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AGGIORNAMENTO AL 21.07.2015 |
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COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA:
dopo aver iniziato a "smontare" la
circolare 26.06.2009 n. 33 del Segretario
generale MIBACT
ora è il turno anche della
nota 13.09.2010 n. 16721 di prot.
dell’Ufficio legislativo (sempre del MIBACT). |
EDILIZIA PRIVATA:
Una circolare amministrativa non può
ovviamente modificare una norma di legge.
Per cui nessun rilievo riveste la circolare del
Mi.B.A.C. del 13/09/2010, la quale conduce ad una
interpretazione sostanzialmente abrogatrice
dell’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, norma che esprime
invece un principio chiarissimo e cioè che
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non è
consentita laddove l’abuso abbia dato luogo alla
creazione di nuova volumetria.
E sotto questo profilo non fa alcuna differenza se
la volumetria abusiva è pari ad 1 mc. o a 100 mc. o
a 1000 mc., non contenendo l’art. 167 alcuna
distinzione al riguardo.
- quanto ai profili paesaggistici, va in primo luogo
messo in evidenza il fatto che una circolare
amministrativa non può ovviamente modificare una
norma di legge. Per cui nessun rilievo riveste la
circolare del Mi.B.A.C. del 13/09/2010, la quale
conduce ad una interpretazione sostanzialmente
abrogatrice dell’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, norma
che esprime invece un principio chiarissimo (la cui
ratio è ben evidenziata, da ultimo, nella
sentenza del TAR Campania, Napoli, III, n.
1718/2015, nella quale è stata delibata anche la
questione di costituzionalità dell’art. 167) e cioè
che l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non
è consentita laddove l’abuso abbia dato luogo alla
creazione di nuova volumetria. E sotto questo
profilo non fa alcuna differenza se la volumetria
abusiva è pari ad 1 mc. o a 100 mc. o a 1000 mc.,
non contenendo l’art. 167 alcuna distinzione al
riguardo (in tema, vedasi la sentenza del TAR Marche
n. 111/2012);
- dalla documentazione fotografica allegata alle
domande di sanatoria presentate dal ricorrente e
rigettate dal Comune emerge peraltro che l’abuso in
parola non è affatto irrilevante dal punto di vista
paesaggistico (e a questo proposito non può essere
in alcun modo condivisa la sostanziale
sottovalutazione da parte del sig. F. del vincolo
paesaggistico esistente nella zona in cui ricade
l’immobile per cui è causa, perché il vincolo esiste
da decenni e non può certo essere il singolo
proprietario ad arrogarsi il potere di stabilire se
un’opera avente rilievo edilizio è o meno
compatibile con l’assetto urbanistico e
territoriale), visto che il manufatto in parola
sporge vistosamente dalla sagoma dell’edificio
principale e, inoltre, sul lastrico della parte in
ampliamento è stato realizzato un terrazzo a
servizio dell’appartamento situato al primo piano.
Dalla planimetria dell’edificio originario emerge
invece che il garage era inserito all’interno del
perimetro dell’originario edificio principale (il
che è confermato dal tecnico di fiducia del
ricorrente nella relazione depositata in data
02/03/2015), per cui l’abuso ha modificato
completamente la sagoma dell’edificio stesso, il che
induce a concludere nel senso della notevole
rilevanza, sotto tutti i profili, dell’immobile
abusivo.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n.
42/2004, la sanatoria non era comunque ammissibile
(TAR Marche,
sentenza 22.05.2015 n. 413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l’orientamento più rigoroso, pure
presente nel panorama giurisprudenziale italiano,
l’art. 167, comma quarto, lett. a) non può essere
letto in una prospettiva riduttiva, essendo la
disposizione chiara nel prevedere che “l’autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, …, nei seguenti casi: a) per i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
…”.
Il Collegio ritiene preferibile l’orientamento da
ultimo richiamato, che fornisce un criterio certo
che l’amministrazione preposta alla tutela del
paesaggio deve seguire, mentre l’interpretazione
suggerita dal parere dell’Ufficio legislativo del
Ministero per i Beni culturali del 2010, più volte
citato, aprirebbe il varco alle percezioni
soggettive e quindi alla possibilità che casi
identici siano soggetti a trattamenti differenti.
---------------
Quanto alle nozioni di superficie e di volume che
devono essere tenute presenti nei calcoli e nelle
misurazioni necessari ai fini dell’accertamento di
conformità di cui trattasi, non vi sono ragioni per
aderire alla tesi, sostenuta da parte ricorrente,
secondo cui dovrebbe farsi riferimento a concetti
autonomi di superficie e di volume ai sensi di
alcune disposizioni del regolamento edilizio e del
regolamento urbanistico vigenti nel Comune.
La normativa statale che dev’essere applicata e che
l’amministrazione ha applicato non consente
interpretazioni che comportino applicazioni non
omogenee nei diversi Comuni.
Il nucleo essenziale della controversia attiene alla
qualificazione delle opere effettuate, sotto il
profilo degli effetti alle stesse ricollegabili
quanto a superficie e volume; come si è già
accennato, secondo parte ricorrente non vi sarebbe
alcun incremento di superficie utile e di volume
degli edifici, ove i calcoli tengano conto di un
concetto autonomo di superficie e di volume ai sensi
di alcune disposizioni del regolamento edilizio e
del regolamento urbanistico vigenti nel Comune di
Viareggio.
Secondo parte resistente, invece, l’articolo 167 del
decreto legislativo numero 42 del 2004 non farebbe
riferimento ai parametri della superficie e del
volume in senso urbanistico (variabili quindi da
Comune a Comune), bensì al volume geometrico,
dovendosi pertanto computare interamente le
superfici e i volumi.
Parte ricorrente insiste poi molto sulla non
percepibilità delle modifiche apportate ai
fabbricati in questione, posto che la funzione
essenziale della tutela paesaggistica sarebbe da
riferire sempre all’aspetto visibile del territorio.
A sostegno di tale tesi, parte ricorrente richiama
il parere rilasciato dall’Ufficio legislativo del
Ministero per i Beni e le Attività culturali, su
richiesta dell’ANCI (parere numero 16721 del
13.09.2010), che intendeva conoscere appunto
l’esatto significato di “superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”
di cui al più volte citato articolo 167, comma
quarto, lettera a), del decreto legislativo numero
42 del 2004.
Di segno opposto, sul punto, le tesi difensive
dell’amministrazione resistente: nel rapporto
ministeriale depositato dalla difesa erariale si
nega la rilevanza della percepibilità della modifica
esteriore del bene paesaggisticamente tutelato,
criterio che si applicherebbe soltanto per
l’articolo 146 della predetta medesima fonte
normativa.
Infine, la società ricorrente contesta l’operato
dell’amministrazione resistente anche sotto il
profilo procedimentale, rilevando che i
provvedimenti comunali impugnati, recanti definitivo
diniego delle istanze di sanatoria presentate, non
hanno indicato le ragioni per le quali sono state
disattese le osservazioni presentate
dall’interessata; ciò in asserita violazione
dell’articolo 10-bis della legge numero 241 del
1990.
Il Collegio ritiene opportuno prendere le mosse dal
parere ministeriale invocato da parte ricorrente,
atteso che il punto nodale della controversia
consiste nello stabilire se l’art. 167 del codice
dei beni culturali del 2004 debba essere
interpretato e applicato nel senso rigoroso voluto
dall’amministrazione resistente ovvero in quello
propugnato da parte ricorrente, che fa leva (in base
appunto al parere ministeriale già menzionato) sul
criterio della percepibilità immediata dell’abuso,
che dovrebbe cioè essere rilevabile senza necessità
di fare ricorso a minuziose misurazioni.
Il contenuto del parere in questione (reso in data
13.09.2010 dall’Ufficio legislativo del Ministero
per i Beni e le Attività culturali), per quel che in
questa sede rileva, può essere così riassunto: viene
in esso richiamato un precedente parere e una
precedente circolare aventi il medesimo oggetto; vi
si afferma la necessità di privilegiare
un’interpretazione finalistica dell’articolo 167,
comma quarto, del più volte richiamato codice dei
beni culturali, osservandosi che l’interpretazione
della disposizione di cui trattasi deve essere
coerente con la funzione essenziale della tutela
paesaggistica, con le esigenze di semplificazione,
con il principio di proporzionalità che deve sempre
ispirare la risposta dell’ordinamento all’effettiva
portata lesiva dell’abuso.
La concezione del paesaggio alla quale si ispira il
parere di cui trattasi è centrata sulla visibilità
del dato materiale, quindi sull’idea del paesaggio “come
elemento del patrimonio culturale, come fenomeno
riferibile alla semiosfera piuttosto che alla
ecosfera, in quanto oggetto sociale e culturale,
piuttosto che oggetto puramente fisico”.
Nel parere si fa anche riferimento alla Convenzione
europea sul paesaggio (Firenze, 20.10.2000,
ratificata con legge 09.01.2006, numero 14) e dal
codice del 2004, che definisce il paesaggio in
termini di percezione e di significato identitario
della porzione di territorio considerata, ovvero
come parte di territorio come percepita dalla
popolazione.
In giurisprudenza non si registra univocità di
orientamenti.
Alcune pronunce hanno sposato le considerazioni del
ripetuto parere, affermando (Tar Piemonte, II, n.
1310/2011) che “la funzione essenziale della
tutela paesaggistica è da sempre (ed ora ritraibile
dall’art. 1 della Convenzione europea sul paesaggio,
ratificata con legge 09.01.2006, n. 14, e dagli
artt. 131, 146, comma 1, e 149 del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42) da ricondursi all’aspetto
visibile del territorio, conseguendone che,
costituendo la percepibilità della modificazione
dell’aspetto esteriore del bene protetto un
prerequisito di rilevanza paesaggistica del fatto,
la sua insussistenza è da ritenersi idonea ad
elidere, alla radice, non solo la sussistenza dei
presupposti di sanzionabilità dell’illecito
commesso, ma finanche la necessità stessa del previo
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, senza
che possa darsi, dunque, corso a valutazioni o
apprezzamenti di sorta sull’esistenza di superfici
utili o di volumi”.
Altra decisione (Tar Campania−Napoli, VIII, n.
4072/2012), ha ritenuto costituzionalmente legittimo
il combinato disposto degli artt. 146, comma quarto,
e 167, commi quarto e quinto d.lgs. n. 42/2004,
sospettati di violazione dell’art. 42 e dell’art. 3
della Carta costituzionale, proprio in quanto ha
escluso “l’irragionevolezza della citato disposto
normativo ove lo stesso sia interpretato in
conformità della circolare dell’Ufficio Legislativo
del Ministero BB.AA.CC. 16721 del 13/09/2010, già
condivisa dalla Sezione, (ex multis sentenza n. 2463
del 05.05.2011; sentenza n. 5829 del 13.10.2011)
secondo la quale deve ritenersi ammissibile la
sanatoria postuma in relazione ad opere comportanti
aumenti minimali di superficie, da non essere
neppure percepibili all’esterno, rientrando detti
interventi fra quelli liberi, di cui all’art. 149
d.lgs. 42/2004”.
Il Tar di Palermo ha ritenuto invece di sollevare
dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
la questione della compatibilità della disciplina in
esame con i principi comunitari (ordinanza della I
Sezione n. 802 del 10.04.2013).
In particolare, l’art. 167, comma quarto,
violerebbe, secondo il Tar siciliano, l’art. 17
della Carta dei diritti fondamentali dell’UE sul
diritto di proprietà e il principio di
proporzionalità come principio generale del diritto
europeo, poiché esclude la possibilità di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per
tutti gli interventi comportanti incremento di
volume o di superficie in via presuntiva, ossia
indipendentemente dall’accertamento concreto della
compatibilità di tali interventi con i valori di
tutela paesaggistica indicati dal vincolo specifico
che grava sull’area. L’impossibilità di ottenere la
sanatoria senza accertamenti di compatibilità
paesaggistica per interventi che determinano nuovi
volumi o superfici comporterebbe una rilevante
lesione del diritto di proprietà in tutti i casi in
cui i privati, avendo realizzato abusi meramente
formali −ossia opere conformi agli strumenti
urbanistici ma prive di titolo abilitativo− possono
sanarli sotto il profilo urbanistico - edilizio
attraverso l’accertamento di conformità in sanatoria
(artt. 36 e 37 del DPR n. 380/2001), ma sotto il
profilo paesaggistico sono soggetti a demolizione.
Secondo il giudice del rinvio, la materia del
paesaggio rientrerebbe nella materia della tutela
dell’ambiente, di sicura competenza comunitaria.
La Corte di Giustizia ha invece ritenuto (sentenza
del 06.03.2014) la propria incompetenza, affermando
la netta distinzione tra tutela del paesaggio e
tutela dell’ambiente.
In pratica, né le disposizioni dei trattati UE e FUE
richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa
relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive
2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri
obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa
invece il diritto italiano.
Da ciò la Corte ha tratto la conseguenza che non vi
sono elementi che consentano di ritenere che le
disposizioni del decreto legislativo n. 42/2004
rilevanti nella controversia principale rientrino
nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione,
poiché esse non costituiscono attuazione di norme
del diritto dell'Unione.
Dall'ordinanza di rinvio −afferma la Corte− non
emerge l'esistenza di un rischio di violazione dei
diritti ritenuti fondamentali dal diritto
dell’Unione.
Non sarebbe stata dimostrato dall’ordinanza di
rinvio che l'articolo 167, comma quarto, lettera a),
del decreto legislativo n. 42/2004 rientra
nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione
o costituisce attuazione del medesimo, come non
sarebbe stata dimostrata la competenza della Corte a
interpretare il principio di proporzionalità
attraverso la prova di un collegamento sufficiente.
Secondo l’orientamento più rigoroso, pure presente
nel panorama giurisprudenziale italiano, l’art. 167,
comma quarto, lett. a) non può essere letto in una
prospettiva riduttiva, essendo la disposizione
chiara nel prevedere che “l’autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, …, nei seguenti casi: a) per i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
…” (Tar Lombardia–Brescia, I, n. 1481/2012).
Il Collegio ritiene preferibile l’orientamento da
ultimo richiamato, che fornisce un criterio certo
che l’amministrazione preposta alla tutela del
paesaggio deve seguire, mentre l’interpretazione
suggerita dal parere dell’Ufficio legislativo del
Ministero per i Beni culturali del 2010, più volte
citato, aprirebbe il varco alle percezioni
soggettive e quindi alla possibilità che casi
identici siano soggetti a trattamenti differenti.
Alla luce delle su esposte premesse, le doglianze
incentrate sull’interpretazione elastica della
normativa in questione non possono trovare adesione.
Quanto alle nozioni di superficie e di volume che
devono essere tenute presenti nei calcoli e nelle
misurazioni necessari ai fini dell’accertamento di
conformità di cui trattasi, non vi sono ragioni per
aderire alla tesi, sostenuta da parte ricorrente,
secondo cui dovrebbe farsi riferimento a concetti
autonomi di superficie e di volume ai sensi di
alcune disposizioni del regolamento edilizio e del
regolamento urbanistico vigenti nel Comune di
Viareggio; la normativa statale che dev’essere
applicata e che l’amministrazione ha applicato non
consente interpretazioni che comportino applicazioni
non omogenee nei diversi Comuni.
Tanto basta a respingere il ricorso, essendo appena
il caso di precisare che le censure attinenti al
procedimento non potrebbero in ogni caso condurre
all’annullamento del provvedimento impugnato nel
caso in cui si tratti, come nella controversia in
esame −in cui è coinvolto il potere di accertamento
e repressione degli abusi edilizi− di provvedimenti
vincolati (Tar Campania−Napoli, IV, n. 2627/2009) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 09.07.2014 n. 1216 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed ancora sul fatto che un volume edilizio abusivo,
quale esso che sia, non può conseguire la
compatibilità paesaggistica: |
EDILIZIA PRIVATA:
Va escluso che la norma di cui all’art.
167, c. 4, lett. a), possa essere letta secondo la
prospettiva riduttiva proposta dalla ricorrente e
cioè che detto divieto -ove letto in connessione con
l’art. 146 e l’art. 149- non sarebbe da intendere
come assoluto, bensì sussisterebbe solo quando i
volumi o le superfici aggiuntive siano percepibili
dall’esterno. .
La disposizione è chiara nel prevedere che:
“l’autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica, …, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
…”.
Il D.Lgs. n. 42/2004 ha stabilito -all’art. 146- il
principio che l’autorizzazione paesaggistica non può
essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi,
consentendo solamente (per effetto delle modifiche
introdotte dal D.Lgs. n. 157 del 2006 e del D.Lgs.
n. 63 del 2008) la sanabilità degli abusi minori di
cui all’art. 167, c. 4 e 5.
Con ricorso notificato il 06.04.2011 e depositato presso la
Segreteria della Sezione il successivo giorno 15 (rubricato
al n. 540/2011 R.G.), G.G.C. impugna il
provvedimento del Consorzio del Parco dei Colli di Bergamo
recante il diniego dell’istanza di accertamento di
compatibilità paesistica ex art. 167 D.lgs. n. 42 del 2004,
presentata in data 11.12.2008 avente ad oggetto “copertura
pergolato e posa in opera di serramenti mobili sul fronte
dello stesso”.
Il provvedimento -rilevato che “trattasi di richiesta di
accertamento di compatibilità paesaggistica per ampliamento
locale accessorio ad uso residenziale al piano terra con
modifiche alla sagoma del fabbricato che hanno determinato
aumento volumetrico e di superficie utile realizzate in
assenza di parere di conformità al piano territoriale di
coordinamento del Parco dei colli e suoi piani di settore,
nonché della relativa autorizzazione paesaggistica"- osserva
che "l'intervento di trasformazione del pergolato definisce
nuovo volume superficie utile, come evidenziato negli
allegati grafici allegati, pertanto non è riconducibile alla
tipologia di lavori di cui possa essere richiesta la
compatibilità paesaggistica ai sensi del comma 4
dell'articolo 167 del decreto legislativo 42/2004."
...
Con il primo motivo, G.G.C. prospetta
innanzitutto l’erronea interpretazione del divieto posto
dall’art. 167, c. 4, lett. a), del D.lgs. n. 42/2004,
sostenendo che detto divieto -ove letto in connessione con
l’art. 146 e l’art. 149- non sarebbe da intendere come
assoluto, bensì sussisterebbe solo quando i volumi o le
superfici aggiuntive siano percepibili dall’esterno.
Sotto
altro aspetto, evidenzia che, nella fattispecie, i lavori
eseguiti sono sostanzialmente irrilevanti sotto il profilo
paesaggistico, dato che si tratta di volumetria esigua (il
2,57%) rispetto a quella degli edifici complessivi e
peraltro collocati in aderenza al muro di confine ed in
continuità ad altri fabbricati sì da non rendere percepibile
alcuna modificazione dell’aspetto esteriore del bene
protetto.
La doglianza va disattesa.
Va escluso che la norma di cui all’art. 167, c. 4, lett. a),
possa essere letta secondo la prospettiva riduttiva proposta
dalla ricorrente.
La disposizione è chiara nel prevedere che: “l’autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, …, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati; …”.
Il D.Lgs. n. 42/2004 ha stabilito -all’art. 146- il
principio che l’autorizzazione paesaggistica non può essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione,
anche parziale, degli interventi, consentendo solamente (per
effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 157 del
2006 e del D.Lgs. n. 63 del 2008) la sanabilità degli abusi
minori di cui all’art. 167, c. 4 e 5.
Con riguardo all’intervento in questione occorre rilevare
che -come emerge dal doc. n. 4 della ricorrente- D.I.SRL (dante causa della ricorrente) in data 13.12.2004
otteneva dal Comune di Bergamo autorizzazione paesaggistica
ex art. 159 D.Lgs. n. 42/2004 n. 3908/2002 per “opere di
formazione pergolato”, secondo le tavole progettuali
allegate (che non sono state prodotte in atti).
Circa la nozione di pergolato, va rilevato che (cfr. Cons.
St. Sez. IV 29.09.2011 n. 5409) “ai fini edilizi si intende
per pergolato un manufatto avente natura ornamentale
realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale
di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di
fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti,
attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni”.
Al riguardo è stato altresì osservato (cfr. Cass. pen Sez.
III 19.05.2008 n. 19973) che mentre il pergolato costituisce
una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte
superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può
essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l’abitabilità
dell’immobile.
In ogni caso la stessa G.C. riconosce che venne poi
(abusivamente) effettuato “un intervento di riqualificazione
di un pergolato esistente” consistente “nella copertura
della struttura accessoria con manto in tegole curve
antiquate e nella chiusura del fronte con serramenti mobili
in legno”.
In tale contesto, va escluso che potesse ritenersi già
impegnata una volumetria già in forza della precedente
autorizzazione paesaggistica per la realizzazione del
pergolato.
Posto che -attraverso le opere abusivamente realizzate
sopra descritte- è stata realizzata una nuova volumetria,
opera il divieto di rilascio della certificazione di
conformità paesaggistica correttamente eccepito dal
Consorzio del Parco, senza che si possa fare questione di
percentuale dell’abuso così come di visibilità o meno dalla
strada.
Quelle poste dalla ricorrente sono questioni tutte
irrilevanti (a prescindere dalla fondatezza dei rilievi
svolti, sui quali pure si potrebbero svolgere osservazioni
critiche), posto che il legislatore ha escluso tout court la
sanabilità nel caso di aumento di volumi (senza distinguere
fra grandi o piccoli, visibili o invisibili).
Con il secondo motivo, la ricorrente sostiene che il Parco
dei Colli si è limitato a contestare l’astratta violazione
dell’art. 167 e 181 del D.Lgs. n. 42/2004, senza motivare in
ordine alla sussistenza di un concreto pregiudizio arrecato
al paesaggio e non ha controdedotto alle osservazioni
presentate dalla ricorrente a seguito dell’emissione del
preavviso di diniego, in particolare sulla conformità
urbanistica dell’intervento.
La censura va rigettata.
Quanto al primo aspetto va ribadito quanto appena enunciato
sopra: il legislatore non ha affatto attribuito
all’Amministrazione un potere di valutazione caso per caso,
ma ha stabilito che l’autorizzazione postuma non è
concedibile ogni qualvolta venga in rilievo un’ipotesi di
aumento di volumetrie e superfici utili.
Relativamente al secondo profilo, occorre muovere dal
rilievo che il Consorzio ha rimarcato un elemento fattuale -la realizzazione, attraverso le opere abusivamente poste in
essere, di un incremento volumetrico- comportante la
inammissibilità dell’accertamento di conformità e rilevando
che le osservazioni proposte dal ricorrente non risultavano
capaci di superare tale profilo.
Orbene, posto che le osservazioni si fondavano sulla tesi
della conformità urbanistica dell’intervento (e sulla
esistenza di una disposizione delle NTA che avrebbe
consentito di non considerare superficie utile quella
dell’intervento) non può affermarsi che l’osservazione non
sia stata esaminata e ritenuta non condivisibile.
Il ricorso originario risulta così infondato (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.08.2012 n. 1481 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
PATRIMONIO: La
proprietà delle scarpate stradali. Chi deve provvedere alla
manutenzione e come si determinano i confini.
Le scarpate stradali sono da considerarsi parti delle strade
su cui insistono, in quanto pertinenze la cui staticità
influisce sull'agibilità delle strade stesse. In tal senso,
esse possono essere paragonate ai fossi e alle banchine.
Del resto, lo stesso articolo 3, n. 10), del decreto
legislativo n. 285/1992 (Codice della strada) prevede
espressamente che in assenza di atti di acquisizione o di
fasce di esproprio di progetto, i confini stradali vadano
rinvenuti nel piede della scarpata, se la strada è in
rilevato, o nel ciglio superiore della scarpata, se la
strada è in trincea.
I soggetti onerati della manutenzione delle
scarpate.
Da quanto detto, deriva che proprietario delle scarpate e
onerato del loro mantenimento è esclusivamente l'ente
proprietario della strada. I privati proprietari dei fondi
limitrofi, invece, non hanno alcun obbligo in tal senso.
Su questi ultimi, piuttosto, ricade un obbligo manutentivo
relativamente alle ripe che sono situate nei fondi limitrofi
alle strade, ovverosia relativamente a quelle zone di
terreno immediatamente sovrastanti o sottostanti le
scarpate.
Sulla base dell'articolo 31 del Codice della strada,
infatti, i proprietari delle ripe sono chiamati a mantenerle
in una condizione tale da non rischiare di causare frane,
cedimenti o ingombri delle strade, cadute di massi o
materiali o qualsiasi ulteriore insidia atta a generare
danni.
Del resto, l'ente proprietario della strada, pur se
chiamato, ai sensi dell'articolo 14 del Codice della strada,
a provvedere alla manutenzione e alla pulizia non solo della
sede stradale in senso stretto ma anche delle sue
pertinenze, non può veder esteso il proprio obbligo di
tutela della sicurezza degli utenti della strada sino al
punto di doversi occupare della gestione anche di zone
estranee ad essa, pur se circostanti.
Il parere n. 2158/2012 del Consiglio di
Stato.
Sulla questione si sono espressi in diverse occasioni sia i
giudici di merito che i giudici di legittimità, ma una
particolare rilevanza la assume il parere n. 2158 reso dal
Consiglio di Stato in data 09.05.2012, con il quale, nel
respingere il ricorso dinanzi al Presidente della Repubblica
fatto da un privato cittadino avverso una delle numerose
ordinanze emesse dai Comuni nei confronti dei proprietari
dei fondi limitrofi alle sedi stradali, si è fatta chiarezza
circa i confini degli obblighi manutentivi dei privati
rispetto a quelli degli enti gestori delle strade.
Tale parere risulta rilevante, peraltro, anche per aver
precisato, confermando la sentenza della Cassazione n. 1730
del 25.06.2008, come per la definizione di "strada"
(e in conseguenza della scarpata) assuma rilievo la
destinazione di una determinata superficie ad uso pubblico e
non la titolarità pubblica o privata della proprietà
(commento tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
Per la definizione di “strada”
assume rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del
codice della strada, la destinazione di una determinata
superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o
privata della proprietà.
---------------
L’art. 14 del codice della strada assegna all’ente comunale
il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e
pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende
alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe
site nei fondi laterali alle strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada,
devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in
modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse
a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di
sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale,
nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano
immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata
del corpo stradale.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal signor S.V. avverso l’ordinanza del Comune di
Terni concernente esecuzione di lavori su terreni confinanti
con strada pubblica;
...
Premesso:
Con ordinanza n. 13217 del 21.01.2009, il sindaco del Comune
di Terni, ai sensi degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del
2000, ha intimato a tutti i proprietari ed ai soggetti
aventi titolo sui terreni confinanti con il corpo delle
strade di pubblico transito, di tenere regolate le siepi,
togliere i rami che si protendono oltre il confine stradale,
rimuovere gli alberi che cadono sul piano stradale, non
piantare alberi, siepi, piantagioni nelle fasce di rispetto
laterali alle strade all’esterno di centri abitati
relativamente ai tratti in rettilineo o in curva, nonché
nelle aree di visibilità in corrispondenza delle
intersezioni.
L’ordinanza prevede che i suddetti lavori debbano essere
eseguiti entro il 20.05.2009, disponendo, in caso di
violazione, l’avvio di azioni di tutela ed ingerenza
straordinaria con rivalsa della spesa a carico
dell’inadempiente e con irrogazione delle sanzioni
amministrative previste dalla legge per le specifiche
violazioni accertate secondo le procedure di cui all’art.
211 del Codice della Strada, salvi gli interventi di
indifferibile urgenza.
Avverso tale ordinanza propone ricorso straordinario al Capo
dello Stato il signor S.V., proprietario di alcune
particelle di terreno prospicienti strade, chiedendone
l’annullamento per eccesso di potere per falsità dei
presupposti, travisamento dei fatti e illogicità manifesta.
In sintesi il ricorrente, premesso che le strade di
interesse sono diventate di pubblico transito raramente per
cessione volontaria ma soprattutto per acquisizione
appropriativa e/o accessione invertita, con ampliamenti non
risultanti in catasto (per cui pende causa civile attivata
dal ricorrente), ritiene che le opere imposte relativamente
alle scarpate confinanti con la strada siano di competenza
del Comune.
Ciò in quanto l’area di pertinenza sotto la responsabilità
del Comune è delimitata dal “confine stradale” inteso
come “limite del corpo stradale che contiene la sede
stradale, ovvero la carreggiata e le fasce di pertinenza
(comprese le scarpate), come afferma peraltro la stessa
ordinanza imponendo il taglio “dei rami che protendono oltre
il confine stradale”.
Doglianze queste ribadite e sviluppate con memoria aggiunta
presentata, a confutazione delle controdeduzioni del Comune,
in data 04.01.2010.
L’Amministrazione, acquisite le controdeduzioni del Comune,
che deduce preliminarmente la inammissibilità del ricorso
per difetto di concretezza dell’interesse fatto valere,
ritiene chiede conclude per la reiezione del ricorso.
Considerato:
Pur considerando che il gravame è volto avverso un atto
generale e che il ricorrente non fornisce una prova concreta
degli effetti immediati dell’atto sulla propria situazione
fattuale, ritiene la Sezione di poter considerare il ricorso
ammissibile, tenuto conto che trattasi di atto
potenzialmente in grado di incidere sui diritti e interessi
del ricorrente, in quanto proprietario di aree confinanti
con strade pubbliche.
Nel merito il ricorso è da respingere.
In ordine alle connotazione dei luoghi effettuata dal
ricorrente, va considerato come, per la definizione di “strada”,
assuma rilievo, ai sensi dell’art. 2, comma primo, del
codice della strada, la destinazione di una determinata
superficie ad uso pubblico, e non la titolarità pubblica o
privata della proprietà (cfr., Cass. Sez. II, sent. 17350
del 25.06.2008).
Quanto sopra premesso, l’ordinanza gravata è volta a
precisare e ad imporre gli obblighi manutentivi, ordinari e
straordinari, previsti ai fini della sicurezza, che
incombono sui proprietari e gli aventi titolo dei terreni
confinanti con il “corpo stradale”.
In tesi del ricorrente, poiché l’art. 3, punto 10, del d.
leg.vo n. 285 del 1992 stabilisce che, “qualora non vi
siano atti di acquisizione o fasce di esproprio di progetto",
come nel suo caso, il “confine stradale” è
identificato “nel piede della scarpata se la strada è in
rilevato o dal ciglio superiore della scarpata se la strada
è in trincea”, gli obblighi manutentivi ed il taglio dei
sensi insistenti sulla strada e involgenti le scarpate non
sono legittimamente addossabili ai privati.
Va considerato che l’atto impugnato, nell’imporre ai
confinanti gli obblighi ivi previsti, nel richiamare
esplicitamente la normativa vigente al riguardo, non appare
adottato in violazione della suddetta normativa.
Invero, l’ordinanza impone gli obblighi e l’esecuzione dei
lavori, relativamente a coloro che siano proprietari o
abbiano comunque titolo nei terreni “confinanti” con
il corpo stradale.
Al riguardo l’art. 14 del codice della strada assegna
all’ente comunale il compito di provvedere alla
manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma
tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti,
in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle
strade.
Le ripe, ai sensi dell’art. 31 del codice della strada,
devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in
modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse
a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di
sostegno, l’ingombro delle pertinenze e della sede stradale,
nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano
immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in
riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata
del corpo stradale.
Tale impianto normativo non è contraddetto dall’ordinanza in
questione, diretta a soggetti responsabili di terreni
privati posti oltre il confine stradale, mentre rimangono a
carico del Comune gli interventi riguardanti le strade in
quanto tali, comprese le fasce di rispetto e le scarpate,
ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale responsabilità del
confinante che abbia illecitamente operato sulla sede
stradale medesima.
Il ricorrente, d’altra parte, non evidenzia situazioni
concrete che possono, nei suoi confronti, concretare una
illegittima applicazione dell’ordinanza in questione che, se
verificata, potrà determinare l’attuazione di specifici
rimedi contenziosi.
Né assumono consistenze le osservazioni svolte in ordine
alla procedura sanzionatoria di cui l’atto impugnato fa
ricognizione, coerente alle disposizioni normative vigenti,
mentre non assume alcun rilievo la lamentata entità delle
spese necessarie ad assicurarne l’adempimento delle
prescrizioni, in luogo di una astratta azione preventiva,
che rientra a pieno titolo nei poteri-doveri della Pubblica
Amministrazione.
Per le esposte considerazioni l’atto impugnato non è affetto
dai lamentati vizi di legittimità ed il ricorso è da
respingere
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 09.05.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Decreti Efficienza Energetica.
Sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale Serie
Generale n. 162 del 15.07.2015 -Supplemento Ordinario n. 39-
i tre decreti, approvati lo scorso 26 giugno, che completano
a livello nazionale il quadro normativo in materia di
efficienza energetica negli edifici:
il primo decreto è volto alla definizione delle nuove
modalità di calcolo della prestazione energetica e i nuovi
requisiti minimi di efficienza per i nuovi edifici e quelli
sottoposti a ristrutturazione;
il secondo decreto adegua gli schemi di relazione tecnica di
progetto al nuovo quadro normativo, in funzione delle
diverse tipologie di opere;
il terzo decreto aggiorna le linee guida per la
certificazione della prestazione energetica degli edifici
(APE).
I tre provvedimenti che entreranno in vigore il 01.10.2015
introducono importanti novità. Il nuovo modello di Attestato
di Prestazione Energetica sarà valido su tutto il territorio
nazionale e avrà un volto completamente nuovo per fornire
maggiori informazioni riguardo l’efficienza dell’edificio e
degli impianti, consentendo così un più facile confronto
della qualità energetica di unità immobiliari differenti.
Sono inoltre previsti nuovi standard minimi di prestazione
energetica che gli edifici di nuova costruzione e quelli
ristrutturati dovranno raggiungere per rispettare le
disposizioni della direttiva sugli edifici a energia quasi
zero.
È disponibile una
presentazione
che illustra le principali novità introdotte dalla nuova
normativa.
Regione Lombardia pubblicherà a breve una Delibera che andrà
a disciplinare le modalità per certificare gli edifici a
valle dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni (16.07.2015
- tratto da www.cened.it). |
CONDOMINIO - VARI:
Le liti tra vicini e condomini
(articolo
ItaliaOggi Sette del 13.07.2015). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Schema del Ministro della pubblica amministrazione
decreto recante procedure e criteri di mobilità ex art. 1,
comma 423, della legge n. 190 del 2014 – Le osservazioni del
CSA (CSA Roma,
nota 14.07.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 21.07.2015, "Modifiche
al regolamento regionale 10.02.2004 n. 1 (Criteri generali
per l’assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica) in attuazione dell’art. 5 della legge
regionale 24.06.2014, n. 18 (Norme a tutela dei coniugi
separati o divorziati, in condizione di disagio, in
particolare con figli minori)" (Regolamento
Regionale 17.07.2015 n. 7). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 20.07.2015, "Indirizzi
regionali in merito alle modalità di versamento delle
tariffe istruttorie nei procedimenti di autorizzazione unica
ambientale (AUA) ai sensi del d.p.r. 13.03.2013, n. 59" (deliberazione
G.R. 14.07.2015 n. 3827). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 17.07.2015, "Aggiornamento
degli allegati della l.r. 02.02.2010, n. 5 – Norme in
materia di valutazione di impatto ambientale – Con
contestuale disapplicazione di parte della normativa
regionale di riferimento, alla luce dei disposti del d.m.
del Ministero dell’Ambiente della tutela del territorio e
del mare 30.03.2015 avente ad oggetto: «Linee Guida per la
verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto
ambientale dei progetti di competenza delle regioni e
provincie autonome, previsto dall’articolo 15 del decreto
legge 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni,
dalla legge 11.08.2014, n. 116» ed in applicazione del
principio di corrispondenza ex art. 2, comma 9 della l.r.
5/2010" (deliberazione
G.R. 14.07.2015 n. 3826). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
15.07.2015 n. 162, suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle
prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e
dei requisiti minimi degli edifici
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
2- Schemi e
modalità di riferimento per la compilazione della relazione
tecnica di progetto ai fini dell’applicazione delle
prescrizioni e dei requisiti minimi di prestazione
energetica negli edifici
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento
del decreto del Ministro dello sviluppo economico,
26.06.2009 - Linee guida nazionali per la certificazione
energetica degli edifici
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015); |
APPALTI: G.U.
15.07.2015 n. 162 "Riforma del sistema nazionale di
istruzione e formazione e delega per il riordino delle
disposizioni legislative vigenti" (Legge
13.07.2015 n. 107).
---------------
Di interesse si legga:
- art. 1, comma 169, che rinvia all'01.11.2015 l'entrata in
vigore delle Centrali di committenza: "169. All’articolo
23-ter , comma 1, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n.
114, e successive modificazioni, le parole: «1º settembre
2015» sono sostituite dalle seguenti: «1º novembre 2015».". |
PATRIMONIO:
G.U. 14.07.20145 n. 161 "Regolamento recante modifica al
decreto 12.11.2011, n. 226, concernente i criteri di gara
per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas
naturale" (Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 20.05.2015 n. 106). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 10.07.2015 n. 158 "Attuazione della direttiva
2013/37/UE che modifica la direttiva 2003/98/CE, relativa al
riutilizzo dell’informazione del settore pubblico" (D.Lgs.
18.05.2015 n. 102). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuove norme sull’efficienza energetica negli
edifici (edifici ad energia quasi zero) (ANCE
di Bergamo,
circolare 17.07.2015 n. 163). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Rischio chimico – valutazione (ANCE
di Bergamo,
circolare 17.07.2015 n. 160). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: prolungamento del congedo parentale per figli
con disabilità in situazione di gravità. Elevazione dei
limiti temporali di fruibilità da 8 a 12 anni. Modalità di
presentazione della domanda nel periodo transitorio
(INPS,
messaggio 16.07.2015 n. 4805 - link a
www.inps.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: Catasto. Sentenza della Corte Costituzionale n.
154 del 24.06.2015. Annullamento art. 26, c. 7-ter, della
legge 28.02.2008 n. 31 (Collegio
Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati,
circolare 17.07.2015 n. 2617 di prot.). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI:
Oggetto: PEC-Posta Elettronica Certificata. Utilizzo
esclusivo. PEC rilasciate gratuitamente agli iscritti
nell’Albo e-mail professionale degli Agrotecnici e degli
Agrotecnici laureati (Collegio Nazionale degli
Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati,
circolare 15.07.2015 n. 2600 di prot.). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: stato attuazione Durc on-line (Commissione
Nazionale Paritetica per le Casse Edili,
lettera-circolare 14.07.2015 n. 30/2005). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Durc on-line – Criticità – Lettera Circolare
CNCE n. 28/2015 (ANCE
di Bergamo,
circolare 13.07.2015 n. 159). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: ADR 2015, norme in vigore dal 1° luglio
(ANCE di Bergamo,
circolare 10.07.2015 n. 157). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Problematiche Durc on-line (Commissione
Nazionale Paritetica per le Casse Edili,
lettera-circolare 09.07.2015 n. 28/2005). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
COMPETENZE PROGETTUALI: No
all'estensione agli agrotecnici dell'abilitazione in materia
di atti catastali (16.07.2015 -
tratto da www.ispoa.it). |
APPALTI:
S. Previti,
Quali i limiti operativi del principio dell’immodificabilità
soggettiva delle A.T.I.? (Tar Campania-Salerno, Sez. I,
23/06/2015, n. 1436)
(07.07.2015 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
M. De Giorgi,
Sui limiti del sindacato giurisdizionale della valutazione
di anomalia dell'offerta (Tar Campania-Napoli, sez. I,
24/06/2015, n. 3349)
(07.07.2015 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
G. Cassano,
Sui requisiti che legittimano la partecipazione alle gare
pubbliche (Tar Puglia, Bari, sez. I, 23/06/2015, n. 936)
(07.07.2015 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
G. Patti,
La responsabilità precontrattuale della Pubblica
Amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica
(C. Cass, civ., Sez. I, Sent., 12/05/2015, n. 9636)
(07.07.2015 - link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
M. G. Laratta,
Il fenomeno del c.d. Mobbing: le ultime sentenze in materia
(06.07.2015 - tratto da www.diritto.it). |
PATRIMONIO:
A. Cogliandro,
Art. 14 C.d.s. - Poteri e compiti degli enti proprietari
della strada (26.06.2015 - link a
www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Panozzo,
Sulla natura del diritto di accesso (25.06.2015
- tratto da www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Panozzo,
Introduzione al(lo studio del) diritto di accesso:
(superamento del) principio di segretezza e riferimenti
comunitari e costituzionali (08.06.2015 -
tratto da www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: V.
Gastaldo,
Le opere di urbanizzazione a
scomputo degli oneri
(2013 - tratto da http://amsdottorato.unibo.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Danno erariale se la p.a. assume violando la
legge.
Le amministrazioni pubbliche che assumano dipendenti a tempo
indeterminato in violazione dei vincoli imposti
dall'articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014
(Legge di Stabilità 2015) poiché danno vita ad assunzioni
nulle, vanno incontro a responsabilità erariale.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo del
Veneto, col
parere 25.06.2015 n. 305
mette in evidenza un aspetto connesso alla legge di
stabilità che molte amministrazioni, specie locali, nel
tentativo di divincolarsi dal congelamento delle assunzioni
imposto per consentire la ricollocazione del personale
provinciale, hanno fortemente sottovalutato.
E cioè che il
congelamento (sia pure solo biennale) delle assunzioni è
talmente forte che qualsiasi reclutamento al di fuori dei
binari imposti è affetto da nullità; ne consegue che il
pagamento degli stipendi intercorso tra l'assunzione nulla
ed il provvedimento che l'accerti risulterebbe del tutto
privo di titolo. Dunque, secondo la Sezione si apre «la
strada a eventuali ipotesi di responsabilità erariale che
potrebbe ben sorgere in capo ai soggetti che hanno derogato
a tale vincolo».
È un'ulteriore tessera del complicatissimo e caotico mosaico
normativo che disciplina la riforma delle province. Talmente
caotico da riflettersi anche sui pareri delle sezioni
regionali della Corte dei conti. Infatti, la sezione Veneto
che si è pronunciata con la deliberazione 305/2015 citata,
sul quesito posto dal comune di Lastebasse, ha ritenuto, con
delibera 313/2015 inammissibile il quesito del comune di
Pedemonte, in tutto e per tutto identico a quello sul quale
ha invece espresso il parere.
Sta di fatto che la sezione Veneto irrigidisce
ulteriormente, secondo una lettura corretta delle
disposizioni della legge di Stabilità 2015, le indicazioni
fornite dalla sezione autonomie, con la deliberazione
19/2015.
La delibera della 305/2015 della sezione Veneto ricorda che
il comma 424 della legge 190 crea, di fatto, un regime
assunzionale «speciale», che come tale deroga e supera le
disposizioni generali sulle assunzioni. Tale regime è
limitato al biennio 2015-2016 ed è specificamente
finalizzato all'assunzione dei vincitori di procedure
concorsuali vigenti o approvate alla data dell'01/01/2015,
nonché al riassorbimento del personale delle Province
dichiarato in sovrannumero.
Si crea, dunque un «binario preferenziale» per il personale
soprannumerario che, ricorda la Corte dei conti smentendo le
dichiarazioni a più riprese rilasciate da esponenti del
governo, «rischierebbe, ove non riassorbito presso altri
enti, di essere collocato in posizione disponibilità prima,
avviandosi poi, fallita la procedura di salvaguardia dei
livelli occupazionali di cui agli artt. 34 e 34-bis del dlgs
165/2001, verso il licenziamento».
Per questa ragione, l'articolo 1, commi 423, 424 e 425,
impedisce radicalmente di destinare quote di assunzioni a
tempo indeterminato alle procedure di concorso
ordinariamente previste dall'articolo 6 del dlgs 165/2001,
derogato e disapplicato, per gli anni 2015 e 2016, dalla
legge 190/2014.
La sezione Veneto della Corte dei conti sottolinea che il
recente decreto enti locali (dl 78/2015) costituisce
elemento di comprova inconfutabile della chiara volontà del
legislatore di bloccare le assunzioni diverse da quelle
consentite dalla legge di stabilità, finché non si sia
ricollocato il personale. Esso, infatti, prevede una serie
di deroghe per regioni ed enti locali, ai divieti di
assunzioni derivanti dal mancato rispetto dei tempi di
pagamento delle fatture, o del patto di stabilità.
Ciò, secondo la magistratura contabile, dimostra il «primario
interesse al conseguimento del fine sopra richiamato fino al
punto da far venir meno le sanzioni, quali i divieti di
assunzioni, conseguenti a violazioni dei vincoli di corretta
tenuta dei conti pubblici»
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015). |
ENTI LOCALI: Siti web senza limiti di spesa.
I costi per il portale istituzionale sfuggono al tetto del
20%. La Corte conti Liguria ha risposto a un quesito del comune
di S. Margherita Ligure.
Le spese per la creazione, la conservazione e
l'implementazione di un sito internet istituzionale
costituiscono adempimenti richiesti obbligatoriamente dalle
disposizioni in materia di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni. Ne consegue che tali spese, rientrando in
un obbligo da assolvere, non soggiacciono alla limitazione
prevista dall'art. 6, comma 8, del decreto legge n. 78/2010,
dove si impone (dal 2011) un tetto non superiore al venti
per cento di quelle sostenute nel 2009.
È quanto ha
precisato la sezione regionale di controllo della Corte dei
conti per la regione Liguria, nel testo del
parere
17.06.2015 n. 54 con cui, in risposta ad alcuni quesiti formulati
dal comune di Santa Margherita Ligure, ha precisato
l'esclusione dalle riduzioni imposte dal legislatore con il
citato dl n. 78, delle spese per la creazione e
l'ottimizzazione del sito web istituzionale di
un'amministrazione locale.
Come ha correttamente precisato il collegio della
magistratura contabile ligure, emerge chiaramente dal
dettato normativo imposto dal dlgs 14.03.2013, n. 33 (cui
sono tenuti anche gli enti locali), l'obbligo di dotarsi
della più ampia opera di pubblicazione nei propri siti
istituzionali con riferimento a vari aspetti della propria
organizzazione e dell'attività svolta.
Tra i tanti impegni,
vi sono quelli informativi che riguardano gli atti di
carattere normativo e amministrativo generale, i
provvedimenti amministrativi adottati, l'anagrafe e i curricula
degli organi di indirizzo politico, di amministrazione e
gestione, nonché l'articolazione degli uffici, le competenze
e le risorse a disposizione di ciascun ufficio e, in
particolare, i servizi erogati al cittadino.
Pertanto, appare palese che sia la creazione sia il
mantenimento di un sito internet istituzionale costituiscano
adempimenti richiesti obbligatoriamente dalla legge e,
pertanto, la Corte ha ritenuto che le spese per
l'aggiornamento e lo sviluppo del sito non siano sottoposte
alla limitazione prevista dall'art. 6, comma 8, del dl n.
78/2010, in quanto riferibili a una forma di pubblicità
obbligatoria.
Conclusione che può valere anche per gli oneri sostenuti per
assicurare un assetto informativo utile ad accrescere la
conoscenza da parte della collettività dei servizi pubblici
come, per esempio, la creazione di indirizzi di posta
elettronica istituzionali o l'informazione relativa alla
presenza dell'amministrazione comunale sui social network,
ma sempre che ciò avvenga «con modalità e scopi meramente
informativi e in funzione di una più efficace ed efficiente
erogazione dei servizi stessi».
Infine, la Corte risolvendo un altro quesito posto, ha
specificato che le spese relative genericamente
all'organizzazione di manifestazioni di tipo culturale o con
fini di promozione turistica, sono da considerare
riconducibili alle nozioni di «convegni» o di «relazioni
pubbliche» e, come tali, rientranti nel vincolo di spesa
imposto dal dl n. 78
(articolo ItaliaOggi del 14.07.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’applicazione dei comuni canoni
ermeneutici sanciti nell’art. 12 delle preleggi impone
all’interprete di privilegiare, tra le possibili
interpretazioni, quella più conforme alla lettera della
norma (la quale, come già detto, esclude espressamente
dall’incentivo in argomento “le attività manutentive”).
Peraltro, depone in tal senso anche la ratio legis che
chiaramente traspare dalla richiamata novella, dovendosi
ritenere che il legislatore, nel ridisegnare presupposti e
limiti al riconoscimento dell’incentivo de quo, abbia tenuto
ben presente l’orientamento, consolidatosi in seno alla
giurisprudenza contabile come diritto vivente, favorevole
all’estensione del beneficio in parola alle (sole) attività
di manutenzione straordinaria.
Né, d’altra parte, appare
convincente la sopra richiamata tesi che ricorre alla
disciplina delle spese di investimento per trarne elementi
utili a fondare una diversa conclusione. Invero,
l’attrazione delle opere di manutenzione straordinaria
nell’alveo delle spese di investimento, operata dalla legge
350 del 2003, obbedisce ad una ratio di tutela del
patrimonio immobiliare degli enti pubblici al fine di
evitare che gli enti dilapidino il proprio patrimonio per
fronteggiare impellenti esigenze di cassa.
La normativa che disciplina l’incentivo di progettazione
tende, invece, a valorizzare al massimo le competenze e
professionalità tecniche possedute dal personale dipendente
degli enti pubblici e ad evitare nel contempo di ricorrere,
per l’attività di progettazione finalizzata alla
realizzazione di opere pubbliche, a professionalità esterne
con conseguente aggravio di costi.
---------------
1) nessun incentivo di progettazione può essere
corrisposto per l’attività di manutenzione ordinaria svolta
dall’Ente;
2) per le attività di progettazione interna –concernenti
opere di manutenzione straordinaria di opere pubbliche,
compiute a seguito di una gara, con esclusione pertanto dei
lavori eseguiti in economia– poste in essere in data
antecedente al 19.08.2014 (data di entrata in vigore
della legge n. 114/2014, di conversione del D.L. 90/2014)
e
per le quali non è stato liquidato alcun incentivo, l’Ente
dovrà attenersi ai criteri stabiliti dal regolamento
adottato ai sensi dell’art. 93 del D.Lgs. 163/2006, in
conformità ai principi stabiliti dalla Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 24.03.2015 n. 11.
---------------
Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di
Foligno, dopo aver richiamato la disposizione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. 163/2006, sottopone
all’attenzione della Sezione alcune problematiche
applicative della normativa anzidetta, con particolare
riferimento all'esclusione delle attività manutentive dal
fondo per la progettazione e innovazione.
A tale riguardo,
viene riferito un contrasto interpretativo insorto tra
alcune Sezioni di controllo della Corte dei conti, ed in
particolare tra la Sezione regionale delle Marche, che con
il
parere 17.12.2014 n. 141 ha ritenuto che le
manutenzioni straordinarie sarebbero riconducibili (o
comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche
al compimento delle quali la norma subordina l'erogazione
dell'incentivo, e la Sezione di controllo della Toscana, che
con
parere 12.11.2014 n. 237 si è espressa nel senso
che la novella di cui al D.L. 24.06.2014, n. 90,
convertito dalla L. 11.08.2014, n. 114, preclude
espressamente, per il futuro, la riconoscibilità
dell'incentivo all'intero novero di attività qualificabili
come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a
prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività
di progettazione.
Tanto premesso, vengono proposti alla Sezione i seguenti
quesiti:
1) La inclusione od esclusione delle attività di
manutenzione straordinaria fra quelle "manutentive" escluse
dall'incentivazione del fondo ai sensi del comma 7-ter
dell'art. 93;
2) Nel secondo caso, la sussistenza di possibili criteri
univoci per identificare le attività escluse;
3) Il comportamento da adottare in merito alla liquidazione
o meno delle incentivazioni per favorì consistenti in
attività manutentive, previste ed impegnate prima della
conversione dei D.L. 90/2014, a seconda che si tratti di
attività di manutenzione ordinaria o straordinaria.
...
Con il primo quesito il Comune di Foligno chiede di conoscere se
l’attività di manutenzione straordinaria rientri o meno fra
quelle "manutentive" escluse dall'incentivazione del fondo
ai sensi del comma 7-ter dell'art. 93 del citato D.Lgs.
163/2006 (codice dei contratti pubblici).
La questione interpretativa sottesa al predetto quesito è
stata più volte oggetto di esame da parte della
giurisprudenza di questa Corte nell’esercizio della funzione
consultiva, che ha enucleato nel tempo le condizioni
necessarie per rendere applicabile l’incentivo di
progettazione anche agli interventi di manutenzione. Ciò sul
presupposto della portata eccezionale della normativa
istitutiva dell’incentivo stesso, pertanto insuscettibile di
applicazione analogica, essendosi consolidato l’orientamento
secondo cui il beneficio in parola costituisce una
fattispecie derogatoria del principio di onnicomprensività e
determinazione contrattuale della retribuzione.
Le numerose
pronunce intervenute in argomento (ex multis:
Sez. controllo Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72,
parere 28.05.2014 n. 188,
parere 01.10.2014 n. 246 e
parere 13.11.2014 n. 300;
Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24,
parere 24.10.2014 n. 60,
parere 16.12.2014 n. 73 e
parere 22.12.2014 n. 75; Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana,
parere 13.11.2012 n. 293,
parere 19.03.2013 n. 15 e
parere 12.11.2014 n. 237;
Sez. controllo Puglia,
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114; Sez.
controllo Marche,
parere 17.12.2014 n. 141)
hanno enucleato
alcuni principi largamente condivisi:
a) la possibilità di
corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori e non si estende agli appalti di servizi
manutentivi;
b) in ragione della natura eccezionale della
deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque
intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo
per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera
pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria
attività progettuale (ancorché non condizionata alla
presenza di tutte e tre le fasi della progettazione:
preliminare, definitiva ed esecutiva);
c) vanno esclusi
dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di
manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante
svolgimento di una gara (come in caso di lavori di
manutenzione eseguiti in economia).
In base ad altro diffuso orientamento, formatosi anch’esso
prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 90 del 24.06.2014 e della legge di conversione n. 114 dell’11.08.2014, è ammessa l’erogabilità
dell’incentivo nei casi di manutenzione straordinaria,
mentre per i casi di manutenzione ordinaria tale possibilità
o viene esclusa a priori
(cfr. Sez. controllo Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15;
Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24)
oppure, laddove viene ritenuta astrattamente
possibile, essa presenta margini di applicazione molto
limitati riconoscendosi all’ente un’area di valutazione
discrezionale nell’individuare la soglia minima di
complessità tecnica e progettuale che ne giustifichi la
corresponsione (v.
Sez. controllo Puglia,
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114).
La sostenibilità di siffatto orientamento deve ora essere
sottoposto a verifica alla luce dell’entrata in vigore del
citato D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla Legge 11.08.2014, n. 114, che ha comunque mantenuto ferma la
possibilità di attribuire, nell’ambito di un apposito “fondo
per la progettazione e l’innovazione”, un incentivo ai
dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi
tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed
esecuzione di un’opera pubblica.
L’art. 13-bis, introdotto
dalla legge di conversione, nell’abrogare il comma 5
dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, ha inserito, nel corpo
dell’art. 93 del citato d.lgs. n. 163/2006, quattro i commi
7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies.
Il comma 7-ter, che
qui maggiormente interessa, così recita: “L'80 per cento
delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e
l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale e adottati nel
regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono
comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i
criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto
delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso
d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo
del presente comma, non sono computati nel termine di
esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per
accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a),
b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno
al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale”.
Diverse Sezioni regionali di controllo, valorizzando il
tenore letterale della norma (la quale, come si evince dalla
formulazione della norma, espressamente prevede che i
criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che
ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le
attività manutentive”) hanno espressamente escluso la
riconoscibilità, per il futuro, dell’incentivo di
progettazione all’intero novero di attività qualificabili
come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a
prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività
di progettazione (ex multis, Sezione Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300; Sez. Toscana,
parere 12.11.2014 n. 237; Sez. Emilia-Romagna,
parere 19.09.2014 n. 183; Sez.
Liguria,
parere 24.10.2014 n. 60).
A conclusione opposta è, invece, pervenuta altra Sezione
regionale (Sez. Marche,
parere 17.12.2014 n. 141), secondo cui
non sussistono motivi per discostarsi dall’orientamento
interpretativo formatosi sulla precedente formulazione
dell’art. 92 del codice dei contratti pubblici, orientamento
che aveva escluso dalle attività remunerabili con
l’incentivo in questione gli interventi di manutenzione
ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni straordinarie
(cfr. Sezione controllo Toscana
parere 19.03.2013 n. 15),
riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione
di opere pubbliche al compimento delle quali la norma
subordina l’erogazione dell’incentivo.
A tale conclusione
detta Sezione è pervenuta ritenendo che “la modifica al
testo dell’art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non
abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi
relativi agli interventi di manutenzione straordinaria”,
precisando ulteriormente che “premesso che nel sistema
delineato dall’art. 92 cit. l’erogazione dell’incentivo è
collegato alla realizzazione di un’opera pubblica, si
evidenzia che l’art. 3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 equipara espressamente gli interventi
di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove
opere qualificandoli come spese d’investimento per le quali,
peraltro, è consentito il ricorso all’indebitamento”.
Detta ultima posizione non può essere condivisa.
Ritiene il Collegio che l’applicazione dei comuni canoni
ermeneutici sanciti nell’art. 12 delle preleggi impone
all’interprete di privilegiare, tra le possibili
interpretazioni, quella più conforme alla lettera della
norma (la quale, come già detto, esclude espressamente
dall’incentivo in argomento “le attività manutentive”).
Peraltro, depone in tal senso anche la ratio legis che
chiaramente traspare dalla richiamata novella, dovendosi
ritenere che il legislatore, nel ridisegnare presupposti e
limiti al riconoscimento dell’incentivo de quo, abbia tenuto
ben presente l’orientamento, consolidatosi in seno alla
giurisprudenza contabile come diritto vivente, favorevole
all’estensione del beneficio in parola alle (sole) attività
di manutenzione straordinaria.
Né, d’altra parte, appare
convincente la sopra richiamata tesi che ricorre alla
disciplina delle spese di investimento per trarne elementi
utili a fondare una diversa conclusione. Invero,
l’attrazione delle opere di manutenzione straordinaria
nell’alveo delle spese di investimento, operata dalla legge
350 del 2003, obbedisce ad una ratio di tutela del
patrimonio immobiliare degli enti pubblici al fine di
evitare che gli enti dilapidino il proprio patrimonio per
fronteggiare impellenti esigenze di cassa.
La normativa che disciplina l’incentivo di progettazione
tende, invece, a valorizzare al massimo le competenze e
professionalità tecniche possedute dal personale dipendente
degli enti pubblici e ad evitare nel contempo di ricorrere,
per l’attività di progettazione finalizzata alla
realizzazione di opere pubbliche, a professionalità esterne
con conseguente aggravio di costi.
II
Con il terzo quesito si chiede l’avviso di questa Sezione
sul comportamento da adottare in merito alla liquidazione o
meno delle incentivazioni per favorì consistenti in attività
manutentive, previste ed impegnate prima della conversione
dei D.L. 90/2014, a seconda che si tratti di attività di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
Il quesito pone una questione di diritto intertemporale in
merito al diritto alla liquidazione dell’incentivo di
progettazione per attività svolte dal personale interno
prima della riforma attuata con il D.L. 90/2014 e relativa
legge di conversione n. 114/2014, entrata in vigore il 19.08.2014.
Sulla questione si è già affermato l’orientamento secondo
cui la richiamata novella non costituisce interpretazione
autentica e non si applica retroattivamente. E’ apparso
evidente, infatti, che le nuove regole trovano applicazione
per i lavori e le opere avviate a partire dal 19.08.2014, mentre sono stati sollevati dubbi in ordine agli
incentivi riferiti a lavori e opere portate a compimento
prima di tale data, ma che l'amministrazione non ha ancora
provveduto a liquidare.
Di recente è intervenuta la Sezione delle Autonomie,
chiamata a risolvere la questione di massima, sollevata
dalla Sezione di controllo per la Liguria con la
deliberazione 22.12.2014 n. 75, concernente la possibilità o meno
per l’ente locale di applicare l’obbligo di non superare
l’importo del 50 per cento del trattamento economico
complessivo annuo lordo di cui al comma 7-ter dell’art. 93
del d.lgs. n. 163/2006 solo per il pagamento degli incentivi
riferiti alle attività tecnico-professionali espletate dai
dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014,
data di entrata in vigore della legge n. 114/2014, di
conversione del d.l. n. 90/2014.
La predetta questione di massima è stata originata da un
contrasto interpretativo insorto tra alcune Sezioni
regionali di controllo sulla corretta applicazione della
nuova normativa sull’incentivo in esame.
La Sezione remittente, analogamente alla Sezione Emilia
Romagna (v.
parere 19.09.2014 n. 183), richiamando e condividendo le
conclusioni cui è pervenuta la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della
Sezione delle Autonomie (che qui si intendono
richiamate) ha ritenuto che “l’obbligo di non superare
l'importo del 50 per cento del trattamento economico
complessivo annuo lordo, di cui al terzultimo capoverso del
comma 7-ter dell’articolo 93, sia applicabile solo per il
pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico
professionali espletate dai dipendenti individuati dalla
norma dopo il 19.08.2014. Di converso, sulle liquidazioni, e
conseguenti pagamenti, effettuati dopo il 19.08.2014, ma
riferiti ad attività portate a compimento dai dipendenti
prima di tale data, vale, secondo tale Sezione, il principio
della non retroattività della legge, con l’ulteriore
precisazione secondo cui “il diritto all’incentivo
costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura
retributiva (Cass. Sez. Lav. sent. n. 13384 del 19.07.2004)
che inerisce al rapporto di lavoro in corso nel cui ambito
va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere,
a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere
concreta l’erogazione del compenso”
(deliberazione
08.05.2009 n. 7/2009/QMIG
citata)”.
Una diversa interpretazione, sostiene detta
Sezione, farebbe dipendere dal mero momento materiale del
pagamento (e/o da quello prodromico della liquidazione)
l’applicazione del nuovo tetto complessivo annuo previsto
dalla legge per i c.d. “incentivi alla progettazione”.
La Sezione di controllo per la Lombardia, pronunciandosi su
identica questione (posta dal Presidente della provincia di
Mantova), con il
parere 13.11.2014 n. 300 ha invece
stabilito che il computo del limite del 50 per cento vada
applicato anche alle attività svolte in precedenza, ma non
ancora liquidate, dovendosi avere riguardo al momento della
corresponsione dell’incentivo, sostenendo al riguardo che
“la norma effettua un chiaro riferimento al momento della
corresponsione e non condiziona la possibilità di erogare
l’incentivo, ma si limita a determinare (per relationem
rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare
massimo. L’ente, rimanendo per il resto libero
nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel
periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai
presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente
disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare
complessivo delle risorse destinabili al singolo
beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con
riferimento al trattamento economico spettante al momento
dell’erogazione”.
Posizione particolare ha assunto sulla questione la Sezione
di controllo per la Basilicata (v.
parere 12.02.2015 n. 3), secondo la quale
la linea di
demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione
della materia non sarebbe da ricercarsi né nel momento in
cui l’attività incentivata viene compiuta e neppure nel
momento in cui la prestazione resa viene remunerata, bensì
nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed
inseriti nei documenti di programmazione vigenti
nell’esercizio di riferimento.
La Sezione delle Autonomie ha ritenuto che la questione di
diritto intertemporale, posta dalla Sezione Liguria,
possa
essere risolta (così come gli altri quesiti formulati dal
Comune di Genova in merito alla disciplina della fase di
passaggio fra il vecchio ed il nuovo sistema di riparto del
fondo per la progettazione e l’innovazione), “facendo
ricorso al principio di irretroattività della norma, da cui
discende, alla luce della giurisprudenza costituzionale, la
considerazione che la disposizione retroattiva, specie
quando determini effetti pregiudizievoli rispetto ai diritti
soggettivi “perfetti” che trovino la loro base in rapporti
di durata di natura contrattuale convenzionale -pubbliche o
private che siano le parti contraenti– deve, comunque,
essere assistita da una causa normativa adeguata,
intendendosi per tale una funzione della norma che renda
accettabilmente penalizzata la posizione del titolare del
diritto compromesso, attraverso contropartite intrinseche
allo stesso disegno normativo e che valgano a bilanciare le
posizioni delle parti (Corte Cost. sentenza n. 92/2013)”.
In tal modo, vengono sostanzialmente confermati i principi
interpretativi affermati dalla stessa Sezione delle
autonomie nella richiamata
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG. Viene,
infatti, precisato che “nonostante le modifiche introdotte
dal legislatore in merito alla costituzione del fondo per la
progettazione ed ai criteri per la sua ripartizione, non
appare, in concreto, mutata, la natura del diritto al
beneficio e la corrispondenza sinallagmatica fra incentivo
ed attività compensate, derivante dal riconoscimento,
sancito anche dalla Suprema Corte (cfr. Cassaz. Sez. Lav.
n. 13384 del 19.07.2004) della qualifica di vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva, che inerisce al
rapporto di lavoro, nel cui ambito va individuato l’obbligo
per l’Amministrazione di adempiere”.
Aggiunge, inoltre, la Sezione delle Autonomie, nella citata
deliberazione 24.03.2015 n. 11, che “Il riferimento, contenuto
nella disposizione in esame (art. 93, comma 7-ter, del d.lgs.
n. 163/2006, n.d.r.), al momento della corresponsione (gli
incentivi complessivamente corrisposti), che privilegia
l’aspetto prettamente contabile, potrebbe comportare, di
fatto, il rischio di disparità di trattamento”, precisando
ancora che “La soluzione che fa leva esclusivamente sul
momento della liquidazione risulta, peraltro, legata a
tempistiche che esulano, del tutto, dalla disponibilità del
beneficiario e che, specificatamente, attengono alla fase
della gestione di cassa. Fase che, alla luce delle regole di
contabilità ma, soprattutto, dell’esigenza di salvaguardia
degli equilibri di bilancio, dovrà essere stata,
presumibilmente, preceduta da una previsione autorizzatoria
e da un impegno regolarmente assunto dall’ente per vincolare
la spesa alla soddisfazione della corrispondente
obbligazione”.
A coronamento delle suesposte considerazioni, la Sezione
delle Autonomie ha enunciato il seguente principio di
diritto, al quale sono tenuti a conformarsi tutte le Sezioni
regionali di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
d.l. n. 174/2012: “l’obbligo di non superare nella
corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso
dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo, è applicabile al
pagamento degli incentivi dovuti per attività
tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati
dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di
conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90”.
Il Collegio non ha motivo di discostarsi dalle conclusioni
cui è pervenuta la Sezione delle Autonomie con la richiamata
deliberazione 24.03.2015 n. 11.
Pertanto, alla stregua del sopra riportato principio di
diritto, la Sezione afferma che:
1) nessun incentivo di progettazione potrà essere
corrisposto per l’attività di manutenzione ordinaria svolta
dall’Ente;
2) per le attività di progettazione interna –concernenti
opere di manutenzione straordinaria di opere pubbliche,
compiute a seguito di una gara, con esclusione pertanto dei
lavori eseguiti in economia– poste in essere in data
antecedente al 19.08.2014 (data di entrata in vigore
della legge n. 114/2014, di conversione del D.L. 90/2014)
e
per le quali non è stato liquidato alcun incentivo, l’Ente
dovrà attenersi ai criteri stabiliti dal regolamento
adottato ai sensi dell’art. 93 del D.Lgs. 163/2006, in
conformità ai principi stabiliti dalla Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 24.03.2015 n. 11 (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 14.05.2015 n. 71). |
APPALTI:
Debiti fuori bilancio Serve la copertura.
Non sono riconosciuti con il piano di riequilibrio.
I debiti fuori bilancio non sono riconosciuti con il piano
di riequilibrio finanziario.
Questo è il principio affermato
dalla sezione di controllo della Corte dei Conti per la
Regione siciliana che, con il
parere 13.05.2015 n. 177,
ha esaustivamente chiarito la rilevanza del piano di
riequilibrio finanziario pluriennale ex art. 243-bis del Tuel in merito alla ricognizione dei debiti fuori bilancio
anche in considerazione delle linee guida dettate dalla
deliberazione 16/Sezaut/2012/Inpr.
Come richiamato dalla deliberazione, l'approvazione o la
rimodulazione del piano di riequilibrio al consiglio
comunale non equivale al riconoscimento ex art. 194 del Tuel
con il quale l'approvazione consiliare autorizza il
pagamento dei debiti fuori bilancio, ancorché contenuti nel
piano stesso. Ove occorra, è lo stesso comma 7 dell'art. 243
del Tuel che distingue chiaramente tra la ricognizione dei
debiti, contenuta nel piano di riequilibrio, e l'effettivo
riconoscimento al quale se ne dà rinvio anche temporale. La
ricognizione non comporta di per sé la copertura della spesa
connessa al debito fuori bilancio.
Per quanto riguarda la
necessità di tale copertura, il Collegio deliberante ha
condiviso le argomentazioni del
parere 23.05.2013 n. 213 della sezione regionale di controllo per la
Campania, che ha affermato che: «In base a quanto esposto
non è possibile aderire all'interpretazione proposta
dall'ente ammettendo un riconoscimento solo formale del
debito da parte del consiglio con rinvio del pagamento dello
stesso a successiva approvazione del bilancio e ciò al solo
fine di impedire il maturare di interessi, rivalutazione
monetaria e ulteriori spese legali.
È indubbio che la
delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio deve
necessariamente provvedere a indicare i mezzi finanziari
destinati alla loro copertura, completandosi in questo modo
il procedimento che ha per fine quello di far rientrare
nella corretta gestione di bilancio quelle spese che ne
erano del tutto fuori. Tra l'altro è consentito farvi fronte
con ogni mezzo finanziario a disposizione dell'ente, secondo
quanto espressamente indicato dall'art. 193, comma 3, del Tuel».
Si rammenta che «la mancata adozione, da parte dell'ente,
dei provvedimenti di riequilibrio previsti dal presente
articolo è equiparata a ogni effetto alla mancata
approvazione del bilancio di previsione. Da quanto esposto
consegue che il riconoscimento di un debito fuori bilancio
derivante da sentenza esecutiva necessita di regolare
copertura finanziaria negli stanziamenti di bilancio,
presupposto ineliminabile dell'attivazione del procedimento
di spesa nel sistema di bilancio».
Pertanto, conclude il collegio deliberante, in assenza di
riconoscimento ai sensi del Tuel, non si è autorizzati al
pagamento dei debiti fuori bilancio solo perché l'ente ha
approvato il piano di riequilibrio finanziario
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015). |
APPALTI: In
materia di debiti fuori bilancio:
1) non è corretto sotto il profilo contabile il pagamento
del debito nascente da sentenza esecutiva prima del suo
riconoscimento come debito fuori bilancio da parte del
Consiglio Comunale;
2) in
assenza di deliberazione di riconoscimento ex art. 194 TUEL,
gli uffici non sono autorizzati al pagamento dei debiti
fuori bilancio sol perché l'ente ha approvato e rimodulato
il piano di riequilibrio finanziario nell'anno 2014;
3) durante l'esercizio provvisorio di un ente, che ha
dichiarato e approvato di ricorrere allo strumento del Piano
di riequilibrio pluriennale finanziario, non si possono
riconoscere debiti fuori bilancio.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di
Modica, premesso che l’ente ha deliberato il ricorso al
piano di riequilibrio (tuttora all’esame della Commissione
ministeriale), chiede:
1)- se sia corretto sotto il profilo contabile il
pagamento del debito nascente da sentenza divenuta esecutiva
prima che il Consiglio comunale ne deliberi il
riconoscimento come debito fuori bilancio;
2)- se gli uffici possano ritenersi autorizzati al
pagamento dei debiti fuori bilancio, visto che l'ente ha
approvato e rimodulato il piano di riequilibrio finanziario
nell'anno 2014; ciò, infatti, presuppone che il consiglio
comunale abbia avuto conoscenza dei debiti fuori bilancio;
3)- se si possano riconoscere debiti fuori bilancio
durante l'esercizio provvisorio da parte di un ente che ha
deliberato di ricorrere allo strumento del Piano di
riequilibrio pluriennale finanziario, considerando che
comunque il Consiglio comunale, adottando lo schema del
piano, ha già avuto contezza della situazione debitoria
dell'ente.
...
1)- Con il primo quesito viene chiesto se sia
corretto sotto il profilo contabile il pagamento del debito
nascente da sentenza esecutiva prima che il Consiglio
comunale ne deliberi il riconoscimento come debito fuori
bilancio.
In via preliminare, il Collegio osserva che i debiti fuori
bilancio costituiscono posizioni debitorie maturate al di
fuori del sistema del bilancio, poiché si riferiscono ad
uscite per le quali manca un’originaria previsione di spesa
ovvero a spese effettuate in violazione delle procedure
stabilite dalle norme di contabilità.
La corretta
programmazione e gestione finanziaria dell’Ente locale, per
contro, impone che tutte le spese siano anticipatamente
previste nel documento di bilancio approvato dal Consiglio
comunale e che le decisioni di spesa siano assunte nel
rispetto delle norme giuscontabili che ne disciplinano la
procedura (artt. 151 e 191 TUEL).
Tutto ciò costituisce la
diretta conseguenza della funzione autorizzatoria a cui
assolve il bilancio di previsione degli Enti Locali che
possono effettuare le sole spese autorizzate dal Consiglio
comunale che, attraverso l’approvazione del bilancio annuale
e pluriennale, esercita le sue prerogative di organo di
indirizzo dell’attività politico-amministrativa dell’Ente.
Per effetto della deliberazione consiliare il debito fuori
bilancio viene ricondotto all’interno del sistema del
bilancio dell’Ente e, conseguentemente, si rende possibile
provvedere al relativo pagamento.
L’art. 194 del TUEL contiene l’elencazione delle fattispecie
debitorie che possono essere riconosciute. Ai sensi della
citata disposizione sono riconoscibili i debiti relativi a:
sentenze esecutive (lettera a); copertura di disavanzi di
consorzi, aziende speciali ed istituzioni (lettera b);
ricapitalizzazione di società di capitali (lettera c);
procedure espropriative o di occupazione di urgenza per
opere di pubblica utilità (lettera d); acquisizione di beni
e servizi in violazione degli obblighi dei primi tre commi
dell’art. 191 del TUEL, nei limiti dell’utilità e
dell’arricchimento dell’Ente (lettera e).
La giurisprudenza della Corte dei conti ha già messo in
risalto la sostanziale diversità tra la fattispecie
concernente le sentenze esecutive e le altre ipotesi
previste dall’art. 194 TUEL (SSRR n. 12/2007/QM).
Infatti,
mentre nel caso di sentenza di condanna il Consiglio
comunale non ha alcun margine di discrezionalità per
valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del
pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal
provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi
descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un
ampio apprezzamento discrezionale che, ad esempio, riguardo
alla lett. e), concerne l’accertamento dell’utilità e
dell’arricchimento derivanti dalla fornitura effettuata in
violazione delle procedure di spesa.
In mancanza di una
disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa
per le “sentenze esecutive”, tuttavia, non è consentito
discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 194 TUEL
ai sensi del quale il “riconoscimento” del debito avviene,
prima del pagamento, con atto del Consiglio comunale.
Bisogna infatti constatare che in tutte le ipotesi previste
dall’art. 194 TUEL la delibera del Consiglio serve per
riportare all’interno del sistema del bilancio un fenomeno
di rilevanza finanziaria che è maturato al di fuori delle
normali procedure di programmazione e di gestione delle
spese.
E’ vero che il mancato tempestivo pagamento espone
l’ente locale al rischio di azioni esecutive; nondimeno, i
120 giorni di tempo dalla notifica del titolo esecutivo
previsti dall’art. 14, del Decreto Legge 31.12.1996,
n. 669 (convertito in legge 28.02.1997, n. 30 come
modificato dall’art. 147 della Legge 23.12.2000, n.
288) -ai fini dell’avvio di procedure esecutive nei
confronti della P.A.- costituiscono un periodo
sufficientemente ampio per provvedere agli adempimenti di
cui all’art. 194 TUEL.
La competenza esclusiva del Consiglio comunale nel
riconoscimento del debito fuori bilancio è stata ribadita
dalla deliberazione di questa Sezione n. 55/2014/PAR, ove si
è chiarito che: “Superando il precedente orientamento
(Sezioni Riunite per la Regione siciliana in sede
consultiva, delibera n. 2/2005), la più recente
giurisprudenza (da ultimo, cfr. delibera n. 21/2013/VSGF, n.
74/2013/PRSP, n. 270/2011/GEST) formatasi in materia ha
posto particolare attenzione sull’imprescindibile attività
valutativa da parte dell’organo consiliare, ascrivibile alla
funzione di indirizzo e controllo politico amministrativo,
che non ammette alcuna possibilità di interposizione, sia
pur in via d’urgenza, da parte di altri organi. Nel quadro
appena delineato, i responsabili dei servizi hanno l’obbligo
di effettuare periodiche ricognizioni (art. 193 del TUEL) ai
fini di un controllo concomitante e costante della
situazione gestionale, teso alla tempestiva segnalazione
delle passività all’organo consiliare”.
Nello stesso senso la Sezione si è espressa con
deliberazione n. 80/2015/PAR, ove si è sostenuto che: “Il
preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo
consiliare risulta dunque necessario anche nell’ipotesi di
debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura
caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del
provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto
di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al
sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria
maturato all’esterno di esso (pr. cont. 2.101).
Anche in
questi casi, infatti, l’avvio del procedimento di spesa ex
art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano
logico, una positiva valutazione dell’Organo consiliare
sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle
cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle
misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle
anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
Le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del
Consiglio comunale o provinciale non sono infatti
circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si
estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di
natura vincolante ed obbligatoria, atti che, come noto,
transitano necessariamente anch’essi attraverso l’atto
programmatorio generale e di natura autorizzatoria, che è
appunto il bilancio di previsione.
Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa,
l’attività gestionale, affidata dalla legge ai dirigenti,
rappresenta espressione di un momento necessariamente
successivo e, quindi, inevitabilmente conseguenziale
rispetto alla decisione dell’Organo cui è intestata la
responsabilità politica dell’azione amministrativa.
La fase gestionale, di natura prevalentemente esecutiva, non
potrebbe dunque validamente allocarsi in un segmento
temporale anteriore rispetto all’attività decisionale del
Consiglio, senza che ne risulti sovvertita la fondamentale
distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività
gestionale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico
stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant’altro
non elimina perciò la necessità che il Consiglio deliberi
anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al
di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105; Sezione
controllo per la Basilicata, delibera n. 6/2007/PAR)”.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che, allo stato, non
sussistano motivi per discostarsi dall’orientamento
maggioritario sopra illustrato, che viene integralmente
condiviso.
Di conseguenza, al primo quesito può rispondersi nel
senso che non è corretto sotto il profilo
contabile il pagamento del debito nascente da sentenza
esecutiva prima del suo riconoscimento come debito fuori
bilancio da parte del Consiglio Comunale.
2)- Con il secondo quesito viene chiesto se gli
uffici comunali possano ritenersi autorizzati al pagamento
dei debiti fuori bilancio, poiché l'ente ha approvato e
rimodulato il piano di riequilibrio finanziario nell'anno
2014; quest’ultima circostanza, infatti, presuppone che il
consiglio comunale abbia avuto comunque conoscenza dei
debiti fuori bilancio.
La giurisprudenza non si è ancora espressa in merito alla
specifica questione, anche se è palese il nesso tra debiti
fuori bilancio e piani di riequilibrio, come emerge da
alcune considerazioni presenti nella deliberazione
114/2014/PAR della Sezione regionale di controllo per la
Basilicata: “La delibera di riconoscimento del debito
costituisce il presupposto giuridico per l’individuazione
delle misure volte alla sua copertura finanziaria, e ciò in
conformità alle misure individuate dal combinato disposto
degli artt. 193 e 194 Tuel. La copertura finanziaria di tale
tipologia di debiti è, infatti, funzionale a salvaguardare
ovvero a ripristinare gli equilibri di bilancio incisi
dall’emersione di tali posizioni debitorie (cfr. art. 193
Tuel, comma 2).
Qualora tali strumenti non fossero
sufficienti allo scopo, l’Ente corre il rischio di versare,
di fatto, in uno stato di dissesto ai sensi dell’art. 244 Tuel.
Al fine di ovviare a tale situazione, l'Ente può
ricorrere, sussistendone i relativi presupposti, alla
procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista
dall'art. 243-bis del Tuel. Ai sensi del comma 7 di tale
articolato normativo “(..) per il finanziamento dei debiti
fuori bilancio l'ente può provvedere anche mediante un piano
di rateizzazione, della durata massima pari agli anni del
piano di riequilibrio, compreso quello in corso, convenuto
con i creditori”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 43 del Dl
133/2014, convertito nella legge 164/2014 «Gli enti locali
che hanno deliberato il ricorso alla procedura di
riequilibrio finanziario pluriennale, ai sensi dell'articolo
243-bis del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
possono prevedere, tra le misure di cui alla lettera c) del
comma 6 del medesimo articolo 243-bis necessarie per il
ripiano del disavanzo di amministrazione accertato e per il
finanziamento dei debiti fuori bilancio, l'utilizzo delle
risorse agli stessi enti attribuibili a valere sul "Fondo di
rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti
locali” di cui all'articolo 243-ter del decreto legislativo
n. 267 del 2000».
Sul punto si è peraltro di recente
espressa la Sezione Autonomie di questa Corte, nell’ambito
dell’audizione sul “DDL- Disposizioni urgenti in materia di
finanza locale, nonché misure volte a garantire la
funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni
scolastiche. A.C 2162” del 21.03.2014, confermando che “La chiara individuazione e la conseguente correzione dei
fattori di squilibrio strutturale, da un lato, e
l’alleggerimento delle gestioni dal peso dei debiti fuori
bilancio, dall’altro, possono contribuire, attraverso il
piano di rientro decennale, ad un effettivo risanamento dei
bilanci”.
A tale scopo, però, è necessario che l’Ente
effettui in via preliminare una “(…) ricognizione di tutti i
debiti fuori bilancio riconoscibili ai sensi dell'articolo
194” (cfr. comma 7, art. 243-bis Tuel), e ciò al fine di
consentire l’emersione della complessiva situazione
debitoria dell’Ente, funzionale all’adozione di un piano di
risanamento del bilancio dell’Ente, effettivo ed efficace.
In caso contrario, oltre a violare lo specifico disposto di
cui all’art. 243-bis Tuel, si altererebbe l’attendibilità
complessiva del piano, con tutte le conseguenze a questo
connesse anche in termini di sussistenza dei presupposti per
la sua approvazione da parte degli organi competenti”.
In merito alla tematica in esame, va sottolineato che l’art.
243-bis TUEL attribuisce notevole rilievo proprio alla
ricognizione dei debiti fuori bilancio, su cui peraltro la
Sezione delle Autonomie si è soffermata nelle Linee guida
contenute nella deliberazione 16/SEZAUT/2012/INPR.
Nello
schema allegato, in particolare, sono indicate alcune
valutazioni necessarie che la Corte deve compiere
relativamente ai debiti fuori bilancio nel piano di
riequilibrio: “9.4 Verificare se l’Ente abbia acquisito, da
tutti i responsabili dei servizi, ciascuno per le spese di
sua competenza, un’attestazione sull’esistenza o meno di
debiti fuori bilancio non riconosciuti, per i quali devono
essere ancora assunti provvedimenti di riconoscimento
sussistendone i presupposti di legge.
9.4.a Laddove venga attestata l’esistenza di debiti fuori
bilancio non riconosciuti è necessario che l’Ente indichi:
motivazioni per le quali il debito è sorto, con la
specificazione del capitolo di spesa di competenza al quale
si riferisce; l’utilità e l’arricchimento per l’Ente; se
sono stati individuati i mezzi di finanziamento precisando
quali; la sussistenza di tutti i requisiti per il
riconoscimento ai sensi di legge.
9.5 Verificare se nel corso di eventuali verifiche a
campione, fino alla data della delibera per l’accesso alla
procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, sia stata
riscontrata la presenza di spese che, pur avendo la natura
di debiti fuori bilancio, sono state imputate agli
stanziamenti correnti senza aver operato il riconoscimento,
da parte del Consiglio, previsto dall’art. 194 del TUEL.
9.6 Passività potenziali - Indicare se siano state
identificate e valutate eventuali sopravvenienze o
insussistenze passive probabili, specificandone la natura,
l’entità e la provenienza”.
Ciò premesso, occorre osservare che la deliberazione del
piano di riequilibrio non equivale al riconoscimento dei
debiti fuori bilancio ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 194 TUEL; a tal proposito, va rimarcato che il
comma 7 dell’art. 243-bis TUEL distingue chiaramente tra la
ricognizione dei debiti, contenuta nel piano di
riequilibrio, e l’effettivo riconoscimento ai sensi
dell’art. 194 TUEL; il citato comma 7 dell’art. 243-bis TUEL,
infatti, prevede che: “Ai fini della predisposizione del
piano, l'ente è tenuto ad effettuare una ricognizione di
tutti i debiti fuori bilancio riconoscibili ai sensi
dell'articolo 194. Per il finanziamento dei debiti fuori
bilancio l'ente può provvedere anche mediante un piano di
rateizzazione, della durata massima pari agli anni del piano
di riequilibrio, compreso quello in corso, convenuto con i
creditori”.
La formulazione letterale implica che la ricognizione, per
quanto indispensabile ai fini del piano di riequilibrio, non
equivale alla deliberazione ex art. 194 TUEL, tant’è che il
testo normativo si riferisce a “debiti riconoscibili”,
lasciando intendere che il riconoscimento è atto successivo
alla ricognizione. Se il legislatore avesse inteso
equiparare ricognizione ex art. 243-bis TUEL e
riconoscimento ex art. 194 TUEL, la disposizione avrebbe
avuto un tenore letterale diverso.
Va poi aggiunto che la ricognizione non comporta di per sé
la copertura finanziaria della spesa connessa al debito
fuori bilancio da riconoscere ex art. 194 TUEL. Per quanto
riguarda la necessità di tale copertura, si condividono le
argomentazioni della deliberazione n. 213/2013/PAR della
Sezione regionale di controllo per la Campania, che ha
affermato che: “In base a quanto esposto non è possibile
aderire all’interpretazione proposta dall’ente interpellante
ammettendo un riconoscimento solo “formale” del debito da
parte del Consiglio comunale con rinvio del pagamento dello
stesso a successiva approvazione del bilancio e ciò al solo
fine di impedire il maturare di interessi, rivalutazione
monetaria e ulteriori spese legali. In base a quanto esposto
è indubbio, in quanto connaturata alla sua funzione, che la
delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio deve
necessariamente provvedere ad indicare i mezzi finanziari
destinati alla loro copertura, completandosi in questo modo
il procedimento che ha per fine quello di far rientrare
nella corretta gestione di bilancio quelle spese che ne
erano del tutto fuori.
Tra l’altro è consentito farvi fronte
con ogni mezzo finanziario a disposizione dell'ente, secondo
quanto espressamente indicato dall’art. 193, comma 3, del Tuel, richiamato dall’art. 194 citato: ... Si rammenta
altresì che “la mancata adozione, da parte dell'ente, dei
provvedimenti di riequilibrio previsti dal presente articolo
è equiparata ad ogni effetto alla mancata approvazione del
bilancio di previsione di cui all'articolo 141, con
applicazione della procedura prevista dal comma 2 del
medesimo articolo ad eccezione delle entrate provenienti
dall'assunzione di prestiti e di quelle aventi specifica
destinazione per legge, nonché con i proventi derivanti da
alienazione di beni patrimoniali disponibili”.
Da quanto
esposto consegue che il riconoscimento di un debito fuori
bilancio derivante da sentenza esecutiva necessita di
regolare copertura finanziaria negli stanziamenti di
bilancio, presupposto ineliminabile dell’attivazione del
procedimento di spesa nel sistema di bilancio (cfr.
Principio contabile n. 2 per gli enti locali- Gestione nel
sistema del bilancio, n. 65-73)”.
Sulla stessa linea si pone pure la deliberazione n.
78/2014/PAR di questa Sezione: “La deliberazione consiliare
non ha solo la funzione di riconoscere la legittimità di
un’obbligazione e, nei casi di cui alla lett. e) dell’art.
194 del TUEL, di valutare l’utilità e l’arricchimento
dell’ente, ma anche una funzione giuscontabilistica e una
garantista; la prima consiste nella salvaguardia degli
equilibri di bilancio e si esplica attraverso il reperimento
delle risorse necessarie a finanziare il debito, la seconda
si sostanzia nell’individuazione del responsabile… La
deliberazione consiliare, proprio perché finalizzata a
preservare l’equilibrio economico–finanziario dell’ente,
deve individuare una “regolare copertura finanziaria negli
stanziamenti di bilancio, presupposto ineliminabile
dell’attivazione del procedimento di spesa nel sistema”.
Da quanto sopra illustrato si evince che la deliberazione ex
art. 194 TUEL deve avere specifici contenuti, che non
possono rinvenirsi nella ricognizione effettuata con il
piano di riequilibrio.
In definitiva, il tenore letterale dell’art. 243-bis, comma
7, TUEL e la ratio sopra esposta della deliberazione ex art.
194 TUEL inducono ad esprimersi in maniera negativa rispetto
all’opzione interpretativa prospettata dal Comune.
Al secondo quesito può quindi rispondersi nel senso
che, in assenza di deliberazione di
riconoscimento ex art. 194 TUEL, gli uffici non sono
autorizzati al pagamento dei debiti fuori bilancio sol
perché l'ente ha approvato e rimodulato il piano di
riequilibrio finanziario nell'anno 2014.
3)- Con il terzo quesito viene chiesto se si possano
riconoscere debiti fuori bilancio durante l'esercizio
provvisorio da parte di un ente che ha dichiarato e
approvato di ricorrere allo strumento del Piano di
riequilibrio pluriennale finanziario.
La domanda viene
formulata sul presupposto che il Consiglio comunale,
approvando lo schema del piano, in cui i due pilastri sono
il ripianamento di disavanzo e il pagamento debiti fuori
bilancio, avrebbe già avuto contezza della situazione
debitoria dell'ente.
Per quanto attiene alla disciplina dell’esercizio
provvisorio nell’anno 2015, la Sezione si è già espressa con
la deliberazione 167/2015/PAR, ove si è rilevato che l’art.
163 del TUEL, concernente l’esercizio provvisorio, è stato
novellato dall’art. 74, comma 1, n. 12), del D.Lgs. 23.06.2011, n. 118 , aggiunto –a sua volta- dall’art. 1,
comma 1, lett. aa), D.Lgs. 10.08.2014, n. 126 , entrato
in vigore il 12.09.2014.
L’art. 74 sopra citato è inserito nel titolo IV “Adeguamento
delle disposizioni riguardanti la finanza regionale e
locale” del d.lgs. n. 118 del 2011. Tale dato sulla
collocazione della disposizione è rilevante alla luce
dell’art. 80, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 118 del 2011,
che prevede che: “1. Le disposizioni del Titolo I, III, IV e
V si applicano, ove non diversamente previsto nel presente
decreto, a decorrere dall'esercizio finanziario 2015, con la
predisposizione dei bilanci relativi all'esercizio 2015 e
successivi, e le disposizioni del Titolo II si applicano a
decorrere dall'anno successivo a quello di entrata in vigore
del presente decreto legislativo”.
Ciò premesso, si
evidenzia che l’art. 74 del d.lgs. n. 118 del 2011, essendo
collocato nel titolo IV del d.lgs. n. 118 del 2011, si
applica a partire dall’esercizio 2015 con la predisposizione
dei bilanci per tale anno.
Pertanto, l’esercizio provvisorio del 2015, in quanto
precede il bilancio del 2015, resta soggetto alla previgente
disciplina dell’art. 163 del TUEL (cioè a quella antecedente
alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 126 del 2014). Non
vi sono poi indici testuali nel medesimo decreto, che
portino a una soluzione interpretativa diversa; e infatti,
trattandosi di deroga, sarebbe necessaria una disposizione
espressa, che, per il profilo analizzato, riguarda solo gli
enti sperimentatori.
In breve, durante l’esercizio provvisorio dell’anno 2015 non
va applicata la nuova disciplina sostanziale dell’art. 163
TUEL, come modificato dall’art. 74, comma 1, n. 12), del
D.Lgs. 23.06.2011, n. 118, aggiunto dall’art. 1, comma
1, lett. aa), del D.Lgs. 10.08.2014, n. 126. Tutto ciò
implica che esulano dal presente parere le questioni
derivanti dall’interpretazione della nuova formulazione
dell’art. 163 TUEL e dei principi contabili contenuti nel
d.lgs. n. 118 del 2011.
Ciò premesso, in relazione ai rapporti tra l’art. 163 TUEL,
che deve quindi applicarsi nel testo previgente, e l’art.
194 TUEL, concernente i debiti fuori bilancio, la Sezione si
è pronunciata in senso contrario al riconoscimento dei
debiti durante l’esercizio provvisorio. Con la deliberazione
n. 78/2014/PAR, infatti, è stato rilevato che: “Non è
possibile procedere al riconoscimento dei debiti fuori
bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio, per un
duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la delibera di riconoscimento può essere
adottata solo in occasione di precise scansioni temporali,
in particolare in sede di approvazione del bilancio di
previsione, ovvero in occasione della delibera di
salvaguardia degli equilibri di bilancio ex art. 193, comma
2, del TUEL, ferma restando la possibilità di disporre a
livello regolamentare che si possa provvedere in ogni fase
dell'esercizio, secondo il dettato del comma 1° dell’art.
194 del TUEL. Si tratta, non a caso, dei momenti in cui gli
equilibri di bilancio vengono valutati in maniera
approfondita e complessiva. In quest’ottica, ipotizzare che
si possa provvedere proprio durante la “vacanza” del
bilancio, costituirebbe un’inammissibile aporia logica.
In secondo luogo, il principio di tipicità e tassatività
delle spese consentite nel corso dell’esercizio provvisorio
esclude che si possa procedere all’adempimento di
obbligazioni che non rientrano nei casi contemplati e, ancor
più, di quelli di carattere eccezionale come i debiti fuori
bilancio; a fortiori, non è ammissibile che si possano
prendere in considerazione spese di ammontare superiore ai
dodicesimi a disposizione, calcolati sullo stanziamento
dell’ultimo bilancio approvato”.
Si può anche rammentare la deliberazione n. 55/2014/PAR di
questa Sezione: “Condivisibili, a riguardo, appaiono le
conclusioni ermeneutiche cui approda la Sezione regionale di
controllo per la Campania (cfr.
parere 23.05.2013 n. 213),
circa l’impossibilità, durante il periodo di esercizio
provvisorio, di provvedere al riconoscimento dei debiti
fuori bilancio per via dell’eccezionalità della fattispecie
di cui all’art. 194 del Tuel rispetto alle ipotesi previste
dall’art. 163, comma 3, del Tuel, ma soprattutto per la
mancanza del bilancio d’esercizio, cui ricondurre le
passività emerse. L’esigenza di urgente ripristino degli
equilibri di bilancio -recentemente assurti a rango
costituzionale– impone la necessità di abbreviare al
massimo, nella fattispecie, la durata dell’esercizio
provvisorio, che di per sé costituisce una fase eccezionale
e transitoria (cfr., sul punto, Sezione delle Autonomie,
delibera n. 23/SEZAUT/2013/INPR).
Giova ricordare, peraltro, che l’art. 191, comma 5, del Tuel
introduce forti limitazioni per gli enti locali che
presentino, nell’ultimo rendiconto deliberato, disavanzo di
amministrazione o che indichino debiti fuori bilancio per i
quali non sono stati validamente adottati i provvedimenti di
cui all’art. 193 del Tuel, vietando agli stessi di assumere
impegni e pagare spese per servizi non espressamente
previsti per legge, salve le spese da sostenere a fronte di
impegni già assunti in esercizi precedenti”.
In sintesi, tenuto conto della risposta già fornita al
quesito n. 2, va ribadito che la ricognizione dei debiti
fuori bilancio presente nel piano di riequilibrio non
equivale al riconoscimento ex art. 194 TUEL, che, quindi,
resta soggetto alla disciplina desumibile dalle norme citate
(artt. 163 e 194 TUEL) come interpretate dalla richiamata
giurisprudenza, che –con orientamento unanime- ha comunque
escluso il riconoscimento dei debiti fuori bilancio durante
l’esercizio provvisorio.
Inoltre, le motivazioni di natura
sistematica poste a fondamento dell’orientamento qui
condiviso tanto più devono sostenersi per gli enti che si
avvalgono del piano di riequilibrio, poiché quest’ultimo è
sottoposto a una rigorosa scansione temporale e procedurale.
Al terzo quesito può quindi rispondersi nel senso che
durante l'esercizio provvisorio di un ente, che ha
dichiarato e approvato di ricorrere allo strumento del Piano
di riequilibrio pluriennale finanziario, non si possono
riconoscere debiti fuori bilancio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 13.05.2015 n. 177). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’art.
13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con
modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, nel confermare
la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello
svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in
un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti,
la portata applicativa della disciplina precedente.
Si registra in particolare, per quanto di specifico
interesse ai fini del presente parere, l’esclusione del
personale con qualifica dirigenziale dal novero dei
potenziali beneficiari degli incentivi che rimangono ad
appannaggio dei dipendenti privi di tale qualifica che
svolgano la funzione di responsabile del procedimento o
siano direttamente incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché dei loro collaboratori.
Non è ammessa la remunerazione per attività manutentive e
sono soppressi gli incentivi per gli atti di pianificazione.
Risultano inoltre ridotte le risorse dirette a remunerare le
attività svolte, posto che la somma non superiore al 2 per
cento degli importi posti a base di gara da far confluire
nel fondo per l’incentivazione è ripartita tra i dipendenti
non più per l’intero, ma nella misura dell’80 per cento, con
il rimanente 20 per cento destinato all’acquisto di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione.
La riforma prevede infine che gli incentivi complessivamente
corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche
da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo
del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo
lordo.
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In mancanza di un’espressa disposizione transitoria, la
questione non può che essere
risolta in via interpretativa.
Questa Sezione ritiene di dover ribadire, al riguardo,
l’orientamento già espresso in materia
secondo il quale
il
diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base
della normativa vigente al momento in cui questo è sorto,
ossia al compimento delle attività incentivate senza che
possa essere modificato da disposizioni di legge successive
che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità.
Ne viene pertanto che i compensi erogati dopo l’entrata in
vigore della riforma, ma concernenti attività realizzate in
precedenza, rimangono assoggettati alla previgente
disciplina normativa.
Si ritiene, in accordo con l’indirizzo espresso dalla Corte
di Cassazione (Cass., Sez. Lav., sent. n. 13384 del
19.07.2004), che
il diritto all’incentivo costituisca “un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che
inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va
individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a
prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere
concreta l’erogazione del compenso”.
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al
compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive che non
hanno alcuna efficacia retroattiva.
Si precisa inoltre che “ai fini della nascita del diritto
quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività;
dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto,
che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si
esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo
un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione
temporale di attività compiuta”.
La Sezione delle Autonomie, nella deliberazione citata,
conclude stabilendo che
la stazione appaltante, per i
compensi da pagare dalla data di entrata in vigore della
riforma, per la parte residua dello stanziamento
utilizzabile (ossia quello al netto delle somme pagate per
le attività compiute prima di tale data) dovrà rimodulare la
somma da ripartire e la conseguente misura del beneficio,
secondo le nuove disposizioni.
---------------
La natura retributiva del diritto all’incentivo in parola,
che matura con il compimento dell’attività richiesta senza
poter subire modifiche in conseguenza di leggi sopravvenute
prive di efficacia retroattiva, porta a ritenere che le
attività compiute prima dell’entrata in vigore della riforma
possano essere remunerate con gli incentivi fissati secondo
le modalità e i criteri definiti nell’ambito del previgente
quadro normativo anche se la liquidazione avvenga in data
successiva.
Si deve tuttavia precisare che il riconoscimento del diritto
e quindi l’effettiva erogazione dei compensi rimangono
subordinati, come riconosciuto dallo stesso comune
richiedente, all’avvio della gara pubblica, quantunque
successivo alla data di entrata in vigore della riforma.
Si richiama sul punto l’orientamento più volte espresso
dalla giurisprudenza contabile secondo il quale
l’ancoramento del fondo incentivante alla base di
gara (e non all’importo oggetto del contratto, né a quello
risultante dallo stato finale dei lavori) esclude la
previsione e l’erogazione del compenso nel caso in cui
l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno,
alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione
delle lettere d’invito.
---------------
Quesito lettera A, punto 1.
L’attività relativa a lavori di manutenzione svolta prima
della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
Si deve ritenere che l’incentivo in parola spetti anche per
i lavori di manutenzione a condizione che le relative
attività siano state realizzate prima dell’entrata in vigore
della riforma che ne ha espressamente escluso la
remunerazione e sempre che si tratti di attività che abbiano
richiesto la progettazione di un’opera e non la mera
manutenzione della stessa.
Come più volte affermato nei pareri resi in materia dalle
Sezioni regionali di controllo di questa Corte “l’incentivo
alla progettazione non può essere riconosciuto per qualunque
lavoro di manutenzione ordinaria su beni dell’ente locale,
ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica
alla cui base vi sia una necessaria un’attività progettuale”.
---------------
Quesito lettera A, punto 2.
L’attività svolta dal personale dirigente prima della
riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
Si deve ritenere che l’incentivo spetti
anche al personale con qualifica dirigenziale per le
attività realizzate prima che la riforma li escludesse dal
novero dei beneficiari, ripristinando nei confronti degli
stessi il principio dell’onnicomprensività della
retribuzione.
Si condividono sul punto le conclusioni cui è pervenuta la
Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna ove si
afferma che “fino all’entrata in vigore della legge di
conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un
ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli
incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di
lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al
principio dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi
per la progettazione”.
---------------
Quesito lettera A, punto 3.
Quando devono ritenersi compiute le diverse attività
relative al processo di
progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori
pubblici tenuto conto del fatto che alcune potrebbero avere
avuto un'elaborazione anteriormente al 19/08/2014 ma
confluire in un atto approvato successivamente a tale data?
I soggetti incaricati della
redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire
l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al
momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si
esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi
positivamente i successivi controlli che ne attestino la
regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che,
rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa
del dipendente, potranno pertanto intervenire anche
successivamente alla data di entrata in vigore della
riforma.
Si richiama al riguardo il
parere 16.01.2014 n. 8 della
Sezione regionale di controllo per il Piemonte ove si
afferma che “la circostanza che l’Amministrazione non
proceda nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti
redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino
caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui
agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché
alle norme di legge vigenti, non fa venir meno la diretta
corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed
attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente
condizionata quantomeno all’approvazione da parte
dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere
necessariamente finanziato”.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa,
maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella
citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con
riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata
la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei
giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà
essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo
l’entrata in vigore della riforma.
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Quesito lettera A, punto 4.
Nell'ambito delle attività dei "collaboratori" possono
essere previste tutte le attività di supporto ai compiti
delle figure professionali tecniche espressamente previste
dal decreto legislativo 163/2006 e dal Regolamento di
attuazione approvato con D.P.R. n. 207/2010?
I destinatari dei predetti incentivi
possano essere solo i dipendenti che, in ragione della
specifica professionalità, siano stati chiamati a svolgere
determinate attività altrimenti non rientranti nei doveri
d’ufficio.
Questi sono espressamente indicati dalla legge, oltre che
nelle figure del responsabile del procedimento, e degli
incaricati del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori e del collaudo anche nei loro
collaboratori.
La finalità della normativa in discorso, illustrata nei
termini di cui sopra, impone che i “collaboratori” siano
individuati, in primo luogo, tra i dipendenti del ruolo
tecnico che abbiano attivamente ed effettivamente
partecipato alla redazione dei vari elaborati (progetti e
relative varianti, piano di sicurezza, certificato di
collaudo o di regolare esecuzione, etc.) o al compimento
delle altre attività (direzione dei lavori) con specifiche
prestazioni di natura materiale o intellettuale non
riconducibili agli ordinari compiti d’ufficio.
Si ritiene peraltro che dal novero dei collaboratori
destinatari dell’incentivo non possa escludersi a priori il
personale amministrativo.
Appare evidente sotto questo profilo che le attività
incentivabili, soprattutto con riferimento ai compiti del
R.U.P., non si esauriscano in interventi di tipo tecnico, ma
richiedano anche adempimenti di carattere
amministrativo-contabile da assegnare al personale
appartenente ai relativi profili in quanto in possesso delle
necessarie competenze professionali.
Si ritiene opportuno in ogni caso che l’amministrazione
individui in sede regolamentare le singole figure
professionali dei collaboratori, avendo cura di limitare la
previsione ai soggetti, anche appartenenti al ruolo
amministrativo, la cui prestazione sia strettamente
collegata all’attività di progettazione, coordinamento della
sicurezza, direzione lavori e collaudo, con l’esclusione del
personale che svolge ordinarie funzioni tecniche e
amministrative anche se appartenente al medesimo ufficio.
Si ricorda inoltre che l’art. 92, comma 7-ter, del codice
dei contratti richiede espressamente che l’erogazione
dell’incentivo debba essere corrisposta previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
---------------
Quesito lettera B.
Ove l’attività di pianificazione sia stata svolta dal
personale (compreso il personale dirigente) prima della
riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014? Tale attività deve ritenersi compiuta con
l’approvazione dell’atto di pianificazione?
I soggetti incaricati
dell’attività di pianificazione, anche appartenenti ai ruoli
della dirigenza, maturano il diritto all’incentivo a
condizione che l’atto di pianificazione sia stato redatto
prima dell’entrata in vigore della riforma anche se
destinato ad essere liquidato successivamente a tale data.
La liquidazione non diversamente che per altre attività
incentivanti deve ritenersi subordinata all’approvazione che
ne attesti la regolarità e consenta l’avvio della gara.
Si richiede in ogni caso che l’attività di
pianificazione, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza contabile maturato in vigenza della
precedente normativa sia strettamente connessa con la
realizzazione di un’opera pubblica.
---------------
Quesito lettera C.
Con riguardo all’erogazione delle incentivazioni relative
alle attività previste nei punti precedenti si chiede come
deve essere interpretata la disposizione che prevede di non
superare l’importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo? Tale limite è applicabile
solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori ed
opere avviati dopo il 19/08/2014 oppure è applicabile a
tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19/08/2014 data
anche se riferiti a lavori ed opere portati a compimento
prima di tale data? Ai fini della predetta normativa cosa si
intende per trattamento economico complessivo?
Per la determinazione dell’ammontare complessivo
delle risorse destinabili al singolo beneficiario, l’ente
devea fare riferimento al limite inderogabile fissato dalla
norma con riguardo al trattamento economico spettante al
momento dell’erogazione anche rispetto ad attività compiute
precedentemente all’entrata in vigore della riforma.
Si è rilevato al riguardo che la disposizione di legge
richiamata effettua un chiaro riferimento al momento della
corresponsione e che non condiziona la possibilità di
erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne (per relationem rispetto al trattamento economico fruito)
l’ammontare massimo.
Si ribadisce, in coerenza con l’orientamento espresso con la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, che
nonostante le
modifiche introdotte dal legislatore in merito alla
costituzione del fondo per la progettazione ed ai criteri
per la sua ripartizione, non appare, in concreto, mutata, la
natura del diritto al beneficio e la corrispondenza
sinallagmatica fra incentivo ed attività compensate,
derivante dal riconoscimento, sancito anche dalla Suprema
Corte (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 13384 del 19.07.2004)
della
qualifica di vero e proprio diritto soggettivo di natura
retributiva, che inerisce al rapporto di lavoro, nel cui
ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di
adempiere.
Il riferimento, contenuto nella disposizione in esame, al
momento della corresponsione (gli incentivi complessivamente
corrisposti), che privilegia l’aspetto prettamente
contabile, potrebbe comportare, di fatto, il rischio di
disparità di trattamento. La soluzione che fa leva
esclusivamente sul momento della liquidazione risulta,
peraltro, legata a tempistiche che esulano, del tutto, dalla
disponibilità del beneficiario e che, specificatamente,
attengono alla fase della gestione di cassa. Fase che, alla
luce delle regole di contabilità ma, soprattutto,
dell’esigenza di salvaguardia degli equilibri di bilancio,
dovrà essere stata, presumibilmente, preceduta da una
previsione autorizzatoria e da un impegno regolarmente
assunto dall’ente per vincolare la spesa alla soddisfazione
della corrispondente obbligazione.
La scrivente Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, preso atto della pronuncia della Sezione delle
Autonomie, si conforma al principio di diritto ivi formulato
nella soluzione del quesito per cui “l’obbligo di non
superare nella corresponsione di incentivi al singolo
dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento
del trattamento economico complessivo annuo lordo, è
applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività
tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati
dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di
conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90”.
Si ritiene infine che la nozione di “trattamento economico
complessivo annuo lordo” debba corrispondere a quella già
indicata dalla previgente normativa quale limite agli
incentivi riconoscibili al singolo dipendente.
Non vi è infatti motivo di credere che la riforma, con il
ridurre il predetto limite del 50 per cento, abbia voluto
modificare gli istituti retributivi riconducibili al
trattamento economico complessivo che, come precisato più
volte dalla giurisprudenza contabile, deve ritenersi
comprensivo del trattamento fondamentale (stipendio
tabellare, tredicesima, indennità integrativa speciale ove
prevista, retribuzione individuale di anzianità, ove
spettante, indennità di comparto) e del trattamento
accessorio di qualunque natura, fissa e variabile.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del comune di Milano
formula una serie di quesiti riguardanti la nuova disciplina
dei "fondi per la progettazione e l'innovazione" prevista
dall’art. 13-bis della legge 11.08.2014, n. 114 di
conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90.
Si premette al riguardo che l’art. 13 del decreto legge
sopra citato ha abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei
contratti pubblici), recante la previgente disciplina
relativa agli incentivi spettanti ai dipendenti degli enti
locali per le attività di progettazione (comma 5) e
pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede
di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato,
di contro, una nuova disciplina in materia, confluita
nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, ai commi da
7-bis a 7-quinquies.
Tale disciplina affida ai regolamenti delle amministrazioni
aggiudicatrici il recepimento dei criteri e delle modalità
di attribuzione degli incentivi definiti in sede di
contrattazione decentrata, nel rispetto dei limiti previsti
dalla medesima legge che potranno essere corrisposti
esclusivamente ai dipendenti cui sono conferiti incarichi
tecnici o di supporto nell'ambito delle sole procedure di
progettazione, aggiudicazione ed esecuzione di un’opera
pubblica.
Descritta nei termini sopra riferiti l’evoluzione normativa
in materia, si evidenzia che il procedimento di
progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori
pubblici possa investire un lungo arco di tempo e che
pertanto si possa verificare la circostanza che talune
attività siano state realizzate prima della riforma
(19/08/2014) e non siano state ancora liquidate e che altre
attività relative alla medesima opera/lavoro siano
realizzate successivamente all'entrata in vigore della
legge.
Si richiama sul punto il
parere 19.09.2014 n. 183
della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l’Emilia Romagna, che, intervenendo sulla
disciplina di riforma, ha affermato che la stessa non è
"applicabile retroattivamente, non essendo norma
d’interpretazione autentica".
Si sostiene pertanto che mentre è stato chiarito che le
nuove regole trovano applicazione per tutti i lavori e le
opere avviate a partire dal 19.08.2014, sussistono dubbi
interpretativi in ordine alla disciplina da applicare agli
incentivi riferiti a lavori e opere o ad atti di
pianificazione portati a compimento prima di tale data e che
l'Amministrazione non ha ancora provveduto a liquidare.
Sussistono inoltre dubbi applicativi per quanto attiene il
capoverso della norma che recita: “gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo”.
Ciò premesso e considerato si formulano i quesiti di seguito
riportati.
A. Con riguardo all’attività di
progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori
pubblici, sempre che sia avviata la gara ad evidenza
pubblica per l'affidamento dei lavori e che si sia pertanto
costituito il fondo per l'erogazione dell'incentivo, anche
se l'avvio della gara sia avvenuto successivamente alla data
di entrata in vigore della legge n. 114/2014 (19.08.2014):
1. L’attività relativa a lavori di manutenzione svolta prima
della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
2. L’attività svolta dal personale dirigente prima della
riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
3. Quando devono ritenersi compiute le diverse attività
relative al processo di
progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori
pubblici tenuto conto del fatto che alcune potrebbero avere
avuto un'elaborazione anteriormente al 19/08/2014 ma
confluire in un atto approvato successivamente a tale data,
in particolare:
a) l’attività di progettazione può ritenersi compiuta al
momento dell’approvazione del progetto?
b) l’attività di coordinatore della sicurezza in fase di
progettazione può ritenersi compiuta al momento
dell'approvazione del progetto di cui è parte essenziale ed
integrante il piano di Sicurezza e di coordinamento?
c) le attività dell'Ufficio di direzione dei lavori, poiché
si realizzano in prestazioni di durata possono considerarsi
per frazioni temporali di attività da calcolarsi in base al
numero dei giorni di attività svolte prima o dopo l'entrata
in vigore della riforma (19/08/2014)?
d) le attività coordinatore della sicurezza in fase di
esecuzione, poiché si realizzano in prestazioni di durata
possono considerarsi per frazioni temporali di attività da
calcolarsi in base al numero dei giorni di attività svolte
prima o dopo l'entrata in vigore della riforma (19/08/2014)?
e) le attività coordinatore della sicurezza in fase di
esecuzione, poiché si realizzano in prestazioni di durata
possono considerarsi per frazioni temporali di attività da
calcolarsi in base al numero dei giorni di attività svolte
prima o dopo l'entrata in vigore della riforma (19/08/2014)?
f) l’attività di collaudo può ritenersi compiuta al momento
dell'approvazione del certificato di collaudo?
g) per le opere di particolare complessità, le attività di
cui alle lettere c) d) c) f) possono ritenersi compiute in
corso d'opera al momento dei singoli stati di avanzamento
dei lavori?
4. L’art. 93, comma 7-ter, stabilisce che il “…fondo per la
progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale e
adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori”.
