiente appare però risolve solo in parte la possibile «impasse» di inizio mese (già segnalata dalle associazioni di categoria Fise Assoambiente e Fise Unire con un comunicato diramato lo scorso 30 giugno) che potrà comunque interessare gli stabilimenti non collegati ad insediamenti già autorizzati.
Acque reflue e depuratori. La nuova Nota chiarisce come le migliori tecniche disponibili che i depuratori devono osservare nell'esercizio del trattamento a gestione indipendente delle acque reflue (punto 6.11 dell'allegato VIII, parte seconda, dlgs 152/2006, come riformulato dal dlgs 46/2014) sono quelle della categoria di attività Ippc cui è riconducibile il principale contributo inquinante.
Il dicastero appare inoltre illustrare nei seguenti termini il regime dei depuratori che trattano acque recapitate da fognature di reflui urbani: essi sono completamente esclusi dall'Aia se trattano tali acque da sole o congiunte ad acque reflue industriali provenienti da impianti Ippc che non superano però a monte i limiti di immissione in pubbliche fognature; sono invece solo parzialmente esclusi dall'Aia se applicano alla parte dei reflui industriali un pretrattamento per il rispetto dei suddetti limiti; sono sempre e solo parzialmente esclusi dall'Aia se processano con il pretrattamento di abbattimento anche rifiuti liquidi diversi da quelli previsti dall'articolo 110, comma 3, del dlgs 152/2006.
Autodemolizione. Confermando quanto chiarito dalla regione Lombardia con circolare 11/2014, il Minambiente sottolinea che tali attività sono normalmente assoggettate ad Aia solo se effettuano frantumazione dei rifiuti oltre le soglie quantitative previste dal punto 5 del citato Allegato VIII, rilevando però ai fini dell'autorizzazione integrata l'eventuale gestione di depositi preliminari di rifiuti industriali tecnicamente connessi e la conduzione di altre operazioni, come la rigenerazione di oli.
Industria chimica. Sempre sulla scia della circolare lombarda, il ministero dell'ambiente conferma che la categoria Ippc «industria chimica» (la 4 del citato Allegato VIII) interessa le sole installazioni che fabbricano su scala industriale detti prodotti (anche intermedi di processo) potenzialmente commerciabili tal quali (e non quelle che generano invece oggetti la cui composizione chimica non è sufficiente a connotarne le qualità merceologiche, come le industrie manifatturiere).
Tale stretta lettura è necessaria per non subordinare all'Aia attività che pur utilizzando tali sostanze sono soggette alla greve autorizzazione solo ove superino determinate soglie produttive.
Trattamento di scorie e ceneri. Interpretazione stretta anche per le attività di trattamento (nell'ambito dei rifiuti) di scorie e ceneri (categoria 5.3, Allegato VIII), laddove per attività di trattamento devono intendersi quelle di recupero aventi ad oggetto scorie derivanti dai processi metallurgici e da processi di combustione.
Attività ad inquinamento scarsamente rilevante. Non sono invece automaticamente escluse dall'obbligo di Aia le installazioni che producono emissioni considerate non rilevanti ai sensi del dm 15.01.2014 (come alcune linee di trattamento di acque e fanghi). In relazione a tali categorie (per le quali il dlgs 152/2006 non impone dunque più la greve autorizzazione alle emissioni in atmosfera e conseguentemente l'Aia) le autorizzazioni integrate esistenti restano pienamente operative con le relative prescrizioni da ossequiare) ma i rispettivi titolari ne potranno riaprire presso le autorità competenti un procedimento di riesame.
Cementifici e coincenerimento. Entro il 10.01.2016 dovranno allinearsi alle nuove regole su tale attività previste dal Titolo III-bis del dlgs 152/2006 ed entro il successivo 08.04.2017 dovranno subire il riesame della propria Aia alla luce delle migliori tecniche disponibili Ue pubblicate sulla Guue del 09.04.2013.
Trattamento fisico-chimico dei rifiuti. Le installazioni che effettuano smaltimento o recupero di rifiuti sopra le soglie ex punto 5 dell'Allegato VIII mediante trattamento fisico-chimico sono sottoposte ad Aia anche se ricorrono ad uno solo di detti trattamenti (come ad esempio la decantazione), poiché tale locuzione deve essere interpretata come una alternativa di possibilità.
Relazione di riferimento. Non sono obbligati alla c.d. «relazione di riferimento», che deve ai sensi del rinnovato dlgs 152/2006 accompagnare l'Aia in caso di presenza di sostanze pericolose sul sito, gli impianti di gestione rifiuti che trattano esclusivamente tali residui.
Il dicastero precisa infatti che la nozione di «sostanze pericolose» che fa scattare l'onere è quella prevista dall'articolo 5, comma 1, lettera v-octies del dlgs 152/2006, coincidente con i preparati chimici contemplati dal regolamento (Ce) n. 1272/2008, che non si applica ai rifiuti.
Gli insediamenti di gestione dei rifiuti, anche pericolosi, sono però obbligati a tale relazione se, oltre a tali residui, detengono anche le citate sostanze chimiche, come può accadere in caso di presenza di serbatoi per oli lubrificanti, combustibili, prodotti necessari al processo, stoccaggi di materiali che hanno cessato di essere rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOPer i dirigenti demansionamenti anti-decadenza. Delega Pa. Nuovo correttivo.
Meglio funzionario che decaduto.
A offrire la nuova “opportunità” ai dirigenti che rimarranno per troppo tempo senza incarico anche a causa di una valutazione negativa è un emendamento approvato ieri alla legge delega sulla riforma della Pa (ddl Atto Camera n. 3098), in cui si prevede appunto che per evitare la decadenza dal «ruolo unico» il dirigente possa chiedere di subire una sorta di demansionamento volontario.
Intanto altri correttivi provano a introdurre incentivi “meritocratici” e pro-giovani nella gestione dell’Avvocatura dello Stato, e sale la tensione sull’ipotesi di applicare nei concorsi pubblici anche criteri di valutazione legati all’ateneo di provenienza, oltre che al possesso del titolo, nel tentativo di cominciare a superare il «valore legale» del titolo di studio (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Che l’articolo 9, quello dedicato ai dirigenti, fosse uno dei più spinosi della riforma Madia è un fatto noto, e il passaggio in commissione Affari costituzionali a Montecitorio lo conferma. Tutto nasce dal meccanismo dei «ruoli unici» per Stato, Regioni ed enti locali da cui le amministrazioni dovrebbero scegliere i dirigenti per incarichi di quattro anni, rinnovabili senza concorso per un solo biennio.
Per i dirigenti che in virtù di questo meccanismo sarebbero rimasti per un «determinato periodo» (da decidere con i decreti attuativi) senza incarico il testo scritto dal Governo e approvato in prima lettura al Senato prevedeva la decadenza: uno scenario, questo, che ha scatenato le proteste dei dirigenti e le critiche della Corte dei conti, per il timore di un eccessivo legame fra gli incarichi, e quindi la fortuna professionale dei dirigenti, e la fedeltà alla politica.
Sul punto è intervenuto un primo correttivo, approvato giovedì a Montecitorio (e raccontato sul Sole 24 Ore di ieri) in base al quale la decadenza potrà intervenire solo quando il dirigente è stato messo in disponibilità a seguito di una «valutazione negativa». Un altro emendamento (targato Movimento 5 Stelle e riformulato dal relatore, Ernesto Carbone del Pd) interviene anche sulla possibilità di proroga, che sarà concedibile solo in seguito a una valutazione positiva sull’operato del dirigente nel corso dei quattro anni dell’incarico “ordinario”.
Sbrogliare la matassa toccherà ai decreti attuativi, anche perché questo sistema di giudizi ha qualche chance di incidere davvero, e di resistere ai probabili ricorsi, se si riuscirà a mettere in campo un meccanismo di valutazione puntuale e oggettivo.
Per l’Avvocatura dello Stato, un emendamento approvato struttura un meccanismo quadriennale analogo a quello dei dirigenti, con lo stop agli incarichi per chi è destinato ad andare in pensione entro quattro anni. Gli incarichi in corso da oltre quattro anni, con una formulazione inconsueta per una delega, dovranno cessare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge.
Intanto la sezione Autonomie della Corte dei conti (deliberazione 24.06.2015 n. 21 depositata ieri) ha chiuso la querelle sui diritti di rogito dei segretari, che alla luce della riforma spettano solo a chi è inquadrato in fascia C, entro il tetto del 20% della retribuzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAPer il Durc online l’Inps promette archivi ripuliti entro il 20 luglio. Ammessi possibili errori nel 30% dei dinieghi. Versamenti. L’istituto al lavoro contro le false irregolarità.
Quattromila interrogazioni in poche ore, 50mila fino alla mattinata di ieri. È stata una partenza lanciata quella del nuovo Durc online, inaugurato mercoledì scorso, mettendo in linea Inps, Inail e Casse edili. Per fare il punto in questa fase di collaudo e rispondere ai quesiti dei professionisti il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (Cndcec) ha organizzato una videoconferenza, coinvolgendo la sede centrale Inps.
«Tenendo conto che si tratta di una costruzione informatica che solo per Inps impatta su 15 archivi -ha sottolineato il direttore centrale Entrate contributive dell’Istituto, Gabriella Di Michele- credo che il debutto della nuova procedura sia stato brillante. C’era qualche preoccupazione, perché si tratta di un sistema raffinato e senza equivalenti in Europa, ma possiamo ritenerci soddisfatti».
 La velocità di risposta sarà il cardine del nuovo sistema: «Il Durc online dovrebbe essere disponibile in 45 secondi -ha evidenziato Di Michele- ma siccome gli archivi possono essere disallineati nel caso in cui passino inutilmente questi secondi ci siamo presi un tempo tecnico di 6 ore per l’invio. Se ci sono invece problemi d’irregolarità, se di scarsa valenza ci siamo impegnati a risolverli entro le 72 ore, Al cui termine parte l’avviso d’irregolarità».
«Anche noi siamo contenti della nuova procedura -ha detto Vito Jacono, componente della commissione Commercialista del lavoro- perché il Durc online permette alle aziende di risparmiare denaro e a noi professionisti di guadagnare tempo e tornare a fare consulenza vera. Capiamo anche che ci possano essere alcuni problemi, per cui chiediamo solo che ci sia dato un po’ più tempo per rispondere agli avvisi di irregolarità».
Durante l’incontro sono stati forniti alcuni chiarimenti. L’Inps ha annunciato, ad esempio, l’intenzione di effettuare un controllo sulla regolarità contributiva delle aziende ogni quattro mesi e di creare una white-list delle aziende virtuose. Quanto ai Durc erroneamente negativi per anomalie nella lettura degli archivi gestiti dalle sedi periferiche, per esempio perché il contribuente ha concordato la dilazione del pagamento dei contributi l’Istituto ha annunciato che entro il 20 luglio questi ultimi verranno riletti e le anomalie potranno essere risolte. «Secondo le nostre verifiche -ha detto il direttore vicario Ferdinando Montaldi- sappiamo che in un caso su tre potrebbero verificarsi queste irregolarità apparenti».
A livello di tempistica, considerando che il Durc positivo ha efficacia per 120 giorni, se una richiesta verrà rifatta entro questo lasso di tempo, è stato precisato che il sistema non predisporrà un altro documento, in quanto varrà quello già emesso. Il Durc negativo, invece, vale solo per il giorno in cui è stato emesso, ragion per cui il datore di lavoro potrà regolarizzarsi e ottenere il Durc positivo non appena gli archivi saranno aggiornati.
Per quanto concerne le società, la regolarità certificata dal Durc vale solo per gli obblighi contributivi dell’azienda stessa, individuata con il suo codice fiscale (non con la matricola Inps) e non per la posizione dei soci, iscritti ad esempio alla gestione commerciati, artigiani o separata. Se una stazione appaltante desidera verificare anche queste regolarità, dovrà essergli fornito lo specifico Durc del socio, attraverso l’inserimento del suo codice fiscale. In questo caso, il consulente del lavoro o il commercialista delegato potranno accedere al Durc del socio solo come “altro delegato” sul portale dell’Inps, in quanto non sono valide le credenziali di accesso nel cassetto previdenziale dell'azienda.
È emerso anche un problema per le società artigiane o commerciali senza dipendenti, per cui il Durc dell’azienda, richiedibile solo dal sito Inail, viene rilasciato con la regolarità Inail, mentre per l'Inps viene indicato che il «soggetto non è iscritto». In questi casi le stazioni appaltanti spesso interpretano questa scritta come una irregolarità contributiva, quindi, è stato chiesto all’Istituto di specificare che la mancata iscrizione dell’azienda dipende dall’assenza dell’obbligo di iscrizione all’Inps
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATARegolarità attestabile anche per le imprese in concordato. I chiarimenti. Le procedure concorsuali.
Anche le aziende in procedure concorsuali possono ottenere, in presenza di determinati presupposti, la regolarità contributiva (Dol). Le regole sono contenute nell'articolo 5 del decreto 30.01.2015; la circolare Inps 126/2015 ha illustrato le varie situazioni.
Le imprese in concordato preventivo con continuità aziendale si considerano regolari nel periodo tra la pubblicazione del ricorso nel Registro delle imprese e il decreto di omologazione, a condizione che nel piano concordatario sia prevista l'integrale soddisfazione dei crediti contributivi scadenti prima della data di pubblicazione nel Registro delle imprese del ricorso per l'ammissione alla procedura. L’impresa è tenuta, inoltre, al regolare versamento dei contribuiti con scadenza legale successiva alla data di pubblicazione del ricorso.
Dopo l'omologa del concordato, il mancato rispetto dei termini previsti dal piano per la soddisfazione dei crediti previdenziali comporta la dichiarazione di irregolarità dell'impresa. Ad analoga conclusione si perviene nelle ipotesi in cui il piano preveda la parziale soddisfazione dei crediti previdenziali e dei relativi accessori di legge muniti di privilegio di Inps, Inail e delle Casse edili ovvero la loro retrocessione a crediti chirografari.
Riguardo alle aziende che, nell'ambito di procedure concorsuali, versino in situazione di fallimento con continuazione temporanea dell'impresa è possibile ottenere l'attestazione di regolarità laddove gli obblighi contributivi scaduti prima dell’autorizzazione all'esercizio provvisorio siano stati insinuati nel passivo. Quelli con scadenza legale successiva devono essere assolti secondo i principi generali che governano le attività di verifica.
L'attestazione della regolarità contributiva è possibile anche in presenza di una sentenza dichiarativa di fallimento, a condizione che i crediti contributivi scaduti prima della data di iscrizione della sentenza nel Registro delle imprese siano stati insinuati alla data della richiesta di Durc.
Nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria la regolarità può essere attestata a condizione che i crediti contributivi scaduti prima della dichiarazione di apertura della procedura stessa siano stati insinuati e che la contribuzione per i periodi successivi alla data di ammissione all'amministrazione straordinaria risulti regolarmente versata.
Infine, possono essere considerate regolari anche le imprese che presentano una proposta di accordo sui debiti contributivi nell'ambito del concordato preventivo ovvero con accordo di ristrutturazione dei debiti con riferimento al periodo tra la data di pubblicazione dell'accordo nel Registro delle imprese e il decreto di omologazione. Saranno considerate regolari le situazioni in cui il piano di ristrutturazione preveda il pagamento parziale o anche dilazionato dei debiti contributivi nel rispetto del Dm 04.08.2009 in materia di applicazione e limiti di falcidia dei crediti oggetto dell'accordo.
Confermato, anche per questa ipotesi, l'obbligo del regolare pagamento della contribuzione dovuta per i periodi successivi alla presentazione della proposta di accordo sui crediti contributivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2015).

ENTI LOCALI: Ancora un rinvio per i bilanci. Le città metropolitane non riescono a chiudere i conti. I preventivi potrebbero slittare al 30 settembre per aiutare i grandi sindaci e le province.
Si profila un nuovo rinvio, probabilmente al 30 settembre, del termine per l'approvazione del bilancio di previsione 2015 degli enti locali. La notizia è filtrata nelle scorse ore, anche se al momento non vi è ancora nulla di ufficiale.

A motivare l'ennesima proroga (che sarebbe la quarta di quest'anno, visto che la deadline del 31.12.2014 è stata in precedenza spostata prima al 31 marzo, poi al 30 maggio e infine al 31 luglio) vi sarebbero le difficoltà di molti enti a quadrare i conti.
Nei guai ci sono soprattutto le province, che da mesi lamentano l'insostenibilità dei tagli imposti dall'ultima legge di stabilità, ma che finora hanno ottenuto ben poco. Ma anche per molti comuni la strada è tutta in salita. Gli amministratori attendevano risposte dal decreto «enti locali», ma tale provvedimento, dopo mesi di attesa, ha fortemente deluso le aspettative.
Sulle barricate, ci sono soprattutto i sindaci che aspettano i soldi del c.d. fondo Tasi, i quali, oltre a dover rinunciare a circa un terzo delle somme ricevute nel 2014, non potranno neppure conteggiare il trasferimento residuo ai fini del Patto, trovandosi così in grossa difficoltà a centrare l'obiettivo. Non a caso il comune di Milano, che è il principale beneficiario del fondo (lo scorso anno ha incassato quasi 90 milioni), è stato costretto ad aderire al Patto orizzontale nazionale, ipotecando le proprie gestioni future pur di riuscire a restare a galla (si veda ItaliaOggi di ieri).
Ma le criticità riguardano anche altri grandi comuni, che stanno facendo pressing per ottenere una norma che li autorizzi ad utilizzare una quota dei proventi da alienazione per finanziare spesa corrente una tantum.
Al momento, il governo sembra intenzionato a prendere tempo: da qui, il rinvio del bilancio, che dovrebbe seguire il consueto iter del parere preventivo in Conferenza stato-città e autonomie locali e successivo decreto del ministro dell'interno Angelino Alfano, a meno che non venga previsto un emendamento ad hoc nella legge di conversione del dl 78/2015.
Nei prossimi giorni, intanto, come anticipato da ItaliaOggi del 9 giugno, il ministero dell'interno dovrebbe diffondere una circolare per chiarire che chi ha approvato il bilancio dopo il 1° luglio non è obbligato ad effettuare entro la fine dello stesso mese la verifica sulla salvaguardia degli equilibri contabili. Tale adempimento, invece, rimane obbligatorio per chi ha licenziato il preventivo in data anteriore (articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Per far volare droni serve l'ok Enac.
Per sorvolare i centri abitati e le infrastrutture critiche con i dispositivi volanti a pilotaggio remoto meglio conosciuti come droni occorre una preventiva autorizzazione dell'Ente nazionale per l'aviazione civile. Ma al momento non è ancora richiesto alcun parere all'autorità di pubblica sicurezza e questa criticità dovrà essere prontamente risolta con l'adozione del nuovo regolamento Enac.

Lo ha chiarito il Viminale con la nota 30.04.2015 n. 555/OP/0001369/2015/2 di prot. avente ad oggetto gli aeromobili a pilotaggio remoto, vademecum e prontuario per le violazioni.
L'uso dei droni è ormai una pratica comune e condivisa in ogni ambito operativo. Questi strumenti di volo però sono considerati dalle normative internazionali come aeromobili soggetti quindi alla regolamentazione aeronautica.
L'impiego dei sistemi aeromobili a pilotaggio remoto (sapr o apr) è stato quindi disciplinato dai singoli stati membri ed in Italia è stato adottato il regolamento del 16.12.2013. Nel rispetto di questa disposizione, ha specificato l'Enac con una nota del 14 aprile scorso, risultano particolarmente critiche tutte quelle operazioni che prevedono il sorvolo delle città e delle zone densamente frequentate dalle persone.
Conseguentemente, specifica il regolamento, per questo tipo di operazioni «è richiesto che l'operatore di tali sistemi a pilotaggio remoto sia autorizzato dall'Enac e l'apr, ovvero il drone, abbia un adeguato livello di sicurezza». In buona sostanza per assicurare la sicurezza pubblica occorrono innanzitutto organizzazioni riconosciute dall'Ente nazionale, disponibili sul sito dell'Enac. Ma non basta.
A parere del ministero dell'interno occorre interpellare anche l'autorità di pubblica sicurezza che potrà valutare, caso per caso, l'opportunità del volo, specialmente in prossimità di strutture critiche, nonché sui luoghi molto frequentati.
Per questo motivo il Viminale ha istituito un tavolo tecnico interforze che dovrà collaborare con l'Enac nella stesura del nuovo regolamento. Ed individuare le condotte di volo più consone in prossimità delle zone ritenute critiche e potenzialmente di interesse per l'ordine e la sicurezza pubblica (articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione ambientale, operazione semplificazione.
Semplificare, armonizzare e razionalizzare le procedure di valutazione di impatto ambientale, anche in relazione al coordinamento e all'integrazione con altre procedure volte al rilascio di pareri e autorizzazioni a carattere ambientale. L'obiettivo di un sistema autorizzatorio integrato consiste nell'introduzione di un sistema di autorizzazioni ambientali che consenta di evitare, per una stessa attività o progetto o impianto sottoposto a Via, l'instaurazione di diversi procedimenti da parte del soggetto richiedente.
Le sanzioni dovranno essere più efficaci, proporzionate e dissuasive e dovranno consentire una maggiore efficacia nella prevenzione delle violazioni in materia ambientale. I proventi delle sanzioni andranno usati per finalità connesse al potenziamento delle attività di monitoraggio ambientale e di verifica del rispetto delle condizioni previste nei provvedimenti di valutazione ambientale.

Queste le finalità contenute dell'articolo 14 della legge di delegazione europea 2014 (Atto Camera n. 3123) approvata il 2 luglio definitivamente dalla camera in materia di valutazione di impatti ambientale.
Ricordiamo che la direttiva 2014/52/Ue reca modifiche alla direttiva 2011/92/Ue in materia di valutazione di impatto ambientale (Via). Tra gli obiettivi della direttiva si annoverano la semplificazione e l'armonizzazione delle procedure, nonché la modifica dei fattori sulla base dei quali devono essere valutati gli impatti al fine di maggiormente tenere conto delle tematiche legate alla biodiversità e al territorio. Il recepimento da parte degli Stati membri dovrà avvenire entro il 16.05.2017.
L'articolo 2 della legge di delegazione europea 2014, prevede specifici principi e criteri direttivi per il recepimento della direttiva 2014/104/Ce, che introduce una disciplina per il risarcimento del danno derivante da violazione delle norme europee sulla concorrenza. In particolare, la direttiva prevede l'applicazione, in relazione a uno stesso caso, degli articoli 101 e 102 del trattato sul funzionamento della Ue, nonché delle disposizioni della «legge antitrust» (n. 287/1990), in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante.
Estende l'applicazione delle disposizioni adottate in attuazione della direttiva alle azioni di risarcimento dei danni derivanti da intese restrittive della libertà di concorrenza e abuso di posizione dominante. Prevede che le disposizioni di attuazione della direttiva siano applicate anche alle azioni collettive dei consumatori e disciplina anche la revisione della competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa (i c.d. tribunali delle imprese).
Il termine previsto per il recepimento è il 27.12.2016. L'art. 8 della legge in commento prevede il recepimento nell'ordinamento interno, della direttiva 2014/59/Ue che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione del settore creditizio e degli intermediari finanza. Il termine per il recepimento è scaduto il 31.12.2014 e la commissione Ue ha messo in mora l'Italia per il mancato recepimento della direttiva 2014/59/Ue (articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).

ENTI LOCALI: Autovelox ok anche se portatile.
Valgono le multe per eccesso di velocità rilevate con gli strumenti elettronici deputati al controllo dinamico montati a bordo dei veicoli di polizia stradale. L'importante è che l'impianto sia specificamente omologato per questo tipo di controlli e che venga rispettata anche la privacy degli interessati in caso di accesso agli atti.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con l'inedito parere 06.05.2015 n. 2017 di prot..
Tra le modalità di controllo della velocità dei veicoli è prevista anche quella dinamica, a bordo dei veicoli di servizio. In pratica il sistema autovelox viene posizionato sul cruscotto del mezzo della polizia per riprendere i comportamenti di guida degli altri autisti. Non solo di quelli che precedono la pattuglia ma anche dei veicoli che provengono in senso contrario di marcia.
Specifica infatti il parere ministeriale che il dm 15.08.2007 che tratta delle modalità di segnalamento delle postazioni di controllo della velocità evidenzia che i misuratori autovelox possono essere utilizzati in modalità dinamica ovvero a inseguimento. In questo caso non servono segnalazioni particolari per la pattuglia. Solo il rispetto della privacy nel caso in cui il sistema riprenda persone all'interno degli abitacoli.
I dispositivi omologati per effettuare questo tipo di riprese, prosegue la nota centrale, sono peraltro già dotati di filtri ad hoc che dovrebbero trascurare i volti delle persone. Ma se incidentalmente questa limitazione non fosse stata rispettata spetterà al comando di polizia oscurare i volti prima di consentire l'accesso agli atti da parte degli interessati (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

PATRIMONIO - URBANISTICA: Immobili p.a., esenzioni ampie. Il notariato sui trasferimenti per uso non abitativo.
Per i trasferimenti di immobili pubblici, a uso non prevalentemente abitativo, ripristinata l'esenzione da imposte indirette (registro, ipotecaria e catastale) e da altri tributi e/o diritti.

Così il Consiglio nazionale del notariato che, con lo studio 06-08.05.2015 n. 46-2015/T dell'area scientifica, approvato in una seduta dello scorso maggio, è intervenuto sui profili di natura fiscale, relativi ai trasferimenti di immobili pubblici e di edilizia popolare, compresi quelli eseguiti da fondi immobiliari.
Per il corretto inquadramento della disciplina, lo studio evidenzia la soppressione delle esenzioni e delle agevolazioni fiscali, a cura dell'art. 10, dlgs 23/2011 e, successivamente, il ripristino di specifiche agevolazioni, con il comma 4-ter, dell'art. 20, dl 133/2014 («Decreto sblocca Italia») e i commi 270 e 377, dell'art. 1, legge 190/2014 (Stabilità 2015).
Il legislatore ha individuato, innanzitutto, determinate ipotesi relative ai trasferimenti, individuando tra questi le permute, le operazioni di cartolarizzazione degli immobili pubblici, le dismissioni, la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e alcuni atti, di cui all'art. 32, dpr 601/1973 (trasformazione del diritto di superficie in proprietà e ridistribuzione fondiaria tra co-lottizzanti).
Inoltre, lo studio ritiene che per «immobili pubblici» debbano intendersi, non solo quelli posseduti da soggetti pubblici (Stato o altri enti territoriali), ma anche quelli «in grado di realizzare interessi della collettività o di parte di essa e di attuare finalità meta-individuali», quando siano legati da forme o modalità di «monetizzazione» del patrimonio pubblico.
Come detto, le dette operazioni godono della più completa esenzione da imposte e tributi dovute in caso di trasferimento, restando esclusa l'applicazione dell'imposta di registro, bollo, ipotecaria, catastale e di ogni tributo o diritto previsto dalla legislazione vigente; restano esclusi, dal detto regime agevolato, taluni atti relativi a conferimenti e/o trasferimenti di immobili di proprietà dei comuni che, però, possono beneficiare di altre agevolazioni.
Inoltre, la norma di ripristino delle agevolazioni sopra indicata (4-ter, art. 20, dl 133/2014) impatta su talune fattispecie traslative, cui si rende applicabile il comma 2, dell'art. 32, dpr 601/1973 che prevede l'applicazione dell'imposta di registro in misura fissa e l'esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale (Agenzia delle entrate, ris. 17/E/2015).
Le operazioni che beneficiano di tali agevolazioni sono quelle relative al trasferimento di aree produttive (Pip) o di aree concesse in diritto di superficie o cedute in proprietà per la costruzione di unità abitative (Peep), la trasformazione del diritto di superficie in proprietà, di cui ai commi 45 e seguenti, legge 448/1998, e gli atti di ridistribuzione fondiaria tra co-lottizzanti.
In particolare, è stato previsto (nuovo comma 140-ter, art. 1, legge 296/2006) che ai conferimenti eseguiti dai fondi immobiliari, di cui al dlgs 58/1998, si rendano applicabili le imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa e che, in caso di alienazione, nell'ambito di una procedura di cartolarizzazione, valorizzazione o dismissione, da parte di fondi immobiliari si renda applicabile la esclusione dall'applicazione dell'Iva, per assimilazione alle operazioni di conferimento di aziende o di rami di azienda, con applicazione in misura fissa (euro 200) delle imposte di registro, ipotecaria e catastale (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici storici, scheda riscritta. Autorizzazioni new style da settembre.
Per gli interventi sugli edifici storici dal 1° settembre andrà allegata una nuova scheda tecnica per la richiesta di autorizzazione. In casi di interventi di miglioramento sismico oppure per interventi straordinari sugli edifici storici la documentazione allegata alla richiesta di autorizzazione o di pareri dovrà prevedere la nuova scheda.
La suddetta scheda non costituirà documentazione tecnica aggiuntiva rispetto a quella obbligatoria prevista per legge ma rappresenterà una sintesi finalizzata a evidenziare l'approccio progettuale.

Tutto questo lo prevede la circolare 30.04.2015 n. 15 del ministero dei beni e della attività culturali e del turismo (Mibact) per la tutela del patrimonio architettonico e la mitigazione del rischio sismico.
Visti i ripetuti danni subiti dagli edifici culturali per gli eventi sismici, il Mibact ha predisposto un'azione per la sensibilizzazione degli enti coinvolti nel rilascio dei permessi, ma soprattutto per la conoscenza più approfondita della vulnerabilità del patrimonio architettonico.
Secondo il Mibact, una volta individuato il problema, la riduzione del rischio sismico sarà possibile attraverso buone pratiche da adottare in occasione degli interventi che influiscono sul comportamento strutturale. Nelle manutenzioni straordinarie il Mibact prescrive inoltre particolare attenzione alle lavorazioni edili anche non riguardanti gli elementi portanti, come la realizzazione o la modifica di porte e finestre, l'introduzione di pavimenti più pesanti, la modifica del manto di copertura, la modifica della distribuzione dei tramezzi, le tracce e i fori che riducono le sezioni resistenti.
L'applicazione di queste buone pratiche consentirà, assicura il Mibact, la rilevazione di altre carenze eventualmente già esistenti e non connesse con i progetti da realizzare, ma anche la previsione di ulteriori interventi senza sensibili costi aggiuntivi (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a., fuori i dirigenti bocciati. Licenziabili solo i manager valutati negativamente. Raffica di emendamenti al ddl Madia. Nelle partecipate premi in base ai risultati.
Mannaia sui dirigenti pubblici: saranno licenziabili, se rimasti senza incarico per un periodo prolungato di tempo, tuttavia per decadere dal ruolo il loro operato dovrà essere stato valutato «negativamente» dall'organismo di appartenenza. Tutt'altra sorte, invece, per gli amministratori delle società partecipate, legati al risultato (positivo, o negativo) dell'azienda, e quindi remunerati con un «compenso economico variabile».

Raffica di modifiche, nella giornata di ieri, al disegno di legge del ministro Marianna Madia in materia di riorganizzazione della p.a. (ddl Atto Camera n. 3098), in commissione affari costituzionali alla camera; numerosi gli emendamenti (soprattutto dei democratici) approvati, che hanno corretto gli articoli sulla dirigenza pubblica e sul pubblico impiego, mentre a partire da martedì 7 luglio saranno esaminati, hanno fatto sapere fonti parlamentari, i capitoli sui corpi di polizia e sulla conferenza dei servizi.
Ritocco rilevante, imposto dal Pd, pure quello sui requisiti per l'accesso ai concorsi pubblici, laddove non conterà più soltanto il voto di laurea conseguito, bensì anche l'università frequentata dal candidato, in modo che la votazione possa essere così rapportata al «peso» dell'ateneo che l'ha assegnata.
E, sempre in tema di selezioni, è passato un «giro di vite» sulla designazione dei direttori generali, amministrativi e sanitari delle strutture sanitarie, riducendo la discrezionalità nelle nomine: le regioni avranno a disposizione una rosa di persone, proposta da una commissione «ad hoc» che, e questa è la novità, non sarà formata semplicemente attingendo dall'elenco nazionale dei dirigenti, ma sarà composta anche da chi, iscritto all'elenco, si è fatto avanti, manifestando interesse per l'avviso pubblico.
Come già evidenziato, per i vertici della p.a. conterà molto la reputazione conquistata in servizio, visto che in caso restino privi di funzioni per un determinato lasso temporale, a dar loro la «spinta» verso l'uscita dall'ente sarà proprio una eventuale «bocciatura» per non aver svolto correttamente i propri compiti.
Al contrario, è saltato l'obbligo (previsto inizialmente dal ddl governativo) di un esame per i dirigenti che puntano all'assunzione a tempo indeterminato, poiché la I commissione ha acceso il semaforo verde sulla necessità che siano «valutati» dall'amministrazione presso la quale è stato loro attribuito l'incarico iniziale, senza perciò superare un apposito concorso; modificata, inoltre, la durata del periodo di prova, che scende da 4 a 3 anni (nei quali i dirigenti avranno obblighi formativi).
Quanto, poi, alla figura del segretario comunale, oggetto di un vero e proprio restyling, è stato approvato un testo che conferisce le loro attuali competenze di rogito «ai dirigenti apicali aventi i relativi requisiti»; ne consegue che i futuri dirigenti appartenenti al ruolo unico (che il ddl istituisce) saranno ufficiali roganti, e potranno così redigere documenti in forma pubblica amministrativa, aventi efficacia di atto pubblico, proprio come quelli stipulati da un notaio.
Il M5s ha impresso una «virata», ottenendo il via libera ai «premi» agli amministratori delle società partecipate: la remunerazione sarà vincolata alla performance (virtuosa, o meno) delle aziende guidate. E, fra le modifiche varate, quella di Claudio Borghi (Pd), secondo cui per dirigenti e dipendenti dei Comuni con meno di 5.000 abitati potranno essere avviati corsi di formazione sulla «spending review» (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Vigili stagionali senza speranze. Priorità alla polizia provinciale. Contratti flessibili ko. Il dl 78/2015 per smaltire i 20 mila esuberi degli enti di area vasta ingessa i comuni.
Vigili stagionali, pochi gli spazi interpretativi lasciati dall'articolo 3, comma 5, del dl 78/2015 per considerare ancora possibile la loro assunzione.

Il decreto enti locali, pensato per risolvere, tra gli altri, posti ai comuni dalla riforma delle province e in particolare dal congelamento delle assunzioni imposto dall'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, nel caso della polizia municipale invece di essere un giovamento si sta rivelando un serio problema, se non un danno.
Come è noto, la norma cerca finalmente di incidere sullo stallo delle procedure di mobilità dei circa 20 mila dipendenti provinciali coinvolti dalla riforma, imponendo d'imperio il passaggio dei componenti dei corpi di polizia provinciale verso la polizia comunale.
Una scelta forse giustificabile nel tentativo di fornire una prospettiva certa e il più possibile rapida ai dipendenti provinciali, ma assai poco attenta alla loro professionalità ed alle esigenze dei comuni.
In ogni caso, la norma è scritta in modo da poter essere interpretata come divieto assoluto di assumere, con qualsiasi tipologia contrattuale e, dunque, comprendendo anche qualsiasi contratto flessibile, non escluso il tempo determinato per esigenze stagionali.
Il comma 3 dell'articolo 5 del dl 78/2015 usa, infatti, il verbo «reclutare», a conferma che ai comuni è permesso solo di assumere a tempo indeterminato per mobilità il personale provinciale dei corpi di polizia, senza nessun'altra ulteriore e diversa alternativa.
Potrebbe in astratto considerarsi corretto colmare i vuoti d'organico dei comuni, utilizzando i circa 2 mila dipendenti dei corpi di polizia provinciale. Ma i limiti di questa prospettiva sono molti ed evidenti.
In primo luogo, l'articolo 5 del dl 78/2015, subordina il transito dei poliziotti provinciali all'adozione delle leggi regionali di riordino delle funzioni provinciali; ma la gran parte delle regioni non vuole saperne di riordinarle. Subordinare, dunque, i trasferimenti dei vigili provinciali alle leggi regionali di riordino significa rinviare a lungo queste mobilità e lasciare ancora una volta i comuni privi di strumenti o a rischio di effettuare assunzioni a rischio di nullità.
Al di là dei problemi di coerenza con il processo di riordino, nulla assicura che il flusso della mobilità dei vigili provinciali copra esattamente tutti i fabbisogni di polizia locale di natura stagionale dei comuni turistici. È molto probabile che la gran parte dei vigili provinciali ambirà a trovare ricollocazione nei comuni capoluogo, per altro quelli con spazi finanziari ed organizzativi generalmente più ampi. Pochi si ricollocheranno nei comuni più piccoli nonostante siano proprio i comuni turistici di piccole dimensioni quelli che hanno maggiore necessità di vigili «stagionali».
Peraltro, necessità «stagionali» sono per loro natura incompatibili con assunzioni a tempo indeterminato e sono quasi le uniche a poter essere agevolmente motivate, in applicazione dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001.
Allo scopo di alleggerire la morsa ai comuni, si potrebbe provare ad interpretare l'articolo 5, comma 3, del dl 78/2015 in modo da coordinarlo con il comma 424 della legge 190/2014, ritenendo esclusa non ogni forma di reclutamento con qualsivoglia tipologia contrattuale, ma solo le ogni tipologia di assunzione a tempo indeterminato, ricordando che il comma 424 citato congela solo le assunzioni a tempo indeterminato, ma non quelle flessibili. Anche perché la mobilità di personale a tempo indeterminato non può che attivarsi per esigenze lavorative durature e non limitate ad un periodo stagionale.
Osta a tale interpretazione la circostanza che nel lavoro pubblico di lavoro a tempo indeterminato ne esiste una sola tipologia.
Simile lettura della norma, utile sul piano sostanziale, farebbe salve le assunzioni degli stagionali dalla declaratoria di nullità contenuta nell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, ma non copre del tutto dalle responsabilità anche erariali derivanti dall'illegittimità per violazione di legge eccepibile se dell'articolo 5, comma 3, si intendesse fornire esclusivamente l'interpretazione restrittiva suggerita dal testo (anche se contrastante con la logica e i fini complessivi della riforma delle province).
Per rilanciare le assunzioni stagionali dei vigili, meglio un pronunciamento chiaro del Parlamento, anche perché il rischio è che le sezioni regionali della Corte dei conti si pronuncino sul tema con ritardo e in modo contraddittorio (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

APPALTI: Concessionari aperti al mercato. Più poteri all'Autorità nazionale anti-corruzione. Si apre alla Camera la discussione sulla possibilità di affidare appalti di lavori e forniture.
Più mercato con gli appalti dei concessionari da affidare sempre in gara e non più riservati alle società in house; rafforzamento dei poteri dell'Autorità nazionale anticorruzione; limitazioni all'appalto integrato, revisione del sistema di qualificazione delle imprese basato su criteri reputazionali; riforma degli affidamenti a contraenti generali.

Sono questi alcuni dei temi più caldi sui quali alla Camera (
Atto Camera n. 3194) si tornerà a discutere a breve dopo che il 18 giugno il Senato ha approvato il disegno di legge delega per il recepimento delle tre direttive europee sugli appalti pubblici e sulle concessioni e per la riforma del codice dei contratti pubblici e del relativo regolamento di attuazione.
In questi giorni si sta infatti avviando l'esame in sede referente presso la Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici e i relatori designati sono Raffaella Mariani (Pd) e Angelo Cera (Ap-Ncd-Udc) e il lavoro della Commissione dovrebbe concludersi più rapidamente di quanto avvenuto in Senato, dove un lungo ciclo di audizioni ha consentito di sviscerare molti problemi e di arrivare al varo d un testo ben più ricco di quello presentato dal governo nell'agosto del 2014.
Forse anche troppo ricco, se si pensa che sono 56 i criteri di delega che il legislatore delegato dovrà rispettare, nonostante il cosiddetto «divieto di gold-plating» (cioè di introduzione di norme di maggiore livello di dettaglio di quelle europee) che, pur espressamente indicato nel disegno di legge, potrebbe essere violato proprio da una serie di indicazioni restrittive.
Vi sono poi alcuni temi molto delicati, come quello della disciplina degli appalti dei concessionari (autostradali in primis), sui quali alla Camera si riaprirà la discussione rispetto alla scelta di costringere tutti i concessionari (attuali o di «nuova aggiudicazione») ad affidare a terzi, con gara anche semplificata, lavori, forniture e servizi di importo superiori a 150 mila euro. In questo modo i concessionari non potrebbero più utilizzare società controllate e dovrebbero mettere in gara tutti gli interventi; sarebbero escluse dall'obbligo le concessioni in finanza di progetto e quelle affidate con gara europea.
L'impatto della norma e la sua applicabilità riguarda soprattutto, ma non solo, Autostrade per l'Italia, che gestisce interventi copiosi in base a programmi di investimento di rilievo che però finiscono in larga parte a proprie società. Il dubbio di alcuni è se la norma possa intervenire, con un periodo transitorio di dodici mesi, rivoluzionando modalità organizzative e programmi di investimento già avviati da tempo.
C'è poi il tema del rafforzamento dei poteri dell'Autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone che diventa il vero regolatore del mercato con poteri di indirizzo delle stazioni appaltanti tramite linee guida, bandi-tipo e contratti-tipo «anche dotati di efficacia vincolante, fatta salva l'impugnabilità degli atti». In sostanza l'Authority dovrebbe implementare notevolmente la già utile attività di regolazione, nel presupposto che codice e regolamento siano molto più snelli di quelli attuali. Non solo.
L'Anac dovrà gestire un albo dei commissari di gara e fornire alle stazioni appaltanti l'elenco da cui sorteggiare i commissari, compito non da poco dal punto di vista della moralizzazione del settore; a tale compito si affianca anche quello di gestione di un apposito sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti finalizzato a valutarne l'effettiva capacità tecnica e organizzativa. Una grande sfida per l'Autorità, chiamata anche a gestire l'introduzione di nuovi elementi di qualificazione degli operatori economici che faranno riferimento anche a criteri reputazionali e, conseguentemente, anche al rating di legalità delle imprese stesse.
Altro tema sul quale è probabile che si riaccenda la discussione alla Camera è quello della limitazione dell'appalto integrato (di progettazione costruzione) introdotta al Senato: da settori vicini al mondo delle imprese di costruzioni qualche malumore già serpeggia rispetto all'ipotesi di usare l'appalto integrato soltanto se la componente innovativa o tecnologica superi il 70% del valore dell'appalto e alla regola generale di appaltare i lavori sulla base del progetto esecutivo.
Maggiore chiarezza andrà poi fatta sul tema della legge obiettivo: acclarato che la direzione lavori non potrà più essere affidata al contraente generale, occorrerà stabilire se e in che misura l'affidamento a contraente generale, previsto a livello europeo, dovrà essere mantenuto nel nostro ordinamento (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente, al via il modello unico per l’autorizzazione. Imprese. «Aua» in vigore senza correttivi regionali.
Arriva, dopo oltre due anni di attesa, il modello semplificato e unificato per la richiesta di autorizzazione unica ambientale (Aua). Il modello di istanza costituisce oggetto dell’allegato al Dpcm 08.05.2015, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di martedì 30 giugno ed è in vigore dalla stessa data.
Fino a oggi la domanda di Aua è stata presentata dalle imprese usando moduli predisposti dalle Regioni e comunque, nell’attesa del nuovo modello, sempre nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, Dpr 59/2013, istitutivo dell’Aua; quindi, alla domanda occorreva allegare documenti, dichiarazioni e altre attestazioni previste dalle normative di settore relative agli atti di comunicazione, notifica e autorizzazione ricompresi dall’Aua.
Oggi, i documenti sono sostituiti dalle dichiarazioni che l’impresa deve rendere con il nuovo modello, dagli allegati che questo richiede e dalle relazioni tecniche redatte usando gli allegati, diversificati in ragione delle attività per le quali si chiede l’autorizzazione e in ragione delle informazioni richieste dalle discipline di settore.
L’articolo 1, comma 2, del Dpcm stabilisce che le Regioni adeguano i contenuti del nuovo modello, in relazione alle normative regionali di settore, «entro il 30.06.2015» cioè entro la data in cui il Dpcm 08.05.2015 è stato pubblicato in Gazzetta ed è entrato in vigore. Questa coincidenza appare bizzarra (la Conferenza unificata aveva raggiunto l’intesa fin dal 26 febbraio).
Inoltre, l’adeguamento regionale rischia di vanificare il valore aggiunto del provvedimento che, mediante la potente semplificazione dell’Aua, tende a porre tutte le imprese nazionali sullo stesso piano. Tuttavia, anche in materia ambientale, ogni Regione ama condursi secondo logiche piuttosto individuali.
All’articolo 10, comma 3, Dpr 59/2013 si legge che «con decreto… è adottato un modello semplificato e unificato per la richiesta di autorizzazione unica ambientale». Dunque, la norma considera il Dpcm come condizione di procedibilità delle domande di Aua; pertanto, si ritiene che ora queste domande, fino agli adeguamenti regionali, dovranno essere presentate al Suap (Sportello unico attività produttive), in base al nuovo modello anche se le singole Regioni hanno già adottato i propri.
Il Suap è il referente unico per l’impresa; riceve l’istanza e, previa verifica della sua correttezza formale, la trasmette all’autorità competente. Può indire la conferenza di servizi quando occorre «acquisire intese, nulla osta, concerti o assensi di altre Pa» (articolo 7, Dpr 160/2010). L’Aua ha una durata di 15 anni e il rinnovo va richiesto almeno 6 mesi prima della scadenza.
L’Aua sostituisce i seguenti sette titoli abilitativi: autorizzazione agli scarichi idrici; comunicazione preventiva (articolo 112 del Dlgs 152/2006) per l’uso agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione dei frantoi oleari e acque reflue provenienti dalle aziende; autorizzazione alle emissioni in atmosfera; autorizzazione generale in deroga per gli impianti a emissioni in atmosfera scarsamente rilevanti; comunicazione o nulla osta per le emissioni sonore delle attività produttive o edilizie; autorizzazione all’uso agricolo dei fanghi di depurazione; comunicazioni e autorizzazioni per autosmaltimento e recupero agevolato di rifiuti.
Sono esclusi dall’Aua gli impianti soggetti ad Aia. Il gestore può scegliere di non richiedere l’Aua se l’attività è soggetta solo a comunicazione o ad autorizzazione generale per le emissioni
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Da ieri nuove costruzioni solo con la fibra ottica.
Da ieri gli edifici di nuova costruzione e quelli sottoposti a ristrutturazione «importante» devono essere predisposti per l'utilizzo della fibra ottica per le comunicazioni ad alta velocità. Da tale data, tutti gli edifici di nuova costruzione e quelli interessati da opere di ristrutturazione profonda che richiedano il rilascio di un permesso di costruire, devono essere equipaggiati di un punto di accesso per l'infrastrutturazione digitale degli edifici.