Nell'ambito delle attività dei
"collaboratori" possono essere previste tutte le attività di
supporto ai compiti delle figure professionali tecniche
espressamente previste dal decreto legislativo 163/2006 e
dal Regolamento di attuazione approvato con D.P.R. n.
207/2010?
B. Con riguardo alla pianificazione, sempre che essa risulti
strettamente connessa con la realizzazione di un’opera
pubblica:
1. Ove l’attività di pianificazione sia stata svolta dal
personale (compreso il personale dirigente) prima della
riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
Tale attività deve ritenersi compiuta con
l’approvazione dell’atto di pianificazione?
C. Con riguardo all’erogazione delle incentivazioni relative
alle attività previste nei punti precedenti si chiede:
- Come
deve essere interpretata la disposizione che prevede di non
superare l’importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo?
- Tale limite è applicabile
solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori ed
opere avviati dopo il 19/08/2014 oppure è applicabile a
tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19/08/2014 anche se
riferiti a lavori ed opere portati a compimento prima di
tale data?
- Ai fini della predetta normativa cosa si intende
per trattamento economico complessivo?
...
Le questioni sottese ai quesiti proposti richiedono chiarire, in
primo luogo, l’ambito di applicazione temporale della nuova
disciplina in materia di c.d. “compensi incentivanti”,
introdotta dall’art. 13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114.
Come ricordato dal comune istante nella nota richiamata in
premessa, l’art. 13 del decreto legge sopra citato ha
abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici),
recante la previgente disciplina relativa agli incentivi
spettanti a dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici
per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione
(comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede
di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato
una nuova normativa in materia, confluita nell’art. 93, del
codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a
7-quinquies.
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i
dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate
attività secondo i modi e criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento
dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata
applicativa della disciplina precedente.
Si registra in particolare, per quanto di specifico
interesse ai fini del presente parere, l’esclusione del
personale con qualifica dirigenziale dal novero dei
potenziali beneficiari degli incentivi che rimangono ad
appannaggio dei dipendenti privi di tale qualifica che
svolgano la funzione di responsabile del procedimento o
siano direttamente incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché dei loro collaboratori.
Non è ammessa la remunerazione per attività manutentive e
sono soppressi gli incentivi per gli atti di pianificazione.
Risultano inoltre ridotte le risorse dirette a remunerare le
attività svolte, posto che la somma non superiore al 2 per
cento degli importi posti a base di gara da far confluire
nel fondo per l’incentivazione è ripartita tra i dipendenti
non più per l’intero, ma nella misura dell’80 per cento, con
il rimanente 20 per cento destinato all’acquisto di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione.
La riforma prevede infine che gli incentivi complessivamente
corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche
da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo
del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo
lordo.
Rilevata, nei termini sopra riferiti, la successione
temporale delle leggi in materia, si tratta di stabilire
quale sia la disciplina applicabile alle attività compiute,
ma non ancora liquidate alla data di entrata in vigore della
riforma.
In mancanza di un’espressa disposizione transitoria, la
questione, da ritenersi preliminare rispetto all’esame degli
specifici quesiti formulati dal comune, non può che essere
risolta in via interpretativa.
Questa Sezione ritiene di dover ribadire, al riguardo,
l’orientamento espresso in materia con il
parere 13.11.2014 n. 300 secondo il quale
il
diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base
della normativa vigente al momento in cui questo è sorto,
ossia al compimento delle attività incentivate senza che
possa essere modificato da disposizioni di legge successive
che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità.
Ne viene pertanto che i compensi erogati dopo l’entrata in
vigore della riforma, ma concernenti attività realizzate in
precedenza, rimangono assoggettati alla previgente
disciplina normativa.
Gli argomenti a supporto della predetta interpretazione,
condivisa anche da altre Sezioni regionali di controllo di
questa Corte (Sezione regionale di controllo per l’Emilia
Romagna:
parere 19.09.2014 n. 183; Sezione regionale di controllo per
la Liguria:
parere 16.12.2014 n. 73) sono ricavabili dalla
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle Autonomie riguardante una analoga questione
derivante da una precedente riformulazione dell’incentivo di
cui all’art. 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
Se ne richiamano di seguito i principali passi della
motivazione.
Si ritiene, in accordo con l’indirizzo espresso dalla Corte
di Cassazione (Cass., Sez. Lav., sent. n. 13384 del
19.07.2004), che
il diritto all’incentivo costituisca “un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che
inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va
individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a
prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere
concreta l’erogazione del compenso”.
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al
compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive che non
hanno alcuna efficacia retroattiva.
Si precisa inoltre che “ai fini della nascita del diritto
quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività;
dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto,
che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si
esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo
un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione
temporale di attività compiuta”.
La Sezione delle Autonomie, nella deliberazione citata,
conclude stabilendo che
la stazione appaltante, per i
compensi da pagare dalla data di entrata in vigore della
riforma, per la parte residua dello stanziamento
utilizzabile (ossia quello al netto delle somme pagate per
le attività compiute prima di tale data) dovrà rimodulare la
somma da ripartire e la conseguente misura del beneficio,
secondo le nuove disposizioni.
Alla luce delle predette considerazioni possono trovare
risposta i quesiti formulati dal comune.
La natura retributiva del diritto all’incentivo in parola,
che matura con il compimento dell’attività richiesta senza
poter subire modifiche in conseguenza di leggi sopravvenute
prive di efficacia retroattiva, porta a ritenere che le
attività compiute prima dell’entrata in vigore della riforma
possano essere remunerate con gli incentivi fissati secondo
le modalità e i criteri definiti nell’ambito del previgente
quadro normativo anche se la liquidazione avvenga in data
successiva.
Si deve tuttavia precisare che il riconoscimento del diritto
e quindi l’effettiva erogazione dei compensi rimangono
subordinati, come riconosciuto dallo stesso comune
richiedente, all’avvio della gara pubblica, quantunque
successivo alla data di entrata in vigore della riforma.
Si richiama sul punto l’orientamento più volte espresso
dalla giurisprudenza contabile secondo il quale
l’ancoramento del fondo incentivante alla base di
gara (e non all’importo oggetto del contratto, né a quello
risultante dallo stato finale dei lavori) esclude la
previsione e l’erogazione del compenso nel caso in cui
l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno,
alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione
delle lettere d’invito
(Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Lombardia,
parere 15.10.2013 n. 442).
Dal quadro interpretativo sopra illustrato è quindi
possibile ricavare la soluzione ai quesiti formulati alla
lettera A ai punti 1 e 2 della richiesta di parere.
Quesito lettera A, punto 1.
L’attività relativa a lavori di manutenzione svolta prima
della riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
Si deve ritenere che l’incentivo in parola spetti anche per
i lavori di manutenzione a condizione che le relative
attività siano state realizzate prima dell’entrata in vigore
della riforma che ne ha espressamente escluso la
remunerazione e sempre che si tratti di attività che abbiano
richiesto la progettazione di un’opera e non la mera
manutenzione della stessa.
Come più volte affermato nei pareri resi in materia dalle
Sezioni regionali di controllo di questa Corte “l’incentivo
alla progettazione non può essere riconosciuto per qualunque
lavoro di manutenzione ordinaria su beni dell’ente locale,
ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica
alla cui base vi sia una necessaria un’attività progettuale”
(Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 246,
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 15.10.2013 n. 442).
Quesito lettera A, punto 2.
L’attività svolta dal personale dirigente prima della
riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014?
Allo stesso modo si deve ritenere che l’incentivo spetti
anche al personale con qualifica dirigenziale per le
attività realizzate prima che la riforma li escludesse dal
novero dei beneficiari, ripristinando nei confronti degli
stessi il principio dell’onnicomprensività della
retribuzione.
Si condividono sul punto le conclusioni cui è pervenuta la
Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna nel
parere reso con il
parere 19.09.2014 n. 183 ove si
afferma che “fino all’entrata in vigore della legge di
conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, anche il dirigente di ruolo di un
ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli
incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di
lavoro dell’Area II prevede espressamente quale deroga al
principio dell’onnicomprensività la spettanza di incentivi
per la progettazione”.
Quesito lettera A, punto 3.
Quando devono ritenersi compiute le diverse attività
relative al processo di
progettazione/affidamento/esecuzione/collaudo dei lavori
pubblici tenuto conto del fatto che alcune potrebbero avere
avuto un'elaborazione anteriormente al 19/08/2014 ma
confluire in un atto approvato successivamente a tale data?
Posto che il diritto all’incentivo, come sopra riferito,
dipende dall’effettivo compimento delle attività richieste,
si tratta di stabilire quando debbano considerarsi compiute,
a tale effetto, attività avviate prima dell’entrata in
vigore della riforma, ma inserite in una sequenza
procedimentale destinata a concludersi dopo tale data.
Le attività incentivabili possono essere distinte, sotto
questo profilo, a seconda che richiedano la redazione di
specifici atti formali, sottoposti ai controlli di
regolarità ed efficacia stabiliti dalla legge oppure
prestazioni di durata da svolgersi per un determinato
periodo di tempo senza comportare l’adozione di atti
puntuali.
Si può affermare, sulla base dei principi sopra richiamati,
che i soggetti incaricati della redazione di uno specifico
atto hanno diritto a percepire l’incentivo determinato sulla
base della legge in vigore al momento in cui, con il
compimento dell’atto medesimo, si esaurisce la prestazione
lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi
positivamente i successivi controlli che ne attestino la
regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che,
rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa
del dipendente, potranno pertanto intervenire anche
successivamente alla data di entrata in vigore della
riforma.
Si richiama al riguardo il
parere 16.01.2014 n. 8 della
Sezione regionale di controllo per il Piemonte ove si
afferma che “la circostanza che l’Amministrazione non
proceda nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti
redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino
caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui
agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché
alle norme di legge vigenti, non fa venir meno la diretta
corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed
attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente
condizionata quantomeno all’approvazione da parte
dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere
necessariamente finanziato”.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa,
maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella
citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con
riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata
la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei
giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà
essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo
l’entrata in vigore della riforma.
Si rimette in ogni caso al comune istante, sulla base delle
indicazioni sopra fornite, la determinazione dell’incentivo
spettante ai dipendenti incaricati delle specifiche attività
descritte nella richiesta di parere (punto 3, lettere
a.,b.,c,.d.,e.,f.) in ragione degli atti compiuti o delle
prestazioni espletate precedentemente al 19.08.2014.
Quesito lettera A, punto 4.
Nell'ambito delle attività dei "collaboratori" possono
essere previste tutte le attività di supporto ai compiti
delle figure professionali tecniche espressamente previste
dal decreto legislativo 163/2006 e dal Regolamento di
attuazione approvato con D.P.R. n. 207/2010?
Sulla questione relativa alla precisa individuazione dei
collaboratori dei dipendenti incaricati delle attività
incentivabili, la giurisprudenza contabile si è più volte
pronunciata in vigore della precedente disciplina,
pervenendo a conclusioni che possono essere mantenute anche
nel quadro normativo successivo all’entrata in vigore della
legge di riforma.
Con l’assegnazione di specifici incentivi a favore del
personale dipendente impegnato in attività connesse alla
realizzazione di opere e lavori pubblici la legge si propone
di valorizzare le professionalità interne
all’amministrazione, assicurando alla stessa un risparmio di
spesa rispetto agli oneri da sostenere per l’affidamento di
incarichi di identico contenuto a professionisti esterni.
Ne deriva che i destinatari dei predetti incentivi possano
essere solo i dipendenti che, in ragione della specifica
professionalità, siano stati chiamati a svolgere determinate
attività altrimenti non rientranti nei doveri d’ufficio.
Questi sono espressamente indicati dalla legge, oltre che
nelle figure del responsabile del procedimento, e degli
incaricati del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori e del collaudo anche nei loro
collaboratori.
La finalità della normativa in discorso, illustrata nei
termini di cui sopra, impone che i “collaboratori” siano
individuati, in primo luogo, tra i dipendenti del ruolo
tecnico che abbiano attivamente ed effettivamente
partecipato alla redazione dei vari elaborati (progetti e
relative varianti, piano di sicurezza, certificato di
collaudo o di regolare esecuzione, etc.) o al compimento
delle altre attività (direzione dei lavori) con specifiche
prestazioni di natura materiale o intellettuale non
riconducibili agli ordinari compiti d’ufficio.
Si ritiene peraltro che dal novero dei collaboratori
destinatari dell’incentivo non possa escludersi a priori il
personale amministrativo.
Appare evidente sotto questo profilo che le attività
incentivabili, soprattutto con riferimento ai compiti del
R.U.P., non si esauriscano in interventi di tipo tecnico, ma
richiedano anche adempimenti di carattere
amministrativo-contabile da assegnare al personale
appartenente ai relativi profili in quanto in possesso delle
necessarie competenze professionali.
Si ritiene opportuno in ogni caso che l’amministrazione
individui in sede regolamentare le singole figure
professionali dei collaboratori, avendo cura di limitare la
previsione ai soggetti, anche appartenenti al ruolo
amministrativo, la cui prestazione sia strettamente
collegata all’attività di progettazione, coordinamento della
sicurezza, direzione lavori e collaudo, con l’esclusione del
personale che svolge ordinarie funzioni tecniche e
amministrative anche se appartenente al medesimo ufficio.
Si ricorda inoltre che l’art. 92, comma 7-ter, del codice
dei contratti richiede espressamente che l’erogazione
dell’incentivo debba essere corrisposta previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
Quesito lettera B.
Ove l’attività di pianificazione sia stata svolta dal
personale (compreso il personale dirigente) prima della
riforma (19/08/2014) deve essere incentivata secondo i
criteri e le modalità di erogazione previsti dal regolamento
e dal contratto vigente nel momento del compimento delle
rispettive attività anche se l'erogazione avviene dopo il
19/08/2014? Tale attività deve ritenersi compiuta con
l’approvazione dell’atto di pianificazione?
Le medesime considerazioni svolte con riferimento ai quesiti
formulati alla lettera A della richiesta di parere
consentono di dare soluzione anche al quesito indicato alla
successiva lettera B riguardante la pianificazione che la
novella non annovera più tra le attività che danno diritto
all’incentivo.
Si deve pertanto ritenere che i soggetti incaricati
dell’attività di pianificazione, anche appartenenti ai ruoli
della dirigenza, maturino il diritto all’incentivo a
condizione che l’atto di pianificazione sia stato redatto
prima dell’entrata in vigore della riforma anche se
destinato ad essere liquidato successivamente a tale data.
La liquidazione non diversamente che per altre attività
incentivanti deve ritenersi subordinata all’approvazione che
ne attesti la regolarità e consenta l’avvio della gara.
Si richiede in ogni caso che l’attività di
pianificazione, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza contabile maturato in vigenza della
precedente normativa sia strettamente connessa con la
realizzazione di un’opera pubblica
(Corte dei conti, Sezione della Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Quesito lettera C.
Con riguardo all’erogazione delle incentivazioni relative
alle attività previste nei punti precedenti si chiede come
deve essere interpretata la disposizione che prevede di non
superare l’importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo? Tale limite è applicabile
solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori ed
opere avviati dopo il 19/08/2014 oppure è applicabile a
tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19/08/2014 data
anche se riferiti a lavori ed opere portati a compimento
prima di tale data? Ai fini della predetta normativa cosa si
intende per trattamento economico complessivo?
A fronte del dato testuale dell’art. 92, comma 7-ter, del
codice dei contratti pubblici, per cui “gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo”, questa Sezione, con
il citato
parere 13.11.2014 n. 300, ha ritenuto che
per la
determinazione dell’ammontare complessivo delle risorse
destinabili al singolo beneficiario, l’ente debba fare
riferimento al limite inderogabile fissato dalla norma con
riguardo al trattamento economico spettante al momento
dell’erogazione anche rispetto ad attività compiute
precedentemente all’entrata in vigore della riforma.
Si è rilevato al riguardo che la disposizione di legge
richiamata effettua un chiaro riferimento al momento della
corresponsione e che non condiziona la possibilità di
erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne (per relationem rispetto al trattamento economico fruito)
l’ammontare massimo.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria, chiamata a
pronunciarsi sulla medesima questione, ha ravvisato un
contrasto fra la soluzione sopra richiamata adottata da
questa Sezione e quella proposta dalla Sezione regionale di
controllo per l’Emilia Romagna che, con il
parere 19.09.2014 n. 183, ha ritenuto, sulla base del principio di
irretroattività della legge, che l’obbligo di non superare
l’importo del 50 per cento del trattamento economico
complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il
pagamento degli incentivi riferiti ad attività
tecnico-professionali espletate da dipendenti dopo il 19.08.2014.
La stessa Sezione regionale di controllo per la Liguria, con
la
deliberazione 22.12.2014 n. 75,
ravvisando la necessità di un indirizzo interpretativo
univoco in materia, ha sottoposto al Presidente della Corte
dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire la
questione alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni
Riunite, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla
legge 07.12.2012, n. 213,
Il Presidente della Corte dei conti, con l’ordinanza n. 7
del giorno 04.02.2015, ha deferito la questione alla
Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto legge n. 174/2012.
La Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 24.03.2015 n. 11, ha stabilito che la questione di diritto
intertemporale oggetto contrasto interpretativo possa essere
risolta, alla stessa stregua di altri quesiti affrontati
dalle Sezioni regionali, facendo ugualmente ricorso al
principio di irretroattività della legge nei termini sanciti
dalla giurisprudenza costituzionale.
Si ribadisce, in coerenza con l’orientamento espresso con la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, che
nonostante le
modifiche introdotte dal legislatore in merito alla
costituzione del fondo per la progettazione ed ai criteri
per la sua ripartizione, non appare, in concreto, mutata, la
natura del diritto al beneficio e la corrispondenza
sinallagmatica fra incentivo ed attività compensate,
derivante dal riconoscimento, sancito anche dalla Suprema
Corte (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 13384 del 19.07.2004)
della
qualifica di vero e proprio diritto soggettivo di natura
retributiva, che inerisce al rapporto di lavoro, nel cui
ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di
adempiere.
Il riferimento, contenuto nella disposizione in esame, al
momento della corresponsione (gli incentivi complessivamente
corrisposti), che privilegia l’aspetto prettamente
contabile, potrebbe comportare, di fatto, il rischio di
disparità di trattamento. La soluzione che fa leva
esclusivamente sul momento della liquidazione risulta,
peraltro, legata a tempistiche che esulano, del tutto, dalla
disponibilità del beneficiario e che, specificatamente,
attengono alla fase della gestione di cassa. Fase che, alla
luce delle regole di contabilità ma, soprattutto,
dell’esigenza di salvaguardia degli equilibri di bilancio,
dovrà essere stata, presumibilmente, preceduta da una
previsione autorizzatoria e da un impegno regolarmente
assunto dall’ente per vincolare la spesa alla soddisfazione
della corrispondente obbligazione.
Ad ulteriore sostegno della predetta interpretazione la
Sezione della Autonomie ritiene difficilmente ipotizzabile -alla luce del fatto che le disposizioni contenute
nell’art. 13-bis del decreto legge n. 90/2014 rappresentano
sostanzialmente un corpo normativo unitario e sono
accomunate da un’unica ratio ispiratrice- una soluzione
interpretativa, che non sia univoca e non faccia riferimento
all’intero impianto normativo novellato.
La scrivente Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, preso atto della pronuncia della Sezione delle
Autonomie, si conforma al principio di diritto ivi formulato
nella soluzione del quesito per cui “l’obbligo di non
superare nella corresponsione di incentivi al singolo
dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento
del trattamento economico complessivo annuo lordo, è
applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività
tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati
dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di
conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90”.
Si ritiene infine che la nozione di “trattamento economico
complessivo annuo lordo” debba corrispondere a quella già
indicata dalla previgente normativa quale limite agli
incentivi riconoscibili al singolo dipendente.
Non vi è infatti motivo di credere che la riforma, con il
ridurre il predetto limite del 50 per cento, abbia voluto
modificare gli istituti retributivi riconducibili al
trattamento economico complessivo che, come precisato più
volte dalla giurisprudenza contabile, deve ritenersi
comprensivo del trattamento fondamentale (stipendio
tabellare, tredicesima, indennità integrativa speciale ove
prevista, retribuzione individuale di anzianità, ove
spettante, indennità di comparto) e del trattamento
accessorio di qualunque natura, fissa e variabile (Corte dei
conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 28.05.2014 n. 114) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Lombardia,
parere 05.05.2015 n. 191). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Il consigliere non gestisce. Vietato assumere atti a
rilevanza esterna.
Il sindaco può delegare funzioni, ma senza travalicare i
poteri della giunta.
Il sindaco può conferire ai consiglieri di maggioranza
incarichi concernenti competenze tipicamente assessorili, o
ciò determinerebbe un'impropria commistione tra funzioni di
governo e funzioni di controllo politico nonché un aumento
surrettizio del numero complessivo degli assessori rispetto
a quello massimo previsto per legge?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è
ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché
il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione
istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre,
tuttavia, considerare che, quale criterio generale, il
consigliere può essere incaricato di studi su determinate
materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame
e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la
possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di
adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività
istituzionale, in qualità di componente di un organo
collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo
statuto.
Poiché il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, ne scaturisce l'esigenza di evitare
una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di
controllo. Tale criterio generale può ritenersi derogabile
solo in taluni casi previsti dalla legge.
Peraltro il Consiglio di Stato, con
parere
26.11.2012 n. 4992, ha ritenuto fondato un ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica in quanto
l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai
consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva,
determinava «una situazione, perlomeno potenziale, di
conflitto di interesse»
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum del Consiglio.
Qual è la data entro la quale deve essere tenuta la seduta
di seconda convocazione del consiglio comunale? Qual è il
quorum necessario per la validità della seduta in seconda
convocazione?
Nella fattispecie in esame il regolamento sul funzionamento
dell'ente prevede che la seduta di seconda convocazione deve
seguire, in giorno diverso, la seduta di prima convocazione
andata deserta; inoltre stabilisce che il sindaco, in
conformità a quanto disposto dall'art. 39, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000, è tenuto a riunire il
consiglio in un termine non superiore a 20 giorni, quando lo
richieda almeno un quinto dei consiglieri in carica.
Il sindaco, non rinvenendo in alcuna norma regolamentare un
vincolo temporale in ordine alle sedute di seconda
convocazione, ha ritenuto non sussistente l'obbligo di
convocare nuovamente l'assemblea entro i termini previsti
dal regolamento, nel caso in cui la seduta consiliare,
convocata una prima volta entro 20 giorni dalla richiesta
formulata da un quinto dei consiglieri, sia andata deserta
per mancanza del quorum strutturale.
In merito si ritiene che, attesa la formulazione letterale
del citato art. 39, comma 2, nell'arco temporale di 20
giorni, decorrenti dalla presentazione della richiesta,
debbano svolgersi tanto la convocazione che la materiale
seduta consiliare finalizzata alla discussione degli
argomenti proposti dal quinto dei consiglieri.
In ordine all'individuazione del quorum necessario per la
validità della seduta in seconda convocazione, poiché nel
caso di specie il regolamento richiede la presenza di almeno
un terzo dei consiglieri, escluso il sindaco, deve operarsi
l'arrotondamento aritmetico. Pertanto, qualora la cifra
decimale sia pari o inferiore a 5 si procede con
l'arrotondamento per difetto; se la stessa è superiore a 5
si procede con l'arrotondamento per eccesso
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Accesso a prova di privacy. La p.a. può escludere dati
personali dei singoli. Necessario un
collegamento tra gli atti richiesti e l'attività consiliare.
È legittimo porre limitazioni in merito al rilascio in copia
cartacea di documenti per i quali il regolamento comunale,
in base al quale i consiglieri possono prendere visione
della posta in entrata e uscita che transita nel protocollo
dell'ente, pone restrizioni in quanto riservati o soggetti a
privacy e, pertanto, ritenuti «ipersensibili» e non
strettamente connessi all'espletamento del mandato
amministrativo?
Il diritto di accesso e il diritto di informazione dei
consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la
loro disciplina specifica nell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000, il quale riconosce il «diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato».
La materia è soggetta
a normazione statutaria e regolamentare da parte dell'ente,
nel quadro dei principi della citata norma di legge dalla
quale si evince il riconoscimento, in capo al consigliere
comunale, di un diritto dai confini più ampi sia del diritto
di accesso ai documenti amministrativi attribuito al
cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10,
Tuel) che, più in generale, nei confronti della p.a. quale
disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza
di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi
possa valutare, con piena cognizione di causa, la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione,
onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni
di competenza della p.a., opportunamente considerando il
ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da
questi esercitata (cfr. commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi, pareri del 23.06.2011 e del 07.07.2011).
Per quanto concerne il rilascio periodico del
riepilogo del protocollo generale dell'ente, comprensivo sia
della posta in arrivo che di quella in uscita, la
giurisprudenza, con orientamento costante, ha ritenuto non
conforme a legge il diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e di quello
riservato del sindaco. In particolare, il Tar Sardegna ha
affermato che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie
riservate e di materie coperte da segreto, posto che i
consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai
sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sempre
il medesimo Tar, con sentenza n. 1363, del 28.05.2010,
ha specificato che «il registro di protocollo generale del
comune è pienamente riconducibile alle categorie di
documenti suscettibili di accesso, in quanto idoneo a
fornire notizie e informazioni utili all'espletamento del
mandato dei consiglieri comunali. Sotto il profilo
organizzativo l'accesso al protocollo comunale deve essere
effettuato in modo da non creare intralcio all'attività
degli uffici». Anche il Tar Lombardia (Milano) con sentenza
n. 2363 del 23/09/2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei
consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune.
Tuttavia, in ordine alla fattispecie concernente la
richiesta di atti relativi al registro di minori in affido,
lo stesso Tribunale amministrativo della Lombardia, con la
medesima sentenza n. 2363/2014 ha specificato che «i limiti
interni all'esercizio dell'accesso consiliare possono
rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso non deve
sostanziarsi in richieste di documentazione inutile
all'espletamento del mandato, ovvero assolutamente
generiche, e, per altro verso, nel fatto che esso deve
avvenire in modo da non aggravare eccessivamente la corretta
funzionalità degli uffici».
Il Tar, pertanto, rilevando che
il consigliere richiedente aveva ribadito l'indispensabilità
delle informazioni cui aveva richiesto accesso senza
tuttavia allegare specificamente il motivo per cui ciascuna
di esse risultasse indispensabile, ai fini dell'espletamento
del proprio mandato (essendo tale l'interesse), ha ritenuto
che «l'attività che il ricorrente intende effettuare una
volta presa conoscenza delle informazioni per come indicata
in ricorso, non ha necessità di avere contezza dei dati
personali dei singoli soggetti (né minori, né genitori, né
operatori), che quindi non risultano utili, ai sensi del
citato art. 43 del Tuel».
Fermo restando, dunque che «deve sussistere un
collegamento tra gli atti richiesti e l'attività consiliare,
così da consentire al consigliere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, la p.a. può escludere i dati personali
di dettaglio relativi ai singoli la cui conoscenza sia
ininfluente ai fini precostituiti dal richiedente»
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI FORNITURE:
Fornitura energia elettrica impianti comunali.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012,
stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento
da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate
categorie merceologiche, tra cui l'energia elettrica. In
particolare, in alternativa all'obbligo di
approvvigionamento mediante le Convenzioni Consip o gli
accordi quadro messi a disposizione da Consip, il ricorso al
libero mercato postula il necessario esperimento di
procedure ad evidenza pubblica, nonché la stipula di
contratti che prevedano corrispettivi inferiori a quelli
indicati nelle convenzioni o accordi quadro messi a
disposizione da Consip Spa.
In caso di ricorso al libero mercato, la necessità di
assicurare il servizio di fornitura di energia elettrica
senza soluzione di continuità tra la scadenza del contratto
in essere e la stipula del nuovo accordo può essere
soddisfatta attraverso un acquisto in economia, ai sensi
dell'art. 125, comma 10, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006 (per
importi inferiori a 40.000, mediante affidamento diretto ai
sensi del comma 11, ultimo periodo, del medesimo art. 125).
Nell'ipotesi in cui la procedura ad evidenza pubblica non
andasse a buon fine, l'Ente rientrerebbe nel cosiddetto
regime di salvaguardia, applicato ai clienti finali di
energia elettrica senza fornitore di energia elettrica o che
non abbiano scelto il proprio fornitore nel libero mercato
dell'energia (art. 1, comma 4, D.L. n. 73/2007).
Il Comune riferisce di avere aderito alla Convenzione Consip
2014 per la fornitura di energia elettrica agli impianti
comunali, e di avere in corso con la società aggiudicataria
un rapporto contrattuale in scadenza a luglio 2015.
Posto che non risulta possibile per il Comune aderire alla
convenzione Consip 2015, atteso che la società affidataria
di questa convenzione ha rifiutato la richiesta, sulla base
del fatto che la media del quantitativo necessitato di
energia elettrica risulta inferiore alla soglia minima
ordinabile secondo le previsioni della convenzione stessa,
l'Ente chiede se sia consentito proseguire il rapporto
contrattuale con l'attuale fornitore di energia elettrica
fino alla fine del 2015, stante la disponibilità dal
medesimo manifestata.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012 [1],
stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento
da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate
categorie merceologiche, quali l'energia elettrica (per
quanto qui di interesse), il gas, i carburanti, i
combustibili per riscaldamento e telefonia.
Il comma 7 richiamato prevede che la fornitura dei predetti
beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro
messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza
regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel
rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti
indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad
affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre
centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i
cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi)
rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro
messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di
committenza. In tale caso, i contratti devono essere
sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di
adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui
intervengano convenzioni Consip e delle centrali di
committenza regionali che prevedano condizioni economiche di
maggior favore.
L'art. 1, comma 8, D.L. n. 95/2012, stabilisce che sono
nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa i contratti stipulati in
violazione di quanto previsto dal comma 7.
Il tenore letterale dell'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012,
pertanto, individua sostanzialmente tre modalità di
approvvigionamento, da parte delle pp.aa., delle categorie
merceologiche ivi previste (tra cui l'energia elettrica): 1)
adesione alle Convenzioni o agli accordi quadro messi a
disposizione da Consip s.p.a. e dalle centrali di
committenza regionali di riferimento; 2) esperimento da
parte dell'amministrazione di 'autonome procedure nel
rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti
sopra indicati'; 3) in alternativa, le pp.aa. possono
rivolgersi ad altre centrali di committenza oppure possono
svolgere autonome procedure di evidenza pubblica, purché, in
tali casi, i corrispettivi ottenuti siano inferiori a quelli
indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a
disposizione da Consip e dalle centrali di committenza
regionali e sia prevista nello schema contrattuale la
clausola risolutiva in caso di sopravvenute condizioni più
vantaggiose da parte di Consip e delle centrali di
committenza regionali.
Nel caso in esame, l'Ente ha stipulato nel 2014 un contratto
per la fornitura di energia elettrica con una società
aggiudicataria Consip, ora in scadenza, e si trova nella
situazione di non poter nell'anno 2015 utilizzare una
convenzione Consip, in quanto la società convenzionata ha
comunicato che i quantitativi di energia richiesta sono
sotto soglia minima.
Avuto riguardo al quadro normativo sopra delineato in tema
di procedure di approvvigionamento di energia elettrica,
l'Ente dovrà utilizzare a tal fine gli strumenti alternativi
alle Convenzioni Consip espressamente previsti dall'art. 1,
comma 7, D.L. n. 95/2012 e sopra illustrati.
In particolare, il ricorso al libero mercato postula il
necessario esperimento di procedure ad evidenza pubblica per
l'individuazione del soggetto contraente, nonché la stipula
di contratti che prevedano corrispettivi inferiori a quelli
indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a
disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di
committenza regionali.
Peraltro, a fronte dei tempi necessari all'esperimento delle
procedure ad evidenza pubblica, si pone la necessità di
assicurare il servizio di fornitura di energia elettrica
senza soluzione di continuità, tra la scadenza del contratto
in essere e la stipula del nuovo contratto a seguito di
dette procedure ad evidenza pubblica.
Al riguardo, viene in considerazione e si rivela utile la
previsione di cui all'art. 125, comma 10, lett. c), D.Lgs.
n. 163/2006, che consente il ricorso all'acquisizione in
economia per prestazioni periodiche di servizi o forniture,
a seguito della scadenza dei relativi contratti, nelle more
dello svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del
contraente, nella misura strettamente necessaria e nei
limiti d'importo sotto la soglia di rilievo comunitario
previsti dalla norma.
Va evidenziato che l'art. 125, comma 10, lett. c), citato è
applicabile unicamente se la gara è iniziata prima della
scadenza del contratto da affidare e riguarda il tempo
strettamente necessario ad espletare le operazioni di gara.
La norma non si riferisce ai casi in cui la procedura di
selezione ha inizio successivamente rispetto alla scadenza
del contratto e, soprattutto, non legittima ad effettuare
affidamenti di durata superiore a quanto strettamente
necessario a concludere detta procedura di gara
[2].
Con riferimento agli acquisti in economia, deve altresì
richiamarsi l'art. 331 del d.p.r. 207/2010, a tenore del
quale le procedure in economia devono essere sempre
espletate nel rispetto del principio della massima
trasparenza, contemperando altresì l'efficienza dell'azione
amministrativa con i principi di parità di trattamento, non
discriminazione e concorrenza tra gli operatori economici.
Peraltro, qualora l'importo della fornitura sia inferiore a
40.000, l'Ente potrebbe procedere all'affidamento diretto
alla società attuale fornitrice di energia elettrica, ai
sensi dell'art. 125, comma 10, lettera c) e 11, ultimo
periodo, del D.Lgs. n. 163/2006, per poter continuare ad
approvvigionarsi dalla stessa, oltre la scadenza del
rapporto contrattuale in essere, nella misura strettamente
necessaria, fino alla conclusione della procedura ad
evidenza pubblica, che deve essere attivata prima della
scadenza del contratto in corso.
Questa soluzione appare possibile stante la disponibilità
manifestata da detta società a continuare a garantire le
prestazioni
contrattuali anche dopo la scadenza del contratto e consente
invero di mantenere, nel frattempo, nelle more dello
svolgimento della procedura ordinaria di individuazione del
contraente, l'invarianza del prezzo quale indicato dalla
Convenzione Consip 2014.
Per l'ipotesi in cui la procedura ad evidenza pubblica sul
mercato libero non dovesse andare a buon fine nel reperire
il fornitore di energia elettrica [3],
l'Ente rientrerebbe nel cosiddetto 'regime di
salvaguardia', applicato ai clienti finali di energia
elettrica senza fornitore di energia elettrica o che non
abbiano scelto il proprio fornitore nel libero mercato
dell'energia (art. 1, comma 4, D.L. n. 73/2007)
[4]. Per
cui, il fornitore di energia verrebbe ad essere la società
aggiudicataria della fornitura del servizio di salvaguardia
per l'area di riferimento, a seguito di asta pubblica (art.
1, comma 4, D.L. n. 73/2007) [5].
In proposito, si rileva che il prezzo applicato sul prelievo
di energia elettrica in regime di salvaguardia può essere
più oneroso di quello ottenuto da Consip S.p.a.
[6], a
seconda dell'area territoriale di riferimento. Per cui, se
il ricorso al regime di salvaguardia può costituire una
soluzione temporanea per assicurare la continuità del
servizio di energia elettrica, nel caso in cui si riveli
infruttuosa la procedura ad evidenza pubblica sul libero
mercato e qualora non sia possibile aderire alle Convenzioni
Consip [7],
va da sé che comunque il regime di salvaguardia dovrebbe
durare il tempo strettamente necessario e lasciare il posto
ad un contratto stipulato alle condizioni Consip, non appena
possibile [8].
Comunque, in ragione della gravità delle sanzioni previste
dal DL 95/2012, si suggerisce al Comune di segnalare
formalmente a Consip s.p.a. tale problematica affinché possa
valutare di tenerla in considerazione nella progettazione
delle nuove procedure di affidamento delle convenzioni per
la fornitura di energia elettrica.
---------------
[1] D.L. 06.07.2012, n. 95, recante: 'Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese nel settore bancario'.
[2] Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Servizio
contratti pubblici, Servizio supporto tecnico giuridico,
Supporto tecnico giuridico: risposte ai quesiti più
frequenti in materia di contratti pubblici,
Volume 1°.
Il contenuto del comma 10 in argomento viene esplicitato,
sia sul piano giurisprudenziale che su quello della prassi,
nel senso che nelle ipotesi ivi previste, tipiche e
tassative, il ricorso all'acquisizione in economia è
consentito indipendentemente dalla circostanza che i beni e
servizi da affidare siano ricompresi nella tipologia di beni
e servizi previamente individuati con proprio provvedimento
dall'amministrazione che intende procedere all'affidamento,
comunque sempre nel rispetto del limite massimo di spesa (in
giurisprudenza, cfr. TAR Marche, sez. I, 10.01.2013, n. 28,
e 03.09.2013, n. 637. Il Giudice amministrativo marchigiano
precisa che l'affidamento in economia, sulla base del
parametro normativo di cui all'art. 125, può essere
disposto, entro i limiti di importo di legge, per i servizi
individuati dalle stazioni appaltanti con regolamenti o atti
amministrativi generali, ovvero nelle fattispecie tipiche
contemplate dal secondo periodo dell'art. 125, decimo comma
del Codice dei contratti pubblici. Sul piano della prassi,
v. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segretariato
Generale, Dipartimento per le Politiche di Gestione e di
Sviluppo delle Risorse Umane, Guida pratica per i contratti
pubblici ci servizi e forniture, vol. 1°, Il mercato degli
appalti, p. 79).
[3] La base d'asta per corrispettivi inferiori da quelli
indicati nella Convenzione Consip, in ottemperanza all'art.
1, comma 7, D.L. n. 95/2012, potrebbe infatti non trovare
risposte sul libero mercato.
[4] D.L. 18.06.2007, n. 73, recante: 'Misure urgenti per
l'attuazione di disposizioni comunitarie in materia di
liberalizzazione dei mercati dell'energia', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 125/2007. In particolare, le
pubbliche amministrazioni sono clienti finali, e dunque
idonei, di energia elettrica (nel senso di poter usufruire
del mercato libero dell'energia elettrica), ai sensi
dell'art. 14, comma 5-bis, D.Lgs. 16.03.1999, n. 79,
recante: 'Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme
comuni per il mercato interno dell'energia elettrica'.
[5] Nel settore dell'energia, per facilitare un passaggio
graduale dal regime 'vincolato' al mercato libero, il
legislatore italiano con il D.L. n. 73/2007, ha dettato un
particolare regime di tutela per i clienti che non abbiano
scelto un fornitore sul mercato libero, articolato
attraverso due servizi: il 'servizio di maggior tutela',
destinato ai clienti domestici e alle imprese connesse in
bassa tensione, aventi meno di 50 dipendenti e un fatturato
annuo non superiore a 10 milioni di euro; il 'servizio di
salvaguardia' destinato ai clienti finali non domestici, che
abbiano autocertificato di non essere piccole imprese, che
siano senza fornitore di energia elettrica o che non abbiano
scelto il proprio fornitore nel libero mercato dell'energia.
Il medesimo decreto ha previsto che l'erogazione del
servizio di salvaguardia sia affidata a imprese scelte in
base ad una procedura di gara. La relativa disciplina è
stata individuata con decreto nel Ministero dello Sviluppo
Economico del 23.11.2007 e con delibera 21.12.2007 n. 337
dell'Autorità per l'energia elettrica il gas e il sistema
idrico (AEEG).
[6] Il costo del Servizio di salvaguardia varia
sensibilmente tra le diverse regioni italiane, come emerge
dagli esiti della procedura concorsuale, di cui all'art. 1,
comma 4, D.L. n. 73/2007, pubblicati da Acquirente Unico per
gli anni 2014, 2015 e 2016. (V. al
seguente indirizzo web).
In proposito, si evidenzia che non è consentito all'ente
pubblico stipulare col soggetto fornitore di energia
elettrica in regime di salvaguardia contratti in regime di
libero mercato, a condizioni più vantaggiose, senza esperire
la necessaria procedura ad evidenza pubblica. Infatti, non
vi è alcuna deroga alla normativa del Codice dei contratti
pubblici (D.Lgs. n. 163/2006) per gli enti pubblici che
intendano concludere contratti di fornitura nel mercato
libero dell'energia elettrica con imprese che esercitano il
ruolo di fornitore del servizio di salvaguardia. (Cfr.
Autorità garante della concorrenza e del mercato,
provvedimento n. 21205 del 09.06.2010).
[7] Perché, come nel caso di specie, la società
aggiudicataria della Convenzione Consip rifiuta ordinativi
di fornitura in quanto inferiori ad una determinata soglia
minima.
[8] Va segnalato, infatti, che l'art. 1, commi 7 e 8, D.L.
n. 95/2012, sanziona i costi sostenuti per l'energia
elettrica in misura superiore ai parametri Consip (12.06.2015
-
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NEWS |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stato più leggero e nuova dirigenza.
Ok della Camera alla delega Pa, ora ultimo passaggio al
Senato - Madia: passo importante ma ancora lavoro da fare.
Una macchina burocratica più snella e più agile, con meno
sedi periferiche a cominciare dalle prefetture, e ministeri
con una nuova organizzazione flessibile. Taglio e riordino
delle partecipate e riforma delle Camere di commercio.
Riduzione da 5 a 4 delle forze di polizia con l’addio al
Corpo forestale dello Stato che confluisce in un’altra forza
(probabilmente i carabinieri) e per una piccola fetta nei
Vigili del fuoco.
Un nuovo ruolo unico della dirigenza
pubblica senza più distinzioni tra prima e seconda fascia,
dalla quale restano esclusi prefetti, diplomatici, vigili
del fuco e polizia penitenziaria, ma suddiviso in tre
livelli (statale, regionale e locale). Con incarichi che non
saranno più a vita (4 anni più altri 2 di eventuale proroga)
e che diventeranno revocabili in caso di condanna da parte
della Corte dei conti. Retribuzioni e carriere maggiormente
legate al merito e possibilità di licenziamento dei
dirigenti in caso di valutazione negativa dell’ultimo
incarico ricoperto. Accesso ai concorsi senza più lo
sbarramento del voto minimo di laurea.
Sono questi i tratti
salienti del volto della delega Pa
(ddl
Atto Camera n. 3098)
che può essere ormai
considerato definitivo dopo l’ultimo restyling della Camera
dalla quale ieri è arrivato il via libera con 253 sì, 93 no
e 5 astenuti.
Il testo torna ora al Senato per l’approvazione definitiva
che il Governo conta di incassare prima della pausa estiva
dei lavori parlamentari. Subito dopo scatterà la fase
attuativa con il varo di una ventina di decreti legislativi
che il ministero della Pa punta a presentare il prossimo
autunno.
«Il lavoro è ancora tanto, ma quello di oggi è certamente un
passo importante», afferma soddisfatta dopo l’ok di
Montecitorio il ministro della Pa, Marianna Madia. Che
aggiunge: «La riforma sarà realtà solo quando la vita degli
italiani sarà più semplice. È una riforma per dare risposte
a 60 milioni di cittadini e mai a un settore solo».
Soddisfatti anche il numero due dei Democratici, Lorenzo Guerini, e il relatore alla Camera, Ernesto Carbone (Pd):
«Finalmente abbiamo un Paese più semplice». Molto critica
l’opposizione. A partire dal M5S, che è comunque riuscito a
far passare alcuni ritocchi, e da Renato Brunetta (Fi): «La
riforma è un’accozzaglia degna del peggior Governo Renzi».
Critici anche i sindacati che parlano di scatola vuota.
Quella approvata ieri dalla Camera è una riforma a vasto
raggio, che prevede anche un pacchetto di semplificazioni,
la velocizzazione della Conferenza dei sevizi, misure per
ridurre del 50% i tempi burocratici per la realizzazione
delle grandi opere e termini perentori per il
silenzio-assenso, con una scadenza rigida di 90 giorni per
le questioni legate alla tutela ambientale, dei beni
culturali e della salute. E in caso di contese tra
amministrazioni centrali sui nulla-osta sarà direttamente il
premier dopo un passaggio in Consiglio dei ministri a
prendere la decisione per sbloccare la situazione.
Sempre
Palazzo Chigi potrà far leva su maggiori poteri di controllo
sulle Agenzie fiscali e sulle nomine dei manager pubblici.
Arrivano la nuova carta della cittadinanza digitale e il
nuovo numero unico europeo per le emergenze (112). Sul
fronte del riassetto della macchina statale la riforma
prevede il trasferimento del Pubblico registro
automobilistico (Pra) al ministero delle Infrastrutture e
trasporti, cui fa capo la Motorizzazione civile, con
l’obiettivo di giungere a un’unica banca dati (a a un solo
libretto) per la circolazione e la proprietà dei veicoli.
Prevista anche la soppressione degli uffici regolatori
dell’Authority considerati “doppioni” di altri uffici
ministeriale con un livellamento degli stipendi dei
dipendenti delle Autorità garanti che dovranno seguire tutte
«criteri omogenei» di finanziamento. Tutti potranno accedere
via web a documenti e dati della Pa. E per importi inferiori
a 50 euro alcuni pagamenti verso la Pa, come multe e
bollette, potranno essere effettuati con un semplice “sms”
ricorrendo al credito telefonico.
---------------
Taglio delle partecipate nei decreti attuativi.
Municipalizzate. Per le società di servizio pubblico verrà
fissato il numero massimo di esercizi in perdita: superato
il limite scatterà la liquidazione coatta.
Nel capitolo
dedicato alle partecipate, il lavoro della Camera sulla
riforma Madia ha voluto premere con più decisione sugli
obiettivi di sfoltimento della “giungla”, avvicinandosi un
po’ ai piani originari targati Cottarelli, ma nel farlo
sembra aver in parte sovrapposto il piano delle società di
servizi pubblici locali con quello delle aziende
strumentali, rigidamente separati nel testo uscito dalla
prima lettura del Senato.
L’aspetto più significativo, almeno per quel che riguarda i
principi, è aver assegnato l’obiettivo esplicito della
“riduzione” ai decreti attuativi che il governo dovrà
scrivere dopo l’approvazione definitiva della riforma. Per
passare dalle parole ai fatti, evitando l’ennesimo episodio
di regole coraggiose sulla carta ma assenti negli effetti
concreti, i provvedimenti attuativi dovranno decidere che
cosa “ridurre” e, da questo punto di vista, la delega lascia
aperte parecchie strade.
Il testo approvato ieri si dedica infatti sia alle società
che gestiscono «servizi pubblici di interesse economico
generale», vale a dire i servizi locali come energia,
trasporti, igiene ambientale, sia alle aziende attive nei
«servizi strumentali» e nelle «funzioni amministrative»,
cioè quelle realtà legate a doppio filo alla Pubblica
amministrazione proprietaria per la quale svolgono funzioni
prima effettuate direttamente dalla Pa (per esempio le
società che gestiscono i servizi informatici degli uffici
pubblici).
Le prime rappresentano la minoranza delle partecipate
locali, cioè circa 1.200 aziende su oltre 8mila (Cottarelli
in verità ne ipotizzava 10mila, ma un censimento definitivo
non ha mai visto la luce), ma sono quelle più importanti dal
punto di vista economico e più strategiche per i servizi che
offrono alla collettività. Per queste società, i decreti
attuativi dovranno prima di tutto fissare un numero massimo
di anni di perdite, dopo di che dovrebbe scattare l’obbligo
di liquidazione.
L’obiettivo è ambizioso ma non semplice da
attuare, per almeno due ragioni: prima di tutto occorrerà
mettersi d’accordo sul concetto di «perdita», perché spesso
il rosso effettivo è nascosto da contratti di servizio
particolarmente generosi, che producono entrate extra in
grado di riportare artificiosamente i bilanci in equilibrio,
o direttamente da assegni da parte degli enti proprietari
che evitano per questa via l’emergere del “rosso”.
In
secondo luogo, occorrerà definire le modalità con cui i
servizi continueranno a essere svolti anche dopo l’eventuale
liquidazione della società, perché ad esempio una città con
l’azienda di trasporto in perdita strutturale non può certo
essere sanzionata dallo stop ai bus. La liquidazione, in
ogni caso, rappresenta l’extrema ratio, dal momento che la
stessa delega chiede al governo di disciplinare
l’applicazione di «piani di rientro» per le società in
perdita, con eventuale commissariamento quando gli obiettivi
fissati nel piano di rientro non vengono rispettati. Un
principio di delega, questo, scritto prima che si
introducesse quello sulla “liquidazione”, quindi i decreti
attuativi dovranno trovare il modo di coordinarli.
Per i servizi strumentali, dopo l’esperienza della “cura
Monti” scritta nel 2012 (privatizzazione o liquidazione
entro sei mesi) ma mai attuata perché troppo draconiana, la
delega chiede al governo di fissare criteri chiari per
capire in quali settori potranno essere mantenute le aziende
e in quali invece occorrerà riportare il servizio
all’interno della Pa propriamente detta.
Proprio qui, in
realtà, dovranno concentrarsi gli sforzi se si vuol davvero
raggiungere quell’obiettivo («da 8mila a mille» partecipate)
che è finora rimasto confinato nel mondo degli slogan. In
ogni caso, per superare uno degli ostacoli che finora hanno
frenato qualsiasi tentativo di razionalizzazione, la delega
chiede anche di introdurre strumenti di «tutela
occupazionale» per i dipendenti delle società che saranno
coinvolte nei piani di razionalizzazione, se questi
partiranno davvero (articolo Il Sole 24 Ore del
18.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Stabilimenti più sicuri. Controlli stringenti sui pericoli
di incidenti.
Nuove regole dal 29 luglio con la pubblicazione in G.U.
della Seveso III.
Nuove regole sul controllo del pericolo da incidenti
rilevanti. Dal 29 luglio l'imprenditore dovrà infatti
redigere un documento che definisca la propria politica di
prevenzione degli incidenti rilevanti, allegando allo stesso
il programma adottato per l'attuazione del sistema di
gestione della sicurezza. Tale politica sarà proporzionata
ai pericoli di incidenti rilevanti, comprende gli obiettivi
generali e i principi di azione del gestore, il ruolo e la
responsabilità degli organi direttivi, nonché l'impegno al
continuo miglioramento del controllo dei pericoli di
incidenti rilevanti, garantendo al contempo un elevato
livello di protezione della salute umana e dell'ambiente.
Questo è quanto contenuto nel dlgs 26.06.2015
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14.07.2015 n.
161) attuativo della direttiva 2012/18/Ue relativa al
controllo del pericolo di incidenti connessi con sostanze
pericolose (cosiddetta Seveso III).
Il 04.07.2012 è stata
emanata, dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell'Unione
europea, la direttiva 2012/18/Ue (cosiddetta «Seveso III»)
sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi
con sostanze pericolose. La disciplina Seveso è una
normativa volta alla prevenzione del pericolo sul territorio
e riguarda un numero limitato di stabilimenti (circa 1.000 a
livello nazionale) caratterizzati da quantitativi
significativi di sostanze e miscele pericolose.
È la norma stessa che fissa due diverse soglie quantitative
per differenziare le tipologia di stabilimenti soggetti alla
disciplina, i quantitativi limite, in funzione della
pericolosità, vanno da qualche tonnellata a migliaia di
tonnellate. L'attuazione della disciplina prevede lo
svolgimento di istruttorie sulla sicurezza dei processi e
degli stoccaggi/depositi e di ispezioni sul sistema di
gestione della sicurezza presso gli stabilimenti, la
pianificazione di emergenza, urbanistica e territoriale
nella aree limitrofe a essi al fine di mantenere un adeguato
livello di sicurezza della popolazione e dell'ambiente.
Sarà istituito, presso il ministero dell'ambiente, un
coordinamento tra i rappresentanti di tale ministero, del
dipartimento di protezione civile presso la presidenza del
consiglio dei ministri, dei ministeri dell'interno, delle
infrastrutture e trasporti, dello sviluppo economico, della
salute, delle regioni i e province autonome,
dell'associazione nazionale comuni d'Italia
(articolo ItaliaOggi del 18.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni.
Super Dia, arriva il modello.
Approvato lo schema unico semplificato per la super Dia,
cioè la Dia alternativa al permesso di costruire utilizzata
in molte regioni per nuove costruzioni, ristrutturazioni
pesanti e ristrutturazioni urbanistiche. Le regioni e i
comuni avranno 90 giorni (entro il 16.10.2015) per
adeguarsi alla modulistica standardizzata. L'adeguamento al
nuovo modello di super Dia nazionale è vincolante per le
regioni a statuto ordinario, è opzionale per quelle a
statuto speciale.
Nella seduta del 16 luglio la conferenza
unificata ha dato il via libera allo
schema unico
semplificato per la cosiddetta super Dia (modello unico
semplificato della denuncia di inizio attività alternativa
al permesso di costruire) (si veda ItaliaOggi del 10.07.2015).
La super Dia potrà essere utilizzata in luogo del permesso
di costruire in tre diversi tipi di interventi:
ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di
ristrutturazione urbanistica. In alternativa al permesso di
costruzione sarà possibile utilizzare la super Dia nel caso
di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un
immobile in tutto o in parte diverso dal precedente.
Potrà inoltre essere utilizzata nel caso in cui la
ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità
immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso.
Anche nel caso di ristrutturazione urbanistica la super Dia
potrà essere impiegata qualora gli interventi siano
disciplinati da piani attuativi, che contengano precise
disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e
costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente
dichiarata dal competente organo comunale in sede di
approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli
vigenti.
Gli interventi relativi a nuova costruzione potranno essere
realizzati con la super Dia anziché con il permesso di
costruire qualora siano in diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche
(articolo ItaliaOggi del 18.07.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti p.a., ora cambia tutto. Ruolo unico, incarichi a
tempo, valutazione, merito. La camera ha approvato il ddl Madia. I pensionati potranno
lavorare per i comuni ma gratis.
Ruolo unico, niente più incarichi a vita e carriere decise
in base al merito. Al punto che una valutazione negativa
potrà portare alla decadenza dal ruolo.
Sarà questo il
futuro dei dirigenti pubblici secondo il ddl delega di
riforma della p.a.
(ddl
Atto Camera n. 3098)
che ieri ha avuto il via libera della
camera dei deputati con 253 voti favorevoli, 93 contrari e 5
astenuti. Il testo tornerà ora in senato per l'approvazione
definitiva che il governo conta di ottenere prima della
pausa estiva, visto che l'accordo politico all'interno della
maggioranza prevede che palazzo Madama non modifichi il
testo appena votato da Montecitorio.
I dirigenti potranno
ricoprire solo incarichi di 4 anni (rinnovabili solo tramite
concorso o, senza concorso, prorogabili per ulteriori due
anni, ma una volta sola). Chi resterà disoccupato potrà
essere retrocesso a funzionario, dopo un prolungato periodo
di tempo di inattività, ma il licenziamento non potrà
scattare in assenza di una valutazione negativa da parte
dell'ente. Stop ai dirigenti condannati dalla Corte dei
conti. Grazie a un emendamento del M5s, è stata prevista la
revoca o il divieto dell'incarico (in settori sensibili ed
esposti al rischio di corruzione) per i dirigenti condannati
dalla Corte dei conti, anche in via non definitiva.
Tra le
novità introdotte alla camera, si segnala l'abolizione del
voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi
pubblici. Il governo ha fatto invece dietrofront sulla
discussa norma «valuta-atenei» che introduceva nei concorsi
pubblici il criterio del peso dell'università in cui si è
conseguita la laurea.
Esteso a 90 giorni (dagli iniziali 60)
il termine per far scattare il meccanismo del
silenzio-assenso nelle questioni che coinvolgono le p.a. in
materia di ambiente e beni culturali. Gli enti potranno far
valere il proprio potere di autotutela entro 18 mesi
dall'adozione dell'atto. Anche quando questo si sia formato
a seguito di silenzio-assenso. Inoltre, con un emendamento a
firma del deputato Pd Giovanni Sanga è stato consentito ai
pensionati di assumere incarichi pubblici e collaborazioni
purché a titolo gratuito. Se si tratta di incarichi
dirigenziali, però, la durata non potrà essere superiore a
un anno per ciascun ente.
Per la Cna il ddl costituisce «una prima, importante,
tappa per la costruzione di uno stato efficiente», anche
se il riordino delle camere di commercio «presenta luci e
ombre». Critica la Cisl secondo cui la riforma «è una
scatola vuota perché non porterà cambiamenti nell'erogazione
dei servizi ai cittadini»
(articolo ItaliaOggi del 18.07.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti Pa, arriva il ruolo unico. Stop ai condannati
dalla Corte dei conti - Salta lo sbarramento del voto di
laurea per i concorsi.
Riforma Pa. Rush di votazioni alla Camera sull’intero
articolato, oggi il via libera finale - Incarichi ai
pensionati con minori vincoli.
Riforma della
dirigenza pubblica. Delega per la stesura di un testo unico
sul pubblico impiego e riordino delle società partecipate e
dei servizi pubblici locali. Con un rush finale in notturna
l’Aula di Montecitorio s’è avviata ieri alla conclusione
delle votazioni sull’intero articolato del Ddl Pa
(ddl
Atto Camera n. 3098)
sul quale
oggi dovrebbe arrivare il via libera finale della Camera. Il
testo tornerà poi al Senato per la terza lettura che, se le
intese politiche non verranno tradite, non dovrebbe
aggiungere nuove modifiche.
Con l’approvazione dell’articolo 9, quello sulla dirigenza
pubblica, l’iter della riforma ha compiuto un altro passo
avanti importante. La delega prevede l’istituzione dei tre
ruoli unici (Stato, regioni ed enti locali) e il superamento
delle due fasce laddove esistono (ministeri, agenzie
fiscali, enti pubblici non economici, università e
presidenza del consiglio). Esclusi dal ruolo unico
diplomatici, prefetti e dirigenti delle Authority. Gli
incarichi saranno a termine (4 anni rinnovabili) e per i
dirigenti che rimarranno senza incarico potrebbe scattare la
retrocessione a funzionario dopo una procedura particolare,
mentre l’ipotesi di licenziamento è vincolata a un
valutazione negativa sull’ultimo incarico ricoperto.
La
carriera e la retribuzione verranno agganciate a una
valutazione delle performance e gli incarichi assegnati
passeranno al vaglio di tre commissioni ad hoc (Stato,
Regioni e comuni). Approvato anche un emendamento di M5S che
prevede la revoca e il divieto dell’incarico in settori
esposti a rischio corruzione ai dirigenti condannati anche
in via non definitiva dalla Corte del conti al risarcimento
del danno erariale per condotte dolose. Scompare poi la
figura dei segretari comunali ma con una norma ponte che per
tre anni consentirà ai medesimi di svolgere le stesse
funzioni pur essendo confluiti nel ruolo unico dei dirigenti
locali.
Novità anche per l’Avvocatura dello Stato, a cui è
dedicato l’articolo 9-bis inserito durante i lavori in
commissione a Montecitorio e che prevede il divieto di
affidare posizioni direttive per chi è vicino alla pensione
e incarichi sulla base del merito. Con un emendamento del
Pd, riformulato dal relatore Ernesto Carbone si allargano
poi le maglie per i pensionati nella Pa: il tetto di un anno
(senza possibilità di rinnovo) vale solo per i ruoli
direttivi. Le altre cariche e le collaborazioni sono
comunque consentite.
L’altro articolo rilevante approvato ieri è il 13, che
delega il governo ad adottare entro 18 mesi un nuovo testo
unico sul pubblico impiego, un fronte che si incrocerà nel
confronto sindacale con la riapertura del negoziato per il
rinnovo dei contratti dopo la sentenza della Consulta del
mese di giugno. Tra le novità dell’ultima ora l’emendamento
che fa saltare lo sbarramento del voto minimo di laurea per
i concorsi centralizzati che consentiranno l’accesso a tutte
le amministrazioni. Ma nel nuovo testo unico ci sarà anche
il superamento delle vecchie dotazioni organiche per
facilitare i processi di mobilità, mentre verrà rafforzato
il principio della separazione tra indirizzo
politico-amministrativo e gestione.
Infine i testi unici sulle partecipate e i servizi pubblici
locali, deleghe che daranno ordine al settore introducendo
regole più omogenee sulle nomine e indurranno ad
accorpamenti e riduzione delle società.
La maratona notturna ha fatto seguito alla già lunga seduta
di mercoledì con la quale è stato dato il via all’articolo 7
sulla riorganizzazione delle sedi periferiche dello Stato e
i nuovi vincoli su stipendi e finanziamenti delle Authority.
Sempre nella seduta di mercoledì è stato dato l’ok a un
emendamento che prevede l’istituzione del nuovo numero unico
europeo per le emergenze (112) su tutto il territorio
nazionale con centrali operative regionali. Costo
dell’operazione 58 milioni reperiti dai Fondi di riserva e
speciali del ministero dell’Economia.
Il ministero della Pa, Marianna Madia, intervenendo ieri
mattina in Aula ha tenuto a sottolineare che con la riforma
«sarà superata la figura dei segretari comunali ma non le
funzioni di legalità». Proprio i Comuni di fatto sono stati
al centro di uno degli ultimi emendamenti presentati dal
relatore, Ernesto Carbone (Pd). Il ritocco prevede che il
governo dovrà definire i nuovi “requisiti” per la scelta dei
futuri dirigenti generale dei Comuni con più di 100mila
abitanti (articolo Il Sole 24 Ore del
17.07.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
VARI: Dai notai una guida sui diritti dei cittadini.
Professioni. Tra responsabilità e obblighi.
Responsabilità
civile, penale e disciplinare, obblighi informativi e di
pubblicazione, diritti che è possibile attivare.
Ieri
mattina è stata presentata contemporaneamente in 26 città la
“Carta dei diritti del cittadino nei rapporti con il
notaio”, realizzata dal Consiglio nazionale del notariato
con dieci associazioni di consumatori: Adiconsum, Adoc,
Assoutenti, Casa del consumatore, Cittadinanzattiva,
Confconsumatori, Federconsumatori, Movimento consumatori,
Movimento difesa del cittadino e Unione nazionale
consumatori.
Una brochure e un poster serviranno a spiegare
con parole semplici quali garanzie offre il notaio in fase
di redazione dei suoi atti e quali diritti è possibile
esercitare a propria tutela. Già da ieri sono stati
distribuiti in tutti gli studi italiani.
I notai sono i primi a lanciare un’iniziativa di questo tipo
tra le professioni dell’area giuridico economica: servirà a
ridurre il gap informativo che colpisce in particolare
alcune categorie di cittadini. «La loro tutela -spiega
Albino Farina, consigliere del Notariato con delega ai
rapporti con le associazioni di consumatori- è al centro
del nostro lavoro. Abbiamo pensato che fosse il caso di
illustrare le garanzie dei notai in maniera estremamente
semplice».
Per Arrigo Roveda, presidente del Consiglio
notarile di Milano, «nonostante gli sforzi continua ad
esserci troppa poca conoscenza della complessa attività
notarile e di tutte le utilità e certezze che il cittadino
può ottenere, a costi pre-concordati, rivolgendosi a un
notaio. Il notaio è un aiuto preparato e affidabile al
fianco del cittadino in momenti importanti della sua vita».
La carta, oltre che negli studi, sarà presente anche sul
sito del Notariato. «Ci siamo chiesti -dice il presidente
del Consiglio nazionale, Maurizio D’Errico- in che modo
avremmo potuto aiutare i cittadini, modernizzando i nostri
rapporti con loro. Adesso dobbiamo andare ancora oltre,
arrivando sui loro smartphone e tablet. Dobbiamo pensare
sempre di più alla nostra funzione sociale».
Il documento si concentra soprattutto su tre capitoli. Sul
fronte delle garanzie, ricorda che il notaio si occupa di
assicurare gli interessi di tutte le parti coinvolte,
evidenziando eventuali squilibri contrattuali, accertando la
volontà e l’identità delle persone e versando tutte le
imposte. Il secondo capitolo è dedicato ai diritti. Si parte
dal diritto di ottenere un preventivo di massima. Poi, è
obbligo del notaio verificare la sussistenza di benefici
fiscali ed effettuare i controlli presso i pubblici
registri, assicurandosi che i beni siano trasferibili.
Ancora, il professionista dovrà leggere integralmente l’atto
alle parti ed effettuare la registrazione all’Agenzia delle
Entrate.
Il terzo capitolo chiave, infine, è dedicato alla
responsabilità del notaio. Quella penale, se commette dei
reati: in questo caso è coperto da un fondo di garanzia
disciplinato dalla legge. Quella civile, se il
professionista causa danni alle parti per l’inadempimento
dei suoi doveri: in questo caso c’è una polizza assicurativa
collettiva nazionale. Infine, c’è la responsabilità
disciplinare: oltre alle semplici ammende, le situazioni più
gravi sono sanzionate con il divieto di esercizio della
professione per un periodo di tempo o con la destituzione.
(articolo Il Sole 24 Ore del
17.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Figli disabili, congedo ampliato. I permessi per
l'assistenza estesi fino ai 12 anni di età.
Un messaggio Inps con le istruzioni per attuare il beneficio
introdotto dal Jobs act.
Via libera al prolungamento del congedo parentale per
assistere figli disabili. Dal 25 giugno, e per ora
limitatamente all'anno 2015, è possibile fruire del congedo
fino ai dodici anni di età del figlio (o dell'ingresso in
famiglia, in caso di adozione o affidamento), in luogo del
limite di otto anni operativo fino al 24 giugno. Il congedo
è possibile per la durata di tre anni con diritto
all'indennità del 30% della retribuzione.
Lo precisa l'Inps
nel
messaggio
16.07.2015 n. 4805 in cui illustra le novità del dlgs n. 80/2015 (attuazione del Jobs act).
Figli disabili. Le nuove istruzioni fanno il paio con quelle
fornite dal messaggio n. 4576/2015 (su ItaliaOggi del 7
luglio) sull'estensione fino a dodici anni del congedo
parentale. Stavolta l'Inps illustra le novità per i genitori
di figli disabili in situazione di gravità (ai sensi
dell'art. 3, comma 3, della legge n. 104/1992), ai quali il
T.u. maternità (dlgs n. 151/2011) riconosce il prolungamento
del congedo parentale fino alla durata di tre anni, in luogo
dei sei/sette mesi ordinari, con facoltà di fruirne entro il
compimento dell'ottavo anno del bambino. La novità
fondamentale riguarda proprio il limite temporale per la
fruizione, che è spostato in avanti (dall'ottavo) al
dodicesimo anno di vita del bambino.
Maternità e adozione. L'ampliamento dell'arco temporale
entro cui fruire del prolungamento del congedo parentale,
precisa l'Inps, trova applicazione anche per i casi di
adozione, nazionale e internazionale, e di affidamento.
Pertanto, il prolungamento può essere fruito dai genitori
adottivi e affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro
dodici anni (non più otto) dall'ingresso in famiglia. In
ogni caso, aggiunge l'Inps, resta fermo che il
prolungamento:
a) decorre dalla conclusione del periodo di normale congedo
parentale teoricamente fruibile dal genitore richiedente;
b) non può essere fruito oltre la maggiore età del minore.
In tabella sono indicate le prestazioni alternative al
prolungamento del congedo parentale, di cui godono i
genitori lavoratori dipendenti a fine di assistere i figli
con disabilità in situazione di gravità.
Indennità fino a tre anni. L'Inps, ancora, precisa che i
giorni fruiti fino al dodicesimo anno di vita del bambino (o
fino al dodicesimo anno dall'ingresso in famiglia del minore
in caso di adozione o affidamento), sia a titolo di congedo
parentale ordinario sia di prolungamento, non possono
superare in tutto tre anni con diritto, per tutto questo
periodo, all'indennità del 30% della retribuzione.
Efficacia temporale. Le novità, precisa sempre l'Inps, si
applicano in via sperimentale esclusivamente per l'anno 2015
e per le sole giornate di astensione riconosciute nello
stesso anno 2015, a partire dal 25 giugno che è la data di
entrata in vigore.
La domanda su carta.
Nelle more dell'adeguamento del sistema informatico di
presentazione online, l'Inps consente da subito la
presentazione della domanda su carta utilizzando il modello
presente su internet con il codice «SR08». La domanda
cartacea va utilizzata solo dai genitori lavoratori
dipendenti che fruiscono di periodi di prolungamento di
congedo parentale dal 25 giugno fino al 31.12.2015, per
figli in età compresa tra gli otto e i dodici anni, oppure
per minori in adozione o affidamento che si trovano tra
l'ottavo e il dodicesimo anno d'ingresso in famiglia.
Negli altri casi (figli di età inferiore agli 8 anni), la
domanda continua a essere presentata in via telematica. La
presentazione delle domande cartacee è consentita soltanto
per il mese di luglio
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Agrotecnici.
Serve un indirizzo Pec univoco.
Ad ogni impresa o professionista deve corrispondere un
indirizzo Pec univoco, nella titolarità esclusiva
dell'imprenditore o del professionista, in modo tale che la
validità delle comunicazioni e notificazioni sia certa. Non
è, pertanto, possibile utilizzare la Pec professionale,
rilasciata dal rispettivo albo o dalla rispettiva cassa di
previdenza, anche come Pec di impresa.
Questi i chiarimenti
forniti dal Centro studi degli agrotecnici e degli
agrotecnici laureati con la
circolare
15.07.2015 n. 2600 di prot..
Nel dettaglio il Centro studi ha risposto a più
quesiti degli iscritti alla categoria aventi ad oggetto la
possibilità per i professionisti di poter usare in modo
diverso la stessa Pec. Ma la risposta è stata negativa.
Sia
il Mise sia il Mingiustizia hanno, infatti, più volte
sottolineato come «se una Pec è già in uso a un
professionista, la stessa Pec non può essere utilizzata
anche per identificare una impresa iscritta alla Camera di
commercio e a nulla rileva che per l'Ente camerale quella
Pec sia conosciuta per la prima volta (i liberi
professionisti infatti, non essendo imprese, non sono
iscritti alle Camere di commercio)»
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Bilanci, proroga limitata. Al 30/9 solo per province e città
metropolitane. Rinvio tra le polemiche in Stato-città. Ok al decreto sulla
mobilità.
Slitta al 30 settembre il termine per l'approvazione del
bilancio di previsione 2015. Ma la proroga riguarda solo
province e città metropolitane, non i comuni, per i quali la
dead-line rimane fissata al 30 luglio.
Lo ha deciso ieri la
Conferenza stato-città e autonomie locali, che ha anche dato
il via libera al riparto dei 530 milioni del fondo Imu-Tasi
stanziati dal dl 78/2015.
Dalla Conferenza unificata è invece arrivato il semaforo
verde al decreto che disciplina i criteri per le procedure
di mobilità dei dipendenti delle province (si veda
ItaliaOggi del 15 luglio).
Ora la macchina organizzativa per trovare una collocazione
agli oltre 20 mila dipendenti provinciali in sovrannumero
potrà avviarsi, anche se, come è stato fatto notare dall'Upi,
con colpevole ritardo. «Apprezziamo il lavoro svolto dal
dipartimento della funzione pubblica sul decreto che ha
accolto le nostre osservazioni, ma non possiamo nasconderci
che stiamo già scontando almeno sei mesi di ritardo», ha
osservato Carlo Riva Vercellotti, vicepresidente dell'Upi.
«Adesso non ci sono altri alibi: ognuno faccia la propria
parte, senza ulteriori ritardi per tutelare i lavoratori e i
servizi ai cittadini. Dal 1° gennaio ad oggi, nonostante le
indicazioni della legge di stabilità, i costi di questo
personale sono rimasti in carico alle province, contribuendo
a causare quelle criticità che stanno mettendo a rischio gli
equilibri finanziari degli enti».
Proroga bilanci con giallo. Sui preventivi, si è verificato
un piccolo giallo. Da giorni, si sapeva che l'Upi avrebbe
presentato una richiesta di rinvio, viste le difficoltà a
quadrare i conti denunciate dagli enti di area vasta, che
anche nel corso delle audizioni sul disegno di legge di
conversione del dl 78/2015 hanno evidenziato
l'insostenibilità dei tagli previsti dall'ultima manovra e
chiesto correttivi (si veda ItaliaOggi di ieri).
A tale richiesta, si è successivamente associata anche l'Anci,
tanto che la lettera indirizzata al ministro dell'interno,
Angelino Alfano, reca in calce la firma sia di Piero Fassino
(presidente Anci) che di Achille Variati (n. 1 dell'Upi). Ma
nel testo della missiva è rimasto il riferimento solo a
province e città metropolitane e ad esso i rappresentanti
del Viminale hanno fatto riferimento.
L'incidente ha creato però molto malcontento tra i sindaci
(soprattutto quelli dei comuni andati alle urne a fine
maggio) che ormai facevano affidamento sulla proroga a
settembre. Le critiche contro il presidente dell'Anci, reo
di tutelare gli interessi solo dei grandi comuni
metropolitani, sono arrivate da un po' tutta Italia. Da
Ciampino ad Alessandria, da San Giuliano Milanese a
Montegiorgio (Fm). Anche perché la mancata proroga complica
il dedalo di scadenze contabili in calendario nelle prossime
settimane.
Un rinvio generalizzato dei bilanci avrebbe di fatto imposto
di prorogare al 30 settembre anche il termine per la
salvaguardia degli equilibri, che scade il 31 luglio. A tal
fine, è già stato presentato un emendamento al dl 78, il
quale chiarisce anche che la scadenza per la variazione
generale di assestamento 2015 è al 30 novembre, superando le
incertezze derivanti dalla formulazione dell'art. 175 del
Tuel. In tal caso, sarebbe saltata l'annunciata circolare
dello stesso Viminale finalizzata a rendere facoltativo
l'adempimento di cui all'art. 193 Tuel per gli enti che
approvano il preventivo nel mese di luglio. Ora si tratta di
capire se comunque gli equilibri verranno rimandati a
settembre per tutti o solo per gli enti di area vasta.
In ogni caso i comuni che non hanno ancora approvato il
preventivo e che ora dovranno precipitarsi a farlo entro il
30 luglio, potranno comunque usufruire dei canonici 20
giorni prima che i prefetti si attivino. Dunque il bilancio
potrà essere approvato in consiglio entro il 20 agosto a
condizione che l'assemblea sia stata convocata entro il 30
luglio. Non sarà invece possibile godere di un extra time
per l'approvazione delle delibere con le aliquote dei
tributi locali. Il termine in questo caso resta il 30 luglio
e, qualora gli enti non decidano in tempo, si applicheranno
le aliquote dell'anno scorso.
Fondo Imu-Tasi. L'altro punto importante all'ordine del
giorno della Stato-città di ieri riguardava il parere sullo
schema di decreto chiamato a distribuire i 530 milioni del
fondo Imu-Tasi previsti dall'art. 10, comma 8, del dl 78. In
base a tale disposizione, le risorse sono state suddivise in
due quote. La prima, pari a 472,5 milioni, andrà ai comuni
che, avendo portato le aliquote Imu al massimo, non hanno
margini di manovra sulla Tasi e sono penalizzati dai criteri
di riparto del fondo di solidarietà.
In pratica, si tratta
degli stessi 1800 comuni circa che lo scorso anno
ricevettero complessivamente 625 milioni, tanto che il
riparto viene disposto sulla base dei medesimi criteri;
poiché, però, la torta è inferiore, ciascun beneficiario
riceverà solo il 75,60% dell'importo 2014. Non indolori gli
effetti sulle casse delle amministrazioni interessate: a
Milano, ad esempio, il taglio è di quasi 22 milioni, a
Napoli e Torino di circa 9 milioni, a Genova di oltre 6
milioni e a Roma di 5,5 milioni (si veda la tabella).
Inoltre, le entrate 2015 non valgono ai fini del Patto di
stabilità interno. I restanti 57.5 milioni, invece, sono
destinati ai circa 2.200 comuni che hanno subito tagli
eccessivi per effetto di sovrastime dell'Imu terreni, in
base alla risultanze della verifica di gettito effettuata ai
sensi dell'art. 1, comma 9-quinquies, del dl 4/2015.
In tal caso, il contributo (comunque non rilevanti ai fini
del Patto) concorre a ridurre, sempre nella misura del
75,60%, il divario fra le risorse da assegnazioni statali
rimodulate in corrispondenza delle stime di gettito
revisionate e i gettiti realizzati da ciascun comune
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015). |
TRIBUTI: Il Comune recupera morosità con il lavoro dei debitori.
Baratto fiscale. Nel Novarese un municipio vara l’utilizzo
di una norma contenuta nello «Sblocca Italia».
Quando i tempi
si fanno duri rispunta il baratto. E al Comune di Invorio,
con lodevole senso pratico, devono aver compreso che se un
cittadino non ce la fa a pagare imposte e debiti comunali la
soluzione è quella di prestare il proprio lavoro.
Così, dopo due anni di lavorìo in consiglio comunale, ecco
una decisione che, ripescando una norma, già dimenticata,
del decreto legge Sblocca Italia, punta al sodo e permette
ai cittadini di presentare un progetto di pubblica utilità,
realizzarlo e scontare il suo impegno dal debito tributario
con il municipio.
Lo stabilisce la
deliberazione
G.C. 02.07.2015 n. 66, che in sostanza, autorizza a fornire «in
corresponsione del mancato pagamento dei tributi comunali
già scaduti, ovvero di contributi per inquilini morosi non
colpevoli, offrendo all’ente comunale, e quindi alla
comunità territoriale, una propria prestazione di pubblica
utilità, integrando il servizio già svolto direttamente dai
dipendenti e collaboratori comunali».
Il tutto viene chiamato ufficialmente «baratto
amministrativo» e parte da un progetto che i cittadini
devono presentare e che deve venir approvato. Forse alcuni
giuristi, segnatamente civilisti e amministrativisti ma
anche lavoristi, storceranno il naso (con qualche ragione)
di fronte a una soluzione così semplice: ma per fortuna,
almeno a prima vista, la legge che autorizza scelte del
genere si presenta con un testo abbastanza ampio. E, una
volta tanto, la genericità fa premio.
Secondo l’articolo 24 del Dl 133/2014 i Comuni possono
deliberare i criteri e le condizioni per la realizzazione di
interventi su progetti presentati da cittadini singoli o
associati, purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
In cambio
i Comuni possono esentare i cittadini volontari dalle
imposte, per un periodo limitato e definito. Già in passato,
quando nei Comuni la spesa pubblica non si era dilatata, i
proprietari degli appezzamenti attraversati dalle strade
municipali godevano di esenzioni se provvedevano al loro
mantenimento in buono stato. Un’abitudine perduta nel caos
dello spreco generale di soldi pubblici, di tempo e di
lavoro.
A Invorio, insomma, hanno visto giusto e, anche se con
un’interpretazione un po’ estensiva del Dl 133, ora il
Comune potrà recuperare il debito che un cittadino aveva
accumulato sui canoni non pagati di una casa popolare. Il
suo lavoro consisterà nel dare manforte a chi pulisce le
strade e durerà circa due mesi, per quattro ore al giorno. E
l’esempio potrebbe estendersi facilmente in tutta Italia,
con regolamenti tagliati su misura e in massima libertà in
ciascun comune (articolo Il Sole 24 Ore del
16.07.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
P.a., annullabili d'ufficio anche i provvedimenti frutto di
silenzio-assenso.
Annullabili d'ufficio anche i provvedimenti amministrativi
frutto di silenzio-assenso dichiarati illegittimi da
un'amministrazione pubblica: potranno, infatti, essere
revocati «entro un tempo ragionevole» o, comunque, «non
superiore a diciotto mesi» dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
«vantaggi economici».
È una delle novità scaturite ieri
dall'esame, nell'aula della camera, del disegno di legge del
ministro Marianna Madia in materia di riorganizzazione della
P.a.
(ddl
Atto Camera n. 3098).
Una regola, quella del silenzio-assenso, che aveva già
sollevato una serie di polemiche quando, in una precedente
seduta dell'assemblea di Montecitorio, era stato approvato
un emendamento che fissa a 90 giorni il limite temporale
massimo dopo cui si aziona il medesimo meccanismo tra
amministrazioni coinvolte in questioni ambientali, o
culturali; la critica più aspra è arrivata ieri dal
sottosegretario ai beni culturali con delega al paesaggio,
Ilaria Borletti Buitoni, che ha parlato di «uno strumento
primitivo e assolutamente inefficace per governare la tutela
del patrimonio culturale e ambientale, ambito complesso che
necessita di un'attenzione e di risposte diverse da quelle
previste» dal provvedimento su cui si stanno esprimendo i
deputati. Ma per la titolare del dicastero della funzione
pubblica «il silenzio-assenso per le amministrazioni non
vuol dire cemento sulle coste, ma tempi certi per i sì, e
per i no ai cittadini».
Rilevante, poi, il via libera al passaggio delle funzioni,
dei mezzi e delle risorse contro gli incendi boschivi dal
Corpo forestale dello stato (Cfs) ai Vigili del fuoco,
grazie a un emendamento del relatore, Francesco Carbone
(Pd); dopo le dure contestazioni in assemblea da parte delle
opposizioni (soprattutto M5s e Sel), Madia ha respinto al
mittente le «speculazioni», affermando che «il governo
riconosce il valore dell'utilità e delle funzioni del Cfs»,
e che «l'intervento riformatore che ci accingiamo a varare
vuole rafforzare quelle funzioni, rispettando le
professionalità e valorizzando le specializzazioni in
materia di tutela dell'ambiente. Ma qui il dato oggettivo è
che avere meno catene di comando significa avere più risorse
per fare i controlli», ha sottolineato il ministro.
Cura dimagrante per gli emolumenti dei membri delle
Autorità, visto che una correzione del centrosinistra ha
aperto la strada al livellamento degli stipendi dei
dipendenti degli organismi e al loro stesso finanziamento;
ma a essere messe a dieta sono pure le Authority, poiché un
altro emendamento del relatore varato ha stabilito la
possibilità di un'eventuale soppressione, se le loro
funzioni si sovrapponessero a quelle degli uffici
ministeriali.
Affermando, infine, il principio della trasparenza nella
p.a. s'è acceso il semaforo verde sul ritocco, secondo cui
le amministrazioni dovranno pubblicare sui siti
istituzionali non solo lo stato dei pagamenti di servizi e
forniture prestati da aziende esterne, bensì pure quelli
riferiti alle «prestazioni professionali». E ciò
dovrà avvenire «periodicamente»
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Stop a varianti in corso d'opera. Premio a chi non le chiede.
Introdurre il divieto assoluto di varianti in corso d'opera
e dare un premio alle imprese che non le chiedono; abrogare
la legge obiettivo; appaltare i lavori sul più dettagliato
livello progettuale, regolare l'incentivo del due per cento
previsto per i tecnici della pubblica amministrazione,
ridurre gli arbitrati liberi a favore degli arbitrati
amministrati; contenere fortemente il numero delle stazioni
appaltanti.
Sono queste alcune delle indicazioni che ha
fornito ieri il presidente dell'Autorità nazionale
anticorruzione, Raffaele Cantone, nell'audizione presso la
commissione ambiente della camera sul disegno di legge
delega sugli appalti pubblici già approvato al senato.
Cantone, dopo avere richiamato i passaggi più rilevanti del
testo all'esame della commissione, di cui ha apprezzato i
contenuti elaborati nel primo passaggio parlamentare ha
preso in esame la disciplina delle grandi infrastrutture,
affermando che occorre abrogare la legge obiettivo perché il
codice deve essere l'unico testo normativo da applicare, con
limitatissime eccezioni legate a urgenze di protezione
civile.
Sul general contractor, che è la tipologia di
contratto più problematica nelle grandi opere il presidente Anac ha formulato la proposta «in qualche modo
provocatoria», di stabilire il divieto assoluto delle
varianti in corso d'opera, e ha proposto di dare un premio
agli imprenditori che non chiedono varianti, per creare
meccanismi incentivanti.
Non c'è stato affidamento a
contraente generale senza varianti e aumenti costi. Sul tema
dell'accesso al mercato delle piccole e medie imprese,
nonostante le direttive comunitarie, qualcuno afferma che il
ddl dedichi poca attenzione alle pmi; a suo avviso il
presidente Cantone ha dichiarato che il tessuto connettivo
del settore edile è caratterizzato da pmi, quindi le
direttive comunitarie non è detto che vadano adottate così
come sono proposte ma andrebbero adeguate tenendo conto
della situazione italiana.
Sulle commissioni di gara, il presidente ha proposto
commissioni da gara a estrazione, prevedendo un meccanismo
di soglia e di tipologia di appalto, non contemplato nel
testo del senato. Sulla progettazione, il presidente ha
dichiarato che il testo su questa materia «ha fatto
grandi passi in avanti, perché prova a inserire l'idea che
l'opera deve essere messa in gara quanto più è avanzato il
livello di progettazione».
Cantone ha poi posto il tema dell'incentivo del 2% che,
ancorché non condivisibile, «ha però una sua ragion
d'essere perché stimola alcune professionalità interne alle
stazioni appaltanti, ma il codice potrebbe fissare dei tetti
(sia quantitativi, sia collegato agli uffici e alle
retribuzioni e una sua razionalizzazione, perché spesso
l'incentivo viene spalmato a pioggia», il presidente è a
favore di poche stazioni appaltanti e qualificate.
Sul contenzioso, partendo dall'esperienza dell'Autorità
andrebbero ridotti gli arbitrati liberi (il terzo arbitro
viene scelto dalle parti), adottando la regola che gli
arbitrati siano sempre quelli che fanno riferimento al
modello degli arbitrati amministrati (gestiti dalla camera
arbitrale dell'Autorità), prevedendo inoltre che siano
soggetti con qualifica di pubblico ufficiale
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, le regole sulla mobilità.
Dipendenti in sovrannumero verso regioni, comuni e Ssn.
Il governo ha presentato la bozza di decreto. I sindacati: a
rischio salari e competenze.
La mobilità dei dipendenti delle province scalda i motori.
Il governo ha presentato ieri ai sindacati la
bozza di
decreto attuativo della legge di stabilità 2015 (commi 423,
424 e 425 della legge 190/2014) fissando un primo cronoprogramma che, dopo mesi di ritardi, soprattutto a
causa dell'inerzia delle regioni nel legiferare sul destino
dei dipendenti degli enti di area vasta, dovrebbe finalmente
far partire le procedure di ricollocamento degli oltre 20
mila lavoratori provinciali in sovrannumero.
Il condizionale
è però d'obbligo perché dai sindacati è arrivata una netta
chiusura verso un testo che secondo Fp-Cgil Cisl-Fp e
Uil-Fpl mette a rischio il salario accessorio e non ha
«nessuna attenzione alle funzioni e nessun rispetto per le
competenze». Diversi, ovviamente, i toni dell'esecutivo
secondo cui il decreto assicura «certezze ai lavoratori e
continuità nei servizi» (così il sottosegretario alla
funzione pubblica, Angelo Rughetti).
La bozza conferma le destinazioni dei dipendenti
provinciali, con qualche novità. Si prevede che i
soprannumerari siano ricollocati prioritariamente presso
regioni e comuni; si conferma che tra le amministrazioni
dello stato il principale ricettore dei dipendenti
provinciali sarà il ministero della giustizia. Novità
assoluta, invece, è l'inclusione espressa, tra le
amministrazioni verso le quali i soprannumerari potranno
andare in mobilità, degli enti del servizio sanitario, che
invece la circolare interministeriale funzione
pubblica-affari regionali n. 1/2015 aveva in sostanza
escluso, limitando fortemente le possibilità di
ricollocazione.
Il cronoprogramma indicata dalla bozza di decreto riguarderà
anche il personale dei corpi di polizia provinciale.
Entro 20 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, le province dovranno inserire nel portale «Mobilità.gov»
gli elenchi dei dipendenti in sovrannumero. Entro 40 giorni
dalla pubblicazione, regioni, enti locali, inclusi gli enti
pubblici non economici e gli enti del Ssn, inseriranno i
posti disponibili, in modo che entro 60 giorni, sempre
decorrenti dalla pubblicazione in G.U., palazzo Vidoni possa
rendere pubbliche le dotazioni disponibili.
A questo punto i
dipendenti in sovrannumero (compreso il personale di polizia
provinciale e i dipendenti della Croce rossa italiana)
avranno 30 giorni di tempo per presentare le istanze di
mobilità in relazione all'offerta di posti, compilando il
modulo disponibile sul portale «Mobilità.gov». Al fine di
favorire l'incontro tra domanda e offerta, lo schema di
decreto prevede una serie di criteri. I dipendenti in
comando o fuori ruolo verranno prioritariamente assegnati
alle amministrazioni in cui prestano servizio.
Analogamente,
la polizia provinciale verrà prioritariamente destinata ai
comuni con funzione di polizia locale, mentre al ministero
delle infrastrutture andranno coloro che nelle province si
occupavano della gestione degli albi provinciali degli
autotrasportatori. A parte questi criteri particolari,
regola generale sarà l'assegnazione dei dipendenti in
sovrannumero alle regioni e agli enti locali, inclusi gli
enti pubblici non economici e quelli del Ssn.
Per i
lavoratori della Croce rossa, la mobilità sarà verso le
amministrazioni statali con priorità per il ministero della
giustizia. Sul piano individuale sarà favorito chi gode dei
benefici della legge 104/1992 e chi ha figli fino a tre anni
di età.
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Assunzioni sbloccate negli enti di area vasta.
Sblocco delle assunzioni a tempo determinato nelle province
e via libera ai comuni che in estate hanno la necessità di
assumere lavoratori stagionali (in primis vigili urbani)
indipendentemente dal completamento delle procedure di
mobilità che interesseranno i dipendenti della polizia
provinciale. Faranno rotta sulle esigenze delle province e
delle città metropolitane, ossia le grandi assenti del
decreto legge enti locali, gli emendamenti che governo e
relatori presenteranno (forse già tra oggi e domani) al dl
78/2015.
Il provvedimento dovrebbe imbarcare il contenuto di
altri due decreti legge attualmente all'esame del senato: il
dl su Ilva e Fincantieri (che a sua volta dovrebbe essere
diviso in due per confluire in parte nel dl sulle procedure
fallimentari e in parte nel dl enti territoriali) e il
decreto «Strade sicure». La decisione arriverà oggi dalla
conferenza dei capigruppo, anche se appare scontata visto
che sono già stati depositati emendamenti governativi in
questo senso.
E sempre tra oggi e domani l'esecutivo potrebbe presentare
la propria ricetta per risolvere la grana dei dirigenti
dell'Agenzia delle entrate dichiarati illegittimi dalla
sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale. Sul punto
sono stati presentati tre emendamenti dai senatori (due da
parte di Giorgio Santini e uno da Paolo Naccarato, si veda
ItaliaOggi del 9 luglio) che puntano ad accelerare i
concorsi in modo da sanare l'attuale situazione di
illegittimità in cui versano i funzionari delegati. Il
governo dovrà scegliere quale proposta di modifica avallare
per il voto in commissione o, in alternativa, proporre una
soluzione alternativa
(articolo ItaliaOggi del 15.07.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Controlli elusi, scatta la reclusione.
La punizione per chi intralcia o evita le verifiche può
variare da sei mesi a tre anni.
Sicurezza. La legge 68/2015 contro i delitti ambientali
punisce chi ostacola l’attività di vigilanza in materia di
lavoro.
Può scattare
la reclusione per chi ostacola l’attività di vigilanza in
materia di sicurezza e igiene del lavoro. La legge 68/2015,
entrata in vigore il 29 maggio, ha introdotto infatti una
nuova ipotesi di reato con relativa pena.
Il legislatore, a seguito delle sentenze assolutorie nel
processo Eternit, nel dettare articolate disposizioni in
materia di delitti contro l’ambiente, con l’articolo 1 della
legge 68/2015 ha introdotto, tra l’altro, nel nostro
ordinamento l’articolo 452-septies del codice penale, in
base al quale «salvo che il fatto costituisca più grave
reato, chiunque, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o
mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisca,
intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo
ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne
compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei
mesi a tre anni».
La nuova sanzione non opera da sola ma fa da trascinamento
perché ad essa, in caso di condanna, consegue la confisca
delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto del
reato o che servirono a commetterlo. Non finisce qui, perché
la condanna prevista dall’articolo 452-septies comporta
l’applicazione anche dell’articolo 32-quater del codice
penale il quale prevede che tale reato commesso in danno o
vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in
relazione ad essa comporta l’incapacità di contrattare con
la pubblica amministrazione.
A tali forme sanzionatorie si accompagna, tuttavia, una
procedura attenuante (articolo 452-decies) che opera in caso
di ravvedimento operoso nei confronti di chi si adopera per
evitare che l’attività delittuosa venga portata a ulteriori
conseguenze o mediante la messa in sicurezza o al ripristino
dello stato dei luoghi.
Tuttavia si ritiene che il nuovo quadro sanzionatorio
introdotto dalla legge 68/2015 non possa trovare
applicazione nella normale e ordinaria attività di vigilanza
di prevenzione nei luoghi di lavoro, per quanto concerna la
sicurezza e l’igiene del lavoro, salvo per l’ipotesi
prevista dall’articolo 437 del codice penale (omissione
dolosa delle misure di sicurezza) e salvo che non ci sia un
infortunio mortale, per cui si procede anche ai sensi
dell’articolo 589 del codice penale.
Infatti tutte le violazioni riguardanti la prevenzione
infortuni (come quelle indicate nel Dlgs 81/2008, testo
unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro),
rientrano nella fattispecie dei reati puniti con l’arresto
e/o l’ammenda e, per i casi più gravi, a carico
dell’imprenditore potrà essere adottata la sospensione
dell’attività imprenditoriale nonché il provvedimento
interdittivo alla contrattazione con le pubbliche
amministrazioni e alla partecipazione a gare pubbliche
(articolo 14 del testo unico).
Pertanto l’applicazione del nuovo articolo 452-septies del
codice penale, che verte esclusivamente sul comportamento
doloso di ostacolo all’attività di vigilanza mediante
l’alterazione artificiosa dello stato dei luoghi e degli
impianti sembra paradossale, dal momento che il soggetto
rischia almeno sei mesi di reclusione oltre le varie pene
accessorie di cui si è fatto cenno, per sottrarsi a una
eventuale pena per un reato a cui corrisponde una
contravvenzione che il più delle volte può essere definita
in sede amministrativa a seguito di prescrizione
obbligatoria ai sensi del Dlgs 758/1994.
Procedura che, ai sensi della legge 68/2015 (articolo 1,
comma 9) viene estesa alle contravvenzioni previste e punite
dal Dlgs 152/2006, per cui ora anche per i reati ambientali
di minore allarme sociale rispetto a quelli introdotti dalla
legge 68/2015, sarà possibile definire le eventuali
contravvenzioni mediante l’adempimento alla prescrizione e
al pagamento dell’ammenda nella misura pari a un quarto del
massimo dell’importo stabilito per la violazione commessa (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ferie lunghe a fronte di decadenze corte.
Tar e CdS. La sospensione estiva.
La durata
della sospensione feriale dei termini nei processi davanti
ai Tar e al Consiglio di Stato è regolata con una
disposizione specifica contenuta nel Codice del processo
amministrativo varato nel 2010: l’articolo 54, comma 2, che
la prevede dal 01.08. al 15 settembre di ogni anno.
In
precedenza la stessa sospensione, della medesima durata, era
regolata dall’articolo 1 della legge 742/1969, disposizione
espressamente riferita alle giurisdizioni ordinarie ed
amministrative. Quest’ultima disposizione nel corso del 2014
è stata modificata dal Dl 132/2014, convertito dalla legge
162/2014.
La novella ha ristretto il periodo di sospensione di 15
giorni, limitandolo al mese di agosto. In tale occasione il
legislatore ha operato la modifica incidendo solo sulle date
e quindi senza occuparsi dell’ambito oggettivo di
applicazione (cioè lasciando nel testo letterale della norma
modificata il riferimento alle giurisdizioni
amministrative).
Questa dimenticanza -o piuttosto
imperfezione redazionale- ha fatto dire a qualche
commentatore che la norma del 2014 avrebbe tacitamente
abrogato, in questa parte, il regime posto dal Codice del
processo amministrativo. Si tratta peraltro di una posizione
che non tiene conto di alcuni elementi formali e di un
importante argomento sostanziale.
È pacifico l’effetto abrogativo che l’articolo 54, comma 2,
del Codice ha operato sulla disposizione del 1969, nella
parte in cui estendeva ai giudizi avanti ai Tar e al
Consiglio di Stato il regime della sospensione feriale dei
termini vigente per le giurisdizioni ordinarie. Questa
abrogazione infatti risponde al principio posto
dall’articolo 15 delle preleggi, che dispone questo effetto
nel caso in cui la nuova legge regoli l’intera materia già
regolata dalla legge anteriore.
Ne consegue che, a partire
dal luglio 2010 e cioè dal momento in cui i processi
amministrativi hanno trovato una nuova e specifica
disciplina organica, si è avuta un’autonoma disciplina, in
questo specifico settore, anche della sospensione dei
termini. Il che fa sì che non si possa oggi parlare, con
fondamento, di una sorta di abrogazione di una norma abrogatrice, evento che del resto la giurisprudenza
pacificamente esclude se non nei caso in cui sia
espressamente disposta dal legislatore.
Resta poi l’argomento sostanziale che giustifica un
trattamento diverso e più favorevole, per questo aspetto,
per il cittadino che deve rivolgersi ai giudici
amministravi, in quanto in questo campo vige la regola della
decadenza del diritto d’azione nel ben più ristretto termine
di 60 giorni (in alcune materie ridotto a 30 giorni),
rispetto a margini temporali più lunghi previsti per la
prescrizione nelle materia di competenza del giudice civile
(tre, cinque o dieci anni).
In altri termini: l’interruzione feriale breve, che il
legislatore ha voluto disporre nel civile, se fosse stata
estesa all’amministrativo (il che peraltro non è per le
ragioni dette) avrebbe rischiato di compromettere il diritto
di difesa nei confronti degli atti della pubblica
amministrazione. La soluzione che qui si sostiene è quindi
anche quella che appare maggiormente conforme ai principi
costituzionali (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2015 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI
LOCALI: Gestioni associate, altro che riforma L'Anci chiede ancora
proroghe, poi si vedrà.
Sì alle gestioni associate. Ma con una nuova normativa e non
prima del 2017.
È questa la richiesta contenuta nel
Manifesto approvato XV Conferenza nazionale dei piccoli
comuni, che si è svolta la settimana scorsa al Teatro
Massimo di Cagliari. È dal 2010 che la legge impone ai mini
enti di associarsi (tramite unioni o convenzioni) per
svolgere le proprie funzioni fondamentali (come istruzione,
trasporti, raccolta rifiuti ecc.), ma finora i risultati
sono pressoché nulli, come certificato anche dalla Corte dei
conti. Anche perché, nel frattempo, sono intervenute
svariate proroghe.
L'ultimo rinvio è stato disposto all'inizio dell'anno (dal
dl 192/2015) e ha spostato la dead-line al prossimo 31
dicembre. Questo tempo, secondo quanto scritto di proprio
pugno dal governo nella relazione di accompagnamento allo
stesso dl 192, sarebbe dovuto servire per riscrivere la
normativa che regola la materia, ma finora non si è visto
nulla.
Come uscirne? In prima battuta, naturalmente, con una nuova
proroga, da inserire già nella legge di conversione del dl
78/2015. E poi con una disciplina nuova di zecca, che
preveda la «definizione di ambiti adeguati e omogenei» entro
i quali realizzare «processi di riorganizzazione
territoriale per rafforzare la rappresentanza degli enti, la
capacità progettuale, quella dell'offerta dei servizi ai
cittadini e alle imprese».
In tali ambiti, dovrebbe essere prevista la gestione
associata di non meno di tre funzioni fondamentali, contro
le dieci attualmente interessate dall'obbligo.
A ridisegnare la mappa della pa locale dovrebbe essere un
«Comitato permanente per il coordinamento dei processi di
riorganizzazione territoriale del sistema dei comuni»,
chiamato a chiudere i lavori entro 12 mesi
dall'insediamento. Considerato che, come dichiarato a
Cagliari dal presidente dell'Anci, Piero Fassino, se ne
parlerà nella prossima legge di stabilità, è chiaro che per
vedere qualche risultato dovremo aspettare il 2017. Insomma,
chi si aspettava un'accelerazione, anche in un'ottica di
spending review, è destinato a rimanere nuovamente deluso.
Inoltre, secondo il Manifesto, dovrebbero essere cancellate
le soglie demografiche minime dei nuovi soggetti (che oggi
sono fissate a 10.000 abitanti in pianura e a 3.000 in
montagna) e che secondo i sindaci rappresentano «un
ostacolo alla costruzione di processi associativi funzionali
ed efficaci»
(articolo ItaliaOggi del 14.07.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aua con declinazione locale. Vale la versione
redatta da regioni e province autonome. Dal 30.06.2015 nuova
modulistica standard per l'autorizzazione unica ambientale.
Dal 30.06.2015 le istanze di rilascio, rinnovo e modifica
dell'autorizzazione unica ambientale devono essere
presentate utilizzando il nuovo modello predisposto dalle
amministrazioni locali sulla base di quello previsto dal
Dpcm 08.05.2015.
Con tale regolamento (pubblicato sulla G.U. del 30.06.2015, n. 149) il governo ha, infatti, definito il modello
semplificato e unificato per l'attivazione della nota Aua,
l'istituto che dal 2013 sostituisce (per le imprese non
soggette ad Aia o Via) i titoli abilitativi previsti dal dpr
59/2013 in materia di aria, acqua, rifiuti, rumore ed
emissioni in atmosfera, più gli eventuali altri titoli
ambientali aggiunti da regioni e province autonome.
Il nuovo modello unificato.
La nuova modulistica nazionale,
adottata in attuazione dell'articolo 10 del citato dpr
59/2013, è composta da: un modello di domanda
(identificativo di gestore, referente Aua, ente/persona
giuridica sottesa, impianto/attività da abilitare; titoli
richiesti ed eventuali autorizzazioni già ottenute); schede
relative ai singoli titoli abilitativi richiesti (da
allegare, compilati, all'istanza); elenco dell'ulteriore e
specifica documentazione che deve accompagnare le citate
schede (con facsimile delle relazioni tecniche da
presentare).
Ove l'impianto da autorizzare rientri tra
quelli oggetto di verifica preliminare di assoggettabilità a
valutazione di impatto ambientale ex dlgs 152/2006, dovranno
altresì essere indicati gli estremi del provvedimento che
all'esito di detto «screening» hanno sancito l'esclusione
dalla Via.
Tra le informazioni richieste appaiono anche le
certificazioni ambientali volontarie delle quali si è in
possesso (tra le quali potranno dunque essere dichiarate
quelle Emas o Ecolabel). In sede di rinnovo dell'Aua,
qualora siano immutate le condizioni di esercizio alla base
dei precedenti titoli, il modello d'istanza contempla (in
ossequio alla previsione dell'articolo 5, dpr 59/2013) la
possibilità di autocertificare l'invarianza della situazione
con l'indicazione delle abilitazione già detenute, evitando
quindi l'onere di dover presentare le specifiche
summenzionate schede.
Sebbene il nuovo modello unificato
introduca una standardizzazione a livello nazionale delle
informazioni richieste, la versione cui fare operativamente
riferimento all'atto della presentazione dell'istanza Aua è,
come anticipato, quella declinata in base alla specifica
normativa locale da parte della regione o della provincia
autonoma nel cui territorio ha sede l'azienda interessata
(le quali potranno integrarla anche con gli ulteriori titoli
abilitativi rilasciabili).
I titoli sostituiti.
L'Aua sostituisce sette titoli
abilitativi previsti dall'articolo 3, comma 1, del dlgs
59/2013 più quelli aggiunti dalle singole regioni e province
autonome.
Rientrano tra i primi (ora declinati nelle schede
allegate al nuovo modello ex Dpcm 08.05.2015):
l'autorizzazione agli scarichi di acque reflue ex dlgs
152/2006; la comunicazione preventiva per utilizzo
agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione
di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del
settore ex dlgs 152/2006; l'autorizzazione alle emissioni in
atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex articolo 269,
dlgs 152/2006; l'«autorizzazione generale» per le emissioni
scarsamente rilevanti in aria ex articolo 272, dlgs
152/2006; la comunicazione o nulla osta alle emissioni
sonore ex legge 447/1995 da parte degli impianti produttivi,
sportivi, ricreativi commerciali; autorizzazione per
utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura ex dlgs
99/1992; la comunicazione per smaltimento e/o recupero
rifiuti in procedura semplificata ex dlgs 152/2006.
Soggetti interessati.
A essere interessati dall'Aua sono le
tre categorie di soggetti contemplate dal dpr 59/2013,
ossia: piccole e medie imprese rientranti nei parametri
disegnati dal dm 18.04.2005; imprese non soggette ad
Autorizzazione integrata ambientale (c.d. «Aia»); imprese
obbligate a valutazione di impatto ambientale solo
«parziale» (ossia da integrare con altri e necessari atti autorizzatori).
Con circolare 07.11.2013 n. 49801, lo
ricordiamo, il Minambiente ha già chiarito che in base a
tale disposto normativo l'Aua interessi ogni impresa che,
indifferentemente dalle dimensioni, non soggiaccia agli
speciali regimi Aia o Via totale.
Ancora, in relazione alla
necessità o meno di ricorrere all'Aua, lo stesso Dicastero
ha precisato come, alla luce delle deroghe espressamente
previste dagli articoli 3 e 7 del dpr 59/2013, il ricorso
allo strumento dell'autorizzazione unica sia meramente
facoltativo per gli impianti interessati esclusivamente a
«comunicazione» e/o ad «autorizzazione generale alle
emissioni» e per quelli che intendano unicamente aderire
alla citata «autorizzazione generale alle emissioni».
Indirizzo e tempistica istanze.
Domande di rilascio e
rinnovo dell'Aua devono essere indirizzate direttamente al
Suap territoriale di riferimento (lo Sportello unico delle
attività produttive di competenza comunale) che provvede poi
al rilascio del titolo unico previo concerto con le relative
Autorità competenti (individuate dalla legislazione
regionale).
Queste le tempistiche: per il rilascio, domanda
entro la scadenza (indicata dalla relativa normativa di
riferimento) del primo dei titoli abilitativi rientranti
nell'«Aua» e comunque prima di effettuare modifiche
sostanziali dell'attività o degli impianti; per rinnovo,
domanda almeno sei mesi prima della scadenza della
precedente Aua (che ha validità di quindici anni, salve le
comunicazioni intermedie da effettuare secondo le specifiche
attività poste in essere, come ricordato anche nel nuovo
modello unificato); per modifiche ad attività o impianti,
presentazione di preventiva nuova domanda Aua (secondo
l'opzione prevista dalla nuova modulistica) o comunicazione
a seconda che le variazioni siano da considerarsi,
rispettivamente, sostanziali o meno.
Sono modifiche
sostanziali quelle definite tali dalla specifica normativa
(anche locale) di riferimento e quelle eventualmente
reputate tali dallo stesso soggetto instante (che può, a
monte, optare direttamente per la presentazione di nuova
domanda Aua).
La comunicazione per le mere modifiche non
sostanziali non legittima tuttavia l'immediata esecuzione
delle stesse, essendo dal dpr 59/2013 condizionate al
rispetto di un termine temporale: se la p.a. ritiene che le
modifiche comunicate siano definirsi sostanziali, può
infatti entro 30 giorni ordinare al gestore di presentare
nuova domanda di Aua, subordinando la loro esecuzione al
rilascio dell'autorizzazione; solo se la p.a. non fornisce
alcuna risposta entro 60 giorni dalla comunicazione è invece
legittimo procedere alle variazioni in parola
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, responsabilità estesa. Ampliate le
nozioni di produttore e deposito temporaneo. Le modifiche
del dl 92/2015. Obbligato al controllo chi affida a terzi la
generazione.
Responsabili per la corretta gestione dei rifiuti sono anche
i soggetti che, pur non producendoli materialmente, omettono
dovuti controlli su terzi cui hanno affidato, nel proprio
interesse, attività che ne comportano la generazione.
A estendere la definizione di «produttore di rifiuti» recata
dal Codice ambientale alle persone cui la generazione di
rifiuti sia anche solo «giuridicamente riferibile» è il
decreto legge 04.07.2015 n. 92 che parallelamente amplia
anche il raggio d'azione del connesso istituto del «deposito
temporaneo di rifiuti» previsto dal medesimo dlgs 152/2006.
L'estesa nozione di produttore di rifiuti.
Il dl 92/2015 (pubblicato sulla G.U. del 04.07.2015 e in
vigore dalla stessa data) rimodula la definizione di
produttore iniziale di rifiuti recata dalla prima parte
della lettera f), comma 1, articolo 183, del dlgs 152/2006,
specificando come debba intendersi tale, oltre al «soggetto
la cui attività produce rifiuti» anche quello cui
(testualmente) sia «giuridicamente riferibile detta
produzione».
Il provvedimento pare dunque allineare la
definizione del dlgs 152/2006 all'indirizzo
giurisprudenziale che (già sotto il precedente dlgs 22/1997
e ora sub Codice ambientale) ritiene produttore di rifiuti
non solo il soggetto che materialmente li genera, ma anche
la persona (fisica o giuridica) nel cui interesse tale
attività di generazione viene effettuata (come evincibile
dalla sentenza della Corte di cassazione 21.01.2000 n.
4957, da ultimo ripresa nella sentenza 10 febbraio
5916/2015).
La formalizzazione legislativa della figura del
«produttore giuridico» di rifiuti appare promettere come
principali conseguenze: il secco riconoscimento della
qualifica di produttore di rifiuti in capo al soggetto che
contrattualmente ne affidi la materiale generazione ad altri
come normalmente avviene, per esempio, nella commissione di
lavori edili; in stretta conseguenza, la responsabilità
dello stesso soggetto per l'eventuale illecita gestione dei
residui condotta dai terzi affidatari nel caso dell'omesso
ma esigibile controllo sulla loro attività.
Come già
evidenziato dalla stessa giurisprudenza, una posizione di
garanzia con obbligo di attivarsi per impedire possibili
illeciti di terzi (ex articolo 40 del Codice penale) è
infatti rinvenibile in capo al produttore di rifiuti (oggi
sia materiale che giuridico) ai sensi della disciplina sui
rifiuti, e in termini di onere non trasferibile
contrattualmente.
Già alla luce del citato dlgs 22/1997 e
con sostanziale continuità normativa negli articoli 178 e
188 del dlgs 152/2006, la disciplina di settore,
rispettivamente, sancisce infatti (in linea generale) la
«responsabilizzazione e ( ) cooperazione di tutti i
soggetti» coinvolti nella produzione e gestione dei rifiuti
e (in linea particolare) prescrive gli oneri di produttori e
detentori, ai quali impone di affidare la gestione dei
rifiuti a soggetti autorizzati e (in relazione a particolari
fattispecie) di effettuare un riscontro documentale
sull'effettivo buon fine del loro trasporto.
Sebbene di
primaria rilevanza nell'ambito dei rapporti d'impresa
(fondati su contratti di appalto), la nuova definizione
legale di «produttore giuridico di rifiuti» (con i connessi
obblighi di vigilanza e controllo) appare potenzialmente
coinvolgere anche l'agire di altri soggetti, prospettandosi
pure per il mero proprietario di un'immobile abitativo che
vorrà procedere a una ristrutturazione (quale potenziale
produttore, appunto, «giuridico» di rifiuti) l'onere di
prestare maggiore attenzione nella scelta del soggetto
affidatario dei lavori che effettivamente (quale produttore
«materiale») genererà fisicamente i residui e si occuperà
della loro gestione.
L'allargato deposito temporaneo di rifiuti.
Con un duplice
intervento sul Codice ambientale il legislatore del dl
92/2015 ha altresì rivisitato, allargandone il campo
applicativo, anche la nozione nazionale di deposito
temporaneo di rifiuti, attività (lo ricordiamo) propria del
produttore di rifiuti e conducibile ex articolo 208 del dlgs
152/2006 senza necessità di preventiva autorizzazione a
condizione che vengano rispettate precise prescrizioni
dettate dallo stesso Codice ambientale.
In primo luogo,
viene trasposta nel dlgs 152/2006 la nozione di «deposito
preliminare alla raccolta», definizione mutata dalla
direttiva 2008/98/Ce che lo identifica nell'attività
(rientrante in quella più generale della raccolta) di
«deposito in attesa della raccolta in impianti in cui i
rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il
successivo trasporto in un impianto di recupero o
smaltimento» (indicandolo, in via alternativa, con il
termine «deposito temporaneo» e distinguendolo anche dal
punto di vista autorizzativo dal deposito di rifiuti in
attesa del trattamento).
Suddetta nozione Ue di «deposito
preliminare alla raccolta» (peraltro già inserita
nell'Ordinamento nazionale tramite il dlgs 49/2014 in
materia di rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche) è pedissequamente alla logica della direttiva
2008/98/Ce trasposta dal dl 92/2015 in due punti del Codice
ambientale (con l'evidente fine di adattare quest'ultimo al
dettato comunitario), ossia: nella lettera o), comma 1,
articolo 183, del dlgs 152/2006 (recante la definizione di
«raccolta» di rifiuti); nella successiva lettera bb) dello
stesso comma (recante la definizione nazionale di «deposito
temporaneo»).
In secondo luogo, tramite un ulteriore
intervento sulla stessa definizione di «deposito temporaneo»
ex articolo 183 del dlgs 152/2006, viene estesa la portata
di quest'ultimo allo stoccaggio effettuato sull'«intera area
in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione
dei rifiuti».
Ciò che deriva dal doppio intervento
legislativo è dunque un'estesa nozione di «deposito
temporaneo» ora coincidente (secondo il rinnovato testo del
Codice ambientale) con «il raggruppamento dei rifiuti
effettuato e il deposito preliminare alla raccolta ai fini
del trasporto di detti rifiuti in un impianto di
trattamento, effettuati, prima della raccolta, nel luogo in
cui gli stessi sono prodotti, da intendersi quale l'intera
area in cui si svolge l'attività che ha determinato la
produzione dei rifiuti».
Immutate restano le altre
condizioni che consentono al produttore di rifiuti di
effettuare tale stoccaggio in deroga al citato regime autorizzatorio, le quali continuano a essere: quelle
relative alla quantità e qualità dei rifiuti ammissibili, al
tempo di giacenza, alla organizzazione tipologica del
materiale (come previsto dalla seconda parte della citata
lettera bb), comma 1, articolo 183, del dlgs 152/2006);
quelle di prevenzione ambientale, tra cui i limiti alla
miscelazione dei rifiuti pericolosi, previste dalle altre
disposizioni dello stesso Codice.
Le disposizioni «salva impianti» Aia.
Con il dl 92/2015
arrivano infine disposizioni per evitare il possibile blocco
dei nuovi stabilimenti industriali autonomi (tra cui ben
possono figurare quelli che gestiscono rifiuti) rientranti
nella disciplina sull'autorizzazione integrata ambientale
alla luce delle modifiche introdotte dal dlgs 46/2014 nel
dlgs 152/2006: il dl 92/2015 consente loro la prosecuzione
delle attività in base alle autorizzazioni previgenti anche
se, spirata la data dello scorso 07.07.2015, ancora non
hanno ottenuto il dovuto rilascio dell'Aia da parte delle
competenti Autorità (nel presupposto, sotteso, che ne
abbiano fatto richiesta entro la deadline dello scorso 07.09.2014).
La disposizione segue l'intervento
effettuato dal Minambiente con la nota 17.06.2015,
laddove con un'interpretazione estensiva della stessa
normativa si è chiarito che non subivano la citata deadline
del 07.07.2015 i nuovi impianti funzionalmente collegati ad
altre installazioni già soggette ad Aia
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Assicurazione per amministratori locali.
Consentire agli enti locali di assicurare i propri
amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento
del loro mandato, prevedendo il rimborso delle spese legali
da essi sostenute.
È quanto si propone uno degli emendamenti al decreto «enti
locali» (dl 78/2015) presentato dall'Anci. Ricordiamo che il
provvedimento è all'esame del senato e giovedì scorso è
scaduto il termine per la presentazione dei correttivi.
Fra quelli presentati dall'Associazione dei comuni, ce n'è
uno che punta a modificare il comma 5 dell'art. 86 del Tuel.
Tale norma, nel testo attualmente vigente, recita: «I
comuni, le province, le comunità montane, le unioni di
comuni e i consorzi fra enti locali possono assicurare i
propri amministratori contro i rischi conseguenti
all'espletamento del loro mandato».
Tale disciplina risulta alquanto carente, a differenza di
quanto accade, ad esempio, per il personale dipendente, cui
si applica l'art. 28 del Ccnl del Comparto regioni autonomie
locali 14/09/2000. Sono quindi insorte notevoli incertezze
applicative circa la possibilità di prevedere coperture
assicurative per le spese legali sostenute dagli
amministratori, anche qualora coinvolti in procedimenti
giurisdizionali con esito assolutorio.
In materia, inoltre,
esistono orientamenti giurisprudenziali contrastanti che se
da una parte consentono l'estensione del citato art. 28 Ccnl
anche ai politici (Consiglio di stato, sez. VI, sentenza n.
5367/2004), dall'altra ritengono invece applicabile per
analogia quanto previsto dall'art. 1720 del codice civile,
che regola il rapporto fondamentale esistente tra mandante e
mandatario e l'obbligo del primo di risarcire le spese e i
danni subiti dal secondo per l'espletamento dell'incarico
ricevuto (Consiglio di stato, Sez. V, sentenza n. 2242/2000
e Consiglio di stato –Sez. III– parere n. 792/2004).
Sono intervenute inoltre alcune sezioni regionali della
Corte dei conti –tra le quali, quella per la Lombardia, con
il parere n. 86/2012 e quella per la Puglia, con la sentenza
n. 787/2012– che hanno affermato con decisione la validità
del riferimento normativo di cui all'art. 1720 c.c., quale
presupposto fondante il diritto al rimborso delle spese
legali a favore degli amministratori locali.
Con l'emendamento proposto, invece, verrebbe introdotta una
disciplina compiuta, che consentirebbe il rimborso in
presenza delle seguenti condizioni: 1) assenza di conflitto
di interessi con l'ente amministrato; 2) presenza di nesso
causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente
rilevanti; 3) conclusione del procedimento con sentenza di
assoluzione; 4) assenza di dolo o colpa grave; 5) emanazione
di un provvedimento di archiviazione.
In tal modo, si potrebbe restituire maggiore certezza
all'intera materia, colmando definitivamente un vuoto
normativo causa di disparità di trattamento e che rischia di
rappresentare un forte disincentivo a ricoprire incarichi al
servizio della collettività
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sui vigili stagionali la lettera di Madia complica le cose.
Una toppa peggiore del buco. La
lettera
09.07.2015 n. 842 di prot. con la quale il
ministro della pubblica amministrazione risponde al
presidente dell'Anci sul problema del divieto di assumere
vigili stagionali introdotto dal dl 78/2015 (noto come
«decreto enti locali») oltre a non risolvere la questione si
presenta come un inedito invito a violare le disposizioni di
legge.
Non si può definire altrimenti il passaggio nel quale
l'inquilina di palazzo Vidoni invita i comuni a «valutare
autonomamente se adottare soluzioni, in ambiti assolutamente
circoscritti, che anticipino l'auspicato intervento
normativo».
Come se, cioè, fosse lecito per i comuni assumere i vigili
stagionali vigente il divieto assoluto imposto attualmente
dall'articolo 5 del dl 78/2015, sulla base di una mera
lettera del ministro della Funzione pubblica che ventila la
possibilità di anticipare una modifica normativa ancora non
esistente.
Una sorta illegittimità di «modica quantità», basata
sull'inedita fonte giuridica costituita da una missiva.
La lettera di palazzo Vidoni appare l'ennesima conferma del
caos inestricabile che attanaglia ed avvita su se stessa la
riforma delle province.
Il dl 78/2015, era atteso già da marzo come correttivo ai
guai che ha creato a province e comuni la legge 190/2014,
col suo sistema mal congegnato di blocco delle assunzioni
per favorire una ricollocazione fin qui assolutamente
fallimentare dei 20 mila dipendenti provinciali in
sovrannumero. Dal «decreto enti locali» ci si aspettava
chiarezza sulla possibilità, per i comuni, di assumere
figure non reperibili presso le province, come in
particolare assistenti sociali e educatori negli asili nido
e scuole materne, oltre ad altri correttivi alla disgraziata
legge di stabilità del 2015.
Ma approvato con estremo ritardo rispetto alle attese, la
stesura finale conteneva la sorpresa: niente soluzioni per
le assunzioni delle figure professionali necessarie ai
comuni (a questo ci ha dovuto pensare la Sezione Autonomie
della Corte dei conti) e perfino l'irrigidimento del blocco
delle assunzioni per i vigili nei comuni. Gli estensori del
dl 78/2015, pensando di poter risolvere problemi complessi
con soluzioni semplici, hanno ritenuto di forzare la
ricollocazione dei vigili provinciali presso i comuni
vietando ai comuni stessi di assumere vigili stagionali.
Un paradosso. I comuni assumono vigili a tempo determinato
per esigenze stagionali non per capriccio, ma perché
reclutare personale a tempo indeterminato per fabbisogni
limitati nel tempo oltre che assurdo sarebbe anche danno
erariale. Da giorni i sindaci invitano il governo a
correggere il tiro, attraverso la strada maestra e unica
della modifica urgente al dl 78/2015.
L'unico riscontro avuto è, invece, la lettera del ministro
Madia che oltre a invitare a violare il divieto di assumere
gli stagionali indica anche l'ovvio: «Un intervento
normativo potrebbe consentire, in presenza di esigenze
temporalmente circoscritte ed eccezionali connesse con i
flussi stagionali, di ricorrere a personale di polizia
stagionale». Cioè esattamente ciò che chiedono i
sindaci, ma che il governo, per solito molto sollecito ad
adottare decreti legge di urgenza, non ha deciso di fare,
affidandosi ad una «lettera».
Tutto ciò che resta in mano ai sindaci, dunque, altro non è
se non l'indiretta ammissione del ministro Madia
dell'inidoneità del dl 78/2015 a risolvere i problemi di
comuni e province e la speranza che la lettera da intento si
trasformi in emendamento, per eliminare il divieto di
assumere gli stagionali. Quando però la stagione turistica,
iniziata da settimane, sarà agli sgoccioli
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia, per la Super Dia pronto il modulo
unico. Semplificazioni. Alla Conferenza unificata
l’alternativa al permesso di costruire.
Semplificazioni in edilizia, il
Governo accelera. Dopo il modulo unico per Scia e permesso
di costruire, è pronto quello per la cosiddetta «Super Dia»,
ovvero la Dia alternativa al permesso di costruire.
Il tavolo di
semplificazione istituito presso il ministero guidato da
Marianna Madia ha infatti completato il lavoro sullo
schema
unico per la Super Dia e ha trasmesso alla Conferenza
Unificata il testo dell’accordo tra Regioni, enti locali, Anci e Upi che dovrà essere ratificato dalla Conferenza.
Il testo non è
ancora all’ordine del giorno, ma i tecnici ministeriali
assicurano che sarà calendarizzato nella prima seduta utile
e, soprattutto, che l’accordo esiste già e, dunque, la
ratifica avverrà senza sorprese. Dalla riunione scatteranno
i 90 giorni entro i quali la nuova modulistica dovrà essere
adottata dalle Regioni e dai Comuni nei quali lo strumento è
previsto.
Il modulo unico per la super Dia arriva dopo le
standardizzazioni di Scia, permesso di costruire, Cil, Cila
e Aua, realizzate dal Governo secondo la tabella di marcia
riportata nell’Agenda per la semplificazione definita dal
Governo e condivisa con Regioni e Comuni nell’intesa sancita
in Conferenza unificata il 13.11.2014.
E ora
l’Esecutivo punta all’obiettivo più ambizioso: il
regolamento edilizio comunale unico che dovrebbe essere
varato entro la fine dell’anno. La super Dia si può
utilizzare in alternativa al permesso di costruire nei casi
di nuove costruzioni, ristrutturazioni edilizie pesanti,
ristrutturazioni urbanistiche
(articolo Il Sole 24 Ore del
10.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ecco il modulo per la super Dia. Pronto il
modello unico nazionale per le attività edilizie.
Il formulario in Conferenza unificata per il
via libera. Sostituisce il permesso di costruire.
Pronto il modello unico nazionale per la super Dia, cioè la
Dia alternativa al permesso di costruire, utilizzata in
molte regioni. La super Dia potrà essere utilizzata in luogo
del permesso di costruire in tre diversi tipi di interventi:
ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di
ristrutturazione urbanistica.
Le regioni e i comuni avranno 90 giorni per adeguarsi alla
modulistica standardizzata.
Lo
schema unico per la super Dia è stato completato dal
tavolo di semplificazione istituito presso il ministero per
la semplificazione diretto da Marianna Madia. La modulistica
e il testo dell'accordo tra regioni, enti locali, Anci e Upi
sono stati inviati in conferenza unificata per ottenere il
placet.
L'approvazione della super Dia si inserisce nel
percorso di semplificazione in materia edilizia. L'azione
semplificazione infatti prevede la sostituzione degli oltre
8.000 moduli (almeno uno per comune) utilizzati per la
presentazione delle pratiche edilizie con un unico modulo
(da adeguare, dove necessario, alle specificità regionali),
al fine di agevolare l'informatizzazione delle procedure e
la trasparenza nei confronti di cittadini e imprese.
Con
l'accordo siglato il 12.06.2014 tra governo, regioni ed
enti locali in Conferenza unificata sono stati già approvati
i moduli unificati e semplificati per la presentazione della
segnalazione certificata di inizio attività (Scia) edilizia
e la richiesta del permesso di costruire.
L'azione di
snellimento delle pratiche edilizie prevede la
predisposizione dei modelli per la presentazione della
comunicazione di inizio lavori per interventi in edilizia
libera, della agibilità, della «super Dia» e delle
specifiche tecniche per la gestione telematica dei modelli
unici, la predisposizione delle istruzioni per l'uso dei
modelli che forniscono una guida per cittadini e imprese e
l'adozione dei moduli semplificati (compresi quelli già
predisposti per la Scia e il permesso di costruire) da parte
delle regioni e dei comuni.
Tre diversi tipi di interventi.
La super Dia potrà essere
utilizzata in luogo del permesso di costruire in tre diversi
tipi di interventi: ristrutturazione edilizia, nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica.
Ristrutturazione edilizia.
In alternativa al permesso di
costruzione sarà possibile utilizzare la super Dia nel caso
di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un
immobile in tutto o in parte diverso dal precedente. Potrà
inoltre essere utilizzata nel caso in cui la
ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità
immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso.
Ristrutturazione urbanistica.
In questo caso la super Dia
potrà essere impiegata qualora gli interventi siano
disciplinati da piani attuativi, che contengano precise
disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e
costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente
dichiarata dal competente organo comunale in sede di
approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli
vigenti.
Nuova costruzione.
Gli interventi relativi a nuova costruzione potranno essere
realizzati con la super Dia anziché con il permesso di
costruire qualora siano in diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2015). |
ENTI LOCALI:
Compensi tagliati, decide il Tar. Impugnata la
delibera di nomina che riduce gli stipendi.
L'Ancrel ha pagato le spese legali ai revisori
scelti dal comune di Pescantina (Vr).
Detto, fatto. L'Ancrel ha incaricato a proprie spese i due
avvocati amministrativisti Christian Chiarello e Andrea
Coronin (chiarello@studiolegalecfgs.com) di Legnago a
presentare ricorso al Tar di Venezia per conto dei tre
revisori nominati circa due mesi fa dal comune di Pescantina,
in provincia di Verona.
I legali chiedono, per conto dei loro assistiti, di
sospendere l'efficacia della delibera di nomina dei revisori
dei conti dell'ente in quanto carente di motivazione.
Ma ricostruiamo i fatti. Il consiglio comunale del comune di
Pescantina delibera in data 23.04.2015 la nomina i tre
revisori che la prefettura di Verona aveva comunicato a
seguito di estrazione, per il triennio 2015/2018. Con la
stessa delibera il consiglio determina il compenso spettante
ai componenti dell'organo di controllo riconoscendo loro
meno di quanto veniva riconosciuto ai revisori del triennio
precedente, ma addirittura meno di quanto previsto di
compenso massimo per i revisori di enti appartenenti alla
fascia demografica inferiore.
I nuovi revisori fanno presente all'amministrazione che
rispetto al passato hanno maggiori adempimenti oltre ad una
situazione generale precaria dell'ente dovuta alle
conseguenze post sequestro di una discarica e ad una
difficile situazione con la partecipata Pescantina servizi,
situazione che in passato ha già comportato uno stato di pre-dissesto finanziario, con prescrizioni di monitoraggio
straordinario da parte dalla Corte dei conti e conseguenti
ulteriori adempimenti in capo ai revisori.
Sostengono, i nuovi revisori, che quanto riconosciuto ai
loro predecessori era già poco, se si tiene conto che i
limiti massimi dei compensi spettanti all'organo di
controllo previsti dal dm del 20.05.2005, non sono mai
stati aggiornati, anche se la legge (art. 241, dlgs
267/2000) ne prevedesse la revisione triennale. Sono già
saltati, pertanto, tre aggiornamenti da allora.
Nella delibera di nomina, in realtà, non potendo trovare
altra motivazione valida per giustificare la riduzione dei
compensi, tenuto conto appunto che gli adempimenti sono
aumentati e non diminuiti, si commenta la riduzione
applicata richiamando il dl 78/2010, ove la norma prevede il
taglio del 10%, sottolineando che la riduzione è superiore
al taglio previsto. Ma l'art. 6 del dl 78/2010 non è
applicabile agli enti locali, come è stato sancito nel
parere 4/2104 della sezione delle autonomie della Corte dei
conti.
Infatti, la disposizione di cui al dl 78/2010 si riferisce
genericamente alle pubbliche amministrazioni di cui al comma
III dell'art. 1 della legge 196/2009 (che non contiene in
realtà alcuna indicazione concreta di quali siano le
pubbliche amministrazioni, facendo rinvio ad un rilievo da
effettuarsi annualmente a cura dell'Istat), «fermo restando
quanto previsto dall'art. 1, comma 58, della legge 23.12.2005, n. 266».
Cioè trattasi di disposizione integrativa di quella
originaria della finanziaria 2005 cioè di una norma che pur
richiamando le amministrazioni di cui all'art. 1, comma II,
del dlgs 165/2001, non era applicabile agli enti locali
territoriali come disponeva espressamente il successivo art.
1, comma 64, della legge 266/2005.
Manca quindi la motivazione nella delibera. E come sostiene
il magistrato della Corte dei conti del Veneto Tiziano
Tessaro, nel suo libro La redazione degli atti
amministrativi del comune dopo l'armonizzazione contabile (Maggioli
Editore – giugno 2015) a pagina 90, in merito ai casi di
illegittimità degli atti, con riguardo all'elemento della
forma, è necessario ricordare come l'obbligo di motivare
sufficientemente i provvedimenti ed in generale gli atti
amministrativi adottati con riguardo ai presupposti di fatto
e alle norme di diritto che ne giustificano l'adozione sia
stata consacrata nel disposto dell'art. 3 della legge n.
241/1990.
Tale obbligo, se violato, costituisce uno dei motivi, tra
l'altro assai frequente, di vizio degli atti per violazione
di legge. Sembra chiaro, pertanto, che l'efficacia della
delibera in questione sia da sospendere in quanto
illegittima
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2015). |
ENTI
LOCALI:
Organo collegiale o monocratico? Conta lo stato
di salute dell'ente.
La proposta di modifica normativa sulla composizione
collegiale o monocratica dell'organo di revisione in
relazione non alla popolazione residente, ma bensì
all'entità delle entrate correnti e alle situazioni di crisi
finanziaria sembra di estrema attualità con i nuovi compiti
assegnati dalle recenti normative.
In particolare i nuovi compiti sono riferiti:
- al parere sul ripiano del disavanzo di amministrazione al
31/12/2014 entro la durata della consiliatura, e la
controfirma del report semestrale da presentare al consiglio
sullo stato di attuazione del piano di rientro;
- al parere sulla modalità di copertura del maggior
disavanzo all'01/01/2015;
- la segnalazione alla Corte dei conti e al prefetto della
mancata adozione della delibera consiliare sulle modalità di
ripiano;
- la verifica in sede di relazione al rendiconto della quota
effettivamente ripianata;
- la verifica della corretta applicazione della quota di
ripiano nel parere sul bilancio preventivo.
Per gli enti tenuti al ripiano del disavanzo come per quelli
soggetti al piano di risanamento le funzioni dell'organo di
revisione diventano più delicate e complesse e non sempre
possono essere affrontate da un organo monocratico.
Disavanzo e maggior disavanzo. Disavanzo e maggior disavanzo
sono due entità distinte e la norma prevede tempi e modalità
diverse di ripiano. Il disavanzo di amministrazione al
31/12/2014, accertato ai sensi dell'art. 186 del Tuel, può
essere ripianato negli esercizi successivi considerati nel
bilancio di previsione, in ogni caso non oltre la durata
della consiliatura. Ripiano, pertanto, in un periodo massimo
di tre anni (periodo breve) con penalizzazione per gli enti
con la scadenza della consiliatura vicina. Il maggior
disavanzo è invece quello derivante dalle operazioni di
riaccertamento straordinario e dal primo accantonamento al
fondo crediti di dubbia esigibilità.
In particolare come
indicato nel decreto del Mef del 02/04/2015 per gli enti non
in sperimentazione il maggior disavanzo è pari a valore
negativo indicato nella voce «totale parte disponibile» del
prospetto di cui all'allegato 5/2 al dlgs 118/2011, se il
risultato di amministrazione al 31/12/2014 era positivo o
pari a zero, oppure alla differenza algebrica se il
risultato di amministrazione al 31/12/2014 era negativo. Il
ripiano del maggior disavanzo è possibile effettuarlo in
quote costanti per un periodo massimo di 30 anni (periodo
lungo).
La diversa periodicità del ripiano potrebbe portare gli enti
ad aumentare l'entità del maggior disavanzo. L'eliminazione
di residui attivi insussistenti o totalmente inesigibili al
31/12/2014, può portare ad un disavanzo da ripianare entro
un massimo di tre anni. L'eliminazione degli stessi residui
al 01/01/2015 porta invece a un maggior disavanzo da ripianare
in 30 anni.
La sottostima di un residuo attivo all'01/01/2015, può
consentire di ripianare il disavanzo in 30 anni con effetti
positivi nel successivo riaccertamento.
La manovra tesa a evidenziare un «maggior disavanzo» doveva
essere censurata nella relazione dell'organo di revisione al
rendiconto 2014 o nel parere sul riaccertamento
straordinario dei residui.
Se il rilievo non è stato fatto, in presenza di residui
attivi erroneamente mantenuti al 31/12/2014, è opportuno
richiedere il ricalcolo del disavanzo da ripianare nel
periodo breve.
Risorse utilizzabili per il ripiano del disavanzo. Anche le
risorse utilizzabili per il ripiano sono diverse tra
disavanzo di amministrazione e maggior disavanzo. Il ripiano
del disavanzo da effettuarsi ai sensi dell'art. 188 del Tuel
può essere applicato al bilancio o ripartito in un massimo
di tre esercizi previo l'approvazione da parte del consiglio
di un piano di rientro da sottoporre al parere dell'organo
di revisione.
Le risorse utilizzabili sono le economie di spesa o maggiori
entrate ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione
di mutui e di quelle con vincolo di destinazione e per gli
squilibri di parte capitale anche le entrate da alienazione
di beni patrimoniali disponibili e con altre entrate in
conto capitale.
Per reperire maggiori risorse con la delibera che approva il
piano di rientro il consiglio può modificare con effetto
retroattivo all'inizio dell'esercizio le aliquote e le
tariffe relative ai tributi in deroga all'art. 1, comma 169,
della legge 296/2006.
Il piano di rientro deve essere monitorato almeno
semestralmente con una relazione al consiglio munita del
parere dell'organo di revisione sulla concreta attuazione
del piano.
L'eventuale ulteriore disavanzo che andrà a formarsi nel
periodo del piano deve essere coperto non oltre la scadenza
del piano.
Risorse utilizzabili per il ripiano del maggio disavanzo. I
mezzi utilizzabili per il ripiano del maggior disavanzo sono
indicati nel decreto del Mef del 02/04/2015 e devono essere
indicati nella delibera consiliare unitamente alle quote
annuali (massimo 30) di ripiano.
L'organo di revisione, che deve esprimere un parere da
allegare alla delibera, è opportuno suggerisca la copertura
più rapida possibile del disavanzo. Sembra contrario ad ogni
principio di sana amministrazione utilizzare risorse (tipo
avanzo disponibile) per maggiori spese ed accollare i debiti
alle future generazioni.
Il maggior disavanzo può essere finanziato (in primo luogo e
prima di ripartirlo in tempi lunghi) con:
- i proventi da alienazione di beni patrimoniali
disponibili;
- lo svincolo di vincoli attribuiti autonomamente dall'ente
sul risultato di amministrazione;
- la parte dell'avanzo d'amministrazione destinata a
investimenti, purché non derivante da assunzione di prestiti
o da altri vincoli di legge.
Nelle more di realizzazione dei proventi da alienazione si
applica la deroga ai principi contabili indicata nel comma 6
dell'art. 2 del citato decreto del Mef del 02/04/2015.
L'organo di revisione deve segnalare la mancata adozione
della delibera con le modalità di ripiano e l'applicazione
delle quote al bilancio alla Sezione regionale della Corte
dei conti e al prefetto
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2015). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: In
sede di impugnazione di strumenti urbanistici generali o
attuativi -a differenza di quanto comunemente si afferma
laddove sia contestato direttamente un titolo abilitativo
all'edificazione- la semplice vicinitas (ossia la situazione
di stabile collegamento esistente tra la proprietà del
ricorrente e quella interessata dal provvedimento censurato)
non è sufficiente a fondare l'interesse all'impugnativa,
occorrendo che il ricorrente alleghi e dimostri anche
l'esistenza di uno specifico e concreto pregiudizio
derivantegli dagli atti impugnati.
E questo, per evitare che un'eccessiva dilatazione del
concetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., con
riferimento ai piani urbanistici, consenta l'impugnativa
anche ai soggetti titolari di un interesse di mero fatto
Ed invero, secondo l'insegnamento della giurisprudenza anche
di questa Sezione, da cui il collegio non ha motivo di
discostarsi, in sede di impugnazione di strumenti
urbanistici generali o attuativi -a differenza di quanto
comunemente si afferma laddove sia contestato direttamente
un titolo abilitativo all'edificazione- la semplice
vicinitas (ossia la situazione di stabile collegamento
esistente tra la proprietà del ricorrente e quella
interessata dal provvedimento censurato) non è sufficiente a
fondare l'interesse all'impugnativa, occorrendo che il
ricorrente alleghi e dimostri anche l'esistenza di uno
specifico e concreto pregiudizio derivantegli dagli atti
impugnati (cfr. tra le tante Sez. IV, 25.09.2014 n. 4816;
12.10.2010 n. 7439).
E questo, per evitare che un'eccessiva dilatazione del
concetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., con
riferimento ai piani urbanistici, consenta l'impugnativa
anche ai soggetti titolari di un interesse di mero fatto
(cfr. tra le tante Sez. IV, 13.07.2010 n. 4545; 30.11.2010
n. 8365)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.07.215 n. 3579 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La prestazione concernente l'installazione e la
gestione dei distributori automatici è propriamente
qualificabile come concessione di servizi.
Sui tratti distintivi della concessione di servizi rispetto
all'appalto.
La prestazione concernente l'installazione e la gestione dei
distributori automatici è propriamente qualificabile come
concessione di servizi, che si differenzia dall'appalto di
servizi in quanto il corrispettivo della fornitura "consiste
unicamente nel diritto di gestire i servizi, o in tale
diritto accompagnato da un prezzo", ex art. 3, comma 12,
del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18CE).
L'art. 30 (Concessione di servizi) del medesimo Codice
sottrae dette concessioni alle disposizioni riferite ai
contratti pubblici, ma le assoggetta comunque -in armonia
con quanto disposto nell'art. 27 (Principi relativi ai
contratti esclusi)- al rispetto dei principi di "economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità", con residuale obbligo, pertanto, di
procedure selettive che, anche attraverso una gara
informale, assicurino il rispetto dei principi stessi.
---------------
Con la concessione di servizi una pubblica amministrazione
trasferisce ad altro soggetto la gestione di un servizio,
che la medesima potrebbe direttamente (ma non può o non
intende) svolgere nei confronti di utenti terzi.
Il concessionario -a differenza di quanto avviene
nell'appalto di servizi (nell'ambito del quale
l'Amministrazione riceve dal contraente una prestazione ad
essa destinata, in cambio di un corrispettivo)- ottiene il
proprio compenso non già dall'Amministrazione ma
dall'esterno, ovvero dal pubblico che fruisce del servizio
stesso, svolto dall'impresa con assetto organizzativo
autonomo e con strumenti privatistici, come è usuale per i
servizi alimentari, come quello in esame. Sul piano
economico, il rapporto complessivo è dunque trilaterale,
poiché coinvolge l'Amministrazione concedente (che resta
titolare della funzione trasferita), il concessionario e il
pubblico.
Il concessionario utilizza quanto ottiene in concessione
(nel caso specie: il servizio con l'utilizzo di spazi
interni alla sede dell'ente pubblico) a fini legittimi di
lucro, assumendo -come richiede il diritto europeo- il
rischio economico connesso alla gestione del servizio,
svolto con mezzi propri; per godere delle risorse materiali
appartenenti all'Amministrazione, il medesimo normalmente
corrisponde un canone e non riceve dall'Amministrazione
alcun corrispettivo.
In conformità all'art. 30 del Codice dei contratti pubblici,
infatti, "la controprestazione [dell'Amministrazione] a
favore del concessionario consiste unicamente nel diritto
[dato al concessionario] di gestire funzionalmente e di
sfruttare economicamente [verso il pubblico] il servizio"
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.07.2015 n. 3571 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
essendo dubbia l’individuazione delle opere abusive e della
relativa consistenza nell'ordinanza di demolizione, ove la
materiale indicazione delle particelle catastali,
interessate dagli abusi, dovesse risultare non esattamente
corrispondente, l’Amministrazione dovrà provvedere
ovviamente alla correzione dell’errore materiale.
---------------
A norma dell'art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001,
l’inottemperanza all’ordine di demolizione comporta
acquisizione gratuita al patrimonio comunale non solo del
bene e della relativa area di sedime, ma anche di “quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche,
alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive”,
purché l’area complessivamente acquisita non sia “superiore
a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente
costruita”.
---------------
Non invalidante appare l’indicazione nell’ordine di
demolizione di un termine (trenta giorni) inferiore a quello
di novanta, previsto dallo stesso art. 31, comma 3, del
d.P.R. n. 380 del 2001: è solo l’inutile decorrenza di
quest’ultimo termine, infatti, che consente gli effetti
acquisitivi previsti dalla legge, mentre il primo ha
carattere solo diffidatorio.
Non puntuali appaiono ulteriori considerazioni, riferite
alle particelle oggetto dell’acquisizione (che avrebbe
pertanto oggetto incerto), in quanto potrebbero essere
acquisite solo “l’opera e l’area di sedime […] esclusa
ogni altra porzione di territorio limitrofo”, mentre,
nel caso di specie, sarebbero state date “indicazioni
generiche, ricomprendendo anche parti di lotto non edificato”,
con ulteriore illegittima acquisizione anche delle “particelle
5001-503-504, oggetto di concessione in sanatoria”.
In rapporto a quanto sopra il Collegio deve sottolineare
ancora una volta come gli abusi contestati siano
puntualmente descritti e documentati dall’Amministrazione,
cui non appare imputabile alcuna carenza di istruttoria. La
presenza di un fabbricato, oggetto di sanatoria e non
compreso, pertanto, fra le opere da demolire non appare
ignorata ed è menzionata nell’atto sanzionatorio.
Ove la materiale indicazione delle particelle catastali,
interessate dagli abusi, dovesse risultare non esattamente
corrispondente, l’Amministrazione provvederebbe ovviamente
alla correzione dell’errore materiale, non essendo dubbia
l’individuazione delle opere abusive e della relativa
consistenza.
Sia l’esatta individuazione delle particelle, sia
l’effettiva inottemperanza, d’altra parte, non potrebbero
non essere agevolate dalla collaborazione dell’appellante,
che non può contestare eventuali inesattezze derivanti
dall’impedito accesso alla proprietà dei tecnici comunali.
Si deve comunque rilevare che, a norma del citato art. 31,
comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, l’inottemperanza all’ordine
di demolizione comporta acquisizione gratuita al patrimonio
comunale non solo del bene e della relativa area di sedime,
ma anche di “quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive”, purché l’area
complessivamente acquisita non sia “superiore a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Anche l’ordine di censure da ultimo esaminato non può quindi
essere accolto, fatta salva la possibilità di individuare e
correggere eventuali errori materiali, nella mera
indicazione numerica delle particelle catastali interessate.
Non invalidante, inoltre, appare l’indicazione nell’ordine
di demolizione di un termine (trenta giorni) inferiore a
quello di novanta, previsto dallo stesso art. 31, comma 3,
del d.P.R. n. 380 del 2001: è solo l’inutile decorrenza di
quest’ultimo termine, infatti, che consente gli effetti
acquisitivi previsti dalla legge, mentre il primo ha
carattere solo diffidatorio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.07.2015 n. 3555 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla ratio della disciplina sull'informativa
prefettizia antimafia.
La disciplina in tema di informativa prefettizia esprime la
ratio di anticipare la soglia di difesa sociale ai
fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della
criminalità organizzata, prescindendo dal livello di
rilevanze probatorie tipiche del diritto penale, per cercare
di cogliere l'affidabilità complessivamente intesa
dell'impresa affidataria di lavori servizi pubblici o
destinataria di ogni altra risorsa.
Le cautele antimafia non obbediscono, quindi, a finalità di
accertamento di responsabilità, bensì di massima
anticipazione dell'azione di prevenzione, rispetto alla
quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo
sintomatici ed indiziari, al di là dell'individuazione di
responsabilità penali.
Al riguardo il Prefetto dispone di un'ampia discrezionalità
a tutela delle condizioni di sicurezza e di ordine pubblico
nel delicato settore degli appalti pubblici e del
trasferimento di risorse economiche dello Stato e degli
altri enti pubblici, con la conseguenza che le valutazioni
effettuate in merito sono suscettibili di sindacato in sede
giurisdizionale nei soli limiti del vizio di eccesso di
potere nei profili della manifesta illogicità, dell'erronea
e travisata valutazione dei presupposti del provvedere, del
difetto di proporzione al fine perseguito.
La validità del complessivo quadro indiziario non va
considerato atomisticamente, ma nel suo complesso, e cioè
come insieme di elementi e circostanze, che pur non dovendo
necessariamente assurgere a livello di prova, sono tali da
formare un mosaico di condotte, intrecci, interferenze e
contiguità cui possa ricondursi il pericolo di tentativo di
infiltrazione mafiosa,
Pertanto, nel caso di specie, se nel coacervo di elementi su
cui si sofferma la valutazione prefettizia oggetto di
contestazione taluni di essi -singolarmente presi in
considerazione- potrebbero essere relegati in un quadro di
marginalità ed occasionalità, nel loro complessivo valore
indiziante e per il denominatore comune di essere
espressione di un rapporto di contiguità diretta o indiretta
con esponenti di organizzazione malavitose, corroborano per
sommatoria il rapporto di contiguità ascritto all'impresa
con società a loro volta colpite da provvedimento
interdittivo per la possibile ingerenza nell'attività
aziendale di associazioni mafiose (Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 15.07.2015 n. 3539 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla
illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed
urgente "anti ebola".
Premesso che il potere di ordinanza contingibile e urgente
presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla
legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua
motivazione, e in ragione delle quali si giustifica la
deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina
vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale, la costante
giurisprudenza afferma che la contingibilità deve essere
intesa come «impossibilità di fronteggiare l’emergenza con i
rimedi ordinari, in ragione dell’accidentalità,
imprescindibilità ed eccezionalità della situazione
verificatasi» e l’urgenza come «l’assoluta necessità di
porre in essere un intervento non rinviabile».
---------------
Nel merito va allora riaffermato il principio secondo il
quale il potere sindacale di cui agli articoli 50 e 54 del
decreto legislativo numero 267 del 2000 trova il suo
fondamento nell’esistenza di una emergenza sanitaria, la
quale deve essere puntualmente dimostrata, anche in ordine
alla limitazione territoriale tale da diversificare la
posizione del cittadino residente nel comune, le cui
peculiarità siano tali da giustificare l’adozione di misure
straordinarie.
E ciò in particolare quando difettino accurati ed efficaci
controlli sanitari da parte delle altre autorità preposte,
non risultando tuttavia sufficiente una sorta di funzione
sussidiaria a legittimare l’adozione di provvedimenti del
tipo di quello adottato.
... per l'annullamento dell'ordinanza del sindaco di Padova
del 17.10.2014 n. 42 del Registro delle ordinanze,
pubblicata all'Albo Pretorio "ON LINE", che prescrive
il divieto di dimora, anche occasionale, presso qualsiasi
struttura di accoglienza, per persone prive di regolare
documento di identità e di regolare certificato medico,
nonché l'obbligo, da parte dei soggetti privi di regolare
permesso di soggiorno ovvero di tessera sanitaria ed
individuati nel corso di accertamenti da parte della Polizia
Locale, di sottoporsi entro tre giorni a visite mediche
presso le competenti ULSS.
...
Premesso che il potere di ordinanza contingibile e urgente
presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla
legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua
motivazione, e in ragione delle quali si giustifica la
deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina
vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale (Cons. St., sez.
V, 25.05.2012, n. 3077), la costante giurisprudenza afferma
che la contingibilità deve essere intesa come «impossibilità
di fronteggiare l’emergenza con i rimedi ordinari, in
ragione dell’accidentalità, imprescindibilità ed
eccezionalità della situazione verificatasi» e l’urgenza
come «l’assoluta necessità di porre in essere un intervento
non rinviabile» (Cons. St., sez. IV, 21.11.1994, n. 926).
Nel merito va allora riaffermato il principio secondo il
quale il potere sindacale di cui agli articoli 50 e 54 del
decreto legislativo numero 267 del 2000 trova il suo
fondamento nell’esistenza di una emergenza sanitaria, la
quale deve essere puntualmente dimostrata, anche in ordine
alla limitazione territoriale tale da diversificare la
posizione del cittadino residente nel comune, le cui
peculiarità siano tali da giustificare l’adozione di misure
straordinarie.
E ciò in particolare quando difettino accurati ed efficaci
controlli sanitari da parte delle altre autorità preposte,
non risultando tuttavia sufficiente una sorta di funzione
sussidiaria a legittimare l’adozione di provvedimenti del
tipo di quello adottato.
E sotto tale profilo il provvedimento impugnato è incapace
di dimostrare questa posizione differenziata del comune
resistente in ordine al tasso di rischio cui si espone la
popolazione locale,
non essendo idonei i pochi casi rilevati di scabbia o di
epatite C a giustificare quella particolare gravità sola
legittimante l’ordinanza contingibile e urgente, mentre
quanto al virus Ebola, dal nome dell’affluente del Congo ove
negli anni 70 fu individuato, anche nella variante Marburg,
dal nome della località tedesca nella quale erano state
introdotte scimmie provenienti dalle zone africane fonte del
contagio, come già rilevato in sede di accoglimento
cautelare, il protocollo per la gestione della malattia
redatto dall’unità locale socio sanitaria numero 16 di
Padova escludeva la sussistenza di un’emergenza sanitaria.
Dunque dall’inesistenza di una emergenza sanitaria di
carattere locale che giustifichi l’esercizio, pur sempre
ammissibile nella sussistenza dei giusti presupposti, del
potere di ordinanza, deriva l’accoglimento del primo motivo
di ricorso, non spettando al sindaco l’adozione di misure a
carattere esclusivamente locale, del secondo motivo, non
esistendo alcuna situazione emergenziale, del terzo
collegato motivo, non essendo stata effettuata una
istruttoria adeguata al fine di evidenziare tale condizione,
del quarto motivo, non essendo la misura che richiede una
semplice certificazione medica idonea a contrastare
l’eventuale emergere di una epidemia laddove le analisi non
siano quelle specifiche atte all’individuazione della
patologia, del quinto motivo, posto che effettivamente il
provvedimento impugnato è rivolto nei confronti di categorie
di soggetti che non sono nelle condizioni di poter adempiere
tempestivamente agli ordini imposti, essendo privi di
documenti di riconoscimento non per causa loro ma per la
particolare condizione rivestita, mentre va respinto
l’ultimo motivo, atteso che la censura di sviamento non può
essere apprezzata positivamente, esistendo in astratto il
potere derivante dalla competenza diretta al fine di legge,
mancando tuttavia i requisiti per la spendita relativa, con
accoglimento, appunto, del primo motivo di ricorso
postulante l’incompetenza.
Il ricorso deve dunque essere accolto con l’annullamento
dell’ordinanza impugnata
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 15.07.2015 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Il catasto è cosa di pochi. Agrotecnici fuori. Ma è colpa
del parlamento. La Consulta boccia le competenze e punta il dito contro le
camere.
Agrotecnici fuori dalle attività relative agli atti
catastali e in materia estimativa nel settore immobiliare.
La norma che estende alla categoria questa competenza è,
infatti, contraria ai principi costituzionali sia nella
forma che nella sostanza. La disposizione (art. 26, comma
7-ter dl 248/2007), infatti, non solo estende in capo agli
agrotecnici una competenza che non hanno le caratteristiche
per possedere ma, soprattutto, è stata inserita all'interno
del testo sbagliato, ovvero all'interno di un dl
Milleproroghe. Il tutto, non solo senza che ne sussistessero
in alcun modo i requisiti di necessità e urgenza che
sottendono l'emanazione di un decreto legge, questione tutto
sommato superabile, ma denotando un uso improprio da parte
del parlamento di un potere che la Costituzione gli
attribuisce. La disposizione, per tanto, è contraria
all'art. 77, comma 2, della Costituzione.
A stabilirlo, la
Corte Costituzionale che, con la
sentenza
15.07.2015 n. 154, ha dato una stoccata sia al parlamento sia agli
agrotecnici.
A finire sotto la lente della Consulta, l'approvazione di un
emendamento lampo nel corso dell'iter di approvazione del dl
Milleproroghe con cui sono state estese agli agrotecnici
competenze in materia catastale e in materia estimativa
immobiliare.
Fatto già di per sé discutibile ad avviso della
stessa Consulta che, con la sentenza n. 441 del 2000, aveva
già sottolineato come «la competenza degli agrotecnici è
rivolta prevalentemente agli aspetti economici e gestionali
di un'azienda agraria, laddove le competenze in materia di
catasto appaiono circoscritte a un livello descrittivo»
ritenendo, quindi, ragionevole l'esclusione degli
agrotecnici da questa specifica competenza. Oltre al danno,
però, alla categoria è spettata anche la beffa.
Se, infatti,
esisteva una pur remota possibilità che la norma fosse
salvata nel merito (la discrezionalità legislativa in questo
campo, infatti, non può essere limitata se esercitata in
modo ragionevole) il fatto che essa sia stata inserita
all'interno di un dl Milleproroghe ne ha sancito la condanna
definitiva. La pronuncia della Corte, però, pesa in uguale
misura sulla testa del parlamento insediato nel 2007
(governo Prodi-bis).
Ad avviso della Consulta, infatti, la
disposizione pur non facendo parte del testo originario del
dl Milleproroghe essendo stata inserita attraverso
l'approvazione di un emendamento è chiaramente mirata alla
risoluzione di un conflitto di competenze tra categorie
professionali non andando, quindi, in alcun modo a prorogare
imminenti scadenze né a salvaguardare il buon andamento
della pubblica amministrazione. Fatto di per se stesso
sufficiente ad accendere i campanelli d'allarme dei giudici
di legittimità. Ogni disposizione introdotta in sede di
conversione deve essere, infatti, collegata alla ratio
dominante del testo normativo.
«In definitiva», ha precisato
la Corte, «non solo regole di buona tecnica normativa a
esigere che la legge di conversione rechi un contenuto
omogeneo a quello del dl, anche se, proprio sotto questo
profilo appare particolarmente inopportuno l'inserimento nel
dl Milleproroghe di una norma di questo tenore. Deve
piuttosto essere sottolineato che l'inserimento di norme
eterogenee rispetto all'oggetto o alla finalità del dl
determina la violazione dell'art. 77, comma 2, della
Costituzione. E tale violazione, per queste ultime norme»,
ha concluso la Corte, «non deriva dalla mancanza dei
presupposti di necessità e urgenza, ma scaturisce dall'uso
improprio, da parte del parlamento, di un potere che la
Costituzione attribuisce ad esso, con speciali modalità di
procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge
un dl»
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il cliente va informato.
Difensori tenuti ad avvisare sulla lite in atto.
La Cassazione sugli oneri professionali nel contrasto di
giurisprudenza.
Il difensore è tenuto ad avvisare il cliente che sussiste un
contrasto di giurisprudenza sull'interpretazione della norma
giuridica che è al centro della controversia: l'informazione
si rende necessaria perché l'assistito deve essere messo in
condizioni di decidere se coltivare o meno la lite.
E il patrono deve prospettare la soluzione del ricorso per
cassazione, se necessario: ecco allora che rischia il
risarcimento per colpa professionale il commercialista
chiamato alla difesa tecnica del contribuente di fronte alla
Ctp laddove non risulta che abbia indicato la strada del
ricorso di legittimità dopo la declaratoria di
inammissibilità del ricorso.
È quanto emerge dalla
sentenza
14.07.2015 n. 14639, pubblicata dalla III Sez. civile della
Corte di Cassazione.
Bilanciamento e soluzione
È accolto il ricorso dei soci della sas dopo l'accertamento
che ha colpito società e componenti della compagine e il
successivo condono fiscale che si è reso necessario. Il
punto è che all'epoca esistenza un contrasto interpretativo
sulla difesa tecnica nelle liti tributarie ex articolo 18,
comma 3, del decreto legislativo 546/92. E la Commissione
tributaria dichiara l'inammissibilità dei ricorsi proposti
dai contribuenti in quanto sottoscritti dalla parti
personalmente e non dal difensore tecnico come richiedeva la
disposizione entrata in vigore nelle more.
Trova allora
ingresso il ricorso degli assistiti laddove adombra che sia
stato proprio l'atteggiamento del commercialista a far
passare in giudicato le sentenze emesse dalla commissione
tributaria regionale: ai giudici di legittimità non risulta
che sul punto sia stata svolta un'indagine di merito. E
invece il professionista doveva prospettare l'opportunità
del ricorso di legittimità mettendo sui due piatti della
bilancia l'ulteriore costo del rimedio impugnatorio e la
possibilità per i contribuenti di ricavarne una concreta
utilità, anche entrando nel merito delle opportune
valutazioni sulle questioni tributarie dedotte in giudizio.
Va infatti ricordato che il difensore è comunque tenuto ad
avvisare i clienti di tutti i rischi che possono produrre
situazioni dannose e di sconsigliare l'assistito
dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito
probabilmente sfavorevole. Ma ciò che più conta è che
incombe sul professionista l'onere di fornire la prova della
condotta serbata: il rilascio da parte del cliente delle
procure necessarie alla rappresentanza in giudizio non
depone nella direzione dell'adempimento dell'obbligo di
compiuta informazione in favore dell'assistito.
Nessun dubbio, infine, che si configuri la colpa
professionale per il patrono quando l'inammissibilità del
ricorso al giudice è dichiarata per un vizio formale
riconducibile all'ignoranza di una norma processuale. Ciò
che potrebbe essere accaduto all'epoca dell'introduzione
della norma ex articolo ex articolo 18, comma 3, del decreto
legislativo 546/1992. Parola al giudice del rinvio
(articolo ItaliaOggi del 15.07.2015).
---------------
MASSIMA
E' principio consolidato di questa Corte che
nell'adempimento dell'incarico professionale conferito,
l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato
disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod.
civ. impone al professionista di assolvere, sia all'atto del
conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del
rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione
ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare
a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto,
comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del
risultato, o comunque produttive del rischio di effetti
dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in
suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o
proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine
incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta
mantenuta,
insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da
parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio
dello "jus postulandi",
stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed
univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine
a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da
parte del cliente di una decisione pienamente consapevole
sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire
in giudizio
(Cass. n. 14597/2004; Cass. n. 16023/2002).
Nel caso di specie la motivazione della sentenza dei giudici
del merito è carente proprio in punto di informazione. Non
emerge, infatti, se il professionista nell'espletamento del
suo mandato sia stato diligente nell'aver rappresentato, ed
informato, i suoi clienti di tutte le circostanze necessarie
per poter assumere una decisione consapevole finalizzata ad
impugnare i provvedimenti della Commissione Tributaria
Regionale.
In particolare, assunto il dato che circa l'obbligo di
assistenza tecnica nel processo tributario di cui all'art.
18 d.lgs. n. 546/1992 sussisteva a quel tempo quanto meno un
contrasto interpretativo, il professionista avrebbe avuto,
per quanto premesso, il dovere di informare il cliente della
possibilità di un ricorso per cassazione, allo scopo di
sperimentare una possibilità di esito favorevole, fatte
ovviamente le opportune valutazioni in concreto in ordine
alla possibilità di successo del ricorso anche nel merito
delle questioni tributarie dedotte in giudizio, attraverso
cioè un ponderato bilanciamento tra il costo del rimedio
impugnatorio ulteriore e le possibilità di ricavarne
concreta utilità. Onde rimettere, in definitiva, la
responsabilità della decisione ad una ponderata delibazione
del cliente stesso.
Su tutto questo, non risulta che sia stata esperita una
indagine di merito. |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
differenza tra i lavori di restauro e risanamento
conservativo e quelli di ristrutturazione edilizia.
I lavori di restauro e risanamento
conservativo sono un’attività rivolta «… a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso)
…, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche
«…il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli
elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli
elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o
deteriorati di tal organismo preesistente non consente di
confondere la relativa vicenda con quella della
ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria
fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili
con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento,
che invece presuppongono la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua
lata accezione di componenti strutturali originali o
meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua
superficie.
Di recente la Sezione ha ribadito i capisaldi dell’istituto,
riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin
dall'art. 31 della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme
sistematico di opere anche sulla struttura (compresi il
consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio) che rispettino gli elementi
fondamentali dell'organismo edilizio e ne assicurino le
destinazioni d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia
risiede essenzialmente nella conservazione formale e
funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi
rispetto alla seconda.
Non è allora chi non veda come, perlomeno secondo tal
descrizione ed in assenza d’un nuovo e/o diverso
accertamento da parte delle Amministrazioni intimate sul
punto, la vicenda in esame ben s’inquadri tra i casi di
restauro e di risanamento conservativo, di cui all’art.
3, c. 1, lett. c), del DPR 380/2001.
Si tratta, per vero, di un’attività rivolta «… a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che,
nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali (di esso) …, ne consentano destinazioni d'uso
con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche
«…il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli
elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli
elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o
deteriorati di tal organismo preesistente non consente, come
hanno adombrano le Soprintendenze, di confondere la relativa
vicenda con quella della ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria
fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili
con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento,
che invece presuppongono la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua
lata accezione di componenti strutturali originali o
meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua
superficie (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 17.03.2014 n.
1326; id., 17.07.2014 n. 3796; id., 05.09.2014 n. 4253).
Di recente la Sezione (cfr. Cons. St., IV, 25.07.2013 n.
3968) ha ribadito i capisaldi dell’istituto, riconoscendo
il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31 della l.
05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico di opere
anche sulla struttura (compresi il consolidamento, il
ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali
dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni
d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia
risiede essenzialmente nella conservazione formale e
funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi
rispetto alla seconda
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.07.2015 n. 3505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
mancanza della firma dell'offerta non può considerarsi a
guisa di mera irregolarità formale, sanabile nel corso del
procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la
ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una
espressa previsione della lex specialis.
Il collegio ritiene che mediante la
possibilità di regolarizzazione della mancata sottoscrizione
dell'offerta la controinteressata sia stata abilitata alla
produzione dell’offerta tecnica in violazione del termine di
scadenza per la presentazione delle offerte previsto dalla
lex specialis di gara.
Ed invero, secondo la disciplina civilistica in materia di
scrittura privata (libro VI, capo II, c.c.), tra i requisiti
della scrittura vi sono la privatezza, l’autenticità
e la genuinità; tra gli elementi della scrittura,
invece, sono compresi il corpo, la sottoscrizione
e il testo.
La scrittura privata, contrariamente all’atto pubblico, è
formata dal suo autore e, per acquisire efficacia
probatoria, deve essere munita di sottoscrizione
riconosciuta, autenticata o verificata. Solo in questi casi
la scrittura prodotta in giudizio fa piena prova fino a
querela di falso della paternità del documento da parte di
chi l’ha sottoscritto (art. 2702 c.c.).
Punto centrale nella logica della forma scritta è
l’assunzione e la garanzia di paternità del documento. La
sottoscrizione è parte integrante del documento e
costituisce strumento di imputazione all’autore del
documento e della dichiarazione in esso contenuta.
La sottoscrizione consta normalmente del nome e del cognome
del sottoscrivente, per esteso. Essa svolge quattro
funzioni: indicativa, servendo ad individuare l’autore del
documento; dichiarativa, poiché essa consiste in una
dichiarazione di assunzione della paternità del contenuto
del documento; probatoria, per provare l’autenticità del
documento; presuntiva, consentendo di risalire a determinate
situazioni soggettive (che il sottoscrittore conosceva il
testo della scrittura, che la dichiarazione sia definitiva,
che la dichiarazione sia completa).
Dal complesso delle funzioni che svolge, la giurisprudenza è
pervenuta all’affermazione consolidata che la sottoscrizione
è elemento essenziale della scrittura privata.
La scrittura carente di sottoscrizione non può essere
neppure definita scrittura privata e, pertanto non acquista
alcun valore probatorio come scrittura.
Inoltre, ai sensi dell’art. 74 del d.lgs. n. 163/2006: “1.
Le offerte hanno forma di documento cartaceo o elettronico e
sono sottoscritte con firma manuale o digitale, secondo le
norme di cui all'articolo 77.
2. Le offerte contengono gli elementi prescritti dal bando o
dall'invito ovvero dal capitolato d'oneri, e, in ogni caso,
gli elementi essenziali per identificare l'offerente e il
suo indirizzo e la procedura cui si riferiscono, le
caratteristiche e il prezzo della prestazione offerta, le
dichiarazioni relative ai requisiti soggettivi di
partecipazione.
(…)”.
E’ stato, quindi, affermato che l’offerta è l’impegno
negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con
prestazioni conformi al relativo oggetto; essa individua i
caratteri del prodotto nella prospettiva comparativa e
concorrenziale sottesa all’aggiudicazione.
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici di
appalto la sottoscrizione assolve la funzione di assicurare
la provenienza, la serietà, l’affidabilità dell’offerta e
costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità,
sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi solo
ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione
di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
La mancanza della firma, pertanto, non può considerarsi a
guisa di mera irregolarità formale, sanabile nel corso del
procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la
ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una
espressa previsione della lex specialis.
E’, stato, inoltre, affermato nel parere dell’ex AVCP (ora
ANAC) n. 92, del 22.05.2013, che, anche qualora la
disciplina concorsuale risulti ambigua in merito ai
documenti da sottoscrivere pena l’esclusione dalla gara, la
sottoscrizione è richiesta alla luce dell’eterointegrazione
legale del contratto (artt. 1339-1374 c.c.), ad opera
dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006.
Sul punto, peraltro, l’ANAC è nuovamente intervenuta con la
determina n. 1 dell’08.01.2015, con la quale si è cercato di
fornire alcuni chiarimenti sull’interpretazione del
combinato disposto degli artt. 38, comma 2-bis e 46, commi
1-ter e 1-bis, alla luce delle recenti modifiche normative
operate dal d.l. n. 90/2014, così come convertito nella
legge n. 114/2014.
In particolare, in tema di mancanza di sottoscrizione della
domanda e dell’offerta richiesta dagli artt. 73 e 74 del
d.lgs. n. 163/2006, la delibera, dopo avere opportunamente
citato tutta la giurisprudenza a favore della tesi per la
quale tale assenza determina l’obbligatorietà
dell’esclusione dalla gara per mancanza di un elemento
essenziale della domanda o dell’offerta, avendo la funzione
di ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la
prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo
richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza,
la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa, costituendo
un elemento essenziale che attiene propriamente alla
manifestazione di volontà di partecipare alla gara,
conclude, invece, per la possibilità di regolarizzazione
della stessa, trattandosi di un elemento sì essenziale, ma
sanabile, “non impattando sul contenuto e sulla segretezza
dell’offerta”.
Si legge, invero, nella determina, che: “ferma restando la
riconducibilità dell’offerta al concorrente (che escluda
l’incertezza assoluta sulla provenienza), dal combinato
disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del
Codice, risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità (anche) degli elementi che
devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge
(al bando o al disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento
della sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione
prevista nel bando” (cfr. pagg. 13 e 14 della determina).
Deve, infatti, osservarsi che il nuovo comma 1-ter
dell'articolo 46 del d.lgs. n. 163/2006, risultante dalle
modifiche operate dal d.l. n. 90/2014, convertito nella
legge n. 114/2014, estende l’ambito di applicazione delle
disposizioni di cui all’articolo 38, comma 2-bis, “a ogni
ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli
elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che
devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge,
al bando o al disciplinare di gara”.
Tale norma, si ribadisce, deve essere letta, peraltro, in
combinato disposto con il precedente comma 1-bis, ai sensi
del quale “La stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali
ovvero in caso di non integrità del plico contenente
l’offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e
le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione”.
Il fatto che il legislatore non sia intervenuto anche su
tale disposizione induce, dunque, a ritenere che permangano
ancora nel nuovo quadro normativo alcune ipotesi di errori
insanabili, tra cui è ricompresa l'assenza di
sottoscrizione, ai sensi dell'articolo succitato.
Il collegio ritiene, invero, che non possa ritenersi di
certa provenienza una domanda non sottoscritta, contrastando
tale interpretazione, irrimediabilmente, con le pacifiche
conclusioni in tema di inesistenza di un documento non
sottoscritto, nonché con lo stesso disposto dell’art. 46 del
d.lgs. n. 163/2006, che al comma 1-bis legittima, come
visto, la stazione appaltante all’esclusione, tra le altre
ipotesi, proprio di un candidato nel caso di incertezza
assoluta sulla provenienza dell’offerta e per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali della stessa.
Questo approccio rigoristico è stato, peraltro, mantenuto
fermo anche quando sono state ripudiate interpretazioni
puramente formali delle regole di gara.
Si è, infatti, precisato che: il “difetto di sottoscrizione,
per comportare la necessaria ed automatica esclusione del
concorrente, deve determinare l’incertezza assoluta sulla
provenienza dell’offerta, risolvendosi altrimenti in una
mancanza di natura formale inidonea a produrre l’effetto
sanzionatorio disposto dalla norma”. La finalità della
sottoscrizione si è così ritenuta conseguita in presenza
almeno della sigla in calce al documento.
Sulla base di analoghe considerazioni si è ritenuto che il
difetto di firma digitale nella sottoscrizione dell’offerta
tecnica, in presenza di una sottoscrizione autografa della
stessa, non potesse costituire causa di esclusione,
prevalendo in questo caso il principio del favor
partecipationis.
Con il presente
ricorso la cooperativa istante ha impugnato i provvedimenti
indicati in epigrafe, con i quali la Centrale Unica di
Committenza tra il comune di San Martino Siccomario ed il
comune di Travaco’ Siccomario ha approvato le risultanze di
gara ed ha aggiudicato definitivamente a F... Società
Cooperativa Sociale il servizio di pulizia degli immobili di
proprietà comunale, per tre anni dall'effettivo inizio del
servizio.
A sostegno del proprio ricorso l’istante ha dedotto,
sostanzialmente, con il primo motivo la violazione degli
artt. 86 e ss. del d.lgs. n. 163/2006, in considerazione
dell’anomalia dell’offerta della controinteressata con
riferimento al costo del lavoro, nonché, con il secondo
motivo, la violazione degli artt. 46, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 163/2006, degli artt. 1, 3 e 6 della legge n.
241/1990, dell’art. 97 della Costituzione, oltre a diversi
profili di eccesso di potere in considerazione della
mancanza di sottoscrizione in calce all’offerta tecnica
della controinteressata.
...
Ed invero, si ritiene che il gravame si presenti
manifestamente fondato in relazione al secondo motivo
di diritto.
Con tale doglianza, l’istante ha dedotto, sostanzialmente,
l’illegittimità della mancata esclusione della Cooperativa
controinteressata, atteso che la stessa ha presentato
un’offerta tecnica totalmente priva di sottoscrizione, in
palese violazione dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n.
163/2006.
Dalla documentazione versata in atti emerge
inequivocabilmente che la Cooperativa controinteressata ha
prodotto in sede di gara un’offerta tecnica non sottoscritta
e priva finanche di sigle in alcuna parte del documento.
Nonostante ciò, la commissione di gara ha ritenuto che la
fattispecie potesse rientrare fra gli errori regolarizzabili
con l’adesione al soccorso istruttorio, ai sensi dell’art.
10 della lettera di invito dell’11.03.2015 (cfr. in
particolare pag. 8), pure oggetto della presente
impugnazione; tale lettera d’invito è stata, infatti,
redatta con riferimento alle prescrizioni dell’art. 38,
comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice degli appalti, per
il cui combinato disposto risulterebbe ora sanabile ogni
ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli
elementi che devono essere prodotti dai concorrenti in base
alla legge, al bando o al disciplinare di gara, come risulta
dalla lettura del verbale n. 1 del 30.03.2015, alle pagine 4
e 5, nelle cui conclusioni si legge che: “Per quanto
sopra, il concorrente legale rappresentante della
Cooperativa F... formula immediatamente e di proprio pugno,
una dichiarazione, ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.Lgs.
445/2000, dove dichiara che la cooperativa dispone di tutta
l’attrezzatura, del materiale e dell’equipaggiamento tecnico
necessario per eseguire l’appalto”.
Il collegio ritiene che, in tal modo, mediante la
possibilità di regolarizzazione, la controinteressata sia
stata abilitata alla produzione dell’offerta tecnica in
violazione del termine di scadenza per la presentazione
delle offerte previsto dalla lex specialis di gara.
Ed invero, secondo la disciplina civilistica in materia di
scrittura privata (libro VI, capo II, c.c.), tra i requisiti
della scrittura vi sono la privatezza, l’autenticità
e la genuinità; tra gli elementi della scrittura,
invece, sono compresi il corpo, la sottoscrizione
e il testo.
La scrittura privata, contrariamente all’atto pubblico, è
formata dal suo autore e, per acquisire efficacia
probatoria, deve essere munita di sottoscrizione
riconosciuta, autenticata o verificata. Solo in questi casi
la scrittura prodotta in giudizio fa piena prova fino a
querela di falso della paternità del documento da parte di
chi l’ha sottoscritto (art. 2702 c.c.).
Punto centrale nella logica della forma scritta è
l’assunzione e la garanzia di paternità del documento. La
sottoscrizione è parte integrante del documento e
costituisce strumento di imputazione all’autore del
documento e della dichiarazione in esso contenuta.
La sottoscrizione consta normalmente del nome e del cognome
del sottoscrivente, per esteso. Essa svolge quattro
funzioni: indicativa, servendo ad individuare l’autore del
documento; dichiarativa, poiché essa consiste in una
dichiarazione di assunzione della paternità del contenuto
del documento; probatoria, per provare l’autenticità del
documento; presuntiva, consentendo di risalire a determinate
situazioni soggettive (che il sottoscrittore conosceva il
testo della scrittura, che la dichiarazione sia definitiva,
che la dichiarazione sia completa).
Dal complesso delle funzioni che svolge, la giurisprudenza è
pervenuta all’affermazione consolidata che la sottoscrizione
è elemento essenziale della scrittura privata.
La scrittura carente di sottoscrizione non può essere
neppure definita scrittura privata e, pertanto non acquista
alcun valore probatorio come scrittura.
Inoltre, ai sensi dell’art. 74 del d.lgs. n. 163/2006: “1.
Le offerte hanno forma di documento cartaceo o elettronico e
sono sottoscritte con firma manuale o digitale, secondo le
norme di cui all'articolo 77.
2. Le offerte contengono gli elementi prescritti dal bando o
dall'invito ovvero dal capitolato d'oneri, e, in ogni caso,
gli elementi essenziali per identificare l'offerente e il
suo indirizzo e la procedura cui si riferiscono, le
caratteristiche e il prezzo della prestazione offerta, le
dichiarazioni relative ai requisiti soggettivi di
partecipazione.
(…)”.
E’ stato, quindi, affermato che l’offerta è l’impegno
negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con
prestazioni conformi al relativo oggetto; essa individua i
caratteri del prodotto nella prospettiva comparativa e
concorrenziale sottesa all’aggiudicazione (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, n. 7987/2010).
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici di
appalto la sottoscrizione assolve la funzione di assicurare
la provenienza, la serietà, l’affidabilità dell’offerta e
costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità,
sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi solo
ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione
di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 528).
La mancanza della firma, pertanto, non può considerarsi a
guisa di mera irregolarità formale, sanabile nel corso del
procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la
ricevibilità dell’offerta, senza che sia necessaria una
espressa previsione della lex specialis (cfr. Cons.
Stato, sez. V, n. 5547/2008; sez. IV, n. 1832/2010; sez. V,
n. 528/2011).
E’, stato, inoltre, affermato nel parere dell’ex AVCP (ora
ANAC) n. 92, del 22.05.2013, che, anche qualora la
disciplina concorsuale risulti ambigua in merito ai
documenti da sottoscrivere pena l’esclusione dalla gara, la
sottoscrizione è richiesta alla luce dell’eterointegrazione
legale del contratto (artt. 1339-1374 c.c.), ad opera
dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 (Tra la
giurisprudenza che ritiene tassativa la sottoscrizione in
calce (anche) all’offerta tecnica, cfr. pure Cons. Stato,
sez. V, n. 2317/2012).
Sul punto, peraltro, l’ANAC è nuovamente intervenuta con la
determina n. 1 dell’08.01.2015, con la quale si è cercato di
fornire alcuni chiarimenti sull’interpretazione del
combinato disposto degli artt. 38, comma 2-bis e 46, commi
1-ter e 1-bis, alla luce delle recenti modifiche normative
operate dal d.l. n. 90/2014, così come convertito nella
legge n. 114/2014.
In particolare, in tema di mancanza di sottoscrizione della
domanda e dell’offerta richiesta dagli artt. 73 e 74 del
d.lgs. n. 163/2006, la delibera, dopo avere opportunamente
citato tutta la giurisprudenza a favore della tesi per la
quale tale assenza determina l’obbligatorietà
dell’esclusione dalla gara per mancanza di un elemento
essenziale della domanda o dell’offerta, avendo la funzione
di ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la
prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo
richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza,
la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa, costituendo
un elemento essenziale che attiene propriamente alla
manifestazione di volontà di partecipare alla gara,
conclude, invece, per la possibilità di regolarizzazione
della stessa, trattandosi di un elemento sì essenziale, ma
sanabile, “non impattando sul contenuto e sulla
segretezza dell’offerta”.
Si legge, invero, nella determina, che: “ferma restando
la riconducibilità dell’offerta al concorrente (che escluda
l’incertezza assoluta sulla provenienza), dal combinato
disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del
Codice, risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità (anche) degli elementi che
devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge
(al bando o al disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento
della sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione
prevista nel bando” (cfr. pagg. 13 e 14 della
determina).
Deve, infatti, osservarsi che il nuovo comma 1-ter
dell'articolo 46 del d.lgs. n. 163/2006, risultante dalle
modifiche operate dal d.l. n. 90/2014, convertito nella
legge n. 114/2014, estende l’ambito di applicazione delle
disposizioni di cui all’articolo 38, comma 2-bis, “a ogni
ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli
elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che
devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge,
al bando o al disciplinare di gara”.
Tale norma, si ribadisce, deve essere letta, peraltro, in
combinato disposto con il precedente comma 1-bis, ai sensi
del quale “La stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali
ovvero in caso di non integrità del plico contenente
l’offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e
le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione”.
Il fatto che il legislatore non sia intervenuto anche su
tale disposizione induce, dunque, a ritenere che permangano
ancora nel nuovo quadro normativo alcune ipotesi di errori
insanabili, tra cui è ricompresa l'assenza di
sottoscrizione, ai sensi dell'articolo succitato.
Il collegio ritiene, invero, che non possa ritenersi di
certa provenienza una domanda non sottoscritta, contrastando
tale interpretazione, irrimediabilmente, con le pacifiche
conclusioni in tema di inesistenza di un documento non
sottoscritto, nonché con lo stesso disposto dell’art. 46 del
d.lgs. n. 163/2006, che al comma 1-bis legittima, come
visto, la stazione appaltante all’esclusione, tra le altre
ipotesi, proprio di un candidato nel caso di incertezza
assoluta sulla provenienza dell’offerta e per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali della stessa.
Questo approccio rigoristico è stato, peraltro, mantenuto
fermo anche quando sono state ripudiate interpretazioni
puramente formali delle regole di gara.
Si è, infatti, precisato che: il “difetto di
sottoscrizione, per comportare la necessaria ed automatica
esclusione del concorrente, deve determinare l’incertezza
assoluta sulla provenienza dell’offerta, risolvendosi
altrimenti in una mancanza di natura formale inidonea a
produrre l’effetto sanzionatorio disposto dalla norma”
(Cons. Stato, sez. V, n. 4595/2014). La finalità della
sottoscrizione si è così ritenuta conseguita in presenza
almeno della sigla in calce al documento (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, n. 8933/2010).
Sulla base di analoghe considerazioni si è ritenuto che il
difetto di firma digitale nella sottoscrizione dell’offerta
tecnica, in presenza di una sottoscrizione autografa della
stessa, non potesse costituire causa di esclusione,
prevalendo in questo caso il principio del favor
partecipationis (Cons. Stato, sez. V, n. 4595/2014).
Nella fattispecie all’esame del collegio, invece, non
sussiste alcun elemento (sigla o altro) tale da poter in
qualche modo ricondurre l’offerta tecnica prodotta alla
cooperativa controinteressata, in modo da escluderne
l’incertezza assoluta sulla provenienza.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va
accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei
provvedimenti impugnati, compresa la clausola di cui
all’art. 10 della lettera di invito dell’11.03.2015
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.07.2015 n. 1629 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E' illegittima l'ordinanza contingibile ed
urgente, assunta ai sensi dell’art. 54, d.lgs. n. 267/2000,
sottoscritta dal dirigente anziché dal sindaco.
... per l'annullamento dell’ordinanza del Comune di Santa
Giuletta R.G. n. 6 del 09.07.2014 notificata ai ricorrenti
il 16.07.2014, nonché di ogni altro atto presupposto o
consequenziale o comunque connesso anche non conosciuto dai
ricorrenti, ivi inclusa la comunicazione di avvio di
procedimento ex art. 7 della L. 241/1990 del 18.06.2014.
...
La signora Y.R. ed il sig. M.F. impugnano l’ordinanza con
cui il responsabile del settore territorio dell’ufficio
tecnico del Comune di Santa Giulietta ha ordinato loro la
rimozione di una piscina prefabbricata, al fine di eliminare
potenziali pericoli per la sicurezza e l’incolumità
pubblica.
...
Il ricorso è fondato.
È, in particolare, fondata la censura con cui viene
lamentata l’illegittimità del provvedimento impugnato -un’ordinanza
contingibile ed urgente, assunta ai sensi dell’art. 54,
d.lgs. n. 267/2000– per incompetenza.
L’atto è stato, invero, adottato dal responsabile del
settore territorio del Comune anziché dal sindaco, come
previsto dallo stesso articolo 54, d.lgs. n. 267/2000.
Dall’accertamento della sussistenza del vizio di
incompetenza, e dunque di una situazione in cui il potere
amministrativo non è stato ancora esercitato, consegue
l’assorbimento degli altri motivi dedotti, in applicazione
di quanto previsto dall’art. 34, c. 2, cod. proc. amm. (cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen. n. 5/2015).
Per le ragioni esposte, il ricorso è fondato e va pertanto
accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.07.2015 n. 1610 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
principio consolidato, i lavori di edificazione possono
ritenersi avviati nel termine prescritto quando le opere
eseguite siano di consistenza tale da comprovare l’effettiva
volontà del titolare del titolo edilizio di realizzare
quanto progettato e non meramente simbolici o fittizi o,
comunque, preparatori a quelli necessari a fini edificatori,
alla stregua di una valutazione in concreto, tenuto conto
della entità e delle dimensioni dell’intervento assentito.
In particolare, l’inizio dei lavori non è configurabile per
effetto della sola esecuzione di interventi di sbancamento e
senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione
del cantiere e manchino altri indizi idonei a comprovare il
reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro
ultimazione.
Nella fattispecie, gli interventi realizzati (sbancamento
per realizzare una rampa di accesso al terreno,
installazione di un cancello, edificazione di un muro di
cinta e di una baracca per il deposito di attrezzi e
materiali edili, installazione di tubature ed elementi per
allacci ad impianti idrici ed elettrici, espianto delle
alberature) non si prestano ad un positivo apprezzamento al
fine di ritenere avviata l’edificazione nel termine annuale,
tenuto conto anche della consistenza dell’intervento
assentito, avente ad oggetto la realizzazione di un
complesso edilizio da destinare ad uso produttivo e delle
evidenze emergenti dalla documentazione prodotta
dall’amministrazione comunale e dalla difesa della
controinteressata.
La decorrenza dei termini normativamente stabiliti per
l’inizio dei lavori comporta l’automatica decadenza del
titolo edilizio, vendo in rilievo un provvedimento a
carattere vincolato e meramente dichiarativo di un effetto
che discende direttamente dalla legge, con conseguente
infondatezza delle deduzioni dirette a contestare la carenza
di motivazione della determinazione gravata.
...
per l'annullamento:
-
dell'ordinanza n. 7 del 20.02.2015 con la quale
l’amministrazione comunale di Casandrino ha dichiarato la
decadenza del permesso di costruire n. 36/2010 del
26/03/2010 per mancato inizio lavori nei termini stabiliti
dall’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001;
-
della comunicazione di avvio del procedimento avente ad
oggetto la decadenza del permesso di costruire n. 36 del 26.03.2010;
...
Considerato:
- che il ricorso non merita accoglimento, ragione per cui il
Collegio ritiene di poter prescindere dalla eccezione
preliminare sollevata dalla difesa della controinteressata;
- che con il provvedimento gravato è stata dichiarata la
decadenza del permesso di costruire n. 36 del 26.03.2010,
relativo alla edificazione di un fabbricato ad uso
produttivo commerciale in via Marinaro, su lotto
catastalmente censito al foglio 3, particella n. 999, per
omesso inizio dei lavori nel termine prescritto dall’art. 15
del d.P.R. n. 380 del 2001;
- che, per principio consolidato, i lavori di edificazione
possono ritenersi avviati nel termine prescritto quando le
opere eseguite siano di consistenza tale da comprovare
l’effettiva volontà del titolare del titolo edilizio di
realizzare quanto progettato e non meramente simbolici o
fittizi o, comunque, preparatori a quelli necessari a fini
edificatori, alla stregua di una valutazione in concreto,
tenuto conto della entità e delle dimensioni dell’intervento
assentito;
- che, in particolare, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione di
interventi di sbancamento e senza che sia manifestamente
messa a punto l’organizzazione del cantiere e manchino altri
indizi idonei a comprovare il reale proposito di proseguire
i lavori sino alla loro ultimazione (TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, 04.05.2015, n. 741);
- che, nella fattispecie, gli interventi realizzati
(sbancamento per realizzare una rampa di accesso al terreno,
installazione di un cancello, edificazione di un muro di
cinta e di una baracca per il deposito di attrezzi e
materiali edili, installazione di tubature ed elementi per
allacci ad impianti idrici ed elettrici, espianto delle
alberature) non si prestano ad un positivo apprezzamento al
fine di ritenere avviata l’edificazione nel termine annuale,
tenuto conto anche della consistenza dell’intervento
assentito, avente ad oggetto la realizzazione di un
complesso edilizio da destinare ad uso produttivo e delle
evidenze emergenti dalla documentazione prodotta
dall’amministrazione comunale e dalla difesa della
controinteressata;
- che la decorrenza dei termini normativamente stabiliti per
l’inizio dei lavori comporta l’automatica decadenza del
titolo edilizio, vendo in rilievo un provvedimento a
carattere vincolato e meramente dichiarativo di un effetto
che discende direttamente dalla legge, con conseguente
infondatezza delle deduzioni dirette a contestare la carenza
di motivazione della determinazione gravata;
- che del tutto erronea si palesa, alla stregua delle
considerazioni che precedono, la qualificazione del
provvedimento gravato in termini di provvedimento di secondo
grado, adottato nell’esercizio del potere di autotutela
decisoria, non potendosi riconnettere alle pregresse
determinazioni dell’amministrazione alcuna valenza in merito
al rispetto del termine de quo;
- che, peraltro, le evidenze fattuali emergenti dalla
documentazione prodotta in giudizio escludono la sussistenza
di un legittimo affidamento da tutelare;
- che, infine, in relazione alla mancata previsione della
restituzione delle somme corrisposte dagli interessati a
titolo di oneri concessori, dedotta in via di subordine, il
Collegio reputa sufficiente rilevare che tale profilo non
incide sulla legittimità del provvedimento gravato; la
difesa dell’ente resistente, inoltre, nel riconoscere
l’obbligo restitutorio, ha attestato che parte ricorrente
non ha avanzato alcuna richiesta al suddetto fine,
circostanza, questa, non contestata;
- che, in conclusione, il ricorso va rigettato in quanto
infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 09.07.2015
n. 3654
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: L'importo è complessivo nelle gare di progettazione.
Tar Campania sui servizi di punta.
In una gara di progettazione l'importo dei due servizi di
punta è complessivo e non riferito a ogni servizio; i
servizi devono comunque fare riferimento a un soggetto, sia
esso il mandante o il mandatario di un raggruppamento
temporaneo.
È quanto afferma il TAR Campania-Salerno, Sez. II, con la
sentenza 09.07.2015 n. 1560.
In particolare, i giudici prendono in considerazione la
produzione del requisito dei due servizi «di punta»
di cui all'articolo 263 del dpr 207/2010 per decidere se sia
corretta la tesi in base alla quale i concorrenti avrebbero
dovuto dimostrare lo svolgimento dei servizi per un importo
(quantificato nello 0,60% del valore delle opere da
progettare) riferibile a ognuno dei servizi relativi alle
categorie di lavori messi a gara e individuate nel bando, o
se tale importo dovesse essere riferito ai due servizi
complessivamente considerati.
Il consiglio di stato afferma che la lettura della norma
tesa a riferire il valore a ognuno dei due servizi «sarebbe
eccessivamente penalizzante per la concorrenza» e
pertanto ritiene che in base all'articolo 263, comma 1,
lettera c), del Regolamento del codice dei contratti
pubblici (dpr 207/2010) «la somma dei due servizi di
punta debba rappresentare lo 0,60 volte il requisito
richiesto e non che ciascuno dei due servizi debba
rappresentare tale quota». Il Tar ha poi anche
considerato un ulteriore profilo relativo ai soggetti che
devono possedere il requisito.
Nel caso di specie nessuno dei professionisti facenti parte
del raggruppamento aveva esercitato interamente i due
servizi di punta. Secondo i giudici pertanto il
raggruppamento avrebbe dovuto essere escluso perché è stato
violato il principio della non frazionabilità dei due
servizi di punta in capo a un solo soggetto del
raggruppamento temporaneo.
Tale requisito, hanno aggiunto i giudici, risponde «all'interesse
che ci sia un livello minimo di capacità per la
partecipazione alle gare d'appalto» cioè all'«interesse
a non polverizzare eccessivamente i requisiti di
partecipazione; interesse sotteso alla normativa interna la
quale vuole evitare che la riunione di imprese si traduca in
uno strumento elusivo delle regole impositive di un livello
minimo di capacità»
(articolo ItaliaOggi del 17.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI:
Sulla sussistenza della giurisdizione del g.a. in relazione
alla controversia relativa alla partecipazione alla
selezione pubblica indetta da un comune avente ad oggetto il
conferimento di incarichi di componenti dello "OIV".
Sull'obbligo di ogni amministrazione pubblica di dotarsi
singolarmente o in forma associata di un organismo
indipendente di valutazione della performance.
---------------
Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in
relazione alla controversia relativa alla partecipazione
alla selezione pubblica indetta da un comune avente ad
oggetto il conferimento di n. 3 incarichi di componenti
dello "Organismo Indipendente di Valutazione della
performance" ("OIV"), di durata triennale, ai sensi
dell'art. 103, comma 1, Cost., poiché il soggetto che aspira
alla nomina di componente dello "OIV", ai sensi dell'art. 14
del D.Lgs. 27.10.2009 n. 150, fa valere una posizione
giuridica di interesse legittimo, come risulta altresì
confermato dalla circostanza secondo cui, nel caso di
specie, il comune ha indetto un'apposita procedura selettiva
per la relativa individuazione.
Inoltre il componente dello
"OIV", ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2009 è
una figura riconducibile al genus del "funzionario
onorario", il cui rapporto di servizio viene costituito con
provvedimento amministrativo, soggetto alla generale
giurisdizione amministrativa di legittimità, ai sensi
dell'art. 7 c.p.a..
---------------
L'art. 14 del D.Lgs. 27.10.2009 n. 150 prevede l'obbligo di
ogni amministrazione pubblica, di dotarsi, singolarmente o
in forma associata, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica, di un organismo indipendente di
valutazione della performance. Tale organismo indipendente
sostituisce i servizi di controllo interno, comunque
denominati, di cui al D.Lgs. 30.07.1999 n. 286, ed esercita,
"in piena autonomia", le attività di cui al c. 4° dell'art.
14 del D.Lgs. n. 150/2009.
Ne discende che le predette
funzioni di controllo (strategico, di valutazione dei
dirigenti e di validazione delle metodologie di misurazione
e valutazione della performance) devono essere espletate nel
pieno rispetto delle garanzie di indipendenza e di terzietà,
da soggetti la cui nomina, proprio per questo, non può avere
carattere fiduciario ed "intuitu personae".
La l. 30.10.2013 n. 125 ha modificato i criteri della nomina
dei componenti dello "OIV", aumentandone significativamente
il grado di indipendenza e facendo assumere alla C.I.V.I.T.
la denominazione di "Autorità Nazionale Anticorruzione e per
la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni
pubbliche" ("ANAC."). L'"ANAC" conferma nelle Faq il
divieto di estendere la partecipazione, per la nomina dei
componenti dello "OIV" alle società, già esplicitato con la
Delibera della "CIVIT" n. 29 del 05.12.2012 e ribadito con la
successiva Delibera n. 12 del 24.02.2013 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.07.2015 n. 1190 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Cds: per aprire un lido non basta la Scia.
L'aver ottenuto la concessione demaniale non è presupposto
sufficiente per iniziare l'attività con una Scia; ciò in
quanto la tutela delle coste è di competenza della
Soprintendenza che deve pronunciarsi prioritariamente in
merito alle caratteristiche delle strutture utilizzate.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 08.07.2015 n. 3397.
La Sezione ha ritenuto legittima la decisione del Comune di
Napoli che, dapprima ha revocato gli effetti della Scia e
poi ha disposto il divieto di esercizio dell'attività di
stabilimento balneare, ritenendo inapplicabile alla
fattispecie l'istituto di semplificazione, venendo in gioco
valutazioni afferenti profili paesaggistici e ambientali
oltre che di tutela della sicurezza pubblica. Non è stata,
in pratica, accolta la tesi che i profili di rilevanza
paesaggistica sarebbero già stati valutati a monte
dall'autorità demaniale in occasione del rilascio della
concessione per finalità turistico ricreative.
Il Collegio
ha motivato la sua decisione tenendo conto, in sostanza, di
due questioni. La prima perché la competenza ad esprimere la
valutazione di compatibilità delle opere funzionali allo
stabilimento balneare con il regime proprio del vincolo
paesaggistico cui è collegato l'uso del bene demaniale non
spetta all'autorità demaniale ma, in quanto espressione
specifica della funzione pubblica di tutela paesaggistica,
alla competente Amministrazione per i beni culturali.
Inoltre, perché l'autorità demaniale non potrebbe, in ogni
caso, svolgere ex ante una valutazione di compatibilità
paesaggistica degli interventi in carenza di concreti
elaborati progettuali che descrivano dettagliatamente le
opere strumentali all'esercizio dello stabilimento balneare,
che non hanno una conformazione identica in ogni fattispecie
concreta.
In pratica, per quanto possa trattarsi di opere
amovibili a carattere stagionale, nondimeno l'autorità
competente a pronunciarsi sulla loro compatibilità con il
vincolo paesaggistico che grava sulla fascia costiera, ai
sensi dell'art. 142 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio, non può che essere la competente Soprintendenza,
la quale, come aveva già osservato il giudice di primo
grado, non era mai stata coinvolta nel procedimento
funzionale alla formazione del titolo per l'esercizio dello
stabilimento balneare.
Peraltro, ha anche affermato la
Sezione, il rilascio dell'autorizzazione di pubblica
sicurezza ai sensi dell'art. 80 del Tulps, presuppone la
verifica della solidità e della sicurezza degli edifici e
l'esistenza di uscite pienamente adatte allo sgombero.
Da
ciò ne consegue che il titolo autorizzatorio non poteva
essere surrogato dalla Scia, fermo restando che la pubblica
sicurezza è esclusa dal perimetro applicativo dell'articolo
19 della legge 241 del 1990 e non è applicabile ai casi in
cui è necessaria la valutazione di interessi sensibili quali
l'ambiente e il paesaggio, in ordine ai quali è richiesto un
particolare schema procedimentale
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2015). |
APPALTI:
Avvalimento, specificare le risorse rese
disponibili. Pronuncia del cds del
07.07.2015.
Nell'avvalimento è necessario rendere esplicita e concreta
la volontà di mettere a disposizione i requisiti di
fatturato e tecnici; illegittima la mera riformulazione del
dato normativo perché è necessario specificare in dettaglio
le risorse messe a disposizione.
È quanto chiarisce il Consiglio di Stato, III Sez., con la
sentenza 07.07.2015 n. 3390
rispetto all'articolo 49 del codice dei contratti pubblici.
Il problema riguardava una dichiarazione di avvalimento
formulata in termini molto generici sia per il fatturato
globale, sia per i requisiti tecnici di cui l'impresa
partecipante risultava sprovvista.
I giudici chiariscono che
quando l'avvalimento è prestato al solo fine di garantire la
solidità patrimoniale dell'impresa partecipante alla gara
(cd. avvalimento di garanzia) lo scopo è quello di garantire
l'affidabilità del concorrente a sostenere finanziariamente
sia l'attuazione dell'appalto, sia il risarcimento della
stazione appaltante nel caso d'inadempimento.
A tale
riguardo la sentenza specifica che «anche per l'avvalimento
di garanzia i relativi atti non possono risolversi in
formule generiche e svincolate da qualsiasi collegamento con
le risorse materiali o immateriali rese disponibili».
Pertanto l'avvalimento di garanzia può svolgere «la sua
funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner
commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai
rischi di inadempimento contrattuale solo se rende palese la
concreta disponibilità di risorse e dotazioni aziendali da
fornire all'ausiliata. Il limite di operatività
dell'istituto è dato, quindi, dal fatto che la messa a
disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel
prestito di un valore puramente cartolare e astratto».
Quindi, dice la sentenza, è necessario che dal contratto
risulti un impegno chiaro e concreto dell'impresa ausiliaria
a prestare le proprie risorse ed il proprio apparato
organizzativo in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di garanzia.
In pratica,
l'obiettivo è quello di far congiuntamente fronte
all'esecuzione del nuovo contratto in maniera tale da
fornire oggettive garanzie sulla serietà e riscontrabilità
dell'impegno aggiuntivo assunto
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2015).
---------------
MASSIMA
10.- Il motivo riguarda la controversa questione dei
contenuti che devono avere gli atti attraverso i quali, in
sede di partecipazione ad una gara pubblica, un’impresa
ausiliaria presta propri requisiti in favore di altra
impresa ausiliata, che di quei requisiti è in tutto o in
parte carente.
10.1.- Al riguardo, si deve ricordare che l'articolo 49 del
d.lgs. n. 163 del 2006 contempla, in materia di avvalimento
nelle gare di appalto, un procedimento negoziale complesso
composto da atti unilaterali del concorrente (lettera a) e
dell’impresa ausiliaria (lettera d), indirizzati alla
stazione appaltante, nonché da un contratto tipico di
avvalimento (lettera f) stipulato tra il concorrente e
l’impresa ausiliaria.
10.2.-
Per giurisprudenza costante, l’impresa ausiliaria
deve, peraltro, impegnarsi a mettere a disposizione
dell’impresa ausiliata il requisito soggettivo del quale
quest’ultima è priva non «quale mero valore astratto»
ma indicando chiaramente con quali proprie risorse può far
fronte alle esigenze per le quali si è impegnata a sopperire
ai requisiti dei quali l’impresa ausiliata è carente, a
seconda dei casi, con mezzi, personale o risorse economiche.
Si è, in proposito, affermato, che l’esigenza di una
puntuale individuazione dell’oggetto del contratto di
avvalimento, «oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul
terreno civilistico, nella generale previsione codicistica
che configura quale causa di nullità di ogni contratto
l’indeterminatezza (ed indeterminabilità) del relativo
oggetto, trova la propria essenziale giustificazione
funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure
contrattuali del settore pubblico, nella necessità di non
permettere -fin troppo- agevoli aggiramenti del sistema dei
requisiti di ingresso alle gare pubbliche»
(Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 412 del 27.01.2014, Sez. VI, n. 3310 del
13.06.2013).
10.3.- In conseguenza,
la pratica della mera riproduzione,
nel testo dei contratti di avvalimento, della formula
legislativa della messa a disposizione delle risorse
necessarie di cui è carente il concorrente (o di simili
espressioni) è stata ritenuta tautologica e, come tale,
indeterminata e quindi inidonea a permettere un sindacato,
da parte della Stazione appaltante, sull’effettiva messa a
disposizione dei requisiti
(Consiglio di Stato, Sez. V, n.
412 del 27.01.2014 cit.).
10.4.- L’art. 88, primo comma, lettera a), del decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207 (recante il
Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163) ha recepito, a livello
normativo, tali principi stabilendo che il contratto di
avvalimento deve riportare «in modo compiuto, esplicito
ed esauriente …le risorse e i mezzi prestati in modo
determinato e specifico».
11.- In concreto, come questa Sezione ha già di recente
ricordato (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2539 del
19.05.2015),
il rispetto di tale principio è certamente più
agevole nel cd. avvalimento operativo, nel quale l’impresa
ausiliaria mette a disposizione dell’impresa ausiliata
determinati requisiti di capacità tecnica o professionale.
Mentre più complessa è l’applicazione concreta del principio
quando l’avvalimento è prestato al (solo) fine di garantire
la solidità patrimoniale dell’impresa partecipante alla gara
(cd. avvalimento di garanzia).
12.- Con riferimento, in particolare, all’avvalimento di
garanzia, questa Sezione, ha ricordato che i requisiti di
fatturato sono preordinati a garantire l’affidabilità del
concorrente a sostenere finanziariamente sia l’attuazione
dell’appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante
nel caso d’inadempimento. Ciò posto, benché il c.d. avvalimento “di garanzia” debba essere distinto da
quello “operativo”, anche per l’avvalimento “di
garanzia" i relativi atti non possono risolversi in
formule generiche e svincolate da qualsiasi collegamento con
le risorse materiali o immateriali rese disponibili
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3057 del 17.06.2014).
L’avvalimento di garanzia può spiegare, infatti, la sua
funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner
commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai
rischi di inadempimento contrattuale solo se rende palese la
concreta disponibilità di risorse e dotazioni aziendali da
fornire all'ausiliata.
Il limite di operatività dell'istituto è dato, quindi, dal
fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non
deve risolversi nel prestito di un valore puramente
cartolare e astratto, ma è invece necessario che dal
contratto risulti un impegno chiaro e concreto dell'impresa
ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il proprio
apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di garanzia
(Consiglio di
Stato, Sez. III, n. 2539 del 19.05.2015; n. 3057 del
17.06.2014). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'illegittimità dell'affidamento diretto del
servizio pubblico di raccolta rifiuti ad una cooperativa
sociale.
E' illegittimo l'affidamento diretto del servizio pubblico
di raccolta rifiuti ad una cooperativa sociale in quanto
benché l'art. 5 della l. n. 381/1991 preveda che "gli
enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di
capitali a partecipazione pubblica, anche in deroga alla
disciplina in materia di contratti della pubblica
amministrazione", possono stipulare convenzioni con le
cooperative che svolgono attività agricole, industriali,
commerciali o di servizi "per la fornitura di beni e
servizi diversi da quelli sociosanitari ed educativi il cui
importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi
stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti
pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare
opportunità di lavoro per le persone svantaggiate", la
norma consente all'amministrazione l'affidamento diretto del
servizio alle cooperative, quando ricorrono le condizioni
specificamente indicate, ossia qualora si tratti di appalti
di fornitura di beni e servizi.
Tale tipologia di appalti presuppone, in coerenza con la
causa del contratto, che la relativa prestazione sia rivolta
all'amministrazione per soddisfare una sua specifica
esigenza al fine di ottenere, quale corrispettivo, il
pagamento di una determinata somma e non fa riferimento
all'affidamento di servizi pubblici locali quale il servizio
pubblico di raccolta rifiuti.
Inoltre, la summenzionata norma, derogando ai principi
generali di tutela della concorrenza che presiedono alla
svolgimento delle procedure di gara, ha valenza eccezionale
ed in quanto tale deve essere interpretata in maniera
restrittiva.
Ne consegue che non è possibile fare rientrare nel suo campo
di applicazione contratti diversi da quelli specificamente
indicati e, conseguentemente, tale norma non può trovare
applicazione per il servizio pubblico di raccolta di rifiuti
in parola (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 06.07.2015 n. 637 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
c'è dubbio che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza
di questa Corte, la contravvenzione prevista e punita
dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto
l'illegittima emissione di gas, vapori, fumi atti ad
offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa
all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo
produttivo, assuma il carattere della permanenza, non
potendosi ravvisare la consumazione di definiti episodi in
ogni singola emissione di durata temporale non sempre
individuabile.
---------------
Va ricordato che per il reato di cui all'art. 674 cod. pen.,
l'evento dì molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi
o vapori è apprezzabile a prescindere dal superamento di
eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente
il superamento del limite della normale tollerabilità ex
art. 844 c.c..
E' comunque necessario che venga accertato, in modo
rigoroso, il limite in questione.
2. Quanto all'eccepita violazione del principio del ne bis in
idem, non c'è dubbio che, come
più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, la
contravvenzione prevista e punita
dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto
l'illegittima emissione di gas, vapori, fumi atti
ad offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa
all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo
produttivo, assuma il carattere della permanenza, non
potendosi ravvisare la
consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione
di durata temporale non sempre
individuabile.
Ne segue che, se la sentenza di primo grado
abbia accertato la permanente
attualità dell'attività produttiva in termini non diversi da
quelli del momento della
contestazione, quanto a strumenti di produzione, la
permanenza nel reato deve ritenersi
cessata con la pronuncia di detta sentenza (cfr. ex multis
Cass. sez. 1 n. 9293 del 10/08/1995).
2.1. Il ricorrente omette, però, di considerare che la
sentenza passata in giudicato, come
rilevato dal Tribunale, alla cui motivazione rinvia la Corte
territoriale ( e come peraltro non
risulta contestato), aveva ad oggetto fatti commessi fino
all'11/12/2007 (pag. 3 sent. Trib).
Trattandosi di contestazione "chiusa", la permanenza doveva
ritenersi, quindi, cessata (già
prima della sentenza) alla data indicata nell'imputazione.
I fatti per cui si procede risultano accertati, invece, il
30 giugno ed il 03.11.2009.
Trattasi quindi di una condotta successiva che, come tale,
non può essere coperta dal
precedente giudicato.
3. In ordine al secondo motivo, va ricordato che per il reato
di cui all'art. 674
cod. pen., l'evento dì molestia provocato dalle emissioni di
gas, fumi o vapori è apprezzabile a
prescindere dal superamento di eventuali limiti previsti
dalla legge, essendo sufficiente il
superamento del limite della normale tollerabilità ex
art. 844 c.c. (Cass. Sez. 3 n. 34896 del
14.07.2011; e più di recente Cass. Sez. 3 n. 37037 in tema di
"immissioni olfattive"). E'
comunque necessario che venga accertato, in modo rigoroso,
il limite in questione.
I Giudici di merito hanno ampiamente argomentato in ordine
al superamento di siffatta
normale tollerabilità.
Già il Tribunale aveva accertato che l'imputato,
nell'esercizio dell'attività di somministrazione
al pubblico di alimenti e bevande, avesse provocato
l'emissione di fumi e vapori nauseabondi.
Che l'emissione fosse nauseabonda ed atta a molestare era
stato direttamente constatato
anche dagli Agenti di Polizia municipale, B. e S.
(quest'ultimo, nel corso del
sopralluogo veniva, addirittura, colto da un attacco di
nausea) -pag. 2 sent. Trib.
La Corte territoriale nel confutare i rilievi difensivi, ha
ribadito che dalle risultanze
processuali emergesse, in modo inequivocabile, l'emissione
nell'atmosfera di fumi e vapori
nauseabondi (pag. 4 sent. app.).
3.1.11 ricorrente, anziché censurare siffatte
argomentazioni, ripropone doglianze in fatto (in
ordine al buon funzionamento dell'impianto di areazione e
deodorizzazione), oppure irrilevanti
(quanto al mancato consenso da parte dei condomini alla
installazione di una canna fumaria).
4. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, con
condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi
atti ad escludere la colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità, al versamento
in favore della cassa delle
ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare
in euro 1.000,00, ai sensi
dell'art. 616 cod. proc. pen.; ed infine alla rifusione delle
spese sostenute nel grado dalla
costituita parte civile e che si liquidano come da
dispositivo.
Va solo aggiunto che l'inammissibilità del ricorso preclude
la possibilità di dichiarare ex
art. 129, comma 1, cod. proc. pen. cause di non punibilità.
Peraltro la eccepita prescrizione non è ancora maturata, non
tenendo conto il ricorrente dei
periodi di sospensione della stessa, intervenuti nel corso
del giudizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.07.2015 n. 27562). |
APPALTI:
Sulla finalità dell'istituto dell'avvalimento.
L'avvalimento può essere utilizzato anche per dimostrare la
disponibilità dei requisiti soggettivi di qualità:
condizioni.
L'istituto dell'avvalimento, di derivazione comunitaria, è
finalizzato a garantire la massima partecipazione alle gare
pubbliche, consentendo alle imprese non munite dei requisiti
partecipativi, di giovarsi delle capacità tecniche ed
economico-finanziarie di altre imprese; il principio
generale che caratterizza l'istituto è quello secondo cui,
ai fini della partecipazione alle procedure concorsuali, il
concorrente, per dimostrare le capacità tecniche,
finanziarie ed economiche, nonché il possesso dei mezzi
necessari all'esecuzione dell'appalto e richiesti dal
relativo bando, è abilitato a fare riferimento alla capacità
e ai mezzi di uno o più soggetti diversi, ai quali può
ricorrere tramite la stipulazione, appunto, di un contratto
di avvalimento
---------------
L'avvalimento può essere utilizzato anche per dimostrare la
disponibilità dei requisiti soggettivi di qualità, atteso
che la disciplina del codice non contiene alcuno specifico
divieto in ordine ai requisiti soggettivi che possono essere
comprovati mediante tale istituto (che ha pertanto una
portata generale), fermo restando l'onere del concorrente di
dimostrare che l'impresa ausiliaria non si impegna
semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto,
quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di
mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione
all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio
apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di qualità, e quindi, a seconda
dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri
elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto
dell'appalto. L'istituto dell'avvalimento è ritenuto quindi
ammissibile anche quanto alla certificazione SOA.
Tuttavia,
la messa a disposizione del requisito mancante non deve
risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e
astratto, essendo invece necessario che dal contratto
risulti chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a
prestare le proprie risorse e il proprio apparato
organizzativo in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi:
mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi
aziendali qualificanti).
In altri termini, è insufficiente
allo scopo la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei
contratti di avvalimento, della formula legislativa della
messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è
carente il concorrente", o espressioni equivalenti.
Pertanto
è legittima l'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa
che abbia fatto ricorso all'avvalimento producendo un
contratto che non contiene alcuna analitica e specifica
elencazione o indicazione delle risorse e dei mezzi in
concreto prestati, atteso che l'esigenza di una puntuale
analitica individuazione dell'oggetto del contratto di
avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno
civilistico nella generale previsione codicistica che
configura quale causa di nullità di ogni contratto
l'indeterminatezza (e l'indeterminabilità) del relativo
oggetto, trova la propria essenziale giustificazione
funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure
contrattuali pubbliche, nella necessità di non consentire
facili e strumentali aggiramenti del sistema dei requisiti
di partecipazione alle gare (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 01.07.2015 n. 1165 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Appalti. Esclusione.
Chance persa, danno solo se la vittoria è probabile.
In caso di esclusione dall’appalto, il «danno da perdita di
chance» non è provato dal «prestigio commerciale»
dell’impresa, ma solo dalla «significativa» probabilità di
successo in gara.
Lo ha
chiarito il Consiglio di Stato nella
sentenza
30.06.2015 n. 3249,
depositata dalla V Sez., accogliendo il
ricorso di un consorzio condannato a risarcire un’azienda
per l’esclusione da un bando per lavori su un inceneritore
allora a “licitazione privata” o ad invito (oggi “procedura
ristretta” in base al Dlgs n. 163/2006).
A causa del breve
tempo concesso, c’erano state solo due offerte su 14 ditte
invitate. La ditta aveva chiesto solo la proroga dei
termini.
Per i giudici, chi chiede il risarcimento deve
«provare gli elementi atti a dimostrare, pur se solo in modo
presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la
possibilità concreta che egli avrebbe avuto di conseguire il
risultato sperato, atteso che la valutazione equitativa del
danno, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile,
presuppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno
risarcibile» e il danno a tale possibilità «presuppone che
sussista una probabilità di successo (…) almeno pari al 50
per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili
anche mere possibilità di successo, statisticamente non
significative».
Nel caso in esame, vi è «una mera
“aspettativa di fatto”» senza «alcun oggettivo e specifico
elemento di prova (non potendosi annettere decisiva
importanza al “prestigio commerciale”), da cui poter dedurre
una significativa chance di successo (…) tanto in
considerazione del numero non ristretto di ditte che hanno
effettivamente manifestato interesse alla partecipazione
alla gara (…) e della ulteriore circostanza che, se fosse
stato disposto il richiesto differimento, avrebbero
verosimilmente presentato le proprie offerte»
(articolo Il Sole 24 Ore del
16.07.2015).
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MASSIMA
Considerato che:
f) in relazione al «risarcimento del danno da perdita di
chance» derivante dalla mancata partecipazione a
procedure di gara indette per l’aggiudicazione di appalti
pubblici, va osservato, in una con la consolidata
giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n.
131 del 2015; Sez. V, n. 3082 del 2014; Sez. V, n. 2195 del
2014; Cass. civ., n. 20351 del 2010 e n. 21255 del 2013, cui
si rinvia a mente degli artt. 74 e 120, co. 10, c.p.a.) che:
I) il danno da «perdita di chance» è da
intendersi, in linea di principio, quale lesione della
concreta occasione favorevole di conseguire un determinato
bene, occasione che non è mera aspettativa di fatto, ma
entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed
economicamente suscettibile di autonoma valutazione;
II) in ordine alla prova del grado di concreta ed
effettiva possibilità di conseguire il bene della vita, va
rilevato come, superata la teoria ‘ontologica’
secondo cui la risarcibilità sarebbe svincolata dalla
idoneità presuntiva della chance ad ottenere il risultato
finale, si sia affermato il diverso indirizzo c.d.
eziologico, legato al criterio della c.d. causalità adeguata
o ‘regolarità causale’ o ‘probabilità prevalente’;
III) pertanto il danno da perdita di chance può
essere in concreto ravvisato e risarcito (ove ne ricorrano i
presupposti anche in via equitativa), solo con specifico
riguardo al grado di probabilità che in concreto il
richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita
e, cioè, in ragione della maggiore o minore probabilità
dell'occasione perduta;
IV) in questo senso si è più volte precisato, con argomentazioni
estensibili al caso di specie, che il
ricorrente ha l'onere di provare gli elementi atti a
dimostrare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul
calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli
avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che
la valutazione equitativa del danno, ai sensi dell'articolo
1226 del codice civile, presuppone che risulti comprovata
l’esistenza di un danno risarcibile; in particolare, la
lesione della possibilità concreta di ottenere un risultato
favorevole presuppone che sussista una probabilità di
successo (nella specie di vedersi aggiudicato l'appalto)
almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente,
diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di
successo, statisticamente non significative;
g) nella specie, il ricorrente non ha addotto alcun
oggettivo e specifico elemento di prova (non potendosi
annettere decisiva importanza all’elemento del ‘prestigio
commerciale’ della medesima azienda), da cui poter
inferire l'esistenza di una significativa chance di
successo, in termini di rilevante probabilità di
aggiudicazione dell'appalto e, tantomeno, nella misura del
50 per cento; tanto in considerazione del numero non
ristretto di ditte che hanno effettivamente manifestato
interesse alla partecipazione alla gara (pari a 8, ovvero le
due che hanno effettivamente preso parte alla procedura e le
6 che hanno chiesto alla stazione appaltante un congruo
lasso temporale per elaborare le offerte), e della ulteriore
circostanza che, se fosse stato disposto il richiesto
differimento, avrebbero verosimilmente presentato le proprie
offerte;
h) in tale contesto, quindi, l'aspirazione della ditta Secir
al conseguimento dell'appalto rimane relegata ad una mera ‘aspettativa
di fatto’, non meritevole di tutela risarcitoria;
i) l’appello va pertanto accolto, con reiezione del ricorso
di primo grado, mentre, attesa la novità della questione di
fatto, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti
le spese di entrambi i gradi di giudizio. |
APPALTI SERVIZI:
Sull'insussistenza del divieto di partecipazione
alle nuove gare nei confronti degli affidatari diretti di
servizi pubblici locali.
Il divieto di partecipazione alle gare per l'affidamento di
servizi pubblici locali stabilito dall'art. 23-bis del D.L.
n. 112/2008, conv.con mod. in l. n. 133/2008, è venuto meno
per effetto della nota abrogazione referendaria della norma,
la quale non ha comportato la reviviscenza dell'art. 113
T.U.E.L. nelle parti abrogate dallo stesso art. 23-bis
(sent. Corte Cost., 26.01.2011, n. 24).
D'altro canto,
a seguito della dichiarazione di incostituzionalità
dell'art. 4 del D.L. n. 138/2011, dettato dal legislatore
per colmare il vuoto originato dall'abrogazione dell'art.
23-bis, la materia dei servizi pubblici trova ora la sua
composita disciplina nell'art. 34 del D.L. n. 179/2012,
nell'art. 25 del D.L. n. 1/2012, nell'art. 3-bis del D.L. n.
138/2011 e in una serie di disposizioni "sparse", oltre che
nelle previsioni settoriali relative ad alcuni settori:
coacervo normativo dal quale non è dato evincere alcun
formale divieto di partecipazione alle nuove gare nei
confronti degli affidatari diretti di servizi pubblici
locali (salvo il divieto, che nel caso di specie non rileva,
stabilito per il settore della distribuzione del gas
naturale dall'art. 14 del D.Lgs. n. 164/2000) (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 29.06.2015 n. 981 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Variare i volumi, la Scia non basta.
La Cassazione sulle ristrutturazioni.
Necessita del permesso a costruire, e non di sola Dia (oggi
Scia) la ricostruzione di un immobile demolito con
modificazioni tipologiche, variazione di destinazione d'uso
e con parziale incremento volumetrico. In seguito
all'innovazione legislativa (dl n. 69/2013, convertito nella
legge n. 98/2013) costituita dalla modificazione introdotta
nel dpr n. 380/2001 (testo unico edilizia) «il requisito del
rispetto della identità di sagoma non è più elemento
indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli
interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di
preventivo permesso a costruire e gli altri interventi
minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite
la presentazione, allora, della Dia, ora, della Scia».
Tutto questo lo sostiene la Corte di cassazione penale, Sez.
III, con la
sentenza 25.06.2015 n.
26713.
Sottolineano i giudici di piazza Cavour proprio con riferimento alla
sopravvenuta innovazione legislativa (decreto fare) integra
il reato di cui all'articolo 44 del dpr n. 380 del 2001 la
ricostruzione di un edificio demolito senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire.
Sia perché trattasi di
intervento di nuova costruzione e o di ristrutturazione, di
un edificio preesistente, dovendo intendersi per
quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché
non è applicabile l'articolo 30 del decreto del fare che,
per assoggettare gli interventi di ripristino o di
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, al regime semplificato della Scia, o in
passato della Dia, richiede l'accertamento della
preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri
documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri
elementi certi e verificabili.
Ricordiamo dal 21.08.2013, sono compresi tra gli interventi di ristrutturazione
edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e
ricostruzione di un immobile con la stessa volumetria di
quello precedente, senza che sia necessario rispettarne la
sagoma
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione dopo il d.l. 69 del 2013.
E' ben vero che, per effetto del dl n.
69 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 98
del 2013 il requisito del rispetto della identità di sagoma
non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi
differenziale fra gli interventi di ristrutturazione
edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e
gli altri interventi minori di risanamento conservativo
assentibili anche tramite la presentazione, allora, della
DIA ed, ora, della SCIA, ma non va, tuttavia, trascurato che
anche in questi casi è pur sempre necessario, onde accertare
che sia rimasta invariata anche la, preesistente volumetria,
che sia possibile operare la verifica della originaria
consistenza in base a riscontri documentali od altri
elementi certi è verificabili.
A questo punto non resta che da verificare se ed in che
termini la impugnata ordinanza sia rispettosa dei principi
legislativi in materia di ristrutturazione edilizia dettati,
principalmente, dagli artt. 3 e 10 del dPR n. 380 del 2001,
pure nel testo attualmente vigente a seguito della modifiche
apportate, da ultimo, dall'art. 30 del dl n. 69 del 2013,
come convertito dalla legge n. 98 del 2013, e,
subordinatamente al rispetto dei principi fondamentali
fissati dal legislatore nazionale in materia di governo del
territorio, dall'art. 79, comma 2, lettera d), della legge
della Regione Toscana n. 1 del 2005.
Deve in via del tutto prioritaria precisarsi che spetta
esclusivamente al legislatore nazionale, nell'esercizio
della sua competenza in ordine alla fissazione dei principi
fondamentali in tema di governo del territorio, dettare le
nozioni e le definizioni degli istituti fondamentali
rilevanti in tale materia.
Fra di esse vi è là indicazione delle tipologie di attività
edilizie soggette al permesso a costruire; fra queste,
secondo il chiaro tenore dell'art. 10 del dPR n. 380 del
2001, vi sono gli interventi di ristrutturazione edilizia
che "portino ad un organismo edilizio in tutto od in
parte diverso dal precedente e che comportino modifiche
della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti".
Più in particolare l'art. 3, comma 1, lettera d), del
medesimo dPR n. 380 del 2001, precisa che, nell'ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia, come tali
subordinati al rilascio del permesso à costruire, vanno
ricompresi "anche quelli consistenti, nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quello
preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di edifici crollati o demoliti, attraverso la
(ori ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza".
Sulla base dei riportati dati normativi dovrebbe concludersi
nel senso della corretta interpretazione che di essi ne è
stata fatta dal Tribunale di Grosseto; questo, infatti, ha
ritenuto che necessitassero di permesso a costruire, e non
di sola DIA, le opere realizzate dal P., trattandosi, alla
luce delle cognizione sommaria propria della presente fase
cautelare, della ricostruzione di manufatti demoliti con
modificazioni tipologiche, variazione di destinazione d'uso
'e un parziale loro incremento volumetrico.
A tale proposito, e, proprio con riferimento alla
sopravvenuta innovazione legislativa, costituita dalla
ricordata modificazione introdotta nell'art. 10, comma 1,
lettera c), del dPR n. 380 del 2001 per effetto della
entrata in vigore del dl n. 69 del 2013, convertito con
modificazioni dalla legge n. 98 del 2013, invocata dallo
stesso ricorrente, questa Corte ha avuto occasione di
precisare più volte che integra il reato di cui all'art. 44
del dPR n. 380 del 2001 la ricostruzione di un edificio
demolito senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire, sia perché trattasi di intervento di nuova
costruzione e non di ristrutturazione, di un edificio
preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art.
30 del D.L. n. 69 del 2013 (convertito, in legge n. 98 del
2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o
di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, al regime semplificato della SCIA, o in
passato della DIA, richiede l'accertamento dell'a
preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri
documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri
elementi certi e verificabili (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 30.09.2014, n. 40342).
E' ben vero che, come segnala lo stesso ricorrente, per
effetto della ricordata innovazione legislativa il requisito
del rispetto della identità di sagoma non è più elemento
indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli
interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di
preventivo permesso a costruire e gli altri interventi
minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite
la presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA, ma
non va, tuttavia, trascurato che anche in questi casi è pur
sempre necessario, onde accertare che sia rimasta invariata
anche la, preesistente volumetria, che sia possibile operare
la verifica della originaria consistenza in base a riscontri
documentali od altri elementi certi è verificabili (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912).
La circostanza che nel caso in esame tali elementi non sono
stati forniti dal ricorrente al giudice della cautela con la
necessaria efficacia probatoria, fa sì che non possa
ritenersi escluso, tanto più in questa fase cautelare,
caratterizzata, tenuto conto anche della natura reale del
vincolo disposto col provvedimento de Gip di Grosseto, da un
grado piuttosto sommario di cognizione, il fumus commissi
delicti idoneo a giustificare la adozione ed il
mantenimento del provvedimento oggetto di doglianza da parte
del P..
Né siffatta ricostruzione può dirsi contraddetta da quanto
il legislatore regionale ha disciplinato all'art. 79, comma
2, lettera d), della legge della Regione Toscana n. 1 del
2005, posto che tale disposizione consente che siano
assentibili a seguito di mera SCIA anche gli interventi di
ristrutturazione edilizia facenti seguito a precedenti
demolizioni ma solo nel caso in cui essi consistano nella
fedele ricostruzione dell'edificio preesistente,
intendendosi per tale quella realizzata con gli stessi
materiali o con materiali analoghi, con la stessa
collocazione e con lo stesso ingombro planivolumetrico;
requisiti tutti questi che, all'o stato degli atti, il
Tribunale di Grosseto non è stato messo in grado di
verificare ed in relazione ai quali non è stato eccepito dal
ricorrente il fatto che essi, sebbene esistenti e
suscettibili di verifica da parte del Tribunale maremmano,
non siano stati da questo presi nella dovuta considerazione
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.06.2015 n.
26713 - tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, sanzioni in base al peso
urbanistico. Al Comune resta la chance dell’ordinanza di
ripristino. Consiglio di Stato. In caso di sottoelevazioni o
sopraelevazioni demolizione non scontata.
Sanzioni severe sugli abusi edilizi
che modificano fondamenta o sottotetti di costruzioni già
esistenti.
Questo l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nelle
due sentenze della Sez. VI
sentenza
23.06.2015 n. 3179 (presidente
Patroni Griffi, estensore De Michele) e della Sez. IV
sentenza
16.06.2015 n.
2980 (presidente Giaccardi, estensore Maggio).