Tutto questo lo ha previsto l'articolo 6-ter, comma 2, della legge 11.11.2014 n. 164 di conversione al decreto legge 12.09.2014 n. 133 (c.d. sblocca Italia).
Per infrastruttura fisica multiservizio interna all'edificio si intende il complesso delle installazioni presenti all'interno degli edifici contenenti reti di accesso cablate in fibra ottica con terminazione fissa o senza fili che permettono di fornire l'accesso ai servizi a banda ultralarga e di connettere il punto di accesso dell'edificio con il punto terminale di rete.
Tutti gli edifici di nuova costruzione per i quali le domande di autorizzazione edilizia sono presentate dopo il 01.07.2015 devono essere equipaggiati di un punto di accesso.
Per punto di accesso si intende il punto fisico, situato all'interno o all'esterno dell'edificio e accessibile alle imprese autorizzate a fornire reti pubbliche di comunicazione, che consente la connessione con l'infrastruttura interna all'edificio predisposta per i servizi di accesso in fibra ottica a banda ultralarga.
Gli edifici equipaggiati in conformità al presente articolo possono beneficiare, ai fini della cessione, dell'affitto o della vendita dell'immobile, dell'etichetta volontaria e non vincolante dell'edificio predisposto alla banda larga.
Gli edifici equipaggiati in conformità a tali prescrizioni di infrastrutturazione digitale possono beneficiare, ai fini della cessione, dell'affitto o della vendita dell'immobile, dell'etichetta volontaria e non vincolante di «edificio predisposto alla banda larga» (articolo ItaliaOggi del 02.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il governo vara tre decreti sull'efficienza degli edifici.
Il governo va avanti sulla strada dell'efficienza energetica degli edifici. Sono stati approvati tre provvedimenti che completano il quadro.

Il primo decreto definisce le nuove modalità di calcolo della prestazione energetica e i nuovi requisiti minimi di efficienza per i nuovi edifici e quelli sottoposti a ristrutturazione. Un secondo decreto adegua gli schemi di relazione tecnica di progetto alle nuove norme, per nuove costruzioni, ristrutturazioni e riqualificazioni energetiche. Il terzo decreto aggiorna le linee guida per la certificazione della prestazione energetica degli edifici (Ape).
Il nuovo Ape sarà valido su tutto il territorio nazionale. Dall'01/01/2021 i nuovi edifici e quelli sottoposti a ristrutturazioni dovranno essere realizzati in modo tale da ridurre al minimo i consumi coprendoli in buona parte con fonti rinnovabili.
Per gli edifici pubblici la scadenza è anticipata al 01/01/2019. I tre decreti, anticipati da ItaliaOggi l'8 e il 23.06.2013, saranno pubblicati a breve in Gazzetta ed entreranno in vigore l'01.10.2015 (articolo ItaliaOggi del 02.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONEAppalti, sei sfide per la riforma. Buoni progetti e meno varianti, poteri Anac e codice leggero, alt all’in house e rating.
Lavori pubblici. Dopo l’approvazione del Senato, il riassetto parte alla Camera: i pilastri fra conferma e ipotesi di integrazione.

Sono sei le sfide principali che la riforma degli appalti approvata dal Senato (e ora alla Camera - Atto Camera n. 3194) deve vincere per cambiare radicalmente il modello italiano delle opere pubbliche che finora si è distinto per lo spreco di miliardi di euro senza realizzare le opere, la forbice velenosa fra ribassi in gara e recupero dei margini attraverso le varianti, una progettazione assolutamente marginalizzata (anche con lo scopo di rendere più facili le varianti), un basso livello di concorrenza attraverso deroghe, trattative private, in house dei concessionari e delle ex municipalizzate, l’assenza di un’autorità nazionale capace di interpretare le norme legislative e farle rispettare.
Costi alle stelle e tempi mai certi, dunque. Si cambia? Molto dipende da queste sei sfide.
Gold plating. Il principio è sacrosanto ed è il “cuore” della delega: vietato imporre norme ridondanti rispetto alla Ue. Così si potrà varare un codice leggero, rompendo la tradizione italiana “pesante”. Si discute se 56 criteri di delega non creino le premesse per un codice pesante ma è condivisibile l’opinione del relatore al Senato, Stefano Esposito, quando dice che paletti chiari e robusti del Parlamento aiuteranno il governo a sfoltire, riconoscendo l’essenziale da ciò che non lo è.
Semmai, il rischio è che il gold plating diventi l’arma pronta per l’uso per chi vuole contestare punti fondamentali e qualificanti del nuovo modello (magari polemizzando con la legge Merloni): dai poteri di regolazione Anac alle limitazioni all’appalto integrato.
Poteri regolatori Anac. È una delle grandi novità della riforma, forse quella più rilevante: l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone diventa il perno del sistema. Da vigilante anticorruzione in momenti patologici, l’Anac diventa regolatore di mercato: poteri di soft law che consentiranno di interpretare le norme di legge e vigilare sulla loro applicazione, bandi-tipo per un mercato più concorrenziale e trasparente.
La sfida è mettere fine all’anarchia interpretatativa che ha moltiplicato il contenzioso e ha trasformato il settore in un terreno di scontro fra avvocati. Sfida nella sfida per l’Anac: la regolazione funzionerà se avrà come obiettivo non solo la legalità ma anche i risultati (cioè opere fatte). Una sfida che Cantone ha chiara e per cui dovrà attrezzare un’Autorità non sempre attrezzata.
Stop all’in house, lavori e servizi dei concessionari. Al momento, è la norma più rovente. Si introduce l’obbligo per i concessionari, attuali e futuri, di affidare con gara tutti i lavori e servizi. Le gare per i lavori a valle sono escluse per chi ha vinto a monte la gara per la concessione. Sono già stati sollevati dubbi interpretativi, in particolare sull’applicabilità della norma ad Aspi (Atlantia), il più grande concessionario autostradale italiano: l’esclusione riguarda «le concessioni in essere affidate con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea».
Paolo Costa, ministro dei Lavori pubblici ai tempi della privatizzazione di Autostrade, ha già ricordato che la gara per la privatizzazione fu concordata con la Ue «in sostituzione di quella per assegnare la concessione». Aspi finora non ha preso posizione esplicita, mentre il relatore del provvedimento al Senato Esposito ribadisce che il divieto di “in house” si deve applicare anche ad Aspi. «Abbiamo chiesto sul punto un parere alla commissione per le politiche Ue del Senato, presieduta da Vannino Chiti –dice Esposito- e non ha lasciato margini di dubbio: non è stata fatta nessuna gara per la concessione di Aspi, quindi l’esclusione non scatta.
Mi stupisco di alcuni sindacati di categoria che si comportano come corporazioni, magari in dissenso delle loro stesse confederazioni». Non finirà qui, c’è da giurarlo. Salvo che la Camera chiarisca esplicitamente, in un senso o nell’altro.
Qualificazione e rating reputazionali. Oggi un’impresa che realizza bene i lavori nel rispetto dei tempi e dei costi del contratto e un’altra impresa che li realizza con tempi e costi estremamente dilatati sono sullo stesso piano per un sistema di qualificazione formalistico. L’introduzione del rating reputazionale è decisivo a questo proposito e il fatto che sia messo nelle mani dell’Anac è una garanzia. Dentro c’è anche il rating di legalità.
Si tratta di una vera svolta per il sistema, a condizione che non si faccia l’errore -che Bruxelles non perdona- di usare i rating reputazionali soggettivi per aumentare i punteggi di gara oggettivi.
I rating possono servire soltanto a una qualificazione più severa e più sostanziale (magari lasciando qualche margine di discrezionalità alle stazioni appaltanti). La giurisprudenza europea punisce invece la confusione fra elementi soggettivi, buoni per la qualificazione, ed elementi oggettivi (progetto, prezzo, tempi) che il concorrente presenta in gara per fare l’offerta migliore.
Progettazione e incentivo 2%. Quella della progettazione è la sfida numero uno, la sola che potrà davvero favorire la ripresa del mercato dei lavori pubblici. Inutile illudersi: senza un parco progetti di qualità, il settore resterà bloccato e “ostaggio” delle varianti in corso d’opera. Molte norme vanno in direzione giusta, dal rilancio dei concorsi all’eliminazione del massimo ribasso per le gare di progettazione alla necessità di avere un progetto esecutivo per andare a gara di lavori.
Manca poi il colpo del ko: eliminare l’incentivo del 2% per l’affidamento della progettazione all’interno delle Pa. Fanno distorsione del mercato, producono progetti scadenti, lasciano il problema irrisolto con una logica da “parrocchietta” del singolo dipartimento della singola Pa. Invece il problema stavolta va affrontato alla radice. Bene la relatrice alla Camera, Raffaella Mariani, che ha già detto di volerci mettere mano.
Le varianti. Il nuovo modello si reggerà sulla capacità di eliminare effettivamente l'eccesso di varianti in corso d'opera e di mettere al centro del sistema il premio per chi rispetta tempi e costi dati dal progetto e dal contratto uscito dalla gara.
La norma della legge quadro sulle varianti pone correttamente il criterio ma lascia aperti varchi e dà al governo ampi margini discrezionali nel recepimento. Per un giudizio definitivo bisognerà attendere il testo attuativo del governo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Taratura autovelox, il Viminale tira il freno. Prime Indicazioni operative dopo la dichiarazione d'incostituzionalità.
Anche dopo la sentenza della Consulta sulla taratura non serve alcuna particolare certificazione ulteriore per utilizzare i sistemi autovelox automatici in dotazione ai servizi di polizia stradale che sono già controllati periodicamente. Diversamente gli apparecchi di misurazione della velocità dei veicoli utilizzati esclusivamente con la presenza della pattuglia come il telelaser al momento non possono essere utilizzati senza una verifica periodica di funzionalità.
Quindi prima di fare ricorso conviene verificare bene con quale sistema è stato immortalato il trasgressore. E per questo i servizi di polizia stradale sono a completa disposizione degli utenti. E in ogni caso sarà necessaria una modifica di legge per adeguare bene la portata della sentenza al codice stradale.

Sono queste in sintesi le prime indicazioni che ha fornito il Ministero dell'Interno con la nota 26.06.2015 n. 300/A/4745/15/144/5/20/5 di prot., conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 45/6° del codice stradale nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature autovelox siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e taratura (sentenza n. 113 del 18.06.2015, si veda ItaliaOggi del 19 giugno scorso).
La questione da chiarire (e che il Viminale si è guardato bene dall'approfondire) riguarda la necessità di tarare o meno tutti gli strumenti elettronici utilizzati per il controllo della velocità dei veicoli presso un centro metrologico autorizzato. Che al momento in Italia sono solo due. E con quale frequenza.
A parere dell'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale nonostante la sentenza della Corte costituzionale gli organi di polizia stradale, nel rispetto del dm 29.10.1997, sono tenuti a osservare le modalità di impiego dei misuratori elettronici previste dai manuali d'uso. La normativa vigente, specifica la circolare, «non prevede un generalizzato obbligo di taratura anche se la necessità di una verifica periodica è di norma prevista nel manuale d'uso».
In pratica, prosegue il ministero dell'interno, già da alcuni anni «i dispositivi utilizzati per controllo da remoto o per la contestazione successiva delle violazioni in materia di velocità sono sottoposti a verifica iniziale o periodica presso un centro opportunamente accreditato presso il snt, sistema nazionale di taratura Accredia, ovvero presso lo stesso costruttore, che risulti a ciò abilitato dalla certificazione di qualità aziendale secondo le norme Iso 9001:2000 e seguenti».
In tal senso gli strumenti denominati tutor, vergilius e autovelox che sono in dotazione alla polizia stradale, prosegue il Viminale, possono continuare a essere utilizzati normalmente perché la sentenza della Consulta non impone alcuna particolare novità. Quindi i tutor, gli impianti fissi della rete ordinaria e gli autovelox anche se utilizzati con la pattuglia non devono sottoporsi ad alcuna particolare verifica oltre a quelle già richieste dai manuali o dai decreti di omologazione.
Solo gli strumenti destinati a essere impiegati con la presenza necessaria degli agenti, conclude la circolare, non possono più essere utilizzati. Almeno fin tanto che laser, telelaser e sistemi similari non vengono sottoposti a una verifica tecnica (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente, si semplifica. Autorizzazione unica al posto di 7 placet. Il modello in Gazzetta Ufficiale. Le regioni dovranno adeguarsi.
Semplificazione al via per l'ambiente. Grazie all'Autorizzazione unica ambientale che accorpa sette diverse autorizzazioni (tra cui quelle relative allo smaltimento di rifiuti, fanghi e acque reflue) e alla quale tutte le regioni dovranno adeguare le proprie normative. Essa durerà 15 anni dalla data di rilascio e dovrà essere integrata con una dichiarazione di autocontrollo solo in caso di scarichi pericolosi.

Il modello semplificato e unificato per la richiesta è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 (supplemento ordinario n. 35), come allegato al decreto del dipartimento della Funzione pubblica 08.05.2015.
Il provvedimento dà attuazione al decreto del presidente della Repubblica 13.03.2013, n. 59 recante appunto il regolamento sulla disciplina dell'autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale.
Si tratta del tassello decisivo per far decollare la nuova autorizzazione, che tuttavia sopraggiunge con qualche mese di ritardo sulla tabella di marcia, tanto che alle regioni si chiede di adeguarvisi entro la data, ormai trascorsa, del 30.06.2015. In particolare, le regioni «adeguano i contenuti del modello adottato... in relazione alle normative regionali di settore» e insieme con gli enti locali ne garantiscono la massima diffusione.
In base al dpr 59, i gestori degli impianti presentano domanda di autorizzazione unica ambientale nel caso in cui siano assoggettati al rilascio, alla formazione, al rinnovo o all'aggiornamento di almeno uno dei seguenti titoli abilitativi:
a) autorizzazione agli scarichi;
b) comunicazione preventiva per l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari e delle acque reflue provenienti dalle aziende ivi previste;
c) autorizzazione alle emissioni in atmosfera;
d) autorizzazione generale di cui all'articolo 272 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152;
e) comunicazione o nulla osta di cui all'articolo 8, commi 4 o comma 6, della legge 26.10.1995, n. 447;
f) autorizzazione all'utilizzo dei fanghi derivanti dal processo di depurazione in agricoltura di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 27.01.1992, n. 99;
g) comunicazioni in materia di rifiuti.
Possono richiedere l'Aua le piccole e medie imprese come definite dal dm 18.04.2005 e gli impianti non soggetti alla disciplina dell'Aia (Autorizzazione integrata ambientale).
La domanda deve essere presentata allo Sportello unico per le attività produttive (Suap) che la inoltra per via telematica all'Autorità competente per la procedura (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ddl madia. P.a., diritto d'accesso potenziato.
Via libera all'unanimità in commissione Affari costituzionali della camera a un emendamento al ddl delega di riforma della pubblica amministrazione che prevede l'introduzione in Italia del «Freedom of information act».

Si tratta di un corpus di norme che regolano il diritto dei cittadini ad accedere alle informazioni raccolte dallo Stato, che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha incluso nel novero dei diritti fondamentali.
Il Freedom of information act è stato inserito nella riforma Madia
(ddl Atto Camera n. 3098) grazie a un emendamento della deputata Pd Anna Ascani. Si introdurranno specifiche disposizioni volte a consentire a tutti i cittadini l'accesso gratuito (e non vincolato ad interessi) ai dati delle pubbliche amministrazioni e delle società partecipate, prevedendo sanzioni per le pubbliche amministrazioni che non ottemperano alle prescrizioni della normativa.
Il diritto all'accesso sarà tutelato prevedendo anche la possibilità di ricorsi all'Autorità nazionale anticorruzione (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALISpese legali a parere vincolato. Pa e giudici devono liquidare la somma stabilita dall’avvocatura dello Stato.
Pubblico impiego. Le Sezioni Unite fissano i criteri di rimborso delle parcelle professionali dei difensori.

Nel liquidare le spese legali a favore del dipendente finito a processo, la Pa deve attenersi alla valutazione di congruità espressa dall’avvocatura dello Stato, valutazione che guiderà anche il giudice dell’eventuale ricorso. Nessun ruolo in questa partita può giocare il parere dell’Ordine forense competente, poiché qui non si controverte sul compenso professionale, bensì su un rimborso di spese legali già anticipate.
Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 06.07.2015 n. 13861 depositata ieri, fanno chiarezza sui criteri per tenere indenni i dipendenti pubblici sottoposti a procedimento penale - e dal quale siano ovviamente usciti con archiviazione o assoluzione nel merito.
La questione era stata sollevata da un sottufficiale di Marina siciliano, sottoposto negli anni ’90 a un processo per fatti inerenti la funzione costatogli -quantomeno dal solo punto di vista patrimoniale- circa 20 mila euro attuali. Il rimborso era stato però decurtato esattamente di due terzi dall’avvocatura erariale, cui si era rivolta l’amministrazione della Marina prima della liquidazione, “taglio” che aveva poi superato anche due gradi di giudizio di merito davanti al giudice ordinario.
Tuttavia la stessa avvocatura dello Stato aveva eccepito la competenza del tribunale ordinario, eccezione portata al grado di legittimità come controricorso incidentale -subordinato- rispetto all’impugnazione del militare. La Terza civile aveva infine rimesso il fascicolo alle Sezioni Unite che ieri hanno sciolto il solo quesito principale respingendo tutte le richieste del militare. A cominciare da un sospetto (generico) di incostituzionalità sollevato dal ricorrente circa la mancanza di un corrispondente parere -obbligatorio- di congruità dei Consigli dell’ordine nelle parcelle verso i privati.
Per le Sezioni unite l’equiparazione è arbitraria (rimborso da una parte, parcella dall’altra), e anche la lamentazione circa una presunta diminutio dell’esercizio di difesa (articolo 24 della Costituzione) è fuori luogo, considerato tra l’altro che qui i parametri della Carta che vengono in gioco sono semmai quelli legati alla «buona amministrazione» (art. 81). In sostanza, argomenta la Corte, le esigenze di finanza pubblica «impongono di non far carico all’erario di oneri eccedenti quanto è necessario, e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l’istituto del rimborso spese».
Pertanto, se il vaglio del rimborso cadesse a carico dei (soli) consigli forensi ciò «toglierebbe qualsiasi rilevanza pubblicistica alla spesa e ai relativi doveri di governo di essa», equiparando di fatto «il debito del cliente verso il professionista e quello di protezione del dipendente, che è a carico dello Stato». Equiparazione improponibile, perché tra l’altro renderebbe il cliente “arbitro” della spesa pubblica attraverso scelte di difesa personali talvolta anche ultronee.
Proprio per questo «prudentemente il legislatore ha previsto che (tali oneri, ndr) siano vagliati, sotto il profilo della congruità, dall’avvocatura dello Stato». Congruità, appunto, che significa bilanciare il diritto di difesa del dipendente della Pa con il ragionevole contenimento della spesa pubblica per avvocati difensori privati.
In questo senso il criterio dello «strettamente necessario» riferito alle spese di difesa deve essere inteso come «contemperamento» e bilanciamento tra principi costituzionali in parte confliggenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Secondo giurisprudenza l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
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Il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si espresso nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.

3) Nel secondo motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, per aver l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
4) Privo di pregio è anche il terzo motivo di ricorso incentrato sull’affermata circostanza che il provvedimento gravato sarebbe stato adottato nei confronti del ricorrente quale “probabile committente dei lavori”, in base quindi a un mero giudizio probabilistico.
L’ordinanza di demolizione è stata rivolta contro il ricorrente anche sulla base della non contestata circostanza che lo stesso è proprietario dell’area e la qualità di proprietario è sufficiente a radicare la legittimazione passiva nei confronti dell’ordine di demolizione di opere abusive.
Secondo giurisprudenza, infatti, l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Piemonte, I, 25.10.2006, n. 3836; TAR Campania, Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR Lazio, Roma, II, 02.05.2005, n. 3230; TAR Valle d'Aosta, 12.11.2003, n. 188).
5) Nel quarto motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato il difetto di motivazione dell’atto gravato, in quanto, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione degli abusi (la struttura a suo dire sarebbe stata inaugurata nel 2008) e l’adozione dell’ordine di demolizione (del 30.03.2011), l’amministrazione avrebbe dovuto indicare specifiche ragioni di interesse pubblico alla rimozione degli abusi.
Il motivo è infondato.
In primo luogo parte ricorrente non ha dato prova della risalenza delle opere.
In ogni caso, il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si espresso (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”, senza, quindi, che “di esso occorra farsi carico in sede di adozione del provvedimento recante la sanzione della demolizione” e fermo “che eventuali e comprovati pregiudizi arrecati contra ius (nel caso in sede di esecuzione di ufficio) a parti non ricomprese fra le opere da demolirsi in puntuale esecuzione dei contenuti del provvedimento qui al vaglio costituirebbero un danno ingiusto risarcibile a mezzo dei rimedi all’uopo previsti”.
9d- Né, infine, può conferirsi utile rilievo alla (peraltro mera) notazione (pag. 6 del ricorso) in ordine ad una possibile compromissione statica delle parti legittime per effetto degli imposti abbattimenti.
Ferma l’assoluta genericità della “notazione”, non sostanziante nemmeno una formale denuncia, in ogni caso per consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania, questa settima sezione, n. 2191 del 17.04.2015, sesta sezione, sentenze n. 1122 del 20.02.2014, 07.11.2013, n. 4489 e 05.06.2013, n. 2903, 09.10.2013, n. 4821, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sezione seconda, 13.04.2011, n. 702), senza, quindi, che “di esso occorra farsi carico in sede di adozione del provvedimento recante la sanzione della demolizione” (in tali espressi sensi, da ultimo, Tar Campania, questa Settima Sezione, n. 2191 del 17.04.2015 cit. e, Sezione Seconda, n. 233 del 15.01.2015) e fermo “che eventuali e comprovati pregiudizi arrecati contra ius (nel caso in sede di esecuzione di ufficio) a parti non ricomprese fra le opere da demolirsi in puntuale esecuzione dei contenuti del provvedimento qui al vaglio costituirebbero un danno ingiusto risarcibile a mezzo dei rimedi all’uopo previsti” (Tar Campania, ancora questa settima sezione, n. 2191 del 17.04.2015 e, sesta sezione, n. 6678 del 17.12.2014) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 29.06.2015 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’orientamento giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché costante nel ritenere che:
- Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento;
- L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime;
- Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
- L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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La giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che possono andare a detrimento della celerità e speditezza dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>>.
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Dalla abusività di opere edilizie scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
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In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”.
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.

Con la prima censura è dedotta la violazione dell’art. 7, L. 07.08.1990, n. 241 e succ. mod.; L. 28.01.1977, n. 10; L. 28.02.1985, n. 47; L. 23.12.1994, n. 724; art. 97 Cost.).
Secondo parti ricorrenti, nella specie, la comunicazione da loro ricevuta, non sarebbe adeguatamente motivata con gravissimo pregiudizio, in quanto non messi in condizione di contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione, con riguardo al suo ambito di incidenza, alla concreta eseguibilità del provvedimento demolitorio (contenente al suo interno madornali errori che dimostrerebbero una totale disinformazione) ed alle connesse valutazioni delle sanzioni pecuniarie alternative.
La censura è infondata.
Al riguardo deve rammentarsi che l’orientamento giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché costante nel ritenere che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Pur con tali premesse, tuttavia, nella fattispecie in esame il Comune -documentato dalla difesa resistente nella memoria del 10.2.2014- ha ritenuto di dover comunicare ad entrambi i ricorrenti l’avvio del procedimento (senza, però, che questi ultimi abbiano presentare memorie), ma, alla stregua della su riferita giurisprudenza, la censura è infondata atteso che un’eventuale inadeguatezza della comunicazione inviata, in ogni caso, non influisce sulla legittimità dell’impugnata ordinanza.
Inoltre la giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che possono andare a detrimento della celerità e speditezza dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>> (C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
Orbene se, alla stregua di siffatta giurisprudenza, dolendosi per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, il privato deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione, ciò a maggior ragione deve valere nel caso in cui -come nella specie- la comunicazione in parola vi sia stata (cfr. nota 21637 del 03.07.2013), ma il ricorrente lamenta che essa non sarebbe adeguatamente motivata con gravissimo pregiudizio nei suoi confronti, in quanto non messo in condizione di contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione. Nella fattispecie, non esplicitandosi lo specifico profilo di inadeguatezza della comunicazione inviata, non si mette il giudice in condizione di esaminare le ragioni per le quali la comunicazione de qua non sarebbe funzionale allo scopo per il quale essa è prevista.
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Pertanto il Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato - Sez. V, 28.04.2014, n. 2196).
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile, previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed, ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINiente reato se la Pa non fa partire l’iter. Gare pubbliche. La turbata libertà di scelta del contraente presuppone il procedimento amministrativo.
Il reato di turbata libertà di scelta del contraente non scatta se la pubblica amministrazione non inizia il procedimento amministrativo che si intendeva condizionare.
La Corte di Cassazione -Sez. VI penale- con la sentenza 25.06.2015 n. 26840, respinge il ricorso del pubblico ministero contro le assoluzioni disposte nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti truccati negli ospedali Lombardi.
L’accusa era di associazione per delinquere allo scopo di indurre la Pubblica amministrazione a indire gare su misura “tarate” proprio sulle caratteristiche dei prodotti propagandati dalle ditte.
Una contestazione, mossa sulla base dell’articolo 353-bis, che il giudice per l’udienza preliminare aveva lasciato cadere perché la norma invocata presuppone l’esistenza perlomeno dell’avvio di un procedimento amministrativo che dimostri l’interesse della Pa a concludere l’”affare”. Circostanza che, nel caso specifico, non si era concretizzata, forse anche per l’avvio delle indagini che avevano fatto seguito alle intercettazioni. La Suprema corte coglie l’occasione per ricordare che il delitto previsto dall’articolo 353-bis del codice penale è un reato di pericolo. L’azione censurata consiste nel turbare con violenza, minaccia o doni il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente.
I giudici chiariscono che la norma punisce anche quando l’”affare” non va in porto: le interferenze sul bando sono, infatti, il fine perseguito per questo è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla sua realizzazione. Per la consumazione non serve che il bando venga effettivamente modificato in modo da orientare la scelta del contraente, ma è sufficiente che si verifichi un turbamento del procedimento amministrativo in modo tale che la concreta procedura di predisposizione del bando sia concretamente in pericolo. Tutto questo ovviamente non può avvenire se l’iter amministrativo non viene avviato affatto.
L’articolo è stato introdotto dal legislatore con l’intenzione di dare rilevanza penale alle condotte di turbamento messe in atto prima della gara, anche per porre un argine all’orientamento della giurisprudenza che, prevalentemente negava la loro offensività, anche in termini di tentativo in assenza del presupposto della gara. Una scelta che allarga la tutela prevista dall’articolo 353 del codice penale il quale fa scattare la sanzione solo nel caso la gara venga indetta.
La Corte di Cassazione sottolinea che non tutte le condotte che ricadono nel raggio d’azione dell’articolo 353-bis del Cp consumate prima del procedimento amministrativo sono irrilevanti dal punto di vista penale: lo sono solo quelle che precedono un percorso mai avviato
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’interesse richiesto dall’art. 22 l. 241/1990 è l’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l'accesso.
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L’amministrazione sostiene poi la genericità dell’istanza che sarebbe finalizzata alternativamente a obbligare l’amministrazione a svolgere indagini, ricerche o comunque ad assumere atti risolvendosi in un controllo generalizzato sul suo operato.
Simile prospettazione deve essere disattesa.
L’istanza è, infatti, finalizzata ad ottenere un preciso documento detenuto dall’amministrazione. Né la genericità dell’indicazione degli estremi del documento, circostanza questa per certi versi inevitabile quando non si conoscono gli estremi della protocollazione, può essere confusa con la genericità dell’istanza.
La prima riguarda gli estremi identificativi di un singolo atto, la seconda riguarda l’ambito della richiesta finalizzata all’ostensione di una serie indeterminata di atti.
Nessun controllo generalizzato può ipotizzarsi nella richiesta di copia di una denuncia trattandosi di atto specifico e ben determinato.

... per l'annullamento provvedimento n. 5761 del 24/02/2014 concernente diniego di accesso agli atti avente ad oggetto segnalazione e/o denuncia presentata dalla Cooperativa taxisti genovesi nei confronti di Uber Italy s.r.l.
...
Il ricorso è fondato.
L’interesse richiesto dall’art. 22 l. 241/1990 è l’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l'accesso.
Non pare dubitabile l’interesse della ricorrente alla conoscenza della denuncia quale che possa essere stato l’esito della stessa.
La denuncia potrebbe condurre ad un procedimento sanzionatorio onde la sussistenza dell’interesse sotto specie del diritto di difesa.
Ma anche in ipotesi la denuncia venisse archiviata siccome infondata sussisterebbe l’interesse della ricorrente a conoscerla onde tutelare quantomeno la propria reputazione commerciale nelle appropriate sedi anche giurisdizionali.
L’amministrazione sostiene poi la genericità dell’istanza che sarebbe finalizzata alternativamente a obbligare l’amministrazione a svolgere indagini, ricerche o comunque ad assumere atti risolvendosi in un controllo generalizzato sul suo operato.
Anche simile prospettazione deve essere disattesa.
L’istanza è, infatti, finalizzata ad ottenere un preciso documento detenuto dall’amministrazione. Né la genericità dell’indicazione degli estremi del documento, circostanza questa per certi versi inevitabile quando non si conoscono gli estremi della protocollazione, può essere confusa con la genericità dell’istanza. La prima riguarda gli estremi identificativi di un singolo atto, la seconda riguarda l’ambito della richiesta finalizzata all’ostensione di una serie indeterminata di atti.
Nessun controllo generalizzato può ipotizzarsi nella richiesta di copia di una denuncia trattandosi di atto specifico e ben determinato.
Da ultimo il Collegio rileva che l’amministrazione ben avrebbe potuto differire l’accesso ma non avendolo fatto non può opporre la pendenza di un procedimento di istruttorio ovvero sanzionatorio (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 22.06.2015 n. 602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Alberghi, sconti Tarsu aleatori. Le tariffe agevolate non sono un diritto. Decide il comune. Lo ha chiarito la Cassazione in una recente sentenza. Il principio vale anche per la Tari
Il comune ai fini delle determinazione delle tariffe Tarsu è libero di prevedere, se lo ritenga opportuno, una differenziazione tra impresa alberghiera e civili abitazioni, potendo stabilire misure agevolative per tali attività commerciali, senza che vi sia alcun diritto per le prime di vedersi attribuire una tariffa ridotta.

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione - Sez. V civile (sentenza 19.06.2015 n. 12769), riguarda questo tema, che riteniamo sia di interesse anche se, come sappiamo, la Tarsu è stata ormai sostituita prima dalla Tares e poi, attualmente dalla Tari, istituita con l'art. 1, comma 639, della legge 147/2013.
La sentenza in commento si basa sul caso di un concessionario alla riscossione di un comune siciliano che aveva iscritto a ruolo un importo ai fini Tarsu nei confronti di un'impresa alberghiera esercitata in quel comune, senza prevedere alcuna agevolazione nei confronti di essa.
I giudici di appello ritenevano infatti illegittima la diversificazione delle tariffe tra esercizi alberghieri e locali adibiti ad uso di civile abitazione, sostenendo che l'ente impositore non potesse discriminare le due attività, essendo fuori del potere discrezionale del comune.
Pur osservando i giudici di legittimità, il dlgs 05/02/1997, n. 22, art. 49, comma 8, sancisce che la tariffa è determinata dagli enti locali e pertanto appare, al contrario di quanto sostenuto dalla sentenza di appello, legittimo per un comune introdurre una tariffa differenziata per fasce di utenza - quella domestica e quella non domestica.
Come ricorda la Corte, è ben possibile che essendo l'attività alberghiera ben distinta da quella privata delle civili abitazioni, si possa considerare che l'importo della tariffa relativa alla raccolta ed allo smaltimento dei rifiuti possa essere ben diverso, e segnatamente maggiore per gli alberghi, con ciò riconoscendo un maggior carico tributario a carico di quest'ultimi.
Del resto, tale principio era già stato sancito da precedenti sentenze della Corte di cassazione, (sentenza sez. 5 n. 5722 del 12/03/2007), che pone il seguente principio: «In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Tarsu), è legittima la delibera comunale di approvazione del regolamento e delle relative tariffe, in cui la categoria degli esercizi alberghieri venga distinta da quella delle civili abitazioni, ed assoggettata ad una tariffa notevolmente superiore a quella applicabile a queste ultime: la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce infatti un dato di comune esperienza, emergente da un esame comparato dei regolamenti comunali in materia, ed assunto quale criterio di classificazione e valutazione quantitativa della tariffa anche dal dlgs 05/02/1997, n. 22, senza che assuma alcun rilievo il carattere stagionale dell'attività, il quale può eventualmente dar luogo all'applicazione di speciali riduzioni d'imposta, rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore.
Come annota la sentenza in commento, la legislazione a favore delle imprese turistiche di cui all'art. 7, comma 4, legge 135 del 2001 (legge quadro per il turismo) prevede: «Fermi restando i limiti previsti dalla disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato alle imprese, alle imprese turistiche sono estesi le agevolazioni, i contributi, le sovvenzioni, gli incentivi e i benefici di qualsiasi genere previsti dalle norme vigenti per l'industria, così come definita dall'art. 17 del dlgs 31/03/1998, n. 112, nei limiti delle risorse finanziarie a tale fine disponibili e in conformità ai criteri definiti dalla normativa vigente».
Sul punto dell'agevolazione cennata, e qui è il punto fondamentale, però l'impresa alberghiera non può vantare alcun diritto, per il fatto che il potere di disciplinare a favore delle imprese alberghiere, tariffe Tarsu agevolate, rientra nella piena discrezionalità amministrativa del Comune, che può anche non concedere alcuna agevolazione in merito.
Per concludere, si può notare chiosando, che il principio espresso in tema, possa mantenere la sua validità anche per la Tari, dato che i commi 682-683 dell'art. 1 della legge 147/2013, prevedono che sia il comune attraverso un regolamento a disciplinare eventuali riduzioni d'imposta per alcune attività economiche (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).

PUBBLICO IMPIEGOL'effetto sulla graduatoria definisce il controinteressato.
In materia di impugnazione di una graduatoria concorsuale costituisce principio consolidato quello per cui rivestono la qualità di controinteressati tutti i soggetti che dall'accoglimento del ricorso, in relazione alle censure dedotte, vedrebbero alterata la loro collocazione in graduatoria, subendo effetti negativi perché scavalcati dal ricorrente.

Lo hanno ribadito i giudici della V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 18.06.2015 n. 3129.
Hanno altresì osservato i supremi giudici amministrativi che in difetto di un presupposto processuale relativo alla non corretta instaurazione del contraddittorio non ha valore l'effetto devolutivo dell'appello, e la sentenza dovrebbe quindi essere annullata, con rimessione della causa al primo giudice per la necessaria chiamata in giudizio degli altri controinteressati (si veda: Consiglio di stato, sez. VI, 24.02.2009, n. 1087), in applicazione dell'art. 105, comma 1, del c.p.a., nel quale è stata trasfusa la corrispondente regola contenuta nella legge n. 1034 del 1971.
Si aggiunge, altresì, che in base alla giurisprudenza già formatasi nel vigore della legge n. 1034 del 1971, nonché in base all'art. 95, commi 1, 3 e 5 (si vedano: Consiglio di stato, sez. IV, 18.04.2012, n. 2276; sez. V, 30.08.2011, n. 4863) del c.p.a. (comunque rilevanti per il principio tempus regit actum), va osservato che ragioni di economia processuale e l'interesse ad una ragionevole durata del processo possono far ritenere non necessario disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati non evocati nel giudizio di primo grado, quando nel merito l'appello risulti infondato (articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015).

APPALTIL'aggiudicatario dell'appalto controinteressato sub condicione. Il nominativo del vincente e dell'escluso devono risultare dallo stesso verbale.
L'aggiudicatario, anche se provvisorio, di una gara di appalto indetta dalla p.a., assume la veste di controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente escluso, quando l'esclusione e l'aggiudicazione siano avvenute contestualmente, nella stessa seduta di gara, di modo che il nominativo dell'aggiudicatario risulti dal medesimo verbale contenente l'esclusione.

Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 18.06.2015 n. 3126.
Hanno infatti osservato i supremi giudici amministrativi (in ossequio anche a un consolidato orientamento giurisprudenziale, si vedano: Cons. stato, V, 27.10.2005, n. 6004; VI, 02.05.2011, n. 2580; V, 02.02.2012, n. 569; III, 01.02.2012, n. 493; da ultimo Cons. stato, V, 27.10.2014 n. 5279), che il concorrente escluso può rendersi così conto del fatto che la sua impugnativa avverso l'esclusione, che è atto conclusivo del procedimento, incide sulla posizione di altro soggetto il quale ha diritto a potersi difendere per mantenere lo status quo allo stesso favorevole, e ciò tenuto conto anche di esigenze di celerità e speditezza del procedimento di gara.
È altresì opportuno evidenziare come la piena conoscenza delle motivazioni dell'atto di esclusione vada ad implicare la decorrenza del termine decadenziale a prescindere dall'invio di una formale comunicazione ex art. 79, co. 5, del codice dei contratti pubblici. I giudici del Consiglio di stato hanno infatti condiviso l'indirizzo ermeneutico secondo il quale l'art. 120, co. 5 cpa, non prevedendo forme di comunicazione «esclusive» e «tassative», non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con forme diverse di quelle dell'art. 79 cit..
Il medesimo Consiglio di stato ebbe modo di affermare in una precedente pronuncia (Sez. V n. 3994/2012 del 09.07.2012) che «la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall'intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l'Adunanza plenaria (n. 4/2011), da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso
» (articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015).
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MASSIMA
Occorre quindi focalizzare alcuni punti nodali ai fini della decisione:
a) la decorrenza del termine di impugnazione di un provvedimento espresso verbalmente in sede di seduta pubblica alla presenza di rappresentanti dell’impresa appositamente muniti di deleghe;
b) il rapporto di contestualità tra esclusione e aggiudicazione provvisoria e la posizione di eventuali controinteressati.
Sul punto sub a) la Sezione richiama l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che ha rilevato: “
La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, co. 5, del codice dei contratti pubblici. Merita, infatti, condivisione l’indirizzo ermeneutico alla stregua del quale l’art. 120 co. 5 c.p.a., non prevedendo forme di comunicazione "esclusive" e "tassative", non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel caso di specie, con forme diverse di quelle dell'art. 79 cit.“ (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 28.02.2013, n. 1204; sez. III, 22.08.2012, n. 4593; sez. VI, 13.12.2011, n. 6531; V, 6284 del 27.12.2013) .
In ordine al punto b) l’orientamento giurisprudenziale a cui la Sezione intende aderire è nel senso che
l'aggiudicatario, anche se provvisorio, di una gara di appalto indetta dalla p.a., assume la veste di controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente escluso, quando l'esclusione e l'aggiudicazione siano avvenute contestualmente, nella stessa seduta di gara di modo che il nominativo dell’aggiudicatario risulti dal medesimo verbale contenente l’esclusione, potendo il concorrente escluso rendersi così conto del fatto che la sua impugnativa avverso l’esclusione, che è atto conclusivo del procedimento, incide sulla posizione di altro soggetto il quale ha diritto a potersi difendere per mantenere lo status quo allo stesso favorevole, e ciò tenuto conto anche di esigenze di celerità e speditezza del procedimento di gara (Cons. Stato, V, 27.10.2005, n. 6004; VI, 02.05.2011, n. 2580; V, 02.02.2012, n. 569; III, 01.02.2012, n. 493; da ultimo Cons. Stato, V, 27.10.2014 n. 5279).
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Quanto al motivo accolto dal Tar relativo alla illegittimità della nomina della commissione di gara, ritiene la Sezione che la ricorrente non avrebbe potuto impugnare con i secondi motivi aggiunti tale nomina in quanto era suo onere proporre tale contestazione tempestivamente, all’atto della esclusione dalla procedura.
E ciò secondo due concomitanti profili.
Sotto un primo profilo è indubbio che la disposta esclusione che determinava la definitiva estromissione dalla gara di Sodexo si atteggiava come atto conclusivo del procedimento. Ora se è ipotizzabile, secondo i noti principi (AP n.4/2011), l’interesse strumentale del partecipante alla gara alla riedizione della procedura, nel caso in esame, venuta meno, per la inammissibilità del ricorso avverso la esclusione (per mancata notifica al rti Vivenda), la posizione del rti Sodexo di concorrente partecipante alla gara e ricondotta la sua posizione a quella di concorrente legittimamente escluso, lo stesso non poteva vantare alcuna legittimazione a contestare con successivi motivi aggiunti la composizione della commissione.
Ogni censura attinente alla nomina della commissione non poteva che svolgersi unitamente alla estromissione dalla gara, atto conclusivo del procedimento di partecipazione alla gara.
Una volta escluso dalla gara, il rti Sodexo veniva a perdere ogni posizione differenziata che lo potesse legittimare a censurare la composizione della commissione.
Al riguardo questo Consiglio di Stato ha rilevato testualmente: “
…la situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura costituisce la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto storico della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall’accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla gara può quindi essere impedita dall’inoppugnabilità dell’atto di esclusione perché non impugnato, o perché giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall’intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l’Adunanza Plenaria (n. 4/2011), da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l’atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso
” (Sez. V n. 3994/2012 del 09.07.2012).