Nel primo caso, l’edificio aveva un piano in più non
realizzato in elevazione, ma attraverso lo sbancamento di
tre metri di terreno. Il notevole aumento di volume aveva
indotto il Comune ad adottare una sanzione di totale
demolizione, ritenendo che il manufatto fosse diventato un
organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche
tipologiche e volumetria. Lo sbancamento, infatti, si
cumulava a un mutamento di destinazione e ad altri abusi di
minore entità.
L’aspetto interessante è che l’abuso lasciava apparentemente
immutata la costruzione, perché l'ulteriore livello era
ricavato al di sotto di quello assentito. Tale circostanza è
stata sottolineata dai giudici amministrativi precisando che
le sanzioni urbanistiche prevedono in astratto la
“rimozione” delle difformità rispetto al progetto assentito.
La sanzione, tuttavia, non può essere irrazionale, perché
principi di rilevanza anche comunitaria impongono
proporzionalità e ragionevolezza. Applicandoli al caso
specifico è stata esclusa la demolizione dell’intero
manufatto, ma al Comune è rimasta la via dell’ordinanza di
ripristino (interramento) e della sanzione pecuniaria pari
al doppio dell’aumento di valore.
Stesso ragionamento è quello svolto dal Consiglio di Stato
nella seconda sentenza: la realizzazione di un’altezza
superiore nel sottotetto va sanzionata in misura pari al
doppio del valore dell’intero volume, senza detrarre quello
del sottotetto originariamente esistente. Anche in questo
caso la demolizione è stata esclusa, perché avrebbe
pregiudicato strutture legittime (l’edificio). Ma la
sanzione pecuniaria è stata molto elevata (270mila euro per
un ex sottotetto), perché i lavori abusivi avevano reso
utilizzabile a fini residenziali una superficie in
precedenza adibita a ripostiglio-lavanderia.
La repressione degli abusi edilizi, in entrambi i casi, si
basa sul peso urbanistico dell’intervento e non delle opere
edili necessarie a modificare le costruzioni. Il problema
era già stato affrontato dal Consiglio di Stato nella
sentenza 127/1983, escludendo che il valore del volume
preesistente l’abuso potesse essere portato in detrazione
dalla sanzione pecuniaria.
In altri termini, se per realizzare un nuovo volume
residenziale si rinuncia a un locale accessorio, la sanzione
pecuniaria che il Comune può irrogare in alternativa alla
riduzione in pristino sarà pari al doppio del valore della
residenza, senza detrarre il valore di quanto preesisteva
all’abuso (articolo Il Sole 24 Ore del
09.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire anche se manca il sì dei condòmini.
Tar Campania. Il Comune non può pretenderlo.
In materia
urbanistico–edilizia esistono diversi casi in cui prima
dell’emanazione del provvedimento, vengono sentiti i
soggetti interessati e i portatori di interessi diffusi.
Per esempio, è riconosciuta la partecipazione della
collettività per quanto riguarda la formazione dei piani
regolatori comunali, relativamente ai quali chiunque può
prendere visione degli elaborati e presentare le proprie
osservazioni in una visione di tipo partecipativo. Allo
stesso modo, in caso di realizzazione di impianti
industriali, laddove il Dpr 447/1998 prevede che i soggetti
portatori di interessi pubblici o privati, ai quali possa
derivare un pregiudizio dalla realizzazione dell’impianto,
possono trasmettere memorie e chiedere di essere sentiti in
contraddittorio.
Nulla di simile, però, è previsto invece nel caso di
rilascio del permesso di costruire.
L’articolo 11 del Dpr 380/2001 infatti si limita a prevedere
che «il rilascio del permesso di costruire non comporta
limitazioni dei diritti dei terzi».
Con la recentissima
sentenza
22.06.2015 n. 1409 il TAR Campania-Salerno -Sez.
I- ha
ricordato che il rilascio dei titoli edilizi abilitativi non
è subordinato al consenso dei condòmini, in quanto i
rapporti tra questi e l’istante hanno natura e rilevanza
privatistica e non devono interessare l’amministrazione
locale, anche perché vi è comunque la clausola di
salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi
prevista dall’articolo 11, comma 3, Dpr 380/2011.
Su questo presupposto il Tar ha escluso che, relativamente
alla Scia, residui un potere di autotutela in capo
all’Amministrazione una volta venuta a conoscenza della
mancanza dell’autorizzazione condominiale.
La giurisprudenza ritiene che l’attività istruttoria non ha
il fine di risolvere contrasti tra privati in merito alla
titolarità dell’area, ma di accertare il requisito della
legittimazione soggettiva del richiedente.
La verifica del titolo di proprietà non significa affatto
che l’Amministrazione abbia l’obbligo incondizionato di
effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile
considerato (Tar Lombardia Milano 2766/2014).
Il permesso di
costruire risulta quindi legittimamente rilasciato ancorché
sia accertata, successivamente, l’esistenza di vincoli
gravanti sulla proprietà del titolare del permesso.
In tal senso risulta illegittima la sospensione di una Dia
ove sia dovuta al mancato assenso da parte del condominio,
inerendo tematiche privatistiche.
Se normalmente l’Amministrazione non è tenuta a svolgere
indagini particolari in presenza della richiesta
edificatoria prodotta da un comproprietario, al contrario,
qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare
il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo
edificatorio, il Comune deve verificare se l’istante abbia
l’effettiva disponibilità del bene oggetto dell’intervento
edificatorio (Tar Campania, Salerno, 210/2013; Tar Puglia,
Lecce 49/2012; Tar Piemonte, I, 3182/2008).
Si può concludere ritenendo che il Comune verifica il
rispetto dei limiti privatistici, purché siano
immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente
conosciuti nonché del tutto incontestati, in modo che il
controllo si traduca in una semplice presa d’atto (Tar
Campania, Napoli, 3666/2012) (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il giudice non può rilevare un interesse ex
officio.
Sebbene il comma 3 dell'art. 34 c.p.a. preveda che «quando,
nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento
impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il
giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste
l'interesse ai fini risarcitori», va osservato che, laddove
tale interesse non sia stato attualizzato e concretizzato
tramite la presentazione formale di una specifica domanda,
non si può affermare che competa al giudice rilevare ex
officio l'ipotetica presenza di un interesse, la cui
azionabilità è ancora nel potere della parte interessata.
Lo hanno sottolineato i giudici della II Sez. del
TAR Liguria con la
sentenza
19.06.2015 n. 587.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici
amministrativi genovesi, un soggetto ricorrente agiva per
l'annullamento della procedura di mobilità indetta dalla
Asl, sul presupposto che questa, determinando la copertura
del posto di dirigente medico a disposizione della Asl,
frustrava la sua aspettativa all'assunzione nella medesima
posizione mediante scorrimento della graduatoria previgente.
Tuttavia, poiché la procedura di mobilità si concludeva
infruttuosamente con la rinuncia dell'unico candidato
classificatosi, deve ritenersi che sia venuto meno –ex art.
84, comma 4, c.p.a.– l'interesse del ricorrente alla
decisione della causa, non potendo derivargli alcun
vantaggio da una eventuale pronuncia di annullamento di un
atto che non ha mai esplicato –né potrà più esplicare– i
suoi effetti lesivi (la copertura del posto disponibile).
Hanno altresì evidenziato i giudici liguri che né rileva, ai
fini della persistenza dell'interesse alla decisione,
l'eventuale effetto conformativo derivante da una pronuncia
di annullamento, posto che resterebbe comunque
nell'insindacabile ambito discrezionale dell'amministrazione
la decisione di non procedere affatto alla copertura del
posto vacante.
Analogamente, non residua neppure un interesse
all'accertamento dell'illegittimità del bando ex art. 34,
comma 3, c.p.a., «al fine dell'eventuale, successiva
proposizione dell'azione risarcitoria» (così la memoria
del ricorrente)
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015). |
APPALTI:
Avvalimenti specificati.
In tema di avvalimento è indispensabile la specificazione
delle risorse e dei mezzi aziendali messi a disposizione
dell'impresa concorrente al precipuo fine di rendere
concreto e verificabile da parte della stazione appaltante
il «prestito».
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio
di Stato con la
sentenza 18.06.2015 n. 3125.
Secondo i supremi giudici amministrativi, in sostanza, il
contratto deve avvenire attraverso l'assunzione da parte
dell'ausiliaria, tanto nei confronti della concorrente
quanto nei confronti della stazione appaltante, ai sensi
delle lett. d) ed f) dell'art. 49, co. 1, del dlgs
163/2006, dell'obbligo di mettere a disposizione le proprie
risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le
parti che giustificano l'attribuzione del requisito di
capacità oggetto di avvalimento (e pertanto, a seconda dei
casi: mezzi, personale, conoscenze tecniche e tutti gli
altri elementi aziendali qualificanti).
I giudici del
Consiglio di Stato hanno altresì evidenziato che ciò in
quanto il regime di responsabilità può operare soltanto se
viene specificamente indicata la prestazione cui tale
responsabilità si riferisce. Non è possibile postulare un
inadempimento contrattuale e la conseguente responsabilità
di un soggetto il cui obbligo è stato genericamente dedotto
in contratto.
Ed anche ipotizzando che si fosse di fronte ad
un solo avvalimento di garanzia, «il limite di operatività
dell'istituto è dato dal fatto che la messa a disposizione
del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di
un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece
necessario che dal contratto risulti chiaramente l'impegno
dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il
proprio apparato organizzativo in tutte le parti che
giustificano l'attribuzione del requisito di garanzia» (si
veda Cons. stato, da ultimo sez. III 19.05.2015 n. 2539)
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015). |
VARI:
Incroci e strisce pedonali Dalla multa non si
scappa.
Chi supera l'auto dei vigili in centro abitato in prossimità
di incroci e passaggi pedonali va incontro a una multa
certa. Senza possibilità di smentita.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
l'ordinanza
17.06.2015 n. 12574.
Un automobilista distratto ha superato l'auto di servizio
della polizia municipale in una zona densamente trafficata.
Contro la conseguente multa per velocità pericolosa
notificata per posta l'interessato ha proposto ricorso fino
al palazzaccio ma senza risultati apprezzabili.
Il verbale per violazione dell'art. 141 del codice stradale,
se adeguatamente motivato, non è censurabile.
Superare un veicolo di servizio che circola a circa 40 km/h
in prossimità di incroci e passaggi pedonali rappresenta una
chiara condotta di guida pericolosa. Se nella multa vengono
indicati compiutamente tutti i dettagli della circostanza
osservata dagli agenti la valutazione sintetica degli
operatori di polizia è difficilmente attaccabile.
In buona sostanza la velocità pericolosa si basa su
percezioni dei vigili che devono essere documentate nella
multa. In questo caso risulterà difficile vincere un ricorso
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015). |
TRIBUTI:
Le aree vincolate pagano la Tasi. I divieti posti
dal comune non precludono la tassazione. La Cassazione:
l'edificabilità di un'area non è esclusa dalla presenza di
limiti ambientali.
I divieti amministrativi posti dal comune per l'edificazione
di un'area e i vincoli ambientali che gravano su di essa non
escludono che l'immobile sia soggetto al pagamento dell'Ici,
dell'Imu e della Tasi.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
11.06.2015 n. 12169.
Per i giudici di piazza Cavour, che hanno affermato
l'assoggettamento a Ici delle aree edificabili soggette a
vincoli, ma la regola vale anche per Imu e Tasi, la presenza
di limiti nei piani regolatori comunali non fa venir meno il
regime fiscale dei suoli edificabili.
L'edificabilità di un'area non può essere esclusa dalla
presenza di vincoli ambientali o di particolari destinazioni
urbanistiche. Si tratta di una questione controversa e
dibattuta da tempo quella che riguarda l'assoggettabilità
alle imposte locali delle aree vincolate. Anche la posizione
della Cassazione non è stata univoca. Tuttavia, ha
costantemente ribadito la regola che la presenza di vincoli
ha comunque un'incidenza sul valore venale in comune
commercio dell'area e sulla base imponibile. Quindi,
l'imposta va versata in misura ridotta.
Del resto, per quantificare il valore dell'area occorre fare
riferimento anche alla zona territoriale di ubicazione,
all'indice di edificabilità e alla destinazione d'uso
consentita.
In senso contrario si è espressa sempre la Cassazione con la
sentenza 25672/2008, affermando che se il piano regolatore
generale del comune prevede che un'area sia destinata a
verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica
impedisce al privato di poter edificare. L'area, dunque, non
è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità
risulta dallo strumento urbanistico.
L'orientamento non è uniforme neppure nella giurisprudenza
di merito. Per esempio, secondo la commissione tributaria
regionale di Milano (sentenza 71/2013) un'area compresa in
una zona destinata dal piano regolatore generale a verde
pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il
vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area
edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare
qualsiasi trasformazione del bene.
Per il giudice d'appello lo strumento urbanistico destina
l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport, rendendo
palese il vincolo di utilizzo meramente pubblicistico con la
conseguente inedificabilità
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deroga al Prg per interesse pubblico. Edifici
riconvertiti.
Se è garantita «fruibilità
collettiva», il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici può essere rilasciato anche per
trasformare un edificio privato storico in centro
commerciale.
Lo ha stabilito il
Consiglio di Stato -Sez. IV- nella
sentenza 05.06.2015 n. 2761, bocciando il ricorso
di un’associazione ambientalista contro la riqualificazione
di un immobile privato del 1500, già sede di Poste, e sotto
vincolo paesaggistico.
Il progetto –con l’«ok» di Consiglio
comunale e Soprintendenza- prevedeva l’uso pubblico
gratuito di spazi interni per almeno 10 giorni l’anno. Ciò,
per la ricorrente, non assicurava l’«interesse pubblico»
richiesto dal Testo unico dell’edilizia (articolo 14, Dpr n.
380/2001) che ammette la deroga «esclusivamente per edifici
ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa
deliberazione del consiglio comunale» e nel rispetto del
Codice dei beni culturali (Dlgs n. 42/2004).
Per il collegio, invece, con beni privati «occorre
verificare se vi sia un interesse pubblico che possa
concorrere con quello privato al recupero ed allo
sfruttamento commerciale» e «non è necessario che
l’interesse pubblico attenga al carattere pubblico
dell'edificio o del suo utilizzo, ma è sufficiente che
coincida con gli effetti benefici per la collettività che
dalla deroga potenzialmente derivano, in una logica di
ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità
del caso, ed esulante da considerazioni meramente
finanziarie».
Nel caso di specie, si è accertato che la deroga –con
densità e altezza immutate- «ha un peso comparativamente
minimo rispetto ai miglioramenti che ne derivano (…)
(recupero, accessibilità, fruibilità, incremento
occupazionale, eccetera» (articolo Il Sole 24 Ore del
09.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai
fini della sussistenza della contravvenzione di cui all'art.
659, comma 1, cod. pen., è sufficiente che l'evento di
disturbo, in relazione alla capacità diffusiva dei rumori,
sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero
indeterminato di persone, pur se di fatto se ne lamentino
solo alcune o addirittura nessuna, potendosi, comunque,
ritenere leso il bene giuridico tutelato dalla norma e cioè
quello dell'ordine pubblico inteso come tranquillità
pubblica.
Il disturbo previsto dall'art. 659 cod. pen. si identifica
infatti con una sensibile alterazione delle normali
condizioni in cui si svolgono il riposo, le occupazioni o le
altre attività previste dalla norma, con la conseguenza che
il fatto di reato è integrato ogni qualvolta si verifichi un
concreto pericolo di disturbo che superi i limiti di normale
tollerabilità, a prescindere dal mero superamento dei limiti
differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti
presidenziali in materia per i mestieri rumorosi, la cui
valutazione deve essere effettuata con criteri oggettivi
riferibili alla media sensibilità delle persone che vivono
nell'ambiente dove i suoni o i rumori vengono percepiti.
Ne consegue che, ai fini della configurabilità della
contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen., l'attitudine
dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle
persone non va necessariamente accertata mediante perizia o
consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il proprio
convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali
le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le
caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che
risulti oggettivamente superata la soglia della normale
tollerabilità.
---------------
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone nell'ambito di una attività legittimamente
autorizzata, è configurabile:
a) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma
secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, ove si verifichi
solo il mero superamento dei limiti differenziali di rumore
fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia;
b) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen.,
ove il fatto costituivo dell'illecito sia rappresentato da
qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di
rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda
le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato;
c) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen.
qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o
della Autorità, attinenti all'esercizio del mestiere
rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di
immissioni acustica.
2. Come si evince dal testo della sentenza impugnata, è
emerso, in punto di
fatto, che il denunziante G.R. -esaminato come
teste quale
condomino del fabbricato sito in Trani al Corso .... (dove è
ubicata la palestra ....A.s.d., gestita dal
ricorrente) ed
occupante, unitamente alla sua famiglia, l'appartamento al
quinto piano- ha
riferito la propagazione quotidiana dalla palestra di
emissioni sonore provocate
dalla diffusione di musica ad alto volume ed incitamenti
degli istruttori mediante
sistema di amplificazione di notevole potenza.
Il medesimo ha specificato che le attività della palestra
avevano inizio alle
ore nove-dieci del mattino e proseguivano fino alle ore
21:30, con una
temporanea sospensione per la pausa pranzo, in maniera
incalzante ed incisiva
con basi musicali, urla di sollecitazione e di comando
dell'attività fisica ad
eseguirsi da parte dei frequentatori.
Ha precisato, inoltre, che le immissioni sonore, già in
precedenza intollerabili
erano divenute ancora più invasive allorquando il ricorrente
aveva realizzato
delle prese d'aria sul solaio del piano interrato, sede
della palestra, proprio in
corrispondenza di un terrazzino interno allo stabile,
lasciate, ovviamente, aperte
durante le ore di lezione per il cambio d'aria, unitamente
all'apertura dei vetri
delle finestre poste perimetralmente al locale, ubicate
nella zona di transito dei
box condominiali.
Ha riferito, ancora, di una serie di esposti rivolti alle
forze di Polizia Vigili
Urbani e Carabinieri da parte di centinaia di cittadini
residenti nella zona di Corso
Don Luigi Sturzo e aree limitrofe, senza alcun esito nonché
di alcuni controlli
fonometrici eseguiti, non completamente attendibili in
quanto realizzati dai
tecnici in contraddittorio con il C. e, quindi,
previo avviso del loro arrivo e
delle operazioni in corso, con conseguente preventiva
notevole riduzione del
volume delle emissioni da parte del titolare della palestra.
Ha avuto, altresì, modo di evidenziare una serie di
limitazioni subite nel
godimento della casa e disagi di natura psico-fisica
personali, della moglie e dei
figli, anche relativamente alla necessaria concentrazione
per gli studi nelle ore
pomeridiane.
Ha riferito, infine, di aver raccolto personalmente le
lamentele e le firme di
almeno cinquanta delle novantacinque firme poste in calce
all'esposto del 27.05.2010 che aveva poi determinato l'avvio dell'azione
penale da parte della
Procura in sede.
Le dichiarazioni rese dal R. sono risultate in parte
confermate dagli
stessi testi escussi su richiesta della difesa (alcuni
clienti iscritti alla palestra, un
istruttore, il fratello dell'imputato), nella parte in cui
hanno riferito della pratica
di attività ginnico-ricreative all'interno della palestra
con ausilio di basi musicali
diffuse mediante un sistema di amplificazione (mixer più
casse acustiche) mentre
è stata registrata una divergenza tra le dichiarazioni dei
testi a discarico e quelle
rese dal R. esclusivamente riguardo il livello delle
emissioni sonore e dei
rumori provocati dalle attività svolte nella palestra.
3. Alla stregua delle richiamate risultanze, deve ritenersi
che correttamente
il primo giudice sia pervenuto ad affermare la
responsabilità dell'imputato sul
rilievo che, ai fini della sussistenza della contravvenzione
di cui all'art. 659,
comma 1, cod. pen., è sufficiente che l'evento di disturbo,
in relazione alla
capacità diffusiva dei rumori, sia potenzialmente idoneo ad
essere risentito da un
numero indeterminato di persone, pur se di fatto se ne
lamentino solo alcune o
addirittura nessuna, potendosi, comunque, ritenere leso il
bene giuridico tutelato
dalla norma e cioè quello dell'ordine pubblico inteso come
tranquillità pubblica.
Il disturbo previsto dall'art. 659 cod. pen. si identifica
infatti con una
sensibile alterazione delle normali condizioni in cui si
svolgono il riposo, le
occupazioni o le altre attività previste dalla norma, con la
conseguenza che il
fatto di reato è integrato ogni qualvolta si verifichi un
concreto pericolo di
disturbo che superi i limiti di normale tollerabilità, a
prescindere dal mero
superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle
leggi e dai decreti
presidenziali in materia per i mestieri rumorosi, la cui
valutazione deve essere
effettuata con criteri oggettivi riferibili alla media
sensibilità delle persone che
vivono nell'ambiente dove i suoni o i rumori vengono
percepiti (Sez. 1, n. 3261
del 23/02/1994, Floris, Rv. 199107).
Ne consegue che, ai fini della configurabilità della
contravvenzione di cui
all'art. 659 cod. pen., l'attitudine dei rumori a disturbare
il riposo o le
occupazioni delle persone non va necessariamente accertata
mediante perizia o
consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il proprio
convincimento su
elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni
di coloro che sono in
grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei
rumori percepiti, sì che risulti
oggettivamente superata la soglia della normale
tollerabilità (Sez. 1, n. 20954
del 18/01/2011, Toma, Rv. 250417).
Nel caso di specie, relativo all'accertamento della natura
molesta della
musica, riprodotta ad alto volume, dei suoni e dei rumori
provenienti da una
palestra per la durata di oltre dieci ore al giorno, esclusa
una breve interruzione
per la pausa pranzo, il Giudice del merito con congruo
accertamento di fatto,
insuscettibile di sindacato di legittimità, in quanto
fondato su argomentazioni non manifestamente illogiche, ha
ritenuto provata, mediante la testimonianza resa da
un condomino del fabbricato dove era ubicata la palestra
gestita dal ricorrente,
la capacità diffusiva dei rumori, come tale idonea a
realizzare un concreto
pericolo di disturbo tale da superare i limiti di normale
tollerabilità, siano stati o
meno conseguenza dell'esercizio di una professione o
mestiere rumoroso e, in
tale ultimo caso, indipendentemente dal mero superamento dei
limiti differenziali
di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in
materia.
Il numero (circa un centinaio) delle persone che, per fatto
incontroverso,
hanno inoltrato l'esposto dal quale sono originate le
indagini (il teste ha riferito
di avere egli stesso raccolto circa cinquanta firme) dà
conto del fatto che il
disturbo sia stato patito da un numero indeterminato di
persone.
Trattandosi di un reato di pericolo, ciò che rileva, dunque,
non è il disturbo
della tranquillità individuale, bensì la potenzialità
diffusiva del rumore e quindi
l'idoneità a infastidire un numero indeterminato di persone
senza che sia
necessario il conseguimento della prova circa l'effettivo
disturbo di esse.
Il tribunale si è attenuto a tali principi rilevando come le
emissioni sonore ed
i rumori cagionati all' interno della palestra, come
descritti dai testi escussi, si
verificano continuamente per l'intera giornata almeno dalle
ore 09 alle ore 21,30,
con conseguente propagazione di essi all'interno di uno
stabile condominiale
costituito, per lo più, da appartamenti per civile
abitazione in zona centrale.
Peraltro, il tribunale ha affermato che, dalla stessa
documentazione esibita
dalla difesa allegata alla memoria difensiva prodotta
all'udienza del 24.01.2014, in particolare dalla relazione tecnica redatta dalla
M. sulla valutazione
del potenziale impatto acustico, per il rispetto dei limiti
di rumore nei locali
pubblici, è risultato un possibile disturbo alle abitazioni
limitrofe provocato dalla
sorgente sonora puntiforme esistente all'interno della
palestra (impianto di
amplificazione), tenuto conto della propagazione resa
possibile dal lucernaio
esistente all'interno del locale, a diretto contatto con le
aree condominiali,
correggibile attraverso la chiusura del punto d'aria e con
la diminuzione dei
volumi del mixer degli impianti audio.
Da ciò il tribunale ha correttamente tratto, con maggiore
evidenza ed
ineccepibile deduzione logica, la sussistenza dell'elemento
oggettivo del reato
ritenuto in sentenza.
4. Né la condotta contestata può essere sussunta nella
fattispecie
sanzionata in via amministrativa.
Sul punto, questa Corte, con condivisibile orientamento al
quale occorre
dare continuità, ha affermato che, in tema di disturbo delle
occupazioni e del
riposo delle persone nell'ambito di una attività
legittimamente autorizzata, è
configurabile:
a) l'illecito amministrativo di cui all'art.
10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, ove
si verifichi solo il mero superamento dei limiti
differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti
presidenziali in materia;
b)
il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., ove
il fatto costituivo
dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal
mero superamento dei
limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere
che ecceda le sue
normali modalità o ne costituisca un uso smodato;
c) il
reato di cui al comma
secondo dell'art. 659 cod. pen. qualora la violazione
riguardi altre prescrizioni
legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del
mestiere rumoroso, diverse da
quelle impositive di limiti di immissioni acustica (Sez. 3,
n. 42026 del
18/09/2014, Claudino, Rv. 260658).
Secondo la ricostruzione fattuale, emergente dagli
accertamenti conseguiti
nel corso del giudizio di merito, deve ritenersi, in assenza
di contrarie allegazioni
in proposito, che il disturbo, quantunque arrecato
nell'esercizio di un mestiere
rumoroso, quale può essere, a determinate condizioni, una
palestra, abbia
ecceduto le sue normali modalità e l'attività sia stata
svolta attraverso un uso
smodato dei tipici mezzi di svolgimento dell'attività
stessa, avendo il ricorrente
unito ai rumori necessari altri rumori non necessari e tali
dunque da provocare
disturbo ad un numero indeterminato di persone sicché,
essendo stato superato
il limite della normale tollerabilità, deve trovare
applicazione il primo comma
dell'art. 659 cod. pen..
Ne consegue che la condotta conserva il rilievo penale
assegnato dal primo
giudice
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2015 n. 23235). |
EDILIZIA PRIVATA: Sia
il condono edilizio che la sanatoria edilizia riguardano
l’opera per come è stata realizzata e non implicano
l’approvazione di un progetto funzionale a rendere l’opera
abusiva conforme alle norme edilizie, urbanistiche e
paesaggistiche (nel condono ciò è legato anche al fatto che,
per accedere al beneficio, occorre che le opere siano state
eseguite entro una certa data, per cui gli interventi
successivi a tale data rendono inaccoglibile la domanda di
condono).
La domanda di condono o di sanatoria, cioè, riguarda l’opera
abusiva per come essa è stata realizzata e non la futura
sistemazione del manufatto onde renderlo conforme al
contesto paesaggistico o ad altri parametri incidenti sulla
regolarità sostanziale delle opere.
Al riguardo, si è chiarito che in sede di sanatoria o di
condono sono ammissibili solo limitate prescrizioni che
riguardino l’ornato dei manufatti, quali ad esempio
l’utilizzo di tinte che siano più confacenti al contesto
paesaggistico, l’impiego di tecniche di finitura più
tradizionali, e così via, ma non anche prescrizioni che
abbiano l’effetto di modificare in senso sostanziale il
manufatto abusivo.
11. Volendo comunque esaminare anche in punto di fatto le
prospettazioni di parte ricorrente (contenute sia nel
ricorso e nell’atto di motivi aggiunti sia nelle relazioni
tecniche prodotte a sostegno delle domande di sanatoria), va
osservato che:
- nel respingere la domanda di sanatoria nel 2011 il Comune
aveva esaminato anche la questione relativa alla presunta “invisibilità”
dell’abuso dal punto di vista paesaggistico ed urbanistico,
osservando che la sistemazione del terreno proposta dal
tecnico di fiducia del sig. F. era da ritenere artificiale,
non conforme al contesto circostante e finalizzata
unicamente a recuperare volumetria non altrimenti
autorizzabile (vedasi la nota comunale prot. n. 21839 del
20/09/2011, che in parte qua non era stata contestata
nel precedente giudizio dal sig. F.).
Sotto questo profilo va evidenziato che sia il condono
edilizio che la sanatoria edilizia riguardano l’opera per
come è stata realizzata e non implicano l’approvazione di un
progetto funzionale a rendere l’opera abusiva conforme alle
norme edilizie, urbanistiche e paesaggistiche (nel condono
ciò è legato anche al fatto che, per accedere al beneficio,
occorre che le opere siano state eseguite entro una certa
data, per cui gli interventi successivi a tale data rendono
inaccoglibile la domanda di condono - vedasi al riguardo la
citata sentenza del TAR Marche n. 122/2015).
La domanda di condono o di sanatoria, cioè, riguarda l’opera
abusiva per come essa è stata realizzata e non la futura
sistemazione del manufatto onde renderlo conforme al
contesto paesaggistico o ad altri parametri incidenti sulla
regolarità sostanziale delle opere.
Al riguardo, vedasi la sentenza di questo TAR n. 449/2013,
in cui si è chiarito che in sede di sanatoria o di condono
sono ammissibili solo limitate prescrizioni che riguardino
l’ornato dei manufatti, quali ad esempio l’utilizzo di tinte
che siano più confacenti al contesto paesaggistico,
l’impiego di tecniche di finitura più tradizionali, e così
via, ma non anche prescrizioni che abbiano l’effetto di
modificare in senso sostanziale il manufatto abusivo;
- le predette relazioni tecniche di parte incorrono in un
ulteriore errore laddove calcolano la volumetria del
manufatto abusivo rispetto a quella complessiva del
fabbricato principale (questo al fine di evidenziare, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 5, lett. b), della L.R. n.
14/1986, che l’abuso è contenuto comunque nel 2% della
volumetria complessiva).
In effetti, poiché risulta che il sig. F. è proprietario
esclusivo solo dell’appartamento sito al piano terra e
poiché lo stesso ha sempre dichiarato di essere l’autore
dell’abuso, è evidente che la volumetria abusiva va
rapportata a quella del solo piano terra e non anche a
quella dell’appartamento e della mansarda siti ai piani
primo e secondo.
Va peraltro rilevato che nella specie viene in evidenza
comunque il disposto del citato art. 5, lett. a), perché si
è avuto un cambio di destinazione d’uso del preesistente
garage che implica aumento del carico urbanistico (tale
essendo ovviamente la destinazione d’uso residenziale), per
cui si è in ogni caso in presenza di una variazione
essenziale ex L.R. n. 14/1986
(TAR Marche,
sentenza 22.05.2015 n. 413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base alla normativa statale di principio, un
intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti
la sagoma dell’edificio preesistente -intesa quest’ultima
come la conformazione planivolumetrica della costruzione e
il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e
non di ristrutturazione edilizia…e quindi non vi è una parte
conforme e una parte difforme.
12. In ragione di quanto precede va anche rilevato che
l’asserita impossibilità di demolire la parte difforme senza
pregiudizio per la parte conforme in realtà non sussiste, in
quanto:
- dal punto di vista processuale, sul punto si è formato il
giudicato (visto che anche il Consiglio di Stato ha ritenuto
non provata tale asserzione e che la questione non poteva
più essere riproposta sfruttando la presentazione della
nuova domanda di sanatoria);
- dal punto di vista giuridico, l’abuso in parola consiste
in una nuova costruzione (e al riguardo va segnalata la
recente sentenza della Sez. IV del Consiglio di Stato n.
1763/2015, nella quale si è riaffermato il principio per cui
“…In base alla normativa statale di principio, quindi, un
intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti
la sagoma dell’edificio preesistente -intesa quest’ultima
come la conformazione planivolumetrica della costruzione e
il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e
non di ristrutturazione edilizia…”) e quindi non vi è
una parte conforme e una parte difforme;
- dal punto di vista tecnico, infine, l’esecuzione
dell’ordinanza di demolizione consiste nel riportare
l’edificio allo stato originario. E siccome parte ricorrente
ha potuto realizzare l’abuso senza pregiudizio per la parte
preesistente (visto che non risulta che, a seguito della
realizzazione del manufatto abusivo, l’edificio principale
abbia subito conseguenze in punto di staticità), ne consegue
che anche il ripristino dello status quo ante è
tecnicamente fattibile.
Al riguardo si evidenzia inoltre che, pur non essendo
esaminabili nel merito le argomentazioni rassegnate dal
tecnico di fiducia del ricorrente nella citata relazione del
02/03/2015 (in quanto si tratta di censure nuove e non
notificate alla controparte), nella specie non rileva il
fatto che la demolizione del manufatto abusivo danneggia
anche l’appartamento sito al primo piano, e ciò in quanto
anche il terrazzo che serve tale appartamento - realizzato,
come detto, sul lastrico della parte in ampliamento - è
anch’esso abusivo
(TAR Marche,
sentenza 22.05.2015 n. 413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Per l'avvocato porte aperte al lavoro nella p.a..
Tar valle d'aosta/non rileva l'assistere
attualmente privati contro un ente.
Non può ritenersi sussistente alcun conflitto di interessi
tra la posizione di chi assiste attualmente un soggetto
privato contro un ente pubblico e la posizione di chi
aspira, per il futuro e solo in caso di esito vittorioso
della relativa procedura ad evidenza pubblica, a divenire
affidatario dei servizi di assistenza legale per conto degli
enti riconducibili a quest'ultimo.
Lo hanno ribadito i giudici del TAR Valle d'Aosta con
la
sentenza 15.05.2015 n. 40.
Il thema decidendum sul quale i giudici amministrativi
aostani sono stati chiamati ad esprimersi aveva ad oggetto
una denuncia di violazione di un articolo del disciplinare
di gara, relativo ai requisiti di ordine generale e alle
dichiarazioni da presentare a corredo della domanda di
partecipazione, nella parte in cui prescrive che i
concorrenti non si devono trovare «in alcuna situazione di
divieto e/o di incompatibilità che riguardano l'esercizio
della professione di avvocato».
L'avvocato Tizio, capogruppo del raggruppamento
aggiudicatario, avrebbe falsamente dichiarato l'inesistenza
di situazioni di divieto all'esercizio dell'attività
professionale in quanto, al momento della presentazione
dell'offerta, stava svolgendo un'attività di assistenza e
consulenza legale in favore dell'impresa X, relativamente al
rilascio di un permesso di costruire da parte del Comune che
faceva parte del consorzio appaltante.
Sussisterebbe in capo all'avvocato, perciò, una situazione
di conflitto di interessi che, unitamente alla dichiarazione
non veritiera, avrebbe dovuto comportare l'esclusione dalla
gara del raggruppamento di cui lo stesso è mandatario.
Secondo i giudici del Tar la prospettazione di parte
ricorrente appare priva di pregio giuridico nonché tale da
comportare, qualora la si volesse condividere, un'illogica
restrizione del confronto concorrenziale, dal quale
resterebbero esclusi proprio gli avvocati che, in ragione
dell'attività professionale svolta nel contesto locale,
possono vantare maggiori requisiti di esperienza.
I divieti e le incompatibilità cui fa riferimento l'articolo
del disciplinare, configurandoli quale circostanze
preclusive alla partecipazione alla gara, infatti, sono
pacificamente solo quelli previsti dall'art. 16 del codice
deontologico forense (ora dall'art. 6 del nuovo codice) e
dall'art. 18 della legge n. 247/2012 sull'ordinamento della
professione forense, vale a dire le situazioni ostative alla
permanenza dell'avvocato nel relativo albo professionale,
non le transitorie incompatibilità con la stazione
appaltante o con le amministrazioni che vi fanno capo.
Pertanto, nessuna situazione ostativa sussisteva nel caso
dell'avvocato Tizio, come comprovava la nota versata agli
atti del giudizio che ne attestava la regolare iscrizione
nell'albo professionale del Consiglio dell'Ordine forense
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.07.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Ingegneri junior tutelati. Possono firmare
offerte tecniche migliorative. Il
Tar Campania estende le prerogative degli iscritti alla
sezione B.
Anche l'ingegnere junior può firmare l'offerta senza far
perdere la gara alla sua impresa se si tratta di migliorare
un progetto già indicato in via generale dalla stazione
appaltante.
È quanto emerge dalla
sentenza 14.04.2015 n. 797, pubblicata dalla II
Sez. TAR Campania-Salerno.
Collaborazione consentita
Niente da fare per l'azienda arrivata seconda nella
procedura bandita dal Comune per la realizzazione di lavori
per le fogne e l'impianto di depurazione: fallisce il
tentativo di far revocare l'aggiudicazione alla concorrente
sul rilievo che l'ingegnere junior non avrebbe avuto i
titoli per firmare l'offerta tecnica.
Nel caso di specie l'offerta economicamente più vantaggiosa
per l'amministrazione è individuata in base alla
presentazione di progetti capaci di individuare soluzioni
tecniche migliorative della rete fognaria e dell'impianto di
depurazione.
Il documento contestato, dunque, s'innesta su un progetto
già redatto dalla stazione appaltante e che nella sua intima
struttura non può essere modificato ma soltanto migliorato.
I paletti posti dalla normativa all'ingegnere junior nascono
per evitare che al professionista con una qualifica
«ridotta» possa essere affidata la progettazione di opere
pubbliche complesse.
Ma per il settore ingegneria civile e ambientale chi è
iscritto alla sezione B del dpr 328/2001 ben può porre in
essere attività di concorso e collaborazione alle attività
di progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di
opere edilizie.
In base alla legge l'ingegnere junior può occuparsi anche
di: progettazione, direzione dei lavori, vigilanza,
contabilità e liquidazione relative a costruzioni civili
semplici con l'uso di metodologie standardizzate.
Ed è anche titolato a compiere i rilievi diretti e
strumentali sull'edilizia attuale e storica e i rilievi
geometrici di qualunque natura. È esattamente ciò che
avviene nel caso delle fogne e del depuratore da
ristrutturare su indicazione del Comune campano nell'ambito
del progetto già esistente, che non può ritenersi
un'attività di competenza esclusiva degli ingegneri
appartenenti alla sezione A.
All'azienda esclusa non resta che pagare le spese di
giudizio
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015). |
VARI: Cane
imbratta muro della facciata di edificio: cosa rischia il
padrone?
Il proprietario che porta a passeggio il
proprio cane deve ridurre il più possibile il rischio che
questi possano lordare i beni di proprietà di terzi quali i
muri di affaccio degli stabili o i mezzi di locomozione ivi
parcheggiati.
A chiarirlo è stata la
Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 18.02.2015 n. 7082.
Firenze. Il caso riguarda un uomo che, mentre stava facendo
una passeggiata, ha “permesso” al proprio cane di urinare
sul muro di un edificio nel centro storico di Firenze.
Il proprietario dell’edificio ha dichiarato che l’immobile è
stato dichiarato di valore storico architettonico e che,
quindi, le facciate dello stesso non dovevano essere
imbrattate. Per tale ragione ha deciso di denunziare il
proprietario del cane ex art. 639, 2° comma, del codice
penale (deturpamento ed imbrattamento di cose altrui).
Il Giudice di Pace ha dato ragione al proprietario del
palazzo.
Il Tribunale di Firenze ha, invece, accolto l’appello del
padrone del cane in quanto lo stesso ha versato
immediatamente dell’acqua per ripulire la macchia provocata
dall’urina del cane.
La questione approda in Cassazione ove viene evidenziata una
forte contrapposizione tra la tutela dei beni di proprietà e
la posizione di chi conduce animali da compagnia sulla
pubblica via: situazioni, sottolinea la Corte, inserite in
un panorama costituito da elementi come la convivenza, il
rispetto civile, la tolleranza e il malcostume.
La Suprema Corte non ha ritenuto fondato il ricorso proposto
dal proprietario dell’edificio.
I Giudici di legittimità hanno corroborato la tesi del
Giudice d’appello del Tribunale di Firenze in quanto «dall’istruttoria
svolta nel corso del giudizio di primo grado è risultato
provato che il cane di proprietà dell’odierno imputato abbia
orinato sul muro della facciata dell’edificio dichiarato di
notevole interesse architettonico e lo abbia momentaneamente
macchiato. Tuttavia va osservato che il reato contestato
all’Imputato (art. 639 co. 2 c.p.) è un delitto, per la cui
configurabilità è richiesta la sussistenza del dolo anche
generico. ….[…].. Oltretutto è la stessa persona offesa che
dichiara che dopo che il cane aveva orinato, si era
preoccupato di ripulire la parte del muro imbrattata,
versandovi dell’acqua, circostanza questa Incompatibile con
la volontà di imbrattare il muro. A ciò va aggiunto che è
del tutto inverosimile che il…[….] abbia indotto il suo
animale a sporcare il muro con l’urina, in quanto da un iato
è emerso pacificamente che l’imputato aveva con sé una
bottiglietta ed ha usato li liquido ivi contenuto per pulire
il muro ed inoltre viene in considerazione un istinto
fisiologico del cane che il suo padrone non avrebbe potuto
orientare».
La Cassazione ha ritenuto di svolgere sulla questione
esaminata un doveroso esame in punto di diritto non solo ai
fini di giustizia ma in quanto la stessa coinvolge interessi
diffusi nella vita quotidiana nella quale si contrappongono
i diritti e gli interessi di milioni di persone divisi tra
la legittima tutela dei beni di proprietà e la posizione di
chi accompagna animali da compagnia sulla pubblica via.
Ed infatti viene evidenziato che “Si tratta di rapporti,
interessi ed esigenze talvolta contrapposti che si
inseriscono in un più ampio quadro di convivenza, di
rispetto civile, di tolleranza ma anche di malcostume di
fronte ad un fenomeno che non può essere sottaciuto in
quanto parte della realtà quotidiana soprattutto nei grandi
agglomerati urbani”.
La Corte, poi, analizzando gli elementi oggettivo e
soggettivo del reato di cui all’art. 639 c.p., si sofferma
ad analizzare il rapporto tra dolo eventuale e colpa
cosciente, richiamando le argomentazione delle Sezioni Unite
esposte nella recente pronunzia n. 38343 del 24/04/2014.
Traslando i principi della suddetta pronunzia, nel caso
concreto vengono evidenziati ulteriori aspetti.
a) è un dato di comune esperienza che li condurre un cane
sulla pubblica via apre la concreta possibilità che
l’animale possa imbrattare con l’urina o con le feci beni di
proprietà pubblica o privata;
b) è però anche un dato di comune esperienza che, per quanto
l’animale possa essere stato bene educato, il momento in cui
io stesso decide di espletare i propri bisogni fisiologici è
talvolta difficilmente prevedibile trattandosi di un istinto
non altrimenti orientabile e, comunque, non altrimenti
sopprimibile mediante il compimento di azioni verso
l’animale che si porrebbero al confine del maltrattamento
nei confronti dello stesso;
c) ancora, è un dato di comune esperienza che i cani non
esplicano i propri bisogni fisiologici all’interno degli
appartamenti o degli altri luoghi chiusi di privata dimora,
con la conseguenza che i possessori dei predetti animali che
risiedono in agglomerati urbani si vedono necessitati a
condurli sulla pubblica via con tali finalità: non sempre le
Autorità locai sono in grado di predisporre luoghi appositi
ove detti animali possano espletare i loro bisogni
fisiologici e comunque non può essere escluso che gli
animali decidano (con tempi e modalità che, come detto, non
è possibile inibire) di espletare tali bisogni altrove o
prima del raggiungimento dei luoghi a ciò deputati.
Ciò che compete a chi conduce sulla pubblica via gli animali
è quella, dunque, di evitare e ridurre il più possibile il
rischio che questi possano sporcare i beni di proprietà di
terzi quali i muri di affaccio degli stabili od i mezzi di
locomozione ivi parcheggiati.
Sia chiaro, sottolinea la Corte, che ciò, al di là dei
possibili aspetti sanzionatori (in chiave penale od
amministrativa) delle condotte, deve essere frutto primario
del rispetto dei principi di civiltà e di educazione che
debbono più in generale caratterizzare le condotte di
chiunque è chiamato ad interagire con terzi ed a convivere
con essi in società.
Assodato, dunque, che la possibilità che un cane condotto
sulla pubblica via possa quindi imbrattare beni di proprietà
di terzi è un rischio certamente prevedibile ma non
altrimenti evitabile.
Ciò che si può, quindi, richiedere a chi è necessitato a
condurre un cane sulla strada è solo un corretto controllo
di tale rischio.
Il comportamento del padrone del cane è corretto se riduce
il più possibile il rischio (prevedibile ma non evitabile)
che l’animale possa sporcare i beni di proprietà di terzi.
Il padrone deve quindi vigilare attentamente sui
comportamenti dell’animale, limitandone la libertà di
movimento in modo che il cane desista -quanto meno
nell’immediatezza- dall’azione.
In conclusione, questo il vademecum della Cassazione per chi
conduce il cane sulla strada:
• il proprietario deve mettere in atto una attenta vigilanza
sui comportamenti dell’animale;
• deve limitarne libertà di movimento in modo che non sia
totale (se del caso tenendolo con un guinzaglio);
• deve intervenire con atteggiamenti tali da farlo desistere
- quantomeno nell'immediatezza - dall’azione;
• nell’impossibilità di vietare al cane di fare pipì è bene
portarsi dietro una bottiglietta d’acqua per ripulire.
Diversamente, il proprietario o il conducente potrà essere
imputato di «sciatteria o imperizia nella conduzione
dell'animale».
Avere una cane è una scelta individuale e non della
collettività, ecco perché nella sentenza esaminata vengono
stabilite una serie di regole per garantire una pacifica
armonia tra tutti (link a www.altalex.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per le spese legali rimborsi ai dipendenti con vincoli
precisi. Responsabilità civile nella Pa.
Con sempre
maggiore frequenza vengono sottoposte all’attenzione dei
giudici controversie relative al rimborso da parte dell’ente
pubblico delle spese legali sostenute dal dipendente in
conseguenza dell’apertura nei suoi confronti di un
procedimento di responsabilità civile, contabile o penale
per fatti inerenti all’espletamento delle sue mansioni.
Il rimborso delle spese legali, previsto dalle norme dei
contratti collettivi, mira a tenere indenne il dipendente
dalle conseguenze negative che, senza dolo o colpa grave, si
siano verificate nello svolgimento della sua attività di
lavoro, in analogia a quanto disposto dall’articolo 1720 del
codice civile in materia di mandato. Per poter riconoscere
tale tutela è tuttavia necessario verificare la sussistenza
di alcuni presupposti, da accertare caso per caso.
Il primo è che i fatti per i quali si è aperto il
procedimento a carico del dipendente siano avvenuti
nell’esercizio delle sue mansioni, mentre non è sufficiente
che si siano svolti semplicemente durante la prestazione di
lavoro o in occasione del suo espletamento.
Per poter accedere al patrocinio legale, inoltre, è
necessario verificare che non sussista alcun conflitto di
interessi tra l’amministrazione e il proprio dipendente.
La valutazione della sussistenza di un eventuale conflitto
di interessi deve essere effettuata al momento dell’apertura
del procedimento, ma può essere rilevata anche
successivamente, sulla base di un accertamento in concreto e
senza automatismi: persino in caso di assoluzione nel
giudizio penale, infatti, non può essere escluso il
conflitto di interessi ove i fatti, pur non costituendo
reato, manifestino un contrasto tra il comportamento del
dipendente e le finalità pubbliche dell’amministrazione
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 04.03.2014 n. 4978).
Per quanto attiene, inoltre, all’instaurazione del
procedimento dal quale può conseguire il patrocinio legale,
occorre tener presente un discutibile orientamento
dell’Aran, secondo il quale, per accedere alla tutela, deve
essere stato avviato un procedimento giudiziario che si
concluda con una sentenza, escludendo, quindi, che possano
essere rimborsate le somme eventualmente sostenute dal
dipendente in sede di mediazione oppure nell’ambito di
procedimenti, come ad esempio l’accertamento tecnico
preventivo (articolo 696 del codice di procedura civile) o
la consulenza tecnica preventiva (articolo 696-bis del
codice di procedura civile), che non sfociano in una
pronuncia giurisdizionale.
Ove sussistano i presupposti indicati, l’amministrazione
potrà procedere al rimborso delle spese legali nella misura
che dovrà essere opportunamente predeterminata da atti
regolamentari dell’ente sulla base dei parametri per la
liquidazione dei compensi degli avvocati, fatta salva
l’ipotesi di refusione delle spese legali disposta dal
giudice contabile in favore del dipendente sottoposto a
giudizio contabile.
In proposito, infatti, la Corte dei Conti della Toscana
(sentenza 16.10.2013
n. 310) ha ritenuto che, in caso di
proscioglimento nel merito, il rimborso debba avvenire entro
i limiti della liquidazione disposta dal giudice, rimanendo
a carico del dipendente la differenza tra la somma liquidata
in sede giudiziale e gli onorari richiesti dal legale con la
propria parcella (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Fermo
restando che il consigliere comunale è legittimato a
impugnare gli atti adottati dall'organo collegiale o da
altro organo dell’ente locale soltanto ove deduca vizi
direttamente lesivi del munus di cui è investito, nel caso
di specie il conferimento delle deleghe in questione incide
sull’esercizio del munus di consigliere comunale, in quanto
comporta un ampliamento delle funzioni di taluni consiglieri
rispetto agli altri membri dell’organo collegiale e ingenera
il rischio di interferenze sul corretto esercizio del
mandato conferito dagli elettori.
In altri termini, si realizza un disquilibrio tra le
attribuzioni dei consiglieri e una confusione di ruoli nel
Consiglio stesso, potenzialmente in grado di turbare la
regolare e leale dialettica assembleare e, quindi,
confliggente con il personale interesse dei consiglieri alla
salvaguardia delle proprie prerogative, che sono
prioritariamente rivolte a indirizzare e controllare
l’attività della giunta comunale.
--------------
Assume valore determinante ed assorbente ai fini
dell’accoglimento del ricorso in esame, la dedotta
violazione delle disposizioni dello Statuto e del
Regolamento del Consiglio comunale.
Infatti, nel caso di specie il potere del sindaco di
conferire specifiche deleghe trova un limite innanzitutto
nell’art. 53 dello statuto comunale, che prevede
espressamente che il sindaco possa conferire speciali
deleghe agli assessori nelle materie che la legge e lo
statuto riservano alla sua competenza; possa delegare la
firma di atti e funzioni di indirizzo e controllo agli
assessori per materie omogenee, possa delegare, quale capo
dell’amministrazione, la firma di atti di propria competenza
al segretario generale e ai responsabili delle unità
organizzative.
Un ulteriore limite alla facoltà di delega da parte del
sindaco si ricava dall’art. 10 del regolamento del consiglio
comunale, che così recita: “Ai Consiglieri possono essere
affidati dal consiglio comunale speciali incarichi su
materie specifiche, nei limiti e secondo le modalità fissate
nella delibera di incarico”.
Orbene è di tutta evidenza che le controverse deleghe
esulano dalle ipotesi previste dalla richiamata normativa
comunale e ne disattendono, quindi, le prescrizioni. Sul
punto non può essere condivisa l’argomentazione difensiva
dell’Amministrazione che, mancando nella normativa comunale
un’esplicita previsione che vieti al sindaco di conferire ai
consiglieri comunali deleghe di studio e consulenza, il loro
conferimento sarebbe legittimo.
In disparte i vincoli per i consiglieri comunali derivanti
dal sopracitato art. 10 del regolamento del consiglio
comunale, non si può disconoscere che l’esercizio delle
deleghe in questione comporti il coinvolgimento dei
consiglieri comunali delegati in funzioni di amministrazione
attiva e determini una situazione, per lo meno potenziale,
di conflitto d'interessi e di sovrapposizione di ruoli e di
responsabilità.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con
istanza di sospensiva, proposto con presentazione diretta,
ex art. 11 del d.P.R. n. 1199 del 1971, dai signori V.M.,
C.G. e D.S. per l’annullamento del provvedimento del sindaco
di Fara in Sabina (RI) concernente il conferimento di
deleghe a consiglieri comunali.
...
Premesso.
Con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, i
signori V.M., C.G. e D.S., in qualità di consiglieri
comunali di Fara in Sabina hanno chiesto l’annullamento,
previa sospensiva: a) del decreto n. 59 in data 03.06.2011,
con il quale il sindaco di Fara in Sabina ha conferito ai
consiglieri comunali F.S., F.B. e S.F. le deleghe in materia
di protezione civile, rapporti con i territori e istituti di
partecipazione, sport; b) di ogni altro atto presupposto,
connesso o consequenziale, compreso il parere reso dal
segretario generale del Comune con nota n. 18162 del
04.08.2011.
Premesso in fatto che dette deleghe sono state attribuite a
tre consiglieri di sesso maschile, i ricorrenti deducono che
le stesse sono illegittime, in quanto Statuto e regolamento
comunale (art. 10) prevedono deleghe ai consiglieri soltanto
da parte del Consiglio comunale. Inoltre, poiché attengono a
materie proprie degli assessorati, son suscettibili di
interferire con le attività degli stessi.
A parere dei ricorrenti, non valgono a confutare tale
valutazione neppure le argomentazioni esposte dal segretario
generale del Comune nella impugnata nota del 04.07.2011,
nella quale si afferma che gli atti di delega, su ben
definite e specifiche materie, si sono resi necessari in
ragione dell’ampiezza del territorio comunale e della
molteplicità delle problematiche che investono un grande
comune, quale è Fara in Sabina.
I ricorrenti sostengono, poi, che le contestate deleghe,
anche nel caso fossero ritenute ammissibili, risulterebbero
adottate in violazione all’art. 45 dello Statuto che impone
al Sindaco di garantire la presenza dei due sessi
nell’esercizio del potere di nomina. L’inosservanza della
disposizione statutaria, a parere dei deducenti, violerebbe,
altresì, l’art. 51 della Costituzione; l’art. 1, comma 4,
del d.lgs. n. 198 del 2006; l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n.
267 del 2000; la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma
di discriminazione nei confronti della donna; l’art. 23
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea;
gli artt. 2 e 3 del Trattato istitutivo della Comunità
Europea; l’art. 1-bis del trattato istitutivo dell’Unione
Europea.
Il Comune di Fara in Sabina, nelle controdeduzioni, ha
eccepito l'irricevibilità del ricorso, poiché è stato
depositato presso il Comune il 04.10.2011, senza la prova
dell'avvenuta notifica ai controinteressati; nonché
l'inammissibilità del gravame per carenza di interesse dei
ricorrenti sotto più profili, in quanto:
- il Consiglio comunale all’unanimità e con il voto dei
ricorrenti ha preso atto della determinazione del sindaco,
ratificando di fatto gli incarichi conferiti ai consiglieri;
- i ricorrenti non si sono peritati di indicare il
pregiudizio che sarebbe stato arrecato loro dal
provvedimento impugnato;
- la signora S. è priva di una posizione differenziata
rispetto al quisque de populo, in quanto non ha
fornito alcuna elemento probante dal quale si possa dedurre
il possesso di un curriculum paragonabile a quello dei
colleghi ai quali è stata conferita la delega.
- il giudizio amministrativo è azionabile dai consiglieri
comunali allorché vengono in rilievo atti incidenti in via
diretta sul diritto all’ufficio e non per risolvere
controversie interpersonali all’interno dell’organo
collegiale.
Nel merito il Comune ha precisato che il sindaco ha inteso,
con il provvedimento impugnato, assegnare compiti di studio
e monitoraggio di determinate materie nel quadro delle
generali funzioni di indirizzo e coordinamento dei
consiglieri e non attribuire speciali incarichi su materie
specifiche del Consiglio comunale, né delegare funzioni
proprie alla qualifica di ufficiale di governo. Per ciò che
riguarda la violazione dell'art. 45 dello Statuto ha
osservato che mentre quest'ultimo attiene alle nomine dei
componenti della giunta, delle commissioni consiliari, delle
commissioni tecniche, degli organismi o commissioni, il
provvedimento del sindaco non costituisce alcun
provvedimento di nomina.
Il Ministero dell’interno ritiene infondata l'eccezione di
irricevibilità del ricorso sollevata dal Comune, poiché il
gravame risulta notificato ad almeno uno dei
controinteressati e depositato presso il Comune il
04.10.2011, nel termine di 120 giorni dall'adozione del
decreto n. 59 del 03.06.2011, mentre la prova dell'avvenuta
notifica del ricorso ai controinteressati è pervenuta al
Comune il 21.11.2011, ossia decorso tale termine.
Nel merito, è del parere che il ricorso debba essere
respinto.
Considerato.
Ritiene la Sezione che l’eccezione di irricevibilità
proposta dal Comune debba essere respinta per le
considerazioni già espresse dal Ministero dell’interno.
Non può neppure essere condivisa l’eccezione di
inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione
attiva in capo ai ricorrenti pure dedotta dal Comune.
Infatti, fermo restando che il consigliere comunale è
legittimato a impugnare gli atti adottati dall'organo
collegiale o da altro organo dell’ente locale soltanto ove
deduca vizi direttamente lesivi del munus di cui è
investito, nel caso di specie il conferimento delle deleghe
in questione incide sull’esercizio del munus di
consigliere comunale, in quanto comporta un ampliamento
delle funzioni di taluni consiglieri rispetto agli altri
membri dell’organo collegiale e ingenera il rischio di
interferenze sul corretto esercizio del mandato conferito
dagli elettori.
In altri termini, si realizza un disquilibrio tra le
attribuzioni dei consiglieri e una confusione di ruoli nel
Consiglio stesso, potenzialmente in grado di turbare la
regolare e leale dialettica assembleare e, quindi,
confliggente con il personale interesse dei consiglieri alla
salvaguardia delle proprie prerogative, che sono
prioritariamente rivolte a indirizzare e controllare
l’attività della giunta comunale.
Ciò anteposto, assume valore determinante ed assorbente ai
fini dell’accoglimento del ricorso in esame, la dedotta
violazione delle disposizioni dello Statuto e del
Regolamento del Consiglio comunale.
Infatti, nel caso di specie il potere del sindaco di
conferire specifiche deleghe trova un limite innanzitutto
nell’art. 53 dello statuto comunale, che prevede
espressamente che il sindaco possa conferire speciali
deleghe agli assessori nelle materie che la legge e lo
statuto riservano alla sua competenza; possa delegare la
firma di atti e funzioni di indirizzo e controllo agli
assessori per materie omogenee, possa delegare, quale capo
dell’amministrazione, la firma di atti di propria competenza
al segretario generale e ai responsabili delle unità
organizzative.
Un ulteriore limite alla facoltà di delega da parte del
sindaco si ricava dall’art. 10 del regolamento del consiglio
comunale, che così recita: “Ai Consiglieri possono essere
affidati dal consiglio comunale speciali incarichi su
materie specifiche, nei limiti e secondo le modalità fissate
nella delibera di incarico”.
Orbene è di tutta evidenza che le controverse deleghe
esulano dalle ipotesi previste dalla richiamata normativa
comunale e ne disattendono, quindi, le prescrizioni. Sul
punto non può essere condivisa l’argomentazione difensiva
dell’Amministrazione che, mancando nella normativa comunale
un’esplicita previsione che vieti al sindaco di conferire ai
consiglieri comunali deleghe di studio e consulenza, il loro
conferimento sarebbe legittimo.
In disparte i vincoli per i consiglieri comunali derivanti
dal sopracitato art. 10 del regolamento del consiglio
comunale, non si può disconoscere che l’esercizio delle
deleghe in questione comporti il coinvolgimento dei
consiglieri comunali delegati in funzioni di amministrazione
attiva e determini una situazione, per lo meno potenziale,
di conflitto d'interessi e di sovrapposizione di ruoli e di
responsabilità.
Per le considerazioni espresse il ricorso in parola deve
essere accolto con conseguente annullamento degli atti
impugnati
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 26.11.2012 n. 4992 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO - VARI: Contro la pubblicità in casella un cartello fuori dal
portone.
Comunicazione. La consegna di opuscoli non richiesti può
integrare il reato di molestia o disturbo alle persone.
Negli ultimi
anni si è assistito alla proliferazione di un fenomeno ben
noto a chi risiede in condominio o ne è amministratore: la
pubblicità in buca. L’eccesso di depliant causa spesso una
vera e propria ostruzione della casella postale dei condòmini, inoltre la gran parte del materiale viene gettato
nella raccolta differenziata, venendo a costituire un costo
aggiuntivo per lo stabile in termini di tassa sui rifiuti.
Non è possibile, però, che una pubblica amministrazione
vieti con ordinanza la distribuzione di materiale
pubblicitario in quanto tale norma violerebbe i principi
costituzionali di eguaglianza e libertà dell’iniziativa
economica privata (articoli 3 e 41 della Costituzione).
Tale principio è
stato espresso dal TAR Lombardia-Brescia -Sez. II- con la
sentenza
17.04.2012 n. 641 che affermava che
«la distribuzione di volantini a mano lungo le strade e in
generale nei luoghi pubblici, anche in prossimità degli
edifici (ove sono collocate le bussole che ospitano la posta
ed il materiale pubblicitario) è un’attività essenzialmente
libera, e l’amministrazione non vanta poteri regolatori
suscettibili di incidere direttamente nel rapporto tra gli
operatori commerciali e i potenziali clienti».
Come, quindi, difendersi da questa invasione cartacea?
Anzitutto affiggendo un’insegna al di fuori dello stabile
comunicando la volontà dei comproprietari di non ricevere la
pubblicità e avvertendo che la consegna di opuscoli può
integrare il reato di cui all’articolo 660 del Codice penale
(molestia o disturbo alle persone). Ulteriore difesa
introdotta dal Decreto Sviluppo del 2011 è la possibilità
per i cittadini di inserire il proprio indirizzo nel
Registro Pubblico delle Opposizioni, fino ad allora
utilizzato solo per limitare la pubblicità telefonica
(ancora, però, in attesa del regolamento attuativo).
Nel caso in cui non vi fosse unanimità sul blocco della
pubblicità, che potrebbe invece essere voluta da alcuni
condòmini, si potrà deliberare l’istituzione di una casella
postale esterna al condominio, deputata unicamente alla
consegna dei dépliant informativi.
Infine, una soluzione ottimale parrebbe quella di dotare lo
stabile di un indirizzo di posta elettronica certificata (a
libero accesso da parte dei condòmini) al quale le aziende
potrebbero inviare le pubblicità senza tempestare di
volantini le caselle postali di tutti i condòmini.
In ogni caso l’amministratore dovrà inserire nell’ordine del
giorno dell’assemblea condominiale la volontà di istituire
la casella postale condominiale dedicata alla pubblicità
(sia questa fisica o informatica) e farsi parte diligente
per la creazione della stessa in caso di voto positivo dei
condòmini (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sottoscritta convenzione –che si configura come un atto
facente parte del procedimento che porta al rilascio della
concessione edilizia– determina con l’accordo sottoscritto
il contenuto dei relativi obblighi secondo i principi del
codice civile, così come precisato nell’art. 11 della legge
n. 241/1990. In particolare lo scomputo degli oneri di
urbanizzazione e la sua misura sono stati oggetto di una
determinazione consensuale che non può essere modificata
unilateralmente.
E’ infatti giurisprudenza costante che l’art. 16, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma
1, della legge n. 10/1977 e che corrisponde sostanzialmente
anche all’art. 26, comma 11, della legge regionale n.
52/1999 come modificato con la legge regionale n. 43/2003)
consente al privato di eseguire direttamente le opere di
urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi
oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo
da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto
se la proposta del privato sia accettata dal Comune secondo
le modalità e le garanzie dettate dal medesimo e con
conseguente acquisizione delle opere al patrimonio
indisponibile del comune.
---------------
La concessione edilizia è normalmente onerosa, tranne le
tassative ipotesi di gratuità (artt. 3-9 della legge n.
10/1977, trasfusi nel d.p.r. n. 380/2001 – art. 16).
Gli oneri di urbanizzazione (che unitamente al costo di
costruzione sono gli elementi della onerosità) sono stati
previsti dal legislatore a carico del costruttore, quale
prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di
costui al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle
esigenze della collettività che scaturiscono dagli
interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico
che si realizza nella zona in ordine all’aumento della
necessaria dotazione dei servizi (rete viaria, fognature,
ecc.); esigenze, queste, cui prioritariamente doveva
provvedere il comune appunto con questi proventi (art. 12
della legge n. 10/1977, norma non più riprodotta nella
normativa successiva in ossequio al principio dell’autonomia
degli enti locali ).
Detti oneri prescindono dall’esistenza o meno delle opere di
urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia
dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per
realizzare siffatte opere. Infatti, ai sensi dell’art. 16,
comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 (e della normativa
precedente), essi sono stabiliti dai comuni secondo tabelle
parametriche definite dalla regione per classi di comuni
(ampiezza e andamento demografico, caratteristiche
geografiche, destinazioni di zona, limiti e rapporti minimi
inderogabili di cui al d.m. n. 1444 del 02.04.1968).
I commi 7, 7-bis e 8 dello stesso art. 16 recano un elenco
tassativo delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria cui sono connessi i relativi oneri. Essi sono
dovuti anche in caso di modifica della destinazione d’uso
dell’immobile, quando sia necessaria la concessione edilizia
(ora: permesso di costruire), indipendentemente dalla
realizzazione di nuove opere edilizie.
---------------
La società ricorrente –che non può vantare un “diritto” allo
scomputo, dal momento che la legge configura la facoltà di
esecuzione diretta con possibilità di scomputo nei soli
limiti accettati dalla controparte pubblica- era
perfettamente consapevole che al momento della
sottoscrizione della convenzione con il Comune dovevano
essere precisati tutti i relativi obblighi, perché è in quel
momento che si realizza l’incontro delle volontà delle parti
contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale; ed anche
se alcuni contenuti dell’accordo sono proposti
dall’Amministrazione in termini non modificabili dal
privato, ciò non esclude che la parte privata che abbia
sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto e
senza apporvi nessuna riserva, abbia inteso aderirvi e ne
resti vincolata.
---------------
Firmata la convenzione e non esistendo nell’ordinamento un
“diritto allo scomputo”, le clausole relative e gli impegni
assunti non possono unilateralmente essere rimessi in
discussione, a meno di non invocare vizi della volontà o
ipotesi di risoluzione del contratto (es.: per vizi della
volontà o per eccessiva onerosità dell’accordo sottoscritto)
nella specie non dedotti.
Dette opere sono finalizzate alla fruizione dell’area ad uso
esclusivo della società ricorrente, che è un soggetto che
svolgerà un’attività dalla quale ritrarrà necessariamente un
utile d’impresa.
Nessuna delle opere realizzate dalla ricorrente sarà
trasferita al Comune in quanto trattasi di svincoli di
strade regionali o statali.
Non si può quindi fondatamente ritenere che il Comune,
negando lo scomputo, si viene ad arricchire delle opere
realizzate direttamente, perché, si ripete, trattasi opere
tutte a beneficio della realizzazione dell’Autoporto e con
nessun riflesso diretto (peraltro non dimostrato) per la
collettività.
Viceversa, è proprio la realizzazione della nuova struttura
e della creazione degli asseriti nuovi posti di lavoro che
potrà determinare una futura, nuova urbanizzazione anche di
carattere residenziale per coloro che vi lavorano, il che
comporta che il Comune si dovrà addossare altri oneri di
urbanizzazione per finalità pubbliche; ecco che si
giustifica il fatto di non aver previsto, negli atti tutti
della procedura, nessuno scomputo ulteriore rispetto a
quello esplicitamente determinato nella misura di circa
160.000 euro.
1. La
controversia ha ad oggetto la corretta quantificazione degli
oneri di urbanizzazione, primaria e secondaria, dovuti per
la realizzazione di un Autoporto nel Comune di
Collesalvetti; la previsione dell’opera è
la risultante di un accordo tra la Regione toscana e taluni
enti locali (Provincia di Livorno e comuni di Livorno e di
Collesalvetti) per la qualificazione di una determinata zona
e la realizzazione di una piattaforma per lo stoccaggio
delle auto provenienti dal porto di Livorno, e in relazione
ad essa è stata anche prevista una variante urbanistica
apposita.
Nel ricorso si lamenta in sostanza il mancato
riconoscimento, da parte del Comune, di una maggiore
quantità di opere di urbanizzazione, realizzate o
realizzande direttamente dalla società titolare della
concessione edilizia, da calcolare ai fini di un maggiore
scomputo dagli oneri dovuti ai sensi dell’art. 16 del t.u.
sull’edilizia (d.p.r. n. 380/2001).
In particolare si
sostiene che anche le opere idrauliche, in quanto poste a
servizio della collettività, devono essere considerate opere
di urbanizzazione e quindi scomputate dagli oneri, come pure
tutte le opere inerenti il piazzale. Si conclude quindi
circa l’esistenza di un vero e proprio diritto ad ottenere
lo scomputo di quanto realizzato direttamente.
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Va precisato che l’opera che sarà realizzata è di
ingenti dimensioni (65 ettari) ed è costituita da un
piazzale per lo stoccaggio delle autovetture (a detta del
Comune, nel numero di 28.000) e da alcuni edifici, con
rilevante impatto sia per l’impegno del suolo che per le
ripercussioni sulla rete viaria e con creazione di 100 nuovi
posti di lavoro, il che ha determinato la sua ammissione a
finanziamento pubblico.
Per consentire la realizzazione dell’intervento il Comune di
Collesalvetti, previ accordi di pianificazione con la
Regione toscana, la Provincia di Livorno e il Comune di
Livorno diretti a favorire la decongestione del porto di
Livorno con la realizzazione della struttura in altra area,
ha approvato una variante (delibera n. 48/2002) al proprio
strumento urbanistico, variante che in tempi passati non era
stata invece ammessa dalla regione stessa.
Anche per
superare le difficoltà (pericolosità idraulica, viabilità)
riscontrate a suo tempo dalla Regione, l’art. 31 delle N.T.A. della variante indica analiticamente le opere a
carico del privato.
2.2. Nella convenzione sottoscritta in data 25.08.2003, accessiva alla concessione edilizia per la realizzazione
dell’Autoporto, la società
ricorrente quale “soggetto utilizzatore e realizzatore”
dell’opera (definito anche come concessionario) si impegna
(art. 3) a realizzare una serie di opere (finalizzate alla
costruzione e gestione dell’Autoporto), tra le quali lo
svincolo di accesso all’area sulla S.S. 206, l’adeguamento
dello svincolo di Vicarello sulla S.S. Firenze-Pisa-Livorno, le opere di bonifica idraulica e geologica, secondo
l’autorizzazione rilasciata dall’Autorità di bacino dell’Arno
il 20.12.2002, ed altre opere.
Nell’art. 5 della convenzione è specificato che la società
“si impegna e si obbliga a realizzare le opere di
urbanizzazione primaria, oltre a quelle di allacciamento ai
pubblici servizi secondo le normative igienico-sanitarie
vigenti, così come individuate nell’elaborato grafico
allegato alla presente convenzione”. E’ altresì previsto che
“le opere di urbanizzazione realizzate all’interno dell’area
dell’Autoporto rimangono in carico al soggetto utilizzatore
e realizzatore che ha l’obbligo di assicurarne la
funzionalità e la manutenzione”, mentre “le opere di
urbanizzazione relative alla viabilità di accesso…e il primo
lotto…dello svincolo di Vicarello e le altre poste
all’esterno dell’area il Faldo richiamate nelle premesse
saranno cedute gratuitamente all’ente concedente una volta
realizzate e collaudate”.
Viene quindi concordato che “gli standard a parcheggio di
cui al d.m. n. 1444/1968 e 122/1989 inseriti nell’Autoporto o a
questo connessi sono classificati come parcheggi privati a
uso pubblico e sono gestiti dal concessionario” e che
“l’importo relativo alla realizzazione degli standard è di
complessivi Euro 159.542,50 (pari a 3.250 mq. per Euro
49,09/mq.), dedotti dal computo metrico estimativo… che…
saranno scomputati dagli oneri di urbanizzazione…”; quindi
si precisa che “tutte le opere comprese nell’area sono
subordinate al rilascio di concessione edilizia…soggetta al
pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria pari a Euro
1.183.140,01 e urbanizzazione secondaria pari a Euro
998.102,42 per complessivi Euro 2.181.242,43”.
A sua volta la concessione edilizia riporta l’ammontare di
159.542,5 euro quale solo “oggetto di scomputo dagli oneri
di urbanizzazione”.
Nello stesso atto consensuale, poi, all’art. 6 è previsto
che la società “a
garanzia della perfetta osservanza degli obblighi oggetto
della …convenzione e delle norme tecniche per l’esecuzione
delle opere di urbanizzazione… costituisce apposita
fideiussione per l’importo di Euro 4.362.484,00”; tale
somma, come comunemente avviene, è
esattamente il doppio di quanto dovuto per oneri concessori
quantificati nel precedente art. 5.
2.3. Orbene, la detta convenzione –che si configura come un
atto facente parte del procedimento che porta al rilascio
della concessione edilizia– determina con l’accordo
sottoscritto il contenuto dei relativi obblighi secondo i
principi del codice civile, così come precisato nell’art.
11 della legge n. 241/1990. In particolare lo scomputo degli
oneri di urbanizzazione e la sua misura sono stati oggetto
di una determinazione consensuale che non può essere
modificata unilateralmente.
E’ infatti giurisprudenza costante che l’art. 16, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma
1, della legge n. 10/1977 e che corrisponde sostanzialmente
anche all’art. 26, comma 11, della legge regionale n. 52/1999
come modificato con la legge regionale n. 43/2003) consente al
privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione
in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con
possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto
deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria), ma tale facoltà ha effetto soltanto se la
proposta del privato sia accettata dal Comune secondo le
modalità e le garanzie dettate dal medesimo e con
conseguente acquisizione delle opere al patrimonio
indisponibile del comune.
La ricorrente sostiene che la sottoscrizione della
convenzione non può costituire acquiescenza all’obbligo del
pagamento e rinuncia a ogni altro scomputo, perché la
mancata effettuazione dello scomputo doveroso sarebbe emersa
soltanto a seguito della nota del Comune 09.09.2003 nella
quale è contenuto il calcolo degli oneri dovuti; nella
convenzione viceversa viene solo quantificata la cifra
complessiva degli oneri di urbanizzazione, ma non è
specificato che da detto importo non saranno detratti i
costi per le opere di urbanizzazione eseguite direttamente;
anzi l’approvazione, da parte del Comune, del computo
metrico estimativo di dette opere redatto dal tecnico della
ricorrente avrebbe indotto quest’ultima a ritenere accettato
il doveroso scomputo, anche perché la realizzazione
dell’intervento era stata prevista dalla variante
urbanistica che poneva a carico del privato realizzatore
ogni spesa necessaria per rendere attuabile l’intervento
stesso; la contestuale richiesta di oneri per opere
realizzate direttamente costituirebbe una indebita
duplicazione.
La tesi non può essere condivisa.
La concessione edilizia è normalmente onerosa, tranne le
tassative ipotesi di gratuità (artt. 3-9 della legge n.
10/1977, trasfusi nel d.p.r. n. 380/2001 – art. 16) che, nella
specie, non vengono invocate.
Gli oneri di urbanizzazione (che unitamente al costo di
costruzione sono gli elementi della onerosità) sono stati
previsti dal legislatore a carico del costruttore, quale
prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione di
costui al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle
esigenze della collettività che scaturiscono dagli
interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico
che si realizza nella zona in ordine all’aumento della
necessaria dotazione dei servizi (rete viaria, fognature,
ecc.); esigenze, queste, cui prioritariamente doveva
provvedere il comune appunto con questi proventi (art. 12
della legge n. 10/1977, norma non più riprodotta nella
normativa successiva in ossequio al principio dell’autonomia
degli enti locali ).
Detti oneri prescindono dall’esistenza o meno delle opere di
urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia
dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per
realizzare siffatte opere (Cons. di Stato, V, n. 462/1977).
Infatti, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del d.p.r. n.
380/2001 (e della normativa precedente), essi sono stabiliti
dai comuni secondo tabelle parametriche definite dalla
regione per classi di comuni (ampiezza e andamento
demografico, caratteristiche geografiche, destinazioni di
zona, limiti e rapporti minimi inderogabili di cui al d.m.
n. 1444 del 02.04.1968).
I commi 7, 7-bis e 8 dello stesso
art. 16 recano un elenco tassativo delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria cui sono connessi i
relativi oneri. Essi sono dovuti anche in caso di modifica
della destinazione d’uso dell’immobile, quando sia
necessaria la concessione edilizia (ora: permesso di
costruire), indipendentemente dalla realizzazione di nuove
opere edilizie (Cons. di Stato, V, n. 529/1977).
La ricorrente si sofferma molto nelle sue difese nel
sostenere che le opere idrauliche che essa si è impegnata a
realizzare sono da considerarsi opere di urbanizzazione
(primaria o secondaria?), sia perché rivolte alle esigenze
della collettività sia perché previste nella specifica
variante che ha appunto consentito la realizzazione
dell’intervento dell’Autoporto.
La tesi non può essere condivisa perché è indubbio che
l’opera sia da ricomprendere tra le iniziative
imprenditoriali private che, seppur prevista in uno
strumento urbanistico, non per questo diventa opera pubblica
o di pubblico interesse tale da fruire di particolari misure
derogatorie rispetto al sistema legale della concessione
edilizia onerosa. Al contrario, tutte le opere previste
nello strumento urbanistico, alla cui esecuzione è
subordinato il rilascio della concessione edilizia, sono
state indicate al solo scopo di rendere tecnicamente
possibile l’intervento stesso e non servono a rendere
vivibile la zona nell’interesse della collettività ma
nell’esclusivo interesse dell’imprenditore che realizzerà e
gestirà l’opera con il consueto utile di impresa. Tali sono,
oltre alle opere idrauliche, il piazzale di stoccaggio
delle auto e gli interventi viari finalizzati, non ad una
fruizione generale, ma solo al transito dei camion che
trasportano le autovetture e quindi sempre per un interesse
privato dell’impresa.
In ogni caso la società ricorrente –che non può vantare un
“diritto”
allo scomputo, dal momento che la legge configura la facoltà
di esecuzione diretta con possibilità di scomputo nei soli
limiti accettati dalla controparte pubblica- era
perfettamente consapevole che al momento della
sottoscrizione della convenzione con il Comune dovevano
essere precisati tutti i relativi obblighi, perché è in quel
momento che si realizza l’incontro delle volontà delle parti
contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale; ed anche
se alcuni contenuti
dell’accordo sono proposti dall’Amministrazione in termini
non modificabili dal privato, ciò non esclude che la parte
privata che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone
il contenuto e senza apporvi nessuna riserva, abbia inteso
aderirvi e ne resti vincolata (Cons. di Stato n. 33/2003).
Avvalorano la conclusione anche le N.T.A. della specifica
Variante urbanistica comunale (non impugnata) che ha
consentito la realizzazione dell’opera, ove si precisa (art.
31), al punto D1F (Autoporto Faldo), che “l’intervento è
attuabile mediante concessione convenzionata contenente
l’impegno a realizzare tutti gli interventi presenti nel
progetto, i relativi costi…” (tra cui lo svincolo di accesso
all’area sulla strada statale, adeguamento di altro svincolo
viario,
attivazione di tratto ferroviario, opere di bonifica
idraulica e geologica) nonché, alla lettera f, che l’“atto
d’obbligo” del titolare della concessione edilizia dovrà
contenere, tra l’altro, l’impegno a “effettuare i versamenti
relativi agli oneri concessori secondo gli importi all’uopo
stabiliti”. La variante non è stata impugnata.
Nemmeno la invocata circostanza che l’intervento è oggetto
di un finanziamento pubblico, previsto dal Patto
territoriale di Livorno e dell’area livornese, approvato con
decreti interministeriali nn. 983 e 996 del 1999, può valere
a considerare il complesso intervento come tutta un’opera di
urbanizzazione.
Da tutto ciò deriva che, firmata la convenzione e non
esistendo nell’ordinamento un “diritto allo scomputo”, le
clausole relative e gli impegni assunti non possono
unilateralmente essere rimessi in discussione, a meno di non
invocare vizi della volontà o ipotesi di risoluzione del
contratto (es.: per vizi della volontà o per eccessiva
onerosità dell’accordo sottoscritto) nella specie non
dedotti.
Dette opere sono finalizzate alla fruizione dell’area ad uso
esclusivo della società ricorrente, che è un soggetto che
svolgerà un’attività
dalla quale ritrarrà necessariamente un utile d’impresa.
Nessuna delle opere realizzate dalla ricorrente sarà
trasferita al Comune in quanto trattasi di svincoli di
strade regionali o statali.
Non si può quindi fondatamente ritenere che il Comune,
negando lo scomputo, si viene ad arricchire delle opere
realizzate direttamente, perché, si ripete, trattasi opere
tutte a beneficio della realizzazione dell’Autoporto e con
nessun riflesso diretto (peraltro non dimostrato) per la
collettività. Viceversa, è proprio la realizzazione della
nuova struttura e della creazione degli asseriti nuovi posti
di lavoro che potrà
determinare una futura, nuova urbanizzazione anche di
carattere residenziale per coloro che vi lavorano, il che
comporta che il Comune si dovrà addossare altri oneri di
urbanizzazione per finalità pubbliche; ecco che si
giustifica il fatto di non aver previsto, negli atti tutti
della procedura, nessuno scomputo ulteriore rispetto a
quello esplicitamente determinato nella misura di circa
160.000 euro.
Per tal parte il ricorso non può essere accolto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.09.2004 n. 3782 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla questione
dell’astratta scomputabilità –dall’importo dovuto a titolo
di oneri di urbanizzazione secondaria– del valore delle
opere di urbanizzazione primaria eseguite o da
eseguirsi.
Come previsto dalla legge 28.01.1977 n.
10, il concessionario può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le
garanzie stabilite dal comune a scomputo totale o parziale
degli oneri di urbanizzazione primaria o secondaria (artt.
11 e 5).
L’obbligazione per oneri di urbanizzazione, a differenza di
quella contributiva per costo di costruzione che è stata
definita acausale perché connessa alla mera utilizzazione
edificatoria del territorio e perciò ritenuta di natura
paratributaria, deve ritenersi invece causale ed ha natura
di corrispettivo di diritto pubblico di natura non
tributaria, dovuto dal titolare della concessione edilizia
per la partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione
connessi all’edificazione.
Peraltro, la quota di urbanizzazione è stata anche
qualificata come tassa, in quanto essenzialmente
corrispettivo di una prestazione resa o da rendere da parte
dell’amministrazione, o avente natura di corrispettivo di
diritto pubblico.
Ad avviso del Collegio, si tratta, comunque, di una forma di
partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici,
ma sempre collegata all’attività di trasformazione del
territorio; più precisamente, ha carattere di corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a
carico del costruttore a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae.
Pertanto, il relativo contributo può essere scomputato nei
casi in cui, ricorrendone i presupposti e le condizioni, le
opere di urbanizzazione siano realizzate dal titolare della
concessione edilizia (art. 11, comma 1, citato, l. 10/1977).
Ne consegue che ben può ammettersi anche la scomputabilità
del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione
primaria
dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione
secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di
cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla
compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi
soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale.
La giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha già
affermato che lo scomputo, totale o parziale, della quota di
contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle
opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza
distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede
legislativa specifica (art. 11 legge n. 10/1977) delle due
categorie di opere vieta all’interprete di introdurre una
siffatta distinzione.
---------------
Come già chiarito, deve ammettersi la possibilità per il
titolare della concessione edilizia di realizzare in tutto o
in parte le opere di urbanizzazione, sia primarie che
secondarie, a scomputo dei relativi oneri, “con le modalità
e le garanzie stabilite dal comune”, ai sensi dell’art. 11
l. 10/1977 e, ora, dell’art. 16 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380
(t.u. in materia edilizia) e dell’art. 26, comma 11, l.r.t.
52/1999.
Tale facoltà, peraltro, non implica in nessun caso una
pretesa indiscriminata allo scomputo del valore di qualsiasi
opera di urbanizzazione volontariamente seguita al di fuori
di un preventivo accordo con il comune che è il soggetto
destinatario degli oneri di urbanizzazione e, in caso di
scomputo del valore delle opere direttamente eseguite dal
concessionario, delle opere stesse che devono soddisfare,
sotto il profilo quantitativo, qualitativo e funzionale le
necessità del nuovo insediamento.
Pertanto, l’accertamento del se (e della misura in cui) le
opere eseguite direttamente dal privato rispondano alle
predette necessità non può che spettare al comune, in via
preventiva o successiva alla realizzazione delle opere
medesime.
Laddove sussista, la convenzione sugli oneri di
urbanizzazione inserita nei procedimenti di concessione
edilizia onerosa ha carattere di contratto di natura
peculiare che viene ad innestarsi nel procedimento che si
conclude con rilascio della concessione edilizia; pertanto,
come la pubblica amministrazione non può apportare modifiche
unilaterali alla convenzione urbanistica stipulata tra essa
ed il privato con la quale siano stati quantificati gli
oneri di urbanizzazione, così il concessionario non può
mettere in discussione l’obbligazione convenzionalmente
assunta.
Al più, ove modalità e garanzie non siano state oggetto di
preventivo accordo con il comune, la giurisprudenza ritiene
che la pretesa del concessionario sia subordinata alla
valutazione comunale dell’entità e della effettiva
utilizzazione delle opere realizzate.
--------------
Infine, non appare condivisibile l’affermazione secondo cui
il diritto allo scomputo delle eccedenze discende ex lege
ove il privato si impegni –con le garanzie e le modalità
concordate con l’amministrazione– alla realizzazione diretta
(e alla cessione) delle opere di urbanizzazione primaria e
tale diritto non sia stato convenzionalmente escluso o
limitato dalle parti, soprattutto se, come nella
fattispecie, la convenzione non abbia quantificato il valore
delle opere di urbanizzazione secondaria e preveda la
necessità del conguaglio solo in favore
dell’amministrazione.
---------------
Il presupposto dell’azione di indebito arricchimento,
costituito dall’indebito oggettivo e individuato nella
fattispecie nella pretesa eccedenza tra il valore delle
opere di urbanizzazione primaria da realizzare e il
contributo, a tale titolo, determinato in sede di
convenzione tra le parti, è nella specie insussistente.
Infatti, l’azione di indebito arricchimento presuppone, come
fatto oggettivo, l’avvenuto arricchimento di una parte e la
correlativa diminuzione patrimoniale dell’altra, il che
nella specie non si verifica, trattandosi di indebito
riferito, dalla stessa parte ricorrente, al costo di opere
ancora non eseguite.
Inoltre, condizione necessaria per l’esperimento dell’azione
di arricchimento nei confronti della pubblica
amministrazione è il riconoscimento dell’utilità parziale o
totale dell'opera, cosa o prestazione in quanto la
configurabilità stessa di un arricchimento senza causa della
p.a. resta affidata ad una valutazione discrezionale di
quest’ultima, unica legittimata ad esprimere il relativo
giudizio che presuppone il ponderato apprezzamento circa la
rispondenza, diretta o indiretta, della cosa o della
prestazione al pubblico interesse.
4 – In ordine alla questione
dell’astratta scomputabilità –dall’importo dovuto a titolo
di oneri di urbanizzazione secondaria– del valore delle
opere di urbanizzazione primaria eseguite o da eseguirsi
dalla ricorrente va premesso che, come previsto dalla
legge 28.01.1977 n. 10, il concessionario può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune a scomputo totale o parziale degli oneri di
urbanizzazione primaria o secondaria (artt. 11 e 5).
L’obbligazione per oneri di urbanizzazione, a differenza di
quella contributiva per costo di costruzione che è stata
definita acausale perché connessa alla mera utilizzazione
edificatoria del territorio e perciò ritenuta di natura
paratributaria, deve ritenersi invece causale ed ha natura
di corrispettivo di diritto pubblico di natura non
tributaria, dovuto dal titolare della concessione edilizia
per la partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione
connessi all’edificazione (da ultimo, Tar Campania,
Salerno, II, 23.05.2003 n. 548).
Peraltro, la quota di urbanizzazione è stata anche
qualificata come tassa, in quanto essenzialmente
corrispettivo di una prestazione resa o da rendere da parte
dell’amministrazione, o avente natura di corrispettivo di
diritto pubblico (Tar Lombardia Milano, II, 06.11.2002 n.
4267).
Ad avviso del Collegio, si tratta, comunque, di una forma di
partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici,
ma sempre collegata all’attività di trasformazione del
territorio (C.S., V, 06.05.1997 n. 462); più precisamente, ha
carattere di corrispettivo di diritto pubblico, di natura
non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di
partecipazione del concessionario ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae (C.S., V, 23.05.1997 n. 529).
Pertanto, il relativo contributo può essere scomputato nei
casi in cui, ricorrendone i presupposti e le condizioni, le
opere di urbanizzazione siano realizzate dal titolare della
concessione edilizia (art. 11, comma 1, citato, l. 10/1977).
Ne consegue che ben può ammettersi anche la scomputabilità
del valore corrispondente alle opere di urbanizzazione
primaria
dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione
secondaria, attesa la comune natura giuridica degli oneri di
cui trattasi, non ravvisandosi ragioni ostative alla
compensazione tra obbligazioni intercorrenti tra i medesimi
soggetti e nascenti dal medesimo rapporto convenzionale.
La giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha già
affermato che lo scomputo, totale o parziale, della quota di
contributo dovuta in caso di realizzazione diretta delle
opere di urbanizzazione deve essere effettuato senza
distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, atteso che la mancata distinzione nella sede
legislativa specifica (art. 11 legge n. 10/1977) delle due
categorie di opere vieta all’interprete di introdurre una
siffatta distinzione (da ultimo, Tar Toscana, III, 11.03.2004
n. 679 e giurisprudenza ivi richiamata).
Pertanto, deve ritenersi ammissibile la richiesta in tal
senso formulata dalla ricorrente al comune resistente.
5 – Nello specifico, peraltro, la domanda di scomputo
avanzata dalla ricorrente non è fondata.
Essa, infatti, si basa sui seguenti assunti:
- in base alla
convenzione stipulata con il comune, l’ente pubblico ha
diritto all’esecuzione (e cessione) a cura del privato di
tutte le opere indicate nella convenzione medesima,
indipendentemente dal loro valore;
- per la quantificazione (e
l’eventuale scomputo) degli oneri rileva il valore in
concreto sostenuto dal privato e non quello (implicitamente)
presunto ai soli fini del calcolo della polizza fidejussoria
dovuta;
- il valore delle opere che la ricorrente dovrebbe
realizzare supera di ben tre volte quello degli oneri da
essa dovuti al comune, pur utilizzando i criteri stabiliti
dalla stessa amministrazione comunale.
Contrariamente alla tesi sostenuta dalla ricorrente, il
Collegio ritiene quanto segue.
Come già chiarito, deve ammettersi la possibilità per il
titolare della concessione edilizia di realizzare in tutto o
in parte le opere di urbanizzazione, sia primarie che
secondarie, a scomputo dei relativi oneri, “con le modalità
e le garanzie stabilite dal comune”, ai sensi dell’art. 11
l. 10/1977 e, ora, dell’art. 16 del d.p.r. 06.06.2001 n.
380 (t.u. in materia edilizia) e dell’art. 26, comma 11, l.r.t. 52/1999.
Tale facoltà, peraltro, non implica in nessun caso una
pretesa indiscriminata allo scomputo del valore di qualsiasi
opera di urbanizzazione volontariamente seguita al di fuori
di un preventivo accordo con il comune che è il soggetto
destinatario degli oneri di urbanizzazione e, in caso di
scomputo del valore delle opere direttamente eseguite dal
concessionario, delle opere stesse che devono soddisfare,
sotto il profilo quantitativo, qualitativo e funzionale le
necessità del nuovo insediamento.
Pertanto, l’accertamento del se (e della misura in cui) le
opere eseguite direttamente dal privato rispondano alle
predette necessità non può
che spettare al comune, in via preventiva o successiva alla
realizzazione delle opere medesime.
Laddove sussista, la convenzione sugli oneri di
urbanizzazione inserita nei procedimenti di concessione
edilizia onerosa ha carattere di contratto di natura
peculiare che viene ad innestarsi nel procedimento che si
conclude con rilascio della concessione edilizia; pertanto,
come la pubblica amministrazione non può apportare modifiche
unilaterali alla convenzione urbanistica stipulata tra essa
ed il privato con la quale siano stati quantificati gli
oneri di urbanizzazione (C.G.A., 01.02.2001 n. 184), così il
concessionario non può mettere in discussione l’obbligazione
convenzionalmente assunta.
Al più, ove modalità e garanzie non siano state oggetto di
preventivo accordo con il comune, la giurisprudenza ritiene
che la pretesa del concessionario sia subordinata alla
valutazione comunale dell’entità e della effettiva
utilizzazione delle opere realizzate (Tar Lazio, II-bis,
22.07.2003 n. 6570 e giurisprudenza ivi citata).
Peraltro, nella fattispecie, la concessione n. 2267, per il
completamento delle opere di urbanizzazione primaria,
prevede che è
concesso di eseguire i relativi lavori , secondo il progetto
costituito da n. 21 tavole, relazione tecnica e computo
metrico-estimativo, “quale parte integrante e sostanziale
del presente atto”.
Essa, quanto agli oneri di urbanizzazione (art. 2),
prescrive che i concessionari si obbligano a realizzare le
opere di urbanizzazione primaria nel rispetto della
convenzione e a cedere al comune le relative aree; la
medesima concessione determina l’importo complessivo
previsto per le suddette opere indicandolo nella misura di
Euro 752.475,25.
Allo stesso provvedimento è allegato il computo metrico
estimativo delle opere di urbanizzazione.
Sulla scorta delle circostanze precisate, ritiene il
Collegio che la ricorrente non possa vantare una pretesa
patrimoniale eccedente il valore delle opere che si era
obbligata a realizzare, senza aver preventivamente, con l’amministrazione comunale, giustificato l’esistenza e
concordato l’entità della differenza tra l’ammontare
prestabilito e quello richiesto.
Né vale sostenere, da parte ricorrente, che l’esecuzione
diretta delle opere di urbanizzazione primaria,
convenzionalmente prevista, avrebbe un valore triplo
rispetto a quello che sarebbe il costo degli oneri allo
stesso titolo dovuti e che la convenzione non preclude lo
scomputo delle eventuali somme eccedenti; non vale, neanche,
richiamare che la giurisprudenza avrebbe ritenuto
inammissibile la richiesta di scomputo solamente ove, in
sede di convenzione, tale diritto sia stato espressamente
escluso o limitato (cfr. C.S., V, 29.09.1999 n. 1209).
Invero, la sentenza citata dalla ricorrente non pare
contribuire a sorreggere la tesi qui prospettata,
limitandosi ad affermare la possibilità che la parte
promittente possa liberamente assumere impegni patrimoniali
più onerosi rispetto a quelli astrattamente previsti dalla
legge (che ammette lo scomputo parziale, anziché
totale).
Infine, non appare condivisibile l’affermazione secondo cui
il diritto allo scomputo delle eccedenze discende ex lege
ove il privato si impegni –con le garanzie e le modalità
concordate con l’amministrazione– alla realizzazione
diretta (e alla cessione) delle opere di urbanizzazione
primaria e tale diritto non sia stato convenzionalmente
escluso o limitato dalle parti, soprattutto se, come nella
fattispecie, la convenzione non abbia quantificato il valore
delle opere di urbanizzazione secondaria e preveda la necessità del conguaglio solo in favore
dell’amministrazione (cfr. ricorso n. 73/04).
Vero è che la convenzione stipulata in data 28.05.2002
tra il comune e la ricorrente prevede: a) l’obbligo di
rispettare la variante al piano di recupero approvato la cui
attuazione avverrà “previa approvazione del nuovo progetto
esecutivo delle opere di urbanizzazione primaria” (art. 2);
b) che i presentatori del piano di recupero si obbligano
alla realizzazione a propria cura e spese della
urbanizzazione primaria e delle opere ….previste nel
progetto esecutivo, composto da relazione tecnica, elaborati
grafici, computo metrico estimativo il quale è redatto sulla
base del prezzario ufficiale del Provveditorato alle opere
pubbliche della regione Toscana (art. 3).
La stessa convenzione prevede, altresì, che al termine dei
lavori dovrà
essere presentato all’amministrazione comunale un quadro di
raffronto tra le opere stimate e quelle effettivamente
eseguite e che se la stima delle opere risulterà inferiore a
quanto dovuto per gli oneri di urbanizzazione primaria,
calcolati sulla base delle tabelle, dovrà
esservi un conguaglio a favore del comune (art. 3 citato).
6 – Escluso, per le ragioni esposte, il “diritto” della
ricorrente a scomputare, dall’importo dovuto a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria, il valore corrispondente
alle opere di urbanizzazione eccedente quello stabilito in
convenzione, ne consegue l’infondatezza delle ulteriori
domande proposte.
Secondo la ricorrente, atteso che dallo scomputo del maggior
valore delle opere di urbanizzazione primaria direttamente
realizzate o realizzande conseguirebbe l’inesistenza di
alcun debito della ricorrente
medesima per oneri di urbanizzazione secondaria, il credito
nei confronti del comune, a suo tempo cedutole dalla sua
dante causa (C.C.), risulterebbe, ad oggi,
insoluto.
Sulla base di tali premesse, la ricorrente ha proposto
domanda di condanna dell’amministrazione al pagamento della
somma di cui risulterebbe debitrice.
Sennonché, venuta meno la premessa (il c.d. diritto allo
scomputo delle somme eccedenti), resta a carico della
ricorrente l’obbligazione relativa gli oneri di
urbanizzazione secondaria.
Peraltro, come risulta dagli atti di causa, l’amministrazione ha provveduto a computare il costo delle
opere di urbanizzazione eseguite dalla dante causa della
ricorrente (cfr. relazione tecnica depositata come doc. 5,
ed ivi riferimento alle opere “riutilizzabili”).
Ciò in conformità all’art. 5 della convenzione tra la
ricorrente ed il comune che prevede che nel calcolo degli
oneri concessori si debba tener conto di quanto già
corrisposto dalla società Cooper Chianti e che sarà
consentito l’eventuale conguaglio con le somme già pagate
per oneri di urbanizzazione secondaria e costo di
costruzione relativi ad interventi non eseguiti e/o non
ultimati, previsti dalla precedente convenzione.
Restano da esaminare, infine, l’azione di indebito
arricchimento del comune e la connessa domanda di condanna
dell’amministrazione alla corresponsione dell’indennizzo ex
art. 2041 c.c., proposte con il secondo ricorso in esame.
A fondamento dell’azione, la ricorrente deduce la
corresponsione sine titulo, a favore del comune, del costo
delle opere di urbanizzazione primaria indicato in circa
1.300.000 euro e del contributo di urbanizzazione
secondaria a fronte del contributo dovuto in base alle
tabelle parametriche, a titolo di urbanizzazione primaria,
in misura pari a circa 410.000 euro.
L’assunto è infondato.
Il presupposto dell’azione di indebito arricchimento,
costituito dall’indebito oggettivo e individuato nella
fattispecie nella pretesa eccedenza tra il valore delle
opere di urbanizzazione primaria da realizzare e il
contributo, a tale titolo, determinato in sede di
convenzione tra le parti, è nella specie insussistente.
Infatti, l’azione di indebito arricchimento presuppone, come
fatto oggettivo, l’avvenuto arricchimento di una parte e la
correlativa diminuzione patrimoniale dell’altra, il che
nella specie non si verifica, trattandosi di indebito
riferito, dalla stessa parte ricorrente, al costo di opere
ancora non eseguite.
Inoltre, condizione necessaria per l’esperimento
dell’azione di arricchimento nei confronti della pubblica
amministrazione è il riconoscimento dell’utilità parziale o
totale dell'opera, cosa o prestazione in quanto la
configurabilità stessa di un arricchimento senza causa della
p.a. resta affidata ad una valutazione discrezionale di
quest’ultima, unica legittimata ad esprimere il relativo
giudizio che presuppone il ponderato apprezzamento circa la
rispondenza, diretta o indiretta, della cosa o della
prestazione al pubblico interesse (Cass. civ., II, 11.02.2002
n. 1884).
Nella fattispecie, per le considerazioni già illustrate,
mancano entrambe le condizioni per un valido esperimento
dell’azione di che trattasi
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.08.2004 n. 3181 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Conformemente
ai precedenti di questa stessa Sezione, laddove la
quantificazione dei contributi di concessione edilizia sia
contenuta in una convenzione (e non derivi perciò da un atto
unilaterale del Comune), questa diviene vincolante ed
inderogabile per tutte le parti stipulanti, con la
conseguenza che il Comune non può di norma apportare nessuna
modifica a quanto ivi stabilito.
La determinazione del Comune di addivenire ad una
convenzione in materia urbanistica segna il mutamento dei
termini del rapporto tra le parti, facendo venir meno la
possibilità di emenda delle determinazioni amministrative
sull’oggetto del rapporto, (in quanto) la convenzione è
stipulata anche nell’interesse pubblico, e la valutazione
degli oneri che graveranno sull’intervento ha carattere
unitario, sì che non è possibile pretendere di esercitare
nuovamente il potere già esercitato (...) dopo la
definizione del rapporto in termini convenzionali.
- Considerato che la società ricorrente espone di aver
presentato al Comune di Oleggio un piano esecutivo
convenzionato per l’edificazione di un appezzamento di
terreno;
- Considerato che a seguito dell’approvazione di detto
piano, disposta con deliberazione C.C. 06.09.2001, n. 51,
essa ha stipulato con il Comune convenzione urbanistica per
atto a rogito Notaio Cafagno di Novara in data 24.10.2001,
rep. n. 35165/9291;
- Considerato che con l’art. 9 della convenzione le parti
hanno stabilito che, per quanto interessa nella presente
sede, “in relazione al disposto n. 2 dell’art. 45 L.R.
56/1977, il contributo per le opere di urbanizzazione
primarie e secondarie viene determinato, di volta in volta,
per ogni singolo intervento, applicando l’onere unitario
stabilito dalle tariffe vigenti all’atto di ritiro della
concessione, per il tipo di attività richiesta, in rapporto
alla superficie progettata”;
- Considerato che con nota 08.03.2003, prot. n. 7801 il
Comune, riferendosi alla richiesta di “variante in corso
d’opera del progetto approvato con C.E. n. 80/02 del
30.07.2002”, ha comunicato che la Commissione Edilizia
si era espressa in senso favorevole e che il rilascio della
concessione era subordinato al pagamento dei contributi
quantificati come in appresso:
- contributo per oneri di urbanizzazione primaria €
23.872,87 a scomputo;
- contributo per oneri di urbanizzazione secondaria €
9.214,09 a scomputo;
- quota smaltimento rifiuti € 16.543,38 a scomputo;
- Considerato che la ricorrente ha versato il totale
richiesto in data 15.04.2003;
- Considerato che con nota 11.08.2003, prot. n. 24511 il
Comune, riferendosi alla domanda presentata dalla ricorrente
in data 09.04.2002, prot. n. 10478 per i lavori di “costruzione
di un capannone industriale con annessi uffici e alloggio
del custode”, la nota del Commissario Prefettizio in
data 23.04.2003, prot. n. 14139 e la deliberazione C.C.
09.09.1977, n. 118, ha preteso il pagamento di ulteriori €
190.249,39 per “quota di smaltimento rifiuti”;
- Considerato che con il primo motivo la società ricorrente
deduce che poiché tale voce contributiva non era prevista in
convenzione, essa non è dovuta;
- Ritenuto, conformemente ai precedenti di questa stessa
Sezione, che laddove la quantificazione dei contributi di
concessione edilizia sia contenuta in una convenzione (e non
derivi perciò da un atto unilaterale del Comune), questa
diviene vincolante ed inderogabile per tutte le parti
stipulanti, con la conseguenza che il Comune non può di
norma apportare nessuna modifica a quanto ivi stabilito (TAR
Piemonte, I, 21.11.2001, n. 2154);
- Ritenuto in particolare che “la determinazione del
Comune di addivenire ad una convenzione in materia
urbanistica segna il mutamento dei termini del rapporto tra
le parti, facendo venir meno la possibilità di emenda delle
determinazioni amministrative sull’oggetto del rapporto, (in
quanto) la convenzione è stipulata anche nell’interesse
pubblico, e la valutazione degli oneri che graveranno
sull’intervento ha carattere unitario, sì che non è
possibile pretendere di esercitare nuovamente il potere già
esercitato (...) dopo la definizione del rapporto in termini
convenzionali” (TAR Piemonte, I, 27.03.2002, n. 748);
- Ritenuto che occorre pertanto verificare l’esatta portata
della pattuizione convenzionale;
- Considerato che questa menziona unicamente gli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, senza alcuna
precisazione o elencazione;
- Ritenuto che per la loro definizione occorre pertanto fare
riferimento alla normativa in vigore all’atto del rilascio
della concessione, così come espressamente stabilito in
convenzione;
- Considerato che la richiesta di concessione cui afferisce
in contributo richiesto è stata presentata il 09.04.2002, ma
non consta dagli atti quale sia la data di rilascio della
concessione medesima;
- Considerato che il nuovo testo unico in materia edilizia
approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380 è entrato in vigore
il 30.06.2002;
- Considerato in ogni modo che, fino a quella data ha
trovato applicazione l’art. 4 L. 29.09.1964, n. 847,
richiamato dall’art. 5 L. 29.01.1977, n. 10, che conteneva
un elenco delle opere di urbanizzazione primarie (le uniche
che rilevano in questa sede) comprendente: a) strade
residenziali; b) spazi di sosta o di parcheggio; c)
fognature; c) rete idrica; e) rete di distribuzione
dell’energia elettrica e del gas; f) pubblica illuminazione;
g) spazi di verde attrezzato;
- Considerato che il nuovo testo unico ha variato tale
elencazione, includendovi, al suo art. 16, commi 7 e 7-bis,
oltre alle opere precedentemente citate “i cavedi
multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di
telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai Comuni
sulla base dei criteri definiti dalle Regioni”;
- Considerato che secondo l’art. 51 L.R. 05.12.1977, n. 56
l’elenco delle opere di urbanizzazione primaria comprende:
a) opere di risanamento e di sistemazione del suolo
eventualmente necessarie per rendere il terreno idoneo
all’insediamento;
b) sistema viario pedonale e veicolare, per il collegamento
e per l’accesso agli edifici residenziali e non; spazi di
sosta e di parcheggio a livello di quartiere; sistemazione
delle intersezioni stradali pertinenti gli insediamenti
residenziali e non; attrezzature per il traffico;
c) opere di presa, adduzione e reti di distribuzione idrica;
d) rete ed impianti per lo smaltimento e la depurazione dei
rifiuti liquidi;
e) sistema di distribuzione dell’energia elettrica e
canalizzazioni per gas e telefono;
f) spazi attrezzati di verde pubblico di nucleo residenziale
o di quartiere; reti ed impianti di pubblica illuminazione
per gli spazi di cui alla lettera b);
- Considerato che, in esito all’istruttoria disposta con
precedente ordinanza collegiale 10.12.2003, n. 1459/i, il
Comune di Oleggio ha riferito con nota 27.01.2004, prot. n.
2487 di aver quantificato la quota di contributo in
contestazione richiamandosi al disposto della deliberazione
C.R. 26.05.1977, n. 179-4170, che si riferisce alle “opere
necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti
solidi, l iquidi e gassosi e di quelle necessarie alla
sistemazione dei luoghi”;
- Considerato che, secondo il Comune, con tale provvedimento
la Regione “correttamente distinse tale quota di
contributo concessorio da quelle relative agli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria”;
- Ritenuto che dal tenore della sopra citata relazione
comunale risulta che la quota di contributo in contestazione
(smaltimento rifiuti) non si riferisce ai costi di
costruzione delle opere a tale scopo necessarie (condotte
fognarie), bensì a quelli del loro esercizio, quantificati
forfetariamente;
- Ritenuto che tale conclusione è confermata sul piano
logico dal fatto che le fognature sono comprese per legge
fra le opere di urbanizzazione primaria, per cui non vi
sarebbe ragione di scorporare la quota di contributo ad esse
relativa dalla somma dovuta per l’urbanizzazione primaria
medesima;
- Ritenuto che l’interpretazione del Comune, secondo cui la
concessione edilizia (oggi, il permesso di costruire),
sconterebbe, oltre alla quota di contributo commisurata agli
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, anche
un’ulteriore quota commisurata allo “smaltimento rifiuti”
non può essere né argomentata dalla deliberazione regionale
sopra citata, né condivisa nel merito;
- Ritenuto infatti che la deliberazione regionale menziona
espressamente le opere necessarie per lo smaltimento rifiuti
(in pratica, le condotte fognarie), e non il loro esercizio;
- Ritenuto inoltre che lo smaltimento delle acque reflue
sconta comunque una separata tariffa disciplinata da norme
speciali (artt. 13, ss. L. 05.01.1994, n. 36) e che
identiche considerazioni valgono per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani e degli eventuali rifiuti industriali,
esso pure soggetto a tributi particolari, disciplinati da
norme speciali (art. 58 D.L.vo 15.11.1993, n. 507);
- Ritenuto perciò che i costi dell’attività di smaltimento
rifiuti non concorrono a formare il contributo dovuto a
fronte del rilascio della concessione edilizia o del
permesso di costruire;
- Ritenuto che per le esposte considerazioni la quota di
contributo di concessione pretesa dal Comune di Oleggio a
titolo di “quota smaltimento rifiuti” non può
considerarsi dovuta e le somme già versate dalla ricorrente
a tale titolo dovranno essere rimborsate;
- Ritenuto che, dovendosi presumere la buona fede del Comune
(in applicazione analogica dell’art. 1147, comma 2 cod. civ)
e non avendo la ricorrente fornito prova contraria, tale
somma potrà essere aumentata degli interessi legali secondo
domanda soltanto a decorrere dalla data di notificazione del
ricorso (art. 2033 cod. civ.);
- Ritenuto che entro tali limiti il ricorso merita
conclusivamente accoglimento, con le consequenziali pronunce
sopra indicate (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 21.04.2004 n. 643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Relativamente
al contributo per oneri di urbanizzazione, dispone l’art. 11
della legge 28.01.1977, n. 10, ora trasfuso nell’art. 16 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che a “… scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il concessionario può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune” (comma 1).
Si è osservato, in proposito, che pur trattandosi di una
“prestazione patrimoniale imposta” –sì da venire determinata
senza tenere conto dell’utilità che riceve il beneficiario
della concessione ovvero delle spese effettivamente
necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione
relative alla costruzione assentita–, il contributo deve in
ogni caso considerarsi come una prestazione “causale”, non
finalizzata esclusivamente a procurare all’ente impositore
un’entrata patrimoniale.
E allora, se la ragion d’essere del contributo è quella di
far partecipare il privato ai costi relativi alle
trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio,
l’esecuzione diretta delle relative opere da parte del
concessionario impone il correttivo dello scomputo delle
spese in tal modo affrontate, senza peraltro distinguere tra
opere di urbanizzazione primaria o secondaria –e quindi
agendo sul contributo complessivo–, nel senso che
l’eventuale eccedenza della spesa di una delle due categorie
di opere rispetto all’importo della corrispondente quota di
contributo può essere portata in detrazione da quanto dovuto
per l’altra categoria; ad opinare diversamente, del resto,
si darebbe luogo ad un ingiustificato arricchimento delle
Amministrazioni comunali, trasferendo loro il valore di una
parte delle opere eseguite dal privato, che sarebbe ciò
nonostante tenuto a versare il restante ammontare del
contributo.
Alla base dell’orientamento giurisprudenziale, già fatto
proprio da questa Sezione, è in definitiva il principio per
cui l’importo delle spese sostenute dal privato per
l’esecuzione in proprio delle opere di urbanizzazione va
sempre integralmente compensato con quanto dovuto a titolo
di contributo complessivo per i relativi oneri,
indipendentemente dalle voci che concorrono a determinare
l’ammontare della prestazione patrimoniale che grava sul
concessionario; questi, insomma, deve essere tenuto indenne
dai costi dei lavori, anche se concernenti solo alcune delle
opere di urbanizzazione necessarie, fino alla concorrenza
del contributo totale.
L’Amministrazione, del resto, autorizza preventivamente
l’effettuazione delle opere da parte del privato, e può
quindi valutarne l’adeguatezza, opponendosi quando, pur
sotto il profilo finanziario, emergano contrastanti ragioni
di opportunità.
Di qui la fondatezza della pretesa azionata, e il
conseguente annullamento in parte qua della concessione
edilizia n. 148/2002 del 14.02.2003 e della nota prot. n.
18464 del 10.02.2003, in quanto il Comune di Parma ha
illegittimamente concesso lo scomputo degli oneri di
urbanizzazione nei limiti della quota di incidenza
percentuale delle opere eseguite dalla ricorrente, alla luce
dei parametri regionali (19% per le opere di urbanizzazione
primaria e 25% per le opere di urbanizzazione secondaria),
raccordando quindi il beneficio al corrispondente importo
astratto delle voci di contributo anziché alla spesa
effettivamente sostenuta.
Aziona la società ricorrente, titolare di concessione
edilizia per la realizzazione di “comparto di
progettazione unitaria – Direzionale Uffici Comunali (D.U.C.)
– ambito C” nel territorio del Comune di Parma, il
diritto a scomputare dal contributo per oneri di
urbanizzazione le somme effettivamente spese per
l’esecuzione diretta delle relative opere, con conseguente
condanna dell’Amministrazione comunale alla restituzione di
quanto a tale titolo indebitamente percepito, oltre ad
interessi e rivalutazione monetaria; inoltre, impugna in
parte qua gli atti adottati dall’ente locale, nonché le
determinazioni generali, anche di provenienza regionale, in
tema di modalità di scomputo delle spese originate dalla
diretta realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte
del concessionario.
Assume di avere titolo all’integrale –e non parziale–
compensazione degli oneri in tal modo sostenuti, ai sensi
dell’art. 11 della legge n. 10 del 1977, e quindi di dover
essere completamente esonerata dal pagamento del contributo,
essendo questo di importo inferiore alle spese affrontate.
Replica l’Amministrazione comunale che la detrazione è
legittimamente avvenuta nei limiti dell’incidenza
percentuale delle opere di urbanizzazione (realizzate)
rispetto alla totalità degli interventi che concorrono a
determinare l’importo globale del contributo. Il tutto in
conformità delle tabelle parametriche regionali, che
peraltro la ricorrente avrebbe espressamente accettato in
sede di sottoscrizione di un “atto unilaterale d’obbligo”,
tanto da dar luogo ad una sostanziale acquiescenza nei
confronti delle previste modalità di scomputo delle spese
per esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione, e
comunque da privare di fondamento qualsiasi pretesa in
contrasto con il regolamento negoziale che ne sarebbe
scaturito.