APPALTILa turbativa d'asta non esclude dalla gara. Cds sul rappresentante legale.
Non può essere esclusa da una gara l'impresa il cui rappresentante legale è stato condannato con sentenza di primo grado per turbativa d'asta; ai fini dell'esclusione rileva la grave negligenza o malafede accertata nella fase di esecuzione del contratto e non nella fase di trattativa contrattuale.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 18.06.2015 n. 3107 che affronta il tema della rilevanza di una condanna disposta nei confronti del legale rappresentante di una impresa per turbativa d' asta, riformando la sentenza di primo grado che aveva visto legittimare l'esclusione del concorrente disposta dalla stazione appaltante.
I giudici affermano in particolare che non può ritenersi che dalla condanna in primo grado riportata dal legale rappresentante dell'aggiudicataria per il reato di turbativa d'asta possa desumersi che sia stata integrata una delle ipotesi di cui all'art. 38, comma 1, lettera f), dlgs n. 163/2006. La norma prevede infatti che debbano essere esclusi dalla gara i soggetti che secondo motivata valutazione della stazione appaltante, abbiano commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che abbiano commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale.
Per il Consiglio di stato la norma fa riferimento a fattispecie pregresse maturate durante lo svolgimento della prestazione affidata in relazione alle quali la stazione appaltante può dedurre un deficit di diligenza o di professionalità in capo al concorrente. In altre parole l'operatività della causa di esclusione si estende anche a prestazioni non espressamente dedotte in contratto, ma che derivino dal rispetto dei principi di lealtà contrattuale pur sempre nell'ambito dell'esecuzione delle prestazioni assunte.
Soltanto in questi casi viene meno quell'elemento fiduciario che deve connotare il successivo rapporto negoziale che intercorrerà fra l'aggiudicatario del contratto e l'amministrazione. Da ciò i giudici deducono che la norma non può essere dilatata sino ad accogliere un'interpretazione che abbraccia anche fattispecie nelle quali il comportamento scorretto del concorrente si sia manifestato in fase di trattativa (partecipazione alla gara). Pertanto, stante il rigido principio di tassatività che ispira le cause di esclusione il concorrente non andava estromesso dalla gara (articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).
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MASSIMA
10.1. Quanto alla prima doglianza non può condividersi la soluzione prescelta dal primo giudice, sicché sotto questo profilo l’appello principale merita di essere accolto.
Occorre ribadire che la disciplina dei cui agli artt. 38 e 46, d.lgs. 163/2006, si applica nella fattispecie in quanto la lett. D) del disciplinare di gara ed il punto III.2.1) del bando di gara richiamano espressamente le norme in questione alle quali l’amministrazione procedente ha quindi inteso autovincolarsi.
Tanto premesso, però, non può ritenersi che dalla condanna in primo grado riportata dal legale rappresentante dell’aggiudicataria per il reato di turbativa d’asta possa desumersi che sia stata integrata una delle ipotesi di cui all’art. 38, comma 1, lettera f), d.lgs. n. 163/2006. Occorre rammentare, infatti, che secondo la suddetta disposizione sono esclusi dalle procedure di gara i soggetti che: “secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Secondo la giurisprudenza uniforme di questo Consiglio (cfr. Cons. St., Sez. V, 15.06.2015, n. 2928; Sez. V, 23.03.2015, n. 1567; Id., 03.12.2014, n. 5973),
la causa di esclusione in questione ha origine in fase di esecuzione delle prestazioni negoziali, dal momento che l’amministrazione da vicende pregresse che hanno testimoniato un deficit di diligenza o di professionalità in capo al concorrente desume il venir meno ab imis di quell’elemento fiduciario che deve connotare il successivo rapporto negoziale. Pertanto, stante il rigido principio di tassatività che ispira le cause di esclusione la norma in questione non può essere dilatata sino ad accogliere un’interpretazione che abbraccia anche fattispecie nelle quali il comportamento scorretto del concorrente si è manifestato, come nella fattispecie, in fase di trattative.
Sotto questo profilo occorre rimarcare come la citazione da parte del primo giudice, a sostegno dell’opposta tesi, del precedente di questo Consiglio, Sez. V, 28.12.2011, n. 6951, non sia corretta. Ed infatti, anche questa sentenza confina l’operatività della causa di esclusione de qua all’ambito dell’esecuzione contrattuale precisando che la stessa si estende anche a prestazioni non espressamente dedotte in contratto, ma che derivino dal rispetto dei principi di lealtà contrattuale pur sempre nell’ambito dell’esecuzione delle prestazioni assunte dai paciscenti in sede di stipulazione.
La suddetta pronuncia, infatti, così motiva “
Considera al riguardo la Sezione che l'art. 38, comma 1), lettera f), del d.lgs. n. 163/2006 è finalizzato a reprimere ogni condotta atta a minare la legittima aspettativa della stazione appaltante non solo ad una esecuzione a regola d'arte dei lavori affidati al privato, ma anche alla esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto secondo il canone della buona fede in senso oggettivo. Ne consegue che la regola della lealtà contrattuale nella fase di esecuzione delle prestazioni implica, non solo il rispetto del canone della esecuzione a regola d'arte della prestazione dedotta in contratto, ma anche l'assunzione di un contegno ispirato a correttezza e probità contrattuale”.
Il presente motivo di ricorso principale, riemerso in seconde cure, deve, quindi, essere disatteso, meritando la sentenza del TAR di essere riformata sul punto.

ATTI AMMINISTRATIVI: La circolare può essere disapplicata.
Il giudice smentisce il Ministero. Il collegio chiamato a decidere la controversia sull'appalto ben può disapplicare d'ufficio la circolare del Lavoro che ritiene contra legem e invece risulta applicata nell'ambito dell'atto impugnato. E ciò perché i documenti di prassi con i quali si interpreta la legge dispiegano effetti soltanto all'interno dell'amministrazione che le emette e non vincolano in alcun modo l'autorità giudiziaria: sono infatti privi di valore normativo.

È quanto emerge dalla sentenza 11.06.2015 n. 887, pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
L'impresa soccombente aveva dalla sua parte l'interpello del ministero del Lavoro secondo cui per il calcolo della quota di riserva un conto sarebbe il personale tecnico-esecutivo e un altro quello amministrativo e dunque «i requisiti previsti dalla legge» non dovrebbero «sussistere in forma cumulativa».
L'interpretazione della circolare sarebbe avvalorata dalle norme del contratto collettivo di categoria. Non è però d'accordo il giudice, secondo cui la norma è chiara nell'affermare che entrambe le categorie di personale debbono essere computate per accertare se la società che aspira all'appalto deve essere esonerata o no dall'assunzione di lavoratori diversamente abili.
Il collegio dunque disapplica la circolare, che è un atto senza efficacia provvedimentale: è infatti diretto agli uffici periferici dell'amministrazione e non può vincolare soggetti estranei all'ente, magistrati compresi. Non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).
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MASSIMA
In primo luogo mette conto rilevare che
gli atti con i quali la pubblica amministrazione fornisce l’interpretazione di fonti normative, soprattutto quelle di rango legislativo, non costituiscono alcun vincolo ai fini della loro applicazione da parte del Giudice.
È del tutto pacifico, infatti, che
le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'amministrazione, con la conseguenza che una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 21.06.2010, n. 3877; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 29.05.2014, n. 1323).
Nel caso che ne occupa pare indubbio che la locuzione, ossia “personale tecnico-esecutivo e svolgente funzioni amministrative” debba intendersi nel senso che entrambe le categorie di personale debbono essere computate al fine di accertare l’esonero dall’obbligo di assunzione di personale appartenente alle categorie svantaggiate. Ciò sia per il valore semantico, coordinativo e aggiuntivo, della lettera “e”, utilizzata dal legislatore sia perché, sul piano sistematico e logico, non si comprenderebbe il senso di aggregare in un’unica categoria le distinte mansioni svolte dal personale tecnico esecutivo e quello svolgente funzioni amministrative.
Neppure potrebbe ritenersi che il concetto di strumentalità, enucleato dalla citata circolare ministeriale, possa intendersi restrittivamente, al fine di escludere dal computo tutto il personale che svolge le mansioni proprie che connotano l’oggetto sociale dell’impresa, giacché tale interpretazione finirebbe con lo svuotare di contenuto l’art. 3 della l. n. 68/1999 e le finalità di tutela sociale che ne costituiscono la ratio, dal momento che, come nel caso all’esame, anche imprese di grandi o medie dimensioni verrebbero esonerate dall’obbligo in questione.
In definitiva, avendo la ricorrente dichiarato, in assenza dei relativi presupposti, di non essere assoggettata all’applicazione della normativa in materia di assunzione obbligatoria di personale invalido, avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara.
Ne segue che il ricorso incidentale va accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Comuni silenziati sulle mega-antenne.
Sì alla mega-antenna per cellulari vicino a case, scuole, ospedali e case di riposo. O meglio: non è il Comune che col suo regolamento può intervenire sui valori di attenzione invadendo il campo dello Stato, cui spetta legiferare in materia.
Ecco allora che è accolto il ricorso del big delle telecomunicazioni contro il regolamento dell'ente locale che vieta di installare praticamente ovunque le stazioni radio-base che servono a far funzionare i telefonini: gli impianti sono invece «compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica».

È quanto emerge dalla sentenza 29.05.2015 n. 503, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria.
Sbaglia la compagnia telefonica quando sostiene che l'amministrazione locale avrebbe bisogno del placet della Regione nell'adottare il regolamento con tutte le modifiche che ha introdotto sul piano urbanistico. In realtà l'ente locale ha i poteri per disciplinare il corretto insediamento territoriale degli impianti.
Il punto è che con il regolamento di «minimizzazione» il Comune non può spingersi a porre divieti generalizzati che puntano a tutelare la popolazione amministrata dai campi magnetici: spetta infatti al legislatore nazionale indicare obiettivi di qualità per le installazioni degli impianti con criteri unitari da applicare uniformemente in tutta Italia.
Bisogna invece consentire dappertutto la copertura della telefonia mobile: le mega-antenne devono infatti ritenersi «infrastrutture primarie e impianti di interesse generale». Spese compensate (articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).
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MASSIMA
2. Nel merito il ricorso è fondato.
3. Con riguardo al primo e al secondo motivo di ricorso si osserva quanto segue.
La protezione delle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici è regolamentata dalla legge quadro 22.02.2001, n. 36, che ha disciplinato in modo organico la materia, fissandone i principi fondamentali ed indicando le ripartizioni di competenza tra Stato ed Enti locali.
Quanto al riparto di attribuzioni, in particolare, viene stabilito che:
a) allo Stato compete la determinazione dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, (art. 4, l. n. 36/2001);
b) alle Regioni compete la definizione degli strumenti e delle azioni per il raggiungimento degli obiettivi di qualità consistenti in criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni ed incentivazioni (art. 8, l. n. 36 cit.);
c) ai Comuni, infine, si riconosce l'esercizio di una potestà regolamentare finalizzata ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici (art. 8, comma 6, l. n. 36 cit.).
Ciò premesso, nel caso di specie, non pare sussistere il primo vizio lamentato in ricorso sotto il profilo della carenza di potere regolamentare in capo al Comune.
Dal tenore del testo normativo emerge che
il potere de quo non è condizionato dalla previa regolamentazione da parte della Regione, ma solo al rispetto delle norme generali poste dall’ente territoriale maggiore, laddove già immesse nell’ordinamento giuridico; traendo viceversa il Comune la propria potestà normativa direttamente dalla legge sopracitata.
Né sembra sussistere il secondo vizio dedotto, atteso che le prescrizioni introdotte con l’atto impugnato presentano un indubbio carattere di specialità rispetto alla pianificazione urbanistica comunale, il cui procedimento non doveva essere seguito, in disparte quanto appresso si dirà circa gli ulteriori profili di illegittimità che inficiano il regolamento gravato.
Deve invece rilevarsi come, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale (cfr., tra le altre, Corte cost. n. 331/2003, n. 307/2003 e n. 336/2005 ), la giurisprudenza amministrativa abbia più volte chiarito che
la potestà assegnata ai Comuni dall'art. 8, comma 6, l. cit. prevede la possibilità che i Comuni adottino un regolamento c.d. di minimizzazione finalizzato a garantire "il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e a minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici"; tale potestà deve tradursi nell'introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio ambientale, paesaggistico o storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, nell'individuazione di siti che per destinazione d'uso e qualità degli utenti possano essere considerati sensibili alle immissioni radioelettriche), senza trasformarsi in limitazioni alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1873; Cons. Stato, Sez. III, Sent., 19.03.2014, n. 1361).
La potestà regolamentare dei Comuni deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può tradursi in un generalizzato divieto di installazione in zone urbanistiche identificate. Tale previsione verrebbe infatti a costituire una inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in contrasto con l'art. 4 l. n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il territorio dello Stato (così, Cons. Stato Sez. VI, Sent., 27.12.2010, n. 9414; Cons. St., sez. VI, 08.09.2009, n. 5258).
Ed, infatti, è principio consolidato in giurisprudenza che "
ai sensi dell'art. 87, codice delle comunicazioni elettroniche approvato con d.lgs. 01.08.2003, n. 259, il Comune non ha alcuna potestà di introdurre un divieto generalizzato di installazione delle stazioni radio base, né di introdurre misure che, pur essendo di natura tipicamente urbanistica (distanze, altezze, quote, ecc.) non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela dai rischi dell'elettromagnetismo che, ai sensi dell'art. 8, l. 22.02.2001 n. 36, rientra nelle esclusive attribuzioni statali, non già in quelle comunali; di conseguenza la localizzazione degli impianti nelle sole zone in cui il regolamento li consente si pone in contrasto non solo con l'esigenza di permettere la copertura del servizio di telefonia mobile sull'intero territorio comunale, ma anche con la loro natura di infrastrutture primarie e impianti di interesse generale, posti al servizio della comunità e quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica" (ex multis TAR Molise 07.04.2011 n. 176; TAR Lazio Latina Sez. I, Sent., 30/01/2015, n. 114).
Sotto tale specifico riguardo il gravato regolamento deve essere ritenuto illegittimo e per l’effetto, già in forza di tale vizio, il gravame si palesa nella sua fondatezza.
3. Pur tuttavia, il Collegio reputa opportuno scrutinare specificamente le singole prescrizioni regolamentari, censurate con il terzo motivo di ricorso, al fine di evidenziarne i singoli profili di irregolarità.
a) Del tutto sproporzionata e irragionevole è, innanzitutto, la prescrizione di cui all’art. 5, che esclude la realizzazione degli impianti nelle zone residenziali, nelle zone vincolate, nelle zone destinate ad insediamenti produttivi, nei parchi e nelle zone adiacenti a scuole, ospedali ed edifici di culto. Al riguardo
deve ribadirsi quanto già sopra esposto in ordine alla inammissibilità dell’introduzione, in sede di regolamentazione degli impianti di telefonia, di un divieto generalizzato di installazione delle stazioni radio base, ovvero di misure finalizzate alla sola tutela della salute anziché funzionali al governo del territorio.
b), c) Illegittima ed irragionevole è l’imposizione del rispetto delle distanze, come individuate dall’art. 8 e 6, comma 4 del regolamento. Anche sotto tale profilo giova ribadire il difetto di potere regolamentare intestato al Comune; senza contare che, proprio la natura dei manufatti in rilievo, non consente le limitazioni contemplate dal regolamento, le quali, se applicate rigidamente, ne impedirebbero di fatto la realizzazione.
d) Illegittima è altresì la prescrizione dell’art. 7, che impone ai gestori del servizio di telefonia mobile di presentare al Comune il piano annuale degli impianti da realizzare, entro il 31 dicembre di ogni anno (termine che, ai sensi dell’art. 12, comma 1, è prorogato per il primo anno a 6 mesi dall’entrata in vigore del regolamento), in quanto nessun obbligo di fornire annualmente al Comune il piano delle installazioni è contemplato a carico dei gestori dal d.lgs. n. 259/2003.
e) Illegittima è la previsione della necessità del permesso di costruire di cui al D.P.R. n. 380/2001, che il regolamento impone per la realizzazione degli impianti.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel ritenere che per la installazione degli impianti in questione non è affatto necessario il permesso di costruire, essendo essa solo subordinata all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del T.U. 01.10.2003, n. 259 e non occorrendo, al riguardo, il permesso di costruire ai sensi dell'art. 3, lett. e), del T.U. 06.06.2001 n. 380 (ex plurimis, Cons. St., Sez. VI, 21.01.2005, n. 100; Cons. St., sez. VI, 15.07.2010, n. 4557).
f) Del pari illegittima risulta essere la prescrizione di cui all’art. 6, comma 2, che impone l’altezza massima delle antenne e comma 3, che impone che tutti i manufatti complementari siano interrati, in quanto trattasi di limiti che non trovano alcun riscontro nella normativa statale e appaiono, come rilevato dalla ricorrente, insuscettibili di essere realizzati sotto il profilo tecnico.
g) Illegittima è altresì la previsione della competenza concorrente dell’A.R.P.A. e della A.S.L. territorialmente competente, in merito ai controlli sanitari, perché la normativa statale demanda tali controlli alla sola A.R.P.A. (art. 87, d.lgs. n. 259/2003 e art. 14, l. n. 36/2001).
h) Ne consegue l’illegittimità delle sanzioni, contemplate dall’art. 11 per il caso di trasgressione; e ciò, sia per la inesigibilità della condotta rispetto ad una prescrizione illegittima, sia in ragione di una chiara violazione dei principi di riserva di legge e di tassatività, di matrice penalistica e, come noto, recepiti pure dalla L. 689/1981.
i) Infine, deve essere ritenuta, per l’effetto, illegittima la imposta rilocalizzazione, come prevista nel regolamento nella disposizione transitoria finale.
Da una parte, quanto esposto circa l’irregolarità delle prescrizioni impugnate comporta la pedissequa irragionevolezza dello stesso obbligo di rimozione; dall’altra, l’imposizione de qua, entro lo stringente termine previsto, si palesa gravemente violativa del principio di proporzionalità e di affidamento, rispetto a posizioni già acquisite nel rispetto della (all’epoca) vigente normativa di riferimento.
4. Alla luce delle superiori considerazioni, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati.

ATTI AMMINISTRATIVIIl Collegio, pur propendendo (quantomeno riguardo ad atti di carattere generale soggetti a pubblicazione ex art. 124 TUEL) per la linea interpretativa espressa dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi in riferimento all’art. 10 TUEL (“Il diritto di accesso agli atti degli enti locali del cittadino-residente non è condizionato alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa”, ritiene che il ricorso debba essere respinto.
Deve infatti rilevarsi che l’istanza è riferita alla “documentazione degli atti relativi al piano traffico, all’istituzione delle strisce blu, dei decreti di nomina degli ausiliari della sosta e delle convenzioni con i gestori dei parcheggi a pagamento”, formulazione che ne evidenzia la genericità e l’indeterminatezza in quanto non chiarisce se con l’espressione “atti relativi a…” si intendano i provvedimenti conclusivi dei rispettivi procedimenti (e cioè le deliberazioni con cui il piano traffico è stato approvato, le strisce blu sono state istituite ecc.) o se invece si tratti di documentazione che ha costituito la base per le determinazioni concretamente assunte.
E’ evidente che la richiesta assume una diversa estensione a seconda dell’una o dell’altra ipotesi e perciò il ricorrente aveva l’onere di specificarne l’oggetto.

... per l'annullamento del silenzio-rifiuto serbato dal Comune di Ortona sulla richiesta di accesso agli atti amministrativi presentata dal ricorrente in data 22.12.2014.
...
2 – Il Collegio, pur propendendo (quantomeno riguardo ad atti di carattere generale soggetti a pubblicazione ex art. 124 TUEL) per la linea interpretativa espressa dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi in riferimento all’art. 10 TUEL (“Il diritto di accesso agli atti degli enti locali del cittadino-residente non è condizionato alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa”: cfr. seduta del 13.09.2011; in termini analoghi i pareri 15.03, 10.05, 07.07, 27.09.2011; 23.10.2012), ritiene che il ricorso debba essere respinto.
Deve infatti rilevarsi che l’istanza è riferita alla “documentazione degli atti relativi al piano traffico, all’istituzione delle strisce blu, dei decreti di nomina degli ausiliari della sosta e delle convenzioni con i gestori dei parcheggi a pagamento”, formulazione che ne evidenzia la genericità e l’indeterminatezza in quanto non chiarisce se con l’espressione “atti relativi a…” si intendano i provvedimenti conclusivi dei rispettivi procedimenti (e cioè le deliberazioni con cui il piano traffico è stato approvato, le strisce blu sono state istituite ecc.) o se invece si tratti di documentazione che ha costituito la base per le determinazioni concretamente assunte.
E’ evidente che la richiesta assume una diversa estensione a seconda dell’una o dell’altra ipotesi e perciò il ricorrente aveva l’onere di specificarne l’oggetto.
Il ricorso va quindi rigettato con assorbimento di ogni altra questione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.05.2015 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIGli ingegneri juniores possono per il settore ingegneria civile e ambientale porre in essere attività di concorso e collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche.
Nel caso di specie, l’attività dell’ingegnere appartenente alla sezione B) rientra chiaramente in tali ipotesi, in quanto il progetto redatto si fonda su un progetto già posto in essere dalla stazione appaltante e, quindi, si tratta di un’opera di concorso o collaborazione ad un progettazione relativa alle opere pubbliche.
La ratio della norma è chiaramente quella di evitare che un ingegnere con una qualifica “ridotta” possa essere affidatario della progettazione di complesse opere pubbliche, ma tale perplessità non ricorre nel caso di specie, in quanto l’intervento collaborativo dell’ingegnere serve solo per fornite proposte migliorative che si innestano sul progetto formato dalla stazione appaltante.

--- per l'annullamento della determina n. 23, prot. 296/15 con cui il Comune ha approvato gli atti di gara e disposto l'aggiudicazione definitiva dei lavori di completamento ed adeguamento della rete fognaria e dell'impianto di depurazione.
...
Il ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione definitiva perché l’impresa contro interessata avrebbe dovuto essere esclusa in quanto gli elaborati dell’offerta tecnica sono stati firmati da un ingegnere “Junior” non abilitato per il progetto di gara.
L’art. 46, co. 1, lett. a), n. 1 prevede che formano oggetto dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B (ingegnere junior), ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1, comma 2:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale":
1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte al concorso e alla collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche;
2) la progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza, la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate;
3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e storica e i rilievi geometrici di qualunque natura.
Nel caso di specie, la società ricorrente sostiene che il progetto presentato dalla società controinteressata è stato firmato da un ingegnere non abilitato, appartenente alla Sezione B), mentre il progetto per cui è causa sarebbe di competenza esclusiva degli ingegneri appartenenti alla Sezione A.
Va premesso che il bando di gara ha ad oggetto il “Completamento e adeguamento della rete fognaria e impianto di depurazione da effettuarsi nel Comune di Lapo” e l’offerta economicamente più vantaggiosa viene individuata in base alla presentazione di progetti capaci di individuare soluzioni tecniche migliorative della rete fognaria e dell’impianto di depurazione.
Va, quindi, chiarito che il progetto contestato si innesta su un progetto già redatto dalla stazione appaltante e che nella sua intima struttura non può essere modificato, ma solo migliorato.
Orbene, gli ingegneri juniores possono per il settore ingegneria civile e ambientale porre in essere attività di concorso e collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere pubbliche.
Nel caso di specie, l’attività dell’ingegnere appartenente alla sezione B) rientra chiaramente in tali ipotesi, in quanto il progetto redatto si fonda su un progetto già posto in essere dalla stazione appaltante e, quindi, si tratta di un’opera di concorso o collaborazione ad un progettazione relativa alle opere pubbliche.
La ratio della norma è chiaramente quella di evitare che un ingegnere con una qualifica “ridotta” possa essere affidatario della progettazione di complesse opere pubbliche, ma tale perplessità non ricorre nel caso di specie, in quanto l’intervento collaborativo dell’ingegnere serve solo per fornite proposte migliorative che si innestano sul progetto formato dalla stazione appaltante.
Peraltro, la società ricorrente non ha di certo provato che le migliorie indicate nel progetto contestato diano vita a soluzioni avanzate, innovative o sperimentali, di competenza dell’ingegnere iscritto nella Sezione A, ben potendo un progetto contenente soluzioni migliorative rispetto a quello della stazione appaltante prevedere metodologie standardizzate.
Ne deriva, pertanto, che il ricorso principale è infondato e va rigettato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 14.04.2015 n. 797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.07.2015

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IN EVIDENZA

URBANISTICA: Sullo scomputo degli oo.uu. nell'ambito di piani attuativi.
Con riferimento al primo quesito, il collegio ritiene che
non vi sia alcuna motivazione basata sull’interpretazione della modifica normativa che possa consentire il riconoscimento di uno scomputo globale e indifferenziato degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, a fronte dell'esecuzione diretta di opere di urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, posto che le due categorie di opere sono mantenute nella loro specificazione giuridica sia nell’attuale tessuto normativo dell’art. 45 della legge regionale n. 12/2015, sia nei commi 7 e 7-bis ed 8 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia).
Analogamente, venendo al secondo quesito, si ribadisce che
la normativa attualmente vigente non autorizza alcuna compensazione fra le due categorie di opere di urbanizzazione, poiché la legge regionale mantiene uno stringente vincolo di correlazione fra la tipologia delle opere da realizzare ed il calcolo degli oneri per cui accordare lo scomputo, con il correlato obbligo giuridico per il privato di realizzare tutte le opere di urbanizzazione primaria ed una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi (art. 46, lett. b, della citata legge regionale).
A sostegno di tale prospettazione,
la Sezione richiama la diversa natura giuridica ed utilità pubblica sottese alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, secondo uno schema contenuto nella legislazione nazionale (T.U. edilizia), le cui norme rivestono carattere cogente in quanto attuatrici di principi costituzionali di tutela del paesaggio, del suolo, del territorio e dell’ambiente in cui si sviluppa la persona umana e si proteggono gli imprescindibili valori di vita e salute.
Quanto al terzo quesito, circa la facoltà di opzione riservata all’ente locale,
la disposizione di legge regionale (art. 46, lett. b, della citata legge regionale) appare chiara nella sua formulazione, laddove consente in ogni caso all’amministrazione di richiedere, anziché la diretta realizzazione delle opere a scomputo, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione previste nel piano attuativo e nella convenzione urbanistica, comunque mai inferiore agli oneri previsti dalla deliberazione comunale.
L’innovazione legislativa, conseguente all’abrogazione dell’avverbio “distintamente”, ha esclusivamente reso indifferenziata la sommatoria degli oneri previsti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nel caso in cui essi siano inferiori a quelli previsti. La differenza da corrispondere all’amministrazione, deve tener conto della somma globale, comprensiva delle quote riferibili ad entrambe le classi di opere di urbanizzazione e non della previsione distinta fra le due categorie di opere pubbliche da realizzare.
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Il sindaco del comune di Cantù (CO), mediante nota n. 42208 del 19.11.2014, ha posto un quesito in merito al riconoscimento dello scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria in favore di privati lottizzanti in attuazione di piani attuativi.
Nel testo del quesito il sindaco fa riferimento al precedente
parere 15.09.2008 n. 66 di questa Sezione di Controllo ed all’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2010 che ha modificato l’art. 46, comma 1, lett. b), della Legge regionale n. 12/2005.
Tale modifica ha eliminato l’avverbio “distintamente” dal contenuto normativo, per cui l’articolo in questione attualmente recita: art. 46, comma 1, lett. b), "la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale".
Per quanto sopra esposto, il sindaco chiede:
1. se sia legittimo il riconoscimento di uno scomputo globale e indifferenziato degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria a fronte dell'esecuzione diretta di opere di urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria di appartenenza se primarie o secondarie, pur avendo funzioni e scopi diversi come contenuto nella ratio della norma che distintamente definisce le due categorie di opere di urbanizzazione;
2. se il maggior valore realizzato in una delle due categorie di opere di urbanizzazione possa essere compensato con il minor valore delle opere realizzate nell'altra;
3. se sia comunque rimessa alla facoltà del comune la possibilità di richiedere la corresponsione della differenza in caso di minor valore di una delle due categorie di opere fino alla concorrenza dell'importo degli oneri risultante dall'applicazione delle tariffe comunali per la specifica categoria, pur se la somma complessiva delle opere previste sia comunque superiore all'importo globale degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, o alternativamente ne risulti preclusa la possibilità a fronte dell'intervenuta modifica normativa regionale;
4. se sia possibile che il comune, nell'esercizio della propria autonomia normativa, possa emanare una specifica norma regolamentare che vieti la compensazione globale fra oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
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Nel testo dell’interpello il sindaco fa riferimento al precedente
parere 15.09.2008 n. 66 di questa Sezione, esplicitando quattro connessi quesiti derivanti dal mutato quadro normativo in relazione all’abrogazione dell’avverbio “distintamente” prescritta dall’art. 21, comma 1, lett. g), della legge regionale n. 7 del 2010, modificativa, in parte qua, dell’art. 46, comma 1, lett. b), della Legge regionale n. 12/2005.
Orbene, con riferimento al primo quesito, il collegio ritiene che
non vi sia alcuna motivazione basata sull’interpretazione della modifica normativa che possa consentire il riconoscimento di uno scomputo globale e indifferenziato degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, a fronte dell'esecuzione diretta di opere di urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, posto che le due categorie di opere sono mantenute nella loro specificazione giuridica sia nell’attuale tessuto normativo dell’art. 45 della legge regionale n. 12/2015, sia nei commi 7 e 7-bis ed 8 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia).
Analogamente, venendo al secondo quesito, si ribadisce che
la normativa attualmente vigente non autorizza alcuna compensazione fra le due categorie di opere di urbanizzazione, poiché la legge regionale mantiene uno stringente vincolo di correlazione fra la tipologia delle opere da realizzare ed il calcolo degli oneri per cui accordare lo scomputo, con il correlato obbligo giuridico per il privato di realizzare tutte le opere di urbanizzazione primaria ed una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi (art. 46, lett. b, della citata legge regionale).
A sostegno di tale prospettazione,
la Sezione richiama la diversa natura giuridica ed utilità pubblica sottese alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, secondo uno schema contenuto nella legislazione nazionale (T.U. edilizia), le cui norme rivestono carattere cogente in quanto attuatrici di principi costituzionali di tutela del paesaggio, del suolo, del territorio e dell’ambiente in cui si sviluppa la persona umana e si proteggono gli imprescindibili valori di vita e salute.
Quanto al terzo quesito, circa la facoltà di opzione riservata all’ente locale,
la disposizione di legge regionale (art. 46, lett. b, della citata legge regionale) appare chiara nella sua formulazione, laddove consente in ogni caso all’amministrazione di richiedere, anziché la diretta realizzazione delle opere a scomputo, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione previste nel piano attuativo e nella convenzione urbanistica, comunque mai inferiore agli oneri previsti dalla deliberazione comunale.
L’innovazione legislativa, conseguente all’abrogazione dell’avverbio “distintamente”, ha esclusivamente reso indifferenziata la sommatoria degli oneri previsti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nel caso in cui essi siano inferiori a quelli previsti. La differenza da corrispondere all’amministrazione, deve tener conto della somma globale, comprensiva delle quote riferibili ad entrambe le classi di opere di urbanizzazione e non della previsione distinta fra le due categorie di opere pubbliche da realizzare.
Venendo, infine, al quarto quesito, il collegio ritiene che la risposta ai primi due renda assorbita la questione prospettata (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 23.02.2015 n. 83).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Si vuole sapere quale normativa sia applicabile per l’ipotesi in cui il privato parte della convenzione di lottizzazione (c.d. attuatore) o titolare del permesso di costruire abbia già assunto l’impegno alla realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201/2011 ma non abbia ancora chiesto il rilascio del permesso di costruire per tali opere complementari, né sia stata ancora bandita la gara per l’individuazione dell’appaltatore.
Detto in altri termini, si vuole sapere se il sopraggiungere del d.l. n. 201/2011 tra il perfezionarsi della convenzione edilizia ed il suo adempimento (mediante procedura negoziata) possa o meno rendere superflua la procedura negoziata stessa per l’individuazione del soggetto tenuto alla realizzazione delle opere di urbanizzazione accessorie ed imporre l’automatico affidamento dei lavori allo stesso soggetto titolare della convenzione medesima.
La novella introdotta dall’articolo 45 d.l. n. 210/2011 trova applicazione per le sole convenzioni edilizie concluse successivamente la sua entrata in vigore (conformemente, del resto, alla citata deliberazione dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici).
Resta ferma, naturalmente, la facoltà del privato e dell’amministrazione comunale di addivenire ad una modifica concordata della convenzione edilizia già stipulata conformemente alla nuova facoltà prevista dall’articolo 16, comma 2-bis, del DPR 380/2001.

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Il sindaco del comune di Samarate, con nota n. 4428 del 28.02.2012, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine alle modalità di affidamento e realizzazione delle opere di urbanizzazione connesse al rilascio di un permesso di costruire.
In particolare, il comune di Samarate precisava quanto segue:
- che con l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011 veniva modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001 con l’inserimento del comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163";
- che pertanto le opere di urbanizzazione di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria non devono più essere affidate mediante procedura di gara ma sono direttamente a carico del titolare del permesso di costruire;
- che l’onere sopportato dal titolare del permesso di costruire viene poi compensato con l’importo dovuto dallo stesso al comune a titolo di contributo costo di costruzione ex art. 16, comma 3, DPR 380/2001.
Sulla base di tali premesse, il Sindaco dell’ente locale formulava il seguente duplice quesito:
a) se, qualora il privato “lottizzante” o titolare del permesso di costruire abbia già assunto –con atto convenzionale sottoscritto e registrato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201/2011– l’obbligo di eseguire, a scomputo degli oneri, delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria con procedura di gara, sia possibile procedere all’affido diretto delle opere da realizzare ai sensi del novellato articolo 16, comma 2-bis, d.p.r. 380/2001 oppure occorra rispettare la previgente disciplina e procedere all’affidamento mediante procedura negoziata, tenendo presente che ancora non è stata presentata istanza per il rilascio del permesso di costruire relativamente alle suddette opere di urbanizzazione;
b) la tipologia di atto amministrativo da adottare per integrare l’originaria convenzione edilizia al fine di affidare direttamente l’esecuzione al privato.
...
La questione proposta dal sindaco del comune di Samarate concerne l’individuazione della normativa applicabile per la realizzazione degli interventi di urbanizzazione connessi al rilascio di un permesso di costruire (o alla conclusione di un convenzione di lottizzazione) antecedentemente l’intervento dell’articolo 45 del decreto legge n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011.
Con tale articolo è stato inserito, all’interno del corpo dell’articolo 16 del D.P.R. n. 380/2001, il comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163".
Tale normativa, come risulta dall’articolo 50 del d.l. n. 201/2011, è entrata in vigore il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e cioè il 06.12.2011.
Prima dell’intervento del citato decreto legge 201, il combinato disposto degli artt. 32, comma 1, lett. F), 57, comma 6, e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti) imponevano che l’individuazione del soggetto incaricato della realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria di valore inferiore alla soglia comunitaria avvenisse mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara.
In seguito al citato intervento normativo, con riferimento ai lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria viene espressamente esclusa l’applicabilità del Codice dei contratti e viene previsto (non come obbligo ma come possibilità) l’automatico affidamento dei lavori al titolare del permesso di costruire, lavori il cui costo andrà compensato (c.d. scomputo) con gli oneri dovuti dal medesimo titolare come contributo al costo di costruzione.
In tale successione normativa si pone il quesito proposto dal comune di Samarate.
Si vuole sapere, in sintesi, quale normativa sia applicabile per l’ipotesi in cui il privato parte della convenzione di lottizzazione (c.d. attuatore) o titolare del permesso di costruire abbia già assunto l’impegno alla realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 201/2011 ma non abbia ancora chiesto il rilascio del permesso di costruire per tali opere complementari, né sia stata ancora bandita la gara per l’individuazione dell’appaltatore.
Detto in altri termini, si vuole sapere se il sopraggiungere del d.l. n. 201/2011 tra il perfezionarsi della convenzione edilizia ed il suo adempimento (mediante procedura negoziata) possa o meno rendere superflua la procedura negoziata stessa per l’individuazione del soggetto tenuto alla realizzazione delle opere di urbanizzazione accessorie ed imporre l’automatico affidamento dei lavori allo stesso soggetto titolare della convenzione medesima.
Per la soluzione del quesito è opportuno ricordare quali sono le modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione “a scomputo”.
L’articolo 32, comma 1, lett. F), del d.lgs. n. 163/2006 prevede, per l’esecuzione “a scomputo” di opere di urbanizzazione di importo superiore alla soglia comunitaria, “sia l'ipotesi della gara indetta dal privato per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia l'ipotesi dell'esercizio da parte dell'amministrazione delle funzioni di stazione appaltante. Infatti, la norma dispone che l'amministrazione che rilascia il permesso di costruire può prevedere che il soggetto che richiede tale permesso presenti con la relativa istanza un "progetto preliminare" delle opere da eseguire, allegando lo schema del contratto di appalto; sulla base di tale progetto l'amministrazione potrà quindi indire una gara. In sostanza, quando il privato sceglie di eseguire opere di urbanizzazione invece di pagare i relativi oneri, si può prevedere che lo stesso gestisca interamente la procedura ovvero che una parte del procedimento (la gara) sia da gestita dall'amministrazione” (
determinazione 16.07.2009 n. 7  Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici).
Analoga alternativa riguardava, antecedentemente il d.l. n. 201/2011, i lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Il rinvio operato dall'articolo 122, comma 8, all'articolo 32, richiama infatti le due distinte modalità di realizzazione delle opere a scomputo previste dalla norma citata ovvero:
a) il privato titolare del permesso di costruire applica per la realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione la procedura prevista dall'articolo 57, comma 6, del Codice;
b) la pubblica amministrazione acquisisce dal privato titolare del permesso di costruire il progetto preliminare e bandisce la gara per la realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione e procede applicando la procedura prevista dall'articolo 57, comma 6, del Codice.
Dunque,
l’interesse del privato, titolare del permesso di costruire o della convenzione di lottizzazione, alla realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione doveva trovare espressa previsione nell’atto convenzionale stipulato con l’Amministrazione (nella stessa convenzione edilizia o in altro atto a latere).
Tale atto convenzionale, appartenente alla categoria degli accordi sostitutivi del provvedimento di cui all’articolo 11 legge n. 241/1990, vincola le parti conformemente ai principi del codice civile.

Da esso sorge, detto in altri termini, l’obbligo per il privato (o per l’ente locale) di dar corso alla procedura negoziata, conformemente alla normativa in vigore al momento in cui è sorto.
Il sopravvenire del decreto n. 201/2011 non può quindi incidere, salvo diverso accordo delle parti, su una fattispecie in cui diritti ed obblighi reciproci (sotto il profilo esecutivo) sono già definiti contrattualmente. E’ chiaro, infatti, che diversamente opinando una delle parti dell’accordo vedrebbe irrimediabilmente leso il suo interesse consolidato nell’accordo pattizio.
Riassumendo quanto esposto, in relazione al quesito posto dal comune di Samarate va quindi precisato che
la novella introdotta dall’articolo 45 d.l. n. 210/2011 troverà applicazione per le sole convenzioni edilizie concluse successivamente la sua entrata in vigore (conformemente, del resto, alla citata deliberazione dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici).
Resta ferma, naturalmente, la facoltà del privato e dell’amministrazione comunale di addivenire ad una modifica concordata della convenzione edilizia già stipulata conformemente alla nuova facoltà prevista dall’articolo 16, comma 2-bis, del DPR 380/2001
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 14.03.2012 n. 64).

IN EVIDENZA

Come correttamente verificare gli spazi a parcheggio (minimi di legge) sia come standard urbanistico (Piani Attuativi) sia come legge Tognoli (edificazione singola).

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 30.05.2013 davamo conto di un 1° pronunciamento isolato (per quanto di nostra conoscenza) che (condivisibilmente) sconfessava la circolare esplicativa del Ministero dei Lavori Pubblici 28.10.1967 n. 3210 nel senso di dover conteggiare gli spazi a parcheggio detraendo gli spazi di accesso e di manovra nonché le porzioni non utilizzabili per forma o per ridotte dimensioni.
     Ebbene, abbiano trovato altre due sentenze che vanno in tale direzione, con nuovi interessanti spunti di riflessione ... buona lettura.
03.07.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla sottrazione delle aree destinate obbligatoriamente a standard nell’area in esame, previa trasformazione compensativa tramite l’istituto della monetizzazione.
Sulla illegittima sdemanializzazione di 77 parcheggi vincolati ad uso pubblico e l’inserimento degli stessi tra le aree comunali da vendere.
Il tema è stato oggetto di una recente decisione. Invero, si è osservato come il Consiglio di Stato ha già 'delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi’.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come ‘la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area’.
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’.
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Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata”, in una situazione di stretta interdipendenza, tale da determinare “la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard”.
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Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la decisione di sopprimere un parcheggio pubblico destinato a soddisfare la previsione di standard, che come si è detto si localizzano funzionalmente nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una solo ipotetica e futura destinazione delle somme conseguite a seguito della monetizzazione, ossia della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso di riscontrare l’assunto della fondamentale indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia l’impossibilità di privare un’area della sua dotazione minima di standard senza una contestuale, effettiva e funzionale indicazione di altre aree di parcheggio idonee a salvaguardare il requisito minimo ex lege.
In concreto, usando le categorie tradizionali dell’atto amministrativo, l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per garantire la legittimità dell’insediamento realizzato, priva l’azione amministrativa di un suo necessario presupposto, rendendola così illegittima.

4. - Il secondo sentiero contenzioso trae origine dalla deliberazione del consiglio comunale n. 103 del 20.12.2011, con la quale il Comune decideva: a) la sdemanializzazione e b) l’inserimento tra le aree comunali da vendere (quali parcheggi privati) dei 77 posti auto interrati in questione.
Con successiva ordinanza l’amministrazione, in previsione della vendita di tali posti auto, poneva un divieto di sosta sugli stessi, riservandoli ad alcuni cittadini che erano stati provvisoriamente privati delle loro autorimesse da lavori eseguiti per incarico del Comune.
Anche in questo caso, il condominio Europa ed alcuni condomini con ricorso iscritto al numero di R.G. 447 del 2012 impugnavano tali atti. A fondamento di tale ricorso i ricorrenti hanno dedotto le censure di: violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990; violazione dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 63 della L.R. n. 61/1985, non potendo le opere di urbanizzazione essere dismesse in favore di privati; violazione dell’art. 11 della L. n. 241/1990, per violazione della convenzione sottoscritta per l’urbanizzazione di una porzione del territorio comunale; eccesso di potere per falsità del presupposto, illogicità manifesta e travisamento dei fatti.
La sentenza impugnata del TAR per il Veneto ha respinto anche questa seconda serie di censure, ritenendo corretto il procedimento utilizzato dal Comune e dando vita alla seconda parte del contenzioso in grado di appello.
4.1. - Le censure proposte dalle parti appellanti, in relazione alla fase procedimentale di dismissione dei parcheggi, sono fondate e vanno accolte.
In disparte la ricostruzione operata in termini di nullità dei vizi gravanti sugli atti impugnati nel primo profilo del terzo motivo (sulla quale basta rinviare alla secolare elaborazione giurisprudenziale sulle patologie degli atti amministrativi per evidenziarne l’irrilevanza), ritiene la Sezione di doversi soffermare sul secondo profilo, dove viene lamentata la sottrazione delle aree destinate obbligatoriamente a standard nell’area in esame, previa trasformazione compensativa tramite l’istituto della monetizzazione.
Il primo giudice ha correttamente evidenziato la linearità della procedura utilizzata, giungendo così ad una considerazione conclusiva di legittimità dell’azione amministrativa.
Ha dapprima valutato la correttezza motivazionale della delibera gravata, in relazione alla impossibilità di garantire una utilizzazione collettiva di tali parcheggi, in ragione di una non eliminabile promiscuità tra lo spazio pubblico e quello dell’autorimessa privata (peraltro, derivante dal comportamento degli stessi condomini che aveva sempre occupato abusivamente i parcheggi pubblici, come acclarata dalla sentenza della Corte di Appello di Venezia n. 1858 del 12.07.2011).
Ha poi ritenuto del tutto compatibile il procedimento di rinuncia alla servitù pubblica e contestuale monetizzazione delle aree a standard per i parcheggi situati all’interno del condominio con i parametri urbanistici vincolanti posti dal D.M. 1444 del 1968 e dalle leggi regionali n. 61 del 1985 e 11 del 2004.
Su tale profilo, la Sezione ritiene però di dissentire, stante il proprio orientamento consolidato, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, di senso opposto.
Il tema è stato oggetto di una recente decisione (sentenza n. 616 del 10.02.2014, data peraltro proprio in relazione di una sentenza dello stesso TAR).
In quella occasione si è osservato come il Consiglio di Stato ha già “delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi’ (Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come ‘la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area’ (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’ (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.13 n. 2916)
.”
Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata”, in una situazione di stretta interdipendenza, tale da determinare “la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard”.
Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la decisione di sopprimere un parcheggio pubblico destinato a soddisfare la previsione di standard, che come si è detto si localizzano funzionalmente nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una solo ipotetica e futura destinazione delle somme conseguite a seguito della monetizzazione, ossia della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso di riscontrare l’assunto della fondamentale indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia l’impossibilità di privare un’area della sua dotazione minima di standard senza una contestuale, effettiva e funzionale indicazione di altre aree di parcheggio idonee a salvaguardare il requisito minimo ex lege. In concreto, usando le categorie tradizionali dell’atto amministrativo, l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per garantire la legittimità dell’insediamento realizzato, priva l’azione amministrativa di un suo necessario presupposto, rendendola così illegittima.
Per altro verso, appare non congruo il rinvio all’art. 32, comma 2, della legge regionale Veneto n. 11 del 23.04.2004 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, atteso che la detta disposizione (per cui “le aree per servizi devono avere dimensione e caratteristiche idonee alla loro funzione in conformità a quanto previsto dal provvedimento della Giunta regionale di cui all'articolo 46, comma 1, lettera b). Qualora all'interno del PUA tali aree non siano reperibili, o lo siano parzialmente, è consentita la loro monetizzazione ovvero la compensazione ai sensi dell'articolo 37”) è collegata a quella di cui al comma 1 (“Il conseguimento dei rapporti di dimensionamento dei piani urbanistici attuativi (PUA) è assicurato mediante la cessione di aree o con vincoli di destinazione d'uso pubblico”) e si riferisce eventualmente alla sola fase di adozione e approvazione del piano (in senso analogo, sebbene in relazione alla diversa situazione lombarda, Consiglio di Stato, sez. V, 17.09.2010 n. 6950 dove si evidenzia l’incompatibilità della monetizzazione “volta a supplire alla (presunta) carenza di standard che non sia stata considerata in sede di pianificazione attuativa”).
Tale circostanza si ripercuote quindi anche sul regime giuridico della successiva procedura di dismissione che ne è direttamente condizionata, in senso ovviamente negativo, e in relazione alle delibere emesse strumentalmente ad essa.
Conclusivamente, l’appello va accolto limitatamente alle doglianze contenute nel ricorso di prime cure n. 447 del 2012 e quindi limitatamente all’annullamento della deliberazione del Consiglio Comunale di San Donà di Piave del 20.12.2011 n. 103, dove ha deciso la sdemanializzazione e l'inserimento tra le aree comunali da vendere (quali parcheggi privati) dei 77 posti auto interrati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sul tema del rispetto degli standard urbanistici laddove ha nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio.
Questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi”.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area”.
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”.
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Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata.
Il che comporta come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica.
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La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi).
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Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio.

2.1. - La doglianza è fondata e va accolta.
Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio.
In questo senso, sono riscontrabili non solo interventi normativi (peraltro organizzati secondo prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato -come nel caso della legge 14.01.2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”- a marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e, dall’altro –come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 06.06.2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”– a renderne al contrario più flessibile e meno stringente il contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio, che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso su un tema così rilevante nella costruzione del tessuto urbanistico.
In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.2013 n. 2916).
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata.
Il che comporta, come già notato dalle decisioni che precedono, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica.
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale, 27.06.2012 n. 164).
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2014 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dall'01.01.2015 le progressioni economiche orizzontali sono sbloccate.
Le limitazioni al trattamento economico individuale dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, aventi fonte nei commi 1 e 21 dell’art. 9 del citato d.l. n. 78 del 2010, hanno esaurito la propria efficacia precettiva il 31.12.2014. Tale conclusione è indirettamente confermata dall’art. 1, comma 256, della legge di stabilità per il 2015, n. 190 del 2014.
Ne consegue che, in forza dell’ultima legge di stabilità, la protrazione delle dinamiche di contenimento retributivo del personale delle pubbliche amministrazioni ha interessato:
I) la procedura di contrattazione collettiva (art. 9, comma 17, del d.l. n. 78 del 2010);
II) i meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato (art. 9, comma 21, primo periodo);
III) le progressione di carriera economiche per il personale in regime di diritto pubblico, con le eccezioni individuate all’epoca dal legislatore (art. 9, comma 21, secondo periodo).
Tale conclusione risulta avvalorata dalla circolare del Ministero dell’economia e delle finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, n. 8 del 02.02.2015, che, nel paragrafo relativo al “Trattamento economico del personale”, chiarisce quanto segue: “a partire dal 01.01.2015 cessano, tra l'altro, ferma restando l'impossibilità di riconoscere arretrati per gli anni dal 2011 al 2014, gli effetti delle norme di contenimento delle spese di personale previste dall'articolo 9 del decreto legge n. 78/2010 concernenti il blocco dei trattamenti economici individuali (commi 1 e 2) ed il blocco economico delle progressioni di carriera comunque denominate e dei passaggi tra le aree (comma 21, terzo e quarto periodo), già oggetto della circolare n. 12/2011 del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato che, come noto, sono state prorogate fino al 31.12.2014 dal D.P.R. 04.09.2013, n. 122”.

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Il Sindaco del Comune di Verdello ha formulato una richiesta di parere in merito alla possibilità di effettuare progressioni economiche orizzontali negli enti locali.
In particolare, dopo aver ricostruito il quadro normativo, si riferisce che “Secondo taluni commentatori, il blocco non riguarderebbe le disposizioni del terzo e del quarto periodo. In particolare quest'ultima è quella che riguarda il personale contrattualizzato.
Al segretario comunale della scrivente amministrazione non pare evidente, dalla lettura non facile della predetta disposizione delle legge di stabilità, che il legislatore abbia voluto "sbloccare" per l'anno 2015 le progressioni economiche orizzontali negli enti locali, anzi una lettura attenta della norma di stabilità autorizzerebbe l' interpretazione contraria ovvero che anche per l'anno 2015, sarebbe in vigore il blocco delle suddette progressioni orizzontali in relazione alla situazione congiunturale della finanza pubblica e agli impegni assunti in sede europea sul contenimento della spesa pubblica in generale stante il disposto del ridetto comma 256 della legge di stabilità che ha prorogato le disposizioni evocate a tutto il 2015.
Si resta in attesa di conoscere una pronuncia di orientamento generale al fine di attuare, in vista della formazione dei contratti aziendali per l'anno in corso e delle risorse spendibili in termini finanziari, comportamenti in linea con le disposizioni di finanza pubblica in tema di contenimento dei costi del personale così come ribaditi nel citato art. 256
.”
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Il quesito verte sulla possibilità di effettuare progressioni economiche orizzontali negli enti locali. In particolare, dopo aver ricostruito il quadro normativo, si riferisce che “Secondo taluni commentatori, il blocco non riguarderebbe le disposizioni del terzo e del quarto periodo. In particolare quest'ultima è quella che riguarda il personale contrattualizzato.
Al segretario comunale della scrivente amministrazione non pare evidente, dalla lettura non facile della predetta disposizione delle legge di stabilità, che il legislatore abbia voluto "sbloccare" per l'anno 2015 le progressioni economiche orizzontali negli enti locali, anzi una lettura attenta della norma di stabilità autorizzerebbe l'interpretazione contraria ovvero che anche per l'anno 2015, sarebbe in vigore il blocco delle suddette progressioni orizzontali in relazione alla situazione congiunturale della finanza pubblica e agli impegni assunti in sede europea sul contenimento della spesa pubblica in generale stante il disposto del ridetto comma 256 della legge di stabilità che ha prorogato le disposizioni evocate a tutto il 2015.
Si resta in attesa di conoscere una pronuncia di orientamento generale al fine di attuare, in vista della formazione dei contratti aziendali per l'anno in corso e delle risorse spendibili in termini finanziari, comportamenti in linea con le disposizioni di finanza pubblica in tema di contenimento dei costi del personale così come ribaditi nel citato art. 256
.”
Sul punto si è già espressa la Sezione Liguria, con parere 01.04.2015 n. 29, che si richiama.
Il comma 1 dell’art. 9 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010 dispone che “Per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, non può superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l’anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d’anno, fermo in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all’estero, effettiva presenza in servizio, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo, e dall’articolo 8, comma 14”.
Il successivo comma 21 quanto segue: “I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all'articolo 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, così come previsti dall'articolo 24 della legge 23.12.1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici”.
In seguito, l'art. 16, comma 1, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, al fine di assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della spesa in materia di pubblico impiego, ha previsto la possibilità di disporre, con uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, la proroga di un anno dell'efficacia delle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa per il personale delle pubbliche amministrazioni. In virtù della descritta autorizzazione legislativa, l’art. 1, comma 1, lett. a), del DPR 04.09.2013, n. 122, ha disposto che “le disposizioni recate dall'articolo 9, commi 1, 2 nella parte vigente, 2-bis e 21 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, sono prorogate fino al 31.12.2014”.
In base a quanto esposto, pertanto, le limitazioni al trattamento economico individuale dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, aventi fonte nei commi 1 e 21 dell’art. 9 del citato d.l. n. 78 del 2010, hanno esaurito la propria efficacia precettiva il 31.12.2014.
Tale conclusione è indirettamente confermata dall’art. 1, comma 256, della legge di stabilità per il 2015, n. 190 del 2014, in base al quale “Le disposizioni recate dall'articolo 9, comma 21, primo e secondo periodo, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, come prorogate fino al 31.12.2014 dall'articolo 1, comma 1, lettera a), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 04.09.2013, n. 122, sono ulteriormente prorogate fino al 31.12.2015”.
In proposito, si ricorda che, sempre la legge di stabilità per il 2015, al comma 254, ha prorogato al 2015 il blocco della contrattazione collettiva nazionale disposto dal comma 17 del citato articolo 9, differendo, altresì, al 2018 la determinazione dell’indennità di vacanza contrattuale operata dall’art. 1, comma 452, della legge 27.12.2013, n. 147 (legge di stabilità 2014); cfr. art. 1, comma 255, della legge 23.12.2014, n. 190 (legge di stabilità 2015).
Ne consegue che, in forza dell’ultima legge di stabilità, la protrazione delle dinamiche di contenimento retributivo del personale delle pubbliche amministrazioni ha interessato: I) la procedura di contrattazione collettiva (art. 9, comma 17, del d.l. n. 78 del 2010); II) i meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato (art. 9, comma 21, primo periodo); III) le progressione di carriera economiche per il personale in regime di diritto pubblico, con le eccezioni individuate all’epoca dal legislatore (art. 9, comma 21, secondo periodo).
Tale conclusione risulta avvalorata dalla circolare del Ministero dell’economia e delle finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, n. 8 del 02.02.2015, che, nel paragrafo relativo al “Trattamento economico del personale”, chiarisce quanto segue: “a partire dal 01.01.2015 cessano, tra l'altro, ferma restando l'impossibilità di riconoscere arretrati per gli anni dal 2011 al 2014, gli effetti delle norme di contenimento delle spese di personale previste dall'articolo 9 del decreto legge n. 78/2010 concernenti il blocco dei trattamenti economici individuali (commi 1 e 2) ed il blocco economico delle progressioni di carriera comunque denominate e dei passaggi tra le aree (comma 21, terzo e quarto periodo), già oggetto della circolare n. 12/2011 del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato che, come noto, sono state prorogate fino al 31.12.2014 dal D.P.R. 04.09.2013, n. 122(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.06.2015 n. 218).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di installazione.
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), DPR 380/2001 rispetto alla nozione di installazione è indubitabile che non si richieda che l'opera sia "infissa". Il riferimento contenuto nella norma anche a campers e case mobili è inequivocabile in proposito; è sufficiente, quindi che essa sia "stabilmente appoggiata".
Non si richiede, però, che tale appoggio debba necessariamente avvenire al "suolo", sia perché la norma non fa alcun espresso riferimento a tale parola (richiamando piuttosto quella di "territorio"), sia perché una interpretazione restrittiva porterebbe alla sostanziale abrogazione della norma nella parte in cui fa riferimento ad imbarcazioni, che, per la loro naturale destinazione, galleggiano nelle acque e non sono appoggiate al suolo.

1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. Correttamente il Tribunale ha ritenuto sussistente il fumus del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001.
L'art. 3, comma 1, lett. e), DPR 380/2001 considera "interventi di nuova costruzione" quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, indicando poi, a titolo esemplificativo, che debbono considerarsi tali "l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee" (e.5).
E' significativo, innanzitutto, che la norma faccia riferimento a territorio, per tale dovendosi considerare anche le acque territoriali. Del resto l'indicazione, tra le opere che richiedono il permesso di costruire per la loro installazione, delle imbarcazioni non può che intendersi riferita al luogo di loro naturale "collocazione", vale a dire le acque.
Lo stesso articolo 3 cit., inoltre, adopera le parole "fuori terra o interrati" (lett. e.1) o "suolo inedificato" (lett. e.3) quando intende riferirsi, in modo specifico, alla "terraferma".
Sia pure a diverso fine (in tema di reati doganali) la giurisprudenza di questa Corte, anche se ormai datata, ha ritenuto commesso nel territorio dello Stato i reati in questione anche quando una parte dell'azione o atti costituenti tentativo o l'evento antigiuridico si siano verificati sul lido o nell'acque ad esso adiacenti, specificandosi che, quanto al mare territoriale, che l'art. 2 del codice della navigazione assoggetta alla sovranità dello Stato, deve valere la regola sancita dall'art. 6 del codice penale per la determinazione di reati che si considerano commessi nel territorio dello Stato (cfr. Cass. Sez. 3 n. 12069 del 10.05.1978, Pasqualino, Rv. 140088).
Non si è mai dubitato, infine, che la realizzazione di un pontile galleggiante (ovviamente in acqua) per l'ormeggio di imbarcazioni da diporto costituisca un'ipotesi di utilizzazione dl demanio marittimo per finalità turistiche e ricreative e sia quindi soggetta al rilascio di concessione (ora permesso di costruire), indipendentemente dal fatto che sia costituito o meno da una struttura muraria (Cass. sez. 3 n. 354 del 25.01.2000).
Anche la giurisprudenza amministrativa, di recente (cfr. TAR Toscana, sez. 3 n. 252 del 14.02.2013) ha ritenuto che, per la realizzazione di un pontile galleggiante da mantenersi per quattro anni, fosse necessario il permesso di costruire ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e).5, DPR 380/2001, non essendo sufficiente disporre della sola concessione demaniale marittima la quale consentiva soltanto l'occupazione dello specchio acqueo.
2.1. Posto che la norma, come si è chiarito in precedenza, considera come interventi di nuova costruzione, necessitanti quindi di permesso di costruire, anche quelli relativi ad imbarcazioni "insistenti" in acque territoriali,
bisogna verificare se ricorrano gli altri requisiti richiesti e cioè l'installazione, l'utilizzazione come abitazioni o come ambienti di lavoro o depositi, ed il soddisfacimento di esigenze non meramente temporanee.
Quanto alla nozione di installazione, è indubitabile che non si richieda che l'opera sia "infissa". Il riferimento contenuto nella norma anche a campers e case mobili è inequivocabile in proposito; è sufficiente, quindi, come del resto riconosce lo stesso ricorrente, che essa sia "stabilmente appoggiata" (pag. 5 ricorso).
Non si richiede, però, che tale appoggio debba necessariamente avvenire al "suolo", sia perché la norma non fa alcun espresso riferimento a tale parola (richiamando piuttosto quella di "territorio"), sia perché la prospettata interpretazione restrittiva porterebbe alla sostanziale abrogazione della norma nella parte in cui fa riferimento ad imbarcazioni, che, per la loro naturale destinazione, galleggiano nelle acque e non sono appoggiate al suolo. A meno di non ipotizzare, irragionevolmente ed in contrasto con la lettera e la ratio della norma, che il legislatore abbia inteso riferirsi ad imbarcazioni ... trasportate a terra ed appoggiate al suolo. Senza alcuna interpretazione in malam partem può, quindi, dirsi che anche le imbarcazioni galleggianti in acqua debbano considerarsi installate. Né si richiede che esse siano agganciate in modo stabile al fondo marino o alla terraferma.
E' pacifico, invero, (cfr. ex multis Cass. sez. 3 n. 25015 del 23.03.2011, Di Rocco, Rv. 250601) che sia configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva nell'ipotesi di installazione, senza permesso di costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze abitative (la fattispecie esaminata riguardava case prefabbricate munite di ruote gommate).
2.2. Passando all'esame degli altri due requisiti, il Tribunale, con motivazione adeguata ed immune da vizi,
ha ritenuto che le due imbarcazioni fossero, senza dubbio alcuno, utilizzate "come strutture ricettive paragonabili ad una attività alberghiera" (ha fatto riferimento in proposito alla pubblicità sui siti internet, con tariffe distinte per stagione) e per il soddisfacimento di esigenze non certo temporanee (l'attività era stata avviata nel marzo aprile del 20213 ed era proseguita fino al momento del sequestro avvenuto l'11.04.2014). L'utilizzazione delle due imbarcazioni per attività ricettiva presentava, quindi, i caratteri della stabilità (pag. 5 e ss. ord.).
Del tutto non pertinente è, pertanto, il richiamo al D.L.vo 18.07.2005 n. 171, che disciplina la normativa della nautica da diporto, che prevede sì l'utilizzo da parte della clientela di imbarcazioni ormeggiate e ferme, ma per esigenze temporanee e non come abitazioni o strutture ricettive con il carattere della stabilità.
3. Quanto al fumus del reato di cui all'art. 181 D.L.vo 42/2004, è orientamento costante di questa Corte che esso sia reato di pericolo e, pertanto, per la configurabilità dell'illecito, non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici.
Nelle zone paesisticamente vincolate è pertanto inibita, in assenza della prescritta autorizzazione, ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi opera non soltanto edilizia, ma di qualunque genere (ad eccezione degli interventi consistenti: nella manutenzione, ordinaria e straordinaria, nel consolidamento statico o restauro conservativo, purché non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici; nell'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, che non comporti alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie od altre opere civili e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico; nel taglio colturale, forestazione, riforestazione, opere di bonifica, antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste, purché previsti ed autorizzati in base alle norme vigenti in materia) -cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 16574 del 06.03.2007.
E non c'è dubbio che l'installazione in forma stabile e con destinazione ad attività ricettiva di due imbarcazioni in zona gravata da vincolo paesaggistico ambientale, dichiarata di notevole interesse pubblico con Decreto ministeriale 01.08.1985, senza nulla osta ambientale, integri il fumus del reato.
4. Quanto, infine, all'elemento soggettivo, si assume dal ricorrente che esso sarebbe escluso dall'avvenuto rilascio da parte dl Magistrato delle acque di Venezia di autorizzazione ad ormeggiare le imbarcazioni. Tale autorizzazione riguardava, però, soltanto l'ormeggio e non poteva certo esaurire ogni altra autorizzazione per la destinazione delle imbarcazioni, in modo stabile, ad una utilizzazione diversa da quella loro propria, come ha correttamente rilevato il Tribunale.
Ed è proprio tale "snaturamento" della destinazione ad escludere la configurabilità della dedotta buona fede.
Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte, non menzionando l'art. 321 cod. proc. pen. gli indizi di colpevolezza fra le condizioni di applicabilità del sequestro e non potendosi ritenere applicabile l'art. 273 stesso codice (dettato per le misure cautelari personali e non richiamato per quelle reali), ai fini dell'adozione del sequestro è sufficiente la presenza del fumus boni iuris e cioè l'ipotizzabilità del reato (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 1 n. 2396 del 25.03.1997).
Sicché "il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, e indipendentemente dall'accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell'agente o della sussistenza dell'elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all'adozione della misura cautelare reale" (cfr. ex multis Cass. pen. Sez. 6 n. 10618 del 23.02.2010; conf. sez. 1 n. 15298 del 04.04.2006).
Anche la parte minoritaria della giurisprudenza che "valorizza" l'elemento psicologico, ritiene che, nella valutazione del fumus commissi delicti, possa rilevare l'eventuale difetto  dell'elemento soggettivo del reato, sempre che sia di "immediata evidenza" (cfr. Cass. pen. sez. 2 n. 2808 del 02.10.2008) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.02.2015 n. 7047 - tratto da www.lexambiente.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Provincia (di Bergamo) - Nulla-osta per mobilità - Stracciato il protocollo d'intesa siglato con i sindacati (CGIL-FP di Bergamo, nota 30.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODecreto Enti Locali - Misure in materia di Polizia Provinciale (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.06.2015).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATARelazione legge 10, ecco il decreto con i nuovi modelli.
Pubblicato il decreto con i nuovi modelli di relazione tecnica di progetto ex legge 10, differenziati per tipologie di intervento e obbligatori dal primo ottobre 2015 (continua ...) (02.07.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decreti attuazione legge 90 e nuovo APE 2015, ecco i testi completi di allegati in PDF.
Decreti attuazione legge 90 e nuovo APE 2015, pubblicati i decreti requisiti minimi, linee guida e relazione tecnica. Ecco i documenti completi di allegati in formato PDF (continua ...) (02.07.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nuovo APE, ecco i casi di esclusione.
Quali sono gli immobili per cui non è necessario redigere l’APE? Ecco tutti i casi di esclusione previsti dal DM linee guida nuovo APE (continua ...) (02.07.2015 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 27 del 03.07.2015, "Gli orti di Lombardia. Disposizioni in materia di orti didattici, sociali periurbani, urbani e collettivi" (L.R. 01.07.2015 n. 18).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 03.07.2015, "Ammissione all’iscrizione al registro delle Unioni di Comuni lombarde e approvazione elenco Unioni di Comuni lombarde, in attuazione della d.g.r. n. 3304 del 27.03.2015 «Istituzione del registro delle Unioni di Comuni lombarde ai sensi dell’art. 20-bis della legge regionale n. 19 del 27.06.2008 «Riordino delle Comunità montane della Lombardia, disciplina delle Unioni di Comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali» e approvazione delle modalità di iscrizione e cancellazione»" (decreto D.S. 30.06.2015 n. 5463).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 02.07.2015, "Approvazione del programma energetico ambientale regionale (PEAR) integrato con la valutazione ambientale strategica (VAS)" (deliberazione G.R. 12.06.2015 n. 3706).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 dell'01.07.2015, "Modalità di pubblicazione dell’avviso al pubblico dell’istanza di verifica di assoggettabilità e delle decisioni dell’autorità competente in materia di VIA e di verifica di assoggettabilità" (comunicato regionale 25.06.2015 n. 97).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 30.06.2015 n. 149 "Adozione del modello semplificato e unificato per la richiesta di autorizzazione unica ambientale - AUA" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, decreto 08.05.2015).

APPALTI: G.U. 27.06.2015 n. 147 "Modifiche al regolamento sull’esercizio della funzione di componimento delle controversie di cui all’articolo 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (A.N.AC., delibera 27.05.2015).

APPALTI: G.U. 27.06.2015 n. 147 "Regolamento sull’esercizio della funzione di componimento delle controversie di cui all’articolo 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (A.N.AC., regolamento 27.05.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Durc on-line – Circolari Inps e Inail - Procedura - Sintesi delle principali indicazioni (ANCE di Bergamo, circolare 02.07.2015 n. 146).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Criteri per l’attivazione di servizi di rimozione e smaltimento dell’amianto (ANCE di Bergamo, circolare 26.06.2015 n. 143).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto Interministeriale 30.01.2015 - Semplificazione in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) (INPS, circolare 26.06.2015 n. 126 - link a www.inps.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva. Decreto interministeriale 30.01.2015 (INAIL, circolare 26.06.2015 n. 61).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC On-Line – prime note operative (Cassa Edile di Bergamo e Edilcassa Artigiana di Bergamo, nota 25.06.2015).

SICUREZZA LAVOROOggetto: Art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito relativo all'art. 96 del d.lgs. n. 81/2008 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 24.06.2015 n. 3/2015).
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Cantieri temporanei o mobili, obbligo piano operativo di sicurezza (Pos) per le imprese familiari.
Commissione interpelli: nei Pos delle imprese familiari non potrà essere indicata la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione né i nominativi degli addetti al primo soccorso.
Le imprese familiari, qualora si trovino a operare in un cantiere temporaneo o mobile, sono tenute a redigere il piano operativo di sicurezza (Pos).

Lo ha precisato la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro con la nota n. 3 del 24.06.2015, in risposta ai quesiti dell'Ugl/sanità.
La Commissione sottolinea che ai fini dell'applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro alle imprese familiari, di cui all'art. 230-bis del codice civile, si applica l'art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008.
CANTIERI TEMPORANEI O MOBILI, OBBLIGO DI REDIGERE IL POS. Qualora le suddette imprese si trovino ad operare all'interno di un cantiere temporaneo o mobile, ai sensi dell'art. 89, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 81/2008, esse devono redigere il piano operativo di sicurezza, come previsto dall'art. 96 del decreto.
Tale piano deve riportare tutti i punti dell'allegato XV, ad eccezione dei punti i cui obblighi non trovano applicazione nella fattispecie delle imprese familiari. A titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, nei Pos delle imprese familiari non potrà essere indicata la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i nominativi degli addetti al primo soccorso, ecc. (commento tratto da www.casaeclima.com).

SICUREZZA LAVOROOggetto: Art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni - risposta al quesito inerente i criteri generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 23.06.2015 n. 1/2015).
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Lavori stradali, i criteri di sicurezza per la segnaletica.
Le risposte del Ministero del lavoro all'istanza di interpello di Federcoordinatori.
Con l'interpello n. 1/2015 del 23.06.2015, il Ministero del Lavoro fornisce chiarimenti in merito al quesito, avanzato da Federcoordinatori, sui criteri generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare.
L'articolo 100 del D.Lgs. 81/2008 è relativo a un documento, il Piano di Sicurezza e Coordinamento, redatto dal Coordinatore per la Sicurezza. In nessuna parte del decreto si fa riferimento alla figura del Coordinatore per la Sicurezza se non per questo art. 100. Federcoordinatori ha chiesto “come dunque può rientrare la figura del Coordinatore in questo decreto? Quali i suoi compiti previsti? Considerato come i precedenti articoli siano riferiti tutti ad obblighi è possibile che invece che all'art. 100 si volesse far riferimento all'art. 90 relativo agli obblighi in capo al Committente o Responsabile dei lavori, tra cui vi è quello relativo la nomina del Coordinatore che redige il PSC?”.
LA RISPOSTA DEL MINISTERO. L'allegato XV, punto 2.2.1. lett. b), del d.lgs. 81/2008 stabilisce che il piano di sicurezza e coordinamento, di competenza del coordinatore per la sicurezza, deve contenere “l'analisi degli elementi essenziali di cui all'allegato XV.2, in relazione: […] all'eventuale presenza di fattori esterni che comportano rischi per il cantiere, con particolare attenzione ai lavori stradali ed autostradali al fine di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori impiegati nei confronti dei rischi derivanti dal traffico circostante.
Pertanto, il riferimento all'art. 100 del d.lgs. n. 81/2008 non appare inappropriato con le finalità del decreto in oggetto, anche se tra le figure elencate per l'applicazione dei criteri minimi, non è espressamente menzionato il coordinatore per la sicurezza
(commento tratto da www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Disposizioni in materia di tutela del patrimonio architettonico e di mitigazione del rischio sismico (MIBACT, circolare 30.04.2015 n. 15).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: D. Di Rosa, DURC on-line, come verificare la regolarità contributiva (01.07.2015 - tratto da www.ipsoa.it).
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Parte oggi la nuova gestione del Documento Unico di regolarità contributiva. Il DURC può essere richiesto esclusivamente con modalità telematiche dai soggetti abilitati o delegati e la verifica sarà effettuata in tempo reale e darà al documento una validità di 120 giorni.
Permane un periodo transitorio, fino al 31.12.2016, di utilizzo della vecchia procedura con esclusivo riferimento ad alcune specifiche fattispecie e agli eventuali casi di grave malfunzionamento del sistema online.
Quale è la nuova procedura alla luce dei chiarimenti forniti da INPS e INAIL?

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: F. Francia, DURC on-line: l’INAIL spiega la nuova procedura (30.06.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: DURC on-line: chiarimenti da INPS e INAIL (27.06.2015 - tratto da www.ipsoa.it).
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A decorrere dal 01.07.2015, la verifica della regolarità contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse Edili, avviene esclusivamente con modalità telematiche ed in tempo reale indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare. In attuazione della nuova normativa, l’INPS e l’INAIL hanno predisposto il nuovo servizio “Durc On-Line” e ne spiegano le modalità operative attraverso due circolari del 26.06.2015: la n. 126 per l’INPS e la n. 61 per l’INAIL.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: V. Gastaldo, LA SPETTANZA DEGLI EVENTUALI RISPARMI DI SPESA CONSEGUITI ALL'ESITO DELLA GARA PER LA REALIZZAZIONE DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE “A SCOMPUTO”  (dicembre 2013 - tratto da www.researchgate.net).
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SOMMARIO:
1. La disciplina delle opere di urbanizzazione - 2. A chi spettano i risparmi d'asta? - 3. La determinazione dell'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici – 4. Le delibere della Corte dei Conti del Veneto - 5. Considerazioni conclusive.

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Disciplina della ristrutturazione edilizia con aumento delle unità immobiliari, a seguito delle innovazioni apportate dal decreto sblocca Italia (D.L. n. 133 del 2014) (Regione Emilia Romagna, nota 01.07.2015 n. 466957 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni, votano tutti. Vietato escludere i consiglieri di maggioranza. Una siffatta norma regolamentare sarebbe a rischio di illegittimità.
L'elezione del presidente della commissione consiliare di garanzia e controllo -che deve essere individuato in un componente di opposizione- può avvenire con la partecipazione di tutti i membri della commissione medesima, oppure può essere effettuata escludendo dal voto il gruppo riconducibile alla maggioranza consiliare?

L'istituto delle commissioni di indagine è previsto dall'art. 44, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, recante «garanzia delle minoranze e controllo consiliare»; il citato articolo, al comma 1, prevede l'istituzione facoltativa delle commissioni consiliari aventi funzioni di controllo e garanzia, attribuendo alle opposizioni, a tutela delle minoranze, la presidenza delle stesse e demandando allo statuto dell'ente la specificazione delle forme di garanzia e partecipazione delle minoranze.
Nella fattispecie in esame, il regolamento sul funzionamento del consiglio del comune dispone che la Commissione di garanzia e controllo, la cui istituzione è prevista dallo statuto, funziona secondo le modalità e le procedure stabilite per le commissioni permanenti; tale fonte normativa non reca, però, indicazioni in ordine alla procedura preordinata alla elezione del presidente.
Circa la possibilità di ammettere al voto i soli membri di opposizione in assenza di un'apposita normativa che lo preveda, il Consiglio di stato, chiamato a pronunciarsi in ordine alla metodica del cosiddetto «voto separato», ha osservato che «l'unitarietà del consiglio comunale può essere incisa solo in base ad una norma che esplicitamente lo consenta non in forza di operazioni interpretative di contenuto incerto» (cfr sentenza Consiglio di stato, V sez. n. 3432/2007).
Quanto alla opportunità di introdurre una norma regolamentare limitativa del diritto di elettorato attivo dei consiglieri di maggioranza, tale previsione potrebbe esporre la relativa disposizione al rischio di annullamento a seguito di eventuale impugnativa. Ciò alla luce del principio di subordinazione gerarchica che regola il rapporto tra una fonte di secondo grado, quale il regolamento sul funzionamento del consiglio, e la legge statale che costituisce il fondamento giuridico del diritto al voto dei consiglieri in ordine alla elezione del presidente della commissione di cui siano componenti, ancorché tale figura debba essere rivestita da un esponente della parte politica avversa (articolo ItaliaOggi del 26.06.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Mini-Enti.
Il sindaco di un comune con una popolazione inferiore a 3.000 abitanti, che ha rinnovato i propri organi a seguito delle elezioni amministrative del maggio 2011, può nominare un terzo assessore?

La determinazione numerica degli assessori rientra nella materia «organi di governo» dei comuni rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello stato.
Nel caso di specie, la composizione numerica della giunta, costituitasi a seguito dell'insediamento della nuova amministrazione, eletta in base alle consultazioni amministrative, avrebbe dovuto essere conformata alle disposizioni recate dall'art. 2, comma 185, della legge n. 191/2009, come integrato dall'art. 1, comma 2 della legge n. 42/2010, che ha modificato l'art. 47 del decreto legislativo n. 267/2000.
Pertanto, ai sensi della citata normativa, la giunta avrebbe potuto essere composta da tre componenti. Nell'ambito degli interventi volti al contenimento della spesa pubblica, con l'art. 16, comma 17, del decreto legge n. 138/2011, convertito con legge n. 148/2011, il legislatore è intervenuto nuovamente per contenere il numero dei componenti degli organi collegiali nei comuni compresi nella fascia demografica fino a 10.000 abitanti e, in ragione di tali modifiche, il numero massimo di assessori consentito per i comuni fino a 3.000 abitanti è ridotto a due.
A seguito della normativa da ultimo citata, è stata emanata dal ministero dell'interno apposita circolare, datata 16/02/2012, con la quale è stato precisato che le ulteriori riduzioni previste avrebbero operato a decorrere dal primo rinnovo di ciascun consiglio comunale successivo alla data di entrata in vigore della legge n. 148/2011, intervenuta in data 17.09.2011.
Pertanto, la giunta del comune in oggetto potrà essere integrata con la nomina di un terzo componente (articolo ItaliaOggi del 26.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Cartelli di esercizi commerciali e di vendita immobiliare. Imposta di pubblicità.
Ai fini dell'applicazione delle esenzioni dall'imposta di pubblicità previste dall'art. 17, D.Lgs. n. 507/1993, in particolare di quella di cui al comma 1-bis, riferita all'insegna di esercizio, il Ministero dell'economia e delle finanze ha richiamato la definizione di 'insegna di esercizio' formulata dal legislatore con il comma 6 dell'art. 2-bis del D.L. n. 13/2002, secondo cui l'insegna è la scritta di cui all'art. 47, D.P.R. n. 495/1992, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica.
Al riguardo, il Ministero ha precisato che l'insegna, oltre all'indicazione del nome del soggetto o della denominazione dell'impresa che svolge l'attività, può evidenziare anche la tipologia e la descrizione dell'attività esercitata, nonché i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti.

Il Comune illustra le caratteristiche di cartelli di esercizi commerciali, in relazione ai quali chiede se sia dovuta l'imposta di pubblicità, o se si versi, invece, nelle ipotesi di esenzione, in particolare per le insegne di esercizio, previste dalla normativa vigente in materia, di cui al D.Lgs. n. 507/1993
[1]. Il Comune, con riferimento ai cartelli di vendita immobiliare, pone altresì la questione dell'esenzione o meno dall'imposta, in relazione alle loro misure e al luogo di posizionamento.
Risulta opportuno precisare, in via preliminare, che l'attività di questo Servizio consiste nella rappresentazione in generale del quadro giuridico, normativo e giurisprudenziale, inerente alle tematiche poste, tenuto altresì conto delle indicazioni contenute nelle circolari degli organi amministrativi competenti, in modo da fornire agli enti locali un supporto per la soluzione dei singoli casi concreti.
L'art. 17 del D.Lgs. n. 507/1993 elenca le fattispecie pubblicitarie che godono dell'esenzione dal tributo, in particolare, al comma 1-bis -inserito dall'art. 10, comma 1, lett. c), L. n. 448/2001
[2]- prevede che l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati.
Il Ministero dell'economia e delle finanze è più volte intervenuto a fornire chiarimenti in ordine alle modalità di applicazione dell'imposta di pubblicità. E così, nelle circolari esplicative ha sottolineato che l'esenzione di cui al comma 1-bis è applicabile ai soli mezzi pubblicitari che possono definirsi 'insegne di esercizio'
[3] ed ha richiamato, al riguardo, la definizione formulata dallo stesso legislatore con il comma 6 dell'art. 2-bis del D.L. n. 13/2002, secondo cui l'insegna è la scritta di cui all'art. 47 del D.P.R. n. 495/1992, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica, vale a dire 'la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta' [4].
In base a tale definizione, l'insegna, oltre all'indicazione del nome del soggetto o della denominazione dell'impresa che svolge l'attività, può evidenziare anche la tipologia e la descrizione dell'attività esercitata, nonché i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti
[5].
Non possono, invece, essere definite 'insegne di esercizio' le scritte relative al marchio del prodotto venduto nel caso in cui siano contenute in un distinto mezzo pubblicitario, che viene, cioè, esposto in aggiunta ad un'insegna di esercizio, poiché questa circostanza manifesta chiaramente l'esclusivo intento di pubblicizzare i prodotti in vendita. In quest'ultimo caso, risultano esenti dal pagamento del tributo le insegne di esercizio la cui superficie complessiva non superi il limite dimensionale di 5 metri quadrati, mentre vanno assoggettati a tassazione i distinti mezzi pubblicitari che espongono esclusivamente il marchio
[6].
Il Ministero ha altresì fornito delle esemplificazioni delle scritte apprezzabili come insegne di esercizio, tra le altre:
- la generica indicazione della tipologia dell'esercizio commerciale (ad esempio, con la semplice scritta "Bar" o "Alimentari");
- la precisa individuazione dell'esercizio commerciale (ad esempio: "Bar Bianchi" o "Alimentari Azzurri");
- la generica individuazione dell'esercizio commerciale realizzata con l'indicazione del nominativo del titolare (ad esempio, la semplice scritta 'da Giovanni');
- l'indicazione, precisa o generica, della tipologia dell'esercizio commerciale accompagnata nel contesto dello stesso mezzo pubblicitario, da simboli o marchi relativi a prodotti in vendita (ad esempio: "Bar Alfa-Caffè Beta").
Le fattispecie esemplificative del Ministero sono espressamente dettate per andare incontro alle numerose richieste dei comuni su casi specifici, e dovrebbero dunque già di per sé fornire agli enti locali gli strumenti per applicare in modo corretto l'imposta di pubblicità nelle diverse situazioni concrete in relazione alle loro particolarità.
In via collaborativa si possono, comunque, formulare delle considerazioni muovendo dagli esempi indicati dal Ministero. E così sembra potersi osservare che nelle scritte qualificabili come insegne sono contenuti il nome dell'operatore economico, la mera tipologia dell'attività esercitata (bar, alimentari), il marchio commercializzato
[7], mentre non compaiono in alcuna delle fattispecie tipizzate riferimenti a qualità dei prodotti [8]. Peraltro, appaiono consentite anche descrizioni dell'attività esercitata [9].
Una tale lettura appare del resto coerente con il tenore letterale del comma 1-bis dell'art. 17 del D.Lgs. n. 507/1993, che parla di insegne di esercizio che 'contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono', per cui ben rientrano nella definizione quegli elementi, quali il nome, la tipologia e la descrizione dell'attività esercitata, nonché i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti
[10], idonee ad indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività commerciale o di produzione di beni o servizi [11].
Per quanto concerne l'assoggettamento all'imposta di pubblicità dei cartelli di compravendita immobiliare, ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 507/1993, comma 1, lett. b), sono esenti dall'imposta, tra gli altri, gli avvisi al pubblico riguardanti la locazione o la compravendita degli immobili sui quali sono affissi, di superficie non superiore ad un quarto di metro quadrato.
Al riguardo, il Comune chiede se il limite dimensionale indicato dalla norma (un quarto di metro quadrato) sia da intendersi riferito alla superficie complessiva dei cartelli di compravendita (o locazione) apposti, nel senso di ritenersi superato dalla somma degli stessi, e se detti cartelli possano essere affissi anche sulle pertinenze dell'immobile o nelle parti comuni del condominio.
Per quanto concerne le dimensioni dei cartelli di compravendita/locazione immobiliare da rispettare per beneficiare dell'esenzione dall'imposta di pubblicità, si osserva che la formulazione testuale della previsione normativa in commento, per questa specifica tipologia di cartelli, non precisa 'superficie complessiva'. Ed invero, laddove il legislatore ha voluto esprimersi in tal senso, lo ha esplicitamente fatto al comma 1-bis dell'art. 17, D.Lgs. n. 507/1993, relativamente alle insegne di attività commerciali e di produzione di beni o di servizi, esenti dall'imposta se volte a contraddistinguere la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono e se, appunto, di 'superficie complessiva fino a 5 metri quadrati'.
Il Comune osserva che con riferimento agli avvisi al pubblico di cui all'art. 17, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 507/1993, richiamato, esposti nelle vetrine o nelle porte di ingresso dei locali, il Ministero dell'economia e delle finanze
[12] ha riferito il relativo limite dimensionale inferiore a mezzo metro quadrato alla superficie complessiva di detti avvisi e chiede se sia possibile estendere queste considerazioni, per analogia, a tutte le fattispecie della lett. b), ivi inclusi i cartelli immobiliari.
Al riguardo, posto che per giurisprudenza costante
[13] 'le norme che concedono esenzioni fiscali, avendo carattere eccezionale, sono insuscettibili di interpretazione analogica', si segnala che la Corte di Cassazione [14] ha invece affermato che per gli avvisi al pubblico di cui all'art. 17, comma 1, lett. b), richiamato, l'esenzione opera purché essi non superino, ciascuno individualmente, la superficie di mezzo metro quadrato.
Pertanto, stante il tenore letterale della disciplina normativa dell'esenzione dei cartelli di compravendita/locazione immobiliare, che parimenti non specifica il limite dimensionale come riferito alla superficie complessiva, e tenuto conto di quanto affermato di recente dalla Corte di Cassazione in ordine al rispetto di detto limite per ciascun cartello singolarmente, si ritiene opportuno suggerire all'Ente di chiedere un chiarimento ai competenti organi statali specificamente per i cartelli di compravendita/locazione immobiliare.
Allo stesso modo, si ritiene che l'interpretazione dell'indicazione normativa dell'affissione dei cartelli di compravendita/locazione immobiliare 'sull'immobile', in particolare se la stessa vada intesa come comprensiva anche delle pertinenze, debba provenire dai competenti organi statali. Infatti, posta la giurisprudenza restrittiva richiamata in ordine all'interpretazione analogica delle norme di esenzione fiscale, si osserva che un'espressa indicazione anche delle pertinenze è prevista dal legislatore unicamente con specifico riferimento all'esenzione per le insegne di esercizio (art. 1, comma 1-bis, D.Lgs. n. 507/1993), quali installate nella sede dell'attività a cui si riferiscono o nelle pertinenze accessorie alla stessa (art. 47, D.P.R. n. 445/1992, richiamato)
[15].
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[1] D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, recante: 'Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale'.
[2] L. 28.12.2001, n. 448 (Legge Finanziaria 2002).
[3] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare 08.02.2002, n. 1.
[4] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare 03.05.2002 n. 3; circolare 19.03.2007, n. 11159.
[5] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare 19.03.2007, n. 11159; nello stesso senso, Ministero dell'economia e delle finanze, circolare 03.05.2002 n. 3.
[6] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n. 11159/2007, cit.. Nello stesso senso, Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n. 3/2002, ove si precisa, peraltro, che la presenza, nell'ambito dello stesso mezzo pubblicitario, delle indicazioni relative al marchio del prodotto venduto, non fa in alcun modo venire meno la natura di insegna di esercizio; ciò del resto trova espressa legittimazione nella stessa nozione contenuta nel citato art. 47 del DPR n. 495 del 1992, che stabilisce, appunto, che la scritta distintiva della sede di svolgimento dell'attività economica può essere 'completata eventualmente da simboli o da marchi'.
[7] Fermo restando, come chiarito sopra, che l'aggiunta di uno o più cartelli distinti raffiguranti esclusivamente il marchio comporta, invece, l'applicazione dell'imposta di pubblicità su detti cartelli.
[8] E così sembrano non poter beneficiare dell'esenzione quei cartelli ove si esaltano le qualità e i benefici dei prodotti venduti al fine di migliorarne l'immagine con indicazioni ulteriori rispetto a quelle identificative dell'attività economica esercitata.
[9] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n. 11159/2007, cit..
[10] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n. 11159/2007, cit..
[11] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n. 3/2002, cit..
[12] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n. 11159/2007, cit..
[13] Cass. civ., sez. un., 25.05.2009, n. 11986; Cass. civ., sez. I, 09.08.1990, n. 8111.
[14] Cass. civ., sez. VI, 16.10.2014, n. 21966.
[15] Cfr. Cass. civ., sez. V, 30.10.2009, n. 23021; Cass. civ., sez. V, 06.12.2011, n. 26174
(25.06.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: DURC on-line e AVCpass. Dal 1° luglio la verifica della regolarità contributiva potrà avvenire solo tramite l’acquisizione del DURC.
L'ANAC e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali rendono noto che, a decorrere dal 01.07.2015, la verifica della regolarità contributiva ai fini dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti, ai sensi dell’art. 38, d.lgs. n. 163/2006, non potrà più avvenire attraverso il sistema AVCpass, ma esclusivamente attraverso la nuova procedura di acquisizione del DURC nelle modalità previste dal decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 30.01.2015 (G.U. n. 125 del 01.06.2015), così come specificate dallo stesso Ministero con circ. n. 19/2015.
Ciò in ragione della espressa previsione di legge secondo la quale la nuova modalità di acquisizione del DURC “assolve all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera i) del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici” istituita presso l’Autorità Nazionale Anticorruzione (art. 4, comma 3, D.L. n. 34/2014).
Le richieste acquisite tramite il sistema AVCpass fino al 30.06.2015 saranno comunque evase regolarmente secondo le vigenti modalità (30.06.2015 - link a www.