Ciò stante, il Collegio è chiamato a definire entro quali
limiti la società ricorrente, che con il preventivo assenso
dell’Amministrazione comunale ha curato in proprio la
realizzazione di alcune opere di urbanizzazione, possa far
valere il diritto a compensare le spese a tale titolo
sostenute con il contributo che grava su di essa in quanto
titolare di concessione edilizia.
Orbene, relativamente al contributo per oneri di
urbanizzazione, dispone l’art. 11 della legge 28.01.1977, n.
10, ora trasfuso nell’art. 16 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
che a “… scomputo totale o parziale della quota dovuta,
il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente
le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune” (comma 1).
Si è osservato, in
proposito, che pur trattandosi di una “prestazione
patrimoniale imposta” –sì da venire determinata senza
tenere conto dell’utilità che riceve il beneficiario della
concessione ovvero delle spese effettivamente necessarie per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative alla
costruzione assentita–, il contributo deve in ogni caso
considerarsi come una prestazione “causale”, non
finalizzata esclusivamente a procurare all’ente impositore
un’entrata patrimoniale (v. Cons. Stato, Sez. V, 27.06.1994
n. 716).
E allora, se la ragion d’essere del contributo è quella di
far partecipare il privato ai costi relativi alle
trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio,
l’esecuzione diretta delle relative opere da parte del
concessionario impone il correttivo dello scomputo delle
spese in tal modo affrontate, senza peraltro distinguere tra
opere di urbanizzazione primaria o secondaria –e quindi
agendo sul contributo complessivo–, nel senso che
l’eventuale eccedenza della spesa di una delle due categorie
di opere rispetto all’importo della corrispondente quota di
contributo può essere portata in detrazione da quanto dovuto
per l’altra categoria; ad opinare diversamente, del resto,
si darebbe luogo ad un ingiustificato arricchimento delle
Amministrazioni comunali, trasferendo loro il valore di una
parte delle opere eseguite dal privato, che sarebbe ciò
nonostante tenuto a versare il restante ammontare del
contributo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 04.12.1989 n. 806; TAR Campania, Salerno, Sez. II,
11.06.2002 n. 459).
Alla base dell’orientamento giurisprudenziale, già fatto
proprio da questa Sezione (v. sentt. n. 219 del 23.04.2002 e
n. 7 del 13.01.1999), è in definitiva il principio per cui
l’importo delle spese sostenute dal privato per l’esecuzione in proprio delle opere di urbanizzazione va
sempre integralmente compensato con quanto dovuto a titolo
di contributo complessivo per i relativi oneri,
indipendentemente dalle voci che concorrono a determinare
l’ammontare della prestazione patrimoniale che grava sul
concessionario; questi, insomma, deve essere tenuto indenne
dai costi dei lavori, anche se concernenti solo alcune delle
opere di urbanizzazione necessarie, fino alla concorrenza
del contributo totale.
L’Amministrazione, del resto,
autorizza preventivamente l’effettuazione delle opere da
parte del privato, e può quindi valutarne l’adeguatezza,
opponendosi quando, pur sotto il profilo finanziario,
emergano contrastanti ragioni di opportunità.
Di qui la fondatezza della pretesa azionata, e il
conseguente annullamento in parte qua della concessione
edilizia n. 148/2002 del 14.02.2003 e della nota prot. n.
18464 del 10.02.2003, in quanto il Comune di Parma ha
illegittimamente concesso lo scomputo degli oneri di
urbanizzazione nei limiti della quota di incidenza
percentuale delle opere eseguite dalla ricorrente, alla luce
dei parametri regionali (19% per le opere di urbanizzazione
primaria e 25% per le opere di urbanizzazione secondaria),
raccordando quindi il beneficio al corrispondente importo
astratto delle voci di contributo anziché alla spesa
effettivamente sostenuta.
Questa peraltro eccede l’ammontare
complessivo del contributo –circostanza non contestata
dall’Amministrazione–, sì che nulla poteva essere in
conclusione richiesto al privato.
Non vi è invece motivo per procedere all’annullamento degli
altri atti impugnati.
Quanto alle deliberazioni con cui la
Regione Emilia-Romagna e il Comune di Parma hanno stabilito
i criteri generali per la determinazione del contributo di
urbanizzazione, va rilevato che le stesse non recano
prescrizioni ostative all’invocato scomputo integrale degli
oneri assunti dal concessionario (anche ove la spesa per
l’esecuzione diretta sia superiore alla quota di contributo
dovuta per le opere realizzate); in particolare, non è
significativo che la deliberazione regionale n. 849 del 1998
regoli le modalità di scomputo nel caso di esecuzione in
proprio di opere di urbanizzazione primaria mentre taccia di
analoga eventualità nel caso di opere di urbanizzazione
secondaria, o che la deliberazione comunale n. 140/1977 del
2000 non contempli l’ipotesi di spesa del privato in misura
superiore alla corrispondente quota di contributo, o che
l’art. 13 del regolamento urbanistico ed edilizio prenda a
riferimento lo scomputo degli oneri di urbanizzazione per
l’esecuzione diretta di parcheggi senza apparentemente
consentire la detrazione dell’eventuale maggiore spesa, in
quanto il diritto allo “scomputo” scaturisce ex
lege, e nella normativa di rango primario trova la sua
integrale disciplina, prevalendo su quella di rango
secondario, ove rechi disposizioni incompatibili con la
prima.
Né, ancora, è rilevante l’impegno precedentemente
sottoscritto dalla ricorrente (“… Le opere descritte
andranno a scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria e
di urbanizzazione secondaria, secondo quanto stabilito dalle
normative vigenti ed in funzione delle opere effettivamente
realizzate …”). Il generico rinvio alla normativa in
materia non poteva implicare alcuna rinuncia al meccanismo
dell’integrale scomputo delle spese sostenute, essendo anzi
la disciplina applicabile quella correttamente invocata
dalla ricorrente. Ed è quindi infondata anche l ’eccezione
di acquiescenza, alcun elemento inducendo in tal senso.
In definitiva, la società ricorrente ha diritto a che sia
portato in detrazione dall’ammontare complessivo del
contributo di urbanizzazione quanto speso per l’esecuzione
diretta di opere preventivamente autorizzate dall’Amministrazione,
anche se di importo superiore alla quota di contributo
corrispondente.
Di conseguenza il Comune di Parma va
condannato alla restituzione delle somme indebitamente
percepite, coprendo lo scomputo l’intero ammontare del
contributo; su dette somme, inoltre, competono gli interessi
legali dalla data della domanda giudiziale, mentre non
spetta la rivalutazione monetaria, trattandosi di indebito
oggettivo ex art. 2033 cod.civ., il quale genera
esclusivamente l’obbligazione accessoria degli interessi
(v., ex multis, TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II,
06.08.2002 n. 981)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 10.03.2004 n. 107
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 10.07.2015 |
ã |
Volume "tecnico" o
non volume "tecnico" sempre volume è ... quindi,
NIENTE COMPATIBILITA' PAESAGGISTICA!! |
Altra recentissima sentenza del CdS che, riformando il
pronunciamento del TAR, interpreta la legge per
ciò che sta scritto e della
circolare
26.06.2009 n. 33 del Segretario generale
MIBACT
se ne scorda... |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può conseguire la compatibilità paesaggistica
(ex art. 167 dlgs 42/2204) l'intervento
(abusivamente realizzato in assenza
dell'autorizzazione paesaggistica) consistito
nell’innalzamento per circa 90 cm del torrino
ascensore e del solaio di copertura.
Come ha più volte osservato questo Consiglio di
Stato, il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio
di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati
realizzati volumi di qualsiasi natura (anche
‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro
tipo di volume, sia esso interrato o meno.
Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più
laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi
volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa
lettera della norma in discorso che, nel consentire
l’accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai
“lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”:
non è quindi consentito all’interprete ampliare la
portata di tale norma, che costituisce eccezione al
principio generale delle necessità del previo
assenso codificato dal precedente art. 146, per
ammettere fattispecie letteralmente, e senza
distinzione alcune, escluse.
... per la riforma
TAR Campania-Napoli,
Sez. VII,
sentenza 03.11.2009 n. 6827,
resa tra le parti, concernente diniego parere per
sanatoria paesaggistica.
...
I) Il Ministero per i beni e le attività culturali
chiede la riforma della sentenza, in epigrafe
indicata, con la quale il Tribunale amministrativo
della Campania ha accolto il ricorso proposto dalla
società A. s.r.l. avverso la nota in data
13.01.2009, con la quale la Soprintendenza per i
beni architettonici e paesaggistici di Napoli ha
negato il parere, chiesto con istanza del
20.10.2008, per la sanatoria dell'intervento
realizzato in assenza della necessaria
autorizzazione paesaggistica in Gragnano,
intervento consistente nell’innalzamento per circa
90 cm del torrino ascensore e del solaio di
copertura, asseritamente necessario per il rispetto
di norme tecniche.
Con il provvedimento impugnato in primo grado la
Soprintendenza ha rilevato di non essere tenuta ad
esprimere il proprio parere, non sussistendo i
presupposti di cui agli artt. 146 e 167 d.lgs.
22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio), così sostanzialmente rigettando la
richiesta, poiché l’intervento aveva realizzato un
aumento di volumetria.
La sentenza impugnata ha accolto il ricorso, sul
presupposto che la realizzazione di un volume
tecnico non rientra tra le ipotesi per le quali
l’art. 167, comma 4, del Codice non consente
l’accertamento di compatibilità paesaggistica in
sanatoria, poiché l’interpretazione teleologica
della norma conduce a ritenere che tale divieto si
riferisca agli interventi che abbiano
contestualmente determinato la realizzazione di
nuova superficie utile e di nuovo volume (tecnico).
II) L’appello proposto dall’Amministrazione avverso
tale sentenza è fondato.
Come ha più volte osservato questo Consiglio di
Stato (per tutte, sez. VI, 05.08.2013, n. 4079), il
vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni
culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati
realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'):
il divieto di incremento dei volumi esistenti,
imposto ai fini di tutela del paesaggio, si
riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro
tipo di volume, sia esso interrato o meno. Tale
preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove,
come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi
siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa
lettera della norma in discorso che, nel consentire
l’accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai “lavori,
realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”:
non è quindi consentito all’interprete ampliare la
portata di tale norma, che costituisce eccezione al
principio generale delle necessità del previo
assenso codificato dal precedente art. 146, per
ammettere fattispecie letteralmente, e senza
distinzione alcune, escluse.
In conclusione, la sentenza impugnata merita la
riforma chiesta con l’appello, ma le spese anche di
questo secondo grado possono essere compensate,
sussistendone i presupposti (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 02.07.2015 n. 3289 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed prima ancora sempre il Consiglio di Stato ancor
più rigoroso nell'interpretazione della norma... |
EDILIZIA PRIVATA: Il
divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto
ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi
nuova edificazione comportante creazione di volume,
senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume, siano essi
interrati o meno.
La disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio si estende anche alle
opere interrate che non risultino immediatamente
percepibili all’occhio umano.
Come
affermato dalla giurisprudenza, “non appare dubbio,
invero, (che) alla luce dell’individuazione dei beni
paesaggistici contenuta ….(negli artt. 136 e segg.
del d.lgs. n. 42 del 2004) con il termine paesaggio
il legislatore abbia inteso designare una
determinata parte del territorio che, per le sue
caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza
dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare
tutela, che non può ritenersi limitata al mero
aspetto esteriore o immediatamente visibile
dell'area vincolata, così che ogni modificazione
dell'assetto del territorio, attuata attraverso
qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio
della prescritta autorizzazione”.
Tale nozione ampia di paesaggio coincide, peraltro,
con la definizione contenuta nella Convenzione
europea sul paesaggio, firmata a Firenze il
20.10.2000 e ratificata con la legge 09.01.2006, n.
14, secondo la quale il termine paesaggio “designa
una determinata parte del territorio, così come
percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva
dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle
loro interrelazioni”.
Osserva il Collegio che dalla predetta definizione
di paesaggio deriva che il vincolo
ambientale-paesaggistico si palesa operante anche
con riferimento alle opere realizzate nel
sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano
una utilizzazione del territorio idonea a
modificarne l'assetto, specie quando, come nel caso
in esame, si tratti di opere di rilevante entità.
Quanto esposto risulta confermato, in primo luogo,
dal contenuto dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del
2004, che vieta l'esecuzione di lavori “di qualsiasi
genere” su beni paesaggistici senza la necessaria
autorizzazione o in difformità da essa ed, in
secondo luogo, dalla giurisprudenza che –da un lato-
ha ritenuto che il divieto di incremento dei volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
preclude qualsiasi nuova edificazione comportante
creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, siano essi interrati o meno, e –dall’altro–
che il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del
2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di
qualsiasi natura (anche ‘interrati’), pur quando ai
fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati
volumi in senso tecnico.
Ne deriva che la Soprintendenza per i beni
architettonici e per il paesaggio della Liguria
doveva negare l’accertamento di compatibilità
paesaggistica delle opere realizzate dalla società
appellata nel sottosuolo del Comune in difformità da
quanto previsto dal permesso di costruire, in quanto
la disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio si estende anche alle
opere interrate che non risultino immediatamente
percepibili all’occhio umano.
... per la riforma del
TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 25.07.2008 n. 1547,
resa tra le parti;
...
1. Con il ricorso n. 630 del 2008, proposto al
Tribunale amministrativo regionale per la Liguria,
la società T. Immobiliare s.r.l. chiedeva
l'annullamento, lamentandone l'illegittimità, del
provvedimento n. 14041 del 26.05.2008, tramite il
quale la Soprintendenza per i beni architettonici e
per il paesaggio della Liguria accoglieva in parte
l'istanza presentata dalla società ricorrente,
considerando sanabile soltanto il mero mantenimento
delle opere strutturali realizzate nel sottosuolo
del Comune di Zoagli -sottoposto a vincolo
paesaggistico- e non il successivo, non autorizzato,
progetto di completamento.
La società T. Immobiliare s.r.l. chiedeva, inoltre,
l'annullamento del provvedimento n. 9095 del
07.06.2008 -con il quale il Comune di Zoagli
disponeva “la completa costipazione” delle
opere interrate abusivamente realizzate dalla
società istante- lamentandone l'illegittimità.
2. Con la sentenza n. 1547 del 2008 il Tar per la
Liguria accoglieva il predetto ricorso, annullando
gli atti impugnati.
3. Avverso detta sentenza il Ministero per i beni e
le attività culturali ha proposto appello (ricorso
n. 8956 del 2009).
4. All'udienza del 09.07.2013 la causa è stata
trattenuta in decisione.
5. L'Amministrazione appellante ha lamentato
l'erroneità dell'impugnata sentenza del Tar per la
Liguria che non solo non ha fatto alcun riferimento
al duplice contenuto del parere della soprintendenza
(accoglimento della sanatoria delle opere
strutturali originariamente realizzate, reinterro
dei volumi abusivamente realizzati), ma, accogliendo
il ricorso della società appellata, ha ritenuto che
“la potestà di tutela paesaggistica ha riguardo
solo ai beni naturali od ai manufatti che sono
percepibili dall’occhio di un uomo posto sulla
superficie della terra o che la sorvola”.
Secondo l’Amministrazione appellante tale pronuncia
limiterebbe il potere di cui alle disposizioni della
parte III del Codice dei beni culturali e del
paesaggio ai “meri aspetti visivi”, ponendosi
in contrasto con l’art. 2 del Codice medesimo: la
definizione di paesaggio fatta propria dal d.lgs. n.
42 del 2004, infatti, non farebbe alcuna distinzione
fra suolo e sottosuolo in quanto “il concetto di
paesaggio (andrebbe) identificato non con
riferimento al dato fisico della percepibilità alla
vista, bensì con riferimento al dato culturale
dell’interazione fra uomo e territorio”.
In tale prospettiva anche il sottosuolo si deve
intendere, quindi, sottoposto alle previsioni
relative alle aree vincolate “allorché se ne
progettino usi incompatibili con la tutela” dei
valori paesaggistico-ambientali.
5.1. Il motivo è fondato.
Come affermato dalla giurisprudenza, “non appare
dubbio, invero, (che) alla luce dell’individuazione
dei beni paesaggistici contenuta ….(negli artt. 136
e segg. del d.lgs. n. 42 del 2004) con il termine
paesaggio il legislatore abbia inteso designare una
determinata parte del territorio che, per le sue
caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza
dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare
tutela, che non può ritenersi limitata al mero
aspetto esteriore o immediatamente visibile
dell'area vincolata, così che ogni modificazione
dell'assetto del territorio, attuata attraverso
qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio
della prescritta autorizzazione” (Cass. Pen.,
Sez. III, 16.02.2006, n. 11128).
Tale nozione ampia di paesaggio coincide, peraltro,
con la definizione contenuta nella Convenzione
europea sul paesaggio, firmata a Firenze il
20.10.2000 e ratificata con la legge 09.01.2006, n.
14, secondo la quale il termine paesaggio “designa
una determinata parte del territorio, così come
percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva
dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle
loro interrelazioni” (Cass. Pen., Sez. III,
16.02.2006, n. 11128).
Osserva il Collegio che dalla predetta definizione
di paesaggio deriva che il vincolo
ambientale-paesaggistico si palesa operante anche
con riferimento alle opere realizzate nel
sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano
una utilizzazione del territorio idonea a
modificarne l'assetto, specie quando, come nel caso
in esame, si tratti di opere di rilevante entità
(Cass. pen., Sez. III, 16.01.2007, n. 7292).
Quanto esposto risulta confermato, in primo luogo,
dal contenuto dell’art. 181 del d.lgs. n. 42 del
2004, che vieta l'esecuzione di lavori “di
qualsiasi genere” su beni paesaggistici senza la
necessaria autorizzazione o in difformità da essa
ed, in secondo luogo, dalla giurisprudenza che –da
un lato- ha ritenuto che il divieto di incremento
dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del
paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro
tipo di volume, siano essi interrati o meno (Cons.
Stato, Sez. IV, 12.02.1997, n. 102), e –dall’altro–
che il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del
2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di
qualsiasi natura (anche ‘interrati’), pur
quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero
ravvisati volumi in senso tecnico (Sez. VI,
20.06.2012, n. 3578).
Ne deriva che la Soprintendenza per i beni
architettonici e per il paesaggio della Liguria
doveva negare l’accertamento di compatibilità
paesaggistica delle opere realizzate dalla società
appellata nel sottosuolo del Comune di Zoagli in
difformità da quanto previsto dal permesso di
costruire n. 9 del 2006, in quanto la disciplina di
tutela prevista dal Codice dei beni culturali e del
paesaggio si estende anche alle opere interrate che
non risultino immediatamente percepibili all’occhio
umano.
La fondatezza del motivo presentato
dall’Amministrazione appellante ed il suo
conseguente accoglimento consente al Collegio di
dichiarare assorbita l’ulteriore censura formulata
avverso la sentenza impugnata, concernente l’erronea
qualificazione che il giudice di primo grado avrebbe
dato all’impugnato provvedimento soprintendentizio
n. 14041 del 2008.
6. Per quanto sin qui esposto l’appello va accolto
e, conseguentemente, in riforma della sentenza
impugnata, va respinto il ricorso di primo grado n.
630 del 2008
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.08.2013 n. 4079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
...riformando altro
pronunciamento del TAR. |
EDILIZIA PRIVATA: La
potestà di tutela paesaggistica ha riguardo solo ai
beni naturali od ai manufatti che sono percepibili
dall’occhio di un uomo posto sulla superficie della
terra o che la sorvola.
E’
impugnato in principalità un atto del
sopraintendente ai beni architettonici e
paesaggistici con cui è stato negato l’accertamento
di compatibilità paesaggistica relativamente
all’attività edilizia posta in essere
dall’interessata nel sottosuolo del comune di Zoagli.
Si tratta di un’area da decenni vincolata ai fini
paesaggistici, in ragione della particolare bellezza
del panorama che si gode percorrendo la via Aurelia,
dal cui bordo il sito in questione dista poche
decine di metri; nel corso della realizzazione dei
lavori assentiti dal comune, l’impresa ha eseguito
degli scavi più profondi rispetto a quanto in
progetto, ed ha chiesto all’amministrazione comunale
di poter destinare le aree così ricavate ad
autorimesse.
La sopraintendenza ha negato il presupposto
accertamento di compatibilità, a cui ha fatto
seguito l’amministrazione comunale, che ha ricusato
l’accertamento di conformità richiesto.
Con i motivi di impugnazione l’interessata osserva
che la tutela del vincolo paesaggistico non può
estendersi alla contestazione di quanto realizzato
nel sottosuolo, posto che risulta contraddittorio
esercitare una potestà attribuita dalla legge a fini
paesaggistici per qualcosa che sfugge all’occhio
umano.
Il collegio osserva che effettivamente la potestà di
tutela paesaggistica ha riguardo solo ai beni
naturali od ai manufatti che sono percepibili
dall’occhio di un uomo posto sulla superficie della
terra o che la sorvola: al contrario la nozione di
paesaggio non può ricomprendere ciò che si trova nel
sottosuolo, posto che quanto riguarda tali
ubicazione ha riguardo al più alle norme
urbanistiche o di tutela archeologica, storica o
culturale.
Tale asserzione si pone in consapevole contrasto con
la recente giurisprudenza della terza sezione penale
della corte di cassazione (sentt. 16.01.2007, n.
7292 e 16.02.2006, n. 11128), che ha inteso il
concetto di paesaggio in modo ampio, ed ha ritenuto
doversi rispondere in sede penale anche per le
violazioni commesse con riferimento alla parte del
territorio che è celata alla fruizione dell’uomo.
A diversa conclusione non può indurre il testo
dell’art. 181 del d.lvo 22.12.2004, n. 42 che
sanziona l’esecuzione senza autorizzazione di ogni
tipo di lavoro effettuato sui beni paesaggistici: la
norma va infatti intesa nei limiti di quel che il
legislatore ha inteso, riferendosi al bene tutelato
che è appunto il paesaggio. Il termine qualsiasi va
perciò interpretato nel senso che la tutela
afferisce ad ogni bene che può incidere sulla
corretta e libera fruizione di quel che è visibile.
In conclusione il ricorso merita condivisione e va
accolto, dovendosi annullare gli atti impugnati
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 25.07.2008 n. 1547 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
APPALTI:
Centrali Uniche di Committenza (07.07.2015
- tratto da www.fondazioneifel.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Sportello unico. Richieste del 01.07.2015.
Rilascio versione 4.0.1.34 del 01.07.2015 (INPS,
messaggio 06.07.2015 n. 4580 - link a
www.inps.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Congedo parentale. Elevazione dei limiti
temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a 12 anni
ed elevazione dei limiti temporali di indennizzo a
prescindere dalle condizioni di reddito da 3 a 6 anni.
Modalità di presentazione della domanda nel periodo
transitorio (INPS,
messaggio 06.07.2015 n. 4576 - link a
www.inps.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
INGEGNERI IUNIORES - COMPETENZE PROFESSIONALI - SENTENZA
TAR CAMPANIA 14.04.2015 N.797 – LAVORI DI COMPLETAMENTO ED
ADEGUAMENTO DELLA RETE FOGNARIA E DELL’IMPIANTO DI
DEPURAZIONE – ATTIVITÀ DI CONCORSO ALLE ATTIVITÀ DI
PROGETTAZIONE DI OPERE EDILIZIE - LEGITTIMITÀ
DELL’AFFIDAMENTO – CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 01.07.2015 n. 554 - link a
www.cni-online.it). |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del
18.06.2015. Verifiche periodiche di funzionalità dei
dispositivi di controllo della velocità dei veicoli
(Ministero dell'interno, Dipartimento per la Pubblica
Sicurezza,
nota 26.06.2015 n. 300/A/4745/15/144/5/20/5 di prot.). |
ENTI LOCALI - VARI:
Oggetto: Aeromobili a Pilotaggio Remoto - Vademecum e
Prontuario per le infrazioni (Ministero dell'interno,
Dipartimento per la Pubblica Sicurezza,
nota
30.04.2015 n. 555/OP/0001369/2015/2 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento
n. 28 del 10.07.2015, "Legge di semplificazione 2015 –
Ambiti istituzionale ed economico" (L.R.
08.07.2015 n. 20). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, supplemento
n. 28 del 10.07.2015, "Riforma del sistema delle
autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento
della specificità dei territori montani in attuazione della
legge 07.04.2014, n. 56 (Disposizioni sulle città
metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di
comuni)" (L.R.
08.07.2015 n. 19). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2015, "Modifiche
ed integrazioni alla d.g.r. 31.10.2014 n. X/2591 «Riordino
dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei
canoni di polizia idraulica»" (deliberazione
G.R. 03.07.2015 n. 3792). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 07.07.2015, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.06.2015, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 02.07.201458 n. 99). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
04.07.2015 n. 153 "Misure urgenti in materia di rifiuti e
di autorizzazione integrata ambientale, nonché per
l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti
industriali di interesse strategico nazionale" (D.L.
04.07.2015 n. 92). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
DURC on-line: sospeso lo Sportello Unico Previdenziale
(07.07.2015 - tratto da www.ispoa.it). |
PATRIMONIO - URBANISTICA:
Trasferimenti di immobili pubblici e di edilizia
economica e popolare e trasferimenti effettuati da fondi
immobiliari dopo il decreto n. 133/2014 convertito in legge
n. 164/2014 (c.d. decreto “Sblocca-Italia”) - Profili
fiscali (Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 06-08.05.2015 n. 46/2015/T).
---------------
Sommario: 1. Premessa; 2. I trasferimenti di
‘immobili pubblici’: la interpretazione ‘combinata’ delle
novelle del d.l. n. 133/2014 e della legge di stabilità n.
190/2014; 3. Il 'ripristino' delle disposizioni agevolative
di cui all'art. 32, 2° comma, D.P.R. n. 601/1973; 3.1. In
particolare gli atti di trasformazione del diritto di
superficie in proprietà; 3.2. Atti di ridistribuzione
fondiaria tra co-lottizzanti; 4. Fondi immobiliari e Siiq;
4.1. Il regime speciale su base ‘opzionale’ delle Siiq; 4.2.
Le novelle recate dal decreto Sblocca-Italia; 4.3.
Segnatamente in materia di fondi immobiliari.
---------------
Lo studio in sintesi (Abstract): Il d.l. n. 133/2014 (cd.
decreto “Sblocca-Italia”) convertito in legge n. 164/2014
contiene talune previsioni all’art. 20 che ‘ripristinano’ i
regimi tributari di favore (stabiliti dalla previgente
normativa) in materia di imposte indirette per:
a) i trasferimenti a titolo oneroso di immobili pubblici in
particolari ipotesi (permuta, cartolarizzazione, dismissione
e valorizzazione del patrimonio pubblico immobiliare);
b) i trasferimenti in materia di edilizia economica e
popolare (verificando se anche per gli atti di
trasformazione del diritto di superficie in proprietà e per
gli atti di cd. redistribuzione fondiaria tra colottizzanti
possa invocarsi il regime fiscale premiale di cui all'art.
32 D.P.R. n. 601/1973);
c) altri trasferimenti relativi ai fondi di investimento
immobiliare e alle Siiq.
Inoltre anche nella legge di stabilità n. 190/2014 si
rinvengono previsioni specifiche in materia di operazioni di
cartolarizzazione, valorizzazione e privatizzazione di
immobili pubblici.
Lo studio si prefigge di illustrare i coordinamenti non
agevoli tra le novelle recate dal decreto n. 133 e quelle di
cui alla legge di stabilità n. 190, per tentare di ricavarne
un quadro interpretativo ed operativo, per quanto possibile,
organico ed unitario sul piano fiscale. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
Cauzioni per gli appalti al momento dell'offerta.
Le cauzioni per gli appalti rilasciate da soggetti non
autorizzati determinano l'esclusione del concorrente; il
«soccorso istruttorio» è utilizzabile per sanare
l'esclusione a condizione che la cauzione sia stata comunque
prestata al momento della presentazione dell'offerta; le
stazioni appaltanti devono controllare sul sito della Banca
d'Italia l'elenco dei soggetti legittimati a rendere
cauzioni.
Sono questa alcune delle indicazioni formate
dall'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato
del Presidente 01.07.2015 che prende in esame il tema delle cauzioni
(provvisorie e definitive) rilasciate per partecipare ad
appalti pubblici che devono essere rese da soggetti
autorizzati (fra poco meno di un anno entrerà in vigore
l'albo unico degli intermediari).
La materia riguarda le
polizze fideiussorie presentate ai sensi degli artt. 75 e
113 del Codice dei contratti pubblici e la prima indicazione
fornita dall'Anac è più che altro una raccomandazione a
stazioni appaltanti e operatori economici: occorre
verificare che le cauzioni siano rilasciate dai soggetti
iscritti negli appositi elenchi consultabili sul sito
internet della Banca d'Italia
al seguente indirizzo.
Il comunicato chiarisce poi che «in caso di presentazione
di una cauzione provvisoria rilasciata da un soggetto non
autorizzato, la stazione appaltante dovrà procedere
all'esclusione del concorrente dalla procedura di
affidamento». La causa di esclusione scatta in quanto,
come già chiarì l'Authority tre anni fa determina n. 4 del
10.10.2012), l'art. 75 del Codice «presenta un contenuto
immediatamente prescrittivo e vincolante, tale per cui deve
ritenersi che la presentazione della cauzione provvisoria
configuri un adempimento necessario a pena di esclusione»
e serve a garantire la serietà dell'offerta a tutela della
pubblica amministrazione.
Pertanto se la cauzione è un elemento essenziale
dell'offerta «e non un mero elemento di corredo della
stessa», ne discende anche l'obbligo di esclusione
dell'offerta non corredata da idonea garanzia provvisoria.
Si tratta però di ipotesi sanabile con il «soccorso
istruttorio», ma a condizione che quest'ultima sia stata
già costituita alla data di presentazione dell'offerta
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli
operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati
a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste
dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113
del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni
(comunicato
del Presidente 01.07.2015 - link a
www.http://www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Con un Comunicato del Presidente del 01.07.2015 si
forniscono indicazioni alle stazioni appaltanti e agli
operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati
a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste
dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113
del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni. |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Oggetto: AG 41/2015/AC – regolamento incentivi per la
progettazione ex art. 93, d.lgs. 163/2006 - richiesta di
parere.
In esito a quanto
richiesto con nota acquisita al prot. n. 134318 del
28.11.2014, si comunica che il Consiglio dell’Autorità,
nell’adunanza del 27.05.2015, ha approvato le seguenti
considerazioni.
Si richiama in via preliminare il disposto dell’art. 93,
comma 7-bis, del Codice (introdotto dalla legge n. 114/2014)
il quale prevede che a valere sugli stanziamenti di cui al
comma 7 (stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori, negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti), le amministrazioni
pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e
l’innovazione, risorse finanziarie in misura non superiore
al 2 per cento degli importi posti a base di gara di
un’opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è
stabilita da un regolamento adottato dall’amministrazione,
in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da
realizzare.
Il successivo comma 7-ter (aggiunto dalla stessa l.
114/2014) prevede che l’80% delle risorse finanziarie del
fondo per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione.
Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse
del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, con particolare
riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità
delle opere, escludendo le attività manutentive, e
dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo.
Il regolamento stabilisce, altresì, i criteri e le modalità
per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla
singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei
tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo, redatto nel rispetto dell’articolo 16 del d.p.r.
207/2010, depurato del ribasso d’asta offerto (a tali fini
non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori, i
tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati
all’articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d).
La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o
dal responsabile di servizio preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l’importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il comma
7-ter non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
Ai sensi delle disposizioni sopra richiamate, pertanto, le
amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la
progettazione e l’innovazione, risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un’opera o di un lavoro; con regolamento adottato
dall’Amministrazione interessata, sono stabilite le modalità
ed i criteri per la ripartizione del predetto fondo tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori.
E’, dunque, rimessa all’autonomia delle singole
amministrazioni la disciplina della ripartizione del fondo
de quo tra il personale impegnato nelle attività
sopra indicate.
Sulla base di tale premesse, si osserva -con riferimento a
quanto richiesto dall’Autorità Portuale- che è consuetudine
dell’Autorità non esprimere avviso in ordine alla
legittimità di singoli atti e provvedimenti adottati dalle
stazioni appaltanti, tanto più in relazione al regolamento
per la ripartizione dell’incentivo ex art. 93 del d.lgs.
163/2006, rimesso ex lege –come sopra evidenziato-
all’esclusiva competenza delle singole amministrazioni.
Tuttavia, in subordine, in relazione allo schema di
regolamento predisposto dall’Autorità Portuale, può
osservarsi quanto segue.
Lo schema di provvedimento in parola stabilisce che
l’incentivo da ripartire tra il personale indicato nell’art.
5, è costituito dall’80% delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l’innovazione per ciascuna
opera/lavoro (art. 7); la percentuale effettiva, nel limite
massimo del 2%, è stabilita in rapporto al valore dell’opera
(art. 8), con l’ulteriore precisazione che per i progetti
individuati nei punti da 2 a 6 dell’art. 8, è possibile
attribuire una maggiorazione, comunque non eccedente il
limite massimo del 2%, qualora venga attestata dal RUP una
delle condizioni ivi previste (multidisciplinarietà del
progetto, accertamenti e indagini, etc.).
In ordine a tale ultima previsione, si rappresenta che con
deliberazione 07.05.2008 n. 18,
l’Autorità ha ritenuto non conforme alla
disciplina di settore la previsione regolamentare di una
singola stazione appaltante, contemplante una graduazione
dell’incentivo in ragione dell’importo delle opere, senza
tener conto anche della complessità dell’opera da
realizzare.
La previsione dello schema di regolamento
de quo, dovrebbe dunque tener conto, ai fini del
riconoscimento della percentuale effettiva di incentivo al
personale interessato, oltre che dell’importo delle opere da
realizzare, anche della complessità delle stesse.
Si evidenzia, altresì, che non appaiono
conformi alle disposizioni del Codice sopra riportate, le
previsioni dello schema di regolamento contemplanti (artt.
5, 9 e 11) l’individuazione di ulteriori figure
professionali, oltre quelle indicate nell’art. 93, co.
7-ter, del Codice, destinatarie di una quota dell’incentivo,
come di seguito specificate: coordinatore del servizio
gare e contratti, coordinatore del settore bilancio,
coordinatore del settore personale, coordinatore
del servizio sicurezza, coordinatore servizio
ambiente, coordinatore ufficio protocollo,
coordinatore ufficio permessi etc. e loro
collaboratori.
Allo stesso modo, non appare conforme alla
disciplina di settore la previsione dello schema di
regolamento (art. 9) a tenore della quale il Rup,
nell’ambito del proprio incentivo, può disporre delle
seguenti strutture, nella misura massima del 2%: servizio
ambiente, consulenza legale, settore demanio, servizio
coordinamento e controllo operativo.
Anche in virtù di tale ultima disposizione,
quindi, una quota dell’incentivo potrebbe essere destinata
–anche se con decisione rimessa evidentemente al Rup- a
figure professionali non previste nell’art. 93, comma 7-ter,
del Codice.
Si rappresenta al riguardo che l’Autorità, con
parere sulla normativa 21.11.2011 - rif. AG-22/12
e
parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10,
ha chiarito che l’incentivo «assolve
alla funzione di compensare i progettisti dipendenti
dell’amministrazione che abbiano in concreto effettuato la
redazione degli elaborati progettuali».
La ratio legis è di favorire l’ottimale utilizzo
delle professionalità interne ad ogni amministrazione e di
assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che
l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno gli incarichi. L’incentivo, infatti, può essere
corrisposto al solo personale dell’ente che abbia
materialmente redatto l’atto e ciò in funzione incentivante
e premiale per l’espletamento di servizi propri dell’ufficio
pubblico (parere
sulla normativa del 27.05.2015 - rif. AG 41/2015/AC
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Pareri Anac solo per appalti oltre 40 mila.
Il regolamento è stato pubblicato in G.U..
L'Autorità nazionale anticorruzione emanerà pareri sulle
gare in corso soltanto per appalti oltre i 40 mila euro; in
caso di ricorso pendente di fronte al Tar il parere non
potrà essere reso; i pareri saranno finalizzati a risolvere
questioni di rilevanza interpretativa e non più soltanto a
dirimere specifiche questioni.
È questo il nuovo orientamento che l'Autorità presieduta da
Raffaele Cantone sta dando ad una delle più rilevanti
attività che l'organismo di Via Minghetti svolge da anni che
è quello di rendere pareri (anche se per ora non vincolanti)
su questioni insorte in sede di gara, costituendo una sorte
di giurisdizione alternativa e preventiva a quella ordinaria
attivabile con i ricorsi al Tar.
Il tutto emerge dal nuovo
regolamento 27.05.2015
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 del 27.06.2015 che, aggiornando il precedente regolamento dei primi di
settembre del 2014, regola la presentazione di istanze di
parere «per la formulazione di una ipotesi di soluzione
della questione insorta durante lo svolgimento delle
procedure di gara degli appalti pubblici di lavori, servizi
e forniture», presentate da portatori di interessi pubblici
o privati nonché i portatori di interessi diffusi costituiti
in associazioni o comitati.
L'Autorità ha espressamente
previsto alcune ipotesi di inammissibilità delle istanze
come ad esempio quelle concernenti questioni «interferenti
con esposti di vigilanza e procedimenti sanzionatori in
corso di istruttoria presso l'Autorità»; altrettanto
inammissibili sono le domande riguardanti questioni «di
contenuto generico o contenenti un mero rinvio ad allegata
documentazione e/o corrispondenza intercorsa tra le parti».
Sarà poi ritenuta non procedibile la richiesta di parere
finalizzata «a un controllo generalizzato dei procedimenti
di gara delle amministrazioni aggiudicatrici», quindi
occorrerà porre un ben determinato quesito e non chiedere
all'Anac di verificare la legittimità della procedura di
gara. Andranno cestinate anche le richieste relative «gare
di importo inferiore alla soglia di 40 mila euro»; ad
esempio non sarà possibile procedere con pareri di precontenzioso per gli affidamenti in via diretta disposti
dalle stazioni appaltanti.
In sostanza lo strumento del precontenzioso spesso utilizzato in maniera eccessiva e tale
da ingolfare gli uffici dell'Autorità sarà sempre più
indirizzato a risolvere questioni di carattere generale e di
rilievo interpretativo, così da fornire agli operatori
economici un riferimento utilizzabile in casi analoghi per
risolvere a monte, prima di una possibile esclusione da una
gara, un contenzioso fra stazione appaltante e partecipante
alla gara.
Le istanze dovranno, per adesso, essere redatte
secondo un modulo allegato al Regolamento e trasmesse
tramite posta elettronica certificata, almeno fino a quando
sarà (a breve) caricata sul sito internet dell'Anac una
apposita scheda da compilare che così supererà l'attuale
sistema che richiede l'invio esclusivamente tramite posta
elettronica certificata
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, sedute vincolate. Insindacabili le ragioni della
convocazione. Il presidente può solo
verificare i requisiti formali della richiesta.
È legittima la richiesta di convocare il consiglio comunale
avanzata da un quinto dei consiglieri, considerato che
l'ente non è dotato di regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale?
E' necessario sottoporre ad approvazione i verbali delle
sedute consiliari precedenti, inserendo tale adempimento
nell'ordine del giorno di una seduta successiva?
I consiglieri possono chiedere riscontro alle interpellanze
da loro proposte?
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale deve
essere adottato in virtù dell'esplicito rinvio operato
dall'articolo 38, comma 2, del dlgs n. 267/2000, nel quadro
dei principi stabiliti dallo statuto, in quanto strumento
necessario per il corretto funzionamento di tale organo.
L'art. 43, comma 1, del Tuel, tuttavia, riconosce comunque a
ciascun consigliere comunale il «diritto di iniziativa» su
ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio,
oltre al diritto di chiedere la convocazione del consiglio
secondo le modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di
presentare interrogazioni e mozioni.
La disposizione
normativa da ultimo citata, secondo cui il presidente del
consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un
termine non superiore ai 20 giorni, quando lo richiedano un
quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all'ordine
del giorno le questioni richieste, sembra configurare un
obbligo del presidente di procedere alla convocazione
dell'organo assembleare, come si evince dalla previsione del
termine di adempimento (20 giorni) per la trattazione delle
questioni richieste. Sebbene la norma non contenga alcun
riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da
parte del consiglio stesso, tuttavia, le richieste di
convocazione non possono essere generiche.
In merito il Tar
Liguria, sez I, 11/01/1994, n. 1121 ha affermato che l'ordine
del giorno deve essere formulato «in maniera chiara ed in
termini non ambigui, ma senza che ciò implichi l'esibizione
di uno schema di provvedimento o l'impossibilità di
apportare variazioni o modifiche dipendenti da valutazioni
di merito che il consiglio ha il potere di effettuare».
Circa la sindacabilità, da parte del presidente del
consiglio (o del sindaco), dei motivi che determinano i
consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria
dell'assemblea, secondo la giurisprudenza consolidata, a
questi spetta solo la verifica formale della richiesta
(prescritto numero di consiglieri), mentre non può
sindacarne l'oggetto, salvo che questo sia illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle
competenze dell'assemblea (Tar Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Pertanto le uniche ipotesi per le quali
l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la
convocazione dell'assemblea sono la carenza del prescritto
numero di consiglieri oppure la verificata illiceità,
impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle
competenze del consiglio.
Circa la natura degli argomenti
per cui è richiesto l'inserimento nell'ordine del giorno da
parte dei consiglieri, al fine di verificarne l'eventuale
estraneità alle competenze del collegio, occorre aver
riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente
elencati dal comma 2 dell'art. 42 del citato testo unico, ma
anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art.
42, con la possibilità che la trattazione, da parte del
collegio, non debba necessariamente sfociare nell'adozione
di un provvedimento finale.
Nel caso di specie, ai
consiglieri non è stato consentito di porre all'ordine del
giorno la richiesta di «valutazione ed eventuale
approvazione progettuale dell'intervento di consolidamento
sistemazione del movimento franoso». Interessante alcune
aree comunali, in quanto tra le competenze del consiglio
«non rientrano la valutazione e l'approvazione di progetti
già inseriti in piani triennali».
Considerato che il citato
art. 42, c. 2, del dlgs n. 267/2000 alla lett. b) affida alla
competenza del consiglio comunale, tra l'altro, i «programmi
triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie», la condizione della
partecipazione del Consiglio comunale alla procedura sembra
soddisfatta.
Tuttavia, poiché i consiglieri richiedenti
evidenziano la mancata corrispondenza tra i costi
programmati e quelli previsti per la realizzazione dei
lavori, è opportuna una riconsiderazione di tale richiesta
alla luce della deliberazione n. 28 del 09/05/2006 con cui
l'Autorità nazionale anticorruzione ha puntualizzato che «la
modifica dei parametri economici del progetto deve
costituire oggetto di aggiornamento e riapprovazione degli
strumenti di programmazione da parte degli organi
competenti, nonché di eventuale ripubblicazione nei casi più
rilevanti che determinano una variazione «di carattere
sostanziale» della programmazione economica».
Inoltre, il Tar
Lombardia, sezione di Brescia, con sent. 10/03/2005, n. 150,
ha puntualizzato «che le successive fasi progettuali
potranno essere avviate solo dopo l'approvazione del
programma e della lista annuale, quale decisione di
realizzabilità politico-amministrativa dell'organo
competente che, nell'ordinamento degli enti locali, è il
consiglio comunale».
Riguardo alla necessità di sottoporre
ad approvazione i verbali di sedute precedenti, pur non
sussistendo un obbligo giuridico di procedere alla lettura e
approvazione degli stessi -obbligo che può comunque essere
contenuto nel prescritto regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale- è sempre ammissibile inserire tale
adempimento tra quelli da trattare all'ordine del giorno di
una seduta successiva. Ciò in quanto la lettura ed
approvazione del verbale da parte del collegio deliberante
non hanno lo scopo di rinnovare la manifestazione di volontà
dell'organo collegiale, a suo tempo validamente espressa, ma
solo quello di verificarne e controllarne la rispondenza con
la trascrizione e documentazione fattane dal segretario,
organo estraneo al consiglio.
Tale atto non attiene al
procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona
con la proclamazione del risultato della votazione, ma
assolve ad una funzione di mera certificazione dell'attività
dell'organo deliberante. La manifestazione di volontà del
Consiglio comunale necessita, ab substantiam, di una
esternazione costituita dal processo verbale, redatto dal
segretario dell'ente, il quale pone in essere, mediante la
verbalizzazione, un'attività strumentale di documentazione
dell'atto.
Inoltre, «l'eventuale omissione di tale
adempimento non è impeditiva dell'efficacia ovvero della
stessa esistenza della delibera consiliare» che,
conseguentemente, dovrebbe poter sempre essere sanabile
sottoponendola all'approvazione del consiglio. Tuttavia,
qualora emergano difficoltà nell'interpretazione dei
brogliacci dei verbali, proprio per quella funzione di
controllo demandata al consiglio, non può essere negato il
diritto dei consiglieri di chiedere la convocazione per la
loro approvazione definitiva. Riguardo alla richiesta di
riscontro delle interpellanze, anche tale materia dovrebbe
essere disciplinata dal regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale.
In merito l'art. 43, c. 1, del dlgs n.
267/2000 prevede la possibilità di presentare interrogazioni
e mozioni, mentre al comma 3 stabilisce che il sindaco o gli
assessori delegati rispondono, entro 30 giorni, alle
interrogazioni e ad ogni altra istanza di sindacato
ispettivo (ivi comprese le interpellanze) presentata dai
consiglieri. Le modalità della presentazione di tali atti e
delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e
dal regolamento consiliare
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Part-time a dipendente
dell'area polizia locale.
L'art. 12 del d.lgs. 81/2015 contempla
un'espressa salvaguardia delle discipline speciali vigenti e
della normativa che disponga diversamente. Pertanto, si è
dell'avviso che il divieto di part-time disposto dall'art.
10, comma 7, della l.r. 9/2009 per il personale della
polizia locale permanga anche alla luce delle disposizioni
di favore contemplate all'art. 8 del d.lgs. 81/2015.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una richiesta di
collocamento a part-time, inoltrata da dipendente a tempo
indeterminato con la qualifica di Agente di polizia locale,
motivata ai sensi dell'art. 12-bis, commi 2 e 3, del d.lgs.
61/2000 (norma di recepimento della Direttiva Comunitaria
97/81/CE).
In particolare, l'Ente si è posto la questione inerente all'accoglibilità
di detta istanza, in relazione al contenuto dell'art. 10,
comma 7, della l. r. 9/2009, che ha introdotto per il
personale della polizia locale il divieto di fruire
dell'istituto del part-time. In sostanza, si tratta di
pronunciarsi sulla prevalenza, o meno, della richiamata
norma di legge statale sulla previsione dettata dalla
disposizione regionale citata [1].
Preliminarmente si osserva che di recente l'art. 55 del
d.lgs. 81/2015 [2]
ha espressamente abrogato, fra le altre disposizioni di
legge, anche il decreto legislativo 61/2000.
Quanto contemplato all'art. 12-bis richiamato in premessa è
stato reintrodotto all'art. 8 del citato d.lgs. 81/2015, che
ripropone le specifiche ipotesi di trasformazione del
rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a
tempo parziale, a tutela di particolari e gravi situazioni,
integrando ulteriormente quelle già previste dalla normativa
previgente.
Il comma 3 prevede, infatti, che i lavoratori del settore
pubblico e privato affetti da patologie oncologiche nonché
da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i
quali residui una ridotta capacità lavorativa, eventualmente
anche a causa degli effetti invalidanti di terapie
salvavita, accertata da una commissione medica istituita
presso l'azienda unità sanitaria locale territorialmente
competente, hanno diritto alla trasformazione del rapporto
di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale. A
richiesta del lavoratore il rapporto di lavoro a tempo
parziale è trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a
tempo pieno.
Il comma 4 dell'articolo in esame dispone inoltre che, in
caso di patologie oncologiche o gravi patologie
cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i
figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice,
nonché nel caso in cui il lavoratore o la lavoratrice
assista una persona convivente con totale e permanente
inabilità lavorativa, con connotazione di gravità ai sensi
dell'articolo 3, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104,
che abbia necessità di assistenza continua in quanto non in
grado di compiere gli atti quotidiani della vita, è
riconosciuta la priorità della trasformazione del contratto
di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Il comma 5 altresì riconosce detta priorità anche in caso di
richiesta del lavoratore o della lavoratrice, con figlio
convivente di età non superiore agli anni tredici o con
figlio convivente portatore di handicap ai sensi dell'art. 3
della l. 104/1992.
Particolare rilevanza, ai fini della soluzione al quesito
prospettato, assume quanto esplicitato all'art. 12
[3] del
decreto legislativo in argomento.
Detta previsione precisa infatti che, ai sensi dell'articolo
2, comma 2, del d.lgs. 165/2001, le disposizioni della
sezione che disciplina il rapporto di lavoro a tempo
parziale 'si applicano, ove non diversamente disposto,
anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, con esclusione di quelle
contenute negli articoli, commi 2 e 6, e 10 del medesimo
decreto, e, comunque, fermo restando quanto previsto da
disposizioni speciali in materia'.
La richiamata disposizione legislativa sancisce pertanto la
permanenza della disciplina speciale in vigore per
particolari categorie di lavoratori che, appunto, 'disponga
diversamente'.
In tal contesto normativo (di disciplina speciale) si
inserisce per l'appunto quanto disposto dall'art. 10, comma
7, della l.r. 9/2009, che stabilisce che, al fine di
garantire l'efficace svolgimento delle funzioni di polizia
locale e migliorare le condizioni di sicurezza urbana,
l'articolo 1, comma 57, della l. 662/1996, concernente
l'esclusione del rapporto di lavoro a tempo parziale per il
personale militare, per quello delle Forze di polizia e del
corpo nazionale dei vigili del fuoco, si applica anche al
personale di polizia locale, salvo che sia diversamente
stabilito nei regolamenti dei rispettivi enti locali per
esigenze di carattere stagionale.
Come rilevato a suo tempo dalla Corte costituzionale
[4], la
disposizione contemplata al richiamato articolo 10, comma 7,
della l.r. 9/2009, emanata nell'ambito della materia della
polizia amministrativa locale, oggetto di competenza
residuale delle Regioni, anche a statuto speciale, 'non
interviene direttamente sulla disciplina del contratto di
lavoro a tempo parziale ma si limita a stabilire, per il
futuro, che il personale addetto a funzioni di polizia
locale non potrà usufruire di tale modalità di prestazione
del rapporto di lavoro: questa previsione non altera il
contenuto di un contratto regolato dalla legge statale, ma
sceglie quale tipo di contratto dovrà essere applicato ad
una determinata categoria di dipendenti (...) La
disposizione impugnata non incide sulla struttura della
disciplina del rapporto di lavoro ma regola l'uso di
quell'istituto da parte delle amministrazioni locali, su cui
la legge regionale ha competenza. In particolare, non
disciplina il part-time con modalità diverse da quelle
stabilite dalla legge statale, ma regola la sua
applicabilità, con riferimento ad una categoria di
dipendenti con caratteri e funzioni particolari, attinenti
alla sicurezza, come emerge dalla stessa motivazione
contenuta nella norma'.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, che muovono
dall'espressa salvaguardia delle discipline speciali
vigenti, sancita dall'art. 12 del citato d.lgs. 81/2015, si
è quindi dell'avviso che permanga il divieto di part-time
previsto dalla l.r. 9/2009 per il personale della polizia
locale del Friuli Venezia Giulia anche nel caso prospettato
da codesta Amministrazione.
---------------
[1] Si osserva tra l'altro che, nel caso di specie, non
si pone il problema del rapporto tra norme del diritto
comunitario e quelle del diritto interno, atteso che, nel
caso di specie, la direttiva comunitaria è stata recepita
dallo Stato italiano con proprio decreto legislativo. Ne
consegue che la fattispecie in esame necessita di essere
analizzata sotto il profilo del rapporto tra norma di legge
generale e lex specialis.
[2] Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione
della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo
1, comma 7, della legge 10.12.2014, n. 183.
[3] Rubricato: Lavoro a tempo parziale nelle amministrazioni
pubbliche, che ripropone quanto in precedenza stabilito
dall'art. 10 del d.lgs. 61/2000.
[4] Cfr. sentenza n. 141 del 2012 (02.07.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti illeciti, sì alle fototrappole.
Il comune può utilizzare alcune fototrappole in zone
periferiche e di campagna per contrastare alcuni fenomeni
molto diffusi di scarico illecito di rifiuti ma la sua
concreta attuazione richiede l'adozione di particolari
cautele ed attenzioni per i connessi aspetti di tutela della
privacy e della riservatezza della collettività coinvolta.
È
consigliabile che il relativo progetto, prima della sua
approvazione venga sottoposto a una verifica preliminare di
ammissibilità da parte dell'autorità garante per la
protezione dei dati personali.
Il progetto comunale,
contenente le linee amministrative e operative
dell'iniziativa, andrà approvato anche dall'organo
collegiale esecutivo e demandato per la relativa esecuzione,
con eventuale assegnazione delle risorse finanziarie
necessarie (ulteriori videocamere, cartellonistica ecc.), al
dirigente responsabile del servizio di polizia comunale o
del dirigente cui risultano organizzativamente assegnate le
relative funzioni in sede locale.
Questa è la
risposta
02.07.2015 fornita dall'Anci
su un quesito posto da un comune sui sistemi di
videosorveglianza.
A mente delle prescrizioni dettate dal
garante nel corso degli anni (ultimo dell'08.04.2010),
sottolinea l'Anci i soggetti pubblici, in qualità di
titolari del trattamento (articolo 4, comma 1, lettera f),
del codice della privacy), possono trattare dati personali
nel rispetto del principio di finalità, perseguendo scopi
determinati, espliciti e legittimi soltanto per lo
svolgimento delle proprie funzioni istituzionali.
Ciò vale ovviamente anche in relazione a rilevazioni di
immagini mediante sistemi di videosorveglianza. Anche per i
soggetti pubblici sussiste l'obbligo di fornire previamente
l'informativa agli interessati.
Nel caso di specie, però, il garante ha previsto particolari
disposizioni a favore dei trattamenti effettuati dagli
organi di polizia, che in alcuni casi affrancano in tutto o
in parte dalle ordinarie forme di informativa, le cui
modalità sono puntualmente chiarite e descritte nel
richiamato provvedimento dell'08.04.2010, con particolare
riferimento ai punti 3 e 5, oltre che agli allegati (modelli
di informativa su supporto che indichino l'attivazione anche
in orario notturno e possibile registrazione con sistemi
simbolici o riassuntivi)
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il sistema di videosorveglianza.
DOMANDA:
Il comune intende
utilizzare alcune fototrappole (strumenti utilizzati
soprattutto da cacciatori e polizia provinciale e che
effettuano fotografie in sequenza molto rapida al passaggio
davanti al loro raggio di azione) in zone periferiche e di
campagna per contrastare alcuni fenomeni molto diffusi di
scarico illecito di rifiuti.
Che accorgimenti occorre adottare? Occorre effettuare una
programmazione da comunicare ad enti sovraordinati? Occorre
installare della segnaletica a tutela della privacy o si
possono effettuare accertamenti a sorpresa?
Il Comune intenderebbe utilizzarle, soprattutto di notte,
senza segnalamento, travisate (sono grandi quanto una
cassetta postale ordinaria) ed a rotazione (sono 4) in varie
zone della città in modo da non dare punti di riferimento e
scoraggiare lo scarico abusivo.
Occorre adottare qualche atto dirigenziale o dell'organo
politico? Ci sono differenziazioni di tutela ove si
utilizzino di notte in aperta campagna o nella mattina
presso i cassonetti ovvero presso discariche abusive?
RISPOSTA:
L’iniziativa ipotizzata dal proponente del quesito è da
ritenere non preclusa all’ente locale interessato, ma la sua
concreta attuazione richiede l’adozione di particolari
cautele ed attenzioni per i connessi aspetti di tutela della
privacy e della riservatezza della collettività coinvolta.
A tal specifico proposito, salvo quanto in prosieguo si dirà
sulla concreta organizzazione (amministrativa e logistica)
dell’intervento, è consigliabile che il relativo progetto,
prima della sua approvazione venga sottoposto ad una
verifica preliminare di ammissibilità da parte dell’Autorità
Garante per la protezione dei dati personali (artt. 17 e
154, comma 1, lettera c), del Codice della Privacy approvato
con il D.Lgs. n. 196/2003).
L’iniziativa ipotizzata, infatti, concerne un progetto, nei
termini e con le modalità sopra descritte, per finalità di
sicurezza urbana tramite un preesistente sistema locale di
videosorveglianza, da incrementare per gli scopi specifici.
In particolare, il sistema di sorveglianza, come pensato dal
proponente, dovrebbe dispiegare la sua azione prolungata
durante l’intera frazione notturna (o gran parte) della
giornata.
Il progetto, come si accennava, è sicuramente esperibile, ma
non potrà sottrarsi al rispetto delle (specifiche)
prescrizioni in materia di informativa di cui all’art. 13
del citato Codice Privacy.
A mente delle prescrizioni dettate dal Garante nel corso
degli anni (ultimo del 08.04.2010), i soggetti pubblici, in
qualità di titolari del trattamento (art. 4, comma 1, lett.
f), del Codice), possono trattare dati personali nel
rispetto del principio di finalità, perseguendo scopi
determinati, espliciti e legittimi (art. 11, comma 1, lett.
b), del Codice), soltanto per lo svolgimento delle proprie
funzioni istituzionali. Ciò vale ovviamente anche in
relazione a rilevazioni di immagini mediante sistemi di
videosorveglianza (art. 18, comma 2, del Codice).
Anche per i soggetti pubblici sussiste l'obbligo di fornire
previamente l'informativa agli interessati (art. 13 del
Codice).
Nel caso di specie, però, il Garante ha previsto particolari
disposizioni a favore dei trattamenti effettuati dagli
organi di polizia, che in alcuni casi affrancano in tutto o
in parte dalle ordinarie forme di informativa, le cui
modalità sono puntualmente chiarite e descritte nel
richiamato provvedimento del 2010, che si invita a
consultare, con particolare riferimento ai punti 3 e 5,
oltre che agli allegati (modelli di informativa su supporto
che indichino l’attivazione anche in orario notturno e
possibile registrazione con sistemi simbolici o
riassuntivi).
Il progetto comunale, contenente le linee amministrative e
operative dell’iniziativa, andrà approvato dall’organo
collegiale esecutivo e demandato per la relativa esecuzione,
con eventuale assegnazione delle risorse finanziarie
necessarie (ulteriori videocamere, cartellonistica, ecc.),
al dirigente responsabile del servizio di Polizia Comunale o
del dirigente cui risultano organizzativamente assegnate le
relative funzioni in sede locale (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il procedimento disciplinare.
DOMANDA:
Questo ente ha avviato un procedimento disciplinare a carico
di un dipendente già precedentemente sospeso ai sensi
dell'art. 5, comma 2, CCNL 22.04.2008, a seguito di rinvio a
giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di
lavoro, fatti rispetto ai quali il procedimento disciplinare
è stato sospeso ai sensi dell'art. 55-ter, comma 1, D.Lgs.
n. 165/2001.
Il nuovo procedimento disciplinare si riferisce a fatti
accaduti prima della sospensione cautelare dal servizio ai
sensi del predetto art. 5, comma 2.
Si chiede, nel caso in cui tale secondo procedimento
disciplinare debba concludersi con la sospensione dal
servizio, quali siano le modalità di applicazione di tale
sospensione, se cioè essa debba essere applicata dopo il
termine della sospensione cautelare (ad oggi sconosciuto),
oppure sovrapponendone l'applicazione alla sospensione
cautelare già in essere, o ancora con altra modalità.
RISPOSTA:
Il dipendente è attualmente sospeso dal servizio ai sensi
dell'art. 5, comma 2, CCNL 22.04.2008, in quanto è stato
rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al
rapporto di lavoro (o comunque tali da comportare, se
accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del
licenziamento).
L'art. 55-ter, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 prevede infatti
che "Per le infrazioni di maggiore gravità, l'ufficio
competente, nei casi di particolare complessità
dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e
quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi
sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può
sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di
quello penale, salva la possibilità di adottare la
sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del
dipendente".
Il procedimento disciplinare è ripreso entro sessanta giorni
dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione di
appartenenza del lavoratore ed è concluso entro centottanta
giorni dalla ripresa. La ripresa avviene mediante il rinnovo
della contestazione dell'addebito da parte dell'autorità
disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo
quanto previsto nell'articolo 55-bis.
Dopo l'espletamento dell'eventuale ulteriore attività
istruttoria, il responsabile della struttura conclude il
procedimento, con l'atto di archiviazione o di irrogazione
della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione
dell'addebito. Occorre ricordare che “La sentenza penale
irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel
giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle
pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza
del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che
l'imputato lo ha commesso" (art. 653 c.p.p.).
L'art. 32-quinquies del c.p. dispone che la condanna alla
reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i
delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318,
319, 319-ter e 320 importa altresì l'estinzione del rapporto
di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di
amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente
partecipazione pubblica. La Legge 27.03.2001 n. 97, all'art.
5, comma 4, prevede che "Salvo quanto disposto
dall'articolo 32-quinquies del codice penale, nel caso sia
pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei
confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell'articolo
3, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l'estinzione
del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a
seguito di procedimento disciplinare".
Si evidenzia che qualsiasi condanna per delitti commessi con
l'abuso dei poteri, o con la violazione dei doveri propri di
una pubblica funzione, o di un pubblico servizio, o di uno
degli uffici indicati nel n. 3 dell'art. 28, o con l'abuso
di una professione, arte, industria o di un commercio o
mestiere, o con la violazione dei doveri a essi inerenti,
importa l'interdizione temporanea dai pubblici uffici o
dalla professione, arte, industria o dal commercio o
mestiere. L'ente dovrà valutare, oltre alla tipologia di
reato commessa, ogni aspetto aggravante o attenuante,
conoscendo le condizioni effettive di svolgimento del lavoro
e degli illeciti, comminando la sanzione più equa.
Sulla base delle considerazioni che precedono si rileva che:
- in merito al primo procedimento disciplinare (sospeso),
l'amministrazione dovrà attendere la conclusione del
procedimento penale;
- se questo si conclude con sentenza di condanna a
reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i
delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318,
319, 319-ter e 320, il rapporto di lavoro si estingue. In
questo caso, secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale, la sanzione disciplinare espulsiva
retroagisce al momento dell’adozione della sospensione
cautelare;
- se la sentenza è di condanna ma fuori dai casi di cui al
punto precedente, l'estinzione del rapporto di lavoro o di
impiego può essere pronunciata ugualmente, a seguito di
procedimento disciplinare. Anche in questo caso, la sanzione
disciplinare espulsiva retroagisce al momento dell’adozione
della sospensione cautelare;
- se la sentenza è di proscioglimento o di assoluzione, la
sospensione perde efficacia e sull'amministrazione gravano
gli oneri della restitutio in integrum.
In mancanza di informazioni più dettagliate circa la natura
dei fatti contestati al dipendente nel secondo procedimento
disciplinare, si dà per presupposto che essi non abbiano
rilevanza penale. Si tratta, presumibilmente, di fatti che
comportano -ai sensi dell'art. 3 CCNL 11.04.2008- della
sanzione disciplinare della sospensione dal servizio:
- con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10
giorni (assenza ingiustificata dal servizio, ritardo
ingiustificato, comportamenti ingiuriosi, ecc);
- oppure con privazione della retribuzione da 11 giorni fino
ad un massimo di 6 mesi (insufficiente persistente scarso
rendimento, recidiva, elusione dei sistemi di rilevamento
elettronico della presenza, ecc..).
Preliminarmente, si esprime il parere che sarebbe opportuno
non portare a conclusione il secondo procedimento
disciplinare prima che sia definito il primo procedimento
disciplinare (e relativo processo penale). Infatti va da sé
che, se il primo procedimento si concludesse con la sanzione
disciplinare estintiva del rapporto di lavoro, nulla
quaestio anche per il secondo.
Il problema si porrebbe solo laddove il processo penale
(correlato al primo procedimento disciplinare) si
concludesse con una sentenza di assoluzione, o anche di
condanna, ma non tale -anche in base alle risultanze del
procedimento disciplinare- da determinare il licenziamento.
In questo caso, comunque, il fatto di aver sospeso anche il
secondo procedimento fino alla definizione del primo,
elimina le difficoltà applicative di una eventuale sanzione
di sospensione dal servizio, la quale troverà applicazione
solo una volta conclusasi la precedente sospensione
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI:
I diritti di rogito spettano solo ai segretari comunali di
fascia C.
I diritti di rogito competono ai soli segretari comunali di
fascia C.
Lo ha chiarito la sezione delle Autonomie della Corte dei
conti con la
deliberazione 24.06.2015 n. 21, risolvendo in
senso restrittivo il contrasto interpretativo insorto fra
alcune sezioni regionali di controllo in merito alla
corretta applicazione dell'art. 10, comma 2-bis, del dl
90/2014.
Tale norma dispone che i diritti di rogito spettano «negli
enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale,
e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la
qualifica dirigenziale», in misura comunque non
superiore a un quinto dello stipendio in godimento
Muovendo da un'interpretazione strettamente letterale, la
sezione regionale di controllo per la Lombardia (seguita poi
da quella per la Sicilia) hanno individuato due distinte
ipotesi legittimanti l'erogazione dei proventi: la prima,
quella dei segretari preposti a comuni privi di personale
con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non sarebbe
rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il
segretario preposto; la seconda, quella dei segretari che
non possiedono qualifica dirigenziale, in cui l'attribuzione
di quota dei diritti di rogito sarebbe ancorata allo status
professionale del segretario preposto, prescindendo dalla
classe demografica del comune di assegnazione.
Pertanto, accedendo a questa tesi, nel caso di comuni del
tutto privi di personale con qualifica dirigenziale sarebbe
possibile attribuire i diritti di rogito a prescindere dalla
fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
A tale tesi, si è contrapposta quella della sezione
regionale di controllo per il Lazio (cui si è aggiunta di
recente quella per l'Emilia-Romagna), secondo cui
l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di
comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C e non a
quelli che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa
assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B, sia essa un
effetto del galleggiamento in ipotesi di titolarità di enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale.
La sezione delle autonomie ha condiviso la seconda e più
rigorosa lettura, evidenziando che essa, oltre a essere
maggiormente coerente con il quadro normativo e contrattuale
della materia (che si caratterizza sempre di più per la
tendenza a contenere entro ristretti limiti le deroghe al
principio di onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici) è l'unica in grado di garantire gli
effetti, anche finanziari, avuti in considerazione dal
legislatore.
La stessa pronuncia, inoltre, ha chiarito che, in difetto di
specifica regolamentazione nell'ambito del Ccnl di categoria
successivo alla novella normativa, i diritti di rogito
devono essere attribuiti integralmente ai segretari comunali
aventi diritto, laddove gli importi riscossi dal comune, nel
corso dell'esercizio, non eccedano i limiti della quota del
quinto della retribuzione in godimento del segretario. Le
somme destinate al pagamento dell'emolumento in parola
devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori
connessi all'erogazione, ivi compresi quelli a carico degli
enti. Ai comuni, in altri termini, non spetta al riguardo
alcun potere di autonoma regolamentazione
(articolo ItaliaOggi del 07.07.2015). |
ENTI
LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito solo per i segretari di fascia «C».
Corte dei conti. Il chiarimento.
Solo un gruppo
ridottissimo di segretari, quelli di fascia C, in quanto non
equiparati ai dirigenti, possono percepire i compensi per il
diritto di rogito. A loro i tali compensi spettano nella
intera quota incassata dall’ente fino a che la
contrattazione collettiva nazionale non avrà deciso una
soglia diversa. La misura di tale beneficio è da intendere
come comprensiva degli oneri riflessi e dell’Irap a carico
dell’ente.
Sono queste le indicazioni contenute nella
deliberazione 24.06.2015 n. 21 della sezione autonomie della Corte dei Conti, che ha sciolto i dubbi interpretativi fin
qui esistenti.
I dubbi possono essere così sintetizzati: la sezione di
controllo della Lombardia ha sostenuto che questi compensi
spettavano a tutti i segretari negli enti privi di
dirigenti, anche nel caso di convenzioni tra Comuni con e
senza la dirigenza, individuando nel Comune il soggetto
chiamato a deliberare la quota spettante al segretario. La
sezione della Sicilia, confermando la spettanza di tale
beneficio ai segretari dei Comuni privi di dirigenti, aveva
ritenuto che la determinazione della misura dei compensi
spettasse al contratto nazionale e fino ad allora andasse
erogato erogato quanto incassato dall’ente, garantendo il
rispetto del tetto di un quinto del trattamento economico
annuo in godimento.
Su un fronte diverso la sezione di
controllo del Lazio ha ritenuto che questi compensi
spettassero solamente ai segretari inquadrati in fascia C,
cioè quelli che non sono assimilati ai dirigenti. E la
sezione di controllo dell’Emilia Romagna ha aggiunto che
essi potessero essere erogati a tale gruppo di segretari
solamente nei Comuni in cui non vi sono dirigenti.
Il risultato determinato dalla deliberazione della sezione
autonomie della Corte dei Conti è che i segretari di fascia
C potranno ricevere questi compensi e, non essendo
attualmente fissato un tetto se non quello di un quinto del
trattamento economico annuo, si determinerà molto spesso
l’aumento della misura tale beneficio, nonostante la
disposizione parli di una “quota”. Mentre i segretari di
fascia A e B dei Comuni privi di dirigenti, che sono la gran
parte della categoria, non riceveranno questo compenso a
fronte di un “galleggiamento”, cioè del diritto a percepire
il trattamento economico accessorio più elevato in godimento
nell’ente, in misura tutto sommato assai modesta.
La deliberazione della sezione autonomie fissa il seguente
principio di diritto: «Alla luce della previsione di cui
all’articolo 10, comma 2-bis, del Dl 24.06.2014, n. 90,
convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n.
114, i diritti di rogito competono ai soli segretari di
fascia C. In difetto di specifica regolamentazione
nell’ambito del Ccnl di categoria successivo alla novella
normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente
ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal
comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti
della quota del quinto della retribuzione in godimento del
segretario. Le somme destinate al pagamento dell’emolumento
in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri
accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a
carico degli enti».
Alla base di tale conclusione viene posta la finalità
“perequativa” che la norma vuole raggiungere, sulla base
delle modifiche apportate dal Parlamento al testo iniziale
del Dl 90/2014 che prevedeva seccamente la abolizione della
possibilità di percepire tale compenso (articolo Il Sole 24 Ore del
07.07.2015). |
ENTI LOCALI -
SEGRETARI COMUNALI:
Alla luce della previsione di cui all’art. 10
comma 2-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con
modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di
rogito competono ai soli segretari di fascia C.
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del
CCNL di categoria successivo alla novella normativa i
predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari
comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola
devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori
connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli
enti.
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Con nota in data
24.12.2014 il Comune di Nave (BS) ha formulato alla Sezione
regionale di controllo per la Lombardia una richiesta di
parere in ordine alla corretta determinazione dei diritti di
rogito da corrispondersi al segretario comunale, alla luce
della novella recata dall’art. 10, comma 2-bis, d.l. 90/2014
a mente del quale “negli enti locali privi di dipendenti
con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari
comunali che non hanno la qualifica dirigenziale, una quota
del provento annuale spettante al comune ai sensi dell’art.
30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734 (….) è
attribuita al segretario comunale rogante, in misura non
superiore a un quinto dello stipendio in godimento”.
Richiamato l’orientamento espresso dalla Corte dei conti per
la Regione siciliana –che, in relazione allo specifico caso
in cui gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del predetto segretario
comunale, con deliberazione n. 194/2014 ha ritenuto doversi
attribuire integralmente i proventi in esame all’avente
diritto– il Comune istante ha chiesto di conoscere il
motivato avviso della Sezione in ordine alla possibilità per
l’Ente di deliberare in autonomia la percentuale dei diritti
introitati da corrispondere al segretario comunale: ciò
anche al fine di scorporare dagli emolumenti in parola i
c.d. oneri riflessi (oneri previdenziali ed Irap da versare
in percentuale sul compenso corrisposto).
Lo stesso Comune, a sostegno della propria prospettazione,
ha rilevato come in tal modo non vi sarebbero effetti
pregiudizievoli a carico del bilancio dell’Ente atteso che
la somma introitata (pari al 100%) varrebbe a coprire, in
uno al compenso da corrispondersi al segretario rogante,
anche gli oneri accessori analogamente, peraltro, a quanto
avviene per altri compensi spettanti ai dipendenti (a titolo
esemplificativo è richiamato il regime previsto per gli
incentivi per la progettazione interna).
Scrutinati positivamente i profili di ricevibilità e di
ammissibilità della richiesta, nel merito, la Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, condividendo i
dubbi sollevati, ha ritenuto di non aderire alla
ricostruzione operata dalla Sezione regionale di controllo
per la Regione Siciliana evidenziando, al riguardo, come la
stessa “oltre ad apparire più un obiter dictum che il
frutto di un’analisi ex professo, non pare essere l’unica
interpretazione consentita alla luce del dato normativo, che
non sembra riservare alla sola contrattazione di settore la
quantificazione delle risorse attribuibili ai segretari
comunali”.
A tal riguardo la Sezione remittente ha, invero, argomentato
come “in carenza di diversa previsione, la lettera della
normativa ben potrebbe determinare la riespansione del più
generale potere di autonomia regolamentare e organizzativa
dell’ente che si appalesa (anche) nella determinazione delle
risorse lato sensu rientranti nell’orbe dei compensi
incentivanti” e come “sotto un profilo teleologico
parrebbe contraddittorio che il legislatore, proprio in un
atto legislativo finalizzato al contenimento dei costi della
pubblica amministrazione, abbia sotto certi aspetti
incrementato la quota di proventi complessivamente
ripartibile ai destinatari del beneficio, precludendo
qualsiasi possibilità di determinazione in peius da parte
dell’ente interessato” (cfr. Sezione regionale di
controllo per la Lombardia, deliberazione n. 34/2015/PAR).
A completamento, ed a sostegno del proprio assunto, la
Sezione regionale ha, peraltro, evidenziato come il
riconoscimento in favore del Comune di un autonomo potere
regolamentare consentirebbe allo stesso, anche in assenza di
specifica disciplina contrattuale collettiva, di scorporare
dai proventi introitati la quota-parte da corrispondere al
beneficiario a titolo di oneri c.d. riflessi che,
diversamente opinando, graverebbero sull’Ente erogatore
quale datore di lavoro.
Il Presidente della Corte dei conti, ravvisando la
sussistenza dei presupposti di cui all’art. 6, comma 4, d.l.
174/2012, ha deferito la questione alla Sezione delle
autonomie.
...
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla
questione di massima come richiamata in parte motiva
pronuncia i seguenti principi di diritto:
“Alla luce della previsione di cui
all’art. 10 comma 2-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90,
convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114,
i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C.
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del
CCNL di categoria successivo alla novella normativa i
predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari
comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola
devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori
connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli
enti” (Corte
dei Conti, Sez. delle Autonomie,
deliberazione 24.06.2015 n. 21). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Contratti decentrati la sanatoria non ferma la Corte dei
conti.
Enti locali. Condanna per danno erariale ancora possibile.
La sanatoria
dei contratti decentrati fuori regola, anche quando è
applicabile, non cancella la responsabilità erariale a
carico di chi ha deciso l'attribuzione di “premi” e
indennità in eccesso.
Su questa base la Corte dei conti, Sez. giurisdizionale
del Veneto, nella
sentenza 17.06.2015 n. 98 depositata nei giorni
scorsi, ha respinto le eccezioni dei difensori di un gruppo
di dirigenti che in un Comune avevano erogato stipendi di
troppo per 385mila euro nel periodo 2008-2010.
Le condanne
hanno riguardato soltanto i dirigenti, perché a sindaco e
assessori è stata applicata l’«esimente politica» dal
momento che non è stato rilevato un «concorso sostanziale»
nella creazione del danno.
Al di là delle caratteristiche specifiche del caso, però, è
la mancata connessione fra la “sanatoria” scritta nel
decreto Salva-Roma ter (articolo 4 del Dl 16/2014) e
l’attivazione della responsabilità per danno erariale a
rappresentare il capitolo più importante della sentenza, la
prima a pronunciarsi sul tema. Gli stipendi “illegittimi”,
relativi solo ai dirigenti del Comune, sono stati
riconosciuti fra 2008 e 2010, dunque prima del 2013 che
secondo la Corte dei conti della Lombardia rappresenta la
data-limite dopo la quale la sanatoria non si applica (si
veda Il Sole 24 Ore del 30 giugno).
Questa sanatoria, scritta per evitare che l’indennizzo per
il trattamento accessorio riconosciuto come illegittimo (in
genere dopo ispezioni della Ragioneria generale) sia chiesto
direttamente al dipendente che ne ha beneficiato, secondo la
Corte del Veneto è «irrilevante» sulla possibilità di
attivare l’azione erariale. L’attività dei magistrati
contabili, sostiene infatti la sentenza poggiandosi anche su
pronunce della Corte costituzionale (in particolare la
sentenza 453/1998) si muove su un doppio piano, quello
«risarcitorio» ma anche quello «sanzionatorio».
L’articolo 4 del Salva-Roma, che prevede di indennizzare
l’amministrazione per le uscite in eccesso con tagli
equivalenti sui fondi decentrati degli anni successivi, non
basta quindi a fermare i giudici. Le condanne per danno
erariale, a carico ovviamente di chi ha infranto le regole
con dolo o colpa grave, rispondono infatti ad altri
obiettivi, che sono di sanzionare il comportamento illecito,
offrire alla Pa «elementi di valutazione» del soggetto
condannato che possono influire sul rapporto di lavoro e
produrre gli «ulteriori effetti» previsti dall’ordinamento
(come lo stop quinquennale per gli amministratori che con il
loro danno erariale hanno portato il loro ente al dissesto).
Meccanismi risarcitori come quelli previsti dalla sanatoria,
quindi, possono semmai alleggerire le condanne, ma non
bloccare i procedimenti (articolo Il Sole 24 Ore del
05.07.2015). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Anche i committenti diventano produttori di rifiuti.
Ambiente. Le misure del decreto legge 92/2015.
Il decreto
legge 92/2015 incide sulla disciplina di rifiuti (chiarendo
la portata di alcune definizioni) e concede alle imprese di
continuare a operare anche se (nonostante l’abbiano
richiesta poiché obbligati per la prima volta) non sono
ancora in possesso dell’Aia (autorizzazione integrata
ambientale). Inoltre, evitano lo spegnimento dell’altoforno
2 dell’Ilva di Taranto dopo un mortale incidente sul lavoro.
Il decreto 92 è stato pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale»
del 4 luglio ed è in vigore dalla stessa data.
Per quanto riguarda i rifiuti, il Dl tocca alcune
definizioni del decreto legislativo 152/2006 (Codice
ambientale) e precisamente:
-
produttore iniziale dei rifiuti: ora è tale «il soggetto la
cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia
giuridicamente riferibile la produzione». Quindi, il
produttore dei rifiuti non è più solo chi esegue le opere
(appaltatore) ma anche il committente (appaltante);
-
raccolta: ora comprende, oltre al deposito, anche il
deposito preliminare alla raccolta;
-
deposito temporaneo: in tale tipologia di deposito,
ascrivibile esclusivamente al produttore dei rifiuti e mai
soggetto ad autorizzazione (ove si rispettino le
caratteristiche previste), rientra anche il deposito
preliminare alla raccolta ai fini del trasporto dei rifiuti
in un impianto di trattamento.
Tale deposito riguarda l’intera area in cui si svolge
l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti.
Un “puzzle” definitorio che (soprattutto con riferimento al
produttore) non mancherà di produrre i suoi effetti in
numerosi ambiti operativi e sotto molti profili, ma che ora
risolve la situazione dei rifiuti generati nel porto di
Monfalcone. Qui la Cassazione (sentenza 5916/2015 del 10
febbraio) in sede di impugnativa cautelare, aveva stabilito
che l’accumulo dei rifiuti prodotti dai subappaltatori di
Fincantieri non potesse essere qualificato come un «deposito
temporaneo» trattandosi di «stoccaggio»; quindi, doveva
essere autorizzato. Nel cantiere navale, invece, tale
attività era priva di atto di assenso preventivo.
La
Cassazione correttamente individuava il deposito temporaneo
nel raggruppamento di rifiuti effettuato «ad opera dello
stesso produttore e nell’area dove il rifiuto viene
prodotto». Il raggruppamento era invece effettuato da
Fincantieri (subappaltante) sui rifiuti prodotti da soggetti
diversi (subappaltatori), in un luogo (banchina del porto)
diverso da quello dove i rifiuti erano stati prodotti (a
bordo delle navi in costruzione).
In ragione del Dl 92/2015 i depositi temporanei degli scarti
di lavorazione realizzati sulla banchina del cantiere di
Monfalcone ora sono legittimi poiché i rifiuti derivanti
dalla costruzione delle navi sono prodotti anche dalla
Fincantieri che, come tale, può posizionarli in deposito
temporaneo senza autorizzazione (articolo Il Sole 24 Ore del
07.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Domanda su carta per il congedo parentale.
Inps. Dagli 8 anni di età.
Per il mese di
luglio, le domande di congedo parentale per figli dagli 8 ai
12 anni, dovranno essere presentate con modalità cartacea.
È quanto ha chiarito l’Inps con il
messaggio 06.07.2015 n. 4576, in
cui l’istituto, nell’attesa che vengano adeguate le
procedure informatiche, dà indicazioni ai lavoratori su come
poter da subito fruire delle nuove tutele in materia di
congedo parentale introdotte dal Dlgs 80/2015.
Le modifiche apportate agli articoli 32 e 34 del Dlgs
151/2001 consistono nella possibilità di godere del congedo
fino ai 12 anni di età del bambino (contro i precedenti 8),
nonché nell’estensione del periodo indennizzabile dall’Inps
al 30% fino al sesto anno di età (contro i precedenti 3). Le
stesse novità sono state introdotte per il congedo parentale
fruito in caso di adozione o affidamento.
Poiché le nuove regole sono diventate operative dal 25
giugno, l’Inps per consentirne l’utilizzo, e cioè per i
congedi richiesti per figli di età compresa tra gli 8 e 12
anni, o per minori adottivi o affidati che si trovano tra
l’ottavo e il dodicesimo anno di ingresso in famiglia, ha
previsto, per il solo mese di luglio 2015, che la domanda
sia presentata con modalità cartacea utilizzando il modulo
SR23 rinvenibile nella sezione modulistica del sito
dell’istituto.
Nel medesimo messaggio l’Inps ha precisato che per le
domande per figli di età inferiore agli 8 anni devono
continuare a utilizzarsi esclusivamente i canali telematici.
Non appena gli applicativi informatici saranno implementati,
così da consentire di presentare telematicamente anche la
domanda per congedi parentali di figli oltre gli 8 anni,
sarà l’Inps stesso a darne immediata comunicazione, in
quanto da tale data non potrà più essere utilizzata la
modalità cartacea
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Su caldaie e bollino blu Regioni in ordine sparso.
Impianti termici. I controlli relativi a fumi e rendimento
Nonostante sia
in vigore da due anni il Dpr 74/2013, che fissa per tutta
Italia nuove regole sulla frequenza dei controlli degli
impianti termici fondata su una diversa suddivisione per
potenza, le Regioni (e in certi casi anche le Province e i
Comuni sopra i 40mila abitanti) continuano ad agire in
ordine sparso su fumi delle caldaie e pagamento del bollino
blu. Anche senza averne (il più delle volte) titolo.
La questione riguarda tutti gli impianti a gas, sia
domestici sia condominiali di piccola e grande taglia, cioè
fra i 35 e i 100 kW o sopra tale soglia e tocca il solo
ambito delle ispezioni per l’efficienza energetica (a
stabilire invece le tempistiche per la manutenzione degli
impianti è il tecnico installatore per gli impianti di nuova
installazione e il manutentore per quelli esistenti). Le
Regioni che, dopo la svolta a livello statale, hanno
recepito totalmente una disciplina per definire tempi e modi
di verifiche e manutenzioni sono solo Lombardia, Marche,
Umbria, Liguria e Toscana. Lo rivela un recente focus,
realizzato dagli esperti di e-training, società di
consulenza e formazione per installatori e tecnici.
Di queste Regioni, poi, solo la Lombardia è l’unica ad aver
indicato nei propri testi il recepimento non solo del Dpr
74/2013, ma anche dell’ultima normativa europea
sull’efficienza energetica (31/2010/Ue). In tutti gli altri
casi viene invece citata la precedente direttiva 2002/91/Ce,
ormai superata. Abruzzo, Piemonte, Puglia, Sicilia e Veneto
sono, invece, scese in campo, ma in modo parziale. Il
Piemonte ha deliberato alcune disposizioni circa il libretto
di impianto, modificando leggermente la disciplina statale.
La Puglia, con una circolare, ha dichiarato di adottare il
Dpr 74/2013, demandando tutto a un successivo regolamento,
così come l’Abruzzo, con la legge varata pochi giorni fa. Il
Veneto ha deliberato per introdurre modifiche al libretto e
istituire (per ora sulla carta) il catasto degli impianti
così come la Sicilia ha deliberato il solo catasto.
Nelle altre Regioni, nulla è stato fatto per prendere atto
del Dpr 74/2013. Con il risultato che si continua,
praticamente ovunque, a utilizzare ancora la vecchia regola
(Dpr 551/99 e Dlgs 192/2005), che prevede una temporalità
diversa per l’invio dell’autocertificazione dell’avvenuto
controllo e il pagamento del bollino e anche una diversa
suddivisione in fasce degli impianti (classificati, per
esempio, domestici non fra i 35 e i 100 kW ma fra 35 e 116
kW).
Infine, esistono casi in cui sono state le Province o
addirittura il Comune a recepire il Dpr 74/2013
riadattandolo alle procedure in essere, snaturandone quindi
ogni contenuto. Un vero puzzle, difficile da ricomporre, con
danno per il cittadino (articolo Il Sole 24 Ore del
07.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Le aziende di smaltimento di rifiuti possono
lavorare. Nonostante il mancato
rilascio dell'Aia da parte della p.a..
Salvate molte imprese di rifiuti. Da oggi, le aziende
specializzate nelle attività di recupero e smaltimento dei
rifiuti possono continuare a svolgere la proprie attività
nonostante la mancata conclusione da parte della pubblica
amministrazione dell'iter di concessione dell'autorizzazione
integrata ambientale (Aia).
Tutto questo grazie al decreto legge 04.07.2015 n. 92
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 04.07.2015 n. 153
con cui il governo ha evitato il rischio (dal 7 luglio)
blocco delle nuove installazioni per mancata conclusione da
parte della Pa dell'iter di approvazione dell'autorizzazione
unica integrata.
L'allarme del possibile blocco per le imprese di rifiuti è
arrivato nei giorni scorsi dalle associazioni Fise
Assoambiente (igiene ambientale, raccolta e smaltimento
rifiuti) e Fise Unire (recupero dei rifiuti), che hanno più
volte sollecitato il ministero dell'ambiente a porre rimedio
alla situazione, che rischiava di avere conseguenze
gravissime su tutto il sistema industriale italiano.
Ricordiamo che con il dlgs del 04.03.2014 n. 46 è stata
recepita nel nostro ordinamento la direttiva europea sulle
emissioni industriali. Con il provvedimento del 2014 veniva
fissato al 07.07.2015 il termine entro cui la pubblica
amministrazione è tenuta a rilasciare l'autorizzazione
integrata ambientale, richiesta entro il 7 settembre scorso
dalle imprese incluse (in base alle nuove disposizioni) tra
le attività soggette alla prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento.
Oltre a ciò il legislatore nazionale ha previsto la
sospensione dell'esercizio dell'impianto in attesa che si
perfezioni il procedimento istruttorio, se questo non è
concluso entro il 7 luglio. Le imprese, quindi, pur avendo
rispettato la scadenza del settembre 2014 per la
presentazione della domanda di autorizzazione integrata
ambientale, si sarebbe trovate obbligate a bloccare la
propria attività nel caso di ritardi nel rilascio del
provvedimento da parte delle autorità competenti.
Le imprese che rischiavano il blocco non erano quelle già
sottoposto ad Aia ma quelle che dovevano ottenerla per la
prima volta. L'autorità competente conclude i procedimenti
avviati in esito alle istanze di autorizzazione integrata
ambientale, entro il 07.07.2015.
In ogni caso, nelle more della conclusione dei procedimenti,
le installazioni possono continuare l'esercizio in base alle
autorizzazioni previgenti, se del caso opportunamente
aggiornate a cura delle autorità che le hanno rilasciate
(articolo ItaliaOggi del 07.07.2015
- http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Maternità, ecco i nuovi congedi. Il limite di età
a 12 anni. E le istanze saranno su carta. Le istruzioni
dell'Inps per fruire del prolungamento dell'astensione
facoltativa.
Via libera alla fruizione del congedo parentale riformato
dal Jobs Act. Mamme e papà possono astenersi dal lavoro,
facoltativamente, finché il figlio non compia i 12 anni
(precedentemente 8 anni), presentando domanda all'Inps in
via telematica (richieste fino a otto anni) ovvero in forma
cartacea (richieste tra 8 e 12 anni). Per ora, in attesa di
adeguamenti informatici, le richieste in forma cartacea
possono riguardare solo i congedi relativi al mese di luglio
(dopo dovrebbe operare soltanto la modalità telematica).
A spiegarlo l'Inps nel
messaggio 06.07.2015 n. 4576.
Riforma Jobs Act.
La novità scaturisce dal dlgs 80/2015, attuativo dell'art.
1, commi 8 e 9 della legge delega n. 183/2014, che tra
l'altro ha modificato l'art. 32 T.u. maternità, in materia
di congedo parentale.
Il provvedimento, in particolare, in vigore dal 25 giugno,
consente ai genitori lavoratori o lavoratrici dipendenti di
fruire dei periodi di congedo parentale fino ai 12 anni di
vita del figlio oppure fino ai 12 anni dall'ingresso in
famiglia del minore adottato o affidato, in luogo del
precedente limite di 8 anni di vita operativo fino al 24
giugno.
Il prolungamento dell'astensione facoltativa, precisa l'Inps
è possibile per ora solo con riferimento ai periodi di
congedo fruiti (o da fruire) tra il 25 giugno e fino al
31.12.2015.
Congedi fino a 12 anni.
La riforma prevede che i periodi congedo parentale fruiti
dai tre ai sei anni di vita del figlio, ovvero dai tre ai
sei anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o
affidato, sono indennizzati, entro il limite massimo
complessivo tra i due genitori di sei mesi, in misura del
30% della retribuzione media giornaliera, a prescindere dal
condizioni di reddito. «Anche tale estensione», precisa
l'Inps, «è per ora limitata ai periodi di congedo fruiti (o
da fruire) tra il 25 giugno e il 31.12.2015».
I periodi di congedo fruiti tra i sei e gli otto anni di
vita del bambino, oppure tra i sei anni e gli otto anni
dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato,
sono indennizzabili, sempre in misura del 30% della
retribuzione media giornaliera, a condizione che il reddito
del genitore che ne fa richiesta sia inferiore a 2,5 volte
il minimo di pensione (16.327 euro nel 2015). Invece, i
periodi di congedo fruiti tra gli 8 anni e i 12 anni di vita
del bambino, oppure tra gli 8 anni e i 12 anni dall'ingresso
in famiglia del minore adottato o affidato, non sono mai
indennizzabili.
Via libera alle domande.
Per la riforma, spiega l'Inps, non è stato previsto un
periodo di vacatio legis e, quindi, le novità sono
già in vigore. Pertanto, nelle more dell'adeguamento degli
applicativi informatici usati ai fini della trasmissione
online delle domande, l'istituto consente da subito la
presentazione delle richieste in forma cartacea, utilizzando
il modello rinvenibile sul sito internet, seguendo il
percorso: www.inps.it, modulistica, e digitando nel campo «ricerca
modulo» il codice SR23.
La domanda cartacea, precisa l'Inps, va utilizzata solo dai
genitori lavoratori dipendenti che fruiscono di periodi di
congedo parentale dal 25 giugno al 31.12.2015, per figli in
età compresa tra gli 8 e i 12 anni, oppure per minori in
adozione o affidamento che si trovano tra l'ottavo e il
dodicesimo anno di ingresso in famiglia. La domanda cartacea
può riguardare anche periodi di congedo parentale fruiti in
data antecedente a quella di presentazione della domanda
cartacea, a partire comunque dal 25.06.2015.
Per gli altri genitori lavoratori dipendenti, aventi diritto
al congedo parentale per figli di età inferiore agli 8 anni,
la domanda continua ad essere presentata in via telematica.
La presentazione delle domande cartacee, per i genitori
interessati da questa modalità, è consentita per il solo
mese di luglio 2015
(articolo ItaliaOggi del 07.07.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI: Inoltro e-mail, chi sbaglia paga.
Attenzione alle insidie della posta elettronica. È un
documento da trattare con cautela.
Il Garante: illegittima la diffusione a terzi di dati
sensibili senza consenso del mittente.
Non bisogna farsi prendere la mano dalla facilità di
utilizzo. Le funzioni sono a portata di click: «rispondi»,
«rispondi a tutti», «inoltra» sono tasti che vanno usati con
coscienza.
Questo sempre, ma con particolare attenzione quando si
tratta di corrispondenza di lavoro. In questo caso bisogna
chiedersi se la facile trasmissione di un messaggio ricevuto
necessiti o meno del consenso del mittente e se allo stesso
bisogna dare l'informativa prevista dal codice della
privacy.
Se si trascurano queste domande, può capitare che il
mittente iniziale faccia valere i propri diritti che possono
arrivare anche la risarcimento del danno. Come è successo in
un recente caso (si veda altro articolo in pagina), in cui
il Garante ha dichiarato l'illegittimità dell'inoltro di una
e-mail contenente dati sanitari e il cellulare del primo
mittente.
Naturalmente non si tratta di preoccuparsi di avere un
lasciapassare iniziale da tutti quelli con cui si dialoga
per posta elettronica. Si tratta, invece, di riflettere e
pensare a quello che si sta facendo.
Se, per esempio, dialogo a voce con il mio interlocutore
presente in un locale pubblico, posso riportare quanto mi ha
detto gridandolo cosicché possano sentirmi anche dalla
strada?
Se io giro la e-mail ricevuta a un gran numero di
destinatari non è la stessa cosa?
In sostanza bisogna fare attenzione a ciò che si fa con lo
strumento che si usa.
E qui tornano in causa i trabocchetti dello strumento
elettronico, che sono molti.
Innanzi tutto la facilità di girare le e-mail, ma anche la
velocità che ci induce lo strumento elettronico. Siamo
reperibili ovunque e ad ogni ora e chiunque ci mandi una
e-mail si aspetta una immediata risposta.
Il mezzo induce a seguire questa aspettativa: d'altra parte
è così facile e così poco faticoso.
Questo induce a una minor ponderazione di ciò che si fa e
magari si clicca il comando di invio prima di avere
controllato e letto bene il testo, oppure di manda il
messaggio di inoltro a terzo destinatario lasciando «sotto»
il messaggio originario contenente informazioni che al terzo
non dovevano essere trasmesse, oppure si comincia a
computare le lettere iniziali del destinatario e il
dispositivo propone un risultato, ma non è quello giusto e
quindi si manda il messaggio a un soggetto diverso.
Errori e illeciti. Gli errori possono essere tanti. Alcuni
di questi possono riguardare solo il bon ton, il galateo
delle comunicazioni, come rileggere e correggere gli errori
e inserire la punteggiatura.
Altri errori possono rappresentare veri e propri illeciti
giuridici puniti dalla legge.
Nel caso trattato di recente dal garante, una e-mail
promozionale di una attività consulenziale è stata fatta
girare: ma chi ha inoltrato il messaggio non si è reso conto
che ha fatto girare dati sensibili.
Naturalmente questo non significa affatto demonizzare le
comunicazioni telematiche, significa, invece, non cadere
nell'errore opposto credendo che qualsiasi comunicazione sia
lecita e che si possa fare tutto senza pensieri.
Natura giuridica della e-mail. Il messaggio di posta
elettronica è un documento informatico.
Il Codice dell'amministrazione digitale (dlgs 82/2005,
articolo 21) precisa che il documento informatico da
chiunque formato e la sua trasmissione sono validi e
rilevanti agli effetti di legge, con alcuni distinguo. In
particolare l'idoneità del documento informatico a
soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore
probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto
conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità,
sicurezza, integrità ed immodificabilità.
In qualche sentenza la e-mail è equiparata al telegramma
(articolo 2705 codice civile).
Se, poi, il documento informatico è sottoscritto con firma
elettronica avanzata, qualificata o digitale, formato nel
rispetto delle regole tecniche, che garantiscano
l'identificabilità dell'autore, l'integrità e l'immodificabilità
del documento, ha l'efficacia prevista dall'articolo 2702
del codice civile (scrittura privata utilizzabile in
giudizio).
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No alla circolazione di dati sulla salute, a prescindere
dalla patologia.
Tutto è partito dal reclamo di una collaboratrice di una
società di consulenza e assistenza informatica, che ha
contestato la condotta di una agenzia immobiliare.
Questa signora ha inviato una e-mail «promozionale»
all'agenzia, nella quale ha informato della convenienza dei
servizi informatici offerti e ha invitato a sciogliere il
contratto di assistenza con altra società.
Nella e-mail la signora ha indicato il numero di cellulare e
ha fatto cenno a una operazione che avrebbe subito («Io la
prossima settimana dovrei operarmi finalmente!!! (ho un po'
paura in realtà)»; «[ ] fatemi sapere, così passo a
trovarvi prima che mi ricoverano!!»)
Che cosa è successo a questa comunicazione di posta
elettronica?
Una società operante per l'agenzia ha copiato in gran parte
il testo e l'ha modificato, ritoccando il prezzo offerto;
poi ha girato il tutto ad almeno 200 (duecento) indirizzi di
posta elettronica di altrettanti agenzie immobiliari
affiliate allo stesso gruppo.
La signora in questione è venuta a conoscenza di quanto
avvenuto perché successivamente ha ricevuto molte telefonate
sul numero di cellulare da parte di persone che volevano
sincerarsi delle sue condizioni di salute. La signora ha,
quindi, presentato il reclamo al garante. Vediamo come si è
difesa l'agenzia.
Innanzitutto ha riferito che la e-mail è stata allegata solo
a scopo dimostrativo, senza intenti o effetti lesivi.
L'agenzia ha aggiunto di non avere effettuato trattamento di
dati personali, men che meno sensibili: secondo l'agenzia
non sarebbe stato un trattamento di dati sensibili il
generico riferimento a una non meglio precisata
«operazione». Con queste motivazioni l'agenzia ha ritenuto
che non dovesse procedere a informativa e a raccolta del
consenso, altrimenti non avrebbe potuto utilizzare il
servizio di posta elettronica. L'agenzia ha anche aggiunto
che la e-mail era partita da un computer di una società
collegata.
Il Garante della privacy (provvedimento n. 242 del 23.04.2015) ha ritenuto fondato il reclamo e ha dato ragione alla
signora, fissando i seguenti principi.
L'operazione di inviare una e-mail rappresenta una
«comunicazione» di dati personali (articolo 4, comma 1,
lett. l del codice della privacy).
Delle responsabilità connesse a questa comunicazione può
essere chiamata a rispondere anche l'agenzia immobiliare,
per conto della quale ha operato la società esterna che
materialmente ha trasmesso la e-mail.
La agenzia principale è chiamata a vigilare sull'operato dei
propri responsabili (art. 29 del codice), anche rispetto a
operazioni di trattamento poste in essere nell'ambito di
servizi esternalizzati e, nel caso specifico, è stata
ritenuta responsabile delle azioni dei consulenti
informatici locali.
Nel merito delle contestazioni formulate, il Garante ha
accertato la trasmissione della e-mail recante in allegato i
dati personali della signora, tra cui il suo numero di
cellulare; ha anche accertato che la comunicazione è
avvenuta senza informare previamente l'interessata e senza
acquisire il relativo consenso.
Il Garante ha ritenuto informativa e consenso preventivo
presupposti necessari non già per l'utilizzo dello strumento
di posta elettronica, ma per il corretto trattamento dei
suoi dati personali.
Tra l'altro si è trattato di comunicazione di dati sensibili
(condizioni di salute) e per la nozione di dato sanitario
non è necessario indicare una specifica patologia.
Il Garante ha spiegato che la e-mail conteneva un
riferimento alla persona dell'interessata e al suo
prospettato «ricovero», nonché alle relative condizioni
psicologiche: tutte informazioni idonee a rivelare lo stato
di salute; e ciò, a prescindere dalla specifica tipologia di
intervento.
Trasmette l'e-mail originariamente inviata ha comportato un
illegittimo trattamento di dati anche sensibili.
Se poi l'inoltro fosse eseguito solo per finalità
dimostrative, si dovrebbe oscurare i dati identificativi
degli interessati.
Alla luce degli accertamenti eseguiti, il Garante ha
dichiarato illecito il trattamento effettuato e ha vietato
l'utilizzo ulteriore dei dati, anche se ha prescritto la
conservazione della e-mail al fine di tutelare eventuali
diritti in sede giudiziaria;
In effetti il garante ha sottolineato la possibilità per
l'interessata di rivolgersi all'autorità giudiziaria per il
risarcimento dei danni eventualmente subiti in conseguenza
dell'indebito trattamento
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Buoni pasto, utilizzo in regola.
La tracciabilità ridimensiona le possibilità di spesa.
Gli effetti delle disposizioni sulla tassazione light dei
ticket in formato elettronico.
Dal 01.07.2015 il fisco è più generoso con i buoni pasto
erogati in formato elettronico: la quota non sottoposta a
tassazione degli stessi è passata da 5,29 a 7 euro. Ma se da
un lato datori di lavoro e dipendenti potranno trarre
benefici dal maggior risparmio e potere di spesa, la
modifica previste dalla legge di Stabilità 2015 porta con sé
un'ulteriore conseguenza.
La tracciabilità garantita dai
sistemi elettronici mette in fuorigioco la prassi
(fiscalmente irregolare ma largamente diffusa e «tollerata»)
di utilizzare i ticket per fare la spesa al supermercato o
cumulando più buoni tra di loro. I commi 16 e 17 della legge
n. 190/2014 hanno modificato l'articolo 51, comma 2, lettera
c), del Tuir. Tale norma fissa le regole per la detassazione
dei buoni pasto, ossia le prestazioni e indennità
sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte da
parte del datore di lavoro ai propri addetti.
I ticket restaurant spettano solo per i giorni effettivamente
lavorati (escluse quindi giornate di malattia, ferie o
trasferte fuori sede per le quali i pasti vengono
rimborsati), sono incedibili, non cumulabili né convertibili
in denaro. Tuttavia, molto spesso i buoni cartacei vengono
utilizzati dai contribuenti senza osservare tali vincoli,
per esempio per fare la spesa al supermarket, per pagare il
ristorante nei fine settimana o addirittura cedendoli a
terzi.
Sul tema non si registrano finora pronunce della
giurisprudenza, a testimonianza del fatto che anche i
controlli in materia non sono stati intensi negli anni
passati, né a carico degli utilizzatori né a carico degli
esercenti che ne hanno tollerato l'uso improprio. Ora però
le cose potrebbero cambiare.
Nell'ottica della
digitalizzazione e della maggiore convenienza fiscale, è
verosimile che molte aziende decideranno gradualmente di
passare dai carnet tradizionali al buono pasto elettronico,
erogato sotto forma di tessera magnetica ricaricabile. Al
punto che la Ragioneria generale dello stato, basandosi sui
dati della Federazione italiana pubblica esercizi, ha
stimato che a regime la quota di mercato delle card
elettroniche salirà al 25%, a fronte del 15% attuale.
Le transazioni che passano attraverso gli appositi
dispositivi elettronici (Pos) possono essere facilmente
monitorate e rendicontate. Le società che emettono buoni
pasto potranno fornire le informazioni alle imprese clienti
e anche i controlli da parte dell'amministrazione
finanziaria saranno più agevoli. Per chi utilizza i ticket
al di sopra della quota giornaliera agevolata dal Tuir (5,29
per i buoni cartacei, 7 euro per quelli digitali) dovrebbe
scattare la ripresa a tassazione dell'eccedenza. Ciò
comporterebbe un maggiore reddito da lavoro imponibile ai
fini Irpef per il lavoratore, ma anche l'obbligo per il
sostituto d'imposta di operare le maggiori ritenute fiscali
e previdenziali (nonché a versare la propria quota di
contributi sulla parte non detassata).
Si ricorda che i
buoni pasto vengono utilizzati da circa 2,3 milioni di
lavoratori, per un totale di oltre 500 milioni di
transazioni annue presso 150 mila esercenti convenzionati
distribuiti in tutta Italia
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Aia, l'applicazione è misurata.
Esonerate le imprese a basso potenziale inquinante.
Le indicazioni ministeriali sull'autorizzazione integrata a
ridosso della scadenza del 7/7.
Obbligo di «Aia» per le sole installazioni industriali a
effettivo elevato potenziale inquinante, più tempo per
l'adeguamento di alcuni stabilimenti rientranti nella nuova
disciplina, esonero dall'aggiuntiva «relazione di
riferimento» per gli impianti che gestiscono esclusivamente
rifiuti.
Arrivano alla vigilia del
07.07.2015, data entro
la quale le installazioni esistenti incluse nella nuova
autorizzazione integrata ambientale disegnata dal dlgs
46/2014 devono essere in possesso del relativo titolo
abilitativo per poter continuare ad esercitare la propria
attività, gli ulteriori chiarimenti del Minambiente sul
campo di applicazione della disciplina in vigore dall'11.04.2014 in attuazione della direttiva 2010/75/Ue sull'«Integrated
Pollution Prevention and Control» («Ippc»).
Adeguamento impianti. Con la nuova nota del 17.06.2015,
che segue la circolare 22295/2014, il Minambiente chiarisce
come tra gli impianti esistenti obbligati all'Aia dalla
nuova normativa quelli funzionalmente collegati ad altre
installazioni già soggette ad autorizzazione integrata non
subiscono la deadline del 07.07.2015, data entro la quale
(ex articolo 29, dlgs 46/2014) la prosecuzione delle
attività è subordinata alla effettiva detenzione del titolo
ambientale rilasciato dalle competenti Autorità (a seguito
della domanda che andava presentata entro il 07.09.2014).
Per tali installazioni «collegate» sarà infatti sufficiente
essere ricomprese nell'Aia in occasione del primo riesame o
aggiornamento dell'autorizzazione principale. La
precisazione del Minambiente appare però risolve solo in
parte la possibile «impasse» di inizio mese (già segnalata
dalle associazioni di categoria Fise Assoambiente e Fise
Unire con un comunicato diramato lo scorso 30 giugno) che
potrà comunque interessare gli stabilimenti non collegati ad
insediamenti già autorizzati.
Acque reflue e depuratori. La nuova Nota chiarisce come le
migliori tecniche disponibili che i depuratori devono
osservare nell'esercizio del trattamento a gestione
indipendente delle acque reflue (punto 6.11 dell'allegato VIII, parte seconda, dlgs 152/2006, come riformulato dal
dlgs 46/2014) sono quelle della categoria di attività Ippc
cui è riconducibile il principale contributo inquinante.
Il dicastero appare inoltre illustrare nei seguenti termini
il regime dei depuratori che trattano acque recapitate da
fognature di reflui urbani: essi sono completamente esclusi
dall'Aia se trattano tali acque da sole o congiunte ad acque
reflue industriali provenienti da impianti Ippc che non
superano però a monte i limiti di immissione in pubbliche
fognature; sono invece solo parzialmente esclusi dall'Aia se
applicano alla parte dei reflui industriali un
pretrattamento per il rispetto dei suddetti limiti; sono
sempre e solo parzialmente esclusi dall'Aia se processano
con il pretrattamento di abbattimento anche rifiuti liquidi
diversi da quelli previsti dall'articolo 110, comma 3, del dlgs 152/2006.
Autodemolizione. Confermando quanto chiarito dalla regione
Lombardia con circolare 11/2014, il Minambiente sottolinea
che tali attività sono normalmente assoggettate ad Aia solo
se effettuano frantumazione dei rifiuti oltre le soglie
quantitative previste dal punto 5 del citato Allegato VIII,
rilevando però ai fini dell'autorizzazione integrata
l'eventuale gestione di depositi preliminari di rifiuti
industriali tecnicamente connessi e la conduzione di altre
operazioni, come la rigenerazione di oli.
Industria chimica. Sempre sulla scia della circolare
lombarda, il ministero dell'ambiente conferma che la
categoria Ippc «industria chimica» (la 4 del citato Allegato
VIII) interessa le sole installazioni che fabbricano su
scala industriale detti prodotti (anche intermedi di
processo) potenzialmente commerciabili tal quali (e non
quelle che generano invece oggetti la cui composizione
chimica non è sufficiente a connotarne le qualità
merceologiche, come le industrie manifatturiere).
Tale
stretta lettura è necessaria per non subordinare all'Aia
attività che pur utilizzando tali sostanze sono soggette
alla greve autorizzazione solo ove superino determinate
soglie produttive.
Trattamento di scorie e ceneri. Interpretazione stretta
anche per le attività di trattamento (nell'ambito dei
rifiuti) di scorie e ceneri (categoria 5.3, Allegato VIII),
laddove per attività di trattamento devono intendersi quelle
di recupero aventi ad oggetto scorie derivanti dai processi
metallurgici e da processi di combustione.
Attività ad inquinamento scarsamente rilevante. Non sono
invece automaticamente escluse dall'obbligo di Aia le
installazioni che producono emissioni considerate non
rilevanti ai sensi del dm 15.01.2014 (come alcune linee
di trattamento di acque e fanghi). In relazione a tali
categorie (per le quali il dlgs 152/2006 non impone dunque
più la greve autorizzazione alle emissioni in atmosfera e
conseguentemente l'Aia) le autorizzazioni integrate
esistenti restano pienamente operative con le relative
prescrizioni da ossequiare) ma i rispettivi titolari ne
potranno riaprire presso le autorità competenti un
procedimento di riesame.
Cementifici e coincenerimento. Entro il 10.01.2016
dovranno allinearsi alle nuove regole su tale attività
previste dal Titolo III-bis del dlgs 152/2006 ed entro il
successivo 08.04.2017 dovranno subire il riesame della
propria Aia alla luce delle migliori tecniche disponibili Ue
pubblicate sulla Guue del 09.04.2013.
Trattamento fisico-chimico dei rifiuti. Le installazioni che
effettuano smaltimento o recupero di rifiuti sopra le soglie
ex punto 5 dell'Allegato VIII mediante trattamento
fisico-chimico sono sottoposte ad Aia anche se ricorrono ad
uno solo di detti trattamenti (come ad esempio la
decantazione), poiché tale locuzione deve essere
interpretata come una alternativa di possibilità.
Relazione di riferimento. Non sono obbligati alla c.d.
«relazione di riferimento», che deve ai sensi del rinnovato dlgs 152/2006 accompagnare l'Aia in caso di presenza di
sostanze pericolose sul sito, gli impianti di gestione
rifiuti che trattano esclusivamente tali residui.
Il dicastero precisa infatti che la nozione di «sostanze
pericolose» che fa scattare l'onere è quella prevista
dall'articolo 5, comma 1, lettera v-octies del dlgs
152/2006, coincidente con i preparati chimici contemplati
dal regolamento (Ce) n. 1272/2008, che non si applica ai
rifiuti.
Gli insediamenti di gestione dei rifiuti, anche
pericolosi, sono però obbligati a tale relazione se, oltre a
tali residui, detengono anche le citate sostanze chimiche,
come può accadere in caso di presenza di serbatoi per oli
lubrificanti, combustibili, prodotti necessari al processo,
stoccaggi di materiali che hanno cessato di essere rifiuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per i dirigenti demansionamenti anti-decadenza.
Delega Pa. Nuovo correttivo.
Meglio
funzionario che decaduto.
A offrire la nuova “opportunità”
ai dirigenti che rimarranno per troppo tempo senza incarico
anche a causa di una valutazione negativa è un emendamento
approvato ieri alla legge delega sulla riforma della Pa
(ddl
Atto Camera n. 3098), in
cui si prevede appunto che per evitare la decadenza dal
«ruolo unico» il dirigente possa chiedere di subire una
sorta di demansionamento volontario.
Intanto altri
correttivi provano a introdurre incentivi “meritocratici” e
pro-giovani nella gestione dell’Avvocatura dello Stato, e
sale la tensione sull’ipotesi di applicare nei concorsi
pubblici anche criteri di valutazione legati all’ateneo di
provenienza, oltre che al possesso del titolo, nel tentativo
di cominciare a superare il «valore legale» del titolo di
studio (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Che l’articolo 9, quello dedicato ai dirigenti, fosse uno
dei più spinosi della riforma Madia è un fatto noto, e il
passaggio in commissione Affari costituzionali a
Montecitorio lo conferma. Tutto nasce dal meccanismo dei
«ruoli unici» per Stato, Regioni ed enti locali da cui le
amministrazioni dovrebbero scegliere i dirigenti per
incarichi di quattro anni, rinnovabili senza concorso per un
solo biennio.
Per i dirigenti che in virtù di questo
meccanismo sarebbero rimasti per un «determinato periodo»
(da decidere con i decreti attuativi) senza incarico il
testo scritto dal Governo e approvato in prima lettura al
Senato prevedeva la decadenza: uno scenario, questo, che ha
scatenato le proteste dei dirigenti e le critiche della
Corte dei conti, per il timore di un eccessivo legame fra
gli incarichi, e quindi la fortuna professionale dei
dirigenti, e la fedeltà alla politica.