APPALTIAvcpass in pensione. Dal 01.07.2015.
Dal 1° luglio la verifica della regolarità contributiva per partecipare alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti non avverrà più con il sistema Avcpass, ma attraverso la nuova procedura di acquisizione del Durc, come previsto dal Dm Lavoro 30.01.2015 e specificato nella circolare n. 19/2015.

Lo hanno comunicato il Ministero del lavoro e l’Anac nel comunicato stampa congiunto 25.06.2015 diffuso ieri.
La nuova modalità di acquisizione del documento unico di regolarità contributiva, infatti, assolve all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale previsto dall’articolo 38, comma 1, lettera i), del Dlgs 12.04.2006 n. 163 presso la banca dati nazionale dei contratti pubblici istituita presso l’Autorità nazionale anticorruzione.
Il comunicato congiunto di Anac e ministero, inoltre, ha precisato che in ogni caso le richieste acquisite tramite il vecchio sistema Avcpass fino al 30.06.2015 saranno evase regolarmente secondo le regole a tutt’oggi in vigore (articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Regolarità contributiva, sistema AVCpass in soffitta.
Dal 1° luglio chiude il sistema AVCpass per la verifica della regolarità contributiva ai fini dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e di appalti. La verifica andrà fatta esclusivamente attraverso la nuova procedura di acquisizione del Durc online.

Lo precisa il comunicato stampa congiunto 25.06.2015 diffuso ieri dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e dal Ministero del lavoro.
La novità è conseguenza dell'entrata in vigore, dal prossimo 1° luglio, della possibilità di fare verifiche in tempo reale se un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con i contributi e gli adempimenti nei confronti di Inps, Inail e cassa edili (quest'ultima soltanto per le aziende dell'edilizia ossia quelle che hanno il codice statistico contributivo, Csc, dell'edilizia).
Novità che, prevista dal dl n. 34/2014 (convertito dalla legge n. 78/2014), è stata attuata dal dm 30.01.2015, in vigore dal 16 giugno e che prevede, appunto, l'avvio della gestione online dal prossimo mese.
L'Anaca e il ministero del lavoro fanno sapere, a proposito, che a decorrere dal 1° luglio la verifica della regolarità contributiva ai fini dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti, ai sensi dell'art. 38, del dlgs n. 163/2006 (codice appalti), non potrà più avvenire attraverso il sistema AVCpass, ma esclusivamente attraverso la nuova procedura del Durc online.
Ciò in ragione dell'espressa previsione di legge secondo la quale la nuova modalità di acquisizione del Durc «assolve all'obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale di cui all'art. 38, comma 1, lett. i, del dlgs n. 163/2006, presso la banca dati nazionale dei contratti pubblici» istituita presso l'autorità nazionale anticorruzione (art. 4, comma 3, del citato dlgs n. 34/2014).
Le richieste acquisite tramite il sistema AVCpass fino al 30.06.2015 saranno comunque evase regolarmente, secondo le vigenti modalità (articolo ItaliaOggi del 26.06.2015).

ENTI LOCALI: Anticorruzione. Cda in house, redditi e patrimoni su internet.
Le società partecipate degli enti locali devono adempiere agli obblighi in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza, adeguando o adottando ex novo il modello organizzativo-gestionale.

Con la
determinazione 17.06.2015 n. 8 l’Anac offre un dettagliato quadro applicativo evidenziando, soprattutto in tema di applicazione della normativa sulla trasparenza, i differenti oneri per le società in house, per le altre società in controllo pubblico e per le società partecipate ma non controllate.
La prevenzione della corruzione deve essere attuata nelle società a controllo pubblico, secondo l’Anac, mediante l’adeguamento del modello adottato in base al Dlgs 231/2001 o, qualora la società non lo abbia, con la sua adozione.
L’analisi dei rischi deve essere rapportata al concetto di corruzione inteso in senso ampio, come qualsiasi distorsione dell’attività che possa procurare vantaggi a fini privati. A questo fine il modello ex 231 deve contenere una sezione nella quale devono essere precisate le misure di prevenzione, secondo lo schema generale definito dal Pna, raccordata al sistema di controllo interno, che deve essere eventualmente adeguato.
L’Anac sollecita le società ad adeguare i propri codici di comportamento al nuovo assetto anticorruzione, e le richiama, in linea complementare, a dare attuazione agli obblighi in materia di adozione del programma triennale della trasparenza e a prevedere un sistema di verifica delle situazioni di inconferibilità e di incompatibilità in base a quanto previsto dal Dlgs 39/2013.
Il complesso delle misure di prevenzione della corruzione poste in essere dalle società partecipate deve comprendere anche la verifica delle eventuali attività di ex dipendenti a favore di fornitori, un’intensa formazione, la rotazione dei dipendenti nelle aree a rischio e la definizione di strumenti di garanzia per i dipendenti che denuncino illeciti (whistleblowing).
L’Autorità evidenzia che l’intero pacchetto deve essere attuato sia nelle società partecipate direttamente sia in quelle a partecipazione indiretta, sempre nella linea del controllo del socio pubblico.
Per le società invece in situazione non di controllo gli oneri sono minori e si limitano a un adeguamento del modello 231 alla normativa anticorruzione.
In relazione alla trasparenza, invece, l’Anac delinea un quadro applicativo degli obblighi dettati dal Dlgs 33/2013 su tre livelli.
Le società in house sono i soggetti che devono dare completa attuazione agli obblighi del decreto in termini di massima corrispondenza con quanto previsto per gli enti locali soci, in quanto proprio la relazione organica con le amministrazioni ne comporta l’immedesimazione nell’applicazione delle misure di trasparenza dell’attività.
In tal senso, per esempio, le società in house dovranno pubblicare nella sezione amministrazione trasparente le dichiarazioni patrimoniali dei propri amministratori.
Per le altre società in situazione di controllo pubblico (ma non in house, ad esempio una società mista a capitale maggioritario pubblico) l’Anac evidenzia la necessaria pubblicizzazione degli elementi relativi all’organizzazione e alle attività di pubblico interesse.
Tuttavia in questa definizione devono essere ricomprese non solo le attività di gestione di un servizio pubblico, ma anche quelle strumentali al suo sviluppo, come l’attività contrattuale e quella di gestione delle risorse umane.
Per le società partecipate ma non in controllo pubblico gli oneri di trasparenza sono limitati ai dati sull’organizzazione e alle eventuali attività di pubblico interesse svolte (articolo Il Sole 24 Ore del 29.06.2015).

ENTI LOCALI: Obblighi «pieni» per le partecipate degli enti locali. Anticorruzione. La determinazione dell’Anac.
Le società partecipate e controllate dagli Enti locali devono adottare specifiche misure di prevenzione della corruzione e rispettare gli obblighi di trasparenza.

Con la determinazione 17.06.2015 n. 8, l’Autorità nazionale anticorruzione ha definitivamente dissipato i dubbi sull’applicazione della legge 190/2012 e del Dlgs 33/2013 alle società e agli altri organismi partecipati dalle amministrazioni locali, definendo in modo dettagliato gli adempimenti ai quali questi soggetti sono sottoposti, secondo la loro differente configurazione giuridica e in base al diverso livello di controllo pubblico.
L’Autorità prende in esame anzitutto le società in controllo pubblico, partecipate direttamente o indirettamente, tra le quali rientrano senza dubbio le società in house, chiarendo che devono adottare le misure per prevenire la corruzione.
Le società che hanno già adottato un modello organizzativo in base al Dlgs 231/2001 devono adeguarlo alla legge 190/2012 e al Pna (peraltro dovendo considerare, in relazione alle situazioni di rischio, anche le recenti novità in materia di reati ambientali), mentre per quelle che non lo hanno adottato, le amministrazioni controllanti (quindi gli enti locali soci di controllo) devono assicurarsi lo facciano. In ogni caso, le misure per la prevenzione della corruzione devono essere inserite nel documento illustrativo del modello 231 in una sezione specifica e devono essere facilmente identificabili. Nel caso di società indirettamente controllate, la capogruppo deve assicurarsi dell’adozione da parte di queste del Mog e delle misure anticorruzione.
Le società partecipate devono non solo sviluppare l’analisi del rischio, ma anche rivedere i propri modelli di controllo interno e i codici di comportamento.
Sul versante degli obblighi in materia di trasparenza, per le società in controllo pubblico l’Anac evidenzia la necessaria applicazione delle norme del Dlgs 33/2013 secondo lo schema previsto dall’articolo 11 del decreto. In tal senso devono essere soddisfatti gli obblighi di pubblicità inerenti dati e informazioni afferenti all’organizzazione delle società, nonché quelli riguardanti le attività di pubblico interesse.
Le attività strumentali come l’acquisto di beni e servizi o la realizzazione di lavori, oppure la gestione delle risorse umane e finanziarie sono anch’esse volte a soddisfare l’interesse pubblico e sono, pertanto, sottoposte agli obblighi previsti dalle norme sulla trasparenza.
Le società in controllo pubblico, inoltre, devono adottare il programma triennale per la trasparenza e costituire sul proprio sito la sezione amministrazione trasparente.
Per le società in house, invece, l’Anac delinea un quadro applicativo degli obblighi sulla trasparenza del tutto conforme a quello per gli Enti locali soci, senza alcun adattamento. Ciò in quanto pur non rientrando nel novero delle Pa in quanto organizzate secondo il modulo societario, esse sono affidatarie in via diretta di servizi e, pertanto, sono sottoposte a un controllo particolarmente significativo da parte delle amministrazioni, costituendone nei fatti una parte integrante.
Per le società partecipate non in situazione di controllo, la determinazione n. 8/2015 prefigura oneri meno rilevanti, mentre vengono a essere definiti in modo puntuale gli obblighi per gli altri enti di diritto privato in controllo pubblico (come le aziende speciali o le fondazioni), per i quali l’Anac fornisce anche alcuni parametri per valutare se sussista o meno la situazione di controllo pubblico
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Parole chiave: Anticorruzione – orientamento n. 57/2014 - funzioni svolte dal Comandante/Responsabile della Polizia locale – responsabilità di ufficio con competenze gestionali – impossibilità – conflitto di interessi – sussistenza.
Materia: anticorruzione
Sussiste un’ipotesi di conflitto di interesse, anche potenziale, nel caso in cui al Comandante/Responsabile della Polizia locale, indipendentemente dalla configurazione organizzativa della medesima, sia affidata la responsabilità di uffici con competenze gestionali, in relazione alle quali compie anche attività di vigilanza e controllo [orientamento 10.06.2015 n. 19 (in sostituzione 03.07.2014 n. 57) - link a www.autoritalavoripubblici.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: «I dipendenti restituiscano i premi». Corte dei conti: la «sanatoria» per le indennità illegittime erogate da Regioni ed enti locali vale solo fino al 2012.
Pubblico impiego. Almeno un miliardo in gioco - Nel mirino, tra le altre, Milano, Roma, Napoli, Firenze, Vicenza, Siena e Palermo.

I “premi” a pioggia, illegittimi, concessi da Regioni ed enti locali ai propri dipendenti dal 2013 in poi devono essere restituiti dai diretti interessati, perché la “sanatoria” parziale scritta dal Governo nel decreto salva-Roma ter, e applicabile solo quando l’amministrazione è in regola con il Patto di stabilità e i vincoli di spesa, non va oltre il 2012.
A riaprire uno dei problemi più spinosi per i dipendenti di Regioni, Province e Comuni è la Corte dei conti della Lombardia (delibera 25.06.2015 n. 224), che all’interno dei controlli di routine sui bilanci del Comune di Milano alza il tiro sui contratti decentrati e lancia una nuova bordata che va ben oltre Palazzo Marino: i soldi fuori regola finiti nelle buste paga dei dipendenti dal 2013 in poi devono essere richiesti agli stessi dipendenti che li hanno ricevuti, e non basta il recupero complessivo (che il Comune ha già effettuato) tramite tagli sui fondi degli anni successivi.
L’impatto dipende naturalmente dalla situazione individuale, ma i calcoli effettuati qua e là hanno portato nei casi più gravi a ipotizzare recuperi a rate mensili da 3-500 euro anche a carico di buste paga da 1.400-1.700 euro al mese.
A Milano, tutto sommato, il problema può essere dirompente per i singoli dipendenti ma non è enorme a livello complessivo, perché in gioco ci sono circa 11 milioni di euro. Il fatto, però, è che gli ispettori della Ragioneria generale e i magistrati della Corte dei conti hanno incontrato integrativi fuori regola quasi ovunque, e le stime più ottimiste parlano di almeno 1 miliardo di euro riconosciuto ai dipendenti violando questa o quella regola.
La stima è ottimista, in assenza di un censimento ufficiale, perché solo al Comune di Roma la Ragioneria ha contestato 525 milioni di euro finiti negli stipendi fra 2008 e 2013 (ai 315 milioni di troppo rilanciati nelle scorse settimane si aggiungono circa 200 milioni che sono illegittimi perché sono stati distribuiti in violazione dei contratti), a Napoli le obiezioni degli ispettori hanno riguardato più di 180 milioni, a Firenze 56 milioni, e poi ci sono i casi di Vicenza, Siena, Palermo, Reggio Calabria e i tanti Comuni non capoluogo.
Nella lista non mancano poi le Regioni, che hanno bilanci più grandi ma una struttura di personale diversa, e quindi si sono viste in genere contestare cifre più leggere: gli ispettori dell’Economia, comunque, hanno storto il naso in Liguria, Marche, Lazio, Molise, Calabria.
Sono state proprio le visite condotte in questi anni dagli ispettori di Via XX Settembre a sollevare il coperchio su una prassi diffusa a macchia d’olio, e mantenuta in questi anni di blocco contrattuale anche per evitare di far salire troppo la temperatura dei rapporti con il personale alle prese con buste paga «congelate». Il moltiplicarsi dei casi, e soprattutto l’emergere della maxi-contestazione romana, avevano spinto il Governo a scrivere una sanatoria per aggirare il problema più spinoso, quello della restituzione da parte dei singoli dipendenti, sostituendolo con i recuperi complessivi a carico dei fondi degli anni successivi.
Polemica politica e difficoltà tecniche, però, hanno partorito una norma (l’articolo 4 del Dl 16/2014) ai limiti dell’incomprensibile; al punto che ben tre ministeri (Economia, Funzione pubblica e Affari regionali) avevano promesso in una circolare congiunta nel maggio 2014 di emanare «norme» e «direttive» (all’Aran) per sciogliere «la particolare complessità» delle nuove regole: i tavoli tecnici si sono insediati in fretta, ma di «norme» e «direttive» condivise non si è vista nemmeno l’ombra, e la «particolare complessità» è rimasta tale.
Arriva qui l’intervento della Corte dei conti, che scioglie così il nodo: i recuperi compensativi possono bloccare le restituzioni individuali solo fino al 2012, ma per gli anni successivi il conto va chiesto ai singoli dipendenti anche se le indennità nascono da contratti integrativi siglati prima.
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Recuperi senza tasse e contributi. Il meccanismo. Vanno richieste le somme nette.
I recuperi individuali a carico dei dipendenti che negli anni sono stati beneficiati dalle indennità illegittime devono essere effettuati al netto di tasse e contributi. Per le altre voci, il Comune dovrebbe regolarsi con l’agenzia delle Entrate per quel che riguarda il Fisco, e con l’Inps (ovviamente nella gestione ex Inpdap) per la parte previdenziale.
Le istruzioni arrivano ancora una volta dalla Corte dei conti, ma in questo caso si tratta della sezione di controllo per il Lazio. Nella delibera 125/2015 pubblicata nei giorni scorsi, i magistrati contabili si sono occupati di un caso piuttosto specifico, la sommatoria delle indennità di turno e di lavoro festivo per i vigili urbani di Tarquinia, e quindi non si sono addentrati nel ginepraio della sanatoria tentata dal Governo lo scorso anno, ma hanno indicato un criterio generale da seguire quando si tratta di richiedere i soldi finiti illegittimamente nelle buste paga.
Il principio è semplice, ma l’applicazione rischia di rivelarsi complicatissima, al di là delle difficoltà politiche e sociali che qualsiasi operazione di questo tipo ovviamente incontra anche perché chiede conto ai singoli dipendenti degli effetti di scelte compiute in accordo da amministrazioni e sindacati.
Ai titolari delle buste paga, spiega comunque la delibera, vanno richieste solo le somme nette, perché tasse e contributi «non sono mai entrati nella sfera patrimoniale di disponibilità» dei lavoratori colpiti dall’illegittimità della quota variabile presente nei loro stipendi.
Il principio è di buon senso, oltre che fondato su solide basi giuridiche (come spiega la sentenza 18584/2008 della Cassazione), ma gli obblighi dell’ente non finiscono qui.
Abbassare ex post le buste paga alleggerisce di conseguenza anche le trattenute che su quegli stipendi andavano fatte, per cui i Comuni o le Regioni interessate dalla bocciatura dovrebbero ricalcolare il tutto, e bussare alle porte del Fisco per riavere le tasse versate in eccesso e degli enti previdenziali e assistenziali per riportare indietro i contributi di troppo. Tutti questi recuperi, chiosa la delibera, sono atti dovuti, perché sono legati «al perseguimento delle finalità di pubblico interesse alle quali sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate». In questa chiave, insomma, far finta di niente per evitare problemi esporrebbe al danno erariale.
La revisione dei contratti fuori regola, poi, prevede ovviamente un confronto con i sindacati che, come mostra (fra i tanti) il caso di Milano è complicato, soprattutto dopo anni di rinnovi congelati. Gli enti, però, possono procedere anche in via unilaterale, e per rispettare le regole possono usare i nuovi indirizzi appena dettati dall’Aran per la produttività (si veda anche Il Sole 24 Ore del 23 giugno). Anche in questo caso, il principio è semplice: la produttività può essere concessa solo a consuntivo, dopo una verifica puntuale dei risultati
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Spese legali nel caso di soccombenza: rimborso forfettario e riconoscimento del debito fuori bilancio.
È riconoscibile come debito fuori bilancio, in caso di sentenza esecutiva, il rimborso forfetario delle spese riconosciuto all'avvocato (nella misura massima del 15% del compenso) sulla base di quanto stabilito dalla legge 27/2012 e dal successivo Dm attuativo n. 140/2012.
Tali somme, in particolare, mirano a ristorare l'avvocato di quelle voci di spesa (ad esempio, quelle relative alla gestione dello studio, costo segreteria, fitto studio, abbonamenti riviste, acquisto libri), che sono effettive, ma che non possono essere riferite ed imputate ad una singola pratica.
Secondo il citato decreto «nei compensi non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario» e, di conseguenza, sulla base dell'art. 13, comma 10, della legge 247/2012 «oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive».
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Il Dm 55/2014 ha previsto che il rimborso spese forfettarie "di regola" avviene nella misura (massima) del 15% del compenso. Tale rimborso deve essere contabilizzato, ove dovuto, secondo le ordinarie regole giuscontabili dell'impegno, della liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento ovvero del riconoscimento di debito.
Nelle ipotesi in cui nell'anno di competenza finanziaria non sia stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l'unico modo di ricondurre il debito nella contabilità dell'ente (con effetto vincolante per l'amministrazione) è avviare, nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati, la procedura del riconoscimento di debito, ex articolo 194 del Tuel.
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Il Sindaco del Comune di Anagni, con nota acquisita al prot. n. 5700 del 10.12.2014, ha chiesto a questa Sezione la seguente richiesta di parere in materia di rimborso forfettario spettante agli avvocati per sentenze pronunciate dopo il 03.04.2014.
Premessa una breve ricostruzione del quadro ordinamentale, ha, in particolare, chiesto:
1. Se in caso di soccombenza, con condanna dell’Ente a pagare le spese di giudizio, ove il Giudice si limiti a liquidare le stesse con la formula «condanna parte soccombente alle spese di giudizio, liquidate in … oltre IVA e CPA», se sia dovuto anche il rimborso spese delle spese forfettarie ex art 13, comma 10, della legge n. 247/2012 e in quale misura”;
2. Se detto rimborso forfettario, debba formare oggetto di formale riconoscimento di debito, ex art. 194, comma 1, lett. a) del D.Lgs 267/2000, da parte del Competente Consiglio Comunale unitamente alla sentenza di condanna esecutiva, o se possa procedersi al pagamento di tale rimborso, mediante determinazione di impegno e successiva liquidazione, ex art. 183 e 184 TUELL”.
...
Quanto all’ammissibilità sotto il profilo oggettivo, l’inerenza dei quesiti a materia di contabilità pubblica, nel contesto sistematico nel quale l’art. 7, comma 8, è inserito, va correttamente intesa -alla stregua dei principi enunciati dalla Sezione delle Autonomie con deliberazione n. 3/SEZAUT/2014/QMIG e dalle Sezioni Riunite con deliberazione 17.11.2010, n. 54- secondo una nozione unitaria della materia della contabilità pubblica, oggetto della funzione di consulenza attribuita alle Sezioni regionali di controllo.
In base a tale orientamento
la richiesta di parere, riguardante il primo quesito -se in caso di soccombenza sia dovuto anche il rimborso spese delle spese forfettarie- è da ritenere inammissibile, in quanto non attiene a profili di contabilità pubblica.
Nel caso all’esame appare evidente che l’intervento di questa Sezione risulta essere finalizzato non ad acquisire un parere tecnico sull’interpretazione di specifiche disposizioni normative, quanto piuttosto alla definizione dell’an debeatur.
La richiesta di parere, riguardante il primo quesito, è da ritenere, quindi, inammissibile sotto il profilo oggettivo.
Al fine di fornire, comunque, un ausilio all’Ente, è bene evidenziare che
le spese forfettarie mirano a ristorare l'avvocato di quelle voci di spesa (ad esempio, quelle relative alla gestione dello studio, costo segreteria, fitto studio, abbonamenti riviste, acquisto libri), che sono effettive, ma che non possono essere riferite ed imputate ad una singola pratica (invece le spese effettuate specificamente per un singolo atto processuale o atto in genere -es. raccomandata- non ricadono nelle spese forfettarie, essendo il singolo atto posto in essere riferito ad una specifica pratica).
Nell'ambito del previgente sistema tariffario di cui all'art. 14, D.M. n. 127/2004, il rimborso spettava automaticamente all'avvocato, anche in assenza di allegazione specifica e di espressa richiesta, dovendosi quest'ultima ritenersi implicita nella domanda di condanna al pagamento del compenso giudiziale (in termini, con riferimento alla previgente disciplina; Cass. 03.04.2007, n. 8238; Cass. 10.01.2006, n. 146; Cass. 20.10.2005, n. 20321).
Al rimborso si riconosceva la natura di credito che conseguiva per legge (e la cui misura era determinata nel 12,5 per cento), sicché spettava automaticamente al professionista, anche in assenza di allegazione specifica e di domanda, dovendosi quest'ultima ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali (Cass. 22.05.2013, n. 12579; Cass. 19.08.2009, n. 18424). L'omessa liquidazione in favore dell'avvocato della parte vittoriosa delle somme dovute per spese forfettarie, si diceva costituisse un errore materiale della sentenza, che può essere corretto con il procedimento di cui agli artt. 287 e seguenti cpc (Cass. 02.08.2013, n. 18518).
L'art. 9, commi 1 e 2, del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito con legge n. 27/2012, ha disposto l'abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. "Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro lo stesso termine, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono anche stabiliti i parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe".
L'art. 1, comma 2, del d.m. 20.07.2012, n. 140, adottato in esecuzione del predetto art. 9 della legge n. 27/2012, ha stabilito che "Nei compensi non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario".
L'art. 13, comma 10, del legge n. 247/2012 ha, poi, previsto che "Oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive".
L'art. 2, comma 2, del D.M. 10.03.2014, n. 55, adottato in esecuzione dell'art. 13, comma 16, della predetta legge n. 247/2012, ha stabilito che
all'avvocato é dovuta -in ogni caso ed anche in caso di determinazione contrattuale- una somma per rimborso spese forfettarie "di regola" nella misura del 15 per cento del compenso.
Nella relazione illustrativa al D.M. 55/2014 si legge che
l'individuazione nella misura del 15 per cento del rimborso forfettario è frutto del recepimento del parere espresso dalla Commissione giustizia della camera e che essa "dà attuazione all'art. 13, comma 10, della legge 247/2012 che rimette proprio al d.m. la determinazione della misura massima del rimborso forfettario".
Ne consegue che
l'entità del rimborso deve essere compresa tra l'1 per cento e il 15 per cento del compenso da liquidare, e che il tetto massimo (15 per cento) può essere liquidato solo a fronte di una istanza dell'avvocato adeguatamente motivata.
La precisazione da parte dell'art. 2, comma 2, del d.m. 55/2014 che il riconoscimento della percentuale del 15 per cento deve avvenire "di regola" non vale ad individuare un importo massimo vincolante per il giudice, atteso che la legge non prevede un simile vincolo.
Si tratta, infatti, in ogni caso, di valutazioni rimesse al libero apprezzamento del giudice sulla base delle istanze e delle motivazioni addotte dalla parte.
Per quanto riguarda, invece, il secondo quesito, relativo alle modalità di contabilizzazione del rimborso, ove dovuto, la Sezione fa presente che
il procedimento segue le ordinarie regole giuscontabili dell’impegno, della liquidazione, dell’ordinazione e del pagamento ovvero del riconoscimento di debito.
All’assunzione dell’impegno di spesa segue, ai sensi degli artt. 183 e 184 TUEL, la liquidazione a valere sul fondo rischi e oneri, laddove istituito, o su capitolo di spesa nei limiti degli stanziamenti autorizzati (art. 191 TUEL).
In corso di esercizio, tale procedura può essere accompagnata da una variazione di bilancio volta a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).

Nelle ipotesi in cui nell’anno di competenza finanziaria non sia stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l’unico modo di ricondurre il debito nella contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’amministrazione) è avviare nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati la procedura del riconoscimento di debito, ex art. 194 TUEL.
L’assunzione del debito fuori bilancio, ex art. 194, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 267/2000, esula dalla regolare procedura di spesa, per il pagamento di somme accertate con sentenza di condanna esecutiva.
La procedura per il riconoscimento di debiti fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.

Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di reperimento dei mezzi di copertura finanziaria (procedura ex art. 194 T.U.E.L.). La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 22.06.2015 n. 110).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, resti inutilizzabili. I budget passati non valgono per nuove assunzioni. La priorità è assumere i vincitori di concorso e i dipendenti provinciali in sovrannumero.
I resti dei budget destinati alle assunzioni per il triennio antecedente al 2015 debbono essere utilizzati necessariamente per l'assunzione dei vincitori dei concorsi le cui graduatorie siano vigenti o approvate alla data dell'01/01/2015, oppure ai dipendenti delle province in sovrannumero. Finché perduri il congelamento delle assunzioni per il biennio 2015-2016, gli enti locali non possono utilizzare risorse disponibili dai resti, per effettuare assunzioni di personale ex novo.

È il «decreto enti locali», il dl 78/2015 che, combinato con la deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Corte dei conti, sezione autonomie, fornisce la soluzione al quesito già affrontato dalla Sezione regionale di controllo della Lombardia, rimesso per la decisione proprio alla sezione autonomie.
L'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 ha vincolato il budget delle assunzioni con una formula oggettivamente ambigua, tale da lasciare aperta anche sul piano solo letterale la porta a due soluzioni interpretative. La prima è quella caldeggiata anche dalla circolare interministeriale di Funzione pubblica e affari regionali 1/2015, secondo la quale «rimangono consentite le assunzioni, a valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle previste da norme speciali». La seconda e opposta teoria è stata considerata come egualmente fondata proprio dalla sezione Lombardia.
L'ago della bilancia, però, ora risulta spostato decisamente dal dl 78/2015 che integra l'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014 così da chiarire, finalmente, che il budget triennale cumulabile per le assunzioni non è quello futuro, ma quello passato.
Solo in presenza della tesi mossa dalla sezione autonomie con delibera 27/2014 secondo cui il triennio sarebbe quello futuro, ha un peso l'idea espressa dalla circolare 1/2015, secondo cui nel biennio 2015-2016 le amministrazioni potrebbero utilizzare i budget passati per indire concorsi e assunzioni al di fuori del congelamento delle assunzioni imposto dalla legge 190/2014.
Ma, poiché ora la legge chiarisce (com'era per altro opportuno e corretto) che il cumulo è retroattivo, è evidente che negli anni 2015 e 2016 è possibile effettuare assunzioni a valere sul badget di ciascuno dei due anni, comprensivo dei «resti» dei precedenti trienni, i quali finiscono, quindi, per estendere le possibilità di chiamata in servizio dei vincitori dei concorsi e dei dipendenti provinciali in sovrannumero, senza permettere assunzioni esterne ex novo.
A rafforzare questa conclusione indotta dal dl 78/2015 è, come rilevato prima, anche la delibera della sezione Autonomie 19/2015, secondo cui le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, debbono sempre essere lette come norme poste a dare comunque priorità alla ricollocazione dei 20 mila dipendenti provinciali soprannumerari circa, anche perché il «congelamento» è destinato a durare al massimo 2 anni (in realtà restano 18 mesi, oggi).
Dunque, qualsiasi lettura di tale norma di garanzia e riorganizzazione del personale pubblico sottesa a sottrarre risorse e posti disponibili al processo di ricollocazione dei dipendenti provinciali e di chiamata in servizio dei vincitori dei concorsi appare contrario ai fini esplicitamente indicati dal legislatore (articolo ItaliaOggi del 26.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli emolumenti indebiti vanno recuperati al netto delle ritenute fiscali.
In caso di indebita erogazione di denaro al pubblico dipendente, il successivo recupero delle somme nei suoi confronti deve riguardare gli importi erogati al netto delle ritenute fiscali ed assistenziali. Infatti, queste non sono ripetibili dal dipendente, posto che non sono mai entrate nella sua sfera patrimoniale di disponibilità.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Lazio, nel testo del parere 15.06.2015 n. 125 con cui, in risposta a un preciso quesito posto dal comune di Tarquinia (Vt), si fa chiarezza sulle modalità di restituzione di somme percepite da pubblici dipendenti, come nel caso di emolumenti non dovuti.
Nei fatti oggetto del parere in osservazione, il primo cittadino istante chiedeva l'intervento della magistratura contabile per conoscere se il recupero da parte della pubblica amministrazione di somme indebitamente erogate ai dipendenti, dovesse riguardare gli importi considerati al lordo delle ritenute previdenziali, assicurative e fiscali, ovvero se queste dovessero essere richieste al netto delle ritenute operate dall'ente all'atto del pagamento dell'indebito. Per il collegio laziale della Corte non ci sono dubbi.
Infatti, come più volte sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di stato, sent. n. 3984/2011), le ritenute fiscali, previdenziali ed assistenziali non sono ripetibili dai dipendenti, in quanto si tratta di somme che non sono mai entrate nella sfera patrimoniale di disponibilità del dipendente.
Quindi, al dipendente devono essere richieste le somme percepite al netto delle ritenute di legge, lasciando agli enti la conseguente regolarizzazione dei rapporti con le amministrazioni interessate alla materia previdenziale, fiscale e assicurativa.
Inoltre, la Corte ha sottolineato che nei casi di indebita erogazione di denaro al dipendente, la buona fede di quest'ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti erroneamente corrisposti, posto che sussiste in capo all'ente un vero e proprio «diritto soggettivo a contenuto patrimoniale». Quindi, il recupero configura un comportamento doveroso della p.a. (articolo ItaliaOggi del 26.06.2015).

URBANISTICAIl privato esecutore, a seconda che le opere (di urbanizzazione) da realizzare a favore del Comune, a fronte della cessione in piena proprietà di immobili precedentemente concessi in diritto di superficie e destinati ad insediamenti produttivi, siano di importo superiore o inferiore alla soglia comunitaria dovrà rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché quelle della parte I, IV e V (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, nonché le eccezioni previste dal comma 2 del medesimo articolo) per le opere di importo superiore alla soglia comunitaria prevista in tema di lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011)
- la disciplina prevista degli art. 121 comma 1 e, in particolare, la procedura dell’art. 57, comma 6 (con invito rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale numero aspiranti idonei) del medesimo Codice, in caso di lavori sotto soglia comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va evidenziato che l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, ha modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001 con l’inserimento di un comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163".

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Il Sindaco del Comune di Vedano Olona (VA), con nota del 24.04.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in merito alla possibilità di prevedere a titolo di corrispettivo per la cessione del diritto di proprietà di aree, già concesse in diritto di superficie, la realizzazione di opere da trasferire al Comune.
In particolare il sindaco precisa che Il Comune di Vedano Olona, dopo essersi dotato del Piano per Insediamenti Produttivi, ai sensi dell'art. 27 della legge 22.10.1971 n. 865, ha dato attuazione alla realizzazione degli interventi assegnando le aree ricomprese nei vari lotti del piano, sia in diritto di superficie sia in piena proprietà.
Considerato che la legge 23.12.1996. n. 662, all'art. 3, comma 64, ha riconosciuto ai Comuni la possibilità di cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie, chiede un parere in ordine alla possibilità di prevedere, a titolo di corrispettivo di tale cessione (nel rispetto di criteri e modalità di valutazione di tale corrispettivo indicati allo stesso comma 64, come sostituito dall'art. 11, comma 1, della legge 12.12.2002 n. 273), la realizzazione di opere da trasferire al Comune.
...
Appare opportuno richiamare il dettato normativo in tema di Piani per insediamenti produttivi (c.d. PIP), in particolare il procedimento che il Comune deve seguire a tal fine e le facoltà concesse al medesimo.
L’art. 27 della legge n. 865/1971 (Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità e modifiche ed integrazioni alle leggi 17.08.1942 n. 1150, 18.04.1962 n. 167, 29.09.1964 n. 847) prevede che “i comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi”. Le aree da comprendere in questo piano sono delimitate, nell'ambito delle zone destinate a insediamenti produttivi dai piani regolatori generali o dai programmi di fabbricazione, con deliberazione del consiglio comunale, approvata con decreto del Presidente della giunta regionale.
Il piano ha efficacia per dieci anni dalla data del decreto di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato d'esecuzione ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150.
L’art. 27 specifica che “
le aree comprese nel piano approvato a norma del presente articolo sono espropriate dai comuni o loro consorzi secondo quanto previsto dalla presente legge in materia di espropriazione per pubblica utilità.”, ma soprattutto, ai fini che interessano per la risposta al comune istante, che “il comune utilizza le aree espropriate per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle aree medesime”.
In quest’ultimo caso, la concessione del diritto di superficie ad enti pubblici (per la realizzazione di impianti e servizi pubblici, occorrenti nella zona delimitata dal piano) è a tempo indeterminato, mentre negli altri casi (in sostanza a soggetti/imprese private) ha una durata non inferiore a sessanta e non superiore a novantanove anni.
La norma precisa, infine, che “
contestualmente all'atto di concessione, o all'atto di cessione della proprietà dell'area, tra il comune da una parte e il concessionario o l'acquirente dall'altra, viene stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell'acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza”.
Il dato normativo non prevede la necessaria corresponsione, da parte del privato assegnatario dell’area, di un corrispettivo in denaro, ma la sottoposizione ad oneri, funzionali alla realizzazione degli obiettivi posti dal Piano per gli insediamenti produttivi.
Il privato è in sostanza beneficiario delle aree, ma in virtù di un provvedimento di concessione finalizzato alla realizzazione di superiori interessi di carattere generale per la comunità comunale. Il provvedimento li attribuisce diritti sulle aree interessate (di superficie o piena proprietà), ma anche dei relativi connessi “oneri”, con la previsione di “sanzioni per la loro inosservanza”.

Come per altri strumenti di edilizia complessa o negoziata (si rimanda all’art. 35 della stessa legge n. 865/1971 per i Piani di edilizia economica e popolare, c.d. PEEP; ai Piani di riqualificazione urbana di cui alla legge n. 493/1993; ai Piani integrati di interventi di cui alla legge n. 179/2002, etc.),
l’obbligazione che assume il concessionario non è necessariamente limitata al pagamento di una somma di denaro, ma eventualmente (se in tal senso depongono gli accordi con il Comune), alla realizzazione di opere di urbanizzazione o altre opere pubbliche funzionali alla realizzazione del piano (nello specifico, per insediamenti produttivi).
In tal modo il Comune consegue gli obiettivi posti in sede di programmazione/piano (nel caso di specie approvato dalla Regione) trasferendo sui privati concessionari gli oneri dei costi di realizzazione (esplicita necessità in tal senso si ritrova nell’art. 35 della legge n. 865/1971 sui PEEP, oltre che in generale nell’art. 16, comma 3, del D.L. 22.12.1981, n. 786, convertito in legge 26.02.1982, n. 51, cfr. anche
Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 29.09.2011 n. 117), sia quelli di eventuale esproprio/acquisizione delle aree, sia quelli necessari a rendere le aree medesime funzionali agli scopi produttivi perseguiti.
Il successivo art. 3, comma 64, della legge n. 662/1996 aggiunge, all’interno di questo quadro generale,
un ulteriore tassello, permettendo ai comuni che, in precedenza, avevano optato per la concessione ai privati del diritto di superficie sulle aree destinate a insediamenti produttivi di attribuirne il pieno diritto di proprietà.
Questa norma, nella versione novellata dall’art. 11 della legge n. 273/2002, prevede infatti che “
i comuni possono cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie nell'ambito dei piani delle aree destinate a insediamenti produttivi di cui all'articolo 27 della legge 22.10.1971, n. 865. Il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato con delibera del consiglio comunale, in misura non inferiore alla differenza tra il valore delle aree da cedere direttamente in diritto di proprietà e quello delle aree da cedere in diritto di superficie, valutati al momento della trasformazione di cui al presente comma. La proprietà delle suddette aree non può essere ceduta a terzi nei cinque anni successivi all'acquisto” (nel testo storico si limitava a prevedere che “gli enti locali territoriali possono cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie, destinate ad insediamenti produttivi”, cfr. parere Veneto n. 113/2010).
In tal modo il legislatore permette al privato investitore di conseguire la certezza del diritto attribuito, favorendo altri successivi investimenti da parte del medesimo, attività scoraggiata nel caso in cui, a fronte della scadenza del termine di attribuzione del diritto di superficie, l’immobile realizzato (nello specifico, finalizzato a impianto produttivo) rischia di rientrare nel patrimonio del Comune proprietario del suolo (secondo l’ordinaria regola prevista dal Codice civile).
Alla motivazione di cui sopra si aggiunge quella propria di altri provvedimenti di dismissione (e privatizzazione) deliberati nel corso degli anni ’90, tesi all’incremento delle entrate per gli enti pubblici attraverso la vendita di asset immobiliari e azionari (cfr. in merito la delibera della Sezione Puglia n. 2/2009/PAR).
La scelta legislativa è analoga a quella effettuata in ambiti similari, come i Piani di edilizia economica e popolare (c.d. PEEP), per i quali l’art. 31, commi 45 e ss, della legge n. 448/198 ha previsto che le aree concesse in diritto di superficie per la realizzazione degli interventi previsti dall’art. 35 della legge n. 865/1971 (modificato dall’art. 3, comma 63, della legge n. 662/1996), possano essere concesse in piena proprietà ai privati richiedenti.
La facoltà di trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà, prevista dall’art. 3, comma 64, della legge n. 662/1996, di cui si discute nel presente parere, si innesta pertanto sull’impianto legislativo esistente, disciplinante i “Piani per gli insediamenti produttivi” previsti dall’art. 27 della legge n. 865/1971.
Di conseguenza
la scelta, da parte del comune, di attribuire la piena proprietà degli immobili precedentemente concessi in diritto di superficie, dovrebbe trovare fondamento nelle similari, rinnovate, motivazioni che hanno condotto all’approvazione e realizzazione del Piano, funzionalizzando la cessione della proprietà del suolo, sede di impianti produttivi, alla realizzazione di interessi generali finalizzati allo sviluppo produttivo complessivo del territorio.
All’interno di tale quadro, sulla base dei presupporti di fatto e degli obiettivi da esplicitare nella motivazione della delibera di Consiglio, il Comune potrebbe optare, in luogo di un corrispettivo in denaro, per una differente forma di attribuzione patrimoniale.
Naturalmente devono essere rispettati i limiti legislativi imposti dal combinato disposto degli artt. 27 legge n. 865/1971 e 3, comma 64, legge n. 662/1996, oltre che quelli desumibili dall’ordinamento giuridico generale.
Per quanto riguarda i primi, vanno innanzitutto osservati il procedimento e i criteri di valutazione che il legislatore prevede per la cessione dell’area (“
il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato con delibera del consiglio comunale, in misura non inferiore alla differenza tra il valore delle aree da cedere direttamente in diritto di proprietà e quello delle aree da cedere in diritto di superficie, valutati al momento della trasformazione di cui al presente comma”), adempimenti che il Comune, nell’istanza di parere, si impegna a rispettare.
Con la precisazione che il valore che il privato deve corrispondere è stabilito dal legislatore solo nel minimo, in un ammontare che, previa motivazione, può essere aumentato dal Comune in funzione delle specifiche esigenze da perseguire e del contesto produttivo in cui l’operazione di cessione si inserisce.
Circa la natura della suddetta entrata, appare opportuno sottolineare che si tratta di introito derivante da alienazione di beni patrimoniali (il diritto di proprietà sul suolo cui accede la costruzione/impianto produttivo), da allocare nel Titolo IV delle Entrate e, come tale, necessariamente destinato a spesa in conto capitale (salve le eccezioni normativamente e tassativamente previste, come per esempio l’art. 2, comma 8, della legge n. 244/2007, ovvero gli artt. 193, commi 2 e 3, del TUEL, cioè le ipotesi in cui occorra provvedere al mantenimento degli equilibri di bilancio, cfr. Sezione Piemonte
parere 29.09.2011 n. 117).
L’altro limite, esplicitato dalla norma base (art. 27 della legge n. 865/1971), consiste nella finalizzazione dell’entrata alla realizzazione degli scopi perseguiti con il Piano, tanto che il privato si obbliga, stipulando apposita convenzione, a determinati oneri (pagamento corrispettivo in denaro ovvero alla realizzazione di opere strumentali o altro) necessariamente presidiati da sanzioni in caso di inosservanza (causa rischio mancato conseguimento degli obiettivi perseguiti).
In tale ottica,
appare possibile che il Comune, previa adeguata motivazione, permetta al privato di liberarsi dall’erogazione del corrispettivo per la cessione di aree in proprietà imponendogli l’obbligo di realizzare opere pubbliche funzionali al mantenimento degli obiettivi posti dal PIP.
Trattasi, necessariamente, di opere d’investimento. Posto infatti che, come detto, l’entrata che il comune consegue è imputata in conto capitale, analoga destinazione deve avere la spesa che il privato sostiene in sostituzione dell’obbligo di pagamento della somma di denaro.
In via residuale, sempre previa adeguata motivazione,
il comune potrebbe decidere di far effettuare al privato altre opere pubbliche, stipulando analoga convenzione e prevedendo similari sanzioni in caso di inadempienza. Si pensi al caso in cui l’area destinata al PIP non abbia, allo stato, bisogno di lavori di adeguamento/ristrutturazione (in tale direzione si rinvia alle motivazioni del
parere 29.09.2011 n. 117 reso dalla Sezione Piemonte, riferito alla similare fattispecie prevista dall’art. 31 della legge n. 448/2011 per la cessione in proprietà delle aree destinate all’edilizia economica e popolare). In questo caso, infatti, il privato realizzerebbe direttamente l’opera pubblica in sostituzione del Comune, utilizzando le somme che avrebbe dovuto versare per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà.
Il problema successivo che si pone attiene, tuttavia, alle modalità di realizzazione di tali opere da parte del privato.
Infatti,
nella similare fattispecie delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione (art. 16 DPR n. 380/2001), il legislatore, dopo l’intervento della giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia con la sentenza 12.07.2001 C-399/1998, "Scala 2001"), ha imposto al privato esecutore il rispetto delle procedure di evidenza pubblica (cfr. artt. 32 e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006).
Analoga interpretazione è stata adottata dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici in altri casi di sostituzione del privato all’amministrazione nell’ambito di programmi di edilizia complessa o negoziata (cfr. determinazione 02.04.2008 n. 4 e
determinazione 16.07.2009 n. 7).
La regolamentazione dell'istituto delle “opere di urbanizzazione a scomputo” risale alla normativa in materia urbanistica, secondo la quale la realizzazione di tali opere condiziona il rilascio del permesso di costruire (cfr. art. 31 della legge 1150/1942, art. 8 legge n. 765/1967, art. 6 legge n. 10/1977). Le pregresse disposizioni sono state poi trasfuse nell'articolo 16 del Testo unico sull'edilizia DPR n. 380/2001 che, ai commi 7, 7-bis e 8, stabilisce la suddivisione in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, prevedendo che il rilascio del permesso di costruire comporta per il privato "la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
Il legislatore ha previsto poi, nel comma 2 del citato art. 16, la possibilità di scomputare la quota del contributo relativa agli oneri di urbanizzazione, nel caso in cui il titolare del permesso di costruire, o l’attuatore del piano, si obblighi a realizzarle direttamente. Tra l'operatore privato e l'amministrazione viene stipulata una convenzione che accede al permesso di costruire nella quale vengono regolate le opere da realizzare, i tempi, le modalità della loro esecuzione, la loro valutazione economica e le garanzie dell'adempimento, imprimendo così una connotazione negoziale al rapporto tra pubblica amministrazione e privato.
La ratio dell'istituto va individuata nella possibilità offerta all'amministrazione locale di dotarsi di opere di urbanizzazione senza assumere direttamente i rischi legati alla loro realizzazione.
Su tale assetto normativo è intervenuta la citata pronuncia della Corte Europea "Scala 2001" che ha affermato le direttive europee in tema di appalti ostano “ad una normativa nazionale in materia urbanistica che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta al titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla direttiva di cui trattasi". La Corte di Giustizia ha precisato che “
la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione secondo le condizioni e le modalità previste dalla normativa italiana in materia urbanistica costituisce un appalto pubblico di lavori”.
In sostanza,
la Corte ha sostenuto che tali opere sono da ritenere pubbliche sin dall’origine (anche se eseguite su proprietà privata e se formalmente tali prima del passaggio al patrimonio pubblico) e che la realizzazione delle medesime in luogo del pagamento del contributo conferma tale natura.
Con l'approvazione del Codice dei contratti il quadro normativo si è evoluto nella direzione di un più esteso assoggettamento delle opere a scomputo alle procedure di evidenza pubblica.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la citata determinazione 02.04.2008 n. 4
ha poi esteso la portata dell'articolo 32, comma 2, lettera g), del d.lgs. 163/2006 a tutti i piani urbanistici e accordi convenzionali, comunque denominati, stipulati tra privati e amministrazioni (cosiddetti "accordi complessi", compresi gli accordi di programma) che prevedano l'esecuzione di opere destinate a confluire nel patrimonio pubblico.
Infatti, il giudice europeo, nella sentenza “Scala” del 2001, ha affermato che la realizzazione delle opere di urbanizzazione è da ricondurre al genusappalto pubblico di lavori” sulla base della ricorrenza di una serie di elementi:
- la qualità di amministrazione aggiudicatrice dell’ente procedente;
- la riconducibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria alla categoria delle opere pubbliche in senso stretto, stante la loro idoneità funzionale a soddisfare le esigenze della collettività ed il pieno controllo dell’amministrazione competente sulla realizzazione delle opere medesime (a nulla rilevando che l’opera sia inizialmente privata, in quanto le opere di urbanizzazione hanno per propria natura una intrinseca finalità pubblica);
- la natura contrattuale del rapporto fra l’amministrazione e il privato lottizzante, posto che la convenzione di lottizzazione, sottoscritta dalle parti, stabilisce diritti ed obblighi delle parti, ivi compresa l’esatta individuazione delle opere che il privato è tenuto a realizzare;
- la natura onerosa di tale contratto, considerando che l’amministrazione comunale, accettando la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione, rinuncia a pretendere il pagamento dell’importo dovuto a titolo di contributo e che, pertanto, il titolare della concessione edilizia o del piano di lottizzazione, attraverso la realizzazione diretta, estingue un debito di pari valore, secondo lo schema civilistico dell’obbligazione alternativa.
Poiché si tratta, quindi, di appalti pubblici di lavori, la Corte di giustizia ha ritenuto applicabile agli stessi l’obbligo di esperire procedure ad evidenza pubblica secondo la normativa comunitaria.
Alla luce di tale arresto comunitario, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha valutato, nella determinazione 02.04.2008 n. 4, se i principi enucleati nella descritta pronuncia possano eccedere l’ambito preso in esame e trovare applicazione nei confronti di altre forme di negoziazione tra pubblica amministrazione e privato.
In particolare, occorre stabilire se, anche per altre fattispecie, ricorrano gli elementi che hanno indotto la Corte di Giustizia ad ascrivere all’appalto pubblico di lavori la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo.
Pertanto se anche in altre ipotesi di programmi di edilizia complessa o negoziata ricorre:
- sotto il profilo soggettivo, la qualità di amministrazione aggiudicatrice in capo all’ente pubblico procedente e, sotto il profilo oggettivo, l’esecuzione di opere pubbliche, cioè di opere d’interesse generale realizzate a vantaggio della collettività;
- la natura negoziale del rapporto pubblico-privato, con rapporto disciplinato tra le parti con convenzione avente valore vincolante, sulla base di uno scambio sinallagmatico;
- il carattere oneroso della prestazione (come nel caso in cui a fronte della prestazione del privato, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo in denaro, ovvero del diritto di sfruttamento dell’opera o, ancora, come nel caso di specie, la cessione in proprietà o in godimento di beni appartenenti all’amministrazione),
il privato che si assume l’obbligo di eseguire le opere è tenuto, come nel caso della realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione, ad osservare le procedure previste per l’esecuzione dei lavori pubblici.
Ciò in quanto l’effettuazione di queste opere da parte del privato avviene comunque sulla base di un accordo convenzionale concluso con l’amministrazione per il raggiungimento di un proprio interesse patrimoniale, che è la causa del negozio giuridico in base al quale il privato stesso assume su di sé l’obbligo di realizzare le opere di cui trattasi.
Né osta a tale ricostruzione il fatto che la realizzazione delle opere avvenga tramite soggetti privati, atteso che la Corte Costituzionale, con sentenza 28.03.2006 n. 129, ha espressamente stabilito che “
il ricorso a procedure ad evidenza pubblica per la scelta del contraente non può essere ritenuto incompatibile con gli accordi tra privati e pubblica amministrazione”.
Il privato esecutore, pertanto, a seconda che le opere da realizzare a favore del Comune, a fronte della cessione in piena proprietà di immobili precedentemente concessi in diritto di superficie e destinati ad insediamenti produttivi, siano di importo superiore o inferiore alla soglia comunitaria dovrà rispettare:
-
le norme della Parte II titolo I, nonché quelle della parte I, IV e V (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, nonché le eccezioni previste dal comma 2 del medesimo articolo) per le opere di importo superiore alla soglia comunitaria prevista in tema di lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011);
-
la disciplina prevista degli art. 121, comma 1, e, in particolare, la procedura dell’art. 57, comma 6 (con invito rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale numero aspiranti idonei) del medesimo Codice, in caso di lavori sotto soglia comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va evidenziato che l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, ha modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001 con l’inserimento di un comma 2-bis a mente del quale “
nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.05.2012 n. 222).