Sul punto è
intervenuto un primo correttivo, approvato giovedì a
Montecitorio (e raccontato sul Sole 24 Ore di ieri) in base
al quale la decadenza potrà intervenire solo quando il
dirigente è stato messo in disponibilità a seguito di una
«valutazione negativa». Un altro emendamento (targato
Movimento 5 Stelle e riformulato dal relatore, Ernesto
Carbone del Pd) interviene anche sulla possibilità di
proroga, che sarà concedibile solo in seguito a una
valutazione positiva sull’operato del dirigente nel corso
dei quattro anni dell’incarico “ordinario”.
Sbrogliare la
matassa toccherà ai decreti attuativi, anche perché questo
sistema di giudizi ha qualche chance di incidere davvero, e
di resistere ai probabili ricorsi, se si riuscirà a mettere
in campo un meccanismo di valutazione puntuale e oggettivo.
Per l’Avvocatura dello Stato, un emendamento approvato
struttura un meccanismo quadriennale analogo a quello dei
dirigenti, con lo stop agli incarichi per chi è destinato ad
andare in pensione entro quattro anni. Gli incarichi in
corso da oltre quattro anni, con una formulazione inconsueta
per una delega, dovranno cessare entro sei mesi dall’entrata
in vigore della legge.
Intanto la sezione Autonomie della Corte dei conti (deliberazione
24.06.2015 n. 21 depositata ieri) ha chiuso la querelle sui diritti
di rogito dei segretari, che alla luce della riforma
spettano solo a chi è inquadrato in fascia C, entro il tetto
del 20% della retribuzione (articolo Il Sole 24 Ore del
04.07.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Per il Durc online l’Inps promette archivi ripuliti entro il
20 luglio.
Ammessi possibili errori nel 30% dei dinieghi.
Versamenti. L’istituto al lavoro contro le false
irregolarità.
Quattromila
interrogazioni in poche ore, 50mila fino alla mattinata di
ieri. È stata una partenza lanciata quella del nuovo Durc
online, inaugurato mercoledì scorso, mettendo in linea Inps,
Inail e Casse edili. Per fare il punto in questa fase di
collaudo e rispondere ai quesiti dei professionisti il
Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili (Cndcec) ha organizzato una
videoconferenza, coinvolgendo la sede centrale Inps.
«Tenendo conto che si tratta di una costruzione informatica
che solo per Inps impatta su 15 archivi -ha sottolineato il
direttore centrale Entrate contributive dell’Istituto,
Gabriella Di Michele- credo che il debutto della nuova
procedura sia stato brillante. C’era qualche preoccupazione,
perché si tratta di un sistema raffinato e senza equivalenti
in Europa, ma possiamo ritenerci soddisfatti».
La velocità
di risposta sarà il cardine del nuovo sistema: «Il Durc
online dovrebbe essere disponibile in 45 secondi -ha
evidenziato Di Michele- ma siccome gli archivi possono
essere disallineati nel caso in cui passino inutilmente
questi secondi ci siamo presi un tempo tecnico di 6 ore per
l’invio. Se ci sono invece problemi d’irregolarità, se di
scarsa valenza ci siamo impegnati a risolverli entro le 72
ore, Al cui termine parte l’avviso d’irregolarità».
«Anche noi siamo contenti della nuova procedura -ha detto
Vito Jacono, componente della commissione Commercialista del
lavoro- perché il Durc online permette alle aziende di
risparmiare denaro e a noi professionisti di guadagnare
tempo e tornare a fare consulenza vera. Capiamo anche che ci
possano essere alcuni problemi, per cui chiediamo solo che
ci sia dato un po’ più tempo per rispondere agli avvisi di
irregolarità».
Durante l’incontro sono stati forniti alcuni chiarimenti.
L’Inps ha annunciato, ad esempio, l’intenzione di effettuare
un controllo sulla regolarità contributiva delle aziende
ogni quattro mesi e di creare una white-list delle aziende
virtuose. Quanto ai Durc erroneamente negativi per anomalie
nella lettura degli archivi gestiti dalle sedi periferiche,
per esempio perché il contribuente ha concordato la
dilazione del pagamento dei contributi l’Istituto ha
annunciato che entro il 20 luglio questi ultimi verranno
riletti e le anomalie potranno essere risolte. «Secondo le
nostre verifiche -ha detto il direttore vicario Ferdinando Montaldi- sappiamo che in un caso su tre potrebbero
verificarsi queste irregolarità apparenti».
A livello di tempistica, considerando che il Durc positivo
ha efficacia per 120 giorni, se una richiesta verrà rifatta
entro questo lasso di tempo, è stato precisato che il
sistema non predisporrà un altro documento, in quanto varrà
quello già emesso. Il Durc negativo, invece, vale solo per
il giorno in cui è stato emesso, ragion per cui il datore di
lavoro potrà regolarizzarsi e ottenere il Durc positivo non
appena gli archivi saranno aggiornati.
Per quanto concerne le società, la regolarità certificata
dal Durc vale solo per gli obblighi contributivi
dell’azienda stessa, individuata con il suo codice fiscale
(non con la matricola Inps) e non per la posizione dei soci,
iscritti ad esempio alla gestione commerciati, artigiani o
separata. Se una stazione appaltante desidera verificare
anche queste regolarità, dovrà essergli fornito lo specifico
Durc del socio, attraverso l’inserimento del suo codice
fiscale. In questo caso, il consulente del lavoro o il
commercialista delegato potranno accedere al Durc del socio
solo come “altro delegato” sul portale dell’Inps, in quanto
non sono valide le credenziali di accesso nel cassetto
previdenziale dell'azienda.
È emerso anche un problema per le società artigiane o
commerciali senza dipendenti, per cui il Durc dell’azienda,
richiedibile solo dal sito Inail, viene rilasciato con la
regolarità Inail, mentre per l'Inps viene indicato che il
«soggetto non è iscritto». In questi casi le stazioni
appaltanti spesso interpretano questa scritta come una
irregolarità contributiva, quindi, è stato chiesto
all’Istituto di specificare che la mancata iscrizione
dell’azienda dipende dall’assenza dell’obbligo di iscrizione
all’Inps (articolo Il Sole 24 Ore del
04.07.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Regolarità attestabile anche per le imprese in concordato.
I chiarimenti. Le procedure concorsuali.
Anche le
aziende in procedure concorsuali possono ottenere, in
presenza di determinati presupposti, la regolarità
contributiva (Dol). Le regole sono contenute nell'articolo 5
del decreto 30.01.2015; la circolare Inps 126/2015 ha
illustrato le varie situazioni.
Le imprese in concordato preventivo con continuità aziendale
si considerano regolari nel periodo tra la pubblicazione del
ricorso nel Registro delle imprese e il decreto di
omologazione, a condizione che nel piano concordatario sia
prevista l'integrale soddisfazione dei crediti contributivi
scadenti prima della data di pubblicazione nel Registro
delle imprese del ricorso per l'ammissione alla procedura.
L’impresa è tenuta, inoltre, al regolare versamento dei
contribuiti con scadenza legale successiva alla data di
pubblicazione del ricorso.
Dopo l'omologa del concordato, il mancato rispetto dei
termini previsti dal piano per la soddisfazione dei crediti
previdenziali comporta la dichiarazione di irregolarità
dell'impresa. Ad analoga conclusione si perviene nelle
ipotesi in cui il piano preveda la parziale soddisfazione
dei crediti previdenziali e dei relativi accessori di legge
muniti di privilegio di Inps, Inail e delle Casse edili
ovvero la loro retrocessione a crediti chirografari.
Riguardo alle aziende che, nell'ambito di procedure
concorsuali, versino in situazione di fallimento con
continuazione temporanea dell'impresa è possibile ottenere
l'attestazione di regolarità laddove gli obblighi
contributivi scaduti prima dell’autorizzazione all'esercizio
provvisorio siano stati insinuati nel passivo. Quelli con
scadenza legale successiva devono essere assolti secondo i
principi generali che governano le attività di verifica.
L'attestazione della regolarità contributiva è possibile
anche in presenza di una sentenza dichiarativa di
fallimento, a condizione che i crediti contributivi scaduti
prima della data di iscrizione della sentenza nel Registro
delle imprese siano stati insinuati alla data della
richiesta di Durc.
Nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria
la regolarità può essere attestata a condizione che i
crediti contributivi scaduti prima della dichiarazione di
apertura della procedura stessa siano stati insinuati e che
la contribuzione per i periodi successivi alla data di
ammissione all'amministrazione straordinaria risulti
regolarmente versata.
Infine, possono essere considerate regolari anche le imprese
che presentano una proposta di accordo sui debiti
contributivi nell'ambito del concordato preventivo ovvero
con accordo di ristrutturazione dei debiti con riferimento
al periodo tra la data di pubblicazione dell'accordo nel
Registro delle imprese e il decreto di omologazione. Saranno
considerate regolari le situazioni in cui il piano di
ristrutturazione preveda il pagamento parziale o anche
dilazionato dei debiti contributivi nel rispetto del Dm 04.08.2009 in materia di applicazione e limiti di falcidia
dei crediti oggetto dell'accordo.
Confermato, anche per
questa ipotesi, l'obbligo del regolare pagamento della
contribuzione dovuta per i periodi successivi alla
presentazione della proposta di accordo sui crediti
contributivi
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.07.2015). |
ENTI LOCALI:
Ancora un rinvio per i bilanci. Le città
metropolitane non riescono a chiudere i conti.
I preventivi potrebbero slittare al 30 settembre
per aiutare i grandi sindaci e le province.
Si profila un nuovo rinvio, probabilmente al 30 settembre,
del termine per l'approvazione del bilancio di previsione
2015 degli enti locali. La notizia è filtrata nelle scorse
ore, anche se al momento non vi è ancora nulla di ufficiale.
A motivare l'ennesima proroga (che sarebbe la quarta di
quest'anno, visto che la deadline del 31.12.2014 è
stata in precedenza spostata prima al 31 marzo, poi al 30
maggio e infine al 31 luglio) vi sarebbero le difficoltà di
molti enti a quadrare i conti.
Nei guai ci sono soprattutto le province, che da mesi
lamentano l'insostenibilità dei tagli imposti dall'ultima
legge di stabilità, ma che finora hanno ottenuto ben poco.
Ma anche per molti comuni la strada è tutta in salita. Gli
amministratori attendevano risposte dal decreto «enti
locali», ma tale provvedimento, dopo mesi di attesa, ha
fortemente deluso le aspettative.
Sulle barricate, ci sono soprattutto i sindaci che aspettano
i soldi del c.d. fondo Tasi, i quali, oltre a dover
rinunciare a circa un terzo delle somme ricevute nel 2014,
non potranno neppure conteggiare il trasferimento residuo ai
fini del Patto, trovandosi così in grossa difficoltà a
centrare l'obiettivo. Non a caso il comune di Milano, che è
il principale beneficiario del fondo (lo scorso anno ha
incassato quasi 90 milioni), è stato costretto ad aderire al
Patto orizzontale nazionale, ipotecando le proprie gestioni
future pur di riuscire a restare a galla (si veda ItaliaOggi
di ieri).
Ma le criticità riguardano anche altri grandi comuni, che
stanno facendo pressing per ottenere una norma che li
autorizzi ad utilizzare una quota dei proventi da
alienazione per finanziare spesa corrente una tantum.
Al momento, il governo sembra intenzionato a prendere tempo:
da qui, il rinvio del bilancio, che dovrebbe seguire il
consueto iter del parere preventivo in Conferenza
stato-città e autonomie locali e successivo decreto del
ministro dell'interno Angelino Alfano, a meno che non venga
previsto un emendamento ad hoc nella legge di conversione
del dl 78/2015.
Nei prossimi giorni, intanto, come anticipato da ItaliaOggi
del 9 giugno, il ministero dell'interno dovrebbe diffondere
una circolare per chiarire che chi ha approvato il bilancio
dopo il 1° luglio non è obbligato ad effettuare entro la
fine dello stesso mese la verifica sulla salvaguardia degli
equilibri contabili. Tale adempimento, invece, rimane
obbligatorio per chi ha licenziato il preventivo in data
anteriore
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Per far volare droni serve l'ok Enac.
Per sorvolare i centri abitati e le infrastrutture critiche
con i dispositivi volanti a pilotaggio remoto meglio
conosciuti come droni occorre una preventiva autorizzazione
dell'Ente nazionale per l'aviazione civile. Ma al momento
non è ancora richiesto alcun parere all'autorità di pubblica
sicurezza e questa criticità dovrà essere prontamente
risolta con l'adozione del nuovo regolamento Enac.
Lo ha chiarito il Viminale con la
nota
30.04.2015 n. 555/OP/0001369/2015/2 di prot. avente
ad oggetto gli aeromobili a pilotaggio remoto, vademecum e
prontuario per le violazioni.
L'uso dei droni è ormai una
pratica comune e condivisa in ogni ambito operativo. Questi
strumenti di volo però sono considerati dalle normative
internazionali come aeromobili soggetti quindi alla
regolamentazione aeronautica.
L'impiego dei sistemi
aeromobili a pilotaggio remoto (sapr o apr) è stato quindi
disciplinato dai singoli stati membri ed in Italia è stato
adottato il regolamento del 16.12.2013. Nel rispetto
di questa disposizione, ha specificato l'Enac con una nota
del 14 aprile scorso, risultano particolarmente critiche
tutte quelle operazioni che prevedono il sorvolo delle città
e delle zone densamente frequentate dalle persone.
Conseguentemente, specifica il regolamento, per questo tipo
di operazioni «è richiesto che l'operatore di tali sistemi a
pilotaggio remoto sia autorizzato dall'Enac e l'apr, ovvero
il drone, abbia un adeguato livello di sicurezza». In buona
sostanza per assicurare la sicurezza pubblica occorrono
innanzitutto organizzazioni riconosciute dall'Ente
nazionale, disponibili sul sito dell'Enac. Ma non basta.
A parere del ministero dell'interno occorre interpellare
anche l'autorità di pubblica sicurezza che potrà valutare,
caso per caso, l'opportunità del volo, specialmente in
prossimità di strutture critiche, nonché sui luoghi molto
frequentati.
Per questo motivo il Viminale ha istituito un tavolo tecnico
interforze che dovrà collaborare con l'Enac nella stesura
del nuovo regolamento. Ed individuare le condotte di volo
più consone in prossimità delle zone ritenute critiche e
potenzialmente di interesse per l'ordine e la sicurezza
pubblica
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Valutazione ambientale, operazione
semplificazione.
Semplificare, armonizzare e razionalizzare le procedure di
valutazione di impatto ambientale, anche in relazione al
coordinamento e all'integrazione con altre procedure volte
al rilascio di pareri e autorizzazioni a carattere
ambientale. L'obiettivo di un sistema autorizzatorio
integrato consiste nell'introduzione di un sistema di
autorizzazioni ambientali che consenta di evitare, per una
stessa attività o progetto o impianto sottoposto a Via,
l'instaurazione di diversi procedimenti da parte del
soggetto richiedente.
Le sanzioni dovranno essere più
efficaci, proporzionate e dissuasive e dovranno consentire
una maggiore efficacia nella prevenzione delle violazioni in
materia ambientale. I proventi delle sanzioni andranno usati
per finalità connesse al potenziamento delle attività di
monitoraggio ambientale e di verifica del rispetto delle
condizioni previste nei provvedimenti di valutazione
ambientale.
Queste le finalità contenute dell'articolo 14 della legge di
delegazione europea 2014 (Atto
Camera n. 3123) approvata il 2 luglio
definitivamente dalla camera in materia di valutazione di
impatti ambientale.
Ricordiamo che la direttiva 2014/52/Ue
reca modifiche alla direttiva 2011/92/Ue in materia di
valutazione di impatto ambientale (Via). Tra gli obiettivi
della direttiva si annoverano la semplificazione e
l'armonizzazione delle procedure, nonché la modifica dei
fattori sulla base dei quali devono essere valutati gli
impatti al fine di maggiormente tenere conto delle tematiche
legate alla biodiversità e al territorio. Il recepimento da
parte degli Stati membri dovrà avvenire entro il 16.05.2017.
L'articolo 2 della legge di delegazione europea 2014,
prevede specifici principi e criteri direttivi per il
recepimento della direttiva 2014/104/Ce, che introduce una
disciplina per il risarcimento del danno derivante da
violazione delle norme europee sulla concorrenza. In
particolare, la direttiva prevede l'applicazione, in
relazione a uno stesso caso, degli articoli 101 e 102 del
trattato sul funzionamento della Ue, nonché delle
disposizioni della «legge antitrust» (n. 287/1990), in
materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e
di abuso di posizione dominante.
Estende l'applicazione
delle disposizioni adottate in attuazione della direttiva
alle azioni di risarcimento dei danni derivanti da intese
restrittive della libertà di concorrenza e abuso di
posizione dominante. Prevede che le disposizioni di
attuazione della direttiva siano applicate anche alle azioni
collettive dei consumatori e disciplina anche la revisione
della competenza delle sezioni specializzate in materia di
impresa (i c.d. tribunali delle imprese).
Il termine
previsto per il recepimento è il 27.12.2016. L'art. 8
della legge in commento prevede il recepimento
nell'ordinamento interno, della direttiva 2014/59/Ue che
istituisce un quadro di risanamento e risoluzione del
settore creditizio e degli intermediari finanza. Il termine
per il recepimento è scaduto il 31.12.2014 e la
commissione Ue ha messo in mora l'Italia per il mancato
recepimento della direttiva 2014/59/Ue
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2015). |
ENTI LOCALI:
Autovelox ok anche se portatile.
Valgono le multe per eccesso di velocità rilevate con gli
strumenti elettronici deputati al controllo dinamico montati
a bordo dei veicoli di polizia stradale. L'importante è che
l'impianto sia specificamente omologato per questo tipo di
controlli e che venga rispettata anche la privacy degli
interessati in caso di accesso agli atti.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con l'inedito
parere 06.05.2015 n. 2017 di prot..
Tra le modalità di controllo della velocità dei veicoli è
prevista anche quella dinamica, a bordo dei veicoli di
servizio. In pratica il sistema autovelox viene posizionato
sul cruscotto del mezzo della polizia per riprendere i
comportamenti di guida degli altri autisti. Non solo di
quelli che precedono la pattuglia ma anche dei veicoli che
provengono in senso contrario di marcia.
Specifica infatti il parere ministeriale che il dm
15.08.2007 che tratta delle modalità di segnalamento delle
postazioni di controllo della velocità evidenzia che i
misuratori autovelox possono essere utilizzati in modalità
dinamica ovvero a inseguimento. In questo caso non servono
segnalazioni particolari per la pattuglia. Solo il rispetto
della privacy nel caso in cui il sistema riprenda persone
all'interno degli abitacoli.
I dispositivi omologati per effettuare questo tipo di
riprese, prosegue la nota centrale, sono peraltro già dotati
di filtri ad hoc che dovrebbero trascurare i volti
delle persone. Ma se incidentalmente questa limitazione non
fosse stata rispettata spetterà al comando di polizia
oscurare i volti prima di consentire l'accesso agli atti da
parte degli interessati
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
PATRIMONIO - URBANISTICA:
Immobili p.a., esenzioni ampie.
Il notariato sui trasferimenti per uso non
abitativo.
Per i trasferimenti di immobili pubblici, a uso non
prevalentemente abitativo, ripristinata l'esenzione da
imposte indirette (registro, ipotecaria e catastale) e da
altri tributi e/o diritti.
Così il Consiglio nazionale del notariato che, con lo
studio
06-08.05.2015 n. 46-2015/T dell'area scientifica, approvato in una seduta
dello scorso maggio, è intervenuto sui profili di natura
fiscale, relativi ai trasferimenti di immobili pubblici e di
edilizia popolare, compresi quelli eseguiti da fondi
immobiliari.
Per il corretto inquadramento della disciplina, lo studio
evidenzia la soppressione delle esenzioni e delle
agevolazioni fiscali, a cura dell'art. 10, dlgs 23/2011 e,
successivamente, il ripristino di specifiche agevolazioni,
con il comma 4-ter, dell'art. 20, dl 133/2014 («Decreto
sblocca Italia») e i commi 270 e 377, dell'art. 1, legge
190/2014 (Stabilità 2015).
Il legislatore ha individuato, innanzitutto, determinate
ipotesi relative ai trasferimenti, individuando tra questi
le permute, le operazioni di cartolarizzazione degli
immobili pubblici, le dismissioni, la valorizzazione del
patrimonio immobiliare pubblico e alcuni atti, di cui
all'art. 32, dpr 601/1973 (trasformazione del diritto di
superficie in proprietà e ridistribuzione fondiaria tra
co-lottizzanti).
Inoltre, lo studio ritiene che per «immobili pubblici»
debbano intendersi, non solo quelli posseduti da soggetti
pubblici (Stato o altri enti territoriali), ma anche quelli
«in grado di realizzare interessi della collettività o di
parte di essa e di attuare finalità meta-individuali»,
quando siano legati da forme o modalità di «monetizzazione»
del patrimonio pubblico.
Come detto, le dette operazioni godono della più completa
esenzione da imposte e tributi dovute in caso di
trasferimento, restando esclusa l'applicazione dell'imposta
di registro, bollo, ipotecaria, catastale e di ogni tributo
o diritto previsto dalla legislazione vigente; restano
esclusi, dal detto regime agevolato, taluni atti relativi a
conferimenti e/o trasferimenti di immobili di proprietà dei
comuni che, però, possono beneficiare di altre agevolazioni.
Inoltre, la norma di ripristino delle agevolazioni sopra
indicata (4-ter, art. 20, dl 133/2014) impatta su talune
fattispecie traslative, cui si rende applicabile il comma 2,
dell'art. 32, dpr 601/1973 che prevede l'applicazione
dell'imposta di registro in misura fissa e l'esenzione dalle
imposte ipotecaria e catastale (Agenzia delle entrate, ris.
17/E/2015).
Le operazioni che beneficiano di tali agevolazioni sono
quelle relative al trasferimento di aree produttive (Pip) o
di aree concesse in diritto di superficie o cedute in
proprietà per la costruzione di unità abitative (Peep), la
trasformazione del diritto di superficie in proprietà, di
cui ai commi 45 e seguenti, legge 448/1998, e gli atti di
ridistribuzione fondiaria tra co-lottizzanti.
In
particolare, è stato previsto (nuovo comma 140-ter, art. 1,
legge 296/2006) che ai conferimenti eseguiti dai fondi
immobiliari, di cui al dlgs 58/1998, si rendano applicabili
le imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura
fissa e che, in caso di alienazione, nell'ambito di una
procedura di cartolarizzazione, valorizzazione o
dismissione, da parte di fondi immobiliari si renda
applicabile la esclusione dall'applicazione dell'Iva, per
assimilazione alle operazioni di conferimento di aziende o
di rami di azienda, con applicazione in misura fissa (euro
200) delle imposte di registro, ipotecaria e catastale
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici storici, scheda riscritta.
Autorizzazioni new style da settembre.
Per gli interventi sugli edifici storici dal 1° settembre
andrà allegata una nuova scheda tecnica per la richiesta di
autorizzazione. In casi di interventi di miglioramento
sismico oppure per interventi straordinari sugli edifici
storici la documentazione allegata alla richiesta di
autorizzazione o di pareri dovrà prevedere la nuova scheda.
La suddetta scheda non costituirà documentazione tecnica
aggiuntiva rispetto a quella obbligatoria prevista per legge
ma rappresenterà una sintesi finalizzata a evidenziare
l'approccio progettuale.
Tutto questo lo prevede la
circolare 30.04.2015 n. 15 del
ministero dei beni e della attività culturali e del turismo
(Mibact) per la tutela del patrimonio architettonico e la
mitigazione del rischio sismico.
Visti i ripetuti danni
subiti dagli edifici culturali per gli eventi sismici, il Mibact ha predisposto un'azione per la sensibilizzazione
degli enti coinvolti nel rilascio dei permessi, ma
soprattutto per la conoscenza più approfondita della
vulnerabilità del patrimonio architettonico.
Secondo il Mibact, una volta individuato il problema, la riduzione del
rischio sismico sarà possibile attraverso buone pratiche da
adottare in occasione degli interventi che influiscono sul
comportamento strutturale. Nelle manutenzioni straordinarie
il Mibact prescrive inoltre particolare attenzione alle
lavorazioni edili anche non riguardanti gli elementi
portanti, come la realizzazione o la modifica di porte e
finestre, l'introduzione di pavimenti più pesanti, la
modifica del manto di copertura, la modifica della
distribuzione dei tramezzi, le tracce e i fori che riducono
le sezioni resistenti.
L'applicazione di queste buone
pratiche consentirà, assicura il Mibact, la rilevazione di
altre carenze eventualmente già esistenti e non connesse con
i progetti da realizzare, ma anche la previsione di
ulteriori interventi senza sensibili costi aggiuntivi
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., fuori i dirigenti bocciati. Licenziabili
solo i manager valutati negativamente.
Raffica di emendamenti al ddl Madia. Nelle partecipate
premi in base ai risultati.
Mannaia sui dirigenti pubblici: saranno licenziabili, se
rimasti senza incarico per un periodo prolungato di tempo,
tuttavia per decadere dal ruolo il loro operato dovrà essere
stato valutato «negativamente» dall'organismo di
appartenenza. Tutt'altra sorte, invece, per gli
amministratori delle società partecipate, legati al
risultato (positivo, o negativo) dell'azienda, e quindi
remunerati con un «compenso economico variabile».
Raffica di modifiche, nella giornata di ieri, al disegno di
legge del ministro Marianna Madia in materia di
riorganizzazione della p.a. (ddl
Atto Camera n. 3098), in commissione affari
costituzionali alla camera; numerosi gli emendamenti
(soprattutto dei democratici) approvati, che hanno corretto
gli articoli sulla dirigenza pubblica e sul pubblico
impiego, mentre a partire da martedì 7 luglio saranno
esaminati, hanno fatto sapere fonti parlamentari, i capitoli
sui corpi di polizia e sulla conferenza dei servizi.
Ritocco rilevante, imposto dal Pd, pure quello sui requisiti
per l'accesso ai concorsi pubblici, laddove non conterà più
soltanto il voto di laurea conseguito, bensì anche
l'università frequentata dal candidato, in modo che la
votazione possa essere così rapportata al «peso» dell'ateneo
che l'ha assegnata.
E, sempre in tema di selezioni, è passato un «giro di vite»
sulla designazione dei direttori generali, amministrativi e
sanitari delle strutture sanitarie, riducendo la
discrezionalità nelle nomine: le regioni avranno a
disposizione una rosa di persone, proposta da una
commissione «ad hoc» che, e questa è la novità, non sarà
formata semplicemente attingendo dall'elenco nazionale dei
dirigenti, ma sarà composta anche da chi, iscritto
all'elenco, si è fatto avanti, manifestando interesse per
l'avviso pubblico.
Come già evidenziato, per i vertici della p.a. conterà molto
la reputazione conquistata in servizio, visto che in caso
restino privi di funzioni per un determinato lasso
temporale, a dar loro la «spinta» verso l'uscita dall'ente
sarà proprio una eventuale «bocciatura» per non aver svolto
correttamente i propri compiti.
Al contrario, è saltato l'obbligo (previsto inizialmente dal
ddl governativo) di un esame per i dirigenti che puntano
all'assunzione a tempo indeterminato, poiché la I
commissione ha acceso il semaforo verde sulla necessità che
siano «valutati» dall'amministrazione presso la quale è
stato loro attribuito l'incarico iniziale, senza perciò
superare un apposito concorso; modificata, inoltre, la
durata del periodo di prova, che scende da 4 a 3 anni (nei
quali i dirigenti avranno obblighi formativi).
Quanto, poi, alla figura del segretario comunale, oggetto di
un vero e proprio restyling, è stato approvato un testo che
conferisce le loro attuali competenze di rogito «ai
dirigenti apicali aventi i relativi requisiti»; ne consegue
che i futuri dirigenti appartenenti al ruolo unico (che il
ddl istituisce) saranno ufficiali roganti, e potranno così
redigere documenti in forma pubblica amministrativa, aventi
efficacia di atto pubblico, proprio come quelli stipulati da
un notaio.
Il M5s ha impresso una «virata», ottenendo il via libera ai
«premi» agli amministratori delle società partecipate: la
remunerazione sarà vincolata alla performance (virtuosa, o
meno) delle aziende guidate. E, fra le modifiche varate,
quella di Claudio Borghi (Pd), secondo cui per dirigenti e
dipendenti dei Comuni con meno di 5.000 abitati potranno
essere avviati corsi di formazione sulla «spending review»
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Vigili stagionali senza speranze. Priorità alla
polizia provinciale. Contratti flessibili ko.
Il dl 78/2015 per smaltire i 20 mila esuberi
degli enti di area vasta ingessa i comuni.
Vigili stagionali, pochi gli spazi interpretativi lasciati
dall'articolo 3, comma 5, del dl 78/2015 per considerare
ancora possibile la loro assunzione.
Il decreto enti locali, pensato per risolvere, tra gli
altri, posti ai comuni dalla riforma delle province e in
particolare dal congelamento delle assunzioni imposto
dall'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, nel caso
della polizia municipale invece di essere un giovamento si
sta rivelando un serio problema, se non un danno.
Come è noto, la norma cerca finalmente di incidere sullo
stallo delle procedure di mobilità dei circa 20 mila
dipendenti provinciali coinvolti dalla riforma, imponendo
d'imperio il passaggio dei componenti dei corpi di polizia
provinciale verso la polizia comunale.
Una scelta forse giustificabile nel tentativo di fornire una
prospettiva certa e il più possibile rapida ai dipendenti
provinciali, ma assai poco attenta alla loro professionalità
ed alle esigenze dei comuni.
In ogni caso, la norma è scritta in modo da poter essere
interpretata come divieto assoluto di assumere, con
qualsiasi tipologia contrattuale e, dunque, comprendendo
anche qualsiasi contratto flessibile, non escluso il tempo
determinato per esigenze stagionali.
Il comma 3 dell'articolo 5 del dl 78/2015 usa, infatti, il
verbo «reclutare», a conferma che ai comuni è permesso solo
di assumere a tempo indeterminato per mobilità il personale
provinciale dei corpi di polizia, senza nessun'altra
ulteriore e diversa alternativa.
Potrebbe in astratto considerarsi corretto colmare i vuoti
d'organico dei comuni, utilizzando i circa 2 mila dipendenti
dei corpi di polizia provinciale. Ma i limiti di questa
prospettiva sono molti ed evidenti.
In primo luogo, l'articolo 5 del dl 78/2015, subordina il
transito dei poliziotti provinciali all'adozione delle leggi
regionali di riordino delle funzioni provinciali; ma la gran
parte delle regioni non vuole saperne di riordinarle.
Subordinare, dunque, i trasferimenti dei vigili provinciali
alle leggi regionali di riordino significa rinviare a lungo
queste mobilità e lasciare ancora una volta i comuni privi
di strumenti o a rischio di effettuare assunzioni a rischio
di nullità.
Al di là dei problemi di coerenza con il processo di
riordino, nulla assicura che il flusso della mobilità dei
vigili provinciali copra esattamente tutti i fabbisogni di
polizia locale di natura stagionale dei comuni turistici. È
molto probabile che la gran parte dei vigili provinciali
ambirà a trovare ricollocazione nei comuni capoluogo, per
altro quelli con spazi finanziari ed organizzativi
generalmente più ampi. Pochi si ricollocheranno nei comuni
più piccoli nonostante siano proprio i comuni turistici di
piccole dimensioni quelli che hanno maggiore necessità di
vigili «stagionali».
Peraltro, necessità «stagionali» sono per loro natura
incompatibili con assunzioni a tempo indeterminato e sono
quasi le uniche a poter essere agevolmente motivate, in
applicazione dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001.
Allo scopo di alleggerire la morsa ai comuni, si potrebbe
provare ad interpretare l'articolo 5, comma 3, del dl
78/2015 in modo da coordinarlo con il comma 424 della legge
190/2014, ritenendo esclusa non ogni forma di reclutamento
con qualsivoglia tipologia contrattuale, ma solo le ogni
tipologia di assunzione a tempo indeterminato, ricordando
che il comma 424 citato congela solo le assunzioni a tempo
indeterminato, ma non quelle flessibili. Anche perché la
mobilità di personale a tempo indeterminato non può che
attivarsi per esigenze lavorative durature e non limitate ad
un periodo stagionale.
Osta a tale interpretazione la circostanza che nel lavoro
pubblico di lavoro a tempo indeterminato ne esiste una sola
tipologia.
Simile lettura della norma, utile sul piano sostanziale,
farebbe salve le assunzioni degli stagionali dalla
declaratoria di nullità contenuta nell'articolo 1, comma
424, della legge 190/2014, ma non copre del tutto dalle
responsabilità anche erariali derivanti dall'illegittimità
per violazione di legge eccepibile se dell'articolo 5, comma
3, si intendesse fornire esclusivamente l'interpretazione
restrittiva suggerita dal testo (anche se contrastante con
la logica e i fini complessivi della riforma delle
province).
Per rilanciare le assunzioni stagionali dei vigili, meglio
un pronunciamento chiaro del Parlamento, anche perché il
rischio è che le sezioni regionali della Corte dei conti si
pronuncino sul tema con ritardo e in modo contraddittorio
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
APPALTI:
Concessionari aperti al mercato. Più poteri
all'Autorità nazionale anti-corruzione.
Si apre alla Camera la discussione sulla
possibilità di affidare appalti di lavori e forniture.
Più mercato con gli appalti dei concessionari da affidare
sempre in gara e non più riservati alle società in house;
rafforzamento dei poteri dell'Autorità nazionale
anticorruzione; limitazioni all'appalto integrato, revisione
del sistema di qualificazione delle imprese basato su
criteri reputazionali; riforma degli affidamenti a
contraenti generali.
Sono questi alcuni dei temi più caldi sui quali alla Camera
(Atto
Camera n. 3194) si tornerà a discutere a breve dopo che il 18 giugno il
Senato ha approvato il disegno di legge delega per il
recepimento delle tre direttive europee sugli appalti
pubblici e sulle concessioni e per la riforma del codice dei
contratti pubblici e del relativo regolamento di attuazione.
In questi giorni si sta infatti avviando l'esame in sede
referente presso la Commissione ambiente, territorio e
lavori pubblici e i relatori designati sono Raffaella
Mariani (Pd) e Angelo Cera (Ap-Ncd-Udc) e il lavoro della
Commissione dovrebbe concludersi più rapidamente di quanto
avvenuto in Senato, dove un lungo ciclo di audizioni ha
consentito di sviscerare molti problemi e di arrivare al
varo d un testo ben più ricco di quello presentato dal
governo nell'agosto del 2014.
Forse anche troppo ricco, se
si pensa che sono 56 i criteri di delega che il legislatore
delegato dovrà rispettare, nonostante il cosiddetto «divieto
di gold-plating» (cioè di introduzione di norme di maggiore
livello di dettaglio di quelle europee) che, pur
espressamente indicato nel disegno di legge, potrebbe essere
violato proprio da una serie di indicazioni restrittive.
Vi
sono poi alcuni temi molto delicati, come quello della
disciplina degli appalti dei concessionari (autostradali in
primis), sui quali alla Camera si riaprirà la discussione
rispetto alla scelta di costringere tutti i concessionari
(attuali o di «nuova aggiudicazione») ad affidare a terzi,
con gara anche semplificata, lavori, forniture e servizi di
importo superiori a 150 mila euro. In questo modo i
concessionari non potrebbero più utilizzare società
controllate e dovrebbero mettere in gara tutti gli
interventi; sarebbero escluse dall'obbligo le concessioni in
finanza di progetto e quelle affidate con gara europea.
L'impatto della norma e la sua applicabilità riguarda
soprattutto, ma non solo, Autostrade per l'Italia, che
gestisce interventi copiosi in base a programmi di
investimento di rilievo che però finiscono in larga parte a
proprie società. Il dubbio di alcuni è se la norma possa
intervenire, con un periodo transitorio di dodici mesi,
rivoluzionando modalità organizzative e programmi di
investimento già avviati da tempo.
C'è poi il tema del rafforzamento dei poteri dell'Autorità
nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone che
diventa il vero regolatore del mercato con poteri di
indirizzo delle stazioni appaltanti tramite linee guida,
bandi-tipo e contratti-tipo «anche dotati di efficacia
vincolante, fatta salva l'impugnabilità degli atti». In
sostanza l'Authority dovrebbe implementare notevolmente la
già utile attività di regolazione, nel presupposto che
codice e regolamento siano molto più snelli di quelli
attuali. Non solo.
L'Anac dovrà gestire un albo dei
commissari di gara e fornire alle stazioni appaltanti
l'elenco da cui sorteggiare i commissari, compito non da
poco dal punto di vista della moralizzazione del settore; a
tale compito si affianca anche quello di gestione di un
apposito sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti
finalizzato a valutarne l'effettiva capacità tecnica e
organizzativa. Una grande sfida per l'Autorità, chiamata
anche a gestire l'introduzione di nuovi elementi di
qualificazione degli operatori economici che faranno
riferimento anche a criteri reputazionali e,
conseguentemente, anche al rating di legalità delle imprese
stesse.
Altro tema sul quale è probabile che si riaccenda la
discussione alla Camera è quello della limitazione
dell'appalto integrato (di progettazione costruzione)
introdotta al Senato: da settori vicini al mondo delle
imprese di costruzioni qualche malumore già serpeggia
rispetto all'ipotesi di usare l'appalto integrato soltanto
se la componente innovativa o tecnologica superi il 70% del
valore dell'appalto e alla regola generale di appaltare i
lavori sulla base del progetto esecutivo.
Maggiore chiarezza
andrà poi fatta sul tema della legge obiettivo: acclarato
che la direzione lavori non potrà più essere affidata al
contraente generale, occorrerà stabilire se e in che misura
l'affidamento a contraente generale, previsto a livello
europeo, dovrà essere mantenuto nel nostro ordinamento
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente, al via il modello unico per l’autorizzazione.
Imprese. «Aua» in vigore senza correttivi regionali.
Arriva, dopo
oltre due anni di attesa, il modello semplificato e
unificato per la richiesta di autorizzazione unica
ambientale (Aua). Il modello di istanza costituisce oggetto
dell’allegato al Dpcm 08.05.2015, pubblicato sulla
«Gazzetta Ufficiale» di martedì 30 giugno ed è in vigore
dalla stessa data.
Fino a oggi la domanda di Aua è stata presentata dalle
imprese usando moduli predisposti dalle Regioni e comunque,
nell’attesa del nuovo modello, sempre nel rispetto di quanto
previsto dall’articolo 4, comma 1, Dpr 59/2013, istitutivo
dell’Aua; quindi, alla domanda occorreva allegare documenti,
dichiarazioni e altre attestazioni previste dalle normative
di settore relative agli atti di comunicazione, notifica e
autorizzazione ricompresi dall’Aua.
Oggi, i documenti sono
sostituiti dalle dichiarazioni che l’impresa deve rendere
con il nuovo modello, dagli allegati che questo richiede e
dalle relazioni tecniche redatte usando gli allegati,
diversificati in ragione delle attività per le quali si
chiede l’autorizzazione e in ragione delle informazioni
richieste dalle discipline di settore.
L’articolo 1, comma 2, del Dpcm stabilisce che le Regioni
adeguano i contenuti del nuovo modello, in relazione alle
normative regionali di settore, «entro il 30.06.2015»
cioè entro la data in cui il Dpcm 08.05.2015 è stato
pubblicato in Gazzetta ed è entrato in vigore. Questa
coincidenza appare bizzarra (la Conferenza unificata aveva
raggiunto l’intesa fin dal 26 febbraio).
Inoltre, l’adeguamento regionale rischia di vanificare il
valore aggiunto del provvedimento che, mediante la potente
semplificazione dell’Aua, tende a porre tutte le imprese
nazionali sullo stesso piano. Tuttavia, anche in materia
ambientale, ogni Regione ama condursi secondo logiche
piuttosto individuali.
All’articolo 10, comma 3, Dpr 59/2013 si legge che «con
decreto… è adottato un modello semplificato e unificato per
la richiesta di autorizzazione unica ambientale». Dunque, la
norma considera il Dpcm come condizione di procedibilità
delle domande di Aua; pertanto, si ritiene che ora queste
domande, fino agli adeguamenti regionali, dovranno essere
presentate al Suap (Sportello unico attività produttive), in
base al nuovo modello anche se le singole Regioni hanno già
adottato i propri.
Il Suap è il referente unico per
l’impresa; riceve l’istanza e, previa verifica della sua
correttezza formale, la trasmette all’autorità competente.
Può indire la conferenza di servizi quando occorre
«acquisire intese, nulla osta, concerti o assensi di altre
Pa» (articolo 7, Dpr 160/2010). L’Aua ha una durata di 15
anni e il rinnovo va richiesto almeno 6 mesi prima della
scadenza.
L’Aua sostituisce i seguenti sette titoli
abilitativi: autorizzazione agli scarichi idrici;
comunicazione preventiva (articolo 112 del Dlgs 152/2006)
per l’uso agronomico di effluenti di allevamento, acque di
vegetazione dei frantoi oleari e acque reflue provenienti
dalle aziende; autorizzazione alle emissioni in atmosfera;
autorizzazione generale in deroga per gli impianti a
emissioni in atmosfera scarsamente rilevanti; comunicazione
o nulla osta per le emissioni sonore delle attività
produttive o edilizie; autorizzazione all’uso agricolo dei
fanghi di depurazione; comunicazioni e autorizzazioni per
autosmaltimento e recupero agevolato di rifiuti.
Sono
esclusi dall’Aua gli impianti soggetti ad Aia. Il gestore
può scegliere di non richiedere l’Aua se l’attività è
soggetta solo a comunicazione o ad autorizzazione generale
per le emissioni (articolo Il Sole 24 Ore del
02.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Da ieri nuove costruzioni solo con la fibra
ottica.
Da ieri gli edifici di nuova costruzione e quelli sottoposti
a ristrutturazione «importante» devono essere predisposti
per l'utilizzo della fibra ottica per le comunicazioni ad
alta velocità. Da tale data, tutti gli edifici di nuova
costruzione e quelli interessati da opere di
ristrutturazione profonda che richiedano il rilascio di un
permesso di costruire, devono essere equipaggiati di un
punto di accesso per l'infrastrutturazione digitale degli
edifici.
Tutto questo lo ha previsto l'articolo 6-ter, comma 2, della
legge 11.11.2014 n. 164 di conversione al decreto
legge 12.09.2014 n. 133 (c.d. sblocca Italia).
Per
infrastruttura fisica multiservizio interna all'edificio si
intende il complesso delle installazioni presenti
all'interno degli edifici contenenti reti di accesso cablate
in fibra ottica con terminazione fissa o senza fili che
permettono di fornire l'accesso ai servizi a banda
ultralarga e di connettere il punto di accesso dell'edificio
con il punto terminale di rete.
Tutti gli edifici di nuova
costruzione per i quali le domande di autorizzazione
edilizia sono presentate dopo il 01.07.2015 devono
essere equipaggiati di un punto di accesso.
Per punto di accesso si intende il punto fisico, situato
all'interno o all'esterno dell'edificio e accessibile alle
imprese autorizzate a fornire reti pubbliche di
comunicazione, che consente la connessione con
l'infrastruttura interna all'edificio predisposta per i
servizi di accesso in fibra ottica a banda ultralarga.
Gli
edifici equipaggiati in conformità al presente articolo
possono beneficiare, ai fini della cessione, dell'affitto o
della vendita dell'immobile, dell'etichetta volontaria e non
vincolante dell'edificio predisposto alla banda larga.
Gli
edifici equipaggiati in conformità a tali prescrizioni di infrastrutturazione
digitale possono beneficiare, ai fini della cessione,
dell'affitto o della vendita dell'immobile, dell'etichetta
volontaria e non vincolante di «edificio predisposto alla
banda larga»
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il governo vara tre decreti sull'efficienza degli
edifici.
Il governo va avanti sulla strada dell'efficienza energetica
degli edifici. Sono stati approvati tre provvedimenti che
completano il quadro.
Il primo decreto definisce le nuove modalità di calcolo
della prestazione energetica e i nuovi requisiti minimi di
efficienza per i nuovi edifici e quelli sottoposti a
ristrutturazione. Un secondo decreto adegua gli schemi di
relazione tecnica di progetto alle nuove norme, per nuove
costruzioni, ristrutturazioni e riqualificazioni
energetiche. Il terzo decreto aggiorna le linee guida per la
certificazione della prestazione energetica degli edifici
(Ape).
Il nuovo Ape sarà valido su tutto il territorio
nazionale. Dall'01/01/2021 i nuovi edifici e quelli sottoposti
a ristrutturazioni dovranno essere realizzati in modo tale
da ridurre al minimo i consumi coprendoli in buona parte con
fonti rinnovabili.
Per gli edifici pubblici la scadenza è
anticipata al 01/01/2019. I tre decreti, anticipati da ItaliaOggi
l'8 e il 23.06.2013, saranno pubblicati a breve in Gazzetta
ed entreranno in vigore l'01.10.2015
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Appalti, sei sfide per la riforma.
Buoni progetti e meno varianti, poteri Anac e codice
leggero, alt all’in house e rating.
Lavori pubblici. Dopo l’approvazione del Senato, il
riassetto parte alla Camera: i pilastri fra conferma e
ipotesi di integrazione.
Sono sei le
sfide principali che la riforma degli appalti approvata dal
Senato (e ora alla Camera -
Atto Camera n. 3194) deve vincere per cambiare
radicalmente il modello italiano delle opere pubbliche che
finora si è distinto per lo spreco di miliardi di euro senza
realizzare le opere, la forbice velenosa fra ribassi in gara
e recupero dei margini attraverso le varianti, una
progettazione assolutamente marginalizzata (anche con lo
scopo di rendere più facili le varianti), un basso livello
di concorrenza attraverso deroghe, trattative private, in
house dei concessionari e delle ex municipalizzate,
l’assenza di un’autorità nazionale capace di interpretare le
norme legislative e farle rispettare.
Costi alle stelle e
tempi mai certi, dunque. Si cambia? Molto dipende da queste
sei sfide.
Gold plating.
Il principio è sacrosanto ed è il “cuore”
della delega: vietato imporre norme ridondanti rispetto alla
Ue. Così si potrà varare un codice leggero, rompendo la
tradizione italiana “pesante”. Si discute se 56 criteri di
delega non creino le premesse per un codice pesante ma è
condivisibile l’opinione del relatore al Senato, Stefano
Esposito, quando dice che paletti chiari e robusti del
Parlamento aiuteranno il governo a sfoltire, riconoscendo
l’essenziale da ciò che non lo è.
Semmai, il rischio è che
il gold plating diventi l’arma pronta per l’uso per chi
vuole contestare punti fondamentali e qualificanti del nuovo
modello (magari polemizzando con la legge Merloni): dai
poteri di regolazione Anac alle limitazioni all’appalto
integrato.
Poteri regolatori Anac.
È una delle grandi novità della
riforma, forse quella più rilevante: l’Autorità
anticorruzione guidata da Raffaele Cantone diventa il perno
del sistema. Da vigilante anticorruzione in momenti
patologici, l’Anac diventa regolatore di mercato: poteri di
soft law che consentiranno di interpretare le norme di legge
e vigilare sulla loro applicazione, bandi-tipo per un
mercato più concorrenziale e trasparente.
La sfida è mettere
fine all’anarchia interpretatativa che ha moltiplicato il
contenzioso e ha trasformato il settore in un terreno di
scontro fra avvocati. Sfida nella sfida per l’Anac: la
regolazione funzionerà se avrà come obiettivo non solo la
legalità ma anche i risultati (cioè opere fatte). Una sfida
che Cantone ha chiara e per cui dovrà attrezzare un’Autorità
non sempre attrezzata.
Stop all’in house, lavori e servizi dei concessionari.
Al
momento, è la norma più rovente. Si introduce l’obbligo per
i concessionari, attuali e futuri, di affidare con gara
tutti i lavori e servizi. Le gare per i lavori a valle sono
escluse per chi ha vinto a monte la gara per la concessione.
Sono già stati sollevati dubbi interpretativi, in
particolare sull’applicabilità della norma ad Aspi (Atlantia),
il più grande concessionario autostradale italiano:
l’esclusione riguarda «le concessioni in essere affidate con
procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto
dell’Unione europea».
Paolo Costa, ministro dei Lavori
pubblici ai tempi della privatizzazione di Autostrade, ha
già ricordato che la gara per la privatizzazione fu
concordata con la Ue «in sostituzione di quella per
assegnare la concessione». Aspi finora non ha preso
posizione esplicita, mentre il relatore del provvedimento al
Senato Esposito ribadisce che il divieto di “in house” si
deve applicare anche ad Aspi. «Abbiamo chiesto sul punto un
parere alla commissione per le politiche Ue del Senato,
presieduta da Vannino Chiti –dice Esposito- e non ha
lasciato margini di dubbio: non è stata fatta nessuna gara
per la concessione di Aspi, quindi l’esclusione non scatta.
Mi stupisco di alcuni sindacati di categoria che si
comportano come corporazioni, magari in dissenso delle loro
stesse confederazioni». Non finirà qui, c’è da giurarlo.
Salvo che la Camera chiarisca esplicitamente, in un senso o
nell’altro.
Qualificazione e rating reputazionali.
Oggi un’impresa che
realizza bene i lavori nel rispetto dei tempi e dei costi
del contratto e un’altra impresa che li realizza con tempi e
costi estremamente dilatati sono sullo stesso piano per un
sistema di qualificazione formalistico. L’introduzione del
rating reputazionale è decisivo a questo proposito e il
fatto che sia messo nelle mani dell’Anac è una garanzia.
Dentro c’è anche il rating di legalità.
Si tratta di una
vera svolta per il sistema, a condizione che non si faccia
l’errore -che Bruxelles non perdona- di usare i rating reputazionali soggettivi per aumentare i punteggi di gara
oggettivi.
I rating possono servire soltanto a una
qualificazione più severa e più sostanziale (magari
lasciando qualche margine di discrezionalità alle stazioni
appaltanti). La giurisprudenza europea punisce invece la
confusione fra elementi soggettivi, buoni per la
qualificazione, ed elementi oggettivi (progetto, prezzo,
tempi) che il concorrente presenta in gara per fare
l’offerta migliore.
Progettazione e incentivo 2%.
Quella della progettazione è
la sfida numero uno, la sola che potrà davvero favorire la
ripresa del mercato dei lavori pubblici. Inutile illudersi:
senza un parco progetti di qualità, il settore resterà
bloccato e “ostaggio” delle varianti in corso d’opera. Molte
norme vanno in direzione giusta, dal rilancio dei concorsi
all’eliminazione del massimo ribasso per le gare di
progettazione alla necessità di avere un progetto esecutivo
per andare a gara di lavori.
Manca poi il colpo del ko:
eliminare l’incentivo del 2% per l’affidamento della
progettazione all’interno delle Pa. Fanno distorsione del
mercato, producono progetti scadenti, lasciano il problema
irrisolto con una logica da “parrocchietta” del singolo
dipartimento della singola Pa. Invece il problema stavolta
va affrontato alla radice. Bene la relatrice alla Camera,
Raffaella Mariani, che ha già detto di volerci mettere mano.
Le varianti.
Il nuovo modello si reggerà sulla capacità di
eliminare effettivamente l'eccesso di varianti in corso
d'opera e di mettere al centro del sistema il premio per chi
rispetta tempi e costi dati dal progetto e dal contratto
uscito dalla gara.
La norma della legge quadro sulle
varianti pone correttamente il criterio ma lascia aperti
varchi e dà al governo ampi margini discrezionali nel
recepimento. Per un giudizio definitivo bisognerà attendere
il testo attuativo del governo (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Taratura autovelox, il Viminale tira il freno.
Prime Indicazioni operative dopo la
dichiarazione d'incostituzionalità.
Anche dopo la sentenza della Consulta sulla taratura non
serve alcuna particolare certificazione ulteriore per
utilizzare i sistemi autovelox automatici in dotazione ai
servizi di polizia stradale che sono già controllati
periodicamente. Diversamente gli apparecchi di misurazione
della velocità dei veicoli utilizzati esclusivamente con la
presenza della pattuglia come il telelaser al momento non
possono essere utilizzati senza una verifica periodica di
funzionalità.
Quindi prima di fare ricorso conviene
verificare bene con quale sistema è stato immortalato il
trasgressore. E per questo i servizi di polizia stradale
sono a completa disposizione degli utenti. E in ogni caso
sarà necessaria una modifica di legge per adeguare bene la
portata della sentenza al codice stradale.
Sono queste in sintesi le prime indicazioni che ha fornito
il Ministero dell'Interno con la
nota 26.06.2015 n. 300/A/4745/15/144/5/20/5 di prot., conseguente
alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 45/6° del
codice stradale nella parte in cui non prevede che tutte le
apparecchiature autovelox siano sottoposte a verifiche
periodiche di funzionalità e taratura (sentenza n. 113 del
18.06.2015, si veda ItaliaOggi del 19 giugno scorso).
La
questione da chiarire (e che il Viminale si è guardato bene
dall'approfondire) riguarda la necessità di tarare o meno
tutti gli strumenti elettronici utilizzati per il controllo
della velocità dei veicoli presso un centro metrologico
autorizzato. Che al momento in Italia sono solo due. E con
quale frequenza.
A parere dell'organo di coordinamento dei
servizi di polizia stradale nonostante la sentenza della
Corte costituzionale gli organi di polizia stradale, nel
rispetto del dm 29.10.1997, sono tenuti a osservare le
modalità di impiego dei misuratori elettronici previste dai
manuali d'uso. La normativa vigente, specifica la circolare,
«non prevede un generalizzato obbligo di taratura anche se
la necessità di una verifica periodica è di norma prevista
nel manuale d'uso».
In pratica, prosegue il ministero
dell'interno, già da alcuni anni «i dispositivi utilizzati
per controllo da remoto o per la contestazione successiva
delle violazioni in materia di velocità sono sottoposti a
verifica iniziale o periodica presso un centro
opportunamente accreditato presso il snt, sistema nazionale
di taratura Accredia, ovvero presso lo stesso costruttore,
che risulti a ciò abilitato dalla certificazione di qualità
aziendale secondo le norme Iso 9001:2000 e seguenti».
In tal
senso gli strumenti denominati tutor, vergilius e autovelox
che sono in dotazione alla polizia stradale, prosegue il
Viminale, possono continuare a essere utilizzati normalmente
perché la sentenza della Consulta non impone alcuna
particolare novità. Quindi i tutor, gli impianti fissi della
rete ordinaria e gli autovelox anche se utilizzati con la
pattuglia non devono sottoporsi ad alcuna particolare
verifica oltre a quelle già richieste dai manuali o dai
decreti di omologazione.
Solo gli strumenti destinati a
essere impiegati con la presenza necessaria degli agenti,
conclude la circolare, non possono più essere utilizzati.
Almeno fin tanto che laser, telelaser e sistemi similari non
vengono sottoposti a una verifica tecnica
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambiente, si semplifica. Autorizzazione unica al
posto di 7 placet. Il modello in
Gazzetta Ufficiale. Le regioni dovranno adeguarsi.
Semplificazione al via per l'ambiente. Grazie
all'Autorizzazione unica ambientale che accorpa sette
diverse autorizzazioni (tra cui quelle relative allo
smaltimento di rifiuti, fanghi e acque reflue) e alla quale
tutte le regioni dovranno adeguare le proprie normative.
Essa durerà 15 anni dalla data di rilascio e dovrà essere
integrata con una dichiarazione di autocontrollo solo in
caso di scarichi pericolosi.
Il modello semplificato e unificato per la richiesta è stato
pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 (supplemento
ordinario n. 35), come allegato al decreto del dipartimento
della Funzione pubblica 08.05.2015.
Il provvedimento dà
attuazione al decreto del presidente della Repubblica 13.03.2013, n. 59 recante appunto il regolamento sulla
disciplina dell'autorizzazione unica ambientale e la
semplificazione di adempimenti amministrativi in materia
ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli
impianti non soggetti ad autorizzazione integrata
ambientale.
Si tratta del tassello decisivo per far
decollare la nuova autorizzazione, che tuttavia sopraggiunge
con qualche mese di ritardo sulla tabella di marcia, tanto
che alle regioni si chiede di adeguarvisi entro la data,
ormai trascorsa, del 30.06.2015. In particolare, le
regioni «adeguano i contenuti del modello adottato... in
relazione alle normative regionali di settore» e insieme con
gli enti locali ne garantiscono la massima diffusione.
In
base al dpr 59, i gestori degli impianti presentano domanda
di autorizzazione unica ambientale nel caso in cui siano
assoggettati al rilascio, alla formazione, al rinnovo o
all'aggiornamento di almeno uno dei seguenti titoli
abilitativi:
a) autorizzazione agli scarichi;
b)
comunicazione preventiva per l'utilizzazione agronomica
degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione
dei frantoi oleari e delle acque reflue provenienti dalle
aziende ivi previste;
c) autorizzazione alle emissioni in
atmosfera;
d) autorizzazione generale di cui all'articolo
272 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152;
e)
comunicazione o nulla osta di cui all'articolo 8, commi 4 o
comma 6, della legge 26.10.1995, n. 447;
f)
autorizzazione all'utilizzo dei fanghi derivanti dal
processo di depurazione in agricoltura di cui all'articolo 9
del decreto legislativo 27.01.1992, n. 99;
g)
comunicazioni in materia di rifiuti.
Possono richiedere l'Aua
le piccole e medie imprese come definite dal dm 18.04.2005 e gli impianti non soggetti alla disciplina dell'Aia
(Autorizzazione integrata ambientale).
La domanda deve
essere presentata allo Sportello unico per le attività
produttive (Suap) che la inoltra per via telematica
all'Autorità competente per la procedura
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ddl madia. P.a., diritto d'accesso potenziato.
Via libera all'unanimità in commissione Affari
costituzionali della camera a un emendamento al ddl delega
di riforma della pubblica amministrazione che prevede
l'introduzione in Italia del «Freedom of information act».
Si tratta di un corpus di norme che regolano il diritto dei
cittadini ad accedere alle informazioni raccolte dallo
Stato, che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha incluso
nel novero dei diritti fondamentali.
Il Freedom of
information act è stato inserito nella riforma Madia
(ddl
Atto Camera n. 3098) grazie
a un emendamento della deputata Pd Anna Ascani. Si
introdurranno specifiche disposizioni volte a consentire a
tutti i cittadini l'accesso gratuito (e non vincolato ad
interessi) ai dati delle pubbliche amministrazioni e delle
società partecipate, prevedendo sanzioni per le pubbliche
amministrazioni che non ottemperano alle prescrizioni della
normativa.
Il diritto all'accesso sarà tutelato prevedendo anche la
possibilità di ricorsi all'Autorità nazionale anticorruzione
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2015). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: Spese legali a parere vincolato.
Pa e giudici devono liquidare la somma stabilita
dall’avvocatura dello Stato.
Pubblico impiego. Le Sezioni Unite fissano i criteri di
rimborso delle parcelle professionali dei difensori.
Nel liquidare
le spese legali a favore del dipendente finito a processo,
la Pa deve attenersi alla valutazione di congruità espressa
dall’avvocatura dello Stato, valutazione che guiderà anche
il giudice dell’eventuale ricorso. Nessun ruolo in questa
partita può giocare il parere dell’Ordine forense
competente, poiché qui non si controverte sul compenso
professionale, bensì su un rimborso di spese legali già
anticipate.
Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la
sentenza 06.07.2015 n. 13861
depositata ieri, fanno chiarezza sui criteri per tenere
indenni i dipendenti pubblici sottoposti a procedimento
penale - e dal quale siano ovviamente usciti con
archiviazione o assoluzione nel merito.
La questione era
stata sollevata da un sottufficiale di Marina siciliano,
sottoposto negli anni ’90 a un processo per fatti inerenti
la funzione costatogli -quantomeno dal solo punto di vista
patrimoniale- circa 20 mila euro attuali. Il rimborso era
stato però decurtato esattamente di due terzi
dall’avvocatura erariale, cui si era rivolta
l’amministrazione della Marina prima della liquidazione,
“taglio” che aveva poi superato anche due gradi di giudizio
di merito davanti al giudice ordinario.
Tuttavia la stessa
avvocatura dello Stato aveva eccepito la competenza del
tribunale ordinario, eccezione portata al grado di
legittimità come controricorso incidentale -subordinato-
rispetto all’impugnazione del militare. La Terza civile
aveva infine rimesso il fascicolo alle Sezioni Unite che
ieri hanno sciolto il solo quesito principale respingendo
tutte le richieste del militare. A cominciare da un sospetto
(generico) di incostituzionalità sollevato dal ricorrente
circa la mancanza di un corrispondente parere -obbligatorio- di congruità dei Consigli dell’ordine nelle parcelle verso
i privati.
Per le Sezioni unite l’equiparazione è arbitraria
(rimborso da una parte, parcella dall’altra), e anche la
lamentazione circa una presunta diminutio dell’esercizio di
difesa (articolo 24 della Costituzione) è fuori luogo,
considerato tra l’altro che qui i parametri della Carta che
vengono in gioco sono semmai quelli legati alla «buona
amministrazione» (art. 81). In sostanza, argomenta la Corte,
le esigenze di finanza pubblica «impongono di non far carico
all’erario di oneri eccedenti quanto è necessario, e al
contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali
e i doveri giuridici che presidiano l’istituto del rimborso
spese».
Pertanto, se il vaglio del rimborso cadesse a carico
dei (soli) consigli forensi ciò «toglierebbe qualsiasi
rilevanza pubblicistica alla spesa e ai relativi doveri di
governo di essa», equiparando di fatto «il debito del
cliente verso il professionista e quello di protezione del
dipendente, che è a carico dello Stato». Equiparazione
improponibile, perché tra l’altro renderebbe il cliente
“arbitro” della spesa pubblica attraverso scelte di difesa
personali talvolta anche ultronee.
Proprio per questo
«prudentemente il legislatore ha previsto che (tali oneri,
ndr) siano vagliati, sotto il profilo della congruità,
dall’avvocatura dello Stato». Congruità, appunto, che
significa bilanciare il diritto di difesa del dipendente
della Pa con il ragionevole contenimento della spesa
pubblica per avvocati difensori privati.
In questo senso il criterio dello «strettamente necessario»
riferito alle spese di difesa deve essere inteso come
«contemperamento» e bilanciamento tra principi
costituzionali in parte confliggenti (articolo Il Sole 24 Ore del
07.07.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li
caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra
cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non
devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del
relativo procedimento.
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse
ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe
applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in
ambito provvedimentale vincolato e risultando che il
contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Secondo giurisprudenza l'ordinanza di demolizione di una
costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione.
---------------
Il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si
espresso nel senso che il provvedimento di demolizione di
una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora,
alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse.
3) Nel secondo motivo di ricorso parte ricorrente ha
lamentato la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, per
aver l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del
procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010,
n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse
ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe
applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito
provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto
dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
4) Privo di pregio è anche il terzo motivo di ricorso
incentrato sull’affermata circostanza che il provvedimento
gravato sarebbe stato adottato nei confronti del ricorrente
quale “probabile committente dei lavori”, in base quindi a
un mero giudizio probabilistico.
L’ordinanza di demolizione è stata rivolta contro il
ricorrente anche sulla base della non contestata circostanza
che lo stesso è proprietario dell’area e la qualità di
proprietario è sufficiente a radicare la legittimazione
passiva nei confronti dell’ordine di demolizione di opere
abusive.
Secondo giurisprudenza, infatti, l'ordinanza di demolizione
di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata
nei confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione (TAR Piemonte, I, 25.10.2006, n. 3836;
TAR Campania, Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR
Lazio, Roma, II, 02.05.2005, n. 3230; TAR Valle d'Aosta,
12.11.2003, n. 188).
5) Nel quarto motivo di ricorso parte ricorrente ha
lamentato il difetto di motivazione dell’atto gravato, in
quanto, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso
tra la realizzazione degli abusi (la struttura a suo dire
sarebbe stata inaugurata nel 2008) e l’adozione dell’ordine
di demolizione (del 30.03.2011), l’amministrazione avrebbe
dovuto indicare specifiche ragioni di interesse pubblico
alla rimozione degli abusi.
Il motivo è infondato.
In primo luogo parte ricorrente non ha dato prova della
risalenza delle opere.
In ogni caso, il Collegio aderisce a quel filone
giurisprudenziale che si espresso (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI,
04.10.2013,
n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di
una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora,
alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons.
Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV,
16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813;
Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato
Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V,
11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211) e non potendo l'interessato dolersi
del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n.
2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI,
21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV,
04.05.2012, n. 2592)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3489 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di
non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò
sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi”, senza, quindi, che “di esso occorra farsi
carico in sede di adozione del provvedimento recante la
sanzione della demolizione” e fermo “che eventuali e
comprovati pregiudizi arrecati contra ius (nel caso in sede
di esecuzione di ufficio) a parti non ricomprese fra le
opere da demolirsi in puntuale esecuzione dei contenuti del
provvedimento qui al vaglio costituirebbero un danno
ingiusto risarcibile a mezzo dei rimedi all’uopo previsti”.
9d- Né, infine, può conferirsi utile rilievo alla (peraltro
mera) notazione (pag. 6 del ricorso) in ordine ad una
possibile compromissione statica delle parti legittime per
effetto degli imposti abbattimenti.
Ferma l’assoluta genericità della “notazione”, non
sostanziante nemmeno una formale denuncia, in ogni caso per
consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di
non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò
sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania, questa settima
sezione, n. 2191 del 17.04.2015, sesta sezione, sentenze
n. 1122 del 20.02.2014, 07.11.2013, n. 4489 e 05.06.2013, n. 2903,
09.10.2013, n. 4821, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291,
02.05.2012, n.
2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sezione seconda, 13.04.2011, n. 702), senza, quindi, che “di esso occorra farsi
carico in sede di adozione del provvedimento recante la
sanzione della demolizione” (in tali espressi sensi, da
ultimo, Tar Campania, questa Settima Sezione, n. 2191 del 17.04.2015 cit. e, Sezione Seconda, n. 233 del 15.01.2015) e fermo “che eventuali e comprovati pregiudizi
arrecati contra ius (nel caso in sede di esecuzione di
ufficio) a parti non ricomprese fra le opere da demolirsi in
puntuale esecuzione dei contenuti del provvedimento qui al
vaglio costituirebbero un danno ingiusto risarcibile a mezzo
dei rimedi all’uopo previsti” (Tar Campania, ancora questa
settima sezione, n. 2191 del 17.04.2015 e, sesta
sezione, n. 6678 del 17.12.2014)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 29.06.2015 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’orientamento giurisprudenziale in
tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché
costante nel ritenere che:
- Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura
urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza
di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento;
- L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi
non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del
procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere
abusivo delle medesime;
- Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
- L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
La giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che
possono andare a detrimento della celerità e speditezza
dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che:
<<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come
modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in
capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di
dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che
l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va
interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A.
di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a
dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche
quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi
conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il
ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la
norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà
gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che,
anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il
contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe
mutato>>.
---------------
Dalla abusività di opere edilizie scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura, non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”.
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto
più quanto riferita alla repressione di abusi su beni
vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato.
Con la prima censura è dedotta la violazione dell’art. 7, L.
07.08.1990, n. 241 e succ. mod.; L. 28.01.1977, n. 10; L.
28.02.1985, n. 47; L. 23.12.1994, n. 724; art. 97 Cost.).
Secondo parti ricorrenti, nella specie, la comunicazione da
loro ricevuta, non sarebbe adeguatamente motivata con
gravissimo pregiudizio, in quanto non messi in condizione di
contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione,
con riguardo al suo ambito di incidenza, alla concreta
eseguibilità del provvedimento demolitorio (contenente al
suo interno madornali errori che dimostrerebbero una totale
disinformazione) ed alle connesse valutazioni delle sanzioni
pecuniarie alternative.
La censura è infondata.
Al riguardo deve rammentarsi che l’orientamento
giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del
procedimento è pressoché costante nel ritenere che: <<Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di
numero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n.
6425); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario
dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Pur con tali premesse, tuttavia, nella fattispecie in esame
il Comune -documentato dalla difesa resistente nella memoria
del 10.2.2014- ha ritenuto di dover comunicare ad entrambi
i ricorrenti l’avvio del procedimento (senza, però, che
questi ultimi abbiano presentare memorie), ma, alla stregua
della su riferita giurisprudenza, la censura è infondata
atteso che un’eventuale inadeguatezza della comunicazione
inviata, in ogni caso, non influisce sulla legittimità
dell’impugnata ordinanza.
Inoltre la giurisprudenza, onde evitare che inutili
formalismi che possono andare a detrimento della celerità e
speditezza dell’azione amministrativa è approdata al
convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241
del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale
ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato-
l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione
dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere
diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di
gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non
può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di
avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali
sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel
procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione
(che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A.
sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare
che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il
contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>> (C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
Orbene se, alla stregua di siffatta giurisprudenza,
dolendosi per la mancata comunicazione di avvio del
procedimento, il privato deve anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione, ciò a maggior ragione deve valere nel caso in
cui -come nella specie- la comunicazione in parola vi sia
stata (cfr. nota 21637 del 03.07.2013), ma il ricorrente
lamenta che essa non sarebbe adeguatamente motivata con
gravissimo pregiudizio nei suoi confronti, in quanto non
messo in condizione di contraddire sulla scelta
sanzionatoria dell’Amministrazione. Nella fattispecie, non
esplicitandosi lo specifico profilo di inadeguatezza della
comunicazione inviata, non si mette il giudice in condizione
di esaminare le ragioni per le quali la comunicazione de qua
non sarebbe funzionale allo scopo per il quale essa è
prevista.
---------------
Pertanto il
Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia
delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura, non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento
(cfr., per tutte, Cons. Stato - Sez. V, 28.04.2014, n.
2196).
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla
legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza
di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile,
previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza
tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>> (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed,
ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR
Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Niente reato se la Pa non fa partire l’iter.
Gare pubbliche. La turbata libertà di scelta del contraente
presuppone il procedimento amministrativo.
Il reato di turbata libertà di scelta del contraente non
scatta se la pubblica amministrazione non inizia il
procedimento amministrativo che si intendeva condizionare.
La Corte di
Cassazione -Sez. VI penale- con la
sentenza 25.06.2015 n. 26840, respinge il ricorso del
pubblico ministero contro le assoluzioni disposte
nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti truccati negli
ospedali Lombardi.
L’accusa era di associazione per
delinquere allo scopo di indurre la Pubblica amministrazione
a indire gare su misura “tarate” proprio sulle
caratteristiche dei prodotti propagandati dalle ditte.
Una
contestazione, mossa sulla base dell’articolo 353-bis, che
il giudice per l’udienza preliminare aveva lasciato cadere
perché la norma invocata presuppone l’esistenza perlomeno
dell’avvio di un procedimento amministrativo che dimostri
l’interesse della Pa a concludere l’”affare”. Circostanza
che, nel caso specifico, non si era concretizzata, forse
anche per l’avvio delle indagini che avevano fatto seguito
alle intercettazioni. La Suprema corte coglie l’occasione
per ricordare che il delitto previsto dall’articolo 353-bis
del codice penale è un reato di pericolo. L’azione censurata
consiste nel turbare con violenza, minaccia o doni il
procedimento amministrativo di formazione del bando, allo
scopo di condizionare la scelta del contraente.
I giudici
chiariscono che la norma punisce anche quando l’”affare” non
va in porto: le interferenze sul bando sono, infatti, il
fine perseguito per questo è evidente che il reato si
consuma indipendentemente dalla sua realizzazione. Per la
consumazione non serve che il bando venga effettivamente
modificato in modo da orientare la scelta del contraente, ma
è sufficiente che si verifichi un turbamento del
procedimento amministrativo in modo tale che la concreta
procedura di predisposizione del bando sia concretamente in
pericolo. Tutto questo ovviamente non può avvenire se l’iter
amministrativo non viene avviato affatto.
L’articolo è stato
introdotto dal legislatore con l’intenzione di dare
rilevanza penale alle condotte di turbamento messe in atto
prima della gara, anche per porre un argine all’orientamento
della giurisprudenza che, prevalentemente negava la loro offensività, anche in termini di tentativo in assenza del
presupposto della gara. Una scelta che allarga la tutela
prevista dall’articolo 353 del codice penale il quale fa
scattare la sanzione solo nel caso la gara venga indetta.
La Corte di Cassazione sottolinea che non tutte le condotte
che ricadono nel raggio d’azione dell’articolo 353-bis del
Cp consumate prima del procedimento amministrativo sono
irrilevanti dal punto di vista penale: lo sono solo quelle
che precedono un percorso mai avviato (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’interesse richiesto dall’art. 22 l. 241/1990 è
l’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento del quale è chiesto l'accesso.
---------------
L’amministrazione sostiene poi la genericità dell’istanza
che sarebbe finalizzata alternativamente a obbligare
l’amministrazione a svolgere indagini, ricerche o comunque
ad assumere atti risolvendosi in un controllo generalizzato
sul suo operato.
Simile prospettazione deve essere disattesa.
L’istanza è, infatti, finalizzata ad ottenere un preciso
documento detenuto dall’amministrazione. Né la genericità
dell’indicazione degli estremi del documento,
circostanza questa per certi versi inevitabile quando non si
conoscono gli estremi della protocollazione, può essere
confusa con la genericità dell’istanza.
La prima riguarda gli estremi identificativi di un singolo
atto, la seconda riguarda l’ambito della richiesta
finalizzata all’ostensione di una serie indeterminata di
atti.
Nessun controllo generalizzato può ipotizzarsi nella
richiesta di copia di una denuncia trattandosi di atto
specifico e ben determinato.
...
per l'annullamento
provvedimento n. 5761 del 24/02/2014 concernente diniego di
accesso agli atti avente ad oggetto segnalazione e/o
denuncia presentata dalla Cooperativa taxisti genovesi nei
confronti di Uber Italy s.r.l.
...
Il ricorso è fondato.
L’interesse richiesto dall’art. 22 l. 241/1990 è l’interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
del quale è chiesto l'accesso.
Non pare dubitabile l’interesse della ricorrente alla
conoscenza della denuncia quale che possa essere stato
l’esito della stessa.
La denuncia potrebbe condurre ad un procedimento
sanzionatorio onde la sussistenza dell’interesse sotto
specie del diritto di difesa.
Ma anche in ipotesi la denuncia venisse archiviata siccome
infondata sussisterebbe l’interesse della ricorrente a
conoscerla onde tutelare quantomeno la propria reputazione
commerciale nelle appropriate sedi anche giurisdizionali.
L’amministrazione sostiene poi la genericità dell’istanza
che sarebbe finalizzata alternativamente a obbligare
l’amministrazione a svolgere indagini, ricerche o comunque
ad assumere atti risolvendosi in un controllo generalizzato
sul suo operato.
Anche simile prospettazione deve essere disattesa.
L’istanza è, infatti, finalizzata ad ottenere un preciso
documento detenuto dall’amministrazione. Né la genericità
dell’indicazione degli estremi del documento, circostanza
questa per certi versi inevitabile quando non si conoscono
gli estremi della protocollazione, può essere confusa con la
genericità dell’istanza. La prima riguarda gli estremi
identificativi di un singolo atto, la seconda riguarda
l’ambito della richiesta finalizzata all’ostensione di una
serie indeterminata di atti.
Nessun controllo generalizzato può ipotizzarsi nella
richiesta di copia di una denuncia trattandosi di atto
specifico e ben determinato.
Da ultimo il Collegio rileva che l’amministrazione ben
avrebbe potuto differire l’accesso ma non avendolo fatto non
può opporre la pendenza di un procedimento di istruttorio
ovvero sanzionatorio
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 22.06.2015 n. 602 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Alberghi, sconti Tarsu aleatori. Le tariffe
agevolate non sono un diritto. Decide il comune.
Lo ha chiarito la Cassazione in una recente
sentenza. Il principio vale anche per la Tari
Il comune ai fini delle determinazione delle tariffe Tarsu è
libero di prevedere, se lo ritenga opportuno, una
differenziazione tra impresa alberghiera e civili
abitazioni, potendo stabilire misure agevolative per tali
attività commerciali, senza che vi sia alcun diritto per le
prime di vedersi attribuire una tariffa ridotta.
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione - Sez. V
civile (sentenza 19.06.2015 n. 12769), riguarda questo tema, che
riteniamo sia di interesse anche se, come sappiamo, la Tarsu
è stata ormai sostituita prima dalla Tares e poi,
attualmente dalla Tari, istituita con l'art. 1, comma 639,
della legge 147/2013.
La sentenza in commento si basa sul caso di un
concessionario alla riscossione di un comune siciliano che
aveva iscritto a ruolo un importo ai fini Tarsu nei
confronti di un'impresa alberghiera esercitata in quel
comune, senza prevedere alcuna agevolazione nei confronti di
essa.
I giudici di appello ritenevano infatti illegittima la
diversificazione delle tariffe tra esercizi alberghieri e
locali adibiti ad uso di civile abitazione, sostenendo che
l'ente impositore non potesse discriminare le due attività,
essendo fuori del potere discrezionale del comune.
Pur osservando i giudici di legittimità, il dlgs 05/02/1997,
n. 22, art. 49, comma 8, sancisce che la tariffa è
determinata dagli enti locali e pertanto appare, al
contrario di quanto sostenuto dalla sentenza di appello,
legittimo per un comune introdurre una tariffa differenziata
per fasce di utenza - quella domestica e quella non
domestica.
Come ricorda la Corte, è ben possibile che essendo
l'attività alberghiera ben distinta da quella privata delle
civili abitazioni, si possa considerare che l'importo della
tariffa relativa alla raccolta ed allo smaltimento dei
rifiuti possa essere ben diverso, e segnatamente maggiore
per gli alberghi, con ciò riconoscendo un maggior carico
tributario a carico di quest'ultimi.
Del resto, tale principio era già stato sancito da
precedenti sentenze della Corte di cassazione, (sentenza
sez. 5 n. 5722 del 12/03/2007), che pone il seguente
principio: «In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani (Tarsu), è legittima la delibera comunale di
approvazione del regolamento e delle relative tariffe, in
cui la categoria degli esercizi alberghieri venga distinta
da quella delle civili abitazioni, ed assoggettata ad una
tariffa notevolmente superiore a quella applicabile a queste
ultime: la maggiore capacità produttiva di un esercizio
alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce
infatti un dato di comune esperienza, emergente da un esame
comparato dei regolamenti comunali in materia, ed assunto
quale criterio di classificazione e valutazione quantitativa
della tariffa anche dal dlgs 05/02/1997, n. 22, senza che
assuma alcun rilievo il carattere stagionale dell'attività,
il quale può eventualmente dar luogo all'applicazione di
speciali riduzioni d'imposta, rimesse alla discrezionalità
dell'ente impositore.
Come annota la sentenza in commento, la legislazione a
favore delle imprese turistiche di cui all'art. 7, comma 4,
legge 135 del 2001 (legge quadro per il turismo) prevede:
«Fermi restando i limiti previsti dalla disciplina
comunitaria in materia di aiuti di stato alle imprese, alle
imprese turistiche sono estesi le agevolazioni, i
contributi, le sovvenzioni, gli incentivi e i benefici di
qualsiasi genere previsti dalle norme vigenti per
l'industria, così come definita dall'art. 17 del dlgs
31/03/1998, n. 112, nei limiti delle risorse finanziarie a
tale fine disponibili e in conformità ai criteri definiti
dalla normativa vigente».
Sul punto dell'agevolazione cennata, e qui è il punto
fondamentale, però l'impresa alberghiera non può vantare
alcun diritto, per il fatto che il potere di disciplinare a
favore delle imprese alberghiere, tariffe Tarsu agevolate,
rientra nella piena discrezionalità amministrativa del
Comune, che può anche non concedere alcuna agevolazione in
merito.
Per concludere, si può notare chiosando, che il principio
espresso in tema, possa mantenere la sua validità anche per
la Tari, dato che i commi 682-683 dell'art. 1 della legge
147/2013, prevedono che sia il comune attraverso un
regolamento a disciplinare eventuali riduzioni d'imposta per
alcune attività economiche
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'effetto sulla graduatoria definisce il controinteressato.
In materia di impugnazione di una graduatoria concorsuale
costituisce principio consolidato quello per cui rivestono
la qualità di controinteressati tutti i soggetti che
dall'accoglimento del ricorso, in relazione alle censure
dedotte, vedrebbero alterata la loro collocazione in
graduatoria, subendo effetti negativi perché scavalcati dal
ricorrente.
Lo hanno ribadito i giudici della V Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
18.06.2015 n. 3129.
Hanno altresì osservato i supremi giudici amministrativi che
in difetto di un presupposto processuale relativo alla non
corretta instaurazione del contraddittorio non ha valore
l'effetto devolutivo dell'appello, e la sentenza dovrebbe
quindi essere annullata, con rimessione della causa al primo
giudice per la necessaria chiamata in giudizio degli altri
controinteressati (si veda: Consiglio di stato, sez. VI, 24.02.2009, n. 1087), in applicazione dell'art. 105,
comma 1, del c.p.a., nel quale è stata trasfusa la
corrispondente regola contenuta nella legge n. 1034 del
1971.
Si aggiunge, altresì, che in base alla giurisprudenza già
formatasi nel vigore della legge n. 1034 del 1971, nonché in
base all'art. 95, commi 1, 3 e 5 (si vedano: Consiglio di
stato, sez. IV, 18.04.2012, n. 2276; sez. V, 30.08.2011, n. 4863) del c.p.a. (comunque rilevanti per il
principio tempus regit actum), va osservato che ragioni di
economia processuale e l'interesse ad una ragionevole durata
del processo possono far ritenere non necessario disporre
l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei
controinteressati non evocati nel giudizio di primo grado,
quando nel merito l'appello risulti infondato
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015). |
APPALTI: L'aggiudicatario dell'appalto controinteressato sub
condicione. Il nominativo del vincente e dell'escluso devono risultare
dallo stesso verbale.
L'aggiudicatario, anche se provvisorio, di una gara di
appalto indetta dalla p.a., assume la veste di
controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente
escluso, quando l'esclusione e l'aggiudicazione siano
avvenute contestualmente, nella stessa seduta di gara, di
modo che il nominativo dell'aggiudicatario risulti dal
medesimo verbale contenente l'esclusione.
Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. del Consiglio
di Stato con la
sentenza
18.06.2015 n. 3126.
Hanno infatti osservato i supremi giudici amministrativi (in
ossequio anche a un consolidato orientamento
giurisprudenziale, si vedano: Cons. stato, V, 27.10.2005, n. 6004; VI,
02.05.2011, n. 2580; V, 02.02.2012, n. 569; III, 01.02.2012, n. 493; da ultimo Cons.
stato, V, 27.10.2014 n. 5279), che il concorrente escluso può
rendersi così conto del fatto che la sua impugnativa avverso
l'esclusione, che è atto conclusivo del procedimento, incide
sulla posizione di altro soggetto il quale ha diritto a
potersi difendere per mantenere lo status quo allo stesso
favorevole, e ciò tenuto conto anche di esigenze di celerità
e speditezza del procedimento di gara.
È altresì opportuno evidenziare come la piena conoscenza
delle motivazioni dell'atto di esclusione vada ad implicare
la decorrenza del termine decadenziale a prescindere
dall'invio di una formale comunicazione ex art. 79, co. 5,
del codice dei contratti pubblici. I giudici del Consiglio
di stato hanno infatti condiviso l'indirizzo ermeneutico
secondo il quale l'art. 120, co. 5 cpa, non prevedendo forme
di comunicazione «esclusive» e «tassative», non incide sulle
regole processuali generali del processo amministrativo, con
precipuo riferimento alla possibilità che la piena
conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di
impugnazione, sia acquisita con forme diverse di quelle
dell'art. 79 cit..
Il medesimo Consiglio di stato ebbe modo di affermare in una
precedente pronuncia (Sez. V n. 3994/2012 del 09.07.2012)
che «la mera partecipazione di fatto alla gara non è
sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la
situazione legittimante costituita dall'intervento nel
procedimento selettivo deriva infatti, secondo l'Adunanza
plenaria (n. 4/2011), da una qualificazione di carattere
normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla
ritualità dell'ammissione del soggetto ricorrente alla
procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna
legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque
il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il
quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo
rimosso»
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.07.2015).
---------------
MASSIMA
Occorre quindi
focalizzare alcuni punti nodali ai fini della decisione:
a) la decorrenza del termine di impugnazione di un
provvedimento espresso verbalmente in sede di seduta
pubblica alla presenza di rappresentanti dell’impresa
appositamente muniti di deleghe;
b) il rapporto di contestualità tra esclusione e
aggiudicazione provvisoria e la posizione di eventuali
controinteressati.
Sul punto sub a) la Sezione richiama l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa che ha rilevato: “La
piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione
implica la decorrenza del termine decadenziale a prescindere
dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, co. 5,
del codice dei contratti pubblici. Merita, infatti,
condivisione l’indirizzo ermeneutico alla stregua del quale
l’art. 120 co. 5 c.p.a., non prevedendo forme di
comunicazione "esclusive" e "tassative", non incide sulle
regole processuali generali del processo amministrativo, con
precipuo riferimento alla possibilità che la piena
conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di
impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel caso di
specie, con forme diverse di quelle dell'art. 79 cit.“
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 28.02.2013, n.
1204; sez. III, 22.08.2012, n. 4593; sez. VI, 13.12.2011, n.
6531; V, 6284 del 27.12.2013) .
In ordine al punto b) l’orientamento giurisprudenziale a cui
la Sezione intende aderire è nel senso che
l'aggiudicatario, anche se provvisorio, di una gara di
appalto indetta dalla p.a., assume la veste di
controinteressato nel ricorso proposto dal concorrente
escluso, quando l'esclusione e l'aggiudicazione siano
avvenute contestualmente, nella stessa seduta di gara di
modo che il nominativo dell’aggiudicatario risulti dal
medesimo verbale contenente l’esclusione, potendo il
concorrente escluso rendersi così conto del fatto che la sua
impugnativa avverso l’esclusione, che è atto conclusivo del
procedimento, incide sulla posizione di altro soggetto il
quale ha diritto a potersi difendere per mantenere lo
status quo allo stesso favorevole, e ciò tenuto conto
anche di esigenze di celerità e speditezza del procedimento
di gara (Cons.
Stato, V, 27.10.2005, n. 6004; VI, 02.05.2011, n. 2580; V,
02.02.2012, n. 569; III, 01.02.2012, n. 493; da ultimo Cons.
Stato, V, 27.10.2014 n. 5279).
---------------
Quanto al motivo accolto dal Tar relativo alla illegittimità
della nomina della commissione di gara, ritiene la Sezione
che la ricorrente non avrebbe potuto impugnare con i secondi
motivi aggiunti tale nomina in quanto era suo onere proporre
tale contestazione tempestivamente, all’atto della
esclusione dalla procedura.
E ciò secondo due concomitanti profili.
Sotto un primo profilo è indubbio che la disposta esclusione
che determinava la definitiva estromissione dalla gara di
Sodexo si atteggiava come atto conclusivo del procedimento.
Ora se è ipotizzabile, secondo i noti principi (AP
n.4/2011), l’interesse strumentale del partecipante alla
gara alla riedizione della procedura, nel caso in esame,
venuta meno, per la inammissibilità del ricorso avverso la
esclusione (per mancata notifica al rti Vivenda), la
posizione del rti Sodexo di concorrente partecipante alla
gara e ricondotta la sua posizione a quella di concorrente
legittimamente escluso, lo stesso non poteva vantare alcuna
legittimazione a contestare con successivi motivi aggiunti
la composizione della commissione.
Ogni censura attinente alla nomina della commissione non
poteva che svolgersi unitamente alla estromissione dalla
gara, atto conclusivo del procedimento di partecipazione
alla gara.
Una volta escluso dalla gara, il rti Sodexo veniva a perdere
ogni posizione differenziata che lo potesse legittimare a
censurare la composizione della commissione.
Al riguardo questo Consiglio di Stato ha rilevato
testualmente: “…la situazione
legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura
costituisce la condizione necessaria per acquisire la
legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la
legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto
storico della iniziale partecipazione alla gara,
indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure
dall’accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla
gara può quindi essere impedita dall’inoppugnabilità
dell’atto di esclusione perché non impugnato, o perché
giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte
interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla
gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al
ricorso: la situazione legittimante costituita
dall’intervento nel procedimento selettivo deriva infatti,
secondo l’Adunanza Plenaria (n. 4/2011), da una
qualificazione di carattere normativo, che postula il
positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione
del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna
legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque
il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il
quale l’atto di esclusione non sia stato in qualche modo
rimosso” (Sez.
V n. 3994/2012 del 09.07.2012). |
APPALTI: La
turbativa d'asta non esclude dalla gara.
Cds sul rappresentante legale.
Non può essere esclusa da una gara l'impresa il cui
rappresentante legale è stato condannato con sentenza di
primo grado per turbativa d'asta; ai fini dell'esclusione
rileva la grave negligenza o malafede accertata nella fase
di esecuzione del contratto e non nella fase di trattativa
contrattuale.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con
la
sentenza 18.06.2015 n. 3107 che affronta il
tema della rilevanza di una condanna disposta nei confronti
del legale rappresentante di una impresa per turbativa d'
asta, riformando la sentenza di primo grado che aveva visto
legittimare l'esclusione del concorrente disposta dalla
stazione appaltante.
I giudici affermano in particolare che
non può ritenersi che dalla condanna in primo grado
riportata dal legale rappresentante dell'aggiudicataria per
il reato di turbativa d'asta possa desumersi che sia stata
integrata una delle ipotesi di cui all'art. 38, comma 1,
lettera f), dlgs n. 163/2006. La norma prevede infatti che
debbano essere esclusi dalla gara i soggetti che secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, abbiano
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che abbiano commesso un errore grave
nell'esercizio della loro attività professionale.
Per il Consiglio di stato la norma fa riferimento a
fattispecie pregresse maturate durante lo svolgimento della
prestazione affidata in relazione alle quali la stazione
appaltante può dedurre un deficit di diligenza o di
professionalità in capo al concorrente. In altre parole
l'operatività della causa di esclusione si estende anche a
prestazioni non espressamente dedotte in contratto, ma che
derivino dal rispetto dei principi di lealtà contrattuale
pur sempre nell'ambito dell'esecuzione delle prestazioni
assunte.
Soltanto in questi casi viene meno quell'elemento fiduciario
che deve connotare il successivo rapporto negoziale che
intercorrerà fra l'aggiudicatario del contratto e
l'amministrazione. Da ciò i giudici deducono che la norma
non può essere dilatata sino ad accogliere
un'interpretazione che abbraccia anche fattispecie nelle
quali il comportamento scorretto del concorrente si sia
manifestato in fase di trattativa (partecipazione alla
gara). Pertanto, stante il rigido principio di tassatività
che ispira le cause di esclusione il concorrente non andava
estromesso dalla gara
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2015).
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MASSIMA
10.1. Quanto alla prima doglianza non può condividersi
la soluzione prescelta dal primo giudice, sicché sotto
questo profilo l’appello principale merita di essere
accolto.
Occorre ribadire che la disciplina dei cui agli artt. 38 e
46, d.lgs. 163/2006, si applica nella fattispecie in quanto
la lett. D) del disciplinare di gara ed il punto III.2.1)
del bando di gara richiamano espressamente le norme in
questione alle quali l’amministrazione procedente ha quindi
inteso autovincolarsi.
Tanto premesso, però, non può ritenersi che dalla condanna
in primo grado riportata dal legale rappresentante
dell’aggiudicataria per il reato di turbativa d’asta possa
desumersi che sia stata integrata una delle ipotesi di cui
all’art. 38, comma 1, lettera f), d.lgs. n. 163/2006.
Occorre rammentare, infatti, che secondo la suddetta
disposizione sono esclusi dalle procedure di gara i soggetti
che: “secondo motivata valutazione della stazione
appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede
nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione
appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un
errore grave nell'esercizio della loro attività
professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da
parte della stazione appaltante”.
Secondo la giurisprudenza uniforme di questo Consiglio (cfr.
Cons. St., Sez. V, 15.06.2015, n. 2928; Sez. V, 23.03.2015,
n. 1567; Id., 03.12.2014, n. 5973),
la causa di esclusione in questione ha origine in fase di
esecuzione delle prestazioni negoziali, dal momento che
l’amministrazione da vicende pregresse che hanno
testimoniato un deficit di diligenza o di professionalità in
capo al concorrente desume il venir meno ab imis di
quell’elemento fiduciario che deve connotare il successivo
rapporto negoziale. Pertanto, stante il rigido principio di
tassatività che ispira le cause di esclusione la norma in
questione non può essere dilatata sino ad accogliere
un’interpretazione che abbraccia anche fattispecie nelle
quali il comportamento scorretto del concorrente si è
manifestato, come nella fattispecie, in fase di trattative.
Sotto questo profilo occorre rimarcare come la citazione da
parte del primo giudice, a sostegno dell’opposta tesi, del
precedente di questo Consiglio, Sez. V, 28.12.2011, n. 6951,
non sia corretta. Ed infatti, anche questa sentenza confina
l’operatività della causa di esclusione de qua
all’ambito dell’esecuzione contrattuale precisando che la
stessa si estende anche a prestazioni non espressamente
dedotte in contratto, ma che derivino dal rispetto dei
principi di lealtà contrattuale pur sempre nell’ambito
dell’esecuzione delle prestazioni assunte dai paciscenti in
sede di stipulazione.
La suddetta pronuncia, infatti, così motiva “Considera
al riguardo la Sezione che l'art. 38, comma 1), lettera f),
del d.lgs. n. 163/2006 è finalizzato a reprimere ogni
condotta atta a minare la legittima aspettativa della
stazione appaltante non solo ad una esecuzione a regola
d'arte dei lavori affidati al privato, ma anche alla
esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto secondo
il canone della buona fede in senso oggettivo. Ne consegue
che la regola della lealtà contrattuale nella fase di
esecuzione delle prestazioni implica, non solo il rispetto
del canone della esecuzione a regola d'arte della
prestazione dedotta in contratto, ma anche l'assunzione di
un contegno ispirato a correttezza e probità contrattuale”.
Il presente motivo di ricorso principale, riemerso in
seconde cure, deve, quindi, essere disatteso, meritando la
sentenza del TAR di essere riformata sul punto. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La circolare può essere disapplicata.
Il giudice smentisce il Ministero. Il collegio chiamato a
decidere la controversia sull'appalto ben può disapplicare
d'ufficio la circolare del Lavoro che ritiene contra legem e
invece risulta applicata nell'ambito dell'atto impugnato. E
ciò perché i documenti di prassi con i quali si interpreta
la legge dispiegano effetti soltanto all'interno
dell'amministrazione che le emette e non vincolano in alcun
modo l'autorità giudiziaria: sono infatti privi di valore
normativo.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.06.2015 n. 887, pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
L'impresa soccombente aveva
dalla sua parte l'interpello del ministero del Lavoro
secondo cui per il calcolo della quota di riserva un conto
sarebbe il personale tecnico-esecutivo e un altro quello
amministrativo e dunque «i requisiti previsti dalla legge»
non dovrebbero «sussistere in forma cumulativa».
L'interpretazione della circolare sarebbe avvalorata dalle
norme del contratto collettivo di categoria. Non è però
d'accordo il giudice, secondo cui la norma è chiara
nell'affermare che entrambe le categorie di personale
debbono essere computate per accertare se la società che
aspira all'appalto deve essere esonerata o no
dall'assunzione di lavoratori diversamente abili.
Il
collegio dunque disapplica la circolare, che è un atto senza
efficacia provvedimentale: è infatti diretto agli uffici
periferici dell'amministrazione e non può vincolare soggetti
estranei all'ente, magistrati compresi. Non resta che pagare
le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).
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MASSIMA
In primo luogo mette conto rilevare che
gli atti con i quali la pubblica amministrazione fornisce
l’interpretazione di fonti normative, soprattutto quelle di
rango legislativo, non costituiscono alcun vincolo ai fini
della loro applicazione da parte del Giudice.
È del tutto pacifico, infatti, che
le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed
uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé
valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante
per i soggetti estranei all'amministrazione, con la
conseguenza che una circolare amministrativa contra legem
può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice
investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione
(ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 21.06.2010, n.
3877; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 29.05.2014, n. 1323).
Nel caso che ne occupa pare indubbio che la locuzione, ossia
“personale tecnico-esecutivo e svolgente funzioni
amministrative” debba intendersi nel senso che entrambe
le categorie di personale debbono essere computate al fine
di accertare l’esonero dall’obbligo di assunzione di
personale appartenente alle categorie svantaggiate. Ciò sia
per il valore semantico, coordinativo e aggiuntivo, della
lettera “e”, utilizzata dal legislatore sia perché, sul
piano sistematico e logico, non si comprenderebbe il senso
di aggregare in un’unica categoria le distinte mansioni
svolte dal personale tecnico esecutivo e quello svolgente
funzioni amministrative.
Neppure potrebbe ritenersi che il concetto di strumentalità,
enucleato dalla citata circolare ministeriale, possa
intendersi restrittivamente, al fine di escludere dal
computo tutto il personale che svolge le mansioni proprie
che connotano l’oggetto sociale dell’impresa, giacché tale
interpretazione finirebbe con lo svuotare di contenuto
l’art. 3 della l. n. 68/1999 e le finalità di tutela sociale
che ne costituiscono la ratio, dal momento che, come
nel caso all’esame, anche imprese di grandi o medie
dimensioni verrebbero esonerate dall’obbligo in questione.
In definitiva, avendo la ricorrente dichiarato, in assenza
dei relativi presupposti, di non essere assoggettata
all’applicazione della normativa in materia di assunzione
obbligatoria di personale invalido, avrebbe dovuto essere
esclusa dalla gara.
Ne segue che il ricorso incidentale va accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Comuni silenziati sulle mega-antenne.
Sì alla mega-antenna per cellulari vicino a case, scuole,
ospedali e case di riposo. O meglio: non è il Comune che col
suo regolamento può intervenire sui valori di attenzione
invadendo il campo dello Stato, cui spetta legiferare in
materia.
Ecco allora che è accolto il ricorso del big delle
telecomunicazioni contro il regolamento dell'ente locale che
vieta di installare praticamente ovunque le stazioni
radio-base che servono a far funzionare i telefonini: gli
impianti sono invece «compatibili con qualsiasi destinazione
urbanistica».
È quanto emerge dalla
sentenza 29.05.2015 n. 503, pubblicata dal TAR
Calabria-Reggio Calabria.
Sbaglia la compagnia telefonica quando sostiene che
l'amministrazione locale avrebbe bisogno del placet della
Regione nell'adottare il regolamento con tutte le modifiche
che ha introdotto sul piano urbanistico. In realtà l'ente
locale ha i poteri per disciplinare il corretto insediamento
territoriale degli impianti.
Il punto è che con il regolamento di «minimizzazione»
il Comune non può spingersi a porre divieti generalizzati
che puntano a tutelare la popolazione amministrata dai campi
magnetici: spetta infatti al legislatore nazionale indicare
obiettivi di qualità per le installazioni degli impianti con
criteri unitari da applicare uniformemente in tutta Italia.
Bisogna invece consentire dappertutto la copertura della
telefonia mobile: le mega-antenne devono infatti ritenersi «infrastrutture
primarie e impianti di interesse generale». Spese
compensate
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2015).
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MASSIMA
2. Nel merito il ricorso è fondato.
3. Con riguardo al primo e al secondo motivo di ricorso si
osserva quanto segue.
La protezione delle esposizioni a campi elettrici, magnetici
ed elettromagnetici è regolamentata dalla legge quadro
22.02.2001, n. 36, che ha disciplinato in modo organico la
materia, fissandone i principi fondamentali ed indicando le
ripartizioni di competenza tra Stato ed Enti locali.
Quanto al riparto di attribuzioni, in particolare, viene
stabilito che:
a) allo Stato compete la determinazione dei limiti di
esposizione ai campi elettromagnetici, dei valori di
attenzione e degli obiettivi di qualità, (art. 4, l. n.
36/2001);
b) alle Regioni compete la definizione degli strumenti e
delle azioni per il raggiungimento degli obiettivi di
qualità consistenti in criteri localizzativi, standard
urbanistici, prescrizioni ed incentivazioni (art. 8, l. n.
36 cit.);
c) ai Comuni, infine, si riconosce l'esercizio di una
potestà regolamentare finalizzata ad assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici (art. 8, comma 6, l. n. 36 cit.).
Ciò premesso, nel caso di specie, non pare sussistere il
primo vizio lamentato in ricorso sotto il profilo della
carenza di potere regolamentare in capo al Comune.
Dal tenore del testo normativo emerge che
il potere de quo non è condizionato dalla previa
regolamentazione da parte della Regione, ma solo al rispetto
delle norme generali poste dall’ente territoriale maggiore,
laddove già immesse nell’ordinamento giuridico; traendo
viceversa il Comune la propria potestà normativa
direttamente dalla legge sopracitata.
Né sembra sussistere il secondo vizio dedotto, atteso che le
prescrizioni introdotte con l’atto impugnato presentano un
indubbio carattere di specialità rispetto alla
pianificazione urbanistica comunale, il cui procedimento non
doveva essere seguito, in disparte quanto appresso si dirà
circa gli ulteriori profili di illegittimità che inficiano
il regolamento gravato.
Deve invece rilevarsi come, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale (cfr., tra le altre, Corte
cost. n. 331/2003, n. 307/2003 e n. 336/2005 ), la
giurisprudenza amministrativa abbia più volte chiarito che
la potestà assegnata ai Comuni dall'art. 8, comma 6, l. cit.
prevede la possibilità che i Comuni adottino un regolamento
c.d. di minimizzazione finalizzato a garantire "il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e a
minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici"; tale potestà deve tradursi
nell'introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a
tutela di zone e beni di particolare pregio ambientale,
paesaggistico o storico-artistico (ovvero, per ciò che
riguarda la minimizzazione dell'esposizione della
popolazione ai campi elettromagnetici, nell'individuazione
di siti che per destinazione d'uso e qualità degli utenti
possano essere considerati sensibili alle immissioni
radioelettriche), senza trasformarsi in limitazioni alla
localizzazione degli impianti di telefonia mobile per intere
ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di
una plausibile ragione giustificativa
(cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 04.04.2013,
n. 1873; Cons. Stato, Sez. III, Sent., 19.03.2014, n. 1361).
La potestà regolamentare dei Comuni deve tradursi in regole
ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi
di rilievo pubblico, ma non può tradursi in un generalizzato
divieto di installazione in zone urbanistiche identificate.
Tale previsione verrebbe infatti a costituire una
inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente
cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti
di telefonia mobile, in contrasto con l'art. 4 l. n. 36 del
2001, che riserva alla competenza dello Stato la
determinazione, con criteri unitari, dei limiti di
esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di
qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il
territorio dello Stato
(così, Cons. Stato Sez. VI, Sent., 27.12.2010, n. 9414;
Cons. St., sez. VI, 08.09.2009, n. 5258).
Ed, infatti, è principio consolidato in giurisprudenza che "ai
sensi dell'art. 87, codice delle comunicazioni elettroniche
approvato con d.lgs. 01.08.2003, n. 259, il Comune non ha
alcuna potestà di introdurre un divieto generalizzato di
installazione delle stazioni radio base, né di introdurre
misure che, pur essendo di natura tipicamente urbanistica
(distanze, altezze, quote, ecc.) non siano funzionali al
governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela dai
rischi dell'elettromagnetismo che, ai sensi dell'art. 8, l.
22.02.2001 n. 36, rientra nelle esclusive attribuzioni
statali, non già in quelle comunali; di conseguenza la
localizzazione degli impianti nelle sole zone in cui il
regolamento li consente si pone in contrasto non solo con
l'esigenza di permettere la copertura del servizio di
telefonia mobile sull'intero territorio comunale, ma anche
con la loro natura di infrastrutture primarie e impianti di
interesse generale, posti al servizio della comunità e
quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica"
(ex multis TAR Molise 07.04.2011 n. 176; TAR Lazio
Latina Sez. I, Sent., 30/01/2015, n. 114).
Sotto tale specifico riguardo il gravato regolamento deve
essere ritenuto illegittimo e per l’effetto, già in forza di
tale vizio, il gravame si palesa nella sua fondatezza.
3. Pur tuttavia, il Collegio reputa opportuno scrutinare
specificamente le singole prescrizioni regolamentari,
censurate con il terzo motivo di ricorso, al fine di
evidenziarne i singoli profili di irregolarità.
a) Del tutto sproporzionata e irragionevole è, innanzitutto,
la prescrizione di cui all’art. 5, che esclude la
realizzazione degli impianti nelle zone residenziali, nelle
zone vincolate, nelle zone destinate ad insediamenti
produttivi, nei parchi e nelle zone adiacenti a scuole,
ospedali ed edifici di culto. Al riguardo
deve ribadirsi quanto già sopra esposto in ordine alla
inammissibilità dell’introduzione, in sede di
regolamentazione degli impianti di telefonia, di un divieto
generalizzato di installazione delle stazioni radio base,
ovvero di misure finalizzate alla sola tutela della salute
anziché funzionali al governo del territorio.
b), c) Illegittima ed irragionevole è l’imposizione del
rispetto delle distanze, come individuate dall’art. 8 e 6,
comma 4 del regolamento. Anche sotto tale profilo giova
ribadire il difetto di potere regolamentare intestato al
Comune; senza contare che, proprio la natura dei manufatti
in rilievo, non consente le limitazioni contemplate dal
regolamento, le quali, se applicate rigidamente, ne
impedirebbero di fatto la realizzazione.
d) Illegittima è altresì la prescrizione dell’art. 7, che
impone ai gestori del servizio di telefonia mobile di
presentare al Comune il piano annuale degli impianti da
realizzare, entro il 31 dicembre di ogni anno (termine che,
ai sensi dell’art. 12, comma 1, è prorogato per il primo
anno a 6 mesi dall’entrata in vigore del regolamento), in
quanto nessun obbligo di fornire annualmente al Comune il
piano delle installazioni è contemplato a carico dei gestori
dal d.lgs. n. 259/2003.
e) Illegittima è la previsione della necessità del permesso
di costruire di cui al D.P.R. n. 380/2001, che il
regolamento impone per la realizzazione degli impianti.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel
ritenere che per la installazione degli impianti in
questione non è affatto necessario il permesso di costruire,
essendo essa solo subordinata all'autorizzazione prevista
dall'art. 87 del T.U. 01.10.2003, n. 259 e non occorrendo,
al riguardo, il permesso di costruire ai sensi dell'art. 3,
lett. e), del T.U. 06.06.2001 n. 380
(ex plurimis, Cons. St., Sez. VI, 21.01.2005, n. 100;
Cons. St., sez. VI, 15.07.2010, n. 4557).
f) Del pari illegittima risulta essere la prescrizione di
cui all’art. 6, comma 2, che impone l’altezza massima delle
antenne e comma 3, che impone che tutti i manufatti
complementari siano interrati, in quanto trattasi di limiti
che non trovano alcun riscontro nella normativa statale e
appaiono, come rilevato dalla ricorrente, insuscettibili di
essere realizzati sotto il profilo tecnico.
g) Illegittima è altresì la previsione della competenza
concorrente dell’A.R.P.A. e della A.S.L. territorialmente
competente, in merito ai controlli sanitari, perché la
normativa statale demanda tali controlli alla sola A.R.P.A.
(art. 87, d.lgs. n. 259/2003 e art. 14, l. n. 36/2001).
h) Ne consegue l’illegittimità delle sanzioni, contemplate
dall’art. 11 per il caso di trasgressione; e ciò, sia per la
inesigibilità della condotta rispetto ad una prescrizione
illegittima, sia in ragione di una chiara violazione dei
principi di riserva di legge e di tassatività, di matrice
penalistica e, come noto, recepiti pure dalla L. 689/1981.
i) Infine, deve essere ritenuta, per l’effetto, illegittima
la imposta rilocalizzazione, come prevista nel regolamento
nella disposizione transitoria finale.
Da una parte, quanto esposto circa l’irregolarità delle
prescrizioni impugnate comporta la pedissequa
irragionevolezza dello stesso obbligo di rimozione;
dall’altra, l’imposizione de qua, entro lo stringente
termine previsto, si palesa gravemente violativa del
principio di proporzionalità e di affidamento, rispetto a
posizioni già acquisite nel rispetto della (all’epoca)
vigente normativa di riferimento.
4. Alla luce delle superiori considerazioni, il ricorso deve
essere accolto con conseguente annullamento degli atti
impugnati. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
Collegio, pur propendendo (quantomeno riguardo ad atti di
carattere generale soggetti a pubblicazione ex art. 124 TUEL)
per la linea interpretativa espressa dalla Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi in riferimento
all’art. 10 TUEL (“Il diritto di accesso agli atti degli
enti locali del cittadino-residente non è condizionato alla
titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione
giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale
diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare
finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del
cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e
alla realizzazione di un più immanente controllo sulla
legalità dell’azione amministrativa”, ritiene che il ricorso
debba essere respinto.
Deve infatti rilevarsi che l’istanza è riferita alla
“documentazione degli atti relativi al piano traffico,
all’istituzione delle strisce blu, dei decreti di nomina
degli ausiliari della sosta e delle convenzioni con i
gestori dei parcheggi a pagamento”, formulazione che ne
evidenzia la genericità e l’indeterminatezza in quanto non
chiarisce se con l’espressione “atti relativi a…” si
intendano i provvedimenti conclusivi dei rispettivi
procedimenti (e cioè le deliberazioni con cui il piano
traffico è stato approvato, le strisce blu sono state
istituite ecc.) o se invece si tratti di documentazione che
ha costituito la base per le determinazioni concretamente
assunte.
E’ evidente che la richiesta assume una diversa estensione a
seconda dell’una o dell’altra ipotesi e perciò il ricorrente
aveva l’onere di specificarne l’oggetto.
... per l'annullamento del silenzio-rifiuto serbato dal
Comune di Ortona sulla richiesta di accesso agli atti
amministrativi presentata dal ricorrente in data 22.12.2014.
...
2 – Il Collegio, pur propendendo (quantomeno riguardo ad
atti di carattere generale soggetti a pubblicazione ex art.
124 TUEL) per la linea interpretativa espressa dalla
Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi in
riferimento all’art. 10 TUEL (“Il diritto di accesso agli
atti degli enti locali del cittadino-residente non è
condizionato alla titolarità in capo al soggetto accedente
di una situazione giuridica differenziata, atteso che
l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione
di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e
diretta partecipazione del cittadino all’attività
amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un
più immanente controllo sulla legalità dell’azione
amministrativa”: cfr. seduta del 13.09.2011; in termini
analoghi i pareri 15.03, 10.05, 07.07, 27.09.2011;
23.10.2012), ritiene che il ricorso debba essere respinto.
Deve infatti rilevarsi che l’istanza è riferita alla “documentazione
degli atti relativi al piano traffico, all’istituzione delle
strisce blu, dei decreti di nomina degli ausiliari della
sosta e delle convenzioni con i gestori dei parcheggi a
pagamento”, formulazione che ne evidenzia la genericità
e l’indeterminatezza in quanto non chiarisce se con
l’espressione “atti relativi a…” si intendano i
provvedimenti conclusivi dei rispettivi procedimenti (e cioè
le deliberazioni con cui il piano traffico è stato
approvato, le strisce blu sono state istituite ecc.) o se
invece si tratti di documentazione che ha costituito la base
per le determinazioni concretamente assunte.
E’ evidente che la richiesta assume una diversa estensione a
seconda dell’una o dell’altra ipotesi e perciò il ricorrente
aveva l’onere di specificarne l’oggetto.
Il ricorso va quindi rigettato con assorbimento di ogni
altra questione
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.05.2015 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Gli
ingegneri juniores possono per il settore ingegneria civile
e ambientale porre in essere attività di concorso e
collaborazione alle attività di progettazione, direzione dei
lavori, stima e collaudo di opere edilizie comprese le opere
pubbliche.
Nel caso di specie, l’attività dell’ingegnere appartenente
alla sezione B) rientra chiaramente in tali ipotesi, in
quanto il progetto redatto si fonda su un progetto già posto
in essere dalla stazione appaltante e, quindi, si tratta di
un’opera di concorso o collaborazione ad un progettazione
relativa alle opere pubbliche.
La ratio della norma è chiaramente quella di evitare che un
ingegnere con una qualifica “ridotta” possa essere
affidatario della progettazione di complesse opere
pubbliche, ma tale perplessità non ricorre nel caso di
specie, in quanto l’intervento collaborativo dell’ingegnere
serve solo per fornite proposte migliorative che si
innestano sul progetto formato dalla stazione appaltante.
--- per l'annullamento della determina n. 23, prot. 296/15
con cui il Comune ha approvato gli atti di gara e disposto
l'aggiudicazione definitiva dei lavori di completamento ed
adeguamento della rete fognaria e dell'impianto di
depurazione.
...
Il ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento di
aggiudicazione definitiva perché l’impresa contro
interessata avrebbe dovuto essere esclusa in quanto gli
elaborati dell’offerta tecnica sono stati firmati da un
ingegnere “Junior” non abilitato per il progetto di
gara.
L’art. 46, co. 1, lett. a), n. 1 prevede che formano oggetto
dell'attività professionale degli iscritti alla sezione B
(ingegnere junior), ai sensi e per gli effetti di cui
all'articolo 1, comma 2:
a) per il settore "ingegneria civile e ambientale":
1) le attività basate sull'applicazione delle scienze, volte
al concorso e alla collaborazione alle attività di
progettazione, direzione dei lavori, stima e collaudo di
opere edilizie comprese le opere pubbliche;
2) la progettazione, la direzione dei lavori, la vigilanza,
la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni
civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate;
3) i rilievi diretti e strumentali sull'edilizia attuale e
storica e i rilievi geometrici di qualunque natura.
Nel caso di specie, la società ricorrente sostiene che il
progetto presentato dalla società controinteressata è stato
firmato da un ingegnere non abilitato, appartenente alla
Sezione B), mentre il progetto per cui è causa sarebbe di
competenza esclusiva degli ingegneri appartenenti alla
Sezione A.
Va premesso che il bando di gara ha ad oggetto il “Completamento
e adeguamento della rete fognaria e impianto di depurazione
da effettuarsi nel Comune di Lapo” e l’offerta
economicamente più vantaggiosa viene individuata in base
alla presentazione di progetti capaci di individuare
soluzioni tecniche migliorative della rete fognaria e
dell’impianto di depurazione.
Va, quindi, chiarito che il progetto contestato si innesta
su un progetto già redatto dalla stazione appaltante e che
nella sua intima struttura non può essere modificato, ma
solo migliorato.
Orbene, gli ingegneri juniores possono per il settore
ingegneria civile e ambientale porre in essere attività di
concorso e collaborazione alle attività di progettazione,
direzione dei lavori, stima e collaudo di opere edilizie
comprese le opere pubbliche.
Nel caso di specie, l’attività dell’ingegnere appartenente
alla sezione B) rientra chiaramente in tali ipotesi, in
quanto il progetto redatto si fonda su un progetto già posto
in essere dalla stazione appaltante e, quindi, si tratta di
un’opera di concorso o collaborazione ad un progettazione
relativa alle opere pubbliche.
La ratio della norma è chiaramente quella di evitare
che un ingegnere con una qualifica “ridotta” possa
essere affidatario della progettazione di complesse opere
pubbliche, ma tale perplessità non ricorre nel caso di
specie, in quanto l’intervento collaborativo dell’ingegnere
serve solo per fornite proposte migliorative che si
innestano sul progetto formato dalla stazione appaltante.
Peraltro, la società ricorrente non ha di certo provato che
le migliorie indicate nel progetto contestato diano vita a
soluzioni avanzate, innovative o sperimentali, di competenza
dell’ingegnere iscritto nella Sezione A, ben potendo un
progetto contenente soluzioni migliorative rispetto a quello
della stazione appaltante prevedere metodologie
standardizzate.
Ne deriva, pertanto, che il ricorso principale è infondato e
va rigettato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 14.04.2015 n. 797 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL
03.07.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA: Sullo
scomputo degli oo.uu. nell'ambito di piani attuativi.
Con riferimento al primo quesito, il collegio ritiene
che non vi sia alcuna motivazione basata
sull’interpretazione della modifica normativa che possa
consentire il riconoscimento di uno scomputo globale e
indifferenziato degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, a fronte dell'esecuzione diretta di opere di
urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria di
appartenenza, posto che le due categorie di opere sono
mantenute nella loro specificazione giuridica sia
nell’attuale tessuto normativo dell’art. 45 della legge
regionale n. 12/2015, sia nei commi 7 e 7-bis ed 8 del
d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia).
Analogamente, venendo al secondo quesito, si
ribadisce che la normativa attualmente
vigente non autorizza alcuna compensazione fra le due
categorie di opere di urbanizzazione, poiché la legge
regionale mantiene uno stringente vincolo di correlazione
fra la tipologia delle opere da realizzare ed il calcolo
degli oneri per cui accordare lo scomputo, con il correlato
obbligo giuridico per il privato di realizzare tutte le
opere di urbanizzazione primaria ed una quota parte delle
opere di urbanizzazione secondaria o di quelle necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi (art. 46, lett.
b, della citata legge regionale).
A sostegno di tale prospettazione, la
Sezione richiama la diversa natura giuridica ed utilità
pubblica sottese alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, secondo uno schema
contenuto nella legislazione nazionale (T.U. edilizia), le
cui norme rivestono carattere cogente in quanto attuatrici
di principi costituzionali di tutela del paesaggio, del
suolo, del territorio e dell’ambiente in cui si sviluppa la
persona umana e si proteggono gli imprescindibili valori di
vita e salute.
Quanto al terzo quesito, circa la facoltà di opzione
riservata all’ente locale, la disposizione
di legge regionale (art. 46, lett. b, della citata legge
regionale) appare chiara nella sua formulazione, laddove
consente in ogni caso all’amministrazione di richiedere,
anziché la diretta realizzazione delle opere a scomputo, il
pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle
opere di urbanizzazione previste nel piano attuativo e nella
convenzione urbanistica, comunque mai inferiore agli oneri
previsti dalla deliberazione comunale.
L’innovazione legislativa,
conseguente all’abrogazione dell’avverbio “distintamente”,
ha esclusivamente reso indifferenziata la sommatoria degli
oneri previsti per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, nel caso in cui essi
siano inferiori a quelli previsti. La differenza da
corrispondere all’amministrazione, deve tener conto della
somma globale, comprensiva delle quote riferibili ad
entrambe le classi di opere di urbanizzazione e non della
previsione distinta fra le due categorie di opere pubbliche
da realizzare.
--------------
Il sindaco del comune di Cantù (CO), mediante nota n. 42208
del 19.11.2014, ha posto un quesito in merito al
riconoscimento dello scomputo degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria in favore di privati lottizzanti in
attuazione di piani attuativi.
Nel testo del quesito il sindaco fa riferimento al
precedente
parere
15.09.2008 n. 66 di questa Sezione di
Controllo ed all’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2010
che ha modificato l’art. 46, comma 1, lett. b), della Legge
regionale n. 12/2005.
Tale modifica ha eliminato l’avverbio “distintamente”
dal contenuto normativo, per cui l’articolo in questione
attualmente recita: art. 46, comma 1, lett. b), "la
realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere devono essere
esattamente definite; ove la realizzazione delle opere
comporti oneri inferiori a quelli previsti per la
urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente
legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni
caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione
diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata
al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al
piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche
dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri
previsti dalla relativa deliberazione comunale".
Per quanto sopra esposto, il sindaco chiede:
1. se sia legittimo il riconoscimento di uno scomputo
globale e indifferenziato degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria a fronte dell'esecuzione diretta di
opere di urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria
di appartenenza se primarie o secondarie, pur avendo
funzioni e scopi diversi come contenuto nella ratio
della norma che distintamente definisce le due categorie di
opere di urbanizzazione;
2. se il maggior valore realizzato in una delle due
categorie di opere di urbanizzazione possa essere compensato
con il minor valore delle opere realizzate nell'altra;
3. se sia comunque rimessa alla facoltà del comune la
possibilità di richiedere la corresponsione della differenza
in caso di minor valore di una delle due categorie di opere
fino alla concorrenza dell'importo degli oneri risultante
dall'applicazione delle tariffe comunali per la specifica
categoria, pur se la somma complessiva delle opere previste
sia comunque superiore all'importo globale degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, o alternativamente ne
risulti preclusa la possibilità a fronte dell'intervenuta
modifica normativa regionale;
4. se sia possibile che il comune, nell'esercizio della
propria autonomia normativa, possa emanare una specifica
norma regolamentare che vieti la compensazione globale fra
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
...
Nel testo dell’interpello il sindaco fa riferimento al
precedente
parere
15.09.2008 n. 66
di questa Sezione, esplicitando quattro connessi quesiti
derivanti dal mutato quadro normativo in relazione
all’abrogazione dell’avverbio “distintamente”
prescritta dall’art. 21, comma 1, lett. g), della legge
regionale n. 7 del 2010, modificativa, in parte qua,
dell’art. 46, comma 1, lett. b), della Legge regionale n.
12/2005.
Orbene, con riferimento al primo quesito, il collegio
ritiene che non vi sia alcuna motivazione
basata sull’interpretazione della modifica normativa che
possa consentire il riconoscimento di uno scomputo globale e
indifferenziato degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, a fronte dell'esecuzione diretta di opere di
urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria di
appartenenza, posto che le due categorie di opere sono
mantenute nella loro specificazione giuridica sia
nell’attuale tessuto normativo dell’art. 45 della legge
regionale n. 12/2015, sia nei commi 7 e 7-bis ed 8 del
d.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia).
Analogamente, venendo al secondo quesito, si
ribadisce che la normativa attualmente
vigente non autorizza alcuna compensazione fra le due
categorie di opere di urbanizzazione, poiché la legge
regionale mantiene uno stringente vincolo di correlazione
fra la tipologia delle opere da realizzare ed il calcolo
degli oneri per cui accordare lo scomputo, con il correlato
obbligo giuridico per il privato di realizzare tutte le
opere di urbanizzazione primaria ed una quota parte delle
opere di urbanizzazione secondaria o di quelle necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi (art. 46, lett.
b, della citata legge regionale).
A sostegno di tale prospettazione, la
Sezione richiama la diversa natura giuridica ed utilità
pubblica sottese alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, secondo uno schema
contenuto nella legislazione nazionale (T.U. edilizia), le
cui norme rivestono carattere cogente in quanto attuatrici
di principi costituzionali di tutela del paesaggio, del
suolo, del territorio e dell’ambiente in cui si sviluppa la
persona umana e si proteggono gli imprescindibili valori di
vita e salute.
Quanto al terzo quesito, circa la facoltà di opzione
riservata all’ente locale, la disposizione
di legge regionale (art. 46, lett. b, della citata legge
regionale) appare chiara nella sua formulazione, laddove
consente in ogni caso all’amministrazione di richiedere,
anziché la diretta realizzazione delle opere a scomputo, il
pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle
opere di urbanizzazione previste nel piano attuativo e nella
convenzione urbanistica, comunque mai inferiore agli oneri
previsti dalla deliberazione comunale.
L’innovazione legislativa, conseguente
all’abrogazione dell’avverbio “distintamente”, ha
esclusivamente reso indifferenziata la sommatoria degli
oneri previsti per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, nel caso in cui essi
siano inferiori a quelli previsti. La differenza da
corrispondere all’amministrazione, deve tener conto della
somma globale, comprensiva delle quote riferibili ad
entrambe le classi di opere di urbanizzazione e non della
previsione distinta fra le due categorie di opere pubbliche
da realizzare.
Venendo, infine, al quarto quesito, il collegio
ritiene che la risposta ai primi due renda assorbita la
questione prospettata
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.02.2015 n. 83). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Si
vuole sapere quale normativa sia applicabile per
l’ipotesi in cui il privato parte della convenzione
di lottizzazione (c.d. attuatore) o titolare del
permesso di costruire abbia già assunto l’impegno
alla realizzazione a scomputo delle opere di
urbanizzazione prima dell’entrata in vigore del d.l.
n. 201/2011 ma non abbia ancora chiesto il rilascio
del permesso di costruire per tali opere
complementari, né sia stata ancora bandita la gara
per l’individuazione dell’appaltatore.
Detto in altri termini, si vuole sapere se il
sopraggiungere del d.l. n. 201/2011 tra il
perfezionarsi della convenzione edilizia ed il suo
adempimento (mediante procedura negoziata) possa o
meno rendere superflua la procedura negoziata stessa
per l’individuazione del soggetto tenuto alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione
accessorie ed imporre l’automatico affidamento dei
lavori allo stesso soggetto titolare della
convenzione medesima.
La novella introdotta dall’articolo 45 d.l. n.
210/2011 trova applicazione per le sole convenzioni
edilizie concluse successivamente la sua entrata in vigore
(conformemente, del resto, alla citata deliberazione
dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici).
Resta ferma, naturalmente, la facoltà del privato e
dell’amministrazione comunale di addivenire ad una modifica
concordata della convenzione edilizia già stipulata
conformemente alla nuova facoltà prevista dall’articolo 16,
comma 2-bis, del DPR 380/2001.
---------------
Il sindaco del comune di Samarate, con nota n. 4428 del
28.02.2012, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un
parere in ordine alle modalità di affidamento e
realizzazione delle opere di urbanizzazione connesse al
rilascio di un permesso di costruire.
In particolare, il comune di Samarate precisava quanto
segue:
- che con l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011 veniva
modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001 con
l’inserimento del comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito
degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque
denominati nonché degli interventi in diretta attuazione
dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta
delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di
importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma
1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del
territorio, è a carico del titolare del permesso di
costruire e non trova applicazione il decreto legislativo
12.04.2006, n. 163";
- che pertanto le opere di urbanizzazione di importo
inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria non devono
più essere affidate mediante procedura di gara ma sono
direttamente a carico del titolare del permesso di
costruire;
- che l’onere sopportato dal titolare del permesso di
costruire viene poi compensato con l’importo dovuto dallo
stesso al comune a titolo di contributo costo di costruzione
ex art. 16, comma 3, DPR 380/2001.
Sulla base di tali premesse, il Sindaco dell’ente locale
formulava il seguente duplice quesito:
a) se, qualora il privato “lottizzante” o titolare
del permesso di costruire abbia già assunto –con atto
convenzionale sottoscritto e registrato prima dell’entrata
in vigore del d.l. n. 201/2011– l’obbligo di eseguire, a
scomputo degli oneri, delle opere di urbanizzazione primaria
di importo inferiore alla soglia comunitaria con procedura
di gara, sia possibile procedere all’affido diretto delle
opere da realizzare ai sensi del novellato articolo 16,
comma 2-bis, d.p.r. 380/2001 oppure occorra rispettare la
previgente disciplina e procedere all’affidamento mediante
procedura negoziata, tenendo presente che ancora non è stata
presentata istanza per il rilascio del permesso di costruire
relativamente alle suddette opere di urbanizzazione;
b) la tipologia di atto amministrativo da adottare per
integrare l’originaria convenzione edilizia al fine di
affidare direttamente l’esecuzione al privato.
...
La questione proposta dal sindaco del comune di Samarate
concerne l’individuazione della normativa applicabile per la
realizzazione degli interventi di urbanizzazione connessi al
rilascio di un permesso di costruire (o alla conclusione di
un convenzione di lottizzazione) antecedentemente
l’intervento dell’articolo 45 del decreto legge n. 201/2011,
convertito nella legge n. 214/2011.
Con tale articolo è stato inserito, all’interno del corpo
dell’articolo 16 del D.P.R. n. 380/2001, il comma 2-bis a
mente del quale “nell'ambito degli strumenti attuativi e
degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli
interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico
generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione
primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia
di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di
trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del
titolare del permesso di costruire e non trova applicazione
il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163".
Tale normativa, come risulta dall’articolo 50 del d.l. n.
201/2011, è entrata in vigore il giorno stesso della
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e cioè il 06.12.2011.
Prima dell’intervento del citato decreto legge 201, il
combinato disposto degli artt. 32, comma 1, lett. F), 57,
comma 6, e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei
contratti) imponevano che l’individuazione del soggetto
incaricato della realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria di valore inferiore alla soglia comunitaria
avvenisse mediante una procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando di gara.
In seguito al citato intervento normativo, con riferimento
ai lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria viene
espressamente esclusa l’applicabilità del Codice dei
contratti e viene previsto (non come obbligo ma come
possibilità) l’automatico affidamento dei lavori al titolare
del permesso di costruire, lavori il cui costo andrà
compensato (c.d. scomputo) con gli oneri dovuti dal medesimo
titolare come contributo al costo di costruzione.
In tale successione normativa si pone il quesito proposto
dal comune di Samarate.
Si vuole sapere, in sintesi, quale normativa sia applicabile
per l’ipotesi in cui il privato parte della convenzione di
lottizzazione (c.d. attuatore) o titolare del permesso di
costruire abbia già assunto l’impegno alla realizzazione a
scomputo delle opere di urbanizzazione prima dell’entrata in
vigore del d.l. n. 201/2011 ma non abbia ancora chiesto il
rilascio del permesso di costruire per tali opere
complementari, né sia stata ancora bandita la gara per
l’individuazione dell’appaltatore.
Detto in altri termini, si vuole sapere se il sopraggiungere
del d.l. n. 201/2011 tra il perfezionarsi della convenzione
edilizia ed il suo adempimento (mediante procedura
negoziata) possa o meno rendere superflua la procedura
negoziata stessa per l’individuazione del soggetto tenuto
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione accessorie
ed imporre l’automatico affidamento dei lavori allo stesso
soggetto titolare della convenzione medesima.
Per la soluzione del quesito è opportuno ricordare quali
sono le modalità di realizzazione delle opere di
urbanizzazione “a scomputo”.
L’articolo 32, comma 1, lett. F), del d.lgs. n. 163/2006
prevede, per l’esecuzione “a scomputo” di opere di
urbanizzazione di importo superiore alla soglia comunitaria,
“sia l'ipotesi della gara indetta dal privato per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia l'ipotesi
dell'esercizio da parte dell'amministrazione delle funzioni
di stazione appaltante. Infatti, la norma dispone che
l'amministrazione che rilascia il permesso di costruire può
prevedere che il soggetto che richiede tale permesso
presenti con la relativa istanza un "progetto preliminare"
delle opere da eseguire, allegando lo schema del contratto
di appalto; sulla base di tale progetto l'amministrazione
potrà quindi indire una gara. In sostanza, quando il privato
sceglie di eseguire opere di urbanizzazione invece di pagare
i relativi oneri, si può prevedere che lo stesso gestisca
interamente la procedura ovvero che una parte del
procedimento (la gara) sia da gestita dall'amministrazione”
(determinazione
16.07.2009 n. 7 Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici).
Analoga alternativa riguardava, antecedentemente il d.l. n.
201/2011, i lavori di importo inferiore alla soglia
comunitaria.
Il rinvio operato dall'articolo 122, comma 8, all'articolo
32, richiama infatti le due distinte modalità di
realizzazione delle opere a scomputo previste dalla
norma citata ovvero:
a) il privato titolare del permesso di costruire applica per
la realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di
urbanizzazione la procedura prevista dall'articolo 57, comma
6, del Codice;
b) la pubblica amministrazione acquisisce dal privato
titolare del permesso di costruire il progetto preliminare e
bandisce la gara per la realizzazione delle opere a scomputo
degli oneri di urbanizzazione e procede applicando la
procedura prevista dall'articolo 57, comma 6, del Codice.
Dunque,
l’interesse del privato, titolare del permesso di
costruire o della convenzione di lottizzazione, alla
realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione
doveva trovare espressa previsione nell’atto convenzionale
stipulato con l’Amministrazione (nella stessa convenzione
edilizia o in altro atto a latere).
Tale atto convenzionale, appartenente alla categoria degli
accordi sostitutivi del provvedimento di cui all’articolo 11
legge n. 241/1990, vincola le parti conformemente ai
principi del codice civile.
Da esso sorge,
detto in altri termini,
l’obbligo per il privato (o per l’ente
locale) di dar corso alla procedura negoziata,
conformemente alla normativa in vigore al momento in
cui è sorto.
Il sopravvenire del decreto n. 201/2011 non
può quindi incidere, salvo diverso accordo delle parti, su
una fattispecie in cui diritti ed obblighi reciproci (sotto
il profilo esecutivo) sono già definiti contrattualmente. E’
chiaro, infatti, che diversamente opinando una delle parti
dell’accordo vedrebbe irrimediabilmente leso il suo
interesse consolidato nell’accordo pattizio.
Riassumendo quanto esposto, in relazione al quesito posto
dal comune di Samarate va quindi precisato che
la novella introdotta dall’articolo 45 d.l. n.
210/2011 troverà applicazione per le sole convenzioni
edilizie concluse successivamente la sua entrata in vigore
(conformemente, del resto, alla citata deliberazione
dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici).
Resta ferma, naturalmente, la facoltà del privato e
dell’amministrazione comunale di addivenire ad una modifica
concordata della convenzione edilizia già stipulata
conformemente alla nuova facoltà prevista dall’articolo 16,
comma 2-bis, del DPR 380/2001
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 14.03.2012 n. 64). |
IN EVIDENZA |
Come correttamente verificare gli spazi a parcheggio
(minimi di legge) sia come standard urbanistico
(Piani Attuativi) sia come legge Tognoli
(edificazione singola). |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 30.05.2013 davamo conto di un 1°
pronunciamento isolato (per quanto di nostra
conoscenza) che (condivisibilmente) sconfessava la
circolare esplicativa del Ministero dei Lavori
Pubblici 28.10.1967 n. 3210 nel senso di dover
conteggiare gli spazi a parcheggio
detraendo gli spazi di accesso e di manovra
nonché le porzioni non utilizzabili per forma o per
ridotte dimensioni.
Ebbene, abbiano trovato altre due sentenze che vanno in
tale direzione, con nuovi interessanti spunti di
riflessione ... buona lettura.
03.07.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sulla sottrazione
delle aree destinate obbligatoriamente a standard
nell’area in esame, previa trasformazione
compensativa tramite l’istituto della
monetizzazione.
Sulla illegittima sdemanializzazione di 77 parcheggi
vincolati ad uso pubblico e l’inserimento degli
stessi tra le aree comunali da vendere.
Il tema è stato oggetto di una
recente decisione. Invero, si è osservato come il
Consiglio di Stato ha già 'delineato una propria
linea interpretativa in merito al collegamento tra
interventi edilizi e ricerca degli standard
urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno,
ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio
collocato in area non fruibile, dove la fruibilità
era collegata non a valutazioni normative, ma
fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato
a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come
condizione necessaria per la migliore fruizione del
parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che
intendono comodamente accedervi con i propri mezzi
di locomozione per poi uscire con i relativi
acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da
collocare su tali mezzi’.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli
legati alla smaterializzazione degli standard,
sottolineando come ‘la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area’.
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’.
---------------
Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata
attenzione alla funzione stessa degli standard
urbanistici, intesi come indicatori minimi della
qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti
inderogabili di densità edilizia, di rapporti
spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di
aree destinate alla fruizione collettiva) e come
tali destinati a connettersi direttamente con le
aspettative dei fruitori dell’area interessata”, in
una situazione di stretta interdipendenza, tale da
determinare “la cogenza di questa stretta
correlazione spaziale tra intervento edilizio e
localizzazione dello standard”.
---------------
Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la
decisione di sopprimere un parcheggio pubblico
destinato a soddisfare la previsione di standard,
che come si è detto si localizzano funzionalmente
nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una
solo ipotetica e futura destinazione delle somme
conseguite a seguito della monetizzazione, ossia
della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo
evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso
di riscontrare l’assunto della fondamentale
indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia
l’impossibilità di privare un’area della sua
dotazione minima di standard senza una contestuale,
effettiva e funzionale indicazione di altre aree di
parcheggio idonee a salvaguardare il requisito
minimo ex lege.
In concreto, usando le categorie tradizionali
dell’atto amministrativo, l’indisponibilità del
bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per
garantire la legittimità dell’insediamento
realizzato, priva l’azione amministrativa di un suo
necessario presupposto, rendendola così illegittima.
4. - Il secondo sentiero contenzioso trae origine
dalla deliberazione del consiglio comunale n. 103
del 20.12.2011, con la quale il Comune decideva: a)
la sdemanializzazione e b) l’inserimento tra le aree
comunali da vendere (quali parcheggi privati) dei 77
posti auto interrati in questione.
Con successiva ordinanza l’amministrazione, in
previsione della vendita di tali posti auto, poneva
un divieto di sosta sugli stessi, riservandoli ad
alcuni cittadini che erano stati provvisoriamente
privati delle loro autorimesse da lavori eseguiti
per incarico del Comune.
Anche in questo caso, il condominio Europa ed alcuni
condomini con ricorso iscritto al numero di R.G. 447
del 2012 impugnavano tali atti. A fondamento di tale
ricorso i ricorrenti hanno dedotto le censure di:
violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990;
violazione dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 63
della L.R. n. 61/1985, non potendo le opere di
urbanizzazione essere dismesse in favore di privati;
violazione dell’art. 11 della L. n. 241/1990, per
violazione della convenzione sottoscritta per
l’urbanizzazione di una porzione del territorio
comunale; eccesso di potere per falsità del
presupposto, illogicità manifesta e travisamento dei
fatti.
La sentenza impugnata del TAR per il Veneto ha
respinto anche questa seconda serie di censure,
ritenendo corretto il procedimento utilizzato dal
Comune e dando vita alla seconda parte del
contenzioso in grado di appello.
4.1. - Le censure proposte dalle parti appellanti,
in relazione alla fase procedimentale di dismissione
dei parcheggi, sono fondate e vanno accolte.
In disparte la ricostruzione operata in termini di
nullità dei vizi gravanti sugli atti impugnati nel
primo profilo del terzo motivo (sulla quale basta
rinviare alla secolare elaborazione
giurisprudenziale sulle patologie degli atti
amministrativi per evidenziarne l’irrilevanza),
ritiene la Sezione di doversi soffermare sul secondo
profilo, dove viene lamentata la sottrazione delle
aree destinate obbligatoriamente a standard
nell’area in esame, previa trasformazione
compensativa tramite l’istituto della
monetizzazione.
Il primo giudice ha correttamente evidenziato la
linearità della procedura utilizzata, giungendo così
ad una considerazione conclusiva di legittimità
dell’azione amministrativa.
Ha dapprima valutato la correttezza motivazionale
della delibera gravata, in relazione alla
impossibilità di garantire una utilizzazione
collettiva di tali parcheggi, in ragione di una non
eliminabile promiscuità tra lo spazio pubblico e
quello dell’autorimessa privata (peraltro, derivante
dal comportamento degli stessi condomini che aveva
sempre occupato abusivamente i parcheggi pubblici,
come acclarata dalla sentenza della Corte di Appello
di Venezia n. 1858 del 12.07.2011).
Ha poi ritenuto del tutto compatibile il
procedimento di rinuncia alla servitù pubblica e
contestuale monetizzazione delle aree a standard per
i parcheggi situati all’interno del condominio con i
parametri urbanistici vincolanti posti dal D.M. 1444
del 1968 e dalle leggi regionali n. 61 del 1985 e 11
del 2004.
Su tale profilo, la Sezione ritiene però di
dissentire, stante il proprio orientamento
consolidato, dal quale non vi sono ragioni per
discostarsi, di senso opposto.
Il tema è stato oggetto di una recente decisione
(sentenza n. 616 del 10.02.2014, data peraltro
proprio in relazione di una sentenza dello stesso
TAR).
In quella occasione si è osservato come il Consiglio
di Stato ha già “delineato una propria linea
interpretativa in merito al collegamento tra
interventi edilizi e ricerca degli standard
urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno,
ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio
collocato in area non fruibile, dove la fruibilità
era collegata non a valutazioni normative, ma
fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato
a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come
condizione necessaria per la migliore fruizione del
parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che
intendono comodamente accedervi con i propri mezzi
di locomozione per poi uscire con i relativi
acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da
collocare su tali mezzi’ (Consiglio di Stato, sez.
V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno
evidenziato i pericoli legati alla
smaterializzazione degli standard, sottolineando
come ‘la monetizzazione degli standard urbanistici
non può essere considerata alla stregua di una
vicenda di carattere unicamente patrimoniale e
rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area’ (Consiglio di Stato, sez. IV,
ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’ (Consiglio
di Stato, sez. IV, 28.05.13 n. 2916).”
Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata
attenzione alla funzione stessa degli standard
urbanistici, intesi come indicatori minimi della
qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti
inderogabili di densità edilizia, di rapporti
spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di
aree destinate alla fruizione collettiva) e come
tali destinati a connettersi direttamente con le
aspettative dei fruitori dell’area interessata”,
in una situazione di stretta interdipendenza, tale
da determinare “la cogenza di questa stretta
correlazione spaziale tra intervento edilizio e
localizzazione dello standard”.
Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la
decisione di sopprimere un parcheggio pubblico
destinato a soddisfare la previsione di standard,
che come si è detto si localizzano funzionalmente
nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una
solo ipotetica e futura destinazione delle somme
conseguite a seguito della monetizzazione, ossia
della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo
evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso
di riscontrare l’assunto della fondamentale
indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia
l’impossibilità di privare un’area della sua
dotazione minima di standard senza una contestuale,
effettiva e funzionale indicazione di altre aree di
parcheggio idonee a salvaguardare il requisito
minimo ex lege. In concreto, usando le
categorie tradizionali dell’atto amministrativo,
l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che
questo è essenziale per garantire la legittimità
dell’insediamento realizzato, priva l’azione
amministrativa di un suo necessario presupposto,
rendendola così illegittima.
Per altro verso, appare non congruo il rinvio
all’art. 32, comma 2, della legge regionale Veneto
n. 11 del 23.04.2004 “Norme per il governo del
territorio e in materia di paesaggio”, atteso
che la detta disposizione (per cui “le aree per
servizi devono avere dimensione e caratteristiche
idonee alla loro funzione in conformità a quanto
previsto dal provvedimento della Giunta regionale di
cui all'articolo 46, comma 1, lettera b). Qualora
all'interno del PUA tali aree non siano reperibili,
o lo siano parzialmente, è consentita la loro
monetizzazione ovvero la compensazione ai sensi
dell'articolo 37”) è collegata a quella di cui
al comma 1 (“Il conseguimento dei rapporti di
dimensionamento dei piani urbanistici attuativi (PUA)
è assicurato mediante la cessione di aree o con
vincoli di destinazione d'uso pubblico”) e si
riferisce eventualmente alla sola fase di adozione e
approvazione del piano (in senso analogo, sebbene in
relazione alla diversa situazione lombarda,
Consiglio di Stato, sez. V, 17.09.2010 n. 6950 dove
si evidenzia l’incompatibilità della monetizzazione
“volta a supplire alla (presunta) carenza di
standard che non sia stata considerata in sede di
pianificazione attuativa”).
Tale circostanza si ripercuote quindi anche sul
regime giuridico della successiva procedura di
dismissione che ne è direttamente condizionata, in
senso ovviamente negativo, e in relazione alle
delibere emesse strumentalmente ad essa.
Conclusivamente, l’appello va accolto limitatamente
alle doglianze contenute nel ricorso di prime cure
n. 447 del 2012 e quindi limitatamente
all’annullamento della deliberazione del Consiglio
Comunale di San Donà di Piave del 20.12.2011 n. 103,
dove ha deciso la sdemanializzazione e l'inserimento
tra le aree comunali da vendere (quali parcheggi
privati) dei 77 posti auto interrati
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sul tema
del rispetto degli standard urbanistici laddove ha
nuovamente assunto di recente un rilievo centrale
nell’ambito degli strumenti di governo del
territorio.
Questo Giudice ha già delineato
una propria linea interpretativa in merito al
collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli
standard urbanistici e ha così assunto decisioni che
hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un
parcheggio collocato in area non fruibile, dove la
fruibilità era collegata non a valutazioni
normative, ma fattuali, poiché il “terreno
pertinenziale destinato a parcheggio deve
ragionevolmente intendersi come condizione
necessaria per la migliore fruizione del parcheggio
medesimo da parte di tutti coloro che intendono
comodamente accedervi con i propri mezzi di
locomozione per poi uscire con i relativi acquisti
più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su
tali mezzi”.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli
legati alla smaterializzazione degli standard,
sottolineando come “la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area”.
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
“le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexsies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”.
---------------
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla
giurisprudenza è quello di una marcata attenzione
alla funzione stessa degli standard urbanistici,
intesi come indicatori minimi della qualità
edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili
di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le
costruzioni e di disponibilità di aree destinate
alla fruizione collettiva) e come tali destinati a
connettersi direttamente con le aspettative dei
fruitori dell’area interessata.
Il che comporta come il criterio essenziale di
valorizzazione e di decisione sulla congruità dello
standard applicato sia quello della
funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle
esigenze della popolazione stanziata sul territorio,
che dovrà quindi essere posta in condizione di
godere, concretamente e non virtualmente, del
quantum di standard urbanistici garantiti dalla
disciplina urbanistica.
---------------
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come
la cogenza di questa stretta correlazione spaziale
tra intervento edilizio e localizzazione dello
standard, correlazione che connota il tema della
qualità edilizia, assuma una valenza ancora più
marcata nei casi in cui operino strumenti
urbanistici informati al principio della
perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad
attenuare gli impatti discriminatori della
pianificazione a zone, sia in funzione di un meno
oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei
suoli da destinare a finalità collettive, sia per
conseguire un’effettiva equità distributiva della
rendita fondiaria, si fonda su una serie di
strumenti operativi che, letti senza un congruo
ancoraggio con le necessità concrete cui si
riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali
pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree
di decollo, aree di atterraggio, pertinenze
indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et
similia) non deve fare dimenticare che lo scopo
della disciplina urbanistica non è la
massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma
la fruizione, privata o collettiva, delle aree in
modo pur sempre coerente con le aspettative di vita
della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina
nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più
necessaria dopo che la Corte costituzionale ha
affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121,
che le “previsioni, relative al trasferimento ed
alla cessione dei diritti edificatori, incidono
sulla materia «ordinamento civile», di competenza
esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la
presenza di discipline regionali emanate prima della
fissazione di un quadro organico statale - che non
si limiti all’aspetto della mera documentazione
della trascrizione dei diritti edificatori, di cui
all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70)
dimostra la viva necessità di una disamina concreta
delle diverse previsioni adottate negli strumenti
urbanistici, al fine di evitare che l’estrema
flessibilità delle soluzioni operative adottate
dalle singole Regioni si traduca in una lesione di
ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli
qualitativi omogenei di convivenza civile (e la
riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa
come “prestazione”, al parametro di cui all’art.
117, secondo comma, lettera m) della Costituzione,
proprio in rapporto a istituti di diritto
dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza
del giudice delle leggi).
---------------
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele
al suo orientamento che vede lo standard urbanistico
collocarsi spazialmente e funzionalmente in
prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine
di legare strettamente e indissolubilmente commoda e
incommoda della modificazione sul territorio.
2.1. - La doglianza è fondata e va accolta.
Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli
standard urbanistici abbia nuovamente assunto di
recente un rilievo centrale nell’ambito degli
strumenti di governo del territorio.
In questo senso, sono riscontrabili non solo
interventi normativi (peraltro organizzati secondo
prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema
della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un
lato -come nel caso della legge 14.01.2013, n. 10 “Norme
per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”- a
marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita
urbana e, dall’altro –come con l’introduzione
dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di
distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 06.06.2001
n. 380 “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia”–
a renderne al contrario più flessibile e meno
stringente il contenuto), ma anche prese di
posizione di questo Consiglio, che non si è
sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso
su un tema così rilevante nella costruzione del
tessuto urbanistico.
In particolare, questo Giudice ha già delineato una
propria linea interpretativa in merito al
collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli
standard urbanistici e ha così assunto decisioni che
hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un
parcheggio collocato in area non fruibile, dove la
fruibilità era collegata non a valutazioni
normative, ma fattuali, poiché il “terreno
pertinenziale destinato a parcheggio deve
ragionevolmente intendersi come condizione
necessaria per la migliore fruizione del parcheggio
medesimo da parte di tutti coloro che intendono
comodamente accedervi con i propri mezzi di
locomozione per poi uscire con i relativi acquisti
più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su
tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V,
25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno
evidenziato i pericoli legati alla
smaterializzazione degli standard, sottolineando
come “la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV,
ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
“le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexsies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.2013 n. 2916).
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla
giurisprudenza è quello di una marcata attenzione
alla funzione stessa degli standard urbanistici,
intesi come indicatori minimi della qualità
edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili
di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le
costruzioni e di disponibilità di aree destinate
alla fruizione collettiva) e come tali destinati a
connettersi direttamente con le aspettative dei
fruitori dell’area interessata.
Il che comporta, come già notato dalle decisioni che
precedono, come il criterio essenziale di
valorizzazione e di decisione sulla congruità dello
standard applicato sia quello della
funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle
esigenze della popolazione stanziata sul territorio,
che dovrà quindi essere posta in condizione di
godere, concretamente e non virtualmente, del
quantum di standard urbanistici garantiti dalla
disciplina urbanistica.
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come
la cogenza di questa stretta correlazione spaziale
tra intervento edilizio e localizzazione dello
standard, correlazione che connota il tema della
qualità edilizia, assuma una valenza ancora più
marcata nei casi in cui operino strumenti
urbanistici informati al principio della
perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad
attenuare gli impatti discriminatori della
pianificazione a zone, sia in funzione di un meno
oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei
suoli da destinare a finalità collettive, sia per
conseguire un’effettiva equità distributiva della
rendita fondiaria, si fonda su una serie di
strumenti operativi che, letti senza un congruo
ancoraggio con le necessità concrete cui si
riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali
pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree
di decollo, aree di atterraggio, pertinenze
indirette, trasferimenti di diritti volumetrici
et similia) non deve fare dimenticare che lo
scopo della disciplina urbanistica non è la
massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma
la fruizione, privata o collettiva, delle aree in
modo pur sempre coerente con le aspettative di vita
della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina
nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più
necessaria dopo che la Corte costituzionale ha
affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121,
che le “previsioni, relative al trasferimento ed
alla cessione dei diritti edificatori, incidono
sulla materia «ordinamento civile», di competenza
esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia
la presenza di discipline regionali emanate prima
della fissazione di un quadro organico statale - che
non si limiti all’aspetto della mera documentazione
della trascrizione dei diritti edificatori, di cui
all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70)
dimostra la viva necessità di una disamina concreta
delle diverse previsioni adottate negli strumenti
urbanistici, al fine di evitare che l’estrema
flessibilità delle soluzioni operative adottate
dalle singole Regioni si traduca in una lesione di
ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli
qualitativi omogenei di convivenza civile (e la
riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa
come “prestazione”, al parametro di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera m) della
Costituzione, proprio in rapporto a istituti di
diritto dell’edilizia, è chiarissima nella
giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte
Costituzionale, 27.06.2012 n. 164).
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele
al suo orientamento che vede lo standard urbanistico
collocarsi spazialmente e funzionalmente in
prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine
di legare strettamente e indissolubilmente
commoda e incommoda della modificazione
sul territorio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2014 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dall'01.01.2015
le progressioni economiche orizzontali sono sbloccate.
Le
limitazioni al trattamento economico individuale dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, aventi fonte nei
commi 1 e 21 dell’art. 9 del citato d.l. n. 78 del 2010,
hanno esaurito la propria efficacia precettiva il 31.12.2014. Tale conclusione è indirettamente
confermata dall’art. 1, comma 256, della legge di stabilità
per il 2015, n. 190 del 2014.
Ne consegue che, in forza
dell’ultima legge di stabilità, la protrazione delle
dinamiche di contenimento retributivo del personale delle
pubbliche amministrazioni ha interessato:
I) la procedura di
contrattazione collettiva (art. 9, comma 17, del d.l. n. 78
del 2010);
II) i meccanismi di adeguamento retributivo per
il personale non contrattualizzato (art. 9, comma 21, primo
periodo);
III) le progressione di carriera economiche per
il personale in regime di diritto pubblico, con le eccezioni
individuate all’epoca dal legislatore (art. 9, comma 21,
secondo periodo).
Tale conclusione risulta avvalorata dalla circolare del
Ministero dell’economia e delle finanze, Dipartimento della
Ragioneria Generale dello Stato, n. 8 del 02.02.2015, che,
nel paragrafo relativo al “Trattamento economico del
personale”, chiarisce quanto segue: “a partire dal
01.01.2015 cessano, tra l'altro, ferma restando
l'impossibilità di riconoscere arretrati per gli anni dal
2011 al 2014, gli effetti delle norme di contenimento delle
spese di personale previste dall'articolo 9 del decreto
legge n. 78/2010 concernenti il blocco dei trattamenti
economici individuali (commi 1 e 2) ed il blocco economico
delle progressioni di carriera comunque denominate e dei
passaggi tra le aree (comma 21, terzo e quarto periodo), già
oggetto della circolare n. 12/2011 del Dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato che, come noto, sono state
prorogate fino al 31.12.2014 dal D.P.R. 04.09.2013, n. 122”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Verdello ha formulato una
richiesta di parere in merito alla possibilità di
effettuare progressioni economiche orizzontali negli enti
locali.
In particolare, dopo aver ricostruito il quadro normativo,
si riferisce che “Secondo taluni commentatori, il blocco
non riguarderebbe le disposizioni del terzo e del quarto
periodo. In particolare quest'ultima è quella che riguarda
il personale contrattualizzato.
Al segretario comunale della scrivente amministrazione non
pare evidente, dalla lettura non facile della predetta
disposizione delle legge di stabilità, che il legislatore
abbia voluto "sbloccare" per l'anno 2015 le progressioni
economiche orizzontali negli enti locali, anzi una lettura
attenta della norma di stabilità autorizzerebbe l'
interpretazione contraria ovvero che anche per l'anno 2015,
sarebbe in vigore il blocco delle suddette progressioni
orizzontali in relazione alla situazione congiunturale della
finanza pubblica e agli impegni assunti in sede europea sul
contenimento della spesa pubblica in generale stante il
disposto del ridetto comma 256 della legge di stabilità che
ha prorogato le disposizioni evocate a tutto il 2015.
Si resta in attesa di conoscere una pronuncia di
orientamento generale al fine di attuare, in vista della
formazione dei contratti aziendali per l'anno in corso e
delle risorse spendibili in termini finanziari,
comportamenti in linea con le disposizioni di finanza
pubblica in tema di contenimento dei costi del personale
così come ribaditi nel citato art. 256.”
...
Il quesito verte sulla possibilità di effettuare
progressioni economiche orizzontali negli enti locali. In
particolare, dopo aver ricostruito il quadro normativo, si
riferisce che “Secondo taluni commentatori, il blocco non
riguarderebbe le disposizioni del terzo e del quarto
periodo. In particolare quest'ultima è quella che riguarda
il personale contrattualizzato.
Al segretario comunale della scrivente amministrazione non
pare evidente, dalla lettura non facile della predetta
disposizione delle legge di stabilità, che il legislatore
abbia voluto "sbloccare" per l'anno 2015 le progressioni
economiche orizzontali negli enti locali, anzi una lettura
attenta della norma di stabilità autorizzerebbe
l'interpretazione contraria ovvero che anche per l'anno
2015, sarebbe in vigore il blocco delle suddette
progressioni orizzontali in relazione alla situazione
congiunturale della finanza pubblica e agli impegni assunti
in sede europea sul contenimento della spesa pubblica in
generale stante il disposto del ridetto comma 256 della
legge di stabilità che ha prorogato le disposizioni evocate
a tutto il 2015.
Si resta in attesa di conoscere una pronuncia di
orientamento generale al fine di attuare, in vista della
formazione dei contratti aziendali per l'anno in corso e
delle risorse spendibili in termini finanziari,
comportamenti in linea con le disposizioni di finanza
pubblica in tema di contenimento dei costi del personale
così come ribaditi nel citato art. 256.”
Sul punto si è già espressa la Sezione Liguria, con
parere 01.04.2015 n. 29, che si richiama.
Il comma 1 dell’art. 9 del decreto-legge n. 78 del 2010,
convertito dalla legge n. 122 del 2010 dispone che “Per
gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico
complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica
dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio,
previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni
pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3
dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, non può
superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente
spettante per l’anno 2010, al netto degli effetti derivanti
da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi
incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati,
conseguimento di funzioni diverse in corso d’anno, fermo in
ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto
periodo, per le progressioni di carriera comunque
denominate, maternità, malattia, missioni svolte all’estero,
effettiva presenza in servizio, fatto salvo quanto previsto
dal comma 17, secondo periodo, e dall’articolo 8, comma 14”.
Il successivo comma 21 quanto segue: “I meccanismi di
adeguamento retributivo per il personale non
contrattualizzato di cui all'articolo 3, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, così come previsti
dall'articolo 24 della legge 23.12.1998, n. 448, non si
applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo
di acconto, e non danno comunque luogo a successivi
recuperi. Per le categorie di personale di cui all'articolo
3 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive
modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di
progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012
e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi
e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi
ordinamenti. Per il personale di cui all'articolo 3 del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive
modificazioni le progressioni di carriera comunque
denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e
2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini
esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato
le progressioni di carriera comunque denominate ed i
passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011,
2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini
esclusivamente giuridici”.
In seguito, l'art. 16, comma 1, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15.07.2011, n. 111, al fine di assicurare il
consolidamento delle misure di razionalizzazione e
contenimento della spesa in materia di pubblico impiego, ha
previsto la possibilità di disporre, con uno o più
regolamenti da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 2, della
legge 23.08.1988, n. 400, la proroga di un anno
dell'efficacia delle vigenti disposizioni in materia di
contenimento della spesa per il personale delle pubbliche
amministrazioni. In virtù della descritta autorizzazione
legislativa, l’art. 1, comma 1, lett. a), del DPR
04.09.2013, n. 122, ha disposto che “le disposizioni
recate dall'articolo 9, commi 1, 2 nella parte vigente,
2-bis e 21 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito,
con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, sono
prorogate fino al 31.12.2014”.
In base a quanto esposto, pertanto, le limitazioni al
trattamento economico individuale dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, aventi fonte nei commi 1 e 21
dell’art. 9 del citato d.l. n. 78 del 2010, hanno esaurito
la propria efficacia precettiva il 31.12.2014.
Tale conclusione è indirettamente confermata dall’art. 1,
comma 256, della legge di stabilità per il 2015, n. 190 del
2014, in base al quale “Le disposizioni recate
dall'articolo 9, comma 21, primo e secondo periodo, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, come
prorogate fino al 31.12.2014 dall'articolo 1, comma 1,
lettera a), del regolamento di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 04.09.2013, n. 122, sono ulteriormente
prorogate fino al 31.12.2015”.
In proposito, si ricorda che, sempre la legge di stabilità
per il 2015, al comma 254, ha prorogato al 2015 il blocco
della contrattazione collettiva nazionale disposto dal comma
17 del citato articolo 9, differendo, altresì, al 2018 la
determinazione dell’indennità di vacanza contrattuale
operata dall’art. 1, comma 452, della legge 27.12.2013, n.
147 (legge di stabilità 2014); cfr. art. 1, comma 255, della
legge 23.12.2014, n. 190 (legge di stabilità 2015).
Ne consegue che, in forza dell’ultima legge di stabilità, la
protrazione delle dinamiche di contenimento retributivo del
personale delle pubbliche amministrazioni ha interessato: I)
la procedura di contrattazione collettiva (art. 9, comma 17,
del d.l. n. 78 del 2010); II) i meccanismi di adeguamento
retributivo per il personale non contrattualizzato (art. 9,
comma 21, primo periodo); III) le progressione di carriera
economiche per il personale in regime di diritto pubblico,
con le eccezioni individuate all’epoca dal legislatore (art.
9, comma 21, secondo periodo).
Tale conclusione risulta avvalorata dalla circolare del
Ministero dell’economia e delle finanze, Dipartimento della
Ragioneria Generale dello Stato, n. 8 del 02.02.2015, che,
nel paragrafo relativo al “Trattamento economico del
personale”, chiarisce quanto segue: “a partire dal
01.01.2015 cessano, tra l'altro, ferma restando
l'impossibilità di riconoscere arretrati per gli anni dal
2011 al 2014, gli effetti delle norme di contenimento delle
spese di personale previste dall'articolo 9 del decreto
legge n. 78/2010 concernenti il blocco dei trattamenti
economici individuali (commi 1 e 2) ed il blocco economico
delle progressioni di carriera comunque denominate e dei
passaggi tra le aree (comma 21, terzo e quarto periodo), già
oggetto della circolare n. 12/2011 del Dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato che, come noto, sono state
prorogate fino al 31.12.2014 dal D.P.R. 04.09.2013, n. 122” (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.06.2015 n. 218). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di installazione.
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e),
DPR 380/2001 rispetto alla nozione di installazione è
indubitabile che non si richieda che l'opera sia "infissa".
Il riferimento contenuto nella norma anche a campers e case
mobili è inequivocabile in proposito; è sufficiente, quindi
che essa sia "stabilmente appoggiata".
Non si richiede, però, che tale appoggio debba
necessariamente avvenire al "suolo", sia perché la norma non
fa alcun espresso riferimento a tale parola (richiamando
piuttosto quella di "territorio"), sia perché una
interpretazione restrittiva porterebbe alla sostanziale
abrogazione della norma nella parte in cui fa riferimento ad
imbarcazioni, che, per la loro naturale destinazione,
galleggiano nelle acque e non sono appoggiate al suolo.
1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. Correttamente il Tribunale ha ritenuto sussistente il
fumus del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR
380/2001.
L'art. 3, comma 1, lett. e), DPR 380/2001 considera "interventi
di nuova costruzione" quelli di trasformazione edilizia
e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti, indicando poi, a titolo
esemplificativo, che debbono considerarsi tali "l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, camper, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee"
(e.5).
E' significativo, innanzitutto, che la
norma faccia riferimento a territorio, per tale dovendosi
considerare anche le acque territoriali. Del resto
l'indicazione, tra le opere che richiedono il permesso di
costruire per la loro installazione, delle imbarcazioni non
può che intendersi riferita al luogo di loro naturale "collocazione",
vale a dire le acque.
Lo stesso articolo 3 cit., inoltre, adopera le parole "fuori
terra o interrati" (lett. e.1) o "suolo inedificato"
(lett. e.3) quando intende riferirsi, in modo specifico,
alla "terraferma".
Sia pure a diverso fine (in tema di reati doganali) la
giurisprudenza di questa Corte, anche se ormai datata, ha
ritenuto commesso nel territorio dello Stato i reati in
questione anche quando una parte dell'azione o atti
costituenti tentativo o l'evento antigiuridico si siano
verificati sul lido o nell'acque ad esso adiacenti,
specificandosi che, quanto al mare territoriale, che l'art.
2 del codice della navigazione assoggetta alla sovranità
dello Stato, deve valere la regola sancita dall'art. 6 del
codice penale per la determinazione di reati che si
considerano commessi nel territorio dello Stato (cfr. Cass.
Sez. 3 n. 12069 del 10.05.1978, Pasqualino, Rv. 140088).
Non si è mai dubitato, infine, che la
realizzazione di un pontile galleggiante (ovviamente in
acqua) per l'ormeggio di imbarcazioni da diporto costituisca
un'ipotesi di utilizzazione dl demanio marittimo per
finalità turistiche e ricreative e sia quindi soggetta al
rilascio di concessione (ora permesso di costruire),
indipendentemente dal fatto che sia costituito o meno da una
struttura muraria
(Cass. sez. 3 n. 354 del 25.01.2000).
Anche la giurisprudenza amministrativa,
di recente (cfr. TAR Toscana, sez. 3 n. 252 del 14.02.2013)
ha ritenuto che, per la realizzazione di un pontile
galleggiante da mantenersi per quattro anni, fosse
necessario il permesso di costruire ai sensi dell'art. 3,
comma 1, lett. e).5, DPR 380/2001, non essendo sufficiente
disporre della sola concessione demaniale marittima la quale
consentiva soltanto l'occupazione dello specchio acqueo.
2.1. Posto che la norma, come si è chiarito in precedenza,
considera come interventi di nuova costruzione, necessitanti
quindi di permesso di costruire, anche quelli relativi ad
imbarcazioni "insistenti" in acque territoriali,
bisogna verificare se ricorrano gli altri requisiti
richiesti e cioè l'installazione, l'utilizzazione come
abitazioni o come ambienti di lavoro o depositi, ed il
soddisfacimento di esigenze non meramente temporanee.
Quanto alla nozione di installazione, è
indubitabile che non si richieda che l'opera sia "infissa".
Il riferimento contenuto nella norma anche a campers e case
mobili è inequivocabile in proposito; è sufficiente, quindi,
come del resto riconosce lo stesso ricorrente, che essa sia
"stabilmente appoggiata"
(pag. 5 ricorso).
Non si richiede, però, che tale appoggio
debba necessariamente avvenire al "suolo", sia perché la
norma non fa alcun espresso riferimento a tale parola
(richiamando piuttosto quella di "territorio"), sia
perché la prospettata interpretazione restrittiva porterebbe
alla sostanziale abrogazione della norma nella parte in cui
fa riferimento ad imbarcazioni, che, per la loro naturale
destinazione, galleggiano nelle acque e non sono appoggiate
al suolo. A meno di non ipotizzare, irragionevolmente ed in
contrasto con la lettera e la ratio della norma, che
il legislatore abbia inteso riferirsi ad imbarcazioni ...
trasportate a terra ed appoggiate al suolo. Senza alcuna
interpretazione in malam partem può, quindi, dirsi
che anche le imbarcazioni galleggianti in acqua debbano
considerarsi installate. Né si richiede che esse siano
agganciate in modo stabile al fondo marino o alla
terraferma.
E' pacifico, invero,
(cfr. ex multis Cass. sez. 3 n. 25015 del 23.03.2011,
Di Rocco, Rv. 250601) che sia configurabile
il reato di costruzione edilizia abusiva nell'ipotesi di
installazione, senza permesso di costruire, di strutture
mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure
montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una
destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze
abitative (la
fattispecie esaminata riguardava case prefabbricate munite
di ruote gommate).
2.2. Passando all'esame degli altri due requisiti, il
Tribunale, con motivazione adeguata ed immune da vizi,
ha ritenuto che le due imbarcazioni fossero, senza
dubbio alcuno, utilizzate "come strutture ricettive
paragonabili ad una attività alberghiera"
(ha fatto riferimento in proposito alla pubblicità sui siti
internet, con tariffe distinte per stagione)
e per il soddisfacimento di esigenze non certo
temporanee
(l'attività era stata avviata nel marzo aprile del 20213 ed
era proseguita fino al momento del sequestro avvenuto
l'11.04.2014). L'utilizzazione delle due
imbarcazioni per attività ricettiva presentava, quindi, i
caratteri della stabilità
(pag. 5 e ss. ord.).
Del tutto non pertinente è, pertanto, il richiamo al D.L.vo
18.07.2005 n. 171, che disciplina la normativa della nautica
da diporto, che prevede sì l'utilizzo da parte della
clientela di imbarcazioni ormeggiate e ferme, ma per
esigenze temporanee e non come abitazioni o strutture
ricettive con il carattere della stabilità.
3. Quanto al fumus del reato di cui all'art. 181
D.L.vo 42/2004, è orientamento costante di questa Corte che
esso sia reato di pericolo e, pertanto, per la
configurabilità dell'illecito, non è necessario un effettivo
pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal novero
delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si
prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i
valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici.
Nelle zone paesisticamente vincolate è pertanto inibita, in
assenza della prescritta autorizzazione, ogni modificazione
dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi
opera non soltanto edilizia, ma di qualunque genere (ad
eccezione degli interventi consistenti: nella manutenzione,
ordinaria e straordinaria, nel consolidamento statico o
restauro conservativo, purché non alterino lo stato dei
luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici; nell'esercizio
dell'attività agro-silvo-pastorale, che non comporti
alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie od altre opere civili e sempre che si
tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto
idrogeologico; nel taglio colturale, forestazione,
riforestazione, opere di bonifica, antincendio e di
conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste,
purché previsti ed autorizzati in base alle norme vigenti in
materia) -cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 16574
del 06.03.2007.
E non c'è dubbio che l'installazione in
forma stabile e con destinazione ad attività ricettiva di
due imbarcazioni in zona gravata da vincolo paesaggistico
ambientale, dichiarata di notevole interesse pubblico con
Decreto ministeriale 01.08.1985, senza nulla osta
ambientale, integri il fumus del reato.
4. Quanto, infine, all'elemento soggettivo, si assume dal
ricorrente che esso sarebbe escluso dall'avvenuto rilascio
da parte dl Magistrato delle acque di Venezia di
autorizzazione ad ormeggiare le imbarcazioni. Tale
autorizzazione riguardava, però, soltanto l'ormeggio e non
poteva certo esaurire ogni altra autorizzazione per la
destinazione delle imbarcazioni, in modo stabile, ad una
utilizzazione diversa da quella loro propria, come ha
correttamente rilevato il Tribunale.
Ed è proprio tale "snaturamento" della destinazione
ad escludere la configurabilità della dedotta buona fede.
Secondo la giurisprudenza assolutamente
prevalente di questa Corte,
non menzionando l'art. 321 cod. proc. pen. gli indizi di
colpevolezza fra le condizioni di applicabilità del
sequestro e non potendosi ritenere applicabile l'art. 273
stesso codice (dettato per le misure cautelari personali e
non richiamato per quelle reali), ai fini
dell'adozione del sequestro è sufficiente la presenza del
fumus boni iuris e cioè l'ipotizzabilità del reato
(cfr. ex multis Cass. pen. sez. 1 n. 2396 del
25.03.1997).
Sicché "il sequestro preventivo è
legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti
sussistere in concreto, e indipendentemente
dall'accertamento della sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza a carico dell'agente o della sussistenza
dell'elemento psicologico, atteso che la verifica di tali
elementi è estranea all'adozione della misura cautelare
reale" (cfr.
ex multis Cass. pen. Sez. 6 n. 10618 del 23.02.2010;
conf. sez. 1 n. 15298 del 04.04.2006).
Anche la parte minoritaria della giurisprudenza che "valorizza"
l'elemento psicologico, ritiene che, nella valutazione del
fumus commissi delicti, possa rilevare l'eventuale
difetto dell'elemento soggettivo del reato, sempre che
sia di "immediata evidenza" (cfr. Cass. pen. sez. 2
n. 2808 del 02.10.2008) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.02.2015 n. 7047 -
tratto da www.lexambiente.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Provincia (di Bergamo) - Nulla-osta per mobilità
- Stracciato il protocollo d'intesa siglato con i sindacati
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 30.06.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Decreto
Enti Locali - Misure in materia di Polizia Provinciale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 24.06.2015). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Relazione
legge 10, ecco il decreto con i nuovi modelli.
Pubblicato il decreto con i nuovi modelli di relazione
tecnica di progetto ex legge 10, differenziati per tipologie
di intervento e obbligatori dal primo ottobre 2015 (continua
...) (02.07.2015 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decreti attuazione legge 90 e nuovo APE 2015, ecco i testi
completi di allegati in PDF.
Decreti attuazione legge 90 e nuovo APE 2015, pubblicati i
decreti requisiti minimi, linee guida e relazione tecnica.
Ecco i documenti completi di allegati in formato PDF
(continua ...) (02.07.2015 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nuovo APE, ecco i casi di esclusione.
Quali sono gli immobili per cui non è necessario redigere
l’APE? Ecco tutti i casi di esclusione previsti dal DM linee
guida nuovo APE (continua ...) (02.07.2015
- link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 27 del 03.07.2015, "Gli
orti di Lombardia. Disposizioni in materia di orti
didattici, sociali periurbani, urbani e collettivi" (L.R.
01.07.2015 n. 18). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 03.07.2015, "Ammissione
all’iscrizione al registro delle Unioni di Comuni lombarde e
approvazione elenco Unioni di Comuni lombarde, in attuazione
della d.g.r. n. 3304 del 27.03.2015 «Istituzione del
registro delle Unioni di Comuni lombarde ai sensi dell’art.
20-bis della legge regionale n. 19 del 27.06.2008 «Riordino
delle Comunità montane della Lombardia, disciplina delle
Unioni di Comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato
di funzioni e servizi comunali» e approvazione delle
modalità di iscrizione e cancellazione»" (decreto
D.S. 30.06.2015 n. 5463). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 02.07.2015, "Approvazione
del programma energetico ambientale regionale (PEAR)
integrato con la valutazione ambientale strategica (VAS)" (deliberazione
G.R. 12.06.2015 n. 3706). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 dell'01.07.2015, "Modalità
di pubblicazione dell’avviso al pubblico dell’istanza di
verifica di assoggettabilità e delle decisioni dell’autorità
competente in materia di VIA e di verifica di
assoggettabilità" (comunicato
regionale 25.06.2015 n. 97). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 30.06.2015 n. 149 "Adozione del modello semplificato
e unificato per la richiesta di autorizzazione unica
ambientale - AUA" (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica,
decreto 08.05.2015). |
APPALTI:
G.U. 27.06.2015 n. 147 "Modifiche al regolamento
sull’esercizio della funzione di componimento delle
controversie di cui all’articolo 6, comma 7, lettera n), del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (A.N.AC.,
delibera 27.05.2015). |
APPALTI:
G.U. 27.06.2015 n. 147 "Regolamento sull’esercizio della
funzione di componimento delle controversie di cui
all’articolo 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163" (A.N.AC.,
regolamento 27.05.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Durc on-line – Circolari Inps e Inail -
Procedura - Sintesi delle principali indicazioni (ANCE
di Bergamo,
circolare 02.07.2015 n. 146). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Criteri per l’attivazione di servizi di
rimozione e smaltimento dell’amianto (ANCE di Bergamo,
circolare 26.06.2015 n. 143). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto Interministeriale 30.01.2015 -
Semplificazione in materia di Documento Unico di Regolarità
Contributiva (DURC) (INPS,
circolare 26.06.2015 n. 126 - link a
www.inps.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Semplificazioni in materia di documento unico di
regolarità contributiva. Decreto interministeriale
30.01.2015 (INAIL,
circolare
26.06.2015 n. 61). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: DURC On-Line – prime note operative (Cassa
Edile di Bergamo e Edilcassa Artigiana di Bergamo,
nota 25.06.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
Art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni - risposta al quesito relativo all'art. 96
del d.lgs. n. 81/2008
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 24.06.2015 n. 3/2015).
----
Cantieri temporanei o mobili, obbligo piano operativo di
sicurezza (Pos) per le imprese familiari.
Commissione interpelli: nei Pos delle
imprese familiari non potrà essere indicata la figura del
responsabile del servizio di prevenzione e protezione né i
nominativi degli addetti al primo soccorso.
Le imprese familiari, qualora si trovino a operare in un
cantiere temporaneo o mobile, sono tenute a redigere il
piano operativo di sicurezza (Pos).
Lo ha precisato la commissione per gli interpelli sulla
sicurezza del lavoro con la nota n. 3 del 24.06.2015, in
risposta ai quesiti dell'Ugl/sanità.
La Commissione sottolinea che ai fini dell'applicazione
della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi
di lavoro alle imprese familiari, di cui all'art. 230-bis
del codice civile, si applica l'art. 21 del D.Lgs. n.
81/2008.
CANTIERI TEMPORANEI O MOBILI, OBBLIGO DI
REDIGERE IL POS.
Qualora le suddette imprese si trovino ad operare
all'interno di un cantiere temporaneo o mobile, ai sensi
dell'art. 89, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 81/2008, esse
devono redigere il piano operativo di sicurezza, come
previsto dall'art. 96 del decreto.
Tale piano deve riportare tutti i punti dell'allegato XV, ad
eccezione dei punti i cui obblighi non trovano applicazione
nella fattispecie delle imprese familiari. A titolo
meramente esemplificativo e non esaustivo, nei Pos delle
imprese familiari non potrà essere indicata la figura del
responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i
nominativi degli addetti al primo soccorso, ecc. (commento
tratto da www.casaeclima.com). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
Art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed
integrazioni - risposta al quesito inerente i criteri
generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione,
integrazione e apposizione della segnaletica stradale
destinata alle attività lavorative che si svolgono in
presenza di traffico veicolare (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 23.06.2015 n. 1/2015).
---------------
Lavori stradali, i criteri di sicurezza per la segnaletica.
Le risposte del Ministero del lavoro all'istanza di
interpello di Federcoordinatori.
Con l'interpello n. 1/2015 del 23.06.2015, il Ministero del
Lavoro fornisce chiarimenti in merito al quesito, avanzato
da Federcoordinatori, sui criteri generali di sicurezza
relativi alle procedure di revisione, integrazione e
apposizione della segnaletica stradale destinata alle
attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico
veicolare.
L'articolo 100 del D.Lgs. 81/2008 è relativo a un documento,
il Piano di Sicurezza e Coordinamento, redatto dal
Coordinatore per la Sicurezza. In nessuna parte del decreto
si fa riferimento alla figura del Coordinatore per la
Sicurezza se non per questo art. 100. Federcoordinatori ha
chiesto “come dunque può rientrare la figura del
Coordinatore in questo decreto? Quali i suoi compiti
previsti? Considerato come i precedenti articoli siano
riferiti tutti ad obblighi è possibile che invece che
all'art. 100 si volesse far riferimento all'art. 90 relativo
agli obblighi in capo al Committente o Responsabile dei
lavori, tra cui vi è quello relativo la nomina del
Coordinatore che redige il PSC?”.
LA RISPOSTA DEL MINISTERO.
L'allegato XV, punto 2.2.1. lett. b), del d.lgs. 81/2008
stabilisce che il piano di sicurezza e
coordinamento, di competenza del coordinatore per la
sicurezza, deve contenere “l'analisi degli elementi
essenziali di cui all'allegato XV.2, in relazione: […]
all'eventuale presenza di fattori esterni che comportano
rischi per il cantiere, con particolare attenzione ai lavori
stradali ed autostradali al fine di garantire la sicurezza e
la salute dei lavoratori impiegati nei confronti dei rischi
derivanti dal traffico circostante”.
Pertanto, il riferimento all'art. 100 del d.lgs. n. 81/2008
non appare inappropriato con le finalità del decreto in
oggetto, anche se tra le figure elencate per l'applicazione
dei criteri minimi, non è espressamente menzionato il
coordinatore per la sicurezza
(commento tratto da www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Disposizioni in materia di tutela del patrimonio
architettonico e di mitigazione del rischio sismico
(MIBACT,
circolare 30.04.2015 n. 15). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
D. Di Rosa,
DURC on-line, come verificare la regolarità contributiva
(01.07.2015 - tratto da www.ipsoa.it).
---------------
Parte oggi la nuova gestione del Documento Unico di
regolarità contributiva. Il DURC può essere richiesto
esclusivamente con modalità telematiche dai soggetti
abilitati o delegati e la verifica sarà effettuata in tempo
reale e darà al documento una validità di 120 giorni.
Permane un periodo transitorio, fino al 31.12.2016, di
utilizzo della vecchia procedura con esclusivo riferimento
ad alcune specifiche fattispecie e agli eventuali casi di
grave malfunzionamento del sistema online.
Quale è la nuova procedura alla luce dei chiarimenti forniti
da INPS e INAIL? |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
F. Francia,
DURC on-line: l’INAIL spiega la nuova procedura (30.06.2015
- tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
DURC on-line: chiarimenti da INPS e INAIL (27.06.2015
- tratto da www.ipsoa.it).
---------------
A decorrere dal 01.07.2015, la verifica della regolarità
contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e delle
Casse Edili, avviene esclusivamente con modalità telematiche
ed in tempo reale indicando esclusivamente il codice fiscale
del soggetto da verificare. In attuazione della nuova
normativa, l’INPS e l’INAIL hanno predisposto il nuovo
servizio “Durc On-Line” e ne spiegano le modalità operative
attraverso due circolari del 26.06.2015: la n. 126 per
l’INPS e la n. 61 per l’INAIL. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
V. Gastaldo,
LA SPETTANZA DEGLI
EVENTUALI RISPARMI DI SPESA CONSEGUITI ALL'ESITO DELLA GARA
PER LA REALIZZAZIONE DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE “A
SCOMPUTO” (dicembre
2013 - tratto da www.researchgate.net).
---------------
SOMMARIO:
1. La disciplina delle opere di urbanizzazione - 2. A chi
spettano i risparmi d'asta? - 3. La determinazione
dell'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici – 4.
Le delibere della Corte dei Conti del Veneto - 5.
Considerazioni conclusive. |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Disciplina della ristrutturazione edilizia con
aumento delle unità immobiliari, a seguito delle innovazioni
apportate dal decreto sblocca Italia (D.L. n. 133 del 2014)
(Regione Emilia Romagna,
nota 01.07.2015 n. 466957 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni, votano tutti. Vietato escludere i consiglieri
di maggioranza. Una siffatta norma
regolamentare sarebbe a rischio di illegittimità.
L'elezione del presidente della commissione consiliare di
garanzia e controllo -che deve essere individuato in un
componente di opposizione- può avvenire con la
partecipazione di tutti i membri della commissione medesima,
oppure può essere effettuata escludendo dal voto il gruppo
riconducibile alla maggioranza consiliare?
L'istituto delle commissioni di indagine è previsto
dall'art. 44, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
recante «garanzia delle minoranze e controllo consiliare»;
il citato articolo, al comma 1, prevede l'istituzione
facoltativa delle commissioni consiliari aventi funzioni di
controllo e garanzia, attribuendo alle opposizioni, a tutela
delle minoranze, la presidenza delle stesse e demandando
allo statuto dell'ente la specificazione delle forme di
garanzia e partecipazione delle minoranze.
Nella fattispecie in esame, il regolamento sul funzionamento
del consiglio del comune dispone che la Commissione di
garanzia e controllo, la cui istituzione è prevista dallo
statuto, funziona secondo le modalità e le procedure
stabilite per le commissioni permanenti; tale fonte
normativa non reca, però, indicazioni in ordine alla
procedura preordinata alla elezione del presidente.
Circa la possibilità di ammettere al voto i soli membri di
opposizione in assenza di un'apposita normativa che lo
preveda, il Consiglio di stato, chiamato a pronunciarsi in
ordine alla metodica del cosiddetto «voto separato»,
ha osservato che «l'unitarietà del consiglio comunale può
essere incisa solo in base ad una norma che esplicitamente
lo consenta non in forza di operazioni interpretative di
contenuto incerto» (cfr sentenza Consiglio di stato, V
sez. n. 3432/2007).
Quanto alla opportunità di introdurre una norma
regolamentare limitativa del diritto di elettorato attivo
dei consiglieri di maggioranza, tale previsione potrebbe
esporre la relativa disposizione al rischio di annullamento
a seguito di eventuale impugnativa. Ciò alla luce del
principio di subordinazione gerarchica che regola il
rapporto tra una fonte di secondo grado, quale il
regolamento sul funzionamento del consiglio, e la legge
statale che costituisce il fondamento giuridico del diritto
al voto dei consiglieri in ordine alla elezione del
presidente della commissione di cui siano componenti,
ancorché tale figura debba essere rivestita da un esponente
della parte politica avversa
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Mini-Enti.
Il sindaco di un comune con una popolazione inferiore a
3.000 abitanti, che ha rinnovato i propri organi a seguito
delle elezioni amministrative del maggio 2011, può nominare
un terzo assessore?
La determinazione numerica degli assessori rientra nella
materia «organi di governo» dei comuni rimessa, ai
sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione,
alla potestà legislativa esclusiva dello stato.
Nel caso di specie, la composizione numerica della giunta,
costituitasi a seguito dell'insediamento della nuova
amministrazione, eletta in base alle consultazioni
amministrative, avrebbe dovuto essere conformata alle
disposizioni recate dall'art. 2, comma 185, della legge n.
191/2009, come integrato dall'art. 1, comma 2 della legge n.
42/2010, che ha modificato l'art. 47 del decreto legislativo
n. 267/2000.
Pertanto, ai sensi della citata normativa, la giunta avrebbe
potuto essere composta da tre componenti. Nell'ambito degli
interventi volti al contenimento della spesa pubblica, con
l'art. 16, comma 17, del decreto legge n. 138/2011,
convertito con legge n. 148/2011, il legislatore è
intervenuto nuovamente per contenere il numero dei
componenti degli organi collegiali nei comuni compresi nella
fascia demografica fino a 10.000 abitanti e, in ragione di
tali modifiche, il numero massimo di assessori consentito
per i comuni fino a 3.000 abitanti è ridotto a due.
A seguito della normativa da ultimo citata, è stata emanata
dal ministero dell'interno apposita circolare, datata
16/02/2012, con la quale è stato precisato che le ulteriori
riduzioni previste avrebbero operato a decorrere dal primo
rinnovo di ciascun consiglio comunale successivo alla data
di entrata in vigore della legge n. 148/2011, intervenuta in
data 17.09.2011.
Pertanto, la giunta del comune in oggetto potrà essere
integrata con la nomina di un terzo componente
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Cartelli di esercizi commerciali e di vendita immobiliare.
Imposta di pubblicità.
Ai fini dell'applicazione delle
esenzioni dall'imposta di pubblicità previste dall'art. 17,
D.Lgs. n. 507/1993, in particolare di quella di cui al comma
1-bis, riferita all'insegna di esercizio, il Ministero
dell'economia e delle finanze ha richiamato la definizione
di 'insegna di esercizio' formulata dal legislatore con il
comma 6 dell'art. 2-bis del D.L. n. 13/2002, secondo cui
l'insegna è la scritta di cui all'art. 47, D.P.R. n.
495/1992, che abbia la funzione di indicare al pubblico il
luogo di svolgimento dell'attività economica.
Al riguardo, il Ministero ha precisato che l'insegna, oltre
all'indicazione del nome del soggetto o della denominazione
dell'impresa che svolge l'attività, può evidenziare anche la
tipologia e la descrizione dell'attività esercitata, nonché
i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi
offerti.
Il Comune illustra le caratteristiche di cartelli di
esercizi commerciali, in relazione ai quali chiede se sia
dovuta l'imposta di pubblicità, o se si versi, invece, nelle
ipotesi di esenzione, in particolare per le insegne di
esercizio, previste dalla normativa vigente in materia, di
cui al D.Lgs. n. 507/1993 [1].
Il Comune, con riferimento ai cartelli di vendita
immobiliare, pone altresì la questione dell'esenzione o meno
dall'imposta, in relazione alle loro misure e al luogo di
posizionamento.
Risulta opportuno precisare, in via preliminare, che
l'attività di questo Servizio consiste nella
rappresentazione in generale del quadro giuridico, normativo
e giurisprudenziale, inerente alle tematiche poste, tenuto
altresì conto delle indicazioni contenute nelle circolari
degli organi amministrativi competenti, in modo da fornire
agli enti locali un supporto per la soluzione dei singoli
casi concreti.
L'art. 17 del D.Lgs. n. 507/1993 elenca le fattispecie
pubblicitarie che godono dell'esenzione dal tributo, in
particolare, al comma 1-bis -inserito dall'art. 10, comma 1,
lett. c), L. n. 448/2001 [2]-
prevede che l'imposta non è dovuta per le insegne di
esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o
servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge
l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva
fino a 5 metri quadrati.
Il Ministero dell'economia e delle finanze è più volte
intervenuto a fornire chiarimenti in ordine alle modalità di
applicazione dell'imposta di pubblicità. E così, nelle
circolari esplicative ha sottolineato che l'esenzione di cui
al comma 1-bis è applicabile ai soli mezzi pubblicitari che
possono definirsi 'insegne di esercizio'
[3] ed ha
richiamato, al riguardo, la definizione formulata dallo
stesso legislatore con il comma 6 dell'art. 2-bis del D.L.
n. 13/2002, secondo cui l'insegna è la scritta di cui
all'art. 47 del D.P.R. n. 495/1992, che abbia la funzione di
indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività
economica, vale a dire 'la scritta in caratteri
alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da
marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi
natura, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può
essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta'
[4].
In base a tale definizione, l'insegna, oltre all'indicazione
del nome del soggetto o della denominazione dell'impresa che
svolge l'attività, può evidenziare anche la tipologia e la
descrizione dell'attività esercitata, nonché i marchi dei
prodotti commercializzati o dei servizi offerti
[5].
Non possono, invece, essere definite 'insegne di
esercizio' le scritte relative al marchio del prodotto
venduto nel caso in cui siano contenute in un distinto mezzo
pubblicitario, che viene, cioè, esposto in aggiunta ad
un'insegna di esercizio, poiché questa circostanza manifesta
chiaramente l'esclusivo intento di pubblicizzare i prodotti
in vendita. In quest'ultimo caso, risultano esenti dal
pagamento del tributo le insegne di esercizio la cui
superficie complessiva non superi il limite dimensionale di
5 metri quadrati, mentre vanno assoggettati a tassazione i
distinti mezzi pubblicitari che espongono esclusivamente il
marchio [6].
Il Ministero ha altresì fornito delle esemplificazioni delle
scritte apprezzabili come insegne di esercizio, tra le
altre:
- la generica indicazione della tipologia dell'esercizio
commerciale (ad esempio, con la semplice scritta "Bar" o
"Alimentari");
- la precisa individuazione dell'esercizio commerciale (ad
esempio: "Bar Bianchi" o "Alimentari Azzurri");
- la generica individuazione dell'esercizio commerciale
realizzata con l'indicazione del nominativo del titolare (ad
esempio, la semplice scritta 'da Giovanni');
- l'indicazione, precisa o generica, della tipologia
dell'esercizio commerciale accompagnata nel contesto dello
stesso mezzo pubblicitario, da simboli o marchi relativi a
prodotti in vendita (ad esempio: "Bar Alfa-Caffè Beta").
Le fattispecie esemplificative del Ministero sono
espressamente dettate per andare incontro alle numerose
richieste dei comuni su casi specifici, e dovrebbero dunque
già di per sé fornire agli enti locali gli strumenti per
applicare in modo corretto l'imposta di pubblicità nelle
diverse situazioni concrete in relazione alle loro
particolarità.
In via collaborativa si possono, comunque, formulare delle
considerazioni muovendo dagli esempi indicati dal Ministero.
E così sembra potersi osservare che nelle scritte
qualificabili come insegne sono contenuti il nome
dell'operatore economico, la mera tipologia dell'attività
esercitata (bar, alimentari), il marchio commercializzato
[7],
mentre non compaiono in alcuna delle fattispecie tipizzate
riferimenti a qualità dei prodotti [8].
Peraltro, appaiono consentite anche descrizioni
dell'attività esercitata [9].
Una tale lettura appare del resto coerente con il tenore
letterale del comma 1-bis dell'art. 17 del D.Lgs. n.
507/1993, che parla di insegne di esercizio che
'contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si
riferiscono', per cui ben rientrano nella definizione quegli
elementi, quali il nome, la tipologia e la descrizione
dell'attività esercitata, nonché i marchi dei prodotti
commercializzati o dei servizi offerti [10],
idonee ad indicare al pubblico il luogo di svolgimento
dell'attività commerciale o di produzione di beni o servizi
[11].
Per quanto concerne l'assoggettamento all'imposta di
pubblicità dei cartelli di compravendita immobiliare, ai
sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 507/1993, comma 1, lett. b),
sono esenti dall'imposta, tra gli altri, gli avvisi al
pubblico riguardanti la locazione o la compravendita degli
immobili sui quali sono affissi, di superficie non superiore
ad un quarto di metro quadrato.
Al riguardo, il Comune chiede se il limite dimensionale
indicato dalla norma (un quarto di metro quadrato) sia da
intendersi riferito alla superficie complessiva dei cartelli
di compravendita (o locazione) apposti, nel senso di
ritenersi superato dalla somma degli stessi, e se detti
cartelli possano essere affissi anche sulle pertinenze
dell'immobile o nelle parti comuni del condominio.
Per quanto concerne le dimensioni dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare da rispettare per
beneficiare dell'esenzione dall'imposta di pubblicità, si
osserva che la formulazione testuale della previsione
normativa in commento, per questa specifica tipologia di
cartelli, non precisa 'superficie complessiva'. Ed
invero, laddove il legislatore ha voluto esprimersi in tal
senso, lo ha esplicitamente fatto al comma 1-bis dell'art.
17, D.Lgs. n. 507/1993, relativamente alle insegne di
attività commerciali e di produzione di beni o di servizi,
esenti dall'imposta se volte a contraddistinguere la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono e se, appunto,
di 'superficie complessiva fino a 5 metri quadrati'.
Il Comune osserva che con riferimento agli avvisi al
pubblico di cui all'art. 17, comma 1, lett. b), D.Lgs. n.
507/1993, richiamato, esposti nelle vetrine o nelle porte di
ingresso dei locali, il Ministero dell'economia e delle
finanze [12]
ha riferito il relativo limite dimensionale inferiore a
mezzo metro quadrato alla superficie complessiva di detti
avvisi e chiede se sia possibile estendere queste
considerazioni, per analogia, a tutte le fattispecie della
lett. b), ivi inclusi i cartelli immobiliari.
Al riguardo, posto che per giurisprudenza costante
[13] 'le
norme che concedono esenzioni fiscali, avendo carattere
eccezionale, sono insuscettibili di interpretazione
analogica', si segnala che la Corte di Cassazione
[14] ha
invece affermato che per gli avvisi al pubblico di cui
all'art. 17, comma 1, lett. b), richiamato, l'esenzione
opera purché essi non superino, ciascuno individualmente, la
superficie di mezzo metro quadrato.
Pertanto, stante il tenore letterale della disciplina
normativa dell'esenzione dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare, che parimenti non
specifica il limite dimensionale come riferito alla
superficie complessiva, e tenuto conto di quanto affermato
di recente dalla Corte di Cassazione in ordine al rispetto
di detto limite per ciascun cartello singolarmente, si
ritiene opportuno suggerire all'Ente di chiedere un
chiarimento ai competenti organi statali specificamente per
i cartelli di compravendita/locazione immobiliare.
Allo stesso modo, si ritiene che l'interpretazione
dell'indicazione normativa dell'affissione dei cartelli di
compravendita/locazione immobiliare 'sull'immobile',
in particolare se la stessa vada intesa come comprensiva
anche delle pertinenze, debba provenire dai competenti
organi statali. Infatti, posta la giurisprudenza restrittiva
richiamata in ordine all'interpretazione analogica delle
norme di esenzione fiscale, si osserva che un'espressa
indicazione anche delle pertinenze è prevista dal
legislatore unicamente con specifico riferimento
all'esenzione per le insegne di esercizio (art. 1, comma
1-bis, D.Lgs. n. 507/1993), quali installate nella sede
dell'attività a cui si riferiscono o nelle pertinenze
accessorie alla stessa (art. 47, D.P.R. n. 445/1992,
richiamato) [15].
---------------
[1] D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, recante: 'Revisione ed
armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del
diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle
province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n. 421,
concernente il riordino della finanza territoriale'.
[2] L. 28.12.2001, n. 448 (Legge Finanziaria 2002).
[3] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
08.02.2002, n. 1.
[4] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
03.05.2002 n. 3; circolare 19.03.2007, n. 11159.
[5] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare
19.03.2007, n. 11159; nello stesso senso, Ministero
dell'economia e delle finanze, circolare 03.05.2002 n. 3.
[6] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n.
11159/2007, cit.. Nello stesso senso, Ministero
dell'economia e delle finanze, circolare n. 3/2002, ove si
precisa, peraltro, che la presenza, nell'ambito dello stesso
mezzo pubblicitario, delle indicazioni relative al marchio
del prodotto venduto, non fa in alcun modo venire meno la
natura di insegna di esercizio; ciò del resto trova espressa
legittimazione nella stessa nozione contenuta nel citato
art. 47 del DPR n. 495 del 1992, che stabilisce, appunto,
che la scritta distintiva della sede di svolgimento
dell'attività economica può essere 'completata eventualmente
da simboli o da marchi'.
[7] Fermo restando, come chiarito sopra, che l'aggiunta di
uno o più cartelli distinti raffiguranti esclusivamente il
marchio comporta, invece, l'applicazione dell'imposta di
pubblicità su detti cartelli.
[8] E così sembrano non poter beneficiare dell'esenzione
quei cartelli ove si esaltano le qualità e i benefici dei
prodotti venduti al fine di migliorarne l'immagine con
indicazioni ulteriori rispetto a quelle identificative
dell'attività economica esercitata.
[9] Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n.
11159/2007, cit..
[10] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
11159/2007, cit..
[11] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
3/2002, cit..
[12] Ministero dell'economia e delle finanza, circolare n.
11159/2007, cit..
[13] Cass. civ., sez. un., 25.05.2009, n. 11986; Cass. civ.,
sez. I, 09.08.1990, n. 8111.
[14] Cass. civ., sez. VI, 16.10.2014, n. 21966.
[15] Cfr. Cass. civ., sez. V, 30.10.2009, n. 23021; Cass.
civ., sez. V, 06.12.2011, n. 26174 (25.06.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
DURC on-line e AVCpass. Dal 1° luglio la verifica della
regolarità contributiva potrà avvenire solo tramite
l’acquisizione del DURC.
L'ANAC e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
rendono noto che, a decorrere dal 01.07.2015, la verifica
della regolarità contributiva ai fini dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e degli
appalti, ai sensi dell’art. 38, d.lgs. n. 163/2006, non
potrà più avvenire attraverso il sistema AVCpass, ma
esclusivamente attraverso la nuova procedura di acquisizione
del DURC nelle modalità previste dal decreto del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali 30.01.2015 (G.U. n. 125
del 01.06.2015), così come specificate dallo stesso
Ministero con circ. n. 19/2015.
Ciò in ragione della espressa previsione di legge secondo la
quale la nuova modalità di acquisizione del DURC “assolve
all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di
ordine generale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera i)
del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, presso la Banca dati nazionale
dei contratti pubblici” istituita presso l’Autorità
Nazionale Anticorruzione (art. 4, comma 3, D.L. n. 34/2014).
Le richieste acquisite tramite il sistema AVCpass fino al
30.06.2015 saranno comunque evase regolarmente secondo le
vigenti modalità (30.06.2015 - link a www. |
APPALTI: Avcpass
in pensione. Dal 01.07.2015.
Dal 1° luglio la verifica della regolarità contributiva per
partecipare alle procedure di affidamento delle concessioni
e degli appalti non avverrà più con il sistema Avcpass, ma
attraverso la nuova procedura di acquisizione del Durc, come
previsto dal Dm Lavoro 30.01.2015 e specificato nella
circolare n. 19/2015.
Lo hanno comunicato il Ministero del lavoro e l’Anac nel
comunicato stampa congiunto 25.06.2015
diffuso ieri.
La nuova modalità di acquisizione del documento unico di
regolarità contributiva, infatti, assolve all’obbligo di
verificare la sussistenza del requisito di ordine generale
previsto dall’articolo 38, comma 1, lettera i), del Dlgs
12.04.2006 n. 163 presso la banca dati nazionale dei
contratti pubblici istituita presso l’Autorità nazionale
anticorruzione.
Il comunicato congiunto di Anac e ministero, inoltre, ha
precisato che in ogni caso le richieste acquisite tramite il
vecchio sistema Avcpass fino al 30.06.2015 saranno evase
regolarmente secondo le regole a tutt’oggi in vigore
(articolo Il Sole 24 Ore del
26.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Regolarità contributiva, sistema AVCpass in
soffitta.
Dal 1° luglio chiude il sistema AVCpass per la verifica
della regolarità contributiva ai fini dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e di
appalti. La verifica andrà fatta esclusivamente attraverso
la nuova procedura di acquisizione del Durc online.
Lo precisa il
comunicato stampa congiunto 25.06.2015 diffuso
ieri dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e dal
Ministero del lavoro.
La novità è conseguenza dell'entrata in vigore, dal prossimo
1° luglio, della possibilità di fare verifiche in tempo
reale se un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con
i contributi e gli adempimenti nei confronti di Inps, Inail
e cassa edili (quest'ultima soltanto per le aziende
dell'edilizia ossia quelle che hanno il codice statistico
contributivo, Csc, dell'edilizia).
Novità che, prevista dal dl n. 34/2014 (convertito dalla
legge n. 78/2014), è stata attuata dal dm 30.01.2015, in
vigore dal 16 giugno e che prevede, appunto, l'avvio della
gestione online dal prossimo mese.
L'Anaca e il ministero del lavoro fanno sapere, a proposito,
che a decorrere dal 1° luglio la verifica della regolarità
contributiva ai fini dalla partecipazione alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli appalti, ai sensi
dell'art. 38, del dlgs n. 163/2006 (codice appalti), non
potrà più avvenire attraverso il sistema AVCpass, ma
esclusivamente attraverso la nuova procedura del Durc
online.
Ciò in ragione dell'espressa previsione di legge secondo la
quale la nuova modalità di acquisizione del Durc «assolve
all'obbligo di verificare la sussistenza del requisito di
ordine generale di cui all'art. 38, comma 1, lett. i, del
dlgs n. 163/2006, presso la banca dati nazionale dei
contratti pubblici» istituita presso l'autorità
nazionale anticorruzione (art. 4, comma 3, del citato dlgs
n. 34/2014).
Le richieste acquisite tramite il sistema AVCpass fino al
30.06.2015 saranno comunque evase regolarmente, secondo le
vigenti modalità
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2015). |
ENTI
LOCALI:
Anticorruzione. Cda in house, redditi e patrimoni
su internet.
Le società partecipate degli enti locali devono adempiere
agli obblighi in materia di prevenzione della corruzione e
di trasparenza, adeguando o adottando ex novo il modello
organizzativo-gestionale.
Con la
determinazione 17.06.2015 n. 8 l’Anac offre un dettagliato quadro
applicativo evidenziando, soprattutto in tema di
applicazione della normativa sulla trasparenza, i differenti
oneri per le società in house, per le altre società in
controllo pubblico e per le società partecipate ma non
controllate.
La prevenzione della corruzione deve essere attuata nelle
società a controllo pubblico, secondo l’Anac, mediante
l’adeguamento del modello adottato in base al Dlgs 231/2001
o, qualora la società non lo abbia, con la sua adozione.
L’analisi dei rischi deve essere rapportata al concetto di
corruzione inteso in senso ampio, come qualsiasi distorsione
dell’attività che possa procurare vantaggi a fini privati. A
questo fine il modello ex 231 deve contenere una sezione
nella quale devono essere precisate le misure di
prevenzione, secondo lo schema generale definito dal Pna,
raccordata al sistema di controllo interno, che deve essere
eventualmente adeguato.
L’Anac sollecita le società ad adeguare i propri codici di
comportamento al nuovo assetto anticorruzione, e le
richiama, in linea complementare, a dare attuazione agli
obblighi in materia di adozione del programma triennale
della trasparenza e a prevedere un sistema di verifica delle
situazioni di inconferibilità e di incompatibilità in base a
quanto previsto dal Dlgs 39/2013.
Il complesso delle misure di prevenzione della corruzione
poste in essere dalle società partecipate deve comprendere
anche la verifica delle eventuali attività di ex dipendenti
a favore di fornitori, un’intensa formazione, la rotazione
dei dipendenti nelle aree a rischio e la definizione di
strumenti di garanzia per i dipendenti che denuncino
illeciti (whistleblowing).
L’Autorità evidenzia che l’intero pacchetto deve essere
attuato sia nelle società partecipate direttamente sia in
quelle a partecipazione indiretta, sempre nella linea del
controllo del socio pubblico.
Per le società invece in situazione non di controllo gli
oneri sono minori e si limitano a un adeguamento del modello
231 alla normativa anticorruzione.
In relazione alla trasparenza, invece, l’Anac delinea un
quadro applicativo degli obblighi dettati dal Dlgs 33/2013
su tre livelli.
Le società in house sono i soggetti che devono dare completa
attuazione agli obblighi del decreto in termini di massima
corrispondenza con quanto previsto per gli enti locali soci,
in quanto proprio la relazione organica con le
amministrazioni ne comporta l’immedesimazione
nell’applicazione delle misure di trasparenza dell’attività.
In tal senso, per esempio, le società in house dovranno
pubblicare nella sezione amministrazione trasparente le
dichiarazioni patrimoniali dei propri amministratori.
Per le altre società in situazione di controllo pubblico (ma
non in house, ad esempio una società mista a capitale
maggioritario pubblico) l’Anac evidenzia la necessaria
pubblicizzazione degli elementi relativi all’organizzazione
e alle attività di pubblico interesse.
Tuttavia in questa definizione devono essere ricomprese non
solo le attività di gestione di un servizio pubblico, ma
anche quelle strumentali al suo sviluppo, come l’attività
contrattuale e quella di gestione delle risorse umane.
Per le società partecipate ma non in controllo pubblico gli
oneri di trasparenza sono limitati ai dati
sull’organizzazione e alle eventuali attività di pubblico
interesse svolte (articolo Il Sole 24 Ore del
29.06.2015). |
ENTI LOCALI:
Obblighi «pieni» per le partecipate degli enti
locali. Anticorruzione. La determinazione dell’Anac.
Le società partecipate e controllate dagli Enti locali
devono adottare specifiche misure di prevenzione della
corruzione e rispettare gli obblighi di trasparenza.
Con la
determinazione 17.06.2015 n. 8, l’Autorità
nazionale anticorruzione ha definitivamente dissipato i
dubbi sull’applicazione della legge 190/2012 e del Dlgs
33/2013 alle società e agli altri organismi partecipati
dalle amministrazioni locali, definendo in modo dettagliato
gli adempimenti ai quali questi soggetti sono sottoposti,
secondo la loro differente configurazione giuridica e in
base al diverso livello di controllo pubblico.
L’Autorità prende in esame anzitutto le società in controllo
pubblico, partecipate direttamente o indirettamente, tra le
quali rientrano senza dubbio le società in house, chiarendo
che devono adottare le misure per prevenire la corruzione.
Le società che hanno già adottato un modello organizzativo
in base al Dlgs 231/2001 devono adeguarlo alla legge
190/2012 e al Pna (peraltro dovendo considerare, in
relazione alle situazioni di rischio, anche le recenti
novità in materia di reati ambientali), mentre per quelle
che non lo hanno adottato, le amministrazioni controllanti
(quindi gli enti locali soci di controllo) devono
assicurarsi lo facciano. In ogni caso, le misure per la
prevenzione della corruzione devono essere inserite nel
documento illustrativo del modello 231 in una sezione
specifica e devono essere facilmente identificabili. Nel
caso di società indirettamente controllate, la capogruppo
deve assicurarsi dell’adozione da parte di queste del Mog e
delle misure anticorruzione.
Le società partecipate devono non solo sviluppare l’analisi
del rischio, ma anche rivedere i propri modelli di controllo
interno e i codici di comportamento.
Sul versante degli obblighi in materia di trasparenza, per
le società in controllo pubblico l’Anac evidenzia la
necessaria applicazione delle norme del Dlgs 33/2013 secondo
lo schema previsto dall’articolo 11 del decreto. In tal
senso devono essere soddisfatti gli obblighi di pubblicità
inerenti dati e informazioni afferenti all’organizzazione
delle società, nonché quelli riguardanti le attività di
pubblico interesse.
Le attività strumentali come l’acquisto di beni e servizi o
la realizzazione di lavori, oppure la gestione delle risorse
umane e finanziarie sono anch’esse volte a soddisfare
l’interesse pubblico e sono, pertanto, sottoposte agli
obblighi previsti dalle norme sulla trasparenza.
Le società in controllo pubblico, inoltre, devono adottare
il programma triennale per la trasparenza e costituire sul
proprio sito la sezione amministrazione trasparente.
Per le società in house, invece, l’Anac delinea un quadro
applicativo degli obblighi sulla trasparenza del tutto
conforme a quello per gli Enti locali soci, senza alcun
adattamento. Ciò in quanto pur non rientrando nel novero
delle Pa in quanto organizzate secondo il modulo societario,
esse sono affidatarie in via diretta di servizi e, pertanto,
sono sottoposte a un controllo particolarmente significativo
da parte delle amministrazioni, costituendone nei fatti una
parte integrante.
Per le società partecipate non in situazione di controllo,
la determinazione n. 8/2015 prefigura oneri meno rilevanti,
mentre vengono a essere definiti in modo puntuale gli
obblighi per gli altri enti di diritto privato in controllo
pubblico (come le aziende speciali o le fondazioni), per i
quali l’Anac fornisce anche alcuni parametri per valutare se
sussista o meno la situazione di controllo pubblico (articolo Il Sole 24 Ore del
26.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Parole chiave: Anticorruzione – orientamento n. 57/2014 -
funzioni svolte dal Comandante/Responsabile della Polizia
locale – responsabilità di ufficio con competenze gestionali
– impossibilità – conflitto di interessi – sussistenza.
Materia: anticorruzione
Sussiste un’ipotesi di conflitto di
interesse, anche potenziale, nel caso in cui al
Comandante/Responsabile della Polizia locale,
indipendentemente dalla configurazione organizzativa della
medesima, sia affidata la responsabilità di uffici con
competenze gestionali, in relazione alle quali compie anche
attività di vigilanza e controllo
[orientamento
10.06.2015 n. 19 (in sostituzione 03.07.2014 n.
57) - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
«I dipendenti restituiscano i premi». Corte dei
conti: la «sanatoria» per le indennità illegittime erogate
da Regioni ed enti locali vale solo fino al 2012.
Pubblico impiego. Almeno un miliardo in gioco - Nel mirino,
tra le altre, Milano, Roma, Napoli, Firenze, Vicenza, Siena
e Palermo.
I “premi” a pioggia, illegittimi,
concessi da Regioni ed enti locali ai propri dipendenti dal
2013 in poi devono essere restituiti dai diretti
interessati, perché la “sanatoria” parziale scritta dal
Governo nel decreto salva-Roma ter, e applicabile solo
quando l’amministrazione è in regola con il Patto di
stabilità e i vincoli di spesa, non va oltre il 2012.
A riaprire uno dei problemi più spinosi per i dipendenti di
Regioni, Province e Comuni è la Corte dei conti della
Lombardia (delibera
25.06.2015 n. 224), che all’interno dei controlli
di routine sui bilanci del Comune di Milano alza il tiro sui
contratti decentrati e lancia una nuova bordata che va ben
oltre Palazzo Marino: i soldi fuori regola finiti nelle
buste paga dei dipendenti dal 2013 in poi devono essere
richiesti agli stessi dipendenti che li hanno ricevuti, e
non basta il recupero complessivo (che il Comune ha già
effettuato) tramite tagli sui fondi degli anni successivi.
L’impatto dipende naturalmente dalla situazione individuale,
ma i calcoli effettuati qua e là hanno portato nei casi più
gravi a ipotizzare recuperi a rate mensili da 3-500 euro
anche a carico di buste paga da 1.400-1.700 euro al mese.
A Milano, tutto sommato, il problema può essere dirompente
per i singoli dipendenti ma non è enorme a livello
complessivo, perché in gioco ci sono circa 11 milioni di
euro. Il fatto, però, è che gli ispettori della Ragioneria
generale e i magistrati della Corte dei conti hanno
incontrato integrativi fuori regola quasi ovunque, e le
stime più ottimiste parlano di almeno 1 miliardo di euro
riconosciuto ai dipendenti violando questa o quella regola.
La stima è ottimista, in assenza di un censimento ufficiale,
perché solo al Comune di Roma la Ragioneria ha contestato
525 milioni di euro finiti negli stipendi fra 2008 e 2013
(ai 315 milioni di troppo rilanciati nelle scorse settimane
si aggiungono circa 200 milioni che sono illegittimi perché
sono stati distribuiti in violazione dei contratti), a
Napoli le obiezioni degli ispettori hanno riguardato più di
180 milioni, a Firenze 56 milioni, e poi ci sono i casi di
Vicenza, Siena, Palermo, Reggio Calabria e i tanti Comuni
non capoluogo.
Nella lista non mancano poi le Regioni, che hanno bilanci
più grandi ma una struttura di personale diversa, e quindi
si sono viste in genere contestare cifre più leggere: gli
ispettori dell’Economia, comunque, hanno storto il naso in
Liguria, Marche, Lazio, Molise, Calabria.
Sono state proprio le visite condotte in questi anni dagli
ispettori di Via XX Settembre a sollevare il coperchio su
una prassi diffusa a macchia d’olio, e mantenuta in questi
anni di blocco contrattuale anche per evitare di far salire
troppo la temperatura dei rapporti con il personale alle
prese con buste paga «congelate». Il moltiplicarsi dei casi,
e soprattutto l’emergere della maxi-contestazione romana,
avevano spinto il Governo a scrivere una sanatoria per
aggirare il problema più spinoso, quello della restituzione
da parte dei singoli dipendenti, sostituendolo con i
recuperi complessivi a carico dei fondi degli anni
successivi.
Polemica politica e difficoltà tecniche, però, hanno
partorito una norma (l’articolo 4 del Dl 16/2014) ai limiti
dell’incomprensibile; al punto che ben tre ministeri
(Economia, Funzione pubblica e Affari regionali) avevano
promesso in una circolare congiunta nel maggio 2014 di
emanare «norme» e «direttive» (all’Aran) per sciogliere «la
particolare complessità» delle nuove regole: i tavoli
tecnici si sono insediati in fretta, ma di «norme» e
«direttive» condivise non si è vista nemmeno l’ombra, e la
«particolare complessità» è rimasta tale.
Arriva qui l’intervento della Corte dei conti, che scioglie
così il nodo: i recuperi compensativi possono bloccare le
restituzioni individuali solo fino al 2012, ma per gli anni
successivi il conto va chiesto ai singoli dipendenti anche
se le indennità nascono da contratti integrativi siglati
prima.
---------------
Recuperi senza tasse e contributi. Il
meccanismo. Vanno richieste le somme nette.
I recuperi
individuali a carico dei dipendenti che negli anni sono
stati beneficiati dalle indennità illegittime devono essere
effettuati al netto di tasse e contributi. Per le altre
voci, il Comune dovrebbe regolarsi con l’agenzia delle
Entrate per quel che riguarda il Fisco, e con l’Inps
(ovviamente nella gestione ex Inpdap) per la parte
previdenziale.
Le istruzioni arrivano ancora una volta dalla Corte dei
conti, ma in questo caso si tratta della sezione di
controllo per il Lazio. Nella delibera 125/2015 pubblicata
nei giorni scorsi, i magistrati contabili si sono occupati
di un caso piuttosto specifico, la sommatoria delle
indennità di turno e di lavoro festivo per i vigili urbani
di Tarquinia, e quindi non si sono addentrati nel ginepraio
della sanatoria tentata dal Governo lo scorso anno, ma hanno
indicato un criterio generale da seguire quando si tratta di
richiedere i soldi finiti illegittimamente nelle buste paga.
Il principio è semplice, ma l’applicazione rischia di
rivelarsi complicatissima, al di là delle difficoltà
politiche e sociali che qualsiasi operazione di questo tipo
ovviamente incontra anche perché chiede conto ai singoli
dipendenti degli effetti di scelte compiute in accordo da
amministrazioni e sindacati.
Ai titolari delle buste paga, spiega comunque la delibera,
vanno richieste solo le somme nette, perché tasse e
contributi «non sono mai entrati nella sfera patrimoniale
di disponibilità» dei lavoratori colpiti
dall’illegittimità della quota variabile presente nei loro
stipendi.
Il principio è di buon senso, oltre che fondato su solide
basi giuridiche (come spiega la sentenza 18584/2008 della
Cassazione), ma gli obblighi dell’ente non finiscono qui.
Abbassare ex post le buste paga alleggerisce di conseguenza
anche le trattenute che su quegli stipendi andavano fatte,
per cui i Comuni o le Regioni interessate dalla bocciatura
dovrebbero ricalcolare il tutto, e bussare alle porte del
Fisco per riavere le tasse versate in eccesso e degli enti
previdenziali e assistenziali per riportare indietro i
contributi di troppo. Tutti questi recuperi, chiosa la
delibera, sono atti dovuti, perché sono legati «al
perseguimento delle finalità di pubblico interesse alle
quali sono istituzionalmente destinate le somme
indebitamente erogate». In questa chiave, insomma, far finta
di niente per evitare problemi esporrebbe al danno erariale.
La revisione dei contratti fuori regola, poi, prevede
ovviamente un confronto con i sindacati che, come mostra
(fra i tanti) il caso di Milano è complicato, soprattutto
dopo anni di rinnovi congelati. Gli enti, però, possono
procedere anche in via unilaterale, e per rispettare le
regole possono usare i nuovi indirizzi appena dettati
dall’Aran per la produttività (si veda anche Il Sole 24 Ore
del 23 giugno). Anche in questo caso, il principio è
semplice: la produttività può essere concessa solo a
consuntivo, dopo una verifica puntuale dei risultati
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Spese legali nel caso di soccombenza: rimborso forfettario e
riconoscimento del debito fuori bilancio.
È riconoscibile come debito fuori
bilancio, in caso di sentenza esecutiva, il rimborso
forfetario delle spese riconosciuto all'avvocato (nella
misura massima del 15% del compenso) sulla base di quanto
stabilito dalla legge 27/2012 e dal successivo Dm attuativo
n. 140/2012.
Tali somme, in particolare, mirano a ristorare l'avvocato di
quelle voci di spesa (ad esempio, quelle relative alla
gestione dello studio, costo segreteria, fitto studio,
abbonamenti riviste, acquisto libri), che sono effettive, ma
che non possono essere riferite ed imputate ad una singola
pratica.
Secondo il citato decreto «nei compensi non sono comprese le
spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa
quella concordata in modo forfettario» e, di conseguenza,
sulla base dell'art. 13, comma 10, della legge 247/2012
«oltre al compenso per la prestazione professionale,
all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di
determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione
giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente
sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente
anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il
rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è
determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai
criteri di determinazione e documentazione delle spese
vive».
---------------
Il Dm
55/2014 ha previsto che il rimborso spese forfettarie "di
regola" avviene nella misura (massima) del 15% del compenso.
Tale rimborso deve essere contabilizzato, ove dovuto,
secondo le ordinarie regole giuscontabili dell'impegno,
della liquidazione, dell'ordinazione e del pagamento ovvero
del riconoscimento di debito.
Nelle ipotesi in cui nell'anno
di competenza finanziaria non sia stata attivata la
procedura di spesa ordinaria, l'unico modo di ricondurre il
debito nella contabilità dell'ente (con effetto vincolante
per l'amministrazione) è avviare, nei casi eccezionali ivi
tipicamente indicati, la procedura del riconoscimento di
debito, ex articolo 194 del Tuel.
---------------
Il Sindaco del Comune di
Anagni, con nota acquisita al prot. n. 5700 del
10.12.2014, ha chiesto a questa Sezione la seguente
richiesta di parere in materia di rimborso forfettario
spettante agli avvocati per sentenze pronunciate dopo il
03.04.2014.
Premessa una breve ricostruzione del quadro ordinamentale,
ha, in particolare, chiesto:
“1. Se in caso di soccombenza, con condanna dell’Ente
a pagare le spese di giudizio, ove il Giudice si limiti a
liquidare le stesse con la formula «condanna parte
soccombente alle spese di giudizio, liquidate in … oltre IVA
e CPA», se sia dovuto anche il rimborso spese delle spese
forfettarie ex art 13, comma 10, della legge n. 247/2012 e
in quale misura”;
“2. Se detto rimborso forfettario, debba formare
oggetto di formale riconoscimento di debito, ex art. 194,
comma 1, lett. a) del D.Lgs 267/2000, da parte del
Competente Consiglio Comunale unitamente alla sentenza di
condanna esecutiva, o se possa procedersi al pagamento di
tale rimborso, mediante determinazione di impegno e
successiva liquidazione, ex art. 183 e 184 TUELL”.
...
Quanto all’ammissibilità sotto il profilo oggettivo,
l’inerenza dei quesiti a materia di contabilità pubblica,
nel contesto sistematico nel quale l’art. 7, comma 8, è
inserito, va correttamente intesa -alla stregua dei principi
enunciati dalla Sezione delle Autonomie con deliberazione n.
3/SEZAUT/2014/QMIG e dalle Sezioni Riunite con deliberazione
17.11.2010, n. 54- secondo una nozione unitaria della
materia della contabilità pubblica, oggetto della funzione
di consulenza attribuita alle Sezioni regionali di
controllo.
In base a tale orientamento la richiesta di
parere, riguardante il primo quesito -se in caso di
soccombenza sia dovuto anche il rimborso spese delle spese
forfettarie- è da ritenere inammissibile, in quanto non
attiene a profili di contabilità pubblica.
Nel caso all’esame appare evidente che l’intervento di
questa Sezione risulta essere finalizzato non ad acquisire
un parere tecnico sull’interpretazione di specifiche
disposizioni normative, quanto piuttosto alla definizione
dell’an debeatur.
La richiesta di parere, riguardante il primo quesito,
è da ritenere, quindi, inammissibile sotto il profilo
oggettivo.
Al fine di fornire, comunque, un ausilio all’Ente, è bene
evidenziare che le spese forfettarie mirano
a ristorare l'avvocato di quelle voci di spesa (ad esempio,
quelle relative alla gestione dello studio, costo
segreteria, fitto studio, abbonamenti riviste, acquisto
libri), che sono effettive, ma che non possono essere
riferite ed imputate ad una singola pratica (invece le spese
effettuate specificamente per un singolo atto processuale o
atto in genere -es. raccomandata- non ricadono nelle spese
forfettarie, essendo il singolo atto posto in essere
riferito ad una specifica pratica).
Nell'ambito del previgente sistema tariffario di cui
all'art. 14, D.M. n. 127/2004, il rimborso spettava
automaticamente all'avvocato, anche in assenza di
allegazione specifica e di espressa richiesta, dovendosi
quest'ultima ritenersi implicita nella domanda di condanna
al pagamento del compenso giudiziale (in termini, con
riferimento alla previgente disciplina; Cass. 03.04.2007, n.
8238; Cass. 10.01.2006, n. 146; Cass. 20.10.2005, n. 20321).
Al rimborso si riconosceva la natura di credito che
conseguiva per legge (e la cui misura era determinata nel
12,5 per cento), sicché spettava automaticamente al
professionista, anche in assenza di allegazione specifica e
di domanda, dovendosi quest'ultima ritenere implicita nella
domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali
(Cass. 22.05.2013, n. 12579; Cass. 19.08.2009, n. 18424).
L'omessa liquidazione in favore dell'avvocato della parte
vittoriosa delle somme dovute per spese forfettarie, si
diceva costituisse un errore materiale della sentenza, che
può essere corretto con il procedimento di cui agli artt.
287 e seguenti cpc (Cass. 02.08.2013, n. 18518).
L'art. 9, commi 1 e 2, del decreto legge 24.01.2012, n. 1,
convertito con legge n. 27/2012, ha disposto l'abrogazione
delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema
ordinistico. "Ferma restando l'abrogazione di cui al
comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo
giurisdizionale, il compenso del professionista è
determinato con riferimento a parametri stabiliti con
decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di
centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore
della legge di conversione del presente decreto. Entro lo
stesso termine, con decreto del Ministro della giustizia, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono
anche stabiliti i parametri per oneri e contribuzioni alle
casse professionali e agli archivi precedentemente basati
sulle tariffe".
L'art. 1, comma 2, del d.m. 20.07.2012, n. 140, adottato in
esecuzione del predetto art. 9 della legge n. 27/2012, ha
stabilito che "Nei compensi non sono comprese le spese da
rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella
concordata in modo forfettario".
L'art. 13, comma 10, del legge n. 247/2012 ha, poi, previsto
che "Oltre al compenso per la prestazione professionale,
all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di
determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione
giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente
sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente
anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il
rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è
determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai
criteri di determinazione e documentazione delle spese vive".
L'art. 2, comma 2, del D.M. 10.03.2014, n. 55, adottato in
esecuzione dell'art. 13, comma 16, della predetta legge n.
247/2012, ha stabilito che all'avvocato é
dovuta -in ogni caso ed anche in caso di determinazione
contrattuale- una somma per rimborso spese forfettarie "di
regola" nella misura del 15 per cento del compenso.
Nella relazione illustrativa al D.M. 55/2014 si legge che
l'individuazione nella misura del 15 per
cento del rimborso forfettario è frutto del recepimento del
parere espresso dalla Commissione giustizia della camera e
che essa "dà attuazione all'art. 13, comma 10, della
legge 247/2012 che rimette proprio al d.m. la determinazione
della misura massima del rimborso forfettario".
Ne consegue che l'entità del rimborso deve
essere compresa tra l'1 per cento e il 15 per cento del
compenso da liquidare, e che il tetto massimo (15 per cento)
può essere liquidato solo a fronte di una istanza
dell'avvocato adeguatamente motivata.
La precisazione da parte dell'art. 2, comma
2, del d.m. 55/2014 che il riconoscimento della percentuale
del 15 per cento deve avvenire "di regola" non vale
ad individuare un importo massimo vincolante per il giudice,
atteso che la legge non prevede un simile vincolo.
Si tratta, infatti, in ogni caso, di valutazioni rimesse al
libero apprezzamento del giudice sulla base delle istanze e
delle motivazioni addotte dalla parte.
Per quanto riguarda, invece, il secondo quesito,
relativo alle modalità di contabilizzazione del rimborso,
ove dovuto, la Sezione fa presente che il
procedimento segue le ordinarie regole giuscontabili
dell’impegno, della liquidazione, dell’ordinazione e del
pagamento ovvero del riconoscimento di debito.
All’assunzione dell’impegno di spesa segue, ai sensi degli
artt. 183 e 184 TUEL, la liquidazione a valere sul fondo
rischi e oneri, laddove istituito, o su capitolo di spesa
nei limiti degli stanziamenti autorizzati (art. 191 TUEL).
In corso di esercizio, tale procedura può essere
accompagnata da una variazione di bilancio volta a reperire
le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
Nelle ipotesi in cui nell’anno di
competenza finanziaria non sia stata attivata la procedura
di spesa ordinaria, l’unico modo di ricondurre il debito
nella contabilità dell’ente
(con effetto vincolante per l’amministrazione)
è avviare nei casi eccezionali ivi tipicamente
indicati la procedura del riconoscimento di debito, ex art.
194 TUEL.
L’assunzione del debito fuori bilancio, ex
art. 194, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 267/2000, esula
dalla regolare procedura di spesa, per il pagamento di somme
accertate con sentenza di condanna esecutiva.
La procedura per il riconoscimento di debiti fuori bilancio
è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione
giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della
sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e
volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a
consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del
titolo medesimo
(in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle
competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”,
vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme
all’ordinamento) e di reperimento dei mezzi
di copertura finanziaria (procedura ex art. 194 T.U.E.L.).
La funzione di tale procedura è quella di consentire a
debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa
e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
parere 22.06.2015 n. 110). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale, resti inutilizzabili. I budget passati
non valgono per nuove assunzioni. La
priorità è assumere i vincitori di concorso e i dipendenti
provinciali in sovrannumero.
I resti dei budget destinati alle assunzioni per il triennio
antecedente al 2015 debbono essere utilizzati
necessariamente per l'assunzione dei vincitori dei concorsi
le cui graduatorie siano vigenti o approvate alla data
dell'01/01/2015, oppure ai dipendenti delle province in
sovrannumero. Finché perduri il congelamento delle
assunzioni per il biennio 2015-2016, gli enti locali non
possono utilizzare risorse disponibili dai resti, per
effettuare assunzioni di personale ex novo.
È il «decreto enti locali», il dl 78/2015 che,
combinato con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Corte dei
conti, sezione autonomie, fornisce la soluzione al quesito
già affrontato dalla Sezione regionale di controllo della
Lombardia, rimesso per la decisione proprio alla sezione
autonomie.
L'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 ha vincolato
il budget delle assunzioni con una formula oggettivamente
ambigua, tale da lasciare aperta anche sul piano solo
letterale la porta a due soluzioni interpretative. La prima
è quella caldeggiata anche dalla circolare interministeriale
di Funzione pubblica e affari regionali 1/2015, secondo la
quale «rimangono consentite le assunzioni, a valere sui
budget degli anni precedenti, nonché quelle previste da
norme speciali». La seconda e opposta teoria è stata
considerata come egualmente fondata proprio dalla sezione
Lombardia.