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PUBBLICO IMPIEGO: Stop alla spesa con i buoni pasto. Per il Fisco i tagliandi vanno usati in alternativa alla mensa nei giorni di lavoro.
Legge di stabilità. Da domani i ticket elettronici detassati fino a 7 euro - La tracciabilità limiterà gli abusi.

Fine della spesa al supermercato tramite l’utilizzo in contemporanea di più buoni pasto elettronici. L’uso contestuale di più tagliandi, seppure in questo caso virtuali, ma comunque rappresentativi di singole prestazioni sostitutive, ne ridurrebbe fortemente i vantaggi fiscali tanto da scoraggiarne l’impiego.
Questo è l’inatteso scenario che si potrebbe delineare in assenza di chiarimenti ministeriali o novità normative. Infatti nonostante l’imminente debutto, da domani, della nuova e più favorevole soglia di esenzione dei ticket elettronici, la loro facile tracciabilità apre questioni inedite e lascia dubbi da dissipare.
L’articolo 51, comma 2, lettera c), del Tuir stabilisce che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente le prestazioni sostitutive del servizio di mensa quali i buoni pasto fino all’importo giornaliero di 5,29 euro, valore elevato, dal domani, a 7 euro per i ticket elettronici. Con circolare 326/E del 23.12.1997 è stato precisato che le prestazioni sostitutive in questione devono interessare la generalità dei dipendenti o intere categorie omogenee di essi.
Il Dpcm del 18.11.2005 ha meglio delineato le condizioni di utilizzo dei ticket restaurant specificando che gli stessi riguardano le somministrazioni di alimenti e bevande e vanno utilizzati durante la giornata lavorativa, anche se domenicale o festiva, solo dai prestatori di lavoro. Ulteriori condizioni attengono alle caratteristiche del buono, che non deve essere cedibile, né commerciabile, né convertibile in denaro, né cumulabile, ma utilizzabile esclusivamente per l’intero valore facciale.
Per fruire dell’agevolazione fiscale e contributiva, il datore di lavoro dovrà distribuire un numero di tagliandi non superiore ai giorni realmente lavorati dal dipendente: l’esenzione infatti non opera in caso di assenza per ferie, malattia o quando il vitto viene offerto tramite mensa, convenzione con esercizi pubblici o, in caso di trasferte fuori del Comune, attraverso rimborso forfetario o a piè di lista.
Per ottenere il massimo vantaggio fiscale e calcolare correttamente i ticket da distribuire si potranno effettuare conguagli su base mensile (o bimestrale) sottraendo, dal totale dei giorni lavorativi del mese entrante, le assenze del mese (o dei due mesi) precedenti.
In dottrina si è sempre ritenuto che l’inosservanza dei predetti vincoli (incumulabilità, incedibilità eccetera) non potesse gravare sul sostituto di imposta ma eventualmente solo sui dipendenti beneficiari o sugli esercizi commerciali convenzionati che non avessero rispettato le regole. L’inesistente giurisprudenza in materia rappresenta un ulteriore conferma che ad oggi non vi sia stato nessun interesse da parte dei verificatori di eccepire rilievi di questo tipo. Di fatto quindi, i vincoli sono più teorici che pratici e non è un segreto che il contemporaneo utilizzo di più buoni pasto sia prassi largamente diffusa tra gli utilizzatori, ad esempio per pagare la spesa al supermercato, come pure è risaputo che la cessione degli stessi ad altri soggetti non sia un fenomeno così marginale.
Con i ticket elettronici tutto potrebbe cambiare diventando rilevante anche il momento di utilizzazione, oltre che quello di erogazione. Le società di emissione infatti possono facilmente fornire, a tutte le loro imprese clienti, dettagliati resoconti sulle modalità d’impiego dei ticket. Con la conseguenza che le somme giornaliere eccedenti i 7 euro dovrebbero essere pienamente tassate.
A questo punto la responsabilità di operare le ritenute fiscali e contributive ricadrebbe sul datore di lavoro, che, in difetto, sarebbe esposto alle sanzioni previste per omesse o insufficienti trattenute, omessi o insufficienti versamenti, inesatte certificazioni uniche e infedele dichiarazione dei sostituti. Nonostante si tratti di penalità pesanti, è opportuno rammentare che -ai sensi dell’articolo 12 del Dlgs 472/1997- alcune di queste violazioni sono giuridicamente cumulabili. Come stavolta
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARICasa rumorosa, la svalutazione va provata. Secondo la Corte d’appello di Brescia va considerata la diminuzione di valore della sola stanza colpita da vizi insanabili.
Il minor valore dell’appartamento affetto da cattivo isolamento acustico va calcolato in modo specifico e la valutazione equitativa è possibile se mancano gli elementi per una valutazione analitica.
Sono alcuni dei principi affermati dalla Corte d’appello di Brescia (presidente ed estensore Bitonte), con la sentenza n. 32/2015.
Vediamo la vicenda, tralasciando le questioni giuridiche sulla disciplina applicabile. Il ricorrente è l’acquirente di un immobile di 80 metri quadrati e il superamento dei limiti di cui al Dpcm 12.12.1997 è accertato da una Ctu (consulenza tecnica) ordinata dal giudice di primo grado e non contestata dal costruttore convenuto, che critica invece il criterio di conteggio del minor valore.
Il Ctu, in particolare, aveva accertato questa situazione:
- una parte dei vizi poteva essere ripristinata con una spesa di circa 16mila euro (compresivi del costo dell’albergo per il proprietario durante i lavori e della perdita di superficie calpestabile per l’inspessimento delle pareti);
- un’altra parte dei vizi non era ripristinabile e riguardava la rumorosità da calpestio relativa a una cameretta.
La Corte d’appello parte dal prezzo di acquisto (207mila euro), lo confronta con il valore commerciale stimato dal Ctu, riferito al momento dell’acquisto (232mila euro), e sottrae il costo dei lavori (16mila euro): siccome il risultato è superiore a quanto pagato dall’acquirente, ciò esclude il dritto a un indennizzo per i vizi eliminabili.
Il nodo, però, sono i vizi non ripristinabili. Il giudice di primo grado aveva condannato il costruttore a rimborsare all’acquirente la differenza tra il prezzo e il valore effettivo, così come rideterminato alla luce della consulenza del Ctu, che l’aveva ridotto del 25% rispetto al valore commerciale: un importo di svariate decine di migliaia di euro.
La Corte, però, boccia in toto il ragionamento del Tribunale e del Ctu, che aveva qualificato il vizio come «rilevante
» e aveva richiamato una sentenza del Tribunale di Torino in cui, a un vizio di questa portata, era stato correlato un minor valore del 25%: «Il consulente doveva valutare la perdita di valore dell’appartamento in questione –scrive il giudice– non già quella subita da un imprecisato immobile torinese la cui elezione a parametro di riferimento non trova alcuna giustificazione».
In secondo luogo, siccome solo una stanza è “viziata”, «anche ammettendo di trovare una motivazione (in realtà del tutto assente) a conforto dell’opinione espressa dalla sentenza sulla misura del minor valore del 25%, detta decurtazione dovrebbe essere riferita alla sola cameretta».
La corte “apre” alla possibilità di una valutazione equitativa. Ipotizzando di applicare la decurtazione del 25% alla superficie della cameretta, il minor valore sarebbe di soli 10.800 euro e l’importo da restituire poco più di 2mila euro, dato che l’alloggio era già stato acquistato con uno sconto di oltre 8mila euro rispetto alla stima del suo valore commerciale, pur tenendo conto dei 16mila euro per gli altri lavori di ripristino.
Ma questa modalità di calcolo, comunque interessante per gli addetti ai lavori, non viene ritenuta applicabile nel caso specifico, perché nel frattempo l’appartamento era stato venduto a terzi e quindi sarebbe stata possibile una valutazione analitica, per la quale la ricorrente non ha fornito elementi di prova. Per questi motivi le richieste dell’acquirente vengono respinte in toto
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.06.2015).

APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dal personale agli acquisti, i «buchi» del Dl enti locali. Decreto 78. Rischio blocco per le assunzioni stagionali - Allarme dissesto nelle Città.
Personale, centralizzazione degli acquisti e bilanci di Città metropolitane e Province saranno i temi chiave nel dibattito sulla conversione del decreto enti locali, che potrebbe tornare a occuparsi anche di rinegoziazione dei mutui e vincoli di destinazione delle entrate.
Quello delle risorse umane è il capitolo più spinoso ma non l’unico, come mostra la prima nota di lettura dell’Ifel che lamenta parecchie caselle vuote anche in fatto di bilanci e acquisti. Nella versione definitiva, infatti, il testo ha “perso” una serie di regole che erano comparse nelle prime bozze. Ancora una volta, è l’incrocio difficile fra la complicata attuazione della riforma delle Province e le regole di gestione delle assunzioni a dominare il campo.
Gli enti di area vasta, in particolare, attendono la deroga al blocco totale dei rinnovi dei contratti nel caso, frequente, di sforamento del Patto di stabilità 2014. Non è solo questione di “attesa”, perché in gioco c’è la possibilità concreta di attuare una norma, la possibilità di rinnovo dei contratti, che il Milleproroghe 2015 aveva accolto dopo settimane di protesta dei precari delle Province. Senza la deroga per chi ha sforato il Patto, l’attuazione effettiva del Milleproroghe è possibile solo in poco più di metà degli enti.
Ancora più ampio è il problema che riguarda la Polizia provinciale e i centri per l’impiego. Nel primo caso, il decreto prospetta il «transito» dei poliziotti provinciali negli organici dei Comuni, dove dovranno svolgere compiti di Polizia municipale. Questo «transito» è parziale, perché deve rispettare i limiti di dotazione organica, programmazione del personale, e risorse finanziarie, ma è respinto dai diretti interessati che nelle Province si sono sempre occupati di territorio e ambiente. Il meccanismo, se non corretto, blocca poi le assunzioni stagionali di vigili (gli interessati al «transito» sono ovviamente a tempo indeterminato), creando parecchi problemi nei Comuni turistici. Per i centri per l’impiego, invece, sono previsti passaggi nelle Regioni grazie a intese con i Governatori ancora tutte da costruire.
Il blocco degli stagionali, per tutto il personale e non solo per i vigili, continua a riguardare anche le amministrazioni che nel 2014 hanno impiegato in media più di 90 giorni per i pagamenti ai fornitori. Il decreto corregge l’indicatore, togliendo dalla base di calcolo le fatture coinvolte dagli sblocca-debiti, ma non introduce alcuna deroga sulle assunzioni a tempo. Niente da fare, almeno per ora, nemmeno per le assunzioni di personale scolastico.
Sul versante dei bilanci delle Città metropolitane, il provvedimento accoglie la nuova ripartizione dei tagli, che però non basta certo a risolvere i problemi come dimostrano gli allarmi-dissesto rilanciati negli ultimi giorni non solo a Milano. I conti degli enti, poi, attendevano la possibilità di utilizzo per spesa corrente (solo nel 2015) del 50% dei proventi da alienazioni, regola presente nelle bozze ma non nel testo finale. Gli amministratori locali, poi, chiedono di chiarire i vincoli di destinazione per alienazioni e oneri di urbanizzazione, soggetti a interpretazioni restrittive da parte della Corte dei conti.
Data per certa ma assente nel decreto è poi la deroga che escluderebbe dagli obblighi di centralizzazione gli acquisti fino a 40mila euro nei Comuni fino a 10mila abitanti. Si tratta di un alleggerimento chiesto a gran voce dai sindaci, che altrimenti dal 1° settembre rischiano un nuovo blocco degli acquisti anche a causa delle tante incertezze nell’avvio delle centrali uniche (
articolo Il Sole 24 Ore del 29.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Durc, semplificazione al via. Verifiche in tempo reale. Dal 1° luglio il documento di regolarità contributiva è consultabile e stampabile online.
Al via il Durc online. Dal 1° luglio, infatti, il documento di regolarità contributiva è consultabile e stampabile da internet, accedendo all'apposito sistema che è raggiungibile dai portali di Inps e Inail. È sufficiente inserire il codice fiscale dell'impresa o lavoratore autonomo del quale si intende verificare la regolarità contributiva per ottenerne il risultato.
Le certificazioni emesse dal 1° luglio hanno validità di 120 giorni, a prescindere dall'utilizzo. Quelle emesse entro il 30 giugno conservano validità fino a naturale scadenza. A distanza di un anno, dunque, arriva in porto la semplificazione del Durc.
Operazione di semplificazione. Dal 1° luglio è possibile verificare in tempo reale se un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con i contributi e gli adempimenti nei confronti dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili (nei riguardi di queste ultime la verifica interessa soltanto le aziende edili).
A prevedere la semplificazione è stato il dl n. 34/2014, convertito dalla legge n. 78/2014, ed è stata attuata dal decreto ministeriale 30.01.2015, pubblicato sulla G.U. n. 125/2015, entrato in vigore il 16 giugno limitatamente alle disposizioni su requisiti di regolarità (art. 3, commi 2 e 3), procedure concorsuali (art. 5) e cause ostative alla regolarità (art. 8). Le restanti disposizioni, incluso l'avvio operativo del Durc online, entrano in vigore il 1° luglio.
Soggetti abilitati al Durc. Diversi sono i soggetti abilitati a effettuare la verifica di regolarità contributiva di un'impresa o di un lavoratore autonomo e, dunque, autorizzati a richiedere/ottenere il Durc online. Il via libera operativo, tuttavia, non avviene per tutti allo stesso momento. In particolare, per i seguenti soggetti, la possibilità di effettuare la verifica decorre immediatamente, cioè a partire dal 01.07.2015:
a) le amministrazioni aggiudicatrici, gli organismi di diritto pubblico, gli enti aggiudicatori, gli altri soggetti aggiudicatori, i soggetti aggiudicatori e le stazioni appaltanti (cioè i soggetti di cui all'art. 3, comma 1, lett. b, del dpr n. 207/2010);
b) gli Organismi di attestazione Soa;
c) le amministrazioni pubbliche concedenti, anche ai sensi dell'art. 90, comma 9, del dlgs n. 81/2008, in materia di verifica di idoneità tecnico professionale delle imprese affidatane, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi;
d) le amministrazioni pubbliche procedenti, i concessionari e i gestori di pubblici servizi (che agiscono ai sensi del dpr n. 445/2000); per questi altri soggetti, invece, la possibilità di effettuare la verifica non è immediata, cioè non scatta a partire dal 01.07.2015, ma rinviata a un momento successivo (che verrà poi comunicato);
e) l'impresa o il lavoratore autonomo in relazione alla propria posizione contributiva o, previa delega dell'impresa o del lavoratore autonomo medesimo, chiunque vi abbia interesse;
f) le banche o gli intermediari finanziari, previa delega da parte del soggetto titolare del credito in relazione alle cessioni dei crediti certificati (art. 9 del dl n. 185/2008 convertito dalla legge n. 2/2009; e art. 37, comma 7-bis, del dl n. 66/2014 convertito dalla legge n. 89/2014).
Consulenti del lavoro in prima linea. Il «ritardo» (il rinvio dell'operatività del Durc online) per le predette ipotesi, è dovuto al fatto che la possibilità di effettuare verifiche sulla regolarità contributiva è subordinata alla sussistenza di un apposito atto di delega che dovrà essere comunicato, a cura del delegante, agli Istituti (Inps, Inail e casse edili) e che sarà conservato a cura del soggetto delegato il quale effettuerà, comunque, la verifica di regolarità contributiva sotto la propria responsabilità.
È in attesa delle necessarie implementazioni informatiche che consentano il rispetto di questa predetta condizione che, in questa prima fase di applicazione della nuova disciplina, i soggetti delegati (di cui alle predette lett. e ed f) resteranno esclusi dalla possibilità di avviare la verifica della regolarità contributiva. Attenzione; la preclusione non opera nei confronti dei professionisti delegati ai sensi dell'art. 1 della legge n. 12/1979 (primi fra tutti i consulenti del lavoro), già abilitati per legge allo svolgimento degli adempimenti di carattere lavoristico e previdenziale.
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Versione cartacea sostituita in toto.
La «novità» del Durc online si può toccare con mano nel momento in cui si ha bisogno di fare la verifica della regolarità contributiva di un soggetto. Perché in tal caso, i soggetti abilitati non devono fare una richiesta e attendere una risposta (come succede con lo sportello unico), ma possono autonomamente procedere nella verificare in tempo reale, cioè nello stesso momento in cui si intende farle, con modalità telematica.
La regolarità contributiva resta, come sempre, riferita nei confronti di Inps e di Inail nonché, solo per le imprese classificate o classificabili ai fini previdenziali nel settore industria o artigianato per le attività dell'edilizia, delle casse edili.
- La Cnce per le imprese edili. Nel caso la verifica riguardi un'azienda edile, il sistema interroga la banca dati nazionale delle imprese irregolari (Bni), gestita dalla Cnce, la quale risponderà in due modi:
a) impresa regolare: quando l'impresa risulta iscritta nell'anagrafica presente in Bni senza avere in carico segnalazione di irregolarità da parte delle casse edili; in tal caso, la pratica è chiusa e la risposta della Bni è di via libera all'emissione del Durc, cosa che avverrà se l'impresa risulterà regolare anche per Inps e Inail;
b) pratica in istruttoria: quando l'impresa non risulterà iscritta nell'anagrafica Bni o saranno state segnalate irregolarità da parte di una o più casse edili. In tal caso, la cassa edile coinvolta invierà via Pec (posta elettronica certificata), al soggetto in verifica, l'invito alla regolarizzazione, chiedendo di svolgere gli adempimenti necessari per la regolarità entro i successivi 15 giorni. Se dopo 28 giorni dalla richiesta del Durc la fase istruttoria ancora non risulta chiusa, la Bni procederà alla chiusura «d'ufficio» segnalando l'impresa come «irregolare» con debito pari a zero.
- Un solo Durc per tutti i casi. La verifica della regolarità contributiva tramite il Durc online è effettuabile nei confronti dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi ai quali è richiesto il possesso del Durc ai sensi della normativa. L'esito (fatte salve le esclusioni previste dall'art. 9 del regolamento e indicate in tabella), cioè il Durc online che ne deriva, sostituisce a ogni effetto il Durc (cartaceo) già previsto:
• per l'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di qualunque genere, compresi i benefici e le sovvenzioni comunitarie per la realizzazione di investimenti (art. 1, comma 553, della legge n. 266/2005);
• nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia;
• per il rilascio dell'attestazione Soa.
- Il Durc online. L'esito positivo della verifica di regolarità contributiva genera un Documento in formato «.pdf» non modificabile: è il «Durc online», il documento unico di regolarità contributiva che riporta i seguenti contenuti minimi:
• la denominazione o ragione sociale, la sede legale e il codice fiscale del soggetto nei cui confronti è effettuata la verifica;
• l'iscrizione all'Inps, all'Inail e, ove previsto, alle casse edili;
• la dichiarazione di regolarità;
• il numero identificativo, la data di effettuazione della verifica e quella di scadenza di validità del documento.
Attenzione; il nuovo «Durc online» ha validità di 120 giorni dalla data di effettuazione della verifica ed è «liberamente consultabile» tramite le applicazioni predisposte dall'Inps, dall'Inail e dalla commissione nazionale paritetica per le casse edili (Cnce) nei rispettivi siti internet. La durata di 120 giorni vale anche per i Durc finalizzati a lavori edili privati, per i quali il Durc emesso fino al 30 giugno ha validità di 90 giorni.
- Durc emessi entro il 30 giugno. I certificati di regolarità contributiva rilasciati prima dell'entrata in vigore della procedura online, fissata al 1° luglio, si potranno utilizzare nei casi e per i periodi di validità previsti dalla vecchia disciplina.
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Regolarità salva in caso di debiti.
Sì al Durc in presenza di uno «scostamento non grave» a carico dell'impresa o del lavoratore autonomo. La regolarità contributiva, infatti, è comunque garantita in presenza di debiti fino a 150 euro (in precedenza 100 euro).
Richieste online. Il nuovo sistema consente, dai portali Inps e Inail (funzione «Consulta regolarità»), la verifica dell'esistenza di un Durc positivo e in corso di validità (120 gg. dalla richiesta), nonché la visualizzazione e il download in Pdf (funzione «Visualizza il documento»).
Se risulta una precedente richiesta per la quale è in corso un'istruttoria da parte di istituti e casse edili, il sistema comunica tale informazione e, pertanto, per ottenere il Durc bisognerà attenderne l'esito. Se, invece, non c'è già un Durc in corso di validità né un'istruttoria in corso, il portale procede a interrogare le Banche dati nazionali di Inps, Inail e, se coinvolte, delle casse edili per l'emissione dell'esito della verifica e del Durc.
Requisiti di regolarità. La verifica della regolarità, effettuata in tempo reale, riguarda i pagamenti dovuti dall'impresa in relazione ai lavoratori subordinati e a quelli impiegati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.), cioè tutti i soggetti tenuti all'iscrizione obbligatoria alla gestione separata dell'Inps, nonché i pagamenti dovuti dai lavoratori autonomi, scaduti sino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a patto che sia scaduto anche il termine di presentazione delle denunce retributive.
La verifica della regolarità contributiva nei confronti dei lavoratori autonomi iscritti alle gestioni amministrate dall'Inps, per i quali l'obbligo contributivo viene assolto in proprio, è effettuata indicando il codice fiscale di ciascuno dei lavoratori autonomi che operano nell'impresa ove lo stesso risulti non coincidere con quello dell'impresa da verificare. Laddove il codice fiscale indicato non sia presente negli archivi degli istituti, l'esito automatizzato darà l'informazione che per l'impresa ovvero per il lavoratore autonomo non risulta alcuna iscrizione, senza fornire alcun esito di regolarità.
Nell'ipotesi di sospensione e/o cessazione della posizione contributiva attivata presso uno degli enti tenuti a effettuare la verifica, il risultato dell'interrogazione restituirà l'informazione sulla regolarità avuto riguardo alla data fino alla quale l'impresa/il lavoratore autonomo ha operato.
Scostamenti non gravi. Come accennato, la regolarità presuppone i pagamenti dovuti dall'impresa per i lavoratori subordinati e quelli impiegati in collaborazioni coordinate e continuative nonché dei lavoratori autonomi, scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui è fatta la verifica, a patto che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive.
In alcuni casi, poi, la regolarità sussiste comunque anche in presenza di parziali scoperture, oppure in presenza di uno scostamento definito «non grave» tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale e a ciascuna cassa edile; ossia se il predetto scostamento risulti pari o inferiore all'importo di 150 euro inclusi gli eventuali accessori di legge.
Stessa deroga era prevista anche nel passato, ma con doppio limite, ossia quando la differenza tra dovuto e versato non superasse il 5% oppure lo superasse ma in presenza di un debito complessivo inferiore a 100 euro. Il nuovo e unico limite (150 euro) entrata in vigore il 16 giugno (articolo ItaliaOggi Sette del 29.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Bed and breakfast, burocrazia light e occhio ai paletti locali. Panoramica sulle normative regionali e sugli adempimenti per aprire un'attività ricettiva.
Il modo di fare turismo, nel corso degli anni, ha subito radicali trasformazioni. Sono cambiati i mezzi di trasporto, il tipo di alloggio richiesto, la durata del soggiorno. Sta inoltre riscuotendo sempre maggiori favori il turismo culturale ed enogastronomico, che prevede la visita delle città e dei beni storici e culturali abbinata alla conoscenza dei prodotti tipici locali.
A queste nuove esigenze una risposta è data, per esempio, dalla formula dei bed and breakfast. Secondo i dati rilevati dall'Istat a marzo, il numero di bed and breakfast in Italia si aggira intorno alle 25 mila unità; la gestione dell'attività è esercitata dalle donne, con un buon livello di istruzione e con conoscenze linguistiche. Oltre il 65% delle strutture ricettive sono distribuite nel Nord/Centro Italia con punte in Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte. Sul fronte ospiti, l'identikit è di coppie, non necessariamente interessate al risparmio ma propense a effettuare una esperienza alternativa.
Ma come è possibile sfruttare l'opportunità di gestire un bed and breakfast? Ci sono due modalità: i classici b&b a carattere familiare, dove è previsto alloggio presso la propria residenza e offerta di cibi e bevande preconfezionate a colazione e i b&b a carattere imprenditoriale (si veda articolo nella pagina seguente). La differenza tra i due è che il b&b familiare è un'attività economica non imprenditoriale, i secondi invece sono imprese a tutti gli effetti.
Nel primo caso, quindi, è possibile ricavare un reddito ospitando saltuariamente turisti nella propria abitazione, offrendo loro la stanza e la prima colazione. È sufficiente disporre nella propria casa di residenza di alcune stanze e di servizi igienici anche non riservati, garantendo la biancheria da letto e da bagno, i servizi di pulizia e la prima colazione.
A incrementare questa nuova offerta di esercizi turistici sono state le regioni, che hanno predisposto strumenti e normative perché il cosiddetto «b&b», fino a pochi anni fa letteralmente vietato dalle leggi, ora diventato normalità in tutto il territorio nazionale.
Panoramica delle varie leggi regionali. In Italia il bed and breakfast oltre dalla legge nazionale in materia (dlgs 23.05.2011 n. 79) è regolamentato dalle varie leggi regionali. Le norme che regolamentano l'attività di bed & breakfast presentano alcune differenze sul numero massimo di camere destinate all'attività, sul numero di letti messi a disposizione e sul numero massimo di giorni di permanenza dei clienti (si vedano le tabelle).
a) Il numero massimo di camere destinate all'attività di solito è 3 stanze, a eccezione delle regioni Abruzzo, Basilicata, Emilia-Romagna Friuli Venezia Giulia che prevedono 4 camere, e della regione Sicilia, che ne prevede 5, e della regione Puglia, della regione Toscana e della provincia di Bolzano, dove si possono adibire all'attività fino a un massimo di 6 camere.
b) Il numero massimo di posti letto varia da 6 a 20, ma in alcune regioni non è previsto tale limite.
c) Il numero massimo di giorni di permanenza dei clienti di solito è 30 giorni, in Piemonte è di 270 giorni.
I locali destinati all'attività bed & breakfast devono possedere le caratteristiche strutturali e igienico–sanitarie previste per l'uso abitativo dallo strumento urbanistico comunale vigente, nonché l'adeguamento alla normativa di pubblica sicurezza
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Due vie: familiare o imprenditoriale.
Dal 2011, per avviare un'attività di bed and breakfast ci sono due opzioni. Infatti, dal 21.06.2011 è in vigore il nuove codice del turismo, dlgs 23.05.2011 n. 79 (pubblicato sul S.O. n. 139/1 alla G.U. n. 129 del 06/06/2011) che ha introdotto il bed and breakfast a carattere imprenditoriale.
Pertanto convivono due tipologie di questa formula: i classici B&B a carattere familiare, dove è previsto alloggio presso la propria residenza e offerta di cibi e bevande preconfezionate a colazione; i b&b a carattere imprenditoriale.
I primi non necessitano di partita Iva e sono un'attività economica non imprenditoriale, i secondi invece sono imprese a tutti gli effetti. Il b&b, che sia familiare o imprenditoriale, prevede che l'accoglienza sia offerta in case private nelle quali solo un massimo di tre camere sono riservate agli ospiti; la colazione è servita con i cibi e le modalità tipiche delle tradizioni locali cercando, nel frattempo, di soddisfare le esigenze dell'ospite.
Operatori. Gli operatori che nell'ambito della propria residenza offrono un servizio di b&b devono svolgere l'attività secondo le indicazioni di seguito riportate:
• il numero (massimo e minimo) di posti letto è imposto, e varia da regione a regione;
• l'attività deve avere carattere saltuario o essere svolta per periodi ricorrenti stagionali;
• il servizio deve essere prestato avvalendosi della normale organizzazione familiare.
Il servizio deve essere assicurato fornendo cibi e bevande confezionate per la prima colazione senza alcuna manipolazione. Esclusivamente a chi è alloggiato, nel caso di b&b familiare. Secondo il Codice del turismo, i b&b a carattere imprenditoriale possono somministrare bevande e alimenti, in aggiunta al servizio di colazione, ai propri ospiti e anche a soggetti esterni.
Gli adempimenti. L'operatore del bed and breakfast è tenuto a comunicare giornalmente alla questura, o all'ufficio indicato dal questore, l'arrivo delle persone alloggiate. La comunicazione avviene tramite la compilazione di schede fornite dallo stesso ente. Una copia di tali schede deve essere conservata presso l'abitazione in cui viene svolta l'attività per gli eventuali controlli.
L'operatore deve poi comunicare mensilmente il movimento degli ospiti alla provincia su apposito modello Istat fornito dalla stessa, al fine di permettere le rilevazioni statistiche.
L'operatore deve altresì comunicare all'azienda di promozione turistica competente per territorio entro il 1° ottobre di ogni anno, su modello predisposto dalla regione, le caratteristiche e i prezzi che intende applicare dal 1° gennaio dell'anno successivo ai fini della pubblicità.
Avvio attività. Per avviare un'attività di bed and breakfast familiare occorre presentare, per via esclusivamente telematica, la cosiddetta «segnalazione certifica di inizio attività» allo Sportello unico attività produttive (Suap), completa della documentazione richiesta: planimetria dei locali in scala non inferiore a 1:100, certificato di agibilità (abitativa) e copia della polizza assicurativa di responsabilità civile per il verificarsi di eventuali danni agli ospiti.
È inoltre necessario effettuare il versamento dei relativi oneri alla Asl. La Scia ha validità permanente salvo modifiche sostanziali relative al soggetto titolare, all'attività svolta o ai locali. Gli obblighi per l'esercizio dell'attività:
• il servizio di pulizia delle stanze e sostituzione della biancheria deve essere svolto almeno tre volte alla settimana e, comunque, a ogni cambio di ospite. La pulizia del bagno deve avvenire quotidianamente;
• le tariffe devono essere comunicate alla provincia competente;
• il responsabile è tenuto a registrare le presenze e comunicarle all'autorità di pubblica sicurezza, nonché a comunicare agli organi competenti il movimento degli ospiti secondo le disposizioni in materia di rilevazioni statistiche;
• il responsabile dell'attività è tenuto a sottoscrivere un'adeguata polizza assicurativa di responsabilità civile per il verificarsi di eventuali danni agli ospiti (articolo ItaliaOggi Sette del 29.06.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il Durc non evita la riscossione. Ammessi debiti fino a 150. Ma oltre 10,33 c'è il recupero. I chiarimenti di Inps e Inail in vista del debutto della procedura online dal 1° luglio.
Il Durc non ferma Equitalia. Potrà accadere, infatti, che l'impresa risulti ufficialmente in regola con contributi e premi, eppure sia inseguita dagli agenti di riscossione. Potrà accadere perché il Durc verrà emesso anche in presenza di debiti non superiori a 150 euro per gestione (circa 20, tra Inps e Inail), mentre gli istituti previdenziali potranno procedere all'esazione coattiva per debiti d'importo non inferiore a 10,33 euro.

Lo spiegano Inps e Inail, in due circolari (la circolare 26.06.2015 n. 126 e la circolare 26.06.2015 n. 61), nell'illustrare le novità del «Durc online» al via dal 1° luglio.
Verifica in tempo reale. Il Durc online consente la verifica della regolarità in tempo reale, per tutti i pagamenti dovuti dall'impresa e scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese precedente quello durante il quale è fatta la verifica (si veda tabella). I pagamenti comprendono tutte le somme dovute per premi (Inail), contributi (Inps) e accessori.
Ai fini Inail. In tabella sono indicate le denunce retributive obbligatorie da presentare all'Inail, su cui viene effettuata la verifica in tempo reale. In particolare, con il Durc online non è più consentita la verifica sul rischio assicurato in relazione all'oggetto del contratto pubblico o procedimento amministrativo in cui il Durc è utilizzato, ovvero al motivo per cui è stata richiesta la verifica della regolarità contributiva nei rapporti tra privati (cosa che invece possibile con le regole previgenti).
Ai fini Inps. In tabella sono indicate anche le denunce obbligatorie Inps su cui viene effettuata la verifica in tempo reale. La procedura di controllo, in tal caso, utilizza gli stessi criteri del DurcInps (Durc interno): analisi dei dati presenti negli archivi delle singole gestioni, fornendo un esito che mette a confronto:
• gli importi denunciati o imposti con i versamenti mensili o periodici tenuto conto delle rispettive scadenze di legge previste per ciascuna delle gestioni;
• gli importi addebitati per accertamenti d'ufficio effettuati a seguito di attività di verifica amministrativa (per esempio note di rettifica, addebiti per operazione Poseidone ecc.) che evidenziano la correttezza tra i versamenti effettuati con quelli dovuti in relazione agli obblighi contributivi riferiti a tutti i tipi di rapporti di lavoro subordinato e autonomo;
• gli importi addebitati per accertamenti d'ufficio effettuati a seguito di attività di vigilanza.
Franchigia. La regolarità sussiste anche se lo scostamento, considerato non grave, tra somme dovute e somme versate, risulta non superiore a 150 euro, comprensivi di eventuali accessori di legge. Tal valutazione di non gravità si applica a ogni gestione in cui l'omissione relativa a contributi e sanzioni civili è presente, avuto riguardo al valore cristallizzato al momento di effettuazione della verifica.
Ciò non limita, tuttavia, agli enti di procedere ad azioni di riscossione coattiva. Così potrà determinarsi che nei confronti di un soggetto, che risulti regolare ai fini del Durc online, Inps e Inail possano attivare procedure di recupero tramite gli agenti della riscossione poiché per l'esazione coattiva il limite d'importo resta pari a euro 10,33 (articolo ItaliaOggi del 27.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: A rischio i dirigenti di polizia provinciale.
A rischio il lavoro di alcune centinaia tra funzionari e dirigenti dei corpi di polizia provinciale.

Il dl 78/2015, come è noto, ha stabilito che i dipendenti dei corpi di polizia provinciale dovranno confluire nei corpi della polizia comunale. Una decisione che appare, forse, ovvia. Invece, a guardare meglio, essa presenta non pochi profili critici.
Il primo è di ordine organizzativo. Le competenze della polizia provinciale sono piuttosto differenti da quelle della polizia locale, in quanto abbracciano soprattutto la vigilanza su ambiente, caccia e pesca, con limitate competenze in tema di codice della strada lungo le strade provinciali. L'articolo 5 del dl 78/2015, però, non si limita a prevedere il trasferimento dei dipendenti dei corpi di polizia provinciale verso quelli di polizia comunale: lascia ferme le previsioni dell'articolo 1, comma 89, della legge 56/2014 e il compito delle regioni di fissare, con proprie leggi, le modalità del riordino delle funzioni in tema di polizia provinciale.
Solo successivamente dovrebbero considerarsi possibili i trasferimenti presso i comuni, per evitare che le funzioni di polizia provinciale restino sostanzialmente non presidiate o risultino, addirittura, cancellate. Il testo definitivo dell'articolo 5 del dl 78/2015 cancella la previsione contenuta nelle bozze circolate, secondo la quale i comuni sarebbero subentrati nelle funzioni di polizia provinciale. La conseguenza è, allora, che dovranno essere le regioni a fare proprie dette funzioni, mentre i comuni utilizzeranno i componenti dei corpi di polizia provinciale esclusivamente per lo svolgimento delle funzioni comunali.
Le conseguenza di un sistema così arzigogolato e approssimativo sono allora evidenti. I comuni nella gran parte dei casi ambiranno ad acquisire gli agenti di polizia locale, inquadrati nelle categorie C. Molto difficilmente saranno richiesti, invece, i funzionari (capi squadra, vice comandanti o, in alcuni casi, anche comandanti) della Categoria D e, meno che meno, i poco meno di 100 dirigenti che guidano i corpi della polizia provinciale.
Infatti, in generale la necessità di assicurare ai corpi di polizia comunale una struttura gerarchica chiara ed efficiente, i posti di vertice organizzativo sono tutti occupati. Dunque, fatte le possibili eccezioni, è evidente che la posizione dei dirigenti e dei funzionari dei corpi di polizia provinciale si fa molto delicata e il loro destino lavorativo dipende dall'effettiva volontà delle regioni di fare proprie le funzioni di vigilanza (articolo ItaliaOggi del 26.06.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATASottotetto senza titolo, la sanzione è salatissima.
Sono dolori quando il comune scopre che dopo i lavori il sottotetto è diventato utilizzabile senza titolo. Se i locali sopra l'ultimo piano dell'edificio risultano di fatto trasformati in una pertinenza degli appartamenti senza che lo preveda il permesso di costruire scatta la sanzione pecuniaria laddove risulta impossibile la demolizione dell'opera. Ma la multa è salatissima perché viene ragguagliata all'intera superficie del sottotetto: le opere contro legge, infatti, imprimono all'area un cambio di destinazione urbanistica non autorizzato rendendo fuorilegge l'intero locale.

È quanto emerge dalla sentenza 16.06.2015 n. 2980, pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
Volumi utilizzabili.
Altro che 34 mila euro, come chiedeva: ne pagherà oltre 270 mila l'impresa edile che ha costruito un fabbricato più alto di quanto assentito. Ormai abbattere lo stabile è impossibile, perché il resto del manufatto è in regola: dunque lo scontro con il comune è sul quantum della multa.
Parla chiaro l'articolo 34, comma 2, del testo unico sull'edilizia: la sanzione deve essere calcolata sulla «parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire».
Secondo la società, la volumetria del sottotetto regolarmente autorizzata non può essere considerata ai fini del calcolo della sanzione: in fin dei conti si tratterebbe solo dello sforamento dell'altezza dei locali. In realtà i lavori hanno reso utilizzabile ai fini residenziali un volume che non lo era sulla base dei titoli edilizi rilasciati.
Ed è dunque il cambio di destinazione d'uso che legittima la sanzione più grave (articolo ItaliaOggi del 27.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sanatoria automatica sulle risorse decentrate.
È da considerare generale e applicabile automaticamente il divieto di recuperare nei confronti dei dipendenti degli enti locali risorse non correttamente disposte dalla contrattazione decentrata.

La sentenza 11.06.2015 della Corte d'appello di Firenze contribuisce a chiarire meglio la controversa questione del sistema di recupero delle risorse della contrattazione decentrata e il corretto sistema di attuazione del cosiddetto salva Roma, il dl 16/2014, convertito in legge 68/2014.
La Corte d'appello fiorentina è tranciante: se l'ente locale rispetta i requisiti di virtuosità previsti dall'articolo 4, commi 1 e 2, del dl 16/2014, non è mai possibile per l'ente chiedere ai dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, la refusione degli emolumenti erogati in applicazione delle disposizioni. La sanatoria, quindi, si applicherebbe in modo automatico, una volta riscontrati i presupposti previsti.
La pronuncia qualifica come un vero e proprio dovere per le amministrazioni locali accertare la sussistenza dei presupposti per applicare il dl 16/2014 e, dunque, effettuare il recupero non nei confronti dei dipendenti, bensì delle risorse. A ben vedere, comunque, al di là dei chiarimenti e delle aperture della Corte, combinando le interpretazioni giurisprudenziali con le disposizioni del dl salva Roma è possibile ricavare anche dall'articolo 40, comma 3-quinquies, il medesimo principio generale di obbligo di recuperare le risorse della contrattazione decentrata dalla futura contrattazione e non nei confronti dei dipendenti.
La disposizione così recita: «In caso di accertato superamento di vincoli finanziari da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del dipartimento della funzione pubblica o del ministero dell'economia e delle finanze è fatto altresì obbligo di recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva».
Di fatto, quindi, le previsioni del dl 16/2014 altro non sono se una specificazione di dettaglio dell'obbligo generale già posto dal dlgs 165/2001, che il «salva Roma» estende anche all'utilizzo e costituzione dei fondi. Ovviamente, deve trattarsi dei fondi della contrattazione decentrata antecedenti all'adeguamento alle nuove regole imposte dal dlgs 150/2009, ossia i fondi costituiti prima della scadenza obbligatoria dell'adeguamento, il 31.12.2012 (articolo ItaliaOggi del 30.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sui contratti decentrati «sanatoria» con limiti rigidi. Personale. La Corte d’appello di Firenze stoppa i recuperi individuali.
Gli enti locali non devono recuperare dai singoli interessati i compensi che hanno illegittimamente erogato ai propri dirigenti e dipendenti se sussistono le condizioni di “virtuosità” dell’amministrazione previste dall’articolo 4, comma 3, del Dl 16/2014.
È questa l’indicazione che la Corte di Appello di Firenze, sezione lavoro, ha dettato con la sentenza 11.06.2015.
Si deve ricordare che la stessa sezione aveva già, peraltro sempre nei confronti del Comune di Campi Bisenzio, stabilito con la sentenza n. 825/2014 l’applicabilità delle norme di “sanatoria” della contrattazione decentrata illegittima.
La sentenza dimostra di essere ben consapevole delle numerose difficoltà interpretative che sono sollevate dalla norma: infatti giudica che la lettura della disposizione proposta è «l’unica interpretazione coerente sul piano letterale», per cui si deve pervenire ad essa sostanzialmente per l’assenza di alternative logiche.
Le condizioni per l’applicabilità dell’esenzione dalla maturazione di responsabilità amministrativa e dal conseguente blocco della ripetizione delle somme erogate per la contrattazione decentrata, sono il rispetto del Patto di stabilità, dei vincoli alle assunzioni, del tetto di spesa del personale e, fino a che era in vigore, del rapporto massimo del 50% tra spesa del personale e spesa corrente; rispetto del tetto del trattamento economico individuale; del tetto del fondo del 2010 negli anni dal 2011 al 2014 e, sempre nello stesso periodo, del vincolo della riduzione del fondo in proporzione alla diminuzione del personale, nonché del divieto di dare effetti economici nello stesso periodo alle progressioni e del tetto della spesa per le assunzioni flessibili.
Questa sanatoria opera, nella lettura data dalla Conferenza Unificata, agli atti adottati fino al 31.12.2012. La Conferenza ritiene però che le disposizioni che impongono di non effettuare il recupero delle somme illegittimamente erogate operi anche nelle amministrazioni che non sono in possesso dei requisiti di virtuosità previsti dalla disposizione.
Ma torniamo alla sentenza. Il fatto che il legislatore abbia stabilito espressamente che non si applicano le previsioni del Dlgs 165/2001 che irrogano la nullità parziale e l’inapplicabilità delle clausole dei contratti decentrati in contrasto con i vincoli legislativi e/o della contrattazione nazionale, nonché l’inserzione automatica delle clausole dei contratti nazionali o del dettato legislativo, determina come conseguenza che gli atti di costituzione e di ripartizione dei fondi siano da ritenere espressamente fatti salvi. Inoltre ne deriva, come conseguenza strettamente connessa, che non è possibile alcun rimando sostitutivo alla contrattazione nazionale.
La sentenza chiarisce che queste disposizioni si applicano non solamente alla contrattazione del personale, ma anche a quella della dirigenza. Per cui nel caso oggetto del contenzioso il Comune non può chiedere la restituzione delle somme illegittimamente corrisposte per la retribuzione di posizione di un dirigente.
Si chiarisce che l’inapplicabilità delle disposizioni introdotte dal Dlgs 150/2009 non determina come conseguenza il ritorno delle disposizioni previgenti, peraltro analoghe nel fissare le sanzioni della nullità e inapplicabilità delle clausole dei contratti decentrati in contrasto con quelli nazionali e con il dettato legislativo. Infine, anche sulle censure relative alla mancata costituzione del fondo si fa prevalere il dato sostanziale
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in deroga per gli edifici privati.
L’art. 14 del Dpr 380/2001 stabilisce che il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel D.lgs. 490/1999 (ora D.lgs. 42/2004) e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la recente sentenza 05.06.2015 n. 2761 ha fornito una interpretazione innovativa ed ampia dell’art. 14,
dichiarando legittima l’applicazione del permesso di costruire in deroga ad un intervento di recupero di un immobile privato riconosciuto di interesse pubblico dall’amministrazione comunale.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che “
non è necessario che l’interesse pubblico attenga al carattere pubblico dell’edificio o al suo utilizzo, ma è sufficiente che coincida con gli effetti benefici per la collettività che potenzialmente derivano dalla deroga, in una logica di ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità del caso”.
Nella fattispecie è stata riconosciuta la legittimità di un permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico generale per la realizzazione dell’intervento di riqualificazione di un edificio storico di proprietà privata destinato ad uso commerciale perché rispondente a criteri di interesse pubblico, infatti:
- recuperava uno dei più antichi edifici del centro storico;
- apriva integralmente al pubblico un edificio rimasto chiuso per decenni;
- consentiva la fruizione pubblica gratuita di ampi spazi interni per iniziative culturali e turistiche;
- non comportava alcun onere finanziario al comune ed anzi procurava ad esso notevoli risorse finanziarie straordinarie;
- attivava ingenti investimenti privati con creazione di nuovi posti di lavoro, ecc.
Si ricorda che il D.L. 133/2014 cd. “sblocca cantieri” (convertito dalla Legge 164/2014) ha inserito il comma 1-bis nell’art. 14 del Dpr 380/2001 che permette l’applicazione del permesso di costruire in deroga agli interventi di ristrutturazione edilizia, compresi quelli in aree industriali dismesse, anche in deroga alle destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesti l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d'uso non comporti un aumento della superficie coperta originaria, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall’art. 31, comma 2, del D.L. 201/2011 (convertito dalla Legge 214/2011) (commento tratto da www.ance.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA

A - In ordine ai presupposti per il rilascio di un permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali:
Secondo l’appellante il progetto di riqualificazione non sarebbe tale da portare alla realizzazione di un’opera di interesse pubblico, meritevole di deroghe rispetto alle previsioni di Piano. Se è vero che la convenzione prevede l’utilizzo della corte interna per eventi culturali almeno 10 giorni all’anno e della sala eventi per iniziative istituzionali del Comune, sarebbe d’altronde innegabile che la fruizione di tali spazi è eventuale, parziale e temporanea, e comunque subordinata ad un previo accordo fra le parti. Il TAR del resto non avrebbe fornito alcun elemento in ordine all’effettivo svolgimento di una comparazione fra tutti gli interessi pubblici in rilievo.
Il motivo è privo di fondamento.
Il Comune ha diffusamente e specificatamente motivato sul punto, ed il TAR ha correttamente statuito in proposito. L’edificio in questione è di proprietà privata, ragion per cui ciò che occorre verificare è se vi sia un interesse pubblico che possa concorrere con quello privato al recupero ed allo sfruttamento commerciale. Non è necessario che l’interesse pubblico attenga al carattere pubblico dell’edificio o del suo utilizzo, ma è sufficiente che coincida con gli effetti benefici per la collettività che dalla deroga potenzialmente derivano, in una logica di ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità del caso, ed esulante da considerazioni meramente finanziarie.
Nel caso di specie, l’amministrazione locale non solo ne ha dedotto l’esistenza, ma lo ha sostanziato e giustificato, evidenziando come “l'intervento di riqualificazione e rifunzionalizzazione del Fontego risponde ai criteri di interesse pubblico in quanto:
- recupera uno dei più antichi ed ampi edifici storici della Città Antica, qualificato come bene culturale, con la riproposizione dell'originaria destinazione commerciale propria del Fondaco, integrata con la destinazione culturale;
- apre al pubblico l'intero edificio del Fondaco, anche per le parti rimaste inaccessibili per decenni durante l’uso dei servizi postali;
- consente la fruizione pubblica gratuita di ampi spazi interni al Fondaco per iniziative culturali e di promozione turistica;
- non comporta alcun onere finanziario al Comune di Venezia, anzi procura allo stesso notevoli risorse finanziarie straordinarie;
- attiva investimenti privati ingenti, con creazione, a regime, di nuovi posti di lavoro stimati in non meno di 400 posti di lavoro diretti oltre quelli dell'indotto;
- consolida i servizi offerti dalla Città storica al mercato internazionale
".
Considerazioni -quelle esposte- del tutto ragionevoli, ove si consideri che gli aspetti edilizi oggetto di deroga, riguardano un edificio già esistente, divenuto di proprietà privata a seguito di dismissione dal patrimonio dello Stato, in attuali precarie condizioni di manutenzione, del quale si chiede il recupero nel rispetto dei vincoli paesaggistici e storico artistici.
Si vuol cioè dire che il “sacrificio” delle previsioni pianificatorie e dell’ordine in esse precostituito -consistente nella modifica della destinazione d’uso ed in un modestissimo incremento dell’altezza con conseguente incremento volumetrico, ferma la salvaguardia dei valori monumentali e paesaggistici– ha un peso comparativamente minimo rispetto ai miglioramenti che ne derivano in relazione ad una serie di concorrenti interessi pubblici pure affidati alla cura dell’autorità amministrativa locale (recupero, accessibilità, fruibilità, incremento occupazionale, etc.)
Non meritano condivisione le ulteriori affermazione dell’appellante che, più che dolersi della nuova destinazione commerciale dell’immobile, stigmatizza il carattere eventuale, parziale e temporaneo della fruizione collettiva, comunque subordinata ad un previo accordo fra le parti.
Dalla lettura della convenzione emerge che il previo accordo annuale fra le parti riguarda le modalità ed i programmi e non certo la sussistenza dell’obbligazione in capo al proprietario, che è prevista con carattere di certezza.
A1 – In ordine alla legittimità dei contenuti della deroga:
Secondo l’appellante, quanto al limite della densità edilizia, il TAR avrebbe sostanzialmente fatto propria la difesa comunale, e con essa, il vizio di fondo che inficia il calcolo dei parametri: in particolare il volume dell’edificio sarebbe stato calcolato, prima e dopo l’intervento di riqualificazione, con criteri diversi e male applicati, con il risultato che, nonostante le oggettive addizioni, il volume esistente risulterebbe maggiore di quello di progetto.
L’errore tecnico dipenderebbe dal calcolo delle altezze che, poiché comprensivo, secondo il nuovo criterio, di volumi prima non computabili, determinerebbe la sovrastima dei volumi esistenti. Per il resto, il TAR non avrebbe spiegato come mai l’aumento di volume debba considerarsi interno e non esterno alla sagoma. La struttura di travi d’acciaio che sorregge il nuovo padiglione vetrato sarebbe alta 3 metri, in guisa da generare un volume esterno di 990 metri cubi.
In ogni caso il concetto di densità edilizia di cui all’art. 7 del DM 1444/1968 sarebbe da riferire al volume dell’intero edificio, senza distinzione alcuna tra interno ed esterno. Il TAR avrebbe errato anche in relazione ai limiti di altezza di cui all’art. 8 del DM 1444/1968: pur riconoscendo che l’esistenza del corpo aggiunto (cd lucernario-lanterna) determina incremento di 1,6 metri dell’altezza, ne avrebbe contraddittoriamente escluso la rilevanza considerandola una superfetazione; inoltre avrebbe erroneamente applicato l’art. 8 cit., qualificando l’intervento come di “nuova costruzione” invece che di “risanamento”.
Ancora, il TAR avrebbe errato nel ritenere consentita la deroga ai caratteri costruttivi del tetto, atteso il tenore dell’art. 14 del dpr 380/2001, che consente deroga esclusivamente ai limiti di densità edilizia e di altezza.
Le censure non sono convincenti.
Quanto al rispetto dei limiti della deroga individuati negli articoli 7, 8 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, occorre procedere per punti:
A mente dell’art. 7 “per le operazioni di risanamento conservativo ed altre trasformazioni conservative, le densità edilizie di zona e fondiarie non debbono superare quelle preesistenti, computate senza tener conto delle soprastrutture di epoca recente prive di valore storico-artistico”.
L’appellante, asserisce che, poiché il progetto di restauro e risanamento prevede un aumento di volume, ne deriverebbe automaticamente un aumento della densità edilizia.
I due piani però non sono sovrapponibili. Gli indici urbanistici adottati dal Comune di Venezia nell’ambito del regolamento edilizio ed utilizzati per la pianificazione urbanistica non contengono il riferimento alla densità edilizia fondiaria, ma quello all’ indice di utilizzazione fondiaria (Uf), espressa dal rapporto tra superficie lorda di pavimento Sp e superficie fondiaria Sf.
La superficie lorda di pavimento è determinata con riferimento agli edifici esistenti, dividendo il volume dell'edificio per l'altezza virtuale definita dal coefficiente di m. 3. Il risultato individua la potenzialità edificatoria massima teorica dell'edificio in termini di Sp (insuperabile anche ai sensi del D.M. n. 1444/1968). Trattasi di un parametro cioè che, per come è concepito, consente margini ampliativi della superficie, nel rispetto dell’indice.
Una volta individuato il parametro inderogabile nell’indice di utilizzazione fondiaria, è chiaro che il volume reale non per questo diventa un dato urbanistico irrilevante, ma lo stesso diviene suscettibile di deroga, essendo previsto nella strumentazione urbanistica e non trovando specifici limiti nell’art. 7. Del resto, se l’art. 7 avesse voluto fare semplicemente riferimento ad un volume massimo non avrebbe utilizzato il concetto, molto più complesso ed elastico, di “densità”, concetto di relazione indicante il rapporto tra una data grandezza e l’estensione su cui essa si distribuisce.
Quanto all’altezza, anche a voler considerare l’intervento quale semplice risanamento conservativo non implicante trasformazioni, ed a voler considerare inderogabile l’altezza preesistente, deve comunque rilevarsi che, nel caso di specie, l’altezza del corpo di fabbrica è rimasta invariata e si è progettata una modifica morfologica della copertura con montaggio della “lanterna” centrale ad una quota più alta di 1,60 metri, con una soluzione progettuale ed una linea che non tradisce la ratio che ispira l’art. 8 del D. M 1444/1968 e l’art. 14 del TU edilizia, il primo teso ad imporre limiti nella pianificazione del territorio, il secondo finalizzato a consentire ragionevoli e temperate deroghe ai quei limiti ove l’organo rappresentativo della collettività locale ravvisi un interesse pubblico prevalente.
Ancora –secondo l’appellante- il TAR avrebbe errato nel ritenere consentita la deroga ai caratteri costruttivi del tetto, atteso il tenore dell’art. 14 del dpr 380/2001, che consente deroga esclusivamente ai limiti di densità edilizia e di altezza. Anche in questo caso il principio di ragionevolezza vuole che, se sono consentite deroghe a parametri urbanistici rilevanti, come la densità, l’altezza, la distanza, oggetto di specifica normazione e standardizzazione su base nazionale, a fortiori possono essere consentite deroghe alle caratteristiche costruttive di alcuni elementi, ovviamente ove sia previamente acquisita la valutazione della competente Sovrintendenza.

ESPROPRIAZIONE: DECORRENZA DEL TERMINE DI PAGAMENTO DEGLI INTERESSI A FAVORE DELL’ESPROPRIATO.
Poiché il trasferimento del bene in favore dell’espropriante si realizza alla data di emissione del relativo decreto -indipendentemente dalla successiva notifica del provvedimento- a tal data l’espropriante deve effettuare il deposito dell’indennità e, in caso di ritardo, sono dovuti dal giorno dell’espropriazione e a quello di adempimento dell’obbligazione principale gli interessi legali, di natura compensativa, per il solo fatto che la somma è rimasta a disposizione dell’ente espropriante e a prescindere da ogni indagine sulla colposa responsabilità per il ritardo nel pagamento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 27.01.2005, n. 1701; 23.04.2002, n. 5909).
Una Corte di appello, pronunciando sulla domanda di alcuni privati circa la determinazione dell’indennità di esproprio per p.u. in un procedimento vòlto alla realizzazione d’un complesso immobiliare da parte di un Comune, determinò -sulla base d’una C.T.U.- l’indennità per il fabbricato e la pertinenza espropriati e, per quanto qui interessi, anche per l’area di terreno (ritenuta edificabile), facendo applicazione dei criteri riduttivi di cui all’art. 5-bis, comma 2 e 3, della L. n. 359/1992.
La sentenza è gravata per Cassazione in via principale dai proprietari e in via incidentale dalla P.A.
Riuniti i ricorsi, la Suprema Corte accoglie il principale, nei limiti esposti. Osserva che la decisione impugnata fu pubblicata due giorni prima della sentenza Corte cost. n. 348/2007, che abrogò i criteri riduttivi di cui all’art. 5-bis della L. n. 359/1992. Da tale declaratoria, seppur sopravvenuta alla sentenza qui impugnata, deve tenersi conto in ragione del fatto che il rapporto non è divenuto definitivo, nello specifico per mancata formazione di giudicato in merito alle concrete modalità di determinazione dell’indennità.
In ragione di questo, al rapporto deve applicarsi, per la determinazione dell’indennizzo, il criterio generale del valore di mercato del bene, di cui all’art. 39 della L. 25.06.1865, n. 359, ancora vigente perché non abrogato dall’art. 58 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. espropri) perché la norma fa salvo quanto previsto dall’art. 57, comma 11 (oltre che dall’art. 57-bis), che esclude l’applicazione del T.U. ai progetti per i quali, come nel caso in esame, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di p.u., indifferibilità e urgenza dell’opera, ribadendo che continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data, fra cui, pertanto, quella contenuta all’art. 39 L. n. 2359/1865.
Né, osserva la Suprema Corte, può qui applicarsi l’art. 37 L. n. 327/2001 (come novellato dall’art. 2, comma 89, lett. a, della L. n. 244/2007). Infatti -per effetto della declaratoria d’incostituzionalità (cfr. Corte cost. n. 348/2007) del criterio d’indennizzo di cui all’art. 5-bis della L. n. 359/1992 (e all’art. 37, comma 1 e 2, del D.P.R. n. 327/2001)- lo jus superveniens costituito dall’art. 2, comma 89, lett. a), della L. 24.12.2007, n. 244 si applica retroattivamente per i soli procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi in corso (Cass. civ., Sez. Un., 28.02.2008, n. 5265): sotto questo profilo, la sentenza in rassegna non arreca grandi novità.
Di contro, in accoglimento di altro motivo di gravame, la Suprema Corte si occupa di indagare il momento di decorrenza degli interessi legali sulle somme dovute al privato.
A tal fine, partendo dall’osservazione che il trasferimento del bene in favore dell’espropriante si realizza alla data della pronuncia del relativo decreto -indipendentemente dalla successiva notifica del provvedimento la quale, rispetto al decreto stesso (che ha natura di atto non ricettizio) non è elemento né integrativo, né condizionante l’efficacia ma ha solo funzione di far decorrere il termine di opposizione alla stima (al punto che i vizi incidenti su di essa non costituiscono motivi di carenza del potere espropriativo, sin da Cass. civ., Sez. I, 01.08.1994, n. 7154)- la Cassazione afferma che alla data dell’emissione del decreto d’esproprio l’espropriante deve effettuare il deposito dell’indennità e che se vi provveda in ritardo sono dovuti, dal giorno dell’espropriazione e a quello di adempimento dell’obbligazione principale, gli interessi legali di natura compensativa per il solo fatto che la somma è rimasta a disposizione dell’ente espropriante e a prescindere da ogni indagine sulla colposa responsabilità per il ritardo nel pagamento (Cass. civ., Sez. I, 27.01.2005, n. 1701; 23.04.2002, n. 5909).
Nei limiti ora indicati -ossia per la necessità di rapportare l’indennità d’esproprio al valore di mercato del bene- il ricorso è accolto e la sentenza è cassata con rinvio per la determinazione della somma nel complesso dovuta, con assorbimento di altri motivi del ricorso principale e di un motivo contenuto nel ricorso incidentale antitetico a quello accolto (in senso analogo, si veda anche la contestuale sentenza di Cass. civ., Sez. I, 10.12.2014, n. 26066 - Pres. Salvago - Rel. Benini) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 10.12.2014 n. 26065 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

ESPROPRIAZIONE: INDENNIZZO PER AREE AGRICOLE ACCESSORIE AD AREA PRODUTTIVA ESPROPRIATA.
La sentenza Corte cost. n. 181/2011 ha sganciato l’indennizzo dei suoli non edificabili dal valore agricolo medio così in sostanza riconoscendo un tertium genus tra suoli edificabili o no e consentendo che questi ultimi siano valutati con criteri rapportati a caratteristiche e utilizzi economici non agricoli, se conformi alle norme vigenti e agli strumenti urbanistici: per essi, nella determinazione dell’indennizzo espropriativo, il valore di mercato deve tener conto di utilizzazioni diverse dalla destinazione agricola o edificatoria.
L’espropriazione di un fondo -agricolo ma accessorio a un’area espropriata e già destinata ad attività produttiva, tale da aver determinato la rescissione del vincolo funzionale e lo smembramento dell’azienda con inutilizzabilità dei residuati beni rispetto alla loro destinazione originaria- determina, in quanto incidente sulle relative valutazioni di indole economica, la necessità di rapportare a tali elementi la liquidazione a valore di mercato dovuta ai sensi dei principi ricavabili da Corte cost. n. 181/2011.

Pronunciandosi sulla domanda di determinazione dell’indennità inerente a un fondo su cui insistevano fabbricati destinati ad attività d’impresa, rilevato che il terreno (circa 12.000 mq.) era stato espropriato per circa metà della propria estensione e che sulla parte ablata insistevano manufatti legittimamente destinati all’attività produttiva, una Corte d’appello riteneva -motivatamente disattendendo le conclusioni del C.T.U.- che ai fini della determinazione dell’indennità dovesse considerarsi il valore di mercato dei fabbricati mentre per il terreno si dovesse far riferimento alla sua destinazione agricola. Era, di contro, esclusa l’indennizzabilità della perdita dell’avviamento industriale e quella per i costi che la società avrebbe dovuto sostenere per trasferire altrove la propria attività, in conseguenza della parziale espropriazione subita. Sulla scorta di tali principi, si escludeva che il lotto residuo avesse subito una riduzione di valore e che potessero attribuirsi altre voci indennitarie per la dissoluzione dell’organizzazione aziendale.
Per la cassazione di tale sentenza l’espropriato ricorre dolendosi -per quanto ritenuto ammissibile dalla Corte di legittimità- della violazione dell’art. 40 L. n. 2359/1865, in ragione dell’omessa ponderazione del pregiudizio inerente all’inutilizzabilità dei beni aziendali situati nella restante proprietà non espropriata; ancora, dell’art. 72 legge cit., per avere la Corte di merito escluso la risarcibilità della perdita del reddito derivante dall’esercizio dell’attività imprenditoriale esercitata nel complesso immobiliare.
Nell’esaminare congiuntamente tali due censure, la Suprema Corte -nell’osservare che la normativa vigente, in disparte le specifiche previsioni in materia di azienda agricola, non prevede il ristoro del pregiudizio strettamente arrecato all’attività produttiva artigianale o industriale- ricorda come in propri precedenti abbia affermato che laddove, a seguito di espropriazione parziale per pubblica utilità, risulti impedito l’ulteriore svolgimento di un’impresa che utilizzava l’immobile espropriato per l’esercizio della propria attività, la determinazione dell’indennità di esproprio dev’essere effettuata (ex art. 40 L. n. 2359/1865) tenendo conto della differenza tra valore dell’area espropriata, comprensivo di quello degli edifici che v’insistono, e il valore dell’azienda, non potendo costituire oggetto di indennizzo il pregiudizio che il proprietario o il titolare di altro diritto subisce per non poter più esercitare l’impresa in quel luogo, in quanto l’indennità di espropriazione è commisurata al valore venale del bene, non a quello dell’azienda. Sicché le costruzioni esistenti sull’area vanno considerate nel loro valore in sé, non per il diverso valore che possono avere in rapporto alla particolare destinazione connessa all’attività d’impresa e dunque alla circostanza di essere adibite a sede dell’azienda (Cass. 06.04.2009, n. 8229).
Tuttavia tale valore, osserva la sentenza in rassegna, non può non aver risentito dello smembramento dell’azienda, in quanto la rescissione del vincolo funzionale rende inutilizzabili quei beni rispetto alla loro destinazione originaria, refluendo sulle relative valutazioni di ordine economico. Simile ordine di valutazioni deriva dalle prospettive che la recente pronuncia del Giudice delle leggi, in relazione all’indennità relativa ai terreni agricoli (Corte cost. n. 181/2011), ha aperto in relazione alla stima degli stessi.
Pertanto, se è vero che il valore di mercato assicura, per i suoli edificabili, un valore pieno e non più dimezzato, per quelli che non abbiano la prerogativa dell’edificabilità, il valore di mercato deve tener conto, rispetto al minimum dei valori tabellari di cui agli artt. 15 e 16 della L. 22.10.1971, n. 865, di quanto suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, rispecchiando possibilità di utilizzazioni ulteriori rispetto alla destinazione agricola e quella edificatoria, anche se non gli indici di valutazione attinenti al concetto di edificabilità di fatto (Cass. civ., Sez. I, 28.05.2004, n. 10280; 06.10.2005, n. 19511; 21.03.2013, n. 7174).
La sentenza Corte cost. n. 181/2011 per i terreni agricoli ha rimesso l’indennità alla valutazione del mercato, pur senza equiparare i terreni agricoli ai suoli edificabili: applicandosi dunque il criterio generale del valore venale pieno, tratto dall’art. 39 della L. n. 2359/1865, la valutazione va operata in base alla suscettibilità di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, che pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l’agricola e l’edificatoria, ad esempio, parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti (Cass. civ., sez. I, 17.10.2011, n. 21386; 01.08.2013, n. 18434).
La pronuncia della Corte costituzionale ha in sostanza comportato il riconoscimento di un tertium genus tra suoli che godano o no della prerogativa di edificabilità, consentendo che quelli non edificabili siano valutati in base a criteri oggettivi, idonei a premiarne utilizzazioni alternative, purché, comunque, non rapportabili all’edificazione (Cass. 10.02.2014, n. 2959): sicché, attraverso il sistema indennitario delle aree non edificabili viene in considerazione l’iniziativa privata non strettamente commisurata alla rendita di trasformazione dei suoli.
L’intervento del Giudice delle leggi ha così sganciato l’indennizzo dei suoli non edificabili dal valore agricolo medio, e ne ha consentito la valorizzazione in base alle caratteristiche oggettive, che tengano conto di loro possibili utilizzi economici, ulteriori e diversi da quelli agricoli, consentiti dalla normativa vigente e conformi agli strumenti di pianificazione urbanistica, previe le opportune autorizzazioni amministrative (Cass. 28.05.2012, n. 8442).
L’iniziativa privata del proprietario, lungi dal costituire il criterio discretivo tra aree edificabili e aree non edificabili, è la misura che in un’economia di mercato individua la domanda di suoli in un determinato contesto urbanistico, quale fattore di produzione nella logica imprenditoriale. Tale criterio, emerso da una sentenza della Corte costituzionale pronunciata ad altri fini (n. 179/1999) è tendenzialmente divenuto  criterio integrativo, quando non discretivo, per il riconoscimento dell’edificabilità delle aree ai fini della determinazione dell’indennità, laddove l’azione privata, di cui i nuovi valori ispirati alla solidarietà e alla sussidiarietà (art. 118, comma 4, Cost.), ammettono una finalizzazione all’interesse collettivo, attiene, quanto alla sfera urbanistica, al problema dell’utilizzo della proprietà e dei possibili vincoli alle scelte del proprietario, senza incidere sulle conseguenze economiche dell’espropriazione.
L’iniziativa privata, nella prospettiva che qui interessa, può ben esplicarsi nei margini consentiti dalle scelte urbanistiche, nel rispetto della destinazione dei suoli configurata dagli strumenti territoriali. Ove si renda necessaria l’espropriazione, la conseguente indennità terrà conto della potenziale redditività del terreno, ma sempre nei limiti segnati dalle scelte urbanistiche. Essa, dunque, costituisce un parametro trasversale, che contribuisce a stabilire il valore di mercato per ogni tipo di area. Alla luce della mutata base di valutazione dei beni occupati a scopi d’interesse pubblico, l’iniziativa privata resta un elemento determinante della valutazione, commisurando l’appetibilità sul mercato di una determinata area, atteso l’impiego cui la stessa è destinata, in vista degli usi legalmente consentiti.
Sulla base delle considerazioni che precedono la valutazione dell’area espropriata sulla base della sua mera destinazione agricola, nonché dell’area residua, con esclusione di ogni valutazione circa il nesso funzionale che interessava l’intero complesso immobiliare, non possono, anche alla luce dello ius superveniens, essere condivise, imponendosi la stima sulla base del valore di mercato anche in relazione alla destinazione, nella specie effettiva, diversa da quella agricola.
La Corte sulla scorta di questi parametri ermeneutici, cassa con rinvio la sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 10.12.2014 n. 26057 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: NULLITÀ DEL CONTRATTO DI COMPRAVENDITA DI UN IMMOBILE IN CASO DI DIFFORMITÀ SOSTANZIALE MA NON FORMALE RISPETTO AL TITOLO ABILITATIVO EDILIZIO.
All’art. 40 della L. n. 47/1985 va data lettura sostanziale e non meramente formale: in ragione di ciò, da tale norma è desumibile il principio generale della nullità di carattere sostanziale degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, a cui si aggiunge una nullità di carattere formale per gli atti di trasferimento di immobili non in regola sotto il profilo urbanistico o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi (Cass. civ., Sez. I, 17.10.2013 n. 23591).
La controversia genera da una compravendita fra privati di un immobile oggetto di una sopravvenuta scoperta di abusività da parte dell’acquirente che, per tale ragione, convenne al Tribunale ordinario il venditore domandando la declaratoria di nullità dell’acquisto in ragione delle irregolarità edilizie non sanabili riscontrate con riguardo all’edificio.
Il Tribunale e la Corte d’appello respinsero la domanda, ritenendo che l’art. 40 L. n. 47/1985, prescindendo dalla regolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico (vale a dire dalla conformità o meno dell’immobile alla concessione, cfr. Cass. n. 5898/2004) facesse discendere la nullità degli atti di trasferimento soltanto dall’omessa menzione degli estremi della licenza edilizia da parte dell’alienante, o dalla mancata allegazione della domanda di sanatoria corredata dal versamento delle rate d’oblazione. In applicazione di tal formalistica interpretazione, rilevato che tali adempimenti furono assolti in rogito, il Giudice di merito escluse la sussistenza di estremi per potersi dichiarare la nullità dell’atto.
La sentenza è gravata per Cassazione, che accoglie il ricorso con un interessante richiamo a recenti revirement giurisprudenziali da essa maturati, per i quali all’art. 40 cit. va data lettura sostanziale e non meramente formale.
Infatti, a fronte delle doglianze del ricorrente -per il quale la sentenza gravata avrebbe dovuto scrutinare il merito della domanda di sanatoria rilevandone inesattezze e false attestazioni (accertate anche dal C.T.U. di causa) per così statuire che gli abusi avevano dato luogo a costruzione autonoma e diversa da quella progettata e autorizzata, a tal punto marcati che la sanatoria non si sarebbe potuta assentire e che gli abusi sarebbero rimasti tali (con la derivata impossibilità di legittimare e rendere commerciabile l’immobile)- la Suprema Corte richiama propri recenti arresti che, discostandosi da un diverso precedente orientamento e partendo dalla non cristallina formulazione dell’art. 40, comma 3, L. n. 47/1985, consentono di affermare che da tale norma è desumibile il principio generale della nullità di carattere sostanziale degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, a cui si aggiunge una nullità di carattere formale per gli atti di trasferimento di immobili non in regola sotto il profilo urbanistico o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi (Cass. civ., sez. I, 17.10.2013, n. 23591).
Per questo motivo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.12.2014 n. 25811 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: VIOLAZIONI ANTISISMICHE SUSSISTENTI ANCHE IN CASO DI VERIFICA POSTUMA DELL’ASSENZA DEL PERICOLO E DEL RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE.
Le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Ne deriva che l’effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza l’autorizzazione del genio civile e senza le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell’assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo non incidono sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell’attività.

La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla configurabilità del reato “antisismico” in ipotesi in cui, a seguito dell’attività di indagine, si accerti l’insussistenza della pericolosità della condotta vietata e venga rilasciata l’autorizzazione amministrativa.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il tribunale, nel giudicare la proprietaria committente per aver realizzato, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, ex art. 136, una nuova opera ai sensi dell’art. 3, lett. e.1), T.U.E. consistita in un muro di confine costituito da blocchi in cemento aventi altezza variabile tra cm 100 e cm 240, l’aveva eseguita senza avere preventivamente depositato il progetto e senza avere preventivamente ottenuto il prescritto nulla osta previsto dalla normativa antisismica.
Il tribunale aveva però assolto la proprietaria osservando che il geometra responsabile dell’ufficio sismico aveva escluso che la recinzione della proprietà con blocchi di conglomerato cementizio costituisse manufatto sottoposto alla normativa sismica, rientrando nelle opere minori come individuate dalla Giunta regionale delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) e come tali ritenute, per caratteristiche costruttive, come strutture non comportanti pericolo per la pubblica incolumità.
Contro la sentenza assolutoria proponeva ricorso per cassazione il PM, in particolare sostenendo che il giudice aveva erroneamente ritenuto che l’opera edilizia realizzata (muro di confine costituito da blocchi in cemento avanti altezza variabile tra cm 100 e cm 240) non fosse soggetta alla normativa sismica; assumeva il PM ricorrente come l’approdo cui era giunto il tribunale fosse manifestamente errato non potendosi ipotizzare che, per costruire un muro alto oltre due metri da terra, non occorresse verificare la rilevanza sismica dello stesso posto che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, qualunque intervento che per dimensioni, modalità di collocazione, morfologia, caratteristiche del terreno, pendenza, etc. possa esporre a pericolo la pubblica incolumità necessita di preventivo adempimento degli obblighi di cui agli artt. 93 e 94 T.U.E.
Sono pertanto soggetti, secondo il PM, al rispetto delle prescrizioni formali (artt. 93 e 94 T.U.E.) e sostanziali (art. 83 T.U.E.) anche quegli interventi che non riguardino un’abitazione, essendo poi assolutamente irrilevante il fatto che la regione Marche consideri un muro alto oltre due metri un’opera "minore".
La tesi è stata ritenuta fondata dalla Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha precisato che la normativa antisismica è ispirata a preservare la pubblica incolumità in zone particolarmente soggette al verificarsi di movimenti tellurici, prescrivendo, da un lato, necessari obblighi burocratici e particolari prescrizioni tecniche costruttive e costituendo, dall’altro, un’anticipazione della tutela dell’interesse cui appresta protezione (pubblica incolumità).
Ne consegue che, in materia urbanistica ed edilizia, le disposizioni legislative regionali, espressione del potere concorrente con quello dello Stato in materia, devono non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti in materia edilizia-urbanistica dalla legislazione statale, ma devono anche essere interpretate in modo da non collidere con i medesimi (Cass. pen., Sez. III, 13.05.1997, n. 5738 - dep. 17.06.1997, P., in CED Cass., n. 208299; Cass. pen., Sez. III, 26.03.2014, n. 28560 - dep. 03.07.2014, A., in CED Cass., n. 259938).
La sentenza in esame, osservano i giudici di legittimità, non si è uniformata ai richiamati principi di diritto e neppure ha spiegato se il deliberato della Giunta regionale delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) -che sembrerebbe, contrariamente ai principi fissati dalla legislazione statale e contenuti nel testo unico dell’edilizia, distinguere gli interventi non sulla base della natura dell’intervento stesso (costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni ex art. 93 T.U.E.) ma solo sulla base delle caratteristiche costruttive- rispetti i principi fondamentali stabiliti in materia edilizia-urbanistica dalla legislazione statale ovvero se collida con essi, come in sostanza ritenuto dal PM, posto che, in ogni caso, l’intervento si è risolto nella realizzazione di una “costruzione”, dovendosi anche ricordare che la disciplina edilizia antisismica e delle costruzioni, attenendo tali materie alla sicurezza statica degli edifici, rientra come tale nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, Cost. (Cass. pen., Sez. III, 28.02.2013, n. 16182 - dep. 09.04.2013, C. e altro, in questa Rivista, 2013, 7, 860, rassegna a cura di A. Scarcella, Rapporti tra normativa nazionale e normativa regionale in materia di “antisismica” e “cemento armato”) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2014 n. 50624 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: RESPONSABILE IL “COMODATARIO” DI UN IMMOBILE IN QUANTO GRAVATO DALL’OBBLIGO DI CONTROLLARNE LA PERSISTENTE “LEGITTIMITÀ”.
Anche il comodatario di un immobile abusivamente realizzato risulta destinatario dell’obbligo di controllo derivante dalla verifica delle condizioni di mantenimento di un’opera che, legittima ab origine (in quanto previamente autorizzata), è subordinata però all’esecuzione di un obbligo di facere che ne garantisce la legittimità.
Tale obbligo grava, invero, direttamente sul soggetto fruitore della costruzione in qualità di comodatario, il quale ha il compito di uniformarsi alle prescrizioni dell’autorità amministrativa. Ne consegue, dunque, che non si versa, in una ipotesi di reato omissivo puro (o proprio) ma di un reato commissivo mediante omissione in cui l’evento è costituito dal mancato adempimento dell’obbligo.

Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, invero non molto approfondito nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, della individuazione dei profili di responsabilità del soggetto che abbia ricevuto in comodato un immobile regolarmente autorizzato, poi, però divenuto illegittimo per la modifica dello status quo.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna con cui due imputati erano stati chiamati a rispondere dei reati p. e p. dall’art. 734 c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1, per avere, in concorso tra loro, nella veste di comodatari e in concorso con i proprietari dell’area, poi prosciolti, realizzato in assenza del permesso di costruire, in zona soggetta a vincolo paesaggistico ambientale ed idrogeologico, ad una distanza di mt. 40 dalla battigia una struttura prefabbricata di tipo precario (chiosco amovibile) esteso mq. 68 circa all’interno di un’area di mq. 1.500,00 costituita da terreno di riporto vegetale ove erano state impiantate palme e un impianto tecnologico per l’irrigazione dell’area. Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione i comodatari, in particolare contestando la loro responsabilità per il combinato disposto del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e art. 40 cpv. c.p.
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso.
In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rilevato come non sussistesse la pretesa violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 c.p., riferita al fatto che a fronte di una contestata condotta di tipo attivo, il giudice di appello avrebbe ritenuto la responsabilità per un fatto omissivo, non rispettando la regola enunciata dall’art. 40 cpv. c.p. secondo la quale solo per i reati di evento sarebbe configurabile la responsabilità di chi avendo l’obbligo di impedirlo non lo abbia fatto.
Già in passato, ricorda la Cassazione, è stato affermato il principio della responsabilità nascente dall’aver mantenuto in opera, come permanente, una struttura edilizia autorizzata come precaria, ricordando che tale responsabilità deriva da una norma incriminatrice complessa costituita dal combinato disposto del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e dall’art. 40 cpv. c.p., senza che ciò comporti la disapplicazione del permesso amministrativo che autorizza la realizzazione del manufatto a titolo precario (nella specie si trattava di un box) perché è lo stesso provvedimento amministrativo che contiene l’ordine implicito di smantellare il manufatto ad una data determinata (v. Cass. pen., Sez. III, 06.06.2006, n. 29871 - dep. 11.09.2006, S., in CED Cass., n. 234939; Id., Sez. III, 12.05.2011, n. 23645 - dep. 13.06.2011, F., in CED Cass., n. 250484).
Ciò porta ad escludere, nel caso in esame, la violazione del principio di legalità, in quanto l’obbligo giuridico gravante sugli imputati era esattamente quello di impedire che la costruzione rimanesse oltre il termine stabilito perché in questo consisteva l’abuso e dunque la realizzazione dell’evento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2014 n. 50620 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: OBBLIGO DI OSSERVANZA DELLA NORMATIVA ANTISISMICA ANCHE IN CASO DI ACCERTATA PRECARIETÀ DELL’OPERA EDILIZIA.
In tema di costruzioni in zone sismiche, la necessità che lavori edilizi di qualsiasi genere siano preceduti da autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione riguarda anche le opere di natura precaria.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno di rispettare la disciplina c.d. antisismica nel caso in cui l’opera edilizia realizzata sia considerata dalla legislazione come “precaria” e, quindi, sottoposta ad un regime giuridico agevolato sotto il profilo del titolo abilitativo richiesto. La vicenda processuale segue alla sentenza di condanna, confermata anche in appello, per alcuni reati, tra cui delle violazioni in materia antisismica.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati, in particolare lamentandosi, per quanto qui di interesse, del fatto che i giudici avessero ritenuto insignificanti le opere realizzate (un piccolo manufatto precario con copertura a telone di plastica e tubi metallici finalizzato a riparare dalle intemperie alcuni sacchi di concime e di fertilizzanti) bisognevoli di preventive autorizzazioni amministrative o di progetto ai fini antisismici.
La Cassazione, sul punto, ha respinto il ricorso affermando il principio di cui in massima, rilevando come l’opera abusiva, caratterizzata da una struttura in tubolari in ferro di metri 12,10 x 10,00 con altezza variabile da metri 3,40 a 4,60 ancorata ad una piattaforma in calcestruzzo delle dimensioni di metri 15,70 x 13,90 e dello spessore di cm. 17, e, collegata all’attività professionale svolta stante la destinazione a ricovero di prodotti della c.d. “farmacia delle piante”, era stata motivatamente indicata come destinata, per le sue stesse obiettive caratteristiche di consistenza e natura, a durare nel tempo, così assumendo dunque, alla luce dei principi appena ricordati, caratteristiche tutt’altro che precarie e tali da sottrarla alla necessità del rilascio di permesso a costruire.
In ogni caso, tuttavia, dovendosi osservare l’irrilevanza della natura precaria dell’opera, dovendosi comunque rispettare la normativa antisismica (v., in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 09.07.2008, n. 38405 - dep. 09.10.2008, D.B. e altro, in CED Cass., n. 241288) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.12.2014 n. 50001 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER REALIZZARE UNA STRADA OD UNA PISTA ANCHE SE REALIZZATA SU UN TRACCIATO PREESISTENTE.
La realizzazione di strade e piste è soggetta a permesso di costruire senza alcuna distinzione riguardo alle caratteristiche costruttive, dimensioni e finalità, ritenendosi sempre necessario il titolo abilitativo anche per l’esecuzione di strade o piste sterrate o realizzate su un preesistente tracciato, e ciò in quanto trattasi di opere che consentono ed incrementano il traffico veicolare, determinando una trasformazione urbanistica del territorio (la Corte, in motivazione, ha inoltre ricordato che anche l’abbassamento del livello di una strada non ha caratteristiche di attività di straordinaria manutenzione, trattandosi di trasformazione urbanistica).
La sentenza in esame si occupa di un tema particolare nel campo della disciplina edilizia, in particolare riguardante la necessità o meno del rilascio preventivo del permesso di costruire in caso di realizzazione di una strada o pista, anche se di modeste dimensioni.
La vicenda processuale segue al rigetto da parte del tribunale del riesame dell’istanza di revoca del sequestro che, per iniziativa del Corpo Forestale, era stato disposto in relazione ad un’area di circa 7.000 mq. sulla quale erano stati riscontrati lavori di spianamento del terreno senza alcuna autorizzazione, pur essendo l’area medesima vincolata paesaggisticamente. Il sequestro di urgenza era stato convalidato dal GIP che contestualmente aveva emesso decreto di sequestro preventivo, ipotizzando a carico dell’indagato i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181.
L’istanza di riesame avverso il decreto del GIP era stata rigettata dal Tribunale, dando atto che la richiesta di revoca del sequestro era fondata sul successivo rilascio di permesso di costruire in sanatoria che, secondo l’assunto difensivo, avrebbe determinato l’estinzione del reato urbanistico ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45 e del reato paesaggistico a norma del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies e che il GIP aveva rigettato la richiesta in quanto al rilascio di un’autorizzazione paesaggistica in sanatoria ostava il disposto del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, comma 10.
Dopo aver richiamato la normativa di riferimento ed in particolare il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, comma 4 e art. 167, commi 4 e 5, riteneva il Tribunale che la descrizione, contenuta nell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, dei lavori effettuati fosse assolutamente riduttiva. In effetti, non ci si trovava in presenza di movimenti di terra per uso agricolo, ma, come emergeva chiaramente dalla informativa del Corpo Forestale, della realizzazione, con livellamento del terreno e riporto di materiale tufaceo, di una pista di circa 200 metri lineari al servizio di un’avio superficie.
Vi era stata, quindi, indubitabilmente la creazione di superfici utili che impediva, a norma del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167, comma 4, il rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria. Non c’era dubbio, infine, che i lavori effettuati, con la creazione di superfici utili, determinassero un mutamento stabile del territorio con notevole compromissione ambientale. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, denunciando la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 167 e 181 ed al medesimo art. 167 con riferimento alla nozione di “superficie utile”.
Il Tribunale aveva sostanzialmente ritenuto che lo stato di fatto e di diritto cristallizzato nella fase cautelare impedisse ogni possibilità di utilizzo successivo nonostante venga accertata la compatibilità con gli strumenti urbanistici vigenti. Contrariamente, poi, a quanto ritenuto dal Tribunale, non vi sarebbe stata alcuna realizzazione di una pista ovvero alcuna opera di carattere edilizio, ma soltanto lo spianamento del terreno, per cui, trattandosi di intervento minore, esso era suscettibile di sanatoria ex post a norma del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto infondato il motivo di ricorso, in particolare osservando, quanto alla modificazione dell’assetto del territorio ed alla compromissione ambientale dell’intervento eseguito, che in tal caso sono necessari sia il permesso di costruire che l’autorizzazione paesaggistica.
Ed invero, si è affermato che la modificazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, di una preesistente strada sterrata mediante innalzamento del piano e copertura del manto con massetto di cemento non rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria e deve essere preceduta dal rilascio del permesso di costruire e dalla autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, comportando una modificazione di carattere stabile ed incidente sull’assetto urbanistico stante il potenziale incremento del traffico veicolare (Cass. pen., Sez. III, 06.11.2012, n. 1442 - dep. 11.01.2013, P., in CED Cass., n. 254264) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.11.2014 n. 49640 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: VALUTAZIONE “GLOBALE” NECESSARIA PER QUALIFICARE UN’OPERA COME RISTRUTTURAZIONE ANZICHÉ COME RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO.
La ristrutturazione edilizia, diversamente dal restauro conservativo, non è vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente, comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, mentre il restauro ed il risanamento conservativo non possono modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente. Al fine di collocare le opere all’interno di una delle due categorie esse vanno considerate nella loro globalità tenendo conto delle finalità perseguite con la loro realizzazione.
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a delineare con sufficiente certezza la distinzione sotto il profilo giuridico-tecnico di un intervento edilizio da sottoporre al regime della ristrutturazione edilizia rispetto a quello, meno gravoso da un punto di vista burocratico, del c.d. restauro e risanamento conservativo.
La vicenda processuale segue al provvedimento con cui il tribunale del riesame ha accolto l’appello proposto dall’indagato avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari con la quale veniva rigettata la richiesta di dissequestro di un immobile interessato da interventi edilizi, rispetto ai quali venivano ipotizzati i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), artt. 93 e 95, L. 07.08.1990, n. 241, art. 19, comma 6.
In particolare, l’indagato, unitamente ad altri, veniva sottoposto ad indagini per aver eseguito, in assenza di permesso di costruire, lavori di ristrutturazione di un preesistente immobile, comportanti la suddivisione in 4 unità immobiliari e la demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla realizzazione di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, ritenuti non rientranti nell’ambito del mero risanamento conservativo, in relazione al quale era stata presentata una S.C.I.A.
Al medesimo veniva inoltre contestato di aver proseguito i lavori nonostante l’ordine di sospensione e la realizzazione degli stessi, in zona sismica, senza la preventiva presentazione del progetto all’ufficio competente, mentre ad altro coindagato, direttore dei lavori, veniva contestata anche la falsa rappresentazione, nella planimetria allegata alla S.C.I.A., della condizione originaria dell’immobile rispetto alle altezze del piano sottotetto e dei vani prospicienti la via A.G. di F., nonché la falsa asseverazione della conformità dell’intervento agli strumenti urbanistici ed i regolamenti edilizi.
Avverso il provvedimento, con il quale il Tribunale ha disposto la restituzione dell’immobile in sequestro, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo la violazione di legge, osservando che il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto la legittimità dell’intervento edilizio solo per il fatto che l’amministrazione comunale aveva con proprio provvedimento successivo ripristinato la validità ed efficacia della S.C.I.A. presentata, senza approfondire la questione concernente la corretta qualificazione dell’intervento edilizio. Assumeva infatti il PM che le opere realizzate andavano inquadrate nell’ambito della ristrutturazione edilizia e non anche tra quelle di risanamento conservativo come ritenuto dal Tribunale sulla base di quanto rilevato dall’amministrazione comunale.
La Cassazione ha, sul punto, accolto il ricorso del Procuratore e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto che il Tribunale non poteva automaticamente dedurre la legittimità dell’intervento edilizio sulla base di un acritico recepimento delle determinazioni dell’autorità comunale che avrebbe dovuto, al contrario, valutare,  seppure nel limitato ambito di cognizione riservatogli nel giudizio di appello relativo ad un provvedimento di revoca di una misura cautelare reale.
Sulla distinzione tra restauro e risanamento conservativo e la c.d. ristrutturazione edilizia, la giurisprudenza di legittimità si è più volte pronunciata in precedenza. In particolare, si è chiarito che la ristrutturazione edilizia, poiché non vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, differisce sia dalla manutenzione straordinaria, che non può comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, o, ancora, modifica della sagoma o mutamento della destinazione d’uso, sia dal restauro e risanamento conservativo, che non può modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d’uso “compatibili” con l’edificio conservato (Cass. pen., Sez. III, 16.03.2010, n. 20350 - dep. 28.05.2010, M., in CED Cass., n. 247178; Cass. pen., Sez. III, n. 20776 del 13.01.2006 - dep. 16.06.2006, P.M. in proc. P., in CED Cass., n. 234466) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2014 n. 49221 - tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: SULLA VALENZA DEL D.M. 1444/1968.
In materia di distanze fra costruzioni, l’art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 21-quinquies L. 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), come novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo dispone l'inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.

Sorge, fra due privati, una controversia che investe l’applicazione
delle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444/1968 -norma posta a tutela di un interesse d’igiene pubblica- a mente della quale nei centri urbani, le distanze minime fra pareti finestrate di edifici antistanti non può essere inferiore dieci metri.
Il Tribunale civile condannava la parte convenuta all’arretramento del fabbricato di metri cinque dal confine. Il giudice d’appello, in parziale riforma, dimidiava la distanza. Per quanto qui interessi, la Corte di merito affermò che la norma in esame -diretta ai Comuni nella redazione degli strumenti urbanistici- non ha immediata efficacia nei confronti dei privati e opera esclusivamente per i regolamenti edilizi successivi all’entrata in vigore del decreto stesso, avvenuta in data 17.04.1968.
Nella fattispecie, all'epoca della costruzione realizzata dalla convenuta, era in vigore il preesistente regolamento edilizio, che prescriveva una diversa e inferiore distanza dal confine (di metri 2,50).
La questione giunge all’esame della Cassazione, che accoglie il ricorso osservando che in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 21-quinquies della L. 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), come novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo dispone l'inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.11.2014 n. 24013 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

ESPROPRIAZIONE: CONSEGUENZE DELL’OCCUPAZIONE D’URGENZA NON SEGUITA DA PROVVEDIMENTO DI ESPROPRIO.
Nell’ipotesi di occupazione d'urgenza autorizzata per l'esecuzione di opera pubblica, non seguita da decreto di esproprio, non ricorre alcun illecito civile poiché il mero fatto che durante il suo corso non sia stato emesso il provvedimento ablativo non vale a far considerare illegittima ab origine l'occupazione, trattandosi di procedimenti (quello di espropriazione e quello di occupazione legittima) distinti e autonomi, sebbene coordinati e finalizzati alla realizzazione del medesimo scopo di pubblica utilità.
L'indennità per il periodo di occupazione autorizzata il quale ha, per definizione, carattere di legittimità ed è quindi improduttivo di danni, mirando unicamente a compensare, per la durata dello stato di temporanea indisponibilità del bene, il mancato suo godimento, ossia la perdita reddituale che, essendo diversa dalla perdita della proprietà del cespite, postula un compenso separato.

Un privato convenne, avanti il Tribunale civile, alcune Amministrazioni deducendo di aver acquistato nel 1977 alcuni appezzamenti di terreno per la cui edificazione era stato rilasciato, ai propri danti causa, un titolo abilitativo ancor valido al momento della vendita e, con essa, traslato in capo all’attore.
In forza di ciò egli iniziò l’edificazione ma il Comune dispose la sospensione dei lavori in ragione del fatto che i terreni erano interessati dalla realizzazione di una strada per la quale -al termine del 1977 (dopo il rilascio del titolo edilizio)- fu approvato il progetto esecutivo, comportante dichiarazione di p.u. La costruzione della strada era stata affidata in concessione, alla Provincia, autorizzata all'occupazione d'urgenza dei terreni dell'attore per una durata di cinque anni. L’immissione in possesso dell’area avvenne solo nel 1980 e allo scadere del periodo per il quale fu autorizzata l'occupazione la Provincia non aveva ancora eseguito alcuna opera sui terreni appresi, né aveva dato corso all'espropriazione.
Sulla scorta di tali premesse, l’attore chiese al Tribunale che la Provincia e l'Agenzia per lo sviluppo nel Mezzogiorno, finanziatrice dell’opera, fossero condannate alla restituzione dei terreni, al pagamento dell'indennità d'occupazione legittima e al risarcimento dei danni causati da quella illegittima. Ancora, che il Comune fosse condannato al risarcimento dei danni causati dall'illegittimo provvedimento di sospensione dei lavori.
Il Tribunale, con sentenza parziale, rigettava le domande attoree verso Comune e Agenzia, disponendo istruttoria quanto alla domanda contro la Provincia che, all’esito del giudizio era condannata al pagamento di una somma per occupazione legittima e di altri importi per occupazione illegittima, oltre a importi per maggior costo di costruzione e mancato godimento dell'immobile, con rivalutazione monetaria fino alla data della sentenza e interessi sino al soddisfo.
La sentenza fu gravata dalla Provincia, censurando che il Tribunale avesse attribuito al privato un risarcimento per il maggior costo di produzione dell'immobile e al suo mancato godimento, malgrado non fosse stata dimostrata né la possibilità di ultimazione del fabbricato nel termine di validità del titolo abilitativo edilizio, né che egli avesse perduto possibilità di utilizzazione del bene.
Ancora, fu censurata l’acritica recezione delle conclusioni del CTU nel computo dell’indennità da occupazione illegittima (computata anche nel periodo in cui nessuna occupazione era stata operata dall’appellante) e, infine, che il danno da mancato godimento dell'immobile, fosse stato stimato con parametri ipotetici. Soprattutto, fu oggetto di doglianza il fatto che la domanda di liquidazione dell'indennità da occupazione legittima fosse stata esaminata dal Tribunale nonostante essa rientri nella competenza funzionale della Corte d’appello.
Seguirono, infine, altre censure, tanto in rito, quanto sul computo dell’indennità.
La Corte territoriale accolse parzialmente il gravame, determinando in misura ridotta l’indennità di occupazione legittima e riducendo il risarcimento per occupazione illegittima.
Quanto al resto, la Corte osservò che l'opera pubblica viaria, realizzata dalla Provincia, non aveva interessato i terreni dell'attore, per cui non ricorreva alcuna acquisizione in proprietà per “accessione invertita”. Sicché al privato poteva esser riconosciuta solo un'indennità per occupazione legittima quinquennale e un risarcimento di indole aquiliana per le perdite patrimoniali determinate da mancata disponibilità dei terreni stessi nel periodo d'occupazione illegittima.
Non spettava, di contro, alcun risarcimento per la perdita (non verificatasi) del diritto di proprietà.
Ritenendo la propria competenza funzionale per la determinazione dell’indennità da occupazione legittima essa -sul presupposto che la relativa domanda era stata riproposta- si pronunciò determinandola in misura corrispondente a una percentuale dell'indennizzo espropriativo, l’occupazione temporanea aveva riguardato aree solo parzialmente edificate. Di contro, fu escluso, tra l’altro, un ristoro per mancato godimento del fabbricato, posto che ciò ne avrebbe presupposta la concreta esistenza.
Avverso questa sentenza, il privato ricorre per Cassazione, che accoglie il gravame limitatamente alla liquidazione dell’indennità espropriativa, nei termini sotto riferiti, per il resto integralmente confermando la sentenza d’appello.
Osserva la Suprema Corte, nell’accogliere l’unico mezzo condiviso, che la doglianza inerente all'indennità da occupazione legittima e il risarcimento da occupazione illegittima del terreno inedificato (ma urbanisticamente edificabile) siano stati commisurati in rapporto ad indennità di espropriazione calcolata ai sensi dell’art. 5-bis della L. n. 359/1992. La Corte ha chiarito anzitutto che, trattandosi di occupazione d'urgenza autorizzata, non ricorreva alcun illecito civile poiché -in caso d’occupazione d'urgenza di un suolo per l'esecuzione di opera pubblica- il mero fatto che durante il suo corso non sia stato emesso il decreto di esproprio non vale a far considerare illegittima ab origine l'occupazione, trattandosi di procedimenti (quello di espropriazione e quello di occupazione legittima) distinti ed autonomi, sebbene coordinati e finalizzati alla realizzazione del medesimo  scopo di pubblica utilità.
L'indennità dovuta per il periodo di occupazione autorizzata il quale ha, per definizione, carattere di legittimità ed è improduttivo di danni, mira a compensare, per la durata dello stato di temporanea indisponibilità del bene, il mancato godimento, ossia una perdita reddituale che, essendo diversa dalla perdita della proprietà del cespite, postula un compenso separato (cfr. Cass., Sez. I, n. 19972/2009). Ancora, tale indennità integra un debito di valuta e, quindi non è suscettibile di automatica rivalutazione (Cass., Sez. I, n. 719/2011).
Peraltro, poiché le censure involgono questioni inerenti tanto alla quantificazione dell'indennità che del risarcimento, spettanti per l'intero periodo di protrazione dell'occupazione temporanea sulla sola porzione di terreno inedificata e sia l'attuata parametrazione del dovuto all'indennità virtuale di espropriazione calcolata in base al criterio riduttivo già prescritto per le aree edificabili (quale ritenuta quella di specie) dall’art. 5-bis della L. n. 359/1992, criterio venuto meno per effetto della declaratoria d’incostituzionalità (Corte cost. n. 348/2007) la sentenza su tal punto va cassata con rinvio, onde procedersi alla rideterminazione dell'indennità virtuale di  espropriazione secondo il diverso criterio del valore pieno di mercato del bene occupato, secondo la previsione dell’art. 39 L. n. 2359/1865 (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 07.11.2014 n. 23874 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

URBANISTICA: CONDIZIONI DELLA RESPONSABILITÀ PENALE DELL’ACQUIRENTE PER IL REATO DI LOTTIZZAZIONE ABUSIVA.
È sufficiente un aggravamento consolidante la trasformazione dell'assetto urbanistico per porre in essere, anche da parte di chi ha acquistato l'immobile successivamente all'alienazione dei lotti, il reato di lottizzazione abusiva.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente, della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva in capo al soggetto che abbia acquistato l’immobile successivamente alla vendita dei lotti abusivamente frazionati.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale ha respinto l'istanza di riesame presentata dall’interessata avverso il sequestro preventivo di un'area e di opere edili su di essa realizzate disposto dal GIP del Tribunale in relazione a indagini nei confronti di vari soggetti, tra cui l’indagata, per avere commesso lottizzazione abusiva.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessata, sostenendo che il Tribunale non avrebbe verificato il quadro indiziario e che, comunque, sarebbe impossibile porre la lottizzazione abusiva a suo carico, avendo la stessa acquistato l'immobile due anni dopo il rilascio dei permessi di costruire e quando era comunque nella attuale situazione territoriale: la stessa sarebbe stata pertanto in buona fede per avere fidato sulla vigilanza dell'ufficio tecnico comunale e della polizia giudiziaria.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come correttamente i giudici di merito avessero contestato alla medesima l’illecito lottizzatorio mediante il frazionamento di una particella, le modifiche catastali di altre due particelle con successiva formazione di quattro lotti sulle predette particelle nonché con la costruzione sui lotti di manufatti abusivi, realizzando una rilevante modificazione urbanistica ed edilizia di un'area non adeguatamente urbanizzata e in contrasto con lo strumento urbanistico.
Sulla questione, si noti, la Cassazione ha ormai chiarito che il reato di lottizzazione abusiva è integrato già con il frazionamento e la vendita dei terreni e può proseguire con la successiva esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, poiché queste compromettono ulteriormente le scelte di pianificazione dell'assetto urbanistico riservate alla pubblica amministrazione (Cass. pen., Sez. III, 15.10.2013, n. 42361, in CED Cass., n. 257731, che ha anche affermato che il concorso nel reato del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l'attività edificatoria degli acquirenti, anche se successiva all'alienazione dei lotti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2014 n. 44945 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTO EDILIZIO SU AREA PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATA E QUALIFICAZIONE DELLO STESSO COME DI MINIMA ENTITÀ.
Ferma restando la natura del reato di pericolo formale della figura delittuosa prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, laddove sia stato accertato un intervento edilizio su area paesaggisticamente vincolata, la condotta deve ritenersi sempre punibile tranne che nelle residuali ipotesi di interventi di minima entità, senza che possa assumere rilevanza il concetto di lieve entità come enunciato nella L. n. 35 del 2012, art. 44, attesa la mancanza di specifiche indicazioni illustrative di tale concetto, ancora di là da venire e comunque tale da non escludere l'applicabilità, allo stato attuale, del criterio della minima entità degli interventi così come elaborato pacificamente dalla giurisprudenza della Cassazione.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della delimitazione del perimetro applicativo che consente di attribuire rilevanza penale agli interventi qualificati dalla legge come di “lieve entità”.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte di appello confermava la sentenza del Tribunale con la quale l’imputato era stato condannato per il delitto di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis.
Contro la sentenza, per quanto qui di interesse, questi proponeva ricorso per cassazione denunciando l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 181 c.p., comma 1-bis.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, peraltro inserendosi in un orientamento giurisprudenziale di legittimità che ha ribadito che la punibilità del reato di pericolo previsto dall'art. 181, comma 1, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è esclusa solo nell'ipotesi di interventi di “minima entità”, e cioè di quelli inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il paesaggio, e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, precisando che non può ritenersi applicabile al reato di cui all'art. 181, comma 1-bis cit. la causa di non punibilità della lieve entità degli interventi, introdotta dall'art. 44 D.L. n. 5 del 2012, conv. in L. n. 35 del 2012, che presuppone un regolamento attuativo ad oggi non ancora emanato (Cass. pen., Sez. III, 23.09.2013, n. 39049, in CED Cass., n. 256426) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2014 n. 44928 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

LAVORI PUBBLICI: CLAUSOLA DI PAGAMENTO DIFFERITO DEL CORRISPETTIVO DELL’APPALTO E CONDIZIONI DI VALIDITÀ.
Nei contratti d’appalto per la realizzazione di opere pubbliche, la clausola pattizia che impegna l'appaltante a pagare il capitale al momento dell’effettiva acquisizione dei finanziamenti da parte di un ente terzo, non è nulla ai sensi dell’art. 4, comma 3, L. n. 741/1981: invero, essa non implica una rinuncia agli stessi ma ha la funzione di determinare il termine dell'adempimento dell'obbligazione e, con esso, il momento in cui il credito dell'appaltatore diventi esigibile, in concomitanza con la disponibilità delle somme accreditate all'appaltante.
Per l’effetto, gli interessi moratori sono dovuti nel caso in cui quest'ultimo, pur avendo ricevuto tempestivamente l'accredito delle somme da parte dell'ente finanziatore, abbia ritardato il versamento in favore dell'appaltatore, risultando in tal modo inadempiente all'obbligazione di pagamento nel termine convenzionalmente pattuito.

All’esito dei due gradi di merito, la Corte d'appello -giudicando sulla domanda di un’impresa per il pagamento del saldo finale e degli interessi su acconti dovuti a seguito di Stati di avanzamento lavori (SAL)- accoglie l'appello incidentale della Stazione appaltante assolvendola da ogni domanda di pagamento. La Corte ha ritenuto la validità e il carattere non vessatorio d’una clausola che subordinava il pagamento all'erogazione alla S.A. degli accrediti da parte della Regione.
In particolare, per la Corte di merito, non versandosi in fattispecie assimilabile a una condizione sospensiva, bensì di un termine dipendente dalla verificazione di un evento costituito dalla condotta di un terzo (l'accredito del finanziamento regionale) certus an sed incertus quandum.
Per l’effetto, ha ritenuto valida la suddetta clausola, non contraddetta dalle previsioni del Capitolato generale oo.pp. (artt. 35 e 36 D.P.R. n. 1063/1962) qui inapplicabili perché incompatibili con la clausola contrattuale di cui si tratta, che subordinava il pagamento all'erogazione del finanziamento.
Ancora, la Corte di merito ha ritenuto che i crediti dell'impresa non fossero produttivi d’interessi perché non liquidi, né esigibili finché la Regione non avesse approvato gli atti contabili e effettuato gli accreditamenti, osservando peraltro che la S.A. era sempre stata sollecita in ogni adempimento di propria spettanza, compresi i pagamenti, non appena ricevuti i finanziamenti regionali.
L’appaltatore ricorre per Cassazione, che rigetta il ricorso.
A fondamento del gravame è dedotta la violazione dell’art. 4 L. n. 741/1981. In applicazione di quanto da esso previsto, sarebbe nulla la clausola contrattuale che subordina il pagamento del corrispettivo (e, così, l’esigibilità del credito) a un momento incerto, quale l’effettiva acquisizione dei finanziamenti da parte della Stazione appaltante, poiché l'incertezza sulla data del pagamento sarebbe suscettibile di realizzare un inaccettabile divario tra il momento di verificazione del ritardo nell'adempimento e quello di decorrenza degli interessi moratori.
La Suprema Corte disattende l’argomento, osservando che l’art. 4 della L. n. 741/1981 prevede che l'importo degli interessi da tardato pagamento, dovuti per legge, capitolato generale speciale, o per contratto, è computato e corrisposto in occasione del pagamento, in conto a saldo, immediatamente successivo, senza necessità di apposite domande e riserve. Il successivo comma 2, riduce da novanta a sessanta giorni il termine dilatorio per la produzione di interessi moratori già previsto nel Capitolato generale (artt. 35 e 36 D.P.R. n. 1063/1962) e, al comma 3, commina la nullità di ogni patto contrario o in deroga a quanto previsto in tale articolo.
Dal menzionato quadro normativo, osserva la Corte nomofilattica, risulta che l'applicabilità dei commi 1 e 3 non è limitata agli appalti stipulati dal Ministero o da enti diversi dallo Stato (nei casi in cui il medesimo capitolato generale sia richiamato in virtù di rinvio recettizio) ma è generale e riguarda tutti gli appalti per la realizzazione di opere pubbliche (cfr. Cass. n. 14974/2002).
Tuttavia, ciò non soccorre all’accoglimento del ricorso, perché va considerato che la specifica clausola contrattuale -per la quale il Consorzio provvede a effettuare il pagamento dei lavori soltanto a seguito di accertamento e approvazione da parte degli organi competenti e nell'ambito dell'avvenuta erogazione degli accrediti regionali- non nasconde un patto contrario al divieto portato nella norma imperativa contenuta nella L. n. 741/1981, con conseguente nullità della stessa a norma del comma 3.
La conclusione è conforme ad altri precedenti della stessa Corte, relativi a clausole che escludevano il pagamento degli interessi fino al momento dell'accreditamento (o in caso di ritardato accreditamento) dei finanziamenti in favore dell'appaltante/ debitore (cfr. Cass. nn. 15788/2000; 13125/2004; 16814/2006).
Del resto, non va sottaciuto che l'art. 4 citato, prevedendo la nullità delle pattuizioni che stabiliscano forme particolari o dilatorie per la corresponsione di interessi moratori spettanti all'appaltatore, intende ancorare la loro decorrenza esclusivamente al ritardo nell'adempimento in occasione del pagamento, in conto o a saldo, immediatamente successivo. A rilevare, a tal fine, è il termine d'adempimento -contrattualmente individuato nell'erogazione del finanziamento regionale– sicché solo a questo può essere ancorata la decorrenza degli interessi moratori, come previsto dall’art. 4 della L. n. 741/1981.
La sentenza richiama un altro precedente (Cass., n. 3648/2009), per il quale una clausola analoga a quella in esame non implica affatto rinuncia agli interessi, bensì un diverso dies a quo per il loro decorso e computo, non irragionevole tenuto conto della fonte esterna regionale di finanziamento.
La ragionevolezza e, con essa, la legittimità della pattuizione siffatta deriva dal fatto che la clausola ha funzione di determinare il tempo d'adempimento dell'obbligazione e, con ciò, il momento in cui il credito dell'appaltatore diventi esigibile (ossia, in concomitanza con la disponibilità delle somme accreditate all'appaltante-debitore) con ogni conseguente insussistenza della dedotta violazione dell’art. 4, L. n. 741/ 1981.
Ne consegue che gli interessi moratori sono dovuti all’appaltatore solo da quel momento, non trattandosi di clausola meramente potestativa, poiché l'adempimento dipende da un accadimento che, pur rimesso alla volontà e attività di una sola parte, non è mai configurabile alla stregua di un mero “si voluero” e ne ha rilevato la piena funzionalità ad uno specifico interesse dedotto nel contratto (Cass. civ., nn. 9587/2000; 20444/2009) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 29.10.2014 n. 22996 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

APPALTI: RESPONSABILITÀ DELLA S.A. PER RITARDATO PAGAMENTO DIPESO DA FINANZIAMENTO ALTRUI.
L’Ente pubblico committente è responsabile per il ritardo nei pagamenti dei corrispettivi d’appalto, dipendenti dal ritardo nell'erogazione del finanziamento da parte di altro Ente pubblico, perché i fatti -pur in apparenza ascrivibili alla condotta di un finanziatore terzo- restano imputabili al committente debitore, in assenza d’una specifica convenzione con la quale l'ente finanziatore garantisca al committente la tempestiva erogazione del finanziamento.
Le disposizioni dell’art. 13 D.L. n. 55/1983, sono applicabili tanto agli appalti per la fornitura di beni e servizi, quanto a quelli di opere pubbliche e riguardano i soli interventi finanziati dalla Cassa Depositi e Prestiti e non anche ad altre forme di finanziamento, senza possibilità di applicazione estensiva in caso di altri enti finanziatori, anche se pubblici.

Un’impresa appaltatrice dei lavori di costruzione di una scuola, lamentando un ritardo nei pagamenti degli acconti dovuti sulla base dei SAL e del saldo, adiva il Tribunale chiedendo la condanna della committente Amministrazione comunale al pagamento d’interessi di mora e spese.
Il Tribunale respinse la domanda osservando che tali ritardi nei pagamenti, pur pacifici, non erano imputabili all'ente locale stante il richiamo, contenuto in contratto di appalto, al mutuo stipulato -come mezzo di finanziamento dell'opera- con il Ministero del Tesoro ed erogato con ritardo pur in assenza di condotta omissiva del Comune il quale anzi -in modo diligente- ha corrisposto i pagamenti all’impresa non appena ricevuti i ratei finanziari da parte del mutuante.
La Corte territoriale, in totale riforma della sentenza resa in prime cure, condannò il Comune a pagare gli interessi moratori, ritenendo che il vaglio dell’impossibilità d’una prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1218 c.c.) debba valutarsi sulla scorta di criteri oggettivi e assoluti, senza che l'impossibilità di pagare il proprio debito per l'eventuale inadempimento del proprio finanziatore possa escludere la sua responsabilità verso il creditore.
Ancora, perché la previsione contrattuale, attinente le forme di finanziamento dell'opera, non sarebbe stata pattuita per esonerare da ogni responsabilità per il ritardo, avendo essa valore di semplice dichiarazione di scienza. Infine, perché la disposizione contenuta all’art. 13, comma 6, del D.L. n. 55/1983, che attribuisce rilievo ed esonera la P.A. appaltante dalla responsabilità per il ritardo nel pagamento derivato dal ritardo nell’erogazione del finanziamento, a condizione che il bando richiami il finanziamento a mezzo Cassa Depositi e Prestiti, non è qui applicabile.
Ricorre per la cassazione di questa sentenza l’Amministrazione committente, con un ricorso affidato a quattro motivi, tutti reietti.
Osserva la Corte che -pur aderendo al ragionamento svolto dal ricorrente nelle premesse e, così, al principio per cui la preferibile interpretazione degli artt. 1218 e 1176 c.c. porta a escludere la responsabilità del debitore per inadempimento se esso s’è comportato con diligenza sicché in capo al medesimo occorre, per essere esonerato da responsabilità, solo provare di non essere in colpa- non può pervenirsi alle conclusioni tratte dal ricorrente.
Questo, anzitutto, perché in materia di responsabilità contrattuale, l'art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell'inadempimento, una presunzione di colpa superabile mediante la prova dello specifico impedimento che abbia reso impossibile la prestazione o, almeno, la dimostrazione che qualunque sia stata la causa dell'impossibilità, la medesima non possa essergli imputabile.
Sotto concorrente profilo, in ragione del fatto che affinché l'impossibilità della prestazione costituisca causa d’esonero per il debitore da responsabilità, non basta eccepire che la prestazione non possa eseguirsi per fatto del terzo ma occorre dimostrare la propria assenza di colpa con l'uso della diligenza spiegata per rimuovere l'ostacolo frapposto da altri all'esatto adempimento.
Con riguardo al ritardo cagionato dal finanziamento da parte del terzo è applicabile il principio per cui, sussistendo la piena identità di ratio, la Sezione (Cass., n. 4214/2012) ha già affermato che l'ente finanziatore non è tenuto a rivalere il concessionario della somma che si sia obbligato a versare all'appaltatore, salvo che non sia stata stipulata una convenzione accessoria all'atto di concessione, con la quale l'ente garantisca la tempestiva erogazione del finanziamento, ovvero la copertura del concessionario dai rischi derivanti per i ritardi nei pagamenti dovuti all'appaltatore (cfr., da ultima, Cass., n. 14340/2013).
La decisione desta interesse anche ove afferma l’applicabilità delle disposizioni dell’art. 13 D.L. n. 55/1983 all'appalto di opere pubbliche (Cass., Sez. I, n. 17197/ 2012) e ribadisce che la disposizione riguarda soltanto le opere finanziate dalla Cassa Depositi e Prestiti, non anche altre forme di finanziamento.
Il fondamento di questo particolare regime di favore per il debitore (e di sfavore per il creditore), che deroga al regime ordinario della responsabilità nell'adempimento delle obbligazioni civili (e pecuniarie), riguarda, con tutta evidenza, solo i contratti collegati a finanziamenti erogati da tale specifico ente pubblico, per le peculiari funzioni da esso svolte, ciò che non ne consente l'estensione ad altri enti finanziatori, anche se pubblici (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.10.2014 n. 22580 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

EDILIZIA PRIVATA: “NUDO” PROPRIETARIO NON COMMITTENTE E RESPONSABILITÀ CONCORSUALE (COLPOSA O DOLOSA) NEL DELITTO PAESAGGISTICO.
La responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che ha la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà, ma - nel caso in cui sia contestato il delitto paesaggistico (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis) è obbligo del giudice fornire adeguata argomentazione in ordine alle ragioni per le quali è ipotizzabile un concorso (colposo o doloso) del nudo proprietario in tale reato doloso.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema non adeguatamente approfondito nell’esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dall’individuazione delle condizioni in presenza delle quali può ritenersi configurabile in capo al proprietario non committente un’opera edilizia eseguita in zona paesaggisticamente vincolata, il c.d. delitto paesaggistico di cui all’art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. n. 42 del 2004.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza della Corte d'appello con cui era stata confermata la sentenza di condanna emessa dal tribunale in relazione al delitto paesaggistico di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis.
Contro la sentenza aveva proposto ricorso per cassazione la nuda proprietaria dell’immobile, in particolare sostenendo che la medesima, proprio per tale sua qualità, non sarebbe stata responsabile dell'abuso posto in essere dal padre, usufruttuario dell'immobile sul quale vennero eseguiti gli interventi abusivi.
La Corte d'appello, a confutazione della tesi, aveva richiamato il consueto criterio del "cui prodest", sostenendo l'esistenza di un concorso della stessa con il proprio padre, usufruttuario e autore materiale dell'intervento, sia perché la stessa era colei che aveva presentato domanda per la realizzazione della cisterna, sia perché era proprio lei ad avere interesse, in quanto dell'abuso edilizio “paterno” ne avrebbe usufruito anche la medesima quando vi si sarebbe recata in vacanza.
La Corte di Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato la sentenza con rinvio al giudice di appello, ritenendo che la questione da risolvere fosse se il criterio adottato dalla Corte d'appello, sicuramente corretto per ritenere raggiunta la prova di un concorso in un reato contravvenzionale, possa essere idoneo a sostenere la configurabilità del concorso in un delitto, qual è quello paesaggistico.
Vero è, si osserva, che ai fini della configurabilità del delitto in esame è sufficiente il dolo generico (Cass. pen., Sez. III, 28.12.2011, n. 48478, in CED Cass., n. 251635), ma è altrettanto vero -evidenziano gli Ermellini- che, nel caso in esame, occorre valutare la peculiare posizione del concorrente, proprietario non committente, rappresentato dalla nuda proprietaria, soprattutto in una fattispecie in cui la stessa -come era emerso pacificamente dalla stessa sentenza- non risultava risiedere nello stesso luogo di consumazione dell'illecito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.10.2014 n. 43562 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA “BASSA SCOLARIZZAZIONE” NON È SUFFICIENTE PER ESSERE ASSOLTI DAL REATO EDILIZIO PER IGNORANZA DELLA LEGGE PENALE.
A seguito della sentenza 23.03.1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità.
Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell'indagine giuridica.
Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.

Di estremo interesse la questione giuridica oggetto di esame da parte della Corte di Cassazione con la sentenza in esame, in cui i giudici di Piazza Cavour si soffermano ad analizzare la questione della possibile rilevanza penale della c.d. buona fede, determinata dall’ignoranza inevitabile della disciplina normativa edilizia.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza di condanna, confermata anche in grado di appello, nei confronti di due soggetti cui era stato contestato di aver commesso un reato edilizio.
Contro la sentenza i due proponevano ricorso per cassazione, in particolare sostenendo di non essere a conoscenza della normativa, trattandosi di soggetti con bassa scolarizzazione, che non avevano pensato di informarsi su quali fossero i vincoli e le autorizzazioni da richiedere, donde sarebbe stato insussistente l'elemento psicologico; in altri termini, gli stessi sostenevano che, ai fini della ignoranza inevitabile della legge penale, deve tenersi conto della qualità dei soggetti.
La Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ribadito l’importante principio di cui in massima, già affermato autorevolmente dalle Sezioni Unite della Cassazione (Sez. Un., 18.07.1994, n. 8154, in CED Cass., n. 197885), osservando come i due imputati non avessero assolto a quel minimo “dovere di informazione”, condicio sine qua non per poter prospettare una situazione di buona fede.
Del resto, i giudici di appello avevano escluso l'esistenza di un errore interpretativo, osservando che nel caso di errore in ordine alla necessità dell'autorizzazione amministrativa per l'edificazione di un'opera per la quale il permesso di costruire sia necessario, l'imputato non può fondatamente invocare la scriminante della buona fede (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.10.2014 n. 43560 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

EDILIZIA PRIVATA: PROPRIETARIO NON COMMITTENTE “IRRESPONSABILE” SOLO SE È POSSIBILE ESCLUDERE L'INTERESSE O IL CONSENSO DI QUEST'ULTIMO ALL'ABUSO.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria, sottraendosi tale valutazione al sindacato di legittimità della Suprema Corte in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della individuazione degli elementi “indizianti” in base ai quali è legittimo ascrivere al proprietario non committente l’opera abusiva la responsabilità per la realizzazione dell’illecito.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte di appello confermava la sentenza del Tribunale nei confronti di un’imputata, proprietaria non committente, dichiarata responsabile del reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere realizzato senza la prescritta concessione un fabbricato di circa mq. 44 alto da 4 a 5,60 metri e copertura con travi di cemento armato, oltre ai reati concernenti la realizzazione di opere in zona sismica senza preavviso e senza dare avviso al genio Civile.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputata, lamentandosi, per quanto qui di interesse, per essere stata condannata, pur non sussistendo a suo carico la prova dell'avvenuta realizzazione dei manufatti, sul semplice presupposto di essere la proprietaria dell'immobile.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, operando un interessante approfondimento procedendo ad individuare una casistica di elementi indizianti che consentono di ascrivere la responsabilità al proprietario non committente:
a) piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come nei rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, nella eventuale presenza di quest'ultimo "in loco", nello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, nella richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, nel regime patrimoniale dei coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (Cass. pen., Sez. III, 12.04.2005, n. 26121, in CED Cass., n. 231954);
b) accertamento che il proprietario non committente abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia il destinatario finale dell'opera (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2004, n. 9536, in CED Cass., n. 227403);
c) quando, il proprietario non committente, a conoscenza dell'assenza del preventivo rilascio del permesso di costruire, abbia fornito un contributo causale che abbia agevolato la edificazione abusiva (Cass. pen., Sez. III, 12.01.2007, n. 8667, che nell'occasione ha ulteriormente precisato che il giudice deve verificare l'esistenza di comportamenti, che possono assumere sia forma positiva che negativa, dai quali si possa ricavare una compartecipazione anche solo morale nella altrui condotta illecita);
d) disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, se il proprietario non committente non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (Cass. pen., Sez. III, 21.03.2013, n. 39400, in CED Cass., n. 257676) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2014 n. 42867 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

EDILIZIA PRIVATAE' corretto affermare che dei 77 parcheggi vincolati ad uso pubblico, 52 risultarono realizzati su suolo demaniale concesso in diritto di superficie e 25 sulla proprietà privata sotto il fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L. 122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L. n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444.
La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18 L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del 1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con vincolo di pertinenzialità.
La funzione è certamente simile (il decongestionamento della viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al computo degli spazi che in merito al regime proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità immobiliare principale.
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Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo demaniale concesso in superficie o su suolo privato e asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di individuare una particolare posizione giuridica soggettiva tale da differenziare il condominio o i suoi condomini rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di gestione dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di specifici divieti, all’uso generale da parte della generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie della comunicazione di avviso di avvio del procedimento relativo.
La ragione evidenziata in ricorso, ossia la presunta doppia utilità del parcheggio in esame, altro non è che un espediente argomentativo che conferma la posizione centrale del primo giudice, ossia l’inesistenza di una posizione differenziata delle parti appellanti rispetto alla comunità dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il trattamento peculiare richiesto.

3.1. - Le censure avverso la sentenza del TAR, in relazione al profilo qui in esame, sono infondate e vanno respinte.
Il primo giudice ha correttamente ricostruito il regime giuridico dei parcheggi in esame, evidenziando come, al contrario di quanto voluto dai ricorrenti (per cui si tratterebbe di parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ai quali si applicherebbe il particolare regime costituito dal vincolo inderogabile di accessorietà degli stessi all’immobile principale, dato dal vincolo di destinazione e dall’inalienabilità separata, di cui all’art. 41-sexies della legge urbanistica n. 1150 del 1942 e alla L. n. 122/1989), deve invece ritenersi assodata la loro destinazione pubblica.
Rinviando alla descrizione della fattispecie sopra operata, è corretto affermare che in definitiva, dei 77 parcheggi vincolati ad uso pubblico, 52 risultarono realizzati su suolo demaniale concesso in diritto di superficie alla Europa s.r.l., e 25 sulla proprietà privata sotto il fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L. 122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L. n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444. La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18 L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del 1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con vincolo di pertinenzialità. La funzione è certamente simile (il decongestionamento della viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al computo degli spazi che in merito al regime proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità immobiliare principale.
Così inquadrata la questione, appare del tutto corretta la soluzione data dal primo giudice alle censure proposte, anche in questa sede, dalle parti appellanti.
Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo demaniale concesso in superficie o su suolo privato e asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di individuare una particolare posizione giuridica soggettiva tale da differenziare il condominio Europa o i suoi condomini rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di gestione dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di specifici divieti, all’uso generale da parte della generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie della comunicazione di avviso di avvio del procedimento relativo. La ragione evidenziata in ricorso, ossia la presunta doppia utilità del parcheggio in esame, altro non è che un espediente argomentativo che conferma la posizione centrale del primo giudice, ossia l’inesistenza di una posizione differenziata delle parti appellanti rispetto alla comunità dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il trattamento peculiare richiesto.
Del pari, è infondata la doglianza in relazione alla ragione della destinazione dei parcheggi in favore della particolare destinazione data loro dalla delibera inizialmente gravata.
Nei limiti dell’interesse delle parti, che come si è visto non è connotato da particolare rilevanza giuridica, deve convenirsi con la valutazione operata dal primo giudice in relazione alla natura del potere esercitato dal Comune. Infatti, con l’ordinanza impugnata con il primo ricorso, i posti auto in esame sono stati riservati al ricovero degli automezzi di proprietà comunale in uso alla polizia municipale (i cui veicoli, si noti, non godono di un regime proprietario differenziato rispetto a quello degli altri automezzi comunali), in ciò in aderenza a quanto previsto dall’art. 7, lett. d), del Codice della strada, che espressamente prevede tale facoltà e, peraltro, come anche notato dal primo giudice, senza che tale determinazione abbia compromesso la dotazione minima di parcheggi pubblici stabilita per gli standard.
Conclusivamente, le censure relative ai capi di sentenza con cui si è esaminato il ricorso n. 2394 del 1999 sono infondati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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