L'ago della bilancia, però, ora risulta spostato decisamente
dal dl 78/2015 che integra l'articolo 3, comma 5, del dl
90/2014, convertito in legge 114/2014 così da chiarire,
finalmente, che il budget triennale cumulabile per le
assunzioni non è quello futuro, ma quello passato.
Solo in presenza della tesi mossa dalla sezione autonomie
con delibera 27/2014 secondo cui il triennio sarebbe quello
futuro, ha un peso l'idea espressa dalla circolare 1/2015,
secondo cui nel biennio 2015-2016 le amministrazioni
potrebbero utilizzare i budget passati per indire concorsi e
assunzioni al di fuori del congelamento delle assunzioni
imposto dalla legge 190/2014.
Ma, poiché ora la legge chiarisce (com'era per altro
opportuno e corretto) che il cumulo è retroattivo, è
evidente che negli anni 2015 e 2016 è possibile effettuare
assunzioni a valere sul badget di ciascuno dei due
anni, comprensivo dei «resti» dei precedenti trienni,
i quali finiscono, quindi, per estendere le possibilità di
chiamata in servizio dei vincitori dei concorsi e dei
dipendenti provinciali in sovrannumero, senza permettere
assunzioni esterne ex novo.
A rafforzare questa conclusione indotta dal dl 78/2015 è,
come rilevato prima, anche la delibera della sezione
Autonomie 19/2015, secondo cui le disposizioni di cui
all'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, debbono
sempre essere lette come norme poste a dare comunque
priorità alla ricollocazione dei 20 mila dipendenti
provinciali soprannumerari circa, anche perché il «congelamento»
è destinato a durare al massimo 2 anni (in realtà restano 18
mesi, oggi).
Dunque, qualsiasi lettura di tale norma di garanzia e
riorganizzazione del personale pubblico sottesa a sottrarre
risorse e posti disponibili al processo di ricollocazione
dei dipendenti provinciali e di chiamata in servizio dei
vincitori dei concorsi appare contrario ai fini
esplicitamente indicati dal legislatore
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gli emolumenti indebiti vanno recuperati al netto
delle ritenute fiscali.
In caso di indebita erogazione di denaro al pubblico
dipendente, il successivo recupero delle somme nei suoi
confronti deve riguardare gli importi erogati al netto delle
ritenute fiscali ed assistenziali. Infatti, queste non sono
ripetibili dal dipendente, posto che non sono mai entrate
nella sua sfera patrimoniale di disponibilità.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Regione Lazio, nel
testo del
parere 15.06.2015 n. 125 con cui, in risposta a
un preciso quesito posto dal comune di Tarquinia (Vt), si fa
chiarezza sulle modalità di restituzione di somme percepite
da pubblici dipendenti, come nel caso di emolumenti non
dovuti.
Nei fatti oggetto del parere in osservazione, il primo
cittadino istante chiedeva l'intervento della magistratura
contabile per conoscere se il recupero da parte della
pubblica amministrazione di somme indebitamente erogate ai
dipendenti, dovesse riguardare gli importi considerati al
lordo delle ritenute previdenziali, assicurative e fiscali,
ovvero se queste dovessero essere richieste al netto delle
ritenute operate dall'ente all'atto del pagamento
dell'indebito. Per il collegio laziale della Corte non ci
sono dubbi.
Infatti, come più volte sottolineato dalla giurisprudenza
amministrativa (Consiglio di stato, sent. n. 3984/2011), le
ritenute fiscali, previdenziali ed assistenziali non sono
ripetibili dai dipendenti, in quanto si tratta di somme che
non sono mai entrate nella sfera patrimoniale di
disponibilità del dipendente.
Quindi, al dipendente devono essere richieste le somme
percepite al netto delle ritenute di legge, lasciando agli
enti la conseguente regolarizzazione dei rapporti con le
amministrazioni interessate alla materia previdenziale,
fiscale e assicurativa.
Inoltre, la Corte ha sottolineato che nei casi di indebita
erogazione di denaro al dipendente, la buona fede di
quest'ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti
erroneamente corrisposti, posto che sussiste in capo
all'ente un vero e proprio «diritto soggettivo a
contenuto patrimoniale». Quindi, il recupero configura
un comportamento doveroso della p.a.
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2015). |
URBANISTICA: Il
privato esecutore, a seconda che le opere (di
urbanizzazione) da realizzare a favore del Comune, a fronte
della cessione in piena proprietà di immobili
precedentemente concessi in diritto di superficie e
destinati ad insediamenti produttivi, siano di importo
superiore o inferiore alla soglia comunitaria dovrà
rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché quelle della
parte I, IV e V (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, nonché le
eccezioni previste dal comma 2 del medesimo articolo) per le
opere di importo superiore alla soglia comunitaria
prevista in tema di lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000,
come imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011)
- la disciplina prevista degli art. 121 comma 1 e, in
particolare, la procedura dell’art. 57, comma 6 (con invito
rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale
numero aspiranti idonei) del medesimo Codice, in caso di
lavori sotto soglia comunitaria (cfr. art. 122, comma
8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va evidenziato che
l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011, convertito nella legge
n. 214/2011, ha modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001
con l’inserimento di un comma 2-bis a mente del quale
“nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria
di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui
all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di
trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del
titolare del permesso di costruire e non trova applicazione
il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163".
---------------
Il Sindaco del Comune di Vedano Olona (VA), con nota del
24.04.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di
parere in merito alla possibilità di prevedere a titolo di
corrispettivo per la cessione del diritto di proprietà di
aree, già concesse in diritto di superficie, la
realizzazione di opere da trasferire al Comune.
In particolare il sindaco precisa che Il Comune di Vedano
Olona, dopo essersi dotato del Piano per Insediamenti
Produttivi, ai sensi dell'art. 27 della legge 22.10.1971 n.
865, ha dato attuazione alla realizzazione degli interventi
assegnando le aree ricomprese nei vari lotti del piano, sia
in diritto di superficie sia in piena proprietà.
Considerato che la legge 23.12.1996. n. 662, all'art. 3,
comma 64, ha riconosciuto ai Comuni la possibilità di cedere
in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie,
chiede un parere in ordine alla possibilità di prevedere,
a titolo di corrispettivo di tale cessione (nel rispetto
di criteri e modalità di valutazione di tale corrispettivo
indicati allo stesso comma 64, come sostituito dall'art. 11,
comma 1, della legge 12.12.2002 n. 273), la
realizzazione di opere da trasferire al Comune.
...
Appare opportuno richiamare il dettato normativo in tema di
Piani per insediamenti produttivi (c.d. PIP), in particolare
il procedimento che il Comune deve seguire a tal fine e le
facoltà concesse al medesimo.
L’art. 27 della legge n. 865/1971 (Programmi e coordinamento
dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla
espropriazione per pubblica utilità e modifiche ed
integrazioni alle leggi 17.08.1942 n. 1150, 18.04.1962 n.
167, 29.09.1964 n. 847) prevede che “i comuni dotati di
piano regolatore generale o di programma di fabbricazione
approvati possono formare, previa autorizzazione della
Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti
produttivi”. Le aree da comprendere in questo piano sono
delimitate, nell'ambito delle zone destinate a insediamenti
produttivi dai piani regolatori generali o dai programmi di
fabbricazione, con deliberazione del consiglio comunale,
approvata con decreto del Presidente della giunta regionale.
Il piano ha efficacia per dieci anni dalla data del decreto
di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato
d'esecuzione ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150.
L’art. 27 specifica che “le aree comprese nel piano
approvato a norma del presente articolo sono espropriate dai
comuni o loro consorzi secondo quanto previsto dalla
presente legge in materia di espropriazione per pubblica
utilità.”, ma soprattutto, ai fini che interessano per
la risposta al comune istante, che “il comune utilizza le
aree espropriate per la realizzazione di impianti produttivi
di carattere industriale, artigianale, commerciale e
turistico mediante la cessione in proprietà o la concessione
del diritto di superficie sulle aree medesime”.
In quest’ultimo caso, la concessione del diritto di
superficie ad enti pubblici (per la realizzazione di
impianti e servizi pubblici, occorrenti nella zona
delimitata dal piano) è a tempo indeterminato, mentre negli
altri casi (in sostanza a soggetti/imprese private) ha una
durata non inferiore a sessanta e non superiore a
novantanove anni.
La norma precisa, infine, che “contestualmente all'atto
di concessione, o all'atto di cessione della proprietà
dell'area, tra il comune da una parte e il concessionario o
l'acquirente dall'altra, viene stipulata una convenzione per
atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri
posti a carico del concessionario o dell'acquirente e le
sanzioni per la loro inosservanza”.
Il dato normativo non prevede la necessaria corresponsione,
da parte del privato assegnatario dell’area, di un
corrispettivo in denaro, ma la sottoposizione ad oneri,
funzionali alla realizzazione degli obiettivi posti dal
Piano per gli insediamenti produttivi.
Il privato è in sostanza beneficiario delle aree, ma in
virtù di un provvedimento di concessione finalizzato alla
realizzazione di superiori interessi di carattere generale
per la comunità comunale. Il provvedimento li attribuisce
diritti sulle aree interessate (di superficie o piena
proprietà), ma anche dei relativi connessi “oneri”,
con la previsione di “sanzioni per la loro inosservanza”.
Come per altri strumenti di edilizia complessa o negoziata
(si rimanda all’art. 35 della stessa legge n. 865/1971 per i
Piani di edilizia economica e popolare, c.d. PEEP; ai Piani
di riqualificazione urbana di cui alla legge n. 493/1993; ai
Piani integrati di interventi di cui alla legge n. 179/2002,
etc.), l’obbligazione che assume il concessionario non è
necessariamente limitata al pagamento di una somma di
denaro, ma eventualmente (se in tal senso depongono gli
accordi con il Comune), alla realizzazione di opere di
urbanizzazione o altre opere pubbliche funzionali alla
realizzazione del piano (nello specifico, per insediamenti
produttivi).
In tal modo il Comune consegue gli obiettivi posti in sede
di programmazione/piano (nel caso di specie approvato dalla
Regione) trasferendo sui privati concessionari gli oneri dei
costi di realizzazione (esplicita necessità in tal senso si
ritrova nell’art. 35 della legge n. 865/1971 sui PEEP, oltre
che in generale nell’art. 16, comma 3, del D.L. 22.12.1981,
n. 786, convertito in legge 26.02.1982, n. 51, cfr. anche
Corte dei Conti, Sez.
controllo Piemonte,
parere 29.09.2011 n. 117),
sia quelli di eventuale
esproprio/acquisizione delle aree, sia quelli necessari a
rendere le aree medesime funzionali agli scopi produttivi
perseguiti.
Il successivo art. 3, comma 64, della legge n. 662/1996
aggiunge, all’interno di questo quadro generale,
un
ulteriore tassello, permettendo ai comuni che, in
precedenza, avevano optato per la concessione ai privati del
diritto di superficie sulle aree destinate a insediamenti
produttivi di attribuirne il pieno diritto di proprietà.
Questa norma, nella versione novellata dall’art. 11 della
legge n. 273/2002, prevede infatti che “i comuni possono
cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di
superficie nell'ambito dei piani delle aree destinate a
insediamenti produttivi di cui all'articolo 27 della legge
22.10.1971, n. 865. Il corrispettivo delle aree cedute in
proprietà è determinato con delibera del consiglio comunale,
in misura non inferiore alla differenza tra il valore delle
aree da cedere direttamente in diritto di proprietà e quello
delle aree da cedere in diritto di superficie, valutati al
momento della trasformazione di cui al presente comma. La
proprietà delle suddette aree non può essere ceduta a terzi
nei cinque anni successivi all'acquisto” (nel testo
storico si limitava a prevedere che “gli enti locali
territoriali possono cedere in proprietà le aree già
concesse in diritto di superficie, destinate ad insediamenti
produttivi”, cfr. parere Veneto n. 113/2010).
In tal modo il legislatore permette al privato investitore
di conseguire la certezza del diritto attribuito, favorendo
altri successivi investimenti da parte del medesimo,
attività scoraggiata nel caso in cui, a fronte della
scadenza del termine di attribuzione del diritto di
superficie, l’immobile realizzato (nello specifico,
finalizzato a impianto produttivo) rischia di rientrare nel
patrimonio del Comune proprietario del suolo (secondo
l’ordinaria regola prevista dal Codice civile).
Alla motivazione di cui sopra si aggiunge quella propria di
altri provvedimenti di dismissione (e privatizzazione)
deliberati nel corso degli anni ’90, tesi all’incremento
delle entrate per gli enti pubblici attraverso la vendita di
asset immobiliari e azionari (cfr. in merito la delibera
della Sezione Puglia n. 2/2009/PAR).
La scelta legislativa è analoga a quella effettuata in
ambiti similari, come i Piani di edilizia economica e
popolare (c.d. PEEP), per i quali l’art. 31, commi 45 e ss,
della legge n. 448/198 ha previsto che le aree concesse in
diritto di superficie per la realizzazione degli interventi
previsti dall’art. 35 della legge n. 865/1971 (modificato
dall’art. 3, comma 63, della legge n. 662/1996), possano
essere concesse in piena proprietà ai privati richiedenti.
La facoltà di trasformazione del diritto di superficie in
piena proprietà, prevista dall’art. 3, comma 64, della legge
n. 662/1996, di cui si discute nel presente parere, si
innesta pertanto sull’impianto legislativo esistente,
disciplinante i “Piani per gli insediamenti produttivi”
previsti dall’art. 27 della legge n. 865/1971.
Di conseguenza la scelta, da parte del comune, di attribuire
la piena proprietà degli immobili precedentemente concessi
in diritto di superficie, dovrebbe trovare fondamento nelle
similari, rinnovate, motivazioni che hanno condotto
all’approvazione e realizzazione del Piano, funzionalizzando
la cessione della proprietà del suolo, sede di impianti
produttivi, alla realizzazione di interessi generali
finalizzati allo sviluppo produttivo complessivo del
territorio.
All’interno di tale quadro, sulla base dei presupporti di
fatto e degli obiettivi da esplicitare nella motivazione
della delibera di Consiglio, il Comune potrebbe optare, in
luogo di un corrispettivo in denaro, per una differente
forma di attribuzione patrimoniale.
Naturalmente devono essere rispettati i limiti legislativi
imposti dal combinato disposto degli artt. 27 legge n.
865/1971 e 3, comma 64, legge n. 662/1996, oltre che quelli
desumibili dall’ordinamento giuridico generale.
Per quanto riguarda i primi, vanno innanzitutto osservati il
procedimento e i criteri di valutazione che il legislatore
prevede per la cessione dell’area (“il corrispettivo delle
aree cedute in proprietà è determinato con delibera del
consiglio comunale, in misura non inferiore alla differenza
tra il valore delle aree da cedere direttamente in diritto
di proprietà e quello delle aree da cedere in diritto di
superficie, valutati al momento della trasformazione di cui
al presente comma”), adempimenti che il Comune, nell’istanza
di parere, si impegna a rispettare.
Con la precisazione che il valore che il privato deve
corrispondere è stabilito dal legislatore solo nel minimo,
in un ammontare che, previa motivazione, può essere
aumentato dal Comune in funzione delle specifiche esigenze
da perseguire e del contesto produttivo in cui l’operazione
di cessione si inserisce.
Circa la natura della suddetta entrata, appare opportuno
sottolineare che si tratta di introito derivante da
alienazione di beni patrimoniali (il diritto di proprietà
sul suolo cui accede la costruzione/impianto produttivo), da
allocare nel Titolo IV delle Entrate e, come tale,
necessariamente destinato a spesa in conto capitale (salve
le eccezioni normativamente e tassativamente previste, come
per esempio l’art. 2, comma 8, della legge n. 244/2007, ovvero
gli artt. 193, commi 2 e 3, del TUEL, cioè le ipotesi in cui
occorra provvedere al mantenimento degli equilibri di
bilancio, cfr. Sezione Piemonte
parere 29.09.2011 n. 117).
L’altro limite, esplicitato dalla norma base (art. 27 della
legge n. 865/1971), consiste nella finalizzazione
dell’entrata alla realizzazione degli scopi perseguiti con
il Piano, tanto che il privato si obbliga, stipulando
apposita convenzione, a determinati oneri (pagamento
corrispettivo in denaro ovvero alla realizzazione di opere
strumentali o altro) necessariamente presidiati da sanzioni
in caso di inosservanza (causa rischio mancato conseguimento
degli obiettivi perseguiti).
In tale ottica, appare possibile che il Comune, previa
adeguata motivazione, permetta al privato di liberarsi
dall’erogazione del corrispettivo per la cessione di aree in
proprietà imponendogli l’obbligo di realizzare opere
pubbliche funzionali al mantenimento degli obiettivi posti
dal PIP.
Trattasi, necessariamente, di opere d’investimento. Posto
infatti che, come detto, l’entrata che il comune consegue è
imputata in conto capitale, analoga destinazione deve avere
la spesa che il privato sostiene in sostituzione
dell’obbligo di pagamento della somma di denaro.
In via residuale, sempre previa adeguata motivazione,
il
comune potrebbe decidere di far effettuare al privato altre
opere pubbliche, stipulando analoga convenzione e prevedendo
similari sanzioni in caso di inadempienza. Si pensi al caso
in cui l’area destinata al PIP non abbia, allo stato,
bisogno di lavori di adeguamento/ristrutturazione (in tale
direzione si rinvia alle motivazioni del
parere 29.09.2011 n. 117 reso dalla
Sezione Piemonte, riferito alla similare
fattispecie prevista dall’art. 31 della legge n. 448/2011
per la cessione in proprietà delle aree destinate
all’edilizia economica e popolare). In questo caso, infatti,
il privato realizzerebbe direttamente l’opera pubblica in
sostituzione del Comune, utilizzando le somme che avrebbe
dovuto versare per la trasformazione del diritto di
superficie in diritto di proprietà.
Il problema successivo che si pone attiene, tuttavia, alle
modalità di realizzazione di tali opere da parte del
privato.
Infatti, nella similare fattispecie delle opere a scomputo
degli oneri di urbanizzazione (art. 16 DPR n. 380/2001), il
legislatore, dopo l’intervento della giurisprudenza
comunitaria (Corte di Giustizia con la sentenza 12.07.2001 C-399/1998, "Scala 2001"),
ha imposto al privato
esecutore il rispetto delle procedure di evidenza pubblica
(cfr. artt. 32 e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006).
Analoga interpretazione è stata adottata dall’Autorità per
la vigilanza sui contratti pubblici in altri casi di
sostituzione del privato all’amministrazione nell’ambito di
programmi di edilizia complessa o negoziata (cfr.
determinazione 02.04.2008 n. 4 e
determinazione 16.07.2009 n. 7).
La regolamentazione dell'istituto delle “opere di
urbanizzazione a scomputo” risale alla normativa in materia
urbanistica, secondo la quale la realizzazione di tali opere
condiziona il rilascio del permesso di costruire (cfr. art.
31 della legge 1150/1942, art. 8 legge n. 765/1967, art. 6
legge n. 10/1977). Le pregresse disposizioni sono state poi
trasfuse nell'articolo 16 del Testo unico sull'edilizia DPR
n. 380/2001 che, ai commi 7, 7-bis e 8, stabilisce la
suddivisione in oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, prevedendo che il rilascio del permesso di
costruire comporta per il privato "la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
Il legislatore ha previsto poi, nel comma 2 del citato art.
16, la possibilità di scomputare la quota del contributo
relativa agli oneri di urbanizzazione, nel caso in cui il
titolare del permesso di costruire, o l’attuatore del piano,
si obblighi a realizzarle direttamente. Tra l'operatore
privato e l'amministrazione viene stipulata una convenzione
che accede al permesso di costruire nella quale vengono
regolate le opere da realizzare, i tempi, le modalità della
loro esecuzione, la loro valutazione economica e le garanzie
dell'adempimento, imprimendo così una connotazione negoziale
al rapporto tra pubblica amministrazione e privato.
La ratio dell'istituto va individuata nella possibilità
offerta all'amministrazione locale di dotarsi di opere di
urbanizzazione senza assumere direttamente i rischi legati
alla loro realizzazione.
Su tale assetto normativo è intervenuta la citata pronuncia
della Corte Europea "Scala 2001" che ha affermato le
direttive europee in tema di appalti ostano “ad una
normativa nazionale in materia urbanistica che, al di fuori
delle procedure previste da tale direttiva, consenta al
titolare di una concessione edilizia o di un piano di
lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera
di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del
contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel
caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la
soglia fissata dalla direttiva di cui trattasi". La Corte
di Giustizia ha precisato che “la realizzazione diretta di
un'opera di urbanizzazione secondo le condizioni e le
modalità previste dalla normativa italiana in materia
urbanistica costituisce un appalto pubblico di lavori”.
In
sostanza, la Corte ha sostenuto che tali opere sono da
ritenere pubbliche sin dall’origine (anche se eseguite su
proprietà privata e se formalmente tali prima del passaggio
al patrimonio pubblico) e che la realizzazione delle
medesime in luogo del pagamento del contributo conferma tale
natura.
Con l'approvazione del Codice dei contratti il quadro
normativo si è evoluto nella direzione di un più esteso
assoggettamento delle opere a scomputo alle procedure di
evidenza pubblica.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la
citata
determinazione 02.04.2008 n. 4
ha poi esteso la portata
dell'articolo 32, comma 2, lettera g), del d.lgs. 163/2006 a
tutti i piani urbanistici e accordi convenzionali, comunque
denominati, stipulati tra privati e amministrazioni
(cosiddetti "accordi complessi", compresi gli accordi di
programma) che prevedano l'esecuzione di opere destinate a
confluire nel patrimonio pubblico.
Infatti, il giudice europeo, nella sentenza “Scala” del
2001, ha affermato che la realizzazione delle opere di
urbanizzazione è da ricondurre al genus “appalto pubblico di
lavori” sulla base della ricorrenza di una serie di
elementi:
- la qualità di amministrazione aggiudicatrice dell’ente
procedente;
- la riconducibilità delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria alla categoria delle opere pubbliche in senso
stretto, stante la loro idoneità funzionale a soddisfare le
esigenze della collettività ed il pieno controllo
dell’amministrazione competente sulla realizzazione delle
opere medesime (a nulla rilevando che l’opera sia
inizialmente privata, in quanto le opere di urbanizzazione
hanno per propria natura una intrinseca finalità pubblica);
- la natura contrattuale del rapporto fra l’amministrazione
e il privato lottizzante, posto che la convenzione di
lottizzazione, sottoscritta dalle parti, stabilisce diritti
ed obblighi delle parti, ivi compresa l’esatta
individuazione delle opere che il privato è tenuto a
realizzare;
- la natura onerosa di tale contratto, considerando che
l’amministrazione comunale, accettando la realizzazione
diretta delle opere di urbanizzazione, rinuncia a pretendere
il pagamento dell’importo dovuto a titolo di contributo e
che, pertanto, il titolare della concessione edilizia o del
piano di lottizzazione, attraverso la realizzazione diretta,
estingue un debito di pari valore, secondo lo schema
civilistico dell’obbligazione alternativa.
Poiché si tratta, quindi, di appalti pubblici di lavori, la
Corte di giustizia ha ritenuto applicabile agli stessi
l’obbligo di esperire procedure ad evidenza pubblica secondo
la normativa comunitaria.
Alla luce di tale arresto comunitario, l’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici ha valutato, nella
determinazione 02.04.2008 n. 4, se i principi enucleati nella
descritta pronuncia possano eccedere l’ambito preso in esame
e trovare applicazione nei confronti di altre forme di
negoziazione tra pubblica amministrazione e privato.
In particolare, occorre stabilire se, anche per altre
fattispecie, ricorrano gli elementi che hanno indotto la
Corte di Giustizia ad ascrivere all’appalto pubblico di
lavori la realizzazione delle opere di urbanizzazione a
scomputo.
Pertanto se anche in altre ipotesi di programmi di edilizia
complessa o negoziata ricorre:
- sotto il profilo soggettivo, la qualità di amministrazione
aggiudicatrice in capo all’ente pubblico procedente e, sotto
il profilo oggettivo, l’esecuzione di opere pubbliche, cioè
di opere d’interesse generale realizzate a vantaggio della
collettività;
- la natura negoziale del rapporto pubblico-privato, con
rapporto disciplinato tra le parti con convenzione avente
valore vincolante, sulla base di uno scambio sinallagmatico;
- il carattere oneroso della prestazione (come nel caso in
cui a fronte della prestazione del privato, vi sia il
riconoscimento di un corrispettivo in denaro, ovvero del
diritto di sfruttamento dell’opera o, ancora, come nel caso
di specie, la cessione in proprietà o in godimento di beni
appartenenti all’amministrazione),
il privato che si assume l’obbligo di eseguire le opere è
tenuto, come nel caso della realizzazione delle opere a
scomputo degli oneri di urbanizzazione, ad osservare le
procedure previste per l’esecuzione dei lavori pubblici.
Ciò in quanto l’effettuazione di queste opere da parte del
privato avviene comunque sulla base di un accordo
convenzionale concluso con l’amministrazione per il
raggiungimento di un proprio interesse patrimoniale, che è
la causa del negozio giuridico in base al quale il privato
stesso assume su di sé l’obbligo di realizzare le opere di
cui trattasi.
Né osta a tale ricostruzione il fatto che la realizzazione
delle opere avvenga tramite soggetti privati, atteso che la
Corte Costituzionale, con sentenza 28.03.2006 n. 129, ha
espressamente stabilito che “il ricorso a procedure ad
evidenza pubblica per la scelta del contraente non può
essere ritenuto incompatibile con gli accordi tra privati e
pubblica amministrazione”.
Il privato esecutore, pertanto, a seconda che le opere da
realizzare a favore del Comune, a fronte della cessione in
piena proprietà di immobili precedentemente concessi in
diritto di superficie e destinati ad insediamenti
produttivi, siano di importo superiore o
inferiore alla
soglia comunitaria dovrà rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché quelle della
parte I, IV e V (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, nonché le
eccezioni previste dal comma 2 del medesimo articolo)
per le
opere di importo superiore alla soglia comunitaria prevista
in tema di lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come imposto
dal Regolamento CE n. 1251/2011);
- la disciplina prevista degli art. 121, comma 1, e, in
particolare, la procedura dell’art. 57, comma 6 (con invito
rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale
numero aspiranti idonei) del medesimo Codice, in caso di
lavori sotto soglia comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va evidenziato che
l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011, convertito nella legge
n. 214/2011, ha modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001
con l’inserimento di un comma 2-bis a mente del quale
“nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria
di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui
all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali
all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio,
è a carico del titolare del permesso di costruire e non
trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n.
163" (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.05.2012 n. 222). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO:
Stop alla spesa con i buoni pasto. Per il Fisco i
tagliandi vanno usati in alternativa alla mensa nei giorni
di lavoro.
Legge di stabilità. Da domani i ticket elettronici detassati
fino a 7 euro - La tracciabilità limiterà gli abusi.
Fine della spesa al
supermercato tramite l’utilizzo in contemporanea di più
buoni pasto elettronici. L’uso contestuale di più tagliandi,
seppure in questo caso virtuali, ma comunque rappresentativi
di singole prestazioni sostitutive, ne ridurrebbe fortemente
i vantaggi fiscali tanto da scoraggiarne l’impiego.
Questo è l’inatteso scenario che si potrebbe delineare in
assenza di chiarimenti ministeriali o novità normative.
Infatti nonostante l’imminente debutto, da domani, della
nuova e più favorevole soglia di esenzione dei ticket
elettronici, la loro facile tracciabilità apre questioni
inedite e lascia dubbi da dissipare.
L’articolo 51, comma 2, lettera c), del Tuir stabilisce che
non concorrono alla formazione del reddito di lavoro
dipendente le prestazioni sostitutive del servizio di mensa
quali i buoni pasto fino all’importo giornaliero di 5,29
euro, valore elevato, dal domani, a 7 euro per i ticket
elettronici. Con circolare 326/E del 23.12.1997 è stato
precisato che le prestazioni sostitutive in questione devono
interessare la generalità dei dipendenti o intere categorie
omogenee di essi.
Il Dpcm del 18.11.2005 ha meglio delineato le condizioni di
utilizzo dei ticket restaurant specificando che gli stessi
riguardano le somministrazioni di alimenti e bevande e vanno
utilizzati durante la giornata lavorativa, anche se
domenicale o festiva, solo dai prestatori di lavoro.
Ulteriori condizioni attengono alle caratteristiche del
buono, che non deve essere cedibile, né commerciabile, né
convertibile in denaro, né cumulabile, ma utilizzabile
esclusivamente per l’intero valore facciale.
Per fruire dell’agevolazione fiscale e contributiva, il
datore di lavoro dovrà distribuire un numero di tagliandi
non superiore ai giorni realmente lavorati dal dipendente:
l’esenzione infatti non opera in caso di assenza per ferie,
malattia o quando il vitto viene offerto tramite mensa,
convenzione con esercizi pubblici o, in caso di trasferte
fuori del Comune, attraverso rimborso forfetario o a piè di
lista.
Per ottenere il massimo vantaggio fiscale e calcolare
correttamente i ticket da distribuire si potranno effettuare
conguagli su base mensile (o bimestrale) sottraendo, dal
totale dei giorni lavorativi del mese entrante, le assenze
del mese (o dei due mesi) precedenti.
In dottrina si è sempre ritenuto che l’inosservanza dei
predetti vincoli (incumulabilità, incedibilità eccetera) non
potesse gravare sul sostituto di imposta ma eventualmente
solo sui dipendenti beneficiari o sugli esercizi commerciali
convenzionati che non avessero rispettato le regole.
L’inesistente giurisprudenza in materia rappresenta un
ulteriore conferma che ad oggi non vi sia stato nessun
interesse da parte dei verificatori di eccepire rilievi di
questo tipo. Di fatto quindi, i vincoli sono più teorici che
pratici e non è un segreto che il contemporaneo utilizzo di
più buoni pasto sia prassi largamente diffusa tra gli
utilizzatori, ad esempio per pagare la spesa al
supermercato, come pure è risaputo che la cessione degli
stessi ad altri soggetti non sia un fenomeno così marginale.
Con i ticket elettronici tutto potrebbe cambiare diventando
rilevante anche il momento di utilizzazione, oltre che
quello di erogazione. Le società di emissione infatti
possono facilmente fornire, a tutte le loro imprese clienti,
dettagliati resoconti sulle modalità d’impiego dei ticket.
Con la conseguenza che le somme giornaliere eccedenti i 7
euro dovrebbero essere pienamente tassate.
A questo punto la responsabilità di operare le ritenute
fiscali e contributive ricadrebbe sul datore di lavoro, che,
in difetto, sarebbe esposto alle sanzioni previste per
omesse o insufficienti trattenute, omessi o insufficienti
versamenti, inesatte certificazioni uniche e infedele
dichiarazione dei sostituti. Nonostante si tratti di
penalità pesanti, è opportuno rammentare che -ai sensi
dell’articolo 12 del Dlgs 472/1997- alcune di queste
violazioni sono giuridicamente cumulabili. Come stavolta
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Casa
rumorosa, la svalutazione va provata. Secondo la Corte
d’appello di Brescia va considerata la diminuzione di valore
della sola stanza colpita da vizi insanabili.
Il minor valore dell’appartamento
affetto da cattivo isolamento acustico va calcolato in modo
specifico e la valutazione equitativa è possibile se mancano
gli elementi per una valutazione analitica.
Sono alcuni dei
principi affermati dalla Corte d’appello di Brescia
(presidente ed estensore Bitonte), con la sentenza n. 32/2015.
Vediamo la vicenda, tralasciando le questioni giuridiche
sulla disciplina applicabile. Il ricorrente è l’acquirente
di un immobile di 80 metri quadrati e il superamento dei
limiti di cui al Dpcm 12.12.1997 è accertato da una Ctu (consulenza tecnica) ordinata dal giudice di primo grado
e non contestata dal costruttore convenuto, che critica
invece il criterio di conteggio del minor valore.
Il Ctu, in particolare, aveva accertato questa situazione:
-
una parte dei vizi poteva essere ripristinata con una spesa
di circa 16mila euro (compresivi del costo dell’albergo per
il proprietario durante i lavori e della perdita di
superficie calpestabile per l’inspessimento delle pareti);
-
un’altra parte dei vizi non era ripristinabile e riguardava
la rumorosità da calpestio relativa a una cameretta.
La Corte d’appello parte dal prezzo di acquisto (207mila
euro), lo confronta con il valore commerciale stimato dal
Ctu, riferito al momento dell’acquisto (232mila euro), e
sottrae il costo dei lavori (16mila euro): siccome il
risultato è superiore a quanto pagato dall’acquirente, ciò
esclude il dritto a un indennizzo per i vizi eliminabili.
Il nodo, però, sono i vizi non ripristinabili. Il giudice di
primo grado aveva condannato il costruttore a rimborsare
all’acquirente la differenza tra il prezzo e il valore
effettivo, così come rideterminato alla luce della
consulenza del Ctu, che l’aveva ridotto del 25% rispetto al
valore commerciale: un importo di svariate decine di
migliaia di euro.
La Corte, però, boccia in toto il ragionamento del Tribunale
e del Ctu, che aveva qualificato il vizio come «rilevante» e
aveva richiamato una sentenza del Tribunale di Torino in
cui, a un vizio di questa portata, era stato correlato un
minor valore del 25%: «Il consulente doveva valutare la
perdita di valore dell’appartamento in questione –scrive il
giudice– non già quella subita da un imprecisato immobile
torinese la cui elezione a parametro di riferimento non
trova alcuna giustificazione».
In secondo luogo, siccome solo una stanza è “viziata”,
«anche ammettendo di trovare una motivazione (in realtà del
tutto assente) a conforto dell’opinione espressa dalla
sentenza sulla misura del minor valore del 25%, detta
decurtazione dovrebbe essere riferita alla sola cameretta».
La corte “apre” alla possibilità di una valutazione
equitativa. Ipotizzando di applicare la decurtazione del 25%
alla superficie della cameretta, il minor valore sarebbe di
soli 10.800 euro e l’importo da restituire poco più di 2mila
euro, dato che l’alloggio era già stato acquistato con uno
sconto di oltre 8mila euro rispetto alla stima del suo
valore commerciale, pur tenendo conto dei 16mila euro per
gli altri lavori di ripristino.
Ma questa modalità di
calcolo, comunque interessante per gli addetti ai lavori,
non viene ritenuta applicabile nel caso specifico, perché
nel frattempo l’appartamento era stato venduto a terzi e
quindi sarebbe stata possibile una valutazione analitica,
per la quale la ricorrente non ha fornito elementi di prova.
Per questi motivi le richieste dell’acquirente vengono
respinte in toto (articolo Il Sole 24 Ore del
29.06.2015). |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dal personale agli acquisti, i «buchi» del Dl enti locali.
Decreto 78. Rischio blocco per le assunzioni stagionali -
Allarme dissesto nelle Città.
Personale,
centralizzazione degli acquisti e bilanci di Città
metropolitane e Province saranno i temi chiave nel dibattito
sulla conversione del decreto enti locali, che potrebbe
tornare a occuparsi anche di rinegoziazione dei mutui e
vincoli di destinazione delle entrate.
Quello delle risorse umane è il capitolo più spinoso ma non
l’unico, come mostra la prima nota di lettura dell’Ifel che
lamenta parecchie caselle vuote anche in fatto di bilanci e
acquisti. Nella versione definitiva, infatti, il testo ha
“perso” una serie di regole che erano comparse nelle prime
bozze. Ancora una volta, è l’incrocio difficile fra la
complicata attuazione della riforma delle Province e le
regole di gestione delle assunzioni a dominare il campo.
Gli enti di area vasta, in particolare, attendono la deroga
al blocco totale dei rinnovi dei contratti nel caso,
frequente, di sforamento del Patto di stabilità 2014. Non è
solo questione di “attesa”, perché in gioco c’è la
possibilità concreta di attuare una norma, la possibilità di
rinnovo dei contratti, che il Milleproroghe 2015 aveva
accolto dopo settimane di protesta dei precari delle
Province. Senza la deroga per chi ha sforato il Patto,
l’attuazione effettiva del Milleproroghe è possibile solo in
poco più di metà degli enti.
Ancora più ampio è il problema che riguarda la Polizia
provinciale e i centri per l’impiego. Nel primo caso, il
decreto prospetta il «transito» dei poliziotti provinciali
negli organici dei Comuni, dove dovranno svolgere compiti di
Polizia municipale. Questo «transito» è parziale, perché
deve rispettare i limiti di dotazione organica,
programmazione del personale, e risorse finanziarie, ma è
respinto dai diretti interessati che nelle Province si sono
sempre occupati di territorio e ambiente. Il meccanismo, se
non corretto, blocca poi le assunzioni stagionali di vigili
(gli interessati al «transito» sono ovviamente a tempo
indeterminato), creando parecchi problemi nei Comuni
turistici. Per i centri per l’impiego, invece, sono previsti
passaggi nelle Regioni grazie a intese con i Governatori
ancora tutte da costruire.
Il blocco degli stagionali, per tutto il personale e non
solo per i vigili, continua a riguardare anche le
amministrazioni che nel 2014 hanno impiegato in media più di
90 giorni per i pagamenti ai fornitori. Il decreto corregge
l’indicatore, togliendo dalla base di calcolo le fatture
coinvolte dagli sblocca-debiti, ma non introduce alcuna
deroga sulle assunzioni a tempo. Niente da fare, almeno per
ora, nemmeno per le assunzioni di personale scolastico.
Sul versante dei bilanci delle Città metropolitane, il
provvedimento accoglie la nuova ripartizione dei tagli, che
però non basta certo a risolvere i problemi come dimostrano
gli allarmi-dissesto rilanciati negli ultimi giorni non solo
a Milano. I conti degli enti, poi, attendevano la
possibilità di utilizzo per spesa corrente (solo nel 2015)
del 50% dei proventi da alienazioni, regola presente nelle
bozze ma non nel testo finale. Gli amministratori locali,
poi, chiedono di chiarire i vincoli di destinazione per
alienazioni e oneri di urbanizzazione, soggetti a
interpretazioni restrittive da parte della Corte dei conti.
Data per certa ma assente nel decreto è poi la deroga che
escluderebbe dagli obblighi di centralizzazione gli acquisti
fino a 40mila euro nei Comuni fino a 10mila abitanti. Si
tratta di un alleggerimento chiesto a gran voce dai sindaci,
che altrimenti dal 1° settembre rischiano un nuovo blocco
degli acquisti anche a causa delle tante incertezze
nell’avvio delle centrali uniche (articolo Il Sole 24 Ore del
29.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Durc, semplificazione al via. Verifiche in tempo reale.
Dal 1° luglio il documento di regolarità contributiva è
consultabile e stampabile online.
Al via il Durc online. Dal 1° luglio, infatti, il documento
di regolarità contributiva è consultabile e stampabile da
internet, accedendo all'apposito sistema che è raggiungibile
dai portali di Inps e Inail. È sufficiente inserire il
codice fiscale dell'impresa o lavoratore autonomo del quale
si intende verificare la regolarità contributiva per
ottenerne il risultato.
Le certificazioni emesse dal 1°
luglio hanno validità di 120 giorni, a prescindere
dall'utilizzo. Quelle emesse entro il 30 giugno conservano
validità fino a naturale scadenza. A distanza di un anno,
dunque, arriva in porto la semplificazione del Durc.
Operazione di semplificazione.
Dal 1° luglio è possibile verificare in tempo reale se
un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con i
contributi e gli adempimenti nei confronti dell'Inps,
dell'Inail e delle casse edili (nei riguardi di queste
ultime la verifica interessa soltanto le aziende edili).
A
prevedere la semplificazione è stato il dl n. 34/2014,
convertito dalla legge n. 78/2014, ed è stata attuata dal
decreto ministeriale 30.01.2015, pubblicato sulla G.U.
n. 125/2015, entrato in vigore il 16 giugno limitatamente
alle disposizioni su requisiti di regolarità (art. 3, commi
2 e 3), procedure concorsuali (art. 5) e cause ostative alla
regolarità (art. 8). Le restanti disposizioni, incluso
l'avvio operativo del Durc online, entrano in vigore il 1°
luglio.
Soggetti abilitati al Durc.
Diversi sono i soggetti abilitati a effettuare la verifica
di regolarità contributiva di un'impresa o di un lavoratore
autonomo e, dunque, autorizzati a richiedere/ottenere il
Durc online. Il via libera operativo, tuttavia, non avviene
per tutti allo stesso momento. In particolare, per i
seguenti soggetti, la possibilità di effettuare la verifica
decorre immediatamente, cioè a partire dal 01.07.2015:
a) le amministrazioni aggiudicatrici, gli organismi di
diritto pubblico, gli enti aggiudicatori, gli altri soggetti
aggiudicatori, i soggetti aggiudicatori e le stazioni
appaltanti (cioè i soggetti di cui all'art. 3, comma 1, lett.
b, del dpr n. 207/2010);
b) gli Organismi di attestazione Soa;
c) le amministrazioni pubbliche concedenti, anche ai sensi
dell'art. 90, comma 9, del dlgs n. 81/2008, in materia di
verifica di idoneità tecnico professionale delle imprese
affidatane, delle imprese esecutrici e dei lavoratori
autonomi;
d) le amministrazioni pubbliche procedenti, i concessionari
e i gestori di pubblici servizi (che agiscono ai sensi del
dpr n. 445/2000); per questi altri soggetti, invece, la
possibilità di effettuare la verifica non è immediata, cioè
non scatta a partire dal 01.07.2015, ma rinviata a un
momento successivo (che verrà poi comunicato);
e) l'impresa o il lavoratore autonomo in relazione alla
propria posizione contributiva o, previa delega dell'impresa
o del lavoratore autonomo medesimo, chiunque vi abbia
interesse;
f) le banche o gli intermediari finanziari, previa delega da
parte del soggetto titolare del credito in relazione alle
cessioni dei crediti certificati (art. 9 del dl n. 185/2008
convertito dalla legge n. 2/2009; e art. 37, comma 7-bis,
del dl n. 66/2014 convertito dalla legge n. 89/2014).
Consulenti del lavoro in prima linea.
Il «ritardo» (il rinvio dell'operatività del Durc online)
per le predette ipotesi, è dovuto al fatto che la
possibilità di effettuare verifiche sulla regolarità
contributiva è subordinata alla sussistenza di un apposito
atto di delega che dovrà essere comunicato, a cura del
delegante, agli Istituti (Inps, Inail e casse edili) e che
sarà conservato a cura del soggetto delegato il quale
effettuerà, comunque, la verifica di regolarità contributiva
sotto la propria responsabilità.
È in attesa delle
necessarie implementazioni informatiche che consentano il
rispetto di questa predetta condizione che, in questa prima
fase di applicazione della nuova disciplina, i soggetti
delegati (di cui alle predette lett. e ed f) resteranno
esclusi dalla possibilità di avviare la verifica della
regolarità contributiva. Attenzione; la preclusione non
opera nei confronti dei professionisti delegati ai sensi
dell'art. 1 della legge n. 12/1979 (primi fra tutti i
consulenti del lavoro), già abilitati per legge allo
svolgimento degli adempimenti di carattere lavoristico e
previdenziale.
---------------
Versione cartacea sostituita in toto.
La «novità» del Durc online si può toccare con mano nel
momento in cui si ha bisogno di fare la verifica della
regolarità contributiva di un soggetto. Perché in tal caso,
i soggetti abilitati non devono fare una richiesta e
attendere una risposta (come succede con lo sportello
unico), ma possono autonomamente procedere nella verificare
in tempo reale, cioè nello stesso momento in cui si intende
farle, con modalità telematica.
La regolarità contributiva
resta, come sempre, riferita nei confronti di Inps e di
Inail nonché, solo per le imprese classificate o
classificabili ai fini previdenziali nel settore industria o
artigianato per le attività dell'edilizia, delle casse
edili.
- La Cnce per le imprese edili.
Nel caso la verifica riguardi un'azienda edile, il sistema
interroga la banca dati nazionale delle imprese irregolari (Bni),
gestita dalla Cnce, la quale risponderà in due modi:
a) impresa regolare: quando l'impresa risulta iscritta
nell'anagrafica presente in Bni senza avere in carico
segnalazione di irregolarità da parte delle casse edili; in
tal caso, la pratica è chiusa e la risposta della Bni è di
via libera all'emissione del Durc, cosa che avverrà se
l'impresa risulterà regolare anche per Inps e Inail;
b) pratica in istruttoria: quando l'impresa non risulterà
iscritta nell'anagrafica Bni o saranno state segnalate
irregolarità da parte di una o più casse edili. In tal caso,
la cassa edile coinvolta invierà via Pec (posta elettronica
certificata), al soggetto in verifica, l'invito alla
regolarizzazione, chiedendo di svolgere gli adempimenti
necessari per la regolarità entro i successivi 15 giorni. Se
dopo 28 giorni dalla richiesta del Durc la fase istruttoria
ancora non risulta chiusa, la Bni procederà alla chiusura
«d'ufficio» segnalando l'impresa come «irregolare» con
debito pari a zero.
- Un solo Durc per tutti i casi.
La verifica della regolarità contributiva tramite il Durc
online è effettuabile nei confronti dei datori di lavoro e
dei lavoratori autonomi ai quali è richiesto il possesso del
Durc ai sensi della normativa. L'esito (fatte salve le
esclusioni previste dall'art. 9 del regolamento e indicate
in tabella), cioè il Durc online che ne deriva, sostituisce
a ogni effetto il Durc (cartaceo) già previsto:
• per l'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi,
ausili finanziari e vantaggi economici, di qualunque genere,
compresi i benefici e le sovvenzioni comunitarie per la
realizzazione di investimenti (art. 1, comma 553, della
legge n. 266/2005);
• nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e
forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia;
• per il rilascio dell'attestazione Soa.
- Il Durc online.
L'esito positivo della verifica di regolarità contributiva
genera un Documento in formato «.pdf» non modificabile: è il
«Durc online», il documento unico di regolarità contributiva
che riporta i seguenti contenuti minimi:
• la denominazione o ragione sociale, la sede legale e il
codice fiscale del soggetto nei cui confronti è effettuata
la verifica;
• l'iscrizione all'Inps, all'Inail e, ove previsto, alle
casse edili;
• la dichiarazione di regolarità;
• il numero identificativo, la data di effettuazione della
verifica e quella di scadenza di validità del documento.
Attenzione; il nuovo «Durc online» ha validità di 120 giorni
dalla data di effettuazione della verifica ed è «liberamente
consultabile» tramite le applicazioni predisposte dall'Inps,
dall'Inail e dalla commissione nazionale paritetica per le
casse edili (Cnce) nei rispettivi siti internet. La durata
di 120 giorni vale anche per i Durc finalizzati a lavori
edili privati, per i quali il Durc emesso fino al 30 giugno
ha validità di 90 giorni.
- Durc emessi entro il 30 giugno.
I certificati di regolarità contributiva rilasciati prima
dell'entrata in vigore della procedura online, fissata al 1°
luglio, si potranno utilizzare nei casi e per i periodi di
validità previsti dalla vecchia disciplina.
---------------
Regolarità salva in caso di debiti.
Sì al Durc in presenza di uno «scostamento non grave» a
carico dell'impresa o del lavoratore autonomo. La regolarità
contributiva, infatti, è comunque garantita in presenza di
debiti fino a 150 euro (in precedenza 100 euro).
Richieste online.
Il nuovo sistema consente, dai portali Inps e Inail
(funzione «Consulta regolarità»), la verifica dell'esistenza
di un Durc positivo e in corso di validità (120 gg. dalla
richiesta), nonché la visualizzazione e il download in Pdf
(funzione «Visualizza il documento»).
Se risulta una
precedente richiesta per la quale è in corso un'istruttoria
da parte di istituti e casse edili, il sistema comunica tale
informazione e, pertanto, per ottenere il Durc bisognerà
attenderne l'esito. Se, invece, non c'è già un Durc in corso
di validità né un'istruttoria in corso, il portale procede a
interrogare le Banche dati nazionali di Inps, Inail e, se
coinvolte, delle casse edili per l'emissione dell'esito
della verifica e del Durc.
Requisiti di regolarità.
La verifica della regolarità, effettuata in tempo reale,
riguarda i pagamenti dovuti dall'impresa in relazione ai
lavoratori subordinati e a quelli impiegati con contratto di
collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.), cioè
tutti i soggetti tenuti all'iscrizione obbligatoria alla
gestione separata dell'Inps, nonché i pagamenti dovuti dai
lavoratori autonomi, scaduti sino all'ultimo giorno del
secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è
effettuata, a patto che sia scaduto anche il termine di
presentazione delle denunce retributive.
La verifica della
regolarità contributiva nei confronti dei lavoratori
autonomi iscritti alle gestioni amministrate dall'Inps, per
i quali l'obbligo contributivo viene assolto in proprio, è
effettuata indicando il codice fiscale di ciascuno dei
lavoratori autonomi che operano nell'impresa ove lo stesso
risulti non coincidere con quello dell'impresa da
verificare. Laddove il codice fiscale indicato non sia
presente negli archivi degli istituti, l'esito automatizzato
darà l'informazione che per l'impresa ovvero per il
lavoratore autonomo non risulta alcuna iscrizione, senza
fornire alcun esito di regolarità.
Nell'ipotesi di
sospensione e/o cessazione della posizione contributiva
attivata presso uno degli enti tenuti a effettuare la
verifica, il risultato dell'interrogazione restituirà
l'informazione sulla regolarità avuto riguardo alla data
fino alla quale l'impresa/il lavoratore autonomo ha operato.
Scostamenti non gravi.
Come accennato, la regolarità presuppone i pagamenti dovuti
dall'impresa per i lavoratori subordinati e quelli impiegati
in collaborazioni coordinate e continuative nonché dei
lavoratori autonomi, scaduti fino all'ultimo giorno del
secondo mese antecedente a quello in cui è fatta la
verifica, a patto che sia scaduto anche il termine di
presentazione delle relative denunce retributive.
In alcuni
casi, poi, la regolarità sussiste comunque anche in presenza
di parziali scoperture, oppure in presenza di uno
scostamento definito «non grave» tra le somme dovute e
quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto
previdenziale e a ciascuna cassa edile; ossia se il predetto
scostamento risulti pari o inferiore all'importo di 150 euro
inclusi gli eventuali accessori di legge.
Stessa deroga era
prevista anche nel passato, ma con doppio limite, ossia
quando la differenza tra dovuto e versato non superasse il
5% oppure lo superasse ma in presenza di un debito
complessivo inferiore a 100 euro. Il nuovo e unico limite
(150 euro) entrata in vigore il 16 giugno
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bed and breakfast, burocrazia light e occhio ai
paletti locali. Panoramica sulle
normative regionali e sugli adempimenti per aprire
un'attività ricettiva.
Il modo di fare turismo, nel corso degli anni, ha subito
radicali trasformazioni. Sono cambiati i mezzi di trasporto,
il tipo di alloggio richiesto, la durata del soggiorno. Sta
inoltre riscuotendo sempre maggiori favori il turismo
culturale ed enogastronomico, che prevede la visita delle
città e dei beni storici e culturali abbinata alla
conoscenza dei prodotti tipici locali.
A queste nuove
esigenze una risposta è data, per esempio, dalla formula dei bed and breakfast. Secondo i dati rilevati dall'Istat a
marzo, il numero di bed and breakfast in Italia si aggira
intorno alle 25 mila unità; la gestione dell'attività è
esercitata dalle donne, con un buon livello di istruzione e
con conoscenze linguistiche. Oltre il 65% delle strutture
ricettive sono distribuite nel Nord/Centro Italia con punte
in Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte. Sul fronte ospiti,
l'identikit è di coppie, non necessariamente interessate al
risparmio ma propense a effettuare una esperienza
alternativa.
Ma come è possibile sfruttare l'opportunità di gestire un
bed and breakfast? Ci sono due modalità: i classici b&b a
carattere familiare, dove è previsto alloggio presso la
propria residenza e offerta di cibi e bevande
preconfezionate a colazione e i b&b a carattere
imprenditoriale (si veda articolo nella pagina seguente). La
differenza tra i due è che il b&b familiare è un'attività
economica non imprenditoriale, i secondi invece sono imprese
a tutti gli effetti.
Nel primo caso, quindi, è possibile ricavare un reddito
ospitando saltuariamente turisti nella propria abitazione,
offrendo loro la stanza e la prima colazione. È sufficiente
disporre nella propria casa di residenza di alcune stanze e
di servizi igienici anche non riservati, garantendo la
biancheria da letto e da bagno, i servizi di pulizia e la
prima colazione.
A incrementare questa nuova offerta di esercizi turistici
sono state le regioni, che hanno predisposto strumenti e
normative perché il cosiddetto «b&b», fino a pochi anni fa
letteralmente vietato dalle leggi, ora diventato normalità
in tutto il territorio nazionale.
Panoramica delle varie leggi regionali. In Italia il bed and
breakfast oltre dalla legge nazionale in materia (dlgs 23.05.2011 n. 79) è regolamentato dalle varie leggi
regionali. Le norme che regolamentano l'attività di bed &
breakfast presentano alcune differenze sul numero massimo di
camere destinate all'attività, sul numero di letti messi a
disposizione e sul numero massimo di giorni di permanenza
dei clienti (si vedano le tabelle).
a) Il numero massimo di camere destinate all'attività di
solito è 3 stanze, a eccezione delle regioni Abruzzo,
Basilicata, Emilia-Romagna Friuli Venezia Giulia che
prevedono 4 camere, e della regione Sicilia, che ne prevede
5, e della regione Puglia, della regione Toscana e della
provincia di Bolzano, dove si possono adibire all'attività
fino a un massimo di 6 camere.
b) Il numero massimo di posti letto varia da 6 a 20, ma in
alcune regioni non è previsto tale limite.
c) Il numero massimo di giorni di permanenza dei clienti di
solito è 30 giorni, in Piemonte è di 270 giorni.
I locali destinati all'attività bed & breakfast devono
possedere le caratteristiche strutturali e
igienico–sanitarie previste per l'uso abitativo dallo
strumento urbanistico comunale vigente, nonché l'adeguamento
alla normativa di pubblica sicurezza
---------------
Due vie: familiare o imprenditoriale.
Dal 2011, per avviare un'attività di bed and breakfast ci
sono due opzioni. Infatti, dal 21.06.2011 è in vigore il
nuove codice del turismo, dlgs 23.05.2011 n. 79
(pubblicato sul S.O. n. 139/1 alla G.U. n. 129 del 06/06/2011)
che ha introdotto il bed and breakfast a carattere
imprenditoriale.
Pertanto convivono due tipologie di questa
formula: i classici B&B a carattere familiare, dove è
previsto alloggio presso la propria residenza e offerta di
cibi e bevande preconfezionate a colazione; i b&b a
carattere imprenditoriale.
I primi non necessitano di partita Iva e sono un'attività
economica non imprenditoriale, i secondi invece sono imprese
a tutti gli effetti. Il b&b, che sia familiare o
imprenditoriale, prevede che l'accoglienza sia offerta in
case private nelle quali solo un massimo di tre camere sono
riservate agli ospiti; la colazione è servita con i cibi e
le modalità tipiche delle tradizioni locali cercando, nel
frattempo, di soddisfare le esigenze dell'ospite.
Operatori.
Gli operatori che nell'ambito della propria residenza
offrono un servizio di b&b devono svolgere l'attività
secondo le indicazioni di seguito riportate:
• il numero (massimo e minimo) di posti letto è imposto, e
varia da regione a regione;
• l'attività deve avere carattere saltuario o essere svolta
per periodi ricorrenti stagionali;
• il servizio deve essere prestato avvalendosi della normale
organizzazione familiare.
Il servizio deve essere assicurato fornendo cibi e bevande
confezionate per la prima colazione senza alcuna
manipolazione. Esclusivamente a chi è alloggiato, nel caso
di b&b familiare. Secondo il Codice del turismo, i b&b a
carattere imprenditoriale possono somministrare bevande e
alimenti, in aggiunta al servizio di colazione, ai propri
ospiti e anche a soggetti esterni.
Gli adempimenti.
L'operatore del bed and breakfast è tenuto a comunicare
giornalmente alla questura, o all'ufficio indicato dal
questore, l'arrivo delle persone alloggiate. La
comunicazione avviene tramite la compilazione di schede
fornite dallo stesso ente. Una copia di tali schede deve
essere conservata presso l'abitazione in cui viene svolta
l'attività per gli eventuali controlli.
L'operatore deve poi comunicare mensilmente il movimento
degli ospiti alla provincia su apposito modello Istat
fornito dalla stessa, al fine di permettere le rilevazioni
statistiche.
L'operatore deve altresì comunicare all'azienda di
promozione turistica competente per territorio entro il 1°
ottobre di ogni anno, su modello predisposto dalla regione,
le caratteristiche e i prezzi che intende applicare dal 1°
gennaio dell'anno successivo ai fini della pubblicità.
Avvio attività.
Per avviare un'attività di bed and breakfast familiare
occorre presentare, per via esclusivamente telematica, la
cosiddetta «segnalazione certifica di inizio attività» allo
Sportello unico attività produttive (Suap), completa della
documentazione richiesta: planimetria dei locali in scala
non inferiore a 1:100, certificato di agibilità (abitativa)
e copia della polizza assicurativa di responsabilità civile
per il verificarsi di eventuali danni agli ospiti.
È inoltre
necessario effettuare il versamento dei relativi oneri alla
Asl. La Scia ha validità permanente salvo modifiche
sostanziali relative al soggetto titolare, all'attività
svolta o ai locali. Gli obblighi per l'esercizio
dell'attività:
• il servizio di pulizia delle stanze e sostituzione della
biancheria deve essere svolto almeno tre volte alla
settimana e, comunque, a ogni cambio di ospite. La pulizia
del bagno deve avvenire quotidianamente;
• le tariffe devono essere comunicate alla provincia
competente;
• il responsabile è tenuto a registrare le presenze e
comunicarle all'autorità di pubblica sicurezza, nonché a
comunicare agli organi competenti il movimento degli ospiti
secondo le disposizioni in materia di rilevazioni
statistiche;
• il responsabile dell'attività è tenuto a sottoscrivere
un'adeguata polizza assicurativa di responsabilità civile
per il verificarsi di eventuali danni agli ospiti
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.06.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il Durc non evita la riscossione. Ammessi debiti
fino a 150. Ma oltre 10,33 c'è il recupero. I chiarimenti di
Inps e Inail in vista del debutto della procedura online dal
1° luglio.
Il Durc non ferma Equitalia. Potrà accadere, infatti, che
l'impresa risulti ufficialmente in regola con contributi e
premi, eppure sia inseguita dagli agenti di riscossione.
Potrà accadere perché il Durc verrà emesso anche in presenza
di debiti non superiori a 150 euro per gestione (circa 20,
tra Inps e Inail), mentre gli istituti previdenziali
potranno procedere all'esazione coattiva per debiti
d'importo non inferiore a 10,33 euro.
Lo spiegano Inps e Inail, in due circolari (la
circolare 26.06.2015 n. 126
e la
circolare
26.06.2015 n. 61),
nell'illustrare le novità del «Durc online» al via
dal 1° luglio.
Verifica in tempo reale.
Il Durc online consente la verifica della regolarità in
tempo reale, per tutti i pagamenti dovuti dall'impresa e
scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese precedente
quello durante il quale è fatta la verifica (si veda
tabella). I pagamenti comprendono tutte le somme dovute per
premi (Inail), contributi (Inps) e accessori.
Ai fini Inail.
In tabella sono indicate le denunce retributive obbligatorie
da presentare all'Inail, su cui viene effettuata la verifica
in tempo reale. In particolare, con il Durc online non è più
consentita la verifica sul rischio assicurato in relazione
all'oggetto del contratto pubblico o procedimento
amministrativo in cui il Durc è utilizzato, ovvero al motivo
per cui è stata richiesta la verifica della regolarità
contributiva nei rapporti tra privati (cosa che invece
possibile con le regole previgenti).
Ai fini Inps.
In tabella sono indicate anche le denunce obbligatorie Inps
su cui viene effettuata la verifica in tempo reale. La
procedura di controllo, in tal caso, utilizza gli stessi
criteri del DurcInps (Durc interno): analisi dei dati
presenti negli archivi delle singole gestioni, fornendo un
esito che mette a confronto:
• gli importi denunciati o imposti con i versamenti mensili
o periodici tenuto conto delle rispettive scadenze di legge
previste per ciascuna delle gestioni;
• gli importi addebitati per accertamenti d'ufficio
effettuati a seguito di attività di verifica amministrativa
(per esempio note di rettifica, addebiti per operazione
Poseidone ecc.) che evidenziano la correttezza tra i
versamenti effettuati con quelli dovuti in relazione agli
obblighi contributivi riferiti a tutti i tipi di rapporti di
lavoro subordinato e autonomo;
• gli importi addebitati per accertamenti d'ufficio
effettuati a seguito di attività di vigilanza.
Franchigia.
La regolarità sussiste anche se lo scostamento, considerato
non grave, tra somme dovute e somme versate, risulta non
superiore a 150 euro, comprensivi di eventuali accessori di
legge. Tal valutazione di non gravità si applica a ogni
gestione in cui l'omissione relativa a contributi e sanzioni
civili è presente, avuto riguardo al valore cristallizzato
al momento di effettuazione della verifica.
Ciò non limita, tuttavia, agli enti di procedere ad azioni
di riscossione coattiva. Così potrà determinarsi che nei
confronti di un soggetto, che risulti regolare ai fini del
Durc online, Inps e Inail possano attivare procedure di
recupero tramite gli agenti della riscossione poiché per
l'esazione coattiva il limite d'importo resta pari a euro
10,33
(articolo ItaliaOggi del 27.06.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A rischio i dirigenti di polizia provinciale.
A rischio il lavoro di alcune centinaia tra funzionari e
dirigenti dei corpi di polizia provinciale.
Il dl 78/2015, come è noto, ha stabilito che i dipendenti
dei corpi di polizia provinciale dovranno confluire nei
corpi della polizia comunale. Una decisione che appare,
forse, ovvia. Invece, a guardare meglio, essa presenta non
pochi profili critici.
Il primo è di ordine organizzativo. Le competenze della
polizia provinciale sono piuttosto differenti da quelle
della polizia locale, in quanto abbracciano soprattutto la
vigilanza su ambiente, caccia e pesca, con limitate
competenze in tema di codice della strada lungo le strade
provinciali. L'articolo 5 del dl 78/2015, però, non si
limita a prevedere il trasferimento dei dipendenti dei corpi
di polizia provinciale verso quelli di polizia comunale:
lascia ferme le previsioni dell'articolo 1, comma 89, della
legge 56/2014 e il compito delle regioni di fissare, con
proprie leggi, le modalità del riordino delle funzioni in
tema di polizia provinciale.
Solo successivamente dovrebbero considerarsi possibili i
trasferimenti presso i comuni, per evitare che le funzioni
di polizia provinciale restino sostanzialmente non
presidiate o risultino, addirittura, cancellate. Il testo
definitivo dell'articolo 5 del dl 78/2015 cancella la
previsione contenuta nelle bozze circolate, secondo la quale
i comuni sarebbero subentrati nelle funzioni di polizia
provinciale. La conseguenza è, allora, che dovranno essere
le regioni a fare proprie dette funzioni, mentre i comuni
utilizzeranno i componenti dei corpi di polizia provinciale
esclusivamente per lo svolgimento delle funzioni comunali.
Le conseguenza di un sistema così arzigogolato e
approssimativo sono allora evidenti. I comuni nella gran
parte dei casi ambiranno ad acquisire gli agenti di polizia
locale, inquadrati nelle categorie C. Molto difficilmente
saranno richiesti, invece, i funzionari (capi squadra, vice
comandanti o, in alcuni casi, anche comandanti) della
Categoria D e, meno che meno, i poco meno di 100 dirigenti
che guidano i corpi della polizia provinciale.
Infatti, in generale la necessità di assicurare ai corpi di
polizia comunale una struttura gerarchica chiara ed
efficiente, i posti di vertice organizzativo sono tutti
occupati. Dunque, fatte le possibili eccezioni, è evidente
che la posizione dei dirigenti e dei funzionari dei corpi di
polizia provinciale si fa molto delicata e il loro destino
lavorativo dipende dall'effettiva volontà delle regioni di
fare proprie le funzioni di vigilanza
(articolo ItaliaOggi del 26.06.2015). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sottotetto
senza titolo, la sanzione è salatissima.
Sono dolori quando il comune scopre che dopo i lavori il
sottotetto è diventato utilizzabile senza titolo. Se i
locali sopra l'ultimo piano dell'edificio risultano di fatto
trasformati in una pertinenza degli appartamenti senza che
lo preveda il permesso di costruire scatta la sanzione
pecuniaria laddove risulta impossibile la demolizione
dell'opera. Ma la multa è salatissima perché viene
ragguagliata all'intera superficie del sottotetto: le opere
contro legge, infatti, imprimono all'area un cambio di
destinazione urbanistica non autorizzato rendendo fuorilegge
l'intero locale.
È quanto emerge dalla
sentenza 16.06.2015 n. 2980, pubblicata dalla IV
Sez. del Consiglio di stato.
Volumi utilizzabili.
Altro che 34 mila euro, come chiedeva: ne pagherà oltre 270
mila l'impresa edile che ha costruito un fabbricato più alto
di quanto assentito. Ormai abbattere lo stabile è
impossibile, perché il resto del manufatto è in regola:
dunque lo scontro con il comune è sul quantum della multa.
Parla chiaro l'articolo 34, comma 2, del testo unico
sull'edilizia: la sanzione deve essere calcolata sulla «parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire».
Secondo la società, la volumetria del sottotetto
regolarmente autorizzata non può essere considerata ai fini
del calcolo della sanzione: in fin dei conti si tratterebbe
solo dello sforamento dell'altezza dei locali. In realtà i
lavori hanno reso utilizzabile ai fini residenziali un
volume che non lo era sulla base dei titoli edilizi
rilasciati.
Ed è dunque il cambio di destinazione d'uso che legittima la
sanzione più grave
(articolo ItaliaOggi del 27.06.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sanatoria automatica sulle risorse decentrate.
È da considerare generale e applicabile automaticamente il
divieto di recuperare nei confronti dei dipendenti degli
enti locali risorse non correttamente disposte dalla
contrattazione decentrata.
La sentenza 11.06.2015 della Corte d'appello di
Firenze contribuisce a chiarire meglio la controversa
questione del sistema di recupero delle risorse della
contrattazione decentrata e il corretto sistema di
attuazione del cosiddetto salva Roma, il dl 16/2014,
convertito in legge 68/2014.
La Corte d'appello fiorentina è tranciante: se l'ente locale
rispetta i requisiti di virtuosità previsti dall'articolo 4,
commi 1 e 2, del dl 16/2014, non è mai possibile per l'ente
chiedere ai dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, la
refusione degli emolumenti erogati in applicazione delle
disposizioni. La sanatoria, quindi, si applicherebbe in modo
automatico, una volta riscontrati i presupposti previsti.
La pronuncia qualifica come un vero e proprio dovere per le
amministrazioni locali accertare la sussistenza dei
presupposti per applicare il dl 16/2014 e, dunque,
effettuare il recupero non nei confronti dei dipendenti,
bensì delle risorse. A ben vedere, comunque, al di là dei
chiarimenti e delle aperture della Corte, combinando le
interpretazioni giurisprudenziali con le disposizioni del dl
salva Roma è possibile ricavare anche dall'articolo 40,
comma 3-quinquies, il medesimo principio generale di obbligo
di recuperare le risorse della contrattazione decentrata
dalla futura contrattazione e non nei confronti dei
dipendenti.
La disposizione così recita: «In caso di accertato
superamento di vincoli finanziari da parte delle sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti, del
dipartimento della funzione pubblica o del ministero
dell'economia e delle finanze è fatto altresì obbligo di
recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva».
Di fatto, quindi, le previsioni del dl 16/2014 altro non
sono se una specificazione di dettaglio dell'obbligo
generale già posto dal dlgs 165/2001, che il «salva Roma»
estende anche all'utilizzo e costituzione dei fondi.
Ovviamente, deve trattarsi dei fondi della contrattazione
decentrata antecedenti all'adeguamento alle nuove regole
imposte dal dlgs 150/2009, ossia i fondi costituiti prima
della scadenza obbligatoria dell'adeguamento, il 31.12.2012
(articolo ItaliaOggi del 30.06.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sui contratti decentrati «sanatoria» con limiti
rigidi. Personale. La Corte d’appello di Firenze stoppa i
recuperi individuali.
Gli enti locali non devono
recuperare dai singoli interessati i compensi che hanno
illegittimamente erogato ai propri dirigenti e dipendenti se
sussistono le condizioni di “virtuosità”
dell’amministrazione previste dall’articolo 4, comma 3, del
Dl 16/2014.
È questa
l’indicazione che la Corte di Appello di Firenze, sezione
lavoro, ha dettato con la sentenza 11.06.2015.
Si deve ricordare che la stessa sezione aveva già, peraltro
sempre nei confronti del Comune di Campi Bisenzio, stabilito
con la sentenza n. 825/2014 l’applicabilità delle norme di
“sanatoria” della contrattazione decentrata illegittima.
La sentenza dimostra di essere ben consapevole delle
numerose difficoltà interpretative che sono sollevate dalla
norma: infatti giudica che la lettura della disposizione
proposta è «l’unica interpretazione coerente sul piano
letterale», per cui si deve pervenire ad essa
sostanzialmente per l’assenza di alternative logiche.
Le condizioni per l’applicabilità dell’esenzione dalla
maturazione di responsabilità amministrativa e dal
conseguente blocco della ripetizione delle somme erogate per
la contrattazione decentrata, sono il rispetto del Patto di
stabilità, dei vincoli alle assunzioni, del tetto di spesa
del personale e, fino a che era in vigore, del rapporto
massimo del 50% tra spesa del personale e spesa corrente;
rispetto del tetto del trattamento economico individuale;
del tetto del fondo del 2010 negli anni dal 2011 al 2014 e,
sempre nello stesso periodo, del vincolo della riduzione del
fondo in proporzione alla diminuzione del personale, nonché
del divieto di dare effetti economici nello stesso periodo
alle progressioni e del tetto della spesa per le assunzioni
flessibili.
Questa sanatoria opera, nella lettura data dalla Conferenza
Unificata, agli atti adottati fino al 31.12.2012. La
Conferenza ritiene però che le disposizioni che impongono di
non effettuare il recupero delle somme illegittimamente
erogate operi anche nelle amministrazioni che non sono in
possesso dei requisiti di virtuosità previsti dalla
disposizione.
Ma torniamo alla sentenza. Il fatto che il legislatore abbia
stabilito espressamente che non si applicano le previsioni
del Dlgs 165/2001 che irrogano la nullità parziale e
l’inapplicabilità delle clausole dei contratti decentrati in
contrasto con i vincoli legislativi e/o della contrattazione
nazionale, nonché l’inserzione automatica delle clausole dei
contratti nazionali o del dettato legislativo, determina
come conseguenza che gli atti di costituzione e di
ripartizione dei fondi siano da ritenere espressamente fatti
salvi. Inoltre ne deriva, come conseguenza strettamente
connessa, che non è possibile alcun rimando sostitutivo alla
contrattazione nazionale.
La sentenza chiarisce che queste disposizioni si applicano
non solamente alla contrattazione del personale, ma anche a
quella della dirigenza. Per cui nel caso oggetto del
contenzioso il Comune non può chiedere la restituzione delle
somme illegittimamente corrisposte per la retribuzione di
posizione di un dirigente.
Si chiarisce che l’inapplicabilità delle disposizioni
introdotte dal Dlgs 150/2009 non determina come conseguenza
il ritorno delle disposizioni previgenti, peraltro analoghe
nel fissare le sanzioni della nullità e inapplicabilità
delle clausole dei contratti decentrati in contrasto con
quelli nazionali e con il dettato legislativo. Infine, anche
sulle censure relative alla mancata costituzione del fondo
si fa prevalere il dato sostanziale (articolo Il Sole 24 Ore del
29.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in deroga per gli edifici
privati.
L’art. 14 del Dpr 380/2001 stabilisce che il permesso di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è
rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o
di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio
comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute
nel D.lgs. 490/1999 (ora D.lgs. 42/2004) e delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la recente
sentenza 05.06.2015 n. 2761 ha fornito una
interpretazione innovativa ed ampia dell’art. 14,
dichiarando legittima l’applicazione del permesso di
costruire in deroga ad un intervento di recupero di un
immobile privato riconosciuto di interesse pubblico
dall’amministrazione comunale.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che “non
è necessario che l’interesse pubblico attenga al carattere
pubblico dell’edificio o al suo utilizzo, ma è sufficiente
che coincida con gli effetti benefici per la collettività
che potenzialmente derivano dalla deroga, in una logica di
ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità
del caso”.
Nella fattispecie è stata riconosciuta la legittimità di un
permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico
generale per la realizzazione dell’intervento di
riqualificazione di un edificio storico di proprietà privata
destinato ad uso commerciale perché rispondente a criteri di
interesse pubblico, infatti:
- recuperava uno dei più antichi edifici del centro storico;
- apriva integralmente al pubblico un edificio rimasto
chiuso per decenni;
- consentiva la fruizione pubblica gratuita di ampi spazi
interni per iniziative culturali e turistiche;
- non comportava alcun onere finanziario al comune ed anzi
procurava ad esso notevoli risorse finanziarie
straordinarie;
- attivava ingenti investimenti privati con creazione di
nuovi posti di lavoro, ecc.
Si ricorda che il D.L. 133/2014 cd. “sblocca cantieri”
(convertito dalla Legge 164/2014) ha inserito il comma 1-bis
nell’art. 14 del Dpr 380/2001 che permette l’applicazione
del permesso di costruire in deroga agli interventi di
ristrutturazione edilizia, compresi quelli in aree
industriali dismesse, anche in deroga alle destinazioni
d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne
attesti l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento
di destinazione d'uso non comporti un aumento della
superficie coperta originaria, fermo restando, nel caso di
insediamenti commerciali, quanto disposto dall’art. 31,
comma 2, del D.L. 201/2011 (convertito dalla Legge 214/2011)
(commento tratto da www.ance.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
A - In ordine ai presupposti per il rilascio di un
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici
generali:
Secondo l’appellante il progetto di riqualificazione non
sarebbe tale da portare alla realizzazione di un’opera di
interesse pubblico, meritevole di deroghe rispetto alle
previsioni di Piano. Se è vero che la convenzione prevede
l’utilizzo della corte interna per eventi culturali almeno
10 giorni all’anno e della sala eventi per iniziative
istituzionali del Comune, sarebbe d’altronde innegabile che
la fruizione di tali spazi è eventuale, parziale e
temporanea, e comunque subordinata ad un previo accordo fra
le parti. Il TAR del resto non avrebbe fornito alcun
elemento in ordine all’effettivo svolgimento di una
comparazione fra tutti gli interessi pubblici in rilievo.
Il motivo è privo di fondamento.
Il Comune ha diffusamente e specificatamente motivato sul
punto, ed il TAR ha correttamente statuito in proposito.
L’edificio in questione è di proprietà privata, ragion per
cui ciò che occorre verificare è se vi sia un interesse
pubblico che possa concorrere con quello privato al recupero
ed allo sfruttamento commerciale. Non è necessario che
l’interesse pubblico attenga al carattere pubblico
dell’edificio o del suo utilizzo, ma è sufficiente che
coincida con gli effetti benefici per la collettività che
dalla deroga potenzialmente derivano, in una logica di
ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità
del caso, ed esulante da considerazioni meramente
finanziarie.
Nel caso di specie, l’amministrazione locale non solo ne ha
dedotto l’esistenza, ma lo ha sostanziato e giustificato,
evidenziando come “l'intervento di riqualificazione e rifunzionalizzazione del Fontego risponde ai criteri di
interesse pubblico in quanto:
- recupera uno dei più antichi ed ampi edifici storici della
Città Antica, qualificato come bene culturale, con la
riproposizione dell'originaria destinazione commerciale
propria del Fondaco, integrata con la destinazione
culturale;
- apre al pubblico l'intero edificio del Fondaco, anche per
le parti rimaste inaccessibili per decenni durante l’uso dei
servizi postali;
- consente la fruizione pubblica gratuita di ampi spazi
interni al Fondaco per iniziative culturali e di promozione
turistica;
- non comporta alcun onere finanziario al Comune di Venezia,
anzi procura allo stesso notevoli risorse finanziarie
straordinarie;
- attiva investimenti privati ingenti, con creazione, a
regime, di nuovi posti di lavoro stimati in non meno di 400
posti di lavoro diretti oltre quelli dell'indotto;
- consolida i servizi offerti dalla Città storica al mercato
internazionale".
Considerazioni -quelle esposte- del tutto ragionevoli, ove
si consideri che gli aspetti edilizi oggetto di deroga,
riguardano un edificio già esistente, divenuto di proprietà
privata a seguito di dismissione dal patrimonio dello Stato,
in attuali precarie condizioni di manutenzione, del quale si
chiede il recupero nel rispetto dei vincoli paesaggistici e
storico artistici.
Si vuol cioè dire che il “sacrificio”
delle previsioni pianificatorie e dell’ordine in esse
precostituito -consistente nella modifica della
destinazione d’uso ed in un modestissimo incremento
dell’altezza con conseguente incremento volumetrico, ferma
la salvaguardia dei valori monumentali e paesaggistici– ha
un peso comparativamente minimo rispetto ai miglioramenti
che ne derivano in relazione ad una serie di concorrenti
interessi pubblici pure affidati alla cura dell’autorità
amministrativa locale (recupero, accessibilità, fruibilità,
incremento occupazionale, etc.)
Non meritano condivisione le ulteriori affermazione
dell’appellante che, più che dolersi della nuova
destinazione commerciale dell’immobile, stigmatizza il
carattere eventuale, parziale e temporaneo della fruizione
collettiva, comunque subordinata ad un previo accordo fra le
parti.
Dalla lettura della convenzione emerge che il previo accordo
annuale fra le parti riguarda le modalità ed i programmi e
non certo la sussistenza dell’obbligazione in capo al
proprietario, che è prevista con carattere di certezza.
A1 – In ordine alla legittimità dei contenuti della deroga:
Secondo l’appellante, quanto al limite della densità
edilizia, il TAR avrebbe sostanzialmente fatto propria la
difesa comunale, e con essa, il vizio di fondo che inficia
il calcolo dei parametri: in particolare il volume
dell’edificio sarebbe stato calcolato, prima e dopo
l’intervento di riqualificazione, con criteri diversi e male
applicati, con il risultato che, nonostante le oggettive
addizioni, il volume esistente risulterebbe maggiore di
quello di progetto.
L’errore tecnico dipenderebbe dal
calcolo delle altezze che, poiché comprensivo, secondo il
nuovo criterio, di volumi prima non computabili,
determinerebbe la sovrastima dei volumi esistenti. Per il
resto, il TAR non avrebbe spiegato come mai l’aumento di
volume debba considerarsi interno e non esterno alla sagoma.
La struttura di travi d’acciaio che sorregge il nuovo
padiglione vetrato sarebbe alta 3 metri, in guisa da
generare un volume esterno di 990 metri cubi.
In ogni caso
il concetto di densità edilizia di cui all’art. 7 del DM
1444/1968 sarebbe da riferire al volume dell’intero edificio,
senza distinzione alcuna tra interno ed esterno. Il TAR
avrebbe errato anche in relazione ai limiti di altezza di
cui all’art. 8 del DM 1444/1968: pur riconoscendo che
l’esistenza del corpo aggiunto (cd lucernario-lanterna)
determina incremento di 1,6 metri dell’altezza, ne avrebbe
contraddittoriamente escluso la rilevanza considerandola una
superfetazione; inoltre avrebbe erroneamente applicato
l’art. 8 cit., qualificando l’intervento come di “nuova
costruzione” invece che di “risanamento”.
Ancora, il TAR avrebbe errato nel ritenere consentita la
deroga ai caratteri costruttivi del tetto, atteso il tenore
dell’art. 14 del dpr 380/2001, che consente deroga
esclusivamente ai limiti di densità edilizia e di altezza.
Le censure non sono convincenti.
Quanto al rispetto dei limiti della deroga individuati negli
articoli 7, 8 del decreto ministeriale 02.04.1968, n.
1444, occorre procedere per punti:
A mente dell’art. 7 “per le operazioni di risanamento
conservativo ed altre trasformazioni conservative, le
densità edilizie di zona e fondiarie non debbono superare
quelle preesistenti, computate senza tener conto delle
soprastrutture di epoca recente prive di valore
storico-artistico”.
L’appellante, asserisce che, poiché il progetto di restauro
e risanamento prevede un aumento di volume, ne deriverebbe
automaticamente un aumento della densità edilizia.
I due piani però non sono sovrapponibili. Gli indici
urbanistici adottati dal Comune di Venezia nell’ambito del
regolamento edilizio ed utilizzati per la pianificazione
urbanistica non contengono il riferimento alla densità
edilizia fondiaria, ma quello all’ indice di utilizzazione
fondiaria (Uf), espressa dal rapporto tra superficie lorda
di pavimento Sp e superficie fondiaria Sf.
La superficie lorda di pavimento è determinata con
riferimento agli edifici esistenti, dividendo il volume
dell'edificio per l'altezza virtuale definita dal
coefficiente di m. 3. Il risultato individua la potenzialità
edificatoria massima teorica dell'edificio in termini di Sp
(insuperabile anche ai sensi del D.M. n. 1444/1968). Trattasi
di un parametro cioè che, per come è concepito, consente
margini ampliativi della superficie, nel rispetto
dell’indice.
Una volta individuato il parametro inderogabile nell’indice
di utilizzazione fondiaria, è chiaro che il volume reale non
per questo diventa un dato urbanistico irrilevante, ma lo
stesso diviene suscettibile di deroga, essendo previsto
nella strumentazione urbanistica e non trovando specifici
limiti nell’art. 7. Del resto, se l’art. 7 avesse voluto
fare semplicemente riferimento ad un volume massimo non
avrebbe utilizzato il concetto, molto più complesso ed
elastico, di “densità”, concetto di relazione indicante il
rapporto tra una data grandezza e l’estensione su cui essa
si distribuisce.
Quanto all’altezza, anche a voler considerare l’intervento
quale semplice risanamento conservativo non implicante
trasformazioni, ed a voler considerare inderogabile
l’altezza preesistente, deve comunque rilevarsi che, nel
caso di specie, l’altezza del corpo di fabbrica è rimasta
invariata e si è progettata una modifica morfologica della
copertura con montaggio della “lanterna” centrale ad una
quota più alta di 1,60 metri, con una soluzione progettuale
ed una linea che non tradisce la ratio che ispira l’art. 8
del D. M 1444/1968 e l’art. 14 del TU edilizia, il primo teso
ad imporre limiti nella pianificazione del territorio, il
secondo finalizzato a consentire ragionevoli e temperate
deroghe ai quei limiti ove l’organo rappresentativo della
collettività locale ravvisi un interesse pubblico
prevalente.
Ancora –secondo l’appellante- il TAR avrebbe errato nel
ritenere consentita la deroga ai caratteri costruttivi del
tetto, atteso il tenore dell’art. 14 del dpr 380/2001, che
consente deroga esclusivamente ai limiti di densità edilizia
e di altezza. Anche in questo caso il principio di
ragionevolezza vuole che, se sono consentite deroghe a
parametri urbanistici rilevanti, come la densità, l’altezza,
la distanza, oggetto di specifica normazione e
standardizzazione su base nazionale, a fortiori possono
essere consentite deroghe alle caratteristiche costruttive
di alcuni elementi, ovviamente ove sia previamente acquisita
la valutazione della competente Sovrintendenza. |
ESPROPRIAZIONE: DECORRENZA DEL TERMINE DI PAGAMENTO DEGLI
INTERESSI A FAVORE DELL’ESPROPRIATO.
Poiché il trasferimento del bene in favore dell’espropriante
si realizza alla data di emissione del relativo decreto
-indipendentemente dalla successiva notifica del
provvedimento- a tal data l’espropriante deve effettuare
il deposito dell’indennità e, in caso di ritardo, sono
dovuti dal giorno dell’espropriazione e a quello di
adempimento dell’obbligazione principale gli interessi
legali, di natura compensativa, per il solo fatto che la
somma è rimasta a disposizione dell’ente espropriante
e a prescindere da ogni indagine sulla colposa
responsabilità
per il ritardo nel pagamento (cfr. Cass. civ., Sez.
I, 27.01.2005, n. 1701; 23.04.2002, n. 5909).
Una Corte di appello, pronunciando sulla domanda di alcuni
privati circa la determinazione dell’indennità di esproprio
per p.u. in un procedimento vòlto alla realizzazione d’un
complesso immobiliare da parte di un Comune, determinò
-sulla base d’una C.T.U.- l’indennità per il fabbricato e
la
pertinenza espropriati e, per quanto qui interessi, anche
per l’area di terreno (ritenuta edificabile), facendo
applicazione
dei criteri riduttivi di cui all’art. 5-bis, comma 2 e 3,
della L. n. 359/1992.
La sentenza è gravata per Cassazione in via principale dai
proprietari e in via incidentale dalla P.A.
Riuniti i ricorsi, la Suprema Corte accoglie il principale,
nei
limiti esposti. Osserva che la decisione impugnata fu
pubblicata
due giorni prima della sentenza Corte cost. n.
348/2007, che abrogò i criteri riduttivi di cui all’art.
5-bis
della L. n. 359/1992. Da tale declaratoria, seppur
sopravvenuta
alla sentenza qui impugnata, deve tenersi conto in ragione
del fatto che il rapporto non è divenuto definitivo,
nello specifico per mancata formazione di giudicato in
merito
alle concrete modalità di determinazione dell’indennità.
In ragione di questo, al rapporto deve applicarsi, per la
determinazione
dell’indennizzo, il criterio generale del valore
di mercato del bene, di cui all’art. 39 della L. 25.06.1865, n. 359, ancora vigente perché non abrogato dall’art.
58 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. espropri) perché la norma
fa salvo quanto previsto dall’art. 57, comma 11 (oltre che
dall’art. 57-bis), che esclude l’applicazione del T.U. ai
progetti
per i quali, come nel caso in esame, alla data di entrata
in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la
dichiarazione
di p.u., indifferibilità e urgenza dell’opera, ribadendo
che continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a
tale
data, fra cui, pertanto, quella contenuta all’art. 39 L. n.
2359/1865.
Né, osserva la Suprema Corte, può qui applicarsi l’art. 37
L. n. 327/2001 (come novellato dall’art. 2, comma 89, lett.
a, della L. n. 244/2007). Infatti -per effetto della
declaratoria
d’incostituzionalità (cfr. Corte cost. n. 348/2007) del
criterio
d’indennizzo di cui all’art. 5-bis della L. n. 359/1992 (e
all’art. 37, comma 1 e 2, del D.P.R. n. 327/2001)- lo jus
superveniens
costituito dall’art. 2, comma 89, lett. a), della L.
24.12.2007, n. 244 si applica retroattivamente per i
soli procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i
giudizi in corso (Cass. civ., Sez. Un., 28.02.2008, n.
5265): sotto questo profilo, la sentenza in rassegna non
arreca
grandi novità.
Di contro, in accoglimento di altro motivo di gravame, la
Suprema Corte si occupa di indagare il momento di decorrenza
degli interessi legali sulle somme dovute al privato.
A tal fine, partendo dall’osservazione che il trasferimento
del bene in favore dell’espropriante si realizza alla data
della
pronuncia del relativo decreto -indipendentemente dalla
successiva notifica del provvedimento la quale, rispetto al
decreto stesso (che ha natura di atto non ricettizio) non è
elemento né integrativo, né condizionante l’efficacia ma ha
solo funzione di far decorrere il termine di opposizione
alla
stima (al punto che i vizi incidenti su di essa non
costituiscono
motivi di carenza del potere espropriativo, sin da
Cass. civ., Sez. I, 01.08.1994, n. 7154)- la Cassazione
afferma che alla data dell’emissione del decreto d’esproprio
l’espropriante deve effettuare il deposito dell’indennità
e che se vi provveda in ritardo sono dovuti, dal giorno
dell’espropriazione
e a quello di adempimento dell’obbligazione
principale, gli interessi legali di natura compensativa per
il solo fatto che la somma è rimasta a disposizione
dell’ente
espropriante e a prescindere da ogni indagine sulla colposa
responsabilità per il ritardo nel pagamento (Cass. civ.,
Sez. I, 27.01.2005, n. 1701; 23.04.2002, n. 5909).
Nei limiti ora indicati -ossia per la necessità di
rapportare
l’indennità d’esproprio al valore di mercato del bene- il
ricorso
è accolto e la sentenza è cassata con rinvio per la
determinazione della somma nel complesso dovuta, con
assorbimento di altri motivi del ricorso principale e di un
motivo contenuto nel ricorso incidentale antitetico a quello
accolto (in senso analogo, si veda anche la contestuale
sentenza di Cass. civ., Sez. I, 10.12.2014, n. 26066 -
Pres. Salvago - Rel. Benini) (Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 10.12.2014 n. 26065 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
ESPROPRIAZIONE: INDENNIZZO PER AREE AGRICOLE ACCESSORIE AD AREA
PRODUTTIVA ESPROPRIATA.
La sentenza Corte cost. n. 181/2011 ha sganciato
l’indennizzo
dei suoli non edificabili dal valore agricolo medio
così in sostanza riconoscendo un tertium genus tra
suoli edificabili o no e consentendo che questi ultimi siano
valutati con criteri rapportati a caratteristiche e
utilizzi economici non agricoli, se conformi alle norme
vigenti e agli strumenti urbanistici: per essi, nella
determinazione
dell’indennizzo espropriativo, il valore di
mercato deve tener conto di utilizzazioni diverse dalla
destinazione agricola o edificatoria.
L’espropriazione di un fondo -agricolo ma accessorio a
un’area espropriata e già destinata ad attività produttiva,
tale da aver determinato la rescissione del vincolo
funzionale e lo smembramento dell’azienda con
inutilizzabilità
dei residuati beni rispetto alla loro destinazione
originaria- determina, in quanto incidente sulle relative
valutazioni di indole economica, la necessità di rapportare
a tali elementi la liquidazione a valore di mercato
dovuta ai sensi dei principi ricavabili da Corte cost. n.
181/2011.
Pronunciandosi sulla domanda di determinazione
dell’indennità
inerente a un fondo su cui insistevano fabbricati
destinati ad attività d’impresa, rilevato che il terreno
(circa
12.000 mq.) era stato espropriato per circa metà della
propria
estensione e che sulla parte ablata insistevano manufatti
legittimamente destinati all’attività produttiva, una
Corte d’appello riteneva -motivatamente disattendendo le
conclusioni del C.T.U.- che ai fini della determinazione
dell’indennità
dovesse considerarsi il valore di mercato dei
fabbricati mentre per il terreno si dovesse far riferimento
alla
sua destinazione agricola. Era, di contro, esclusa l’indennizzabilità
della perdita dell’avviamento industriale e quella
per i costi che la società avrebbe dovuto sostenere per
trasferire
altrove la propria attività, in conseguenza della parziale
espropriazione subita. Sulla scorta di tali principi, si
escludeva che il lotto residuo avesse subito una riduzione
di valore e che potessero attribuirsi altre voci
indennitarie
per la dissoluzione dell’organizzazione aziendale.
Per la cassazione di tale sentenza l’espropriato ricorre
dolendosi
-per quanto ritenuto ammissibile dalla Corte di legittimità- della violazione dell’art. 40 L. n. 2359/1865, in ragione
dell’omessa ponderazione del pregiudizio inerente
all’inutilizzabilità
dei beni aziendali situati nella restante proprietà
non espropriata; ancora, dell’art. 72 legge cit., per
avere la Corte di merito escluso la risarcibilità della
perdita
del reddito derivante dall’esercizio dell’attività
imprenditoriale
esercitata nel complesso immobiliare.
Nell’esaminare congiuntamente tali due censure, la Suprema
Corte -nell’osservare che la normativa vigente, in disparte
le specifiche previsioni in materia di azienda agricola,
non prevede il ristoro del pregiudizio strettamente arrecato
all’attività produttiva artigianale o industriale- ricorda
come in propri precedenti abbia affermato che laddove, a
seguito di espropriazione parziale per pubblica utilità,
risulti
impedito l’ulteriore svolgimento di un’impresa che
utilizzava
l’immobile espropriato per l’esercizio della propria
attività,
la determinazione dell’indennità di esproprio dev’essere
effettuata (ex art. 40 L. n. 2359/1865) tenendo conto della
differenza tra valore dell’area espropriata, comprensivo di
quello degli edifici che v’insistono, e il valore
dell’azienda,
non potendo costituire oggetto di indennizzo il pregiudizio
che il proprietario o il titolare di altro diritto subisce
per non
poter più esercitare l’impresa in quel luogo, in quanto
l’indennità
di espropriazione è commisurata al valore venale
del bene, non a quello dell’azienda. Sicché le costruzioni
esistenti sull’area vanno considerate nel loro valore in sé,
non per il diverso valore che possono avere in rapporto alla
particolare destinazione connessa all’attività d’impresa e
dunque alla circostanza di essere adibite a sede
dell’azienda
(Cass. 06.04.2009, n. 8229).
Tuttavia tale valore, osserva la sentenza in rassegna, non
può non aver risentito dello smembramento dell’azienda, in
quanto la rescissione del vincolo funzionale rende
inutilizzabili
quei beni rispetto alla loro destinazione originaria,
refluendo
sulle relative valutazioni di ordine economico. Simile
ordine di valutazioni deriva dalle prospettive che la
recente
pronuncia del Giudice delle leggi, in relazione
all’indennità
relativa ai terreni agricoli (Corte cost. n. 181/2011),
ha aperto in relazione alla stima degli stessi.
Pertanto, se
è
vero che il valore di mercato assicura, per i suoli
edificabili,
un valore pieno e non più dimezzato, per quelli che non
abbiano
la prerogativa dell’edificabilità, il valore di mercato
deve tener conto, rispetto al minimum dei valori tabellari
di
cui agli artt. 15 e 16 della L. 22.10.1971, n. 865, di
quanto suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da
quello agricolo, rispecchiando possibilità di utilizzazioni
ulteriori
rispetto alla destinazione agricola e quella edificatoria,
anche se non gli indici di valutazione attinenti al concetto
di edificabilità di fatto (Cass. civ., Sez. I, 28.05.2004, n. 10280;
06.10.2005, n. 19511; 21.03.2013,
n. 7174).
La sentenza Corte cost. n. 181/2011 per i terreni agricoli
ha
rimesso l’indennità alla valutazione del mercato, pur senza
equiparare i terreni agricoli ai suoli edificabili:
applicandosi
dunque il criterio generale del valore venale pieno, tratto
dall’art. 39 della L. n. 2359/1865, la valutazione va
operata
in base alla suscettibilità di uno sfruttamento ulteriore e
diverso
da quello agricolo, che pur senza raggiungere il livello
dell’edificatorietà, rispecchia possibilità di utilizzazione
intermedie tra l’agricola e l’edificatoria, ad esempio,
parcheggi,
depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per
la vendita di prodotti (Cass. civ., sez. I, 17.10.2011,
n.
21386; 01.08.2013, n. 18434).
La pronuncia della Corte
costituzionale ha in sostanza comportato il riconoscimento
di un tertium genus tra suoli che godano o no della
prerogativa
di edificabilità, consentendo che quelli non edificabili
siano valutati in base a criteri oggettivi, idonei a
premiarne
utilizzazioni alternative, purché, comunque, non
rapportabili
all’edificazione (Cass. 10.02.2014, n. 2959): sicché,
attraverso il sistema indennitario delle aree non
edificabili
viene in considerazione l’iniziativa privata non
strettamente
commisurata alla rendita di trasformazione dei suoli.
L’intervento del Giudice delle leggi ha così sganciato
l’indennizzo
dei suoli non edificabili dal valore agricolo medio,
e ne ha consentito la valorizzazione in base alle
caratteristiche
oggettive, che tengano conto di loro possibili utilizzi
economici, ulteriori e diversi da quelli agricoli,
consentiti
dalla normativa vigente e conformi agli strumenti di
pianificazione
urbanistica, previe le opportune autorizzazioni
amministrative
(Cass. 28.05.2012, n. 8442).
L’iniziativa privata del proprietario, lungi dal costituire
il criterio
discretivo tra aree edificabili e aree non edificabili, è la
misura che in un’economia di mercato individua la domanda
di suoli in un determinato contesto urbanistico, quale
fattore di produzione nella logica imprenditoriale. Tale
criterio,
emerso da una sentenza della Corte costituzionale
pronunciata
ad altri fini (n. 179/1999) è tendenzialmente divenuto
criterio integrativo, quando non discretivo, per il
riconoscimento
dell’edificabilità delle aree ai fini della determinazione
dell’indennità, laddove l’azione privata, di cui i
nuovi valori ispirati alla solidarietà e alla sussidiarietà
(art.
118, comma 4, Cost.), ammettono una finalizzazione
all’interesse
collettivo, attiene, quanto alla sfera urbanistica, al
problema dell’utilizzo della proprietà e dei possibili
vincoli
alle scelte del proprietario, senza incidere sulle
conseguenze
economiche dell’espropriazione.
L’iniziativa privata, nella prospettiva che qui interessa,
può ben esplicarsi nei margini consentiti dalle scelte
urbanistiche,
nel rispetto della destinazione dei suoli configurata
dagli strumenti territoriali. Ove si renda necessaria
l’espropriazione, la conseguente indennità terrà conto
della potenziale redditività del terreno, ma sempre nei
limiti
segnati dalle scelte urbanistiche. Essa, dunque, costituisce
un parametro trasversale, che contribuisce a stabilire
il valore di mercato per ogni tipo di area. Alla luce della
mutata base di valutazione dei beni occupati a scopi
d’interesse pubblico, l’iniziativa privata resta un elemento
determinante della valutazione, commisurando l’appetibilità
sul mercato di una determinata area, atteso l’impiego
cui la stessa è destinata, in vista degli usi legalmente
consentiti.
Sulla base delle considerazioni che precedono la valutazione
dell’area espropriata sulla base della sua mera destinazione
agricola, nonché dell’area residua, con esclusione di
ogni valutazione circa il nesso funzionale che interessava
l’intero complesso immobiliare, non possono, anche alla
luce dello ius superveniens, essere condivise, imponendosi
la stima sulla base del valore di mercato anche in relazione
alla destinazione, nella specie effettiva, diversa da quella
agricola.
La Corte sulla scorta di questi parametri ermeneutici, cassa
con rinvio la sentenza impugnata (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 10.12.2014 n. 26057 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
NULLITÀ DEL CONTRATTO DI COMPRAVENDITA DI UN
IMMOBILE IN CASO DI DIFFORMITÀ SOSTANZIALE MA NON
FORMALE RISPETTO AL TITOLO ABILITATIVO EDILIZIO.
All’art. 40 della L. n. 47/1985 va data lettura sostanziale
e non meramente formale: in ragione di ciò, da tale norma
è desumibile il principio generale della nullità di
carattere
sostanziale degli atti di trasferimento di immobili
non in regola con la normativa urbanistica, a cui si
aggiunge una nullità di carattere formale per gli atti di
trasferimento di immobili non in regola sotto il profilo
urbanistico o per i quali è in corso la regolarizzazione,
ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi (Cass.
civ., Sez. I, 17.10.2013 n. 23591).
La controversia genera da una compravendita fra privati di
un immobile oggetto di una sopravvenuta scoperta di
abusività
da parte dell’acquirente che, per tale ragione, convenne
al Tribunale ordinario il venditore domandando la
declaratoria di nullità dell’acquisto in ragione delle
irregolarità
edilizie non sanabili riscontrate con riguardo all’edificio.
Il Tribunale e la Corte d’appello respinsero la domanda,
ritenendo
che l’art. 40 L. n. 47/1985, prescindendo dalla regolarità
sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico (vale
a dire dalla conformità o meno dell’immobile alla
concessione,
cfr. Cass. n. 5898/2004) facesse discendere la
nullità degli atti di trasferimento soltanto dall’omessa
menzione
degli estremi della licenza edilizia da parte
dell’alienante,
o dalla mancata allegazione della domanda di sanatoria
corredata dal versamento delle rate d’oblazione. In
applicazione di tal formalistica interpretazione, rilevato
che
tali adempimenti furono assolti in rogito, il Giudice di
merito
escluse la sussistenza di estremi per potersi dichiarare la
nullità dell’atto.
La sentenza è gravata per Cassazione, che accoglie il
ricorso
con un interessante richiamo a recenti revirement
giurisprudenziali
da essa maturati, per i quali all’art. 40 cit. va
data lettura sostanziale e non meramente formale.
Infatti, a fronte delle doglianze del ricorrente -per il
quale
la sentenza gravata avrebbe dovuto scrutinare il merito
della domanda di sanatoria rilevandone inesattezze e false
attestazioni
(accertate anche dal C.T.U. di causa) per così statuire
che gli abusi avevano dato luogo a costruzione autonoma
e diversa da quella progettata e autorizzata, a tal
punto marcati che la sanatoria non si sarebbe potuta
assentire
e che gli abusi sarebbero rimasti tali (con la derivata
impossibilità di legittimare e rendere commerciabile
l’immobile)- la Suprema Corte richiama propri recenti arresti
che, discostandosi da un diverso precedente orientamento
e partendo dalla non cristallina formulazione dell’art. 40,
comma 3, L. n. 47/1985, consentono di affermare che da
tale norma è desumibile il principio generale della nullità
di
carattere sostanziale degli atti di trasferimento di
immobili
non in regola con la normativa urbanistica, a cui si
aggiunge
una nullità di carattere formale per gli atti di
trasferimento
di immobili non in regola sotto il profilo urbanistico
o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali
circostanze
non risultino dagli atti stessi (Cass. civ., sez. I, 17.10.2013, n. 23591).
Per questo motivo, la sentenza impugnata è cassata con
rinvio (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.12.2014 n. 25811 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
VIOLAZIONI ANTISISMICHE SUSSISTENTI ANCHE IN CASO DI
VERIFICA POSTUMA DELL’ASSENZA DEL PERICOLO E DEL
RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE.
Le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica
puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il
controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Ne deriva che l’effettiva pericolosità della costruzione
realizzata senza l’autorizzazione del genio civile e senza
le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini
della sussistenza del reato e la verifica postuma
dell’assenza
del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo
non incidono sulla illiceità della condotta, poiché
gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio
dell’attività.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla configurabilità del
reato “antisismico” in ipotesi in cui, a seguito
dell’attività di
indagine, si accerti l’insussistenza della pericolosità
della
condotta vietata e venga rilasciata l’autorizzazione
amministrativa.
La vicenda processuale segue alla sentenza con
cui il tribunale, nel giudicare la proprietaria committente
per aver realizzato, in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, ex art. 136, una nuova
opera ai sensi dell’art. 3, lett. e.1), T.U.E. consistita in
un
muro di confine costituito da blocchi in cemento aventi
altezza
variabile tra cm 100 e cm 240, l’aveva eseguita senza
avere preventivamente depositato il progetto e senza avere
preventivamente ottenuto il prescritto nulla osta previsto
dalla normativa antisismica.
Il tribunale aveva però assolto
la proprietaria osservando che il geometra responsabile
dell’ufficio sismico aveva escluso che la recinzione della
proprietà con blocchi di conglomerato cementizio costituisse
manufatto sottoposto alla normativa sismica, rientrando
nelle opere minori come individuate dalla Giunta regionale
delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) e come tali
ritenute,
per caratteristiche costruttive, come strutture non
comportanti pericolo per la pubblica incolumità.
Contro la
sentenza assolutoria proponeva ricorso per cassazione il
PM, in particolare sostenendo che il giudice aveva
erroneamente
ritenuto che l’opera edilizia realizzata (muro di confine
costituito da blocchi in cemento avanti altezza variabile
tra cm 100 e cm 240) non fosse soggetta alla normativa
sismica;
assumeva il PM ricorrente come l’approdo cui era
giunto il tribunale fosse manifestamente errato non
potendosi
ipotizzare che, per costruire un muro alto oltre due
metri da terra, non occorresse verificare la rilevanza
sismica
dello stesso posto che, secondo la costante giurisprudenza
di legittimità, qualunque intervento che per dimensioni,
modalità di collocazione, morfologia, caratteristiche
del terreno, pendenza, etc. possa esporre a pericolo la
pubblica
incolumità necessita di preventivo adempimento degli
obblighi di cui agli artt. 93 e 94 T.U.E.
Sono pertanto
soggetti,
secondo il PM, al rispetto delle prescrizioni formali
(artt. 93 e 94 T.U.E.) e sostanziali (art. 83 T.U.E.) anche
quegli interventi che non riguardino un’abitazione, essendo
poi assolutamente irrilevante il fatto che la regione Marche
consideri un muro alto oltre due metri un’opera "minore".
La tesi è stata ritenuta fondata dalla Cassazione che, sul
punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha
precisato
che la normativa antisismica è ispirata a preservare
la pubblica incolumità in zone particolarmente soggette al
verificarsi di movimenti tellurici, prescrivendo, da un
lato,
necessari obblighi burocratici e particolari prescrizioni
tecniche
costruttive e costituendo, dall’altro, un’anticipazione
della tutela dell’interesse cui appresta protezione
(pubblica
incolumità).
Ne consegue che, in materia urbanistica ed
edilizia, le disposizioni legislative regionali, espressione
del
potere concorrente con quello dello Stato in materia, devono
non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti in
materia
edilizia-urbanistica dalla legislazione statale, ma devono
anche essere interpretate in modo da non collidere con
i medesimi (Cass. pen., Sez. III, 13.05.1997, n. 5738 -
dep. 17.06.1997, P., in CED Cass., n. 208299; Cass.
pen., Sez. III, 26.03.2014, n. 28560 - dep. 03.07.2014,
A., in CED Cass., n. 259938).
La sentenza in esame,
osservano
i giudici di legittimità, non si è uniformata ai richiamati
principi di diritto e neppure ha spiegato se il deliberato
della Giunta regionale delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) -che sembrerebbe, contrariamente ai principi fissati
dalla legislazione statale e contenuti nel testo unico
dell’edilizia,
distinguere gli interventi non sulla base della natura
dell’intervento stesso (costruzioni, riparazioni,
sopraelevazioni
ex art. 93 T.U.E.) ma solo sulla base delle caratteristiche
costruttive- rispetti i principi fondamentali stabiliti in
materia edilizia-urbanistica dalla legislazione statale
ovvero
se collida con essi, come in sostanza ritenuto dal PM, posto
che, in ogni caso, l’intervento si è risolto nella
realizzazione
di una “costruzione”, dovendosi anche ricordare che
la disciplina edilizia antisismica e delle costruzioni,
attenendo
tali materie alla sicurezza statica degli edifici, rientra
come
tale nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117,
comma 2, Cost. (Cass. pen., Sez. III, 28.02.2013, n.
16182 - dep. 09.04.2013, C. e altro, in questa Rivista,
2013, 7, 860, rassegna a cura di A. Scarcella, Rapporti tra
normativa nazionale e normativa regionale in materia di
“antisismica” e “cemento armato”) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.12.2014 n. 50624 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: RESPONSABILE IL “COMODATARIO” DI UN IMMOBILE IN
QUANTO GRAVATO DALL’OBBLIGO DI CONTROLLARNE LA
PERSISTENTE “LEGITTIMITÀ”.
Anche il comodatario di un immobile abusivamente
realizzato risulta destinatario dell’obbligo di controllo
derivante dalla verifica delle condizioni di mantenimento
di un’opera che, legittima ab origine (in quanto previamente
autorizzata), è subordinata però all’esecuzione
di un obbligo di facere che ne garantisce la legittimità.
Tale obbligo grava, invero, direttamente sul soggetto
fruitore della costruzione in qualità di comodatario, il
quale ha il compito di uniformarsi alle prescrizioni
dell’autorità
amministrativa. Ne consegue, dunque, che
non si versa, in una ipotesi di reato omissivo puro (o
proprio) ma di un reato commissivo mediante omissione
in cui l’evento è costituito dal mancato adempimento
dell’obbligo.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, invero non molto
approfondito
nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, della
individuazione dei profili di responsabilità del soggetto
che
abbia ricevuto in comodato un immobile regolarmente
autorizzato, poi, però divenuto illegittimo per la modifica
dello status quo.
La vicenda processuale trae origine dalla
sentenza di condanna con cui due imputati erano stati
chiamati a rispondere dei reati p. e p. dall’art. 734 c.p.,
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del
2004, art. 181, comma 1, per avere, in concorso tra loro,
nella veste di comodatari e in concorso con i proprietari
dell’area, poi prosciolti, realizzato in assenza del
permesso
di costruire, in zona soggetta a vincolo paesaggistico
ambientale
ed idrogeologico, ad una distanza di mt. 40 dalla
battigia una struttura prefabbricata di tipo precario
(chiosco
amovibile) esteso mq. 68 circa all’interno di un’area di
mq. 1.500,00 costituita da terreno di riporto vegetale ove
erano state impiantate palme e un impianto tecnologico
per l’irrigazione dell’area. Contro la sentenza di condanna
proponevano ricorso per cassazione i comodatari, in
particolare
contestando la loro responsabilità per il combinato
disposto del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e
art. 40
cpv. c.p.
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso.
In particolare,
nell’affermare il principio di cui in massima, ha rilevato
come
non sussistesse la pretesa violazione del principio di
legalità
di cui all’art. 1 c.p., riferita al fatto che a fronte di
una
contestata condotta di tipo attivo, il giudice di appello
avrebbe ritenuto la responsabilità per un fatto omissivo,
non rispettando la regola enunciata dall’art. 40 cpv. c.p.
secondo
la quale solo per i reati di evento sarebbe configurabile
la responsabilità di chi avendo l’obbligo di impedirlo
non lo abbia fatto.
Già in passato, ricorda la Cassazione, è
stato affermato il principio della responsabilità nascente
dall’aver mantenuto in opera, come permanente, una struttura
edilizia autorizzata come precaria, ricordando che tale
responsabilità deriva da una norma incriminatrice complessa
costituita dal combinato disposto del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 44 e dall’art. 40 cpv. c.p., senza che ciò
comporti
la disapplicazione del permesso amministrativo che autorizza
la realizzazione del manufatto a titolo precario (nella
specie si trattava di un box) perché è lo stesso
provvedimento
amministrativo che contiene l’ordine implicito di
smantellare il manufatto ad una data determinata (v. Cass.
pen., Sez. III, 06.06.2006, n. 29871 - dep. 11.09.2006, S., in CED Cass., n. 234939; Id., Sez. III, 12.05.2011, n. 23645 - dep. 13.06.2011, F., in CED Cass., n.
250484).
Ciò porta ad escludere, nel caso in esame, la
violazione
del principio di legalità, in quanto l’obbligo giuridico
gravante sugli imputati era esattamente quello di impedire
che la costruzione rimanesse oltre il termine stabilito
perché
in questo consisteva l’abuso e dunque la realizzazione
dell’evento (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.12.2014 n. 50620 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: OBBLIGO DI OSSERVANZA DELLA NORMATIVA ANTISISMICA
ANCHE IN CASO DI ACCERTATA PRECARIETÀ DELL’OPERA
EDILIZIA.
In tema di costruzioni in zone sismiche, la necessità che
lavori edilizi di qualsiasi genere siano preceduti da
autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico
della regione riguarda anche le opere di natura precaria.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno di rispettare la
disciplina
c.d. antisismica nel caso in cui l’opera edilizia realizzata
sia considerata dalla legislazione come “precaria” e,
quindi, sottoposta ad un regime giuridico agevolato sotto il
profilo del titolo abilitativo richiesto. La vicenda
processuale
segue alla sentenza di condanna, confermata anche in
appello, per alcuni reati, tra cui delle violazioni in
materia
antisismica.
Contro la sentenza proponevano ricorso per
cassazione gli imputati, in particolare lamentandosi, per
quanto qui di interesse, del fatto che i giudici avessero
ritenuto
insignificanti le opere realizzate (un piccolo manufatto
precario con copertura a telone di plastica e tubi metallici
finalizzato a riparare dalle intemperie alcuni sacchi di
concime
e di fertilizzanti) bisognevoli di preventive autorizzazioni
amministrative o di progetto ai fini antisismici.
La Cassazione, sul punto, ha respinto il ricorso affermando
il principio di cui in massima, rilevando come l’opera
abusiva,
caratterizzata da una struttura in tubolari in ferro di
metri
12,10 x 10,00 con altezza variabile da metri 3,40 a 4,60
ancorata ad una piattaforma in calcestruzzo delle dimensioni
di metri 15,70 x 13,90 e dello spessore di cm. 17, e,
collegata all’attività professionale svolta stante la
destinazione
a ricovero di prodotti della c.d. “farmacia delle piante”,
era stata motivatamente indicata come destinata, per
le sue stesse obiettive caratteristiche di consistenza e
natura,
a durare nel tempo, così assumendo dunque, alla luce
dei principi appena ricordati, caratteristiche tutt’altro
che
precarie e tali da sottrarla alla necessità del rilascio di
permesso
a costruire.
In ogni caso, tuttavia, dovendosi osservare
l’irrilevanza della natura precaria dell’opera, dovendosi
comunque rispettare la normativa antisismica (v., in
precedenza,
in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 09.07.2008, n. 38405 - dep.
09.10.2008, D.B. e altro, in CED
Cass., n. 241288) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.12.2014 n. 50001 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER REALIZZARE
UNA STRADA OD UNA PISTA ANCHE SE REALIZZATA SU UN
TRACCIATO PREESISTENTE.
La realizzazione di strade e piste è soggetta a permesso
di costruire senza alcuna distinzione riguardo alle
caratteristiche
costruttive, dimensioni e finalità, ritenendosi
sempre necessario il titolo abilitativo anche per
l’esecuzione
di strade o piste sterrate o realizzate su un preesistente
tracciato, e ciò in quanto trattasi di opere che
consentono ed incrementano il traffico veicolare,
determinando
una trasformazione urbanistica del territorio
(la Corte, in motivazione, ha inoltre ricordato che anche
l’abbassamento del livello di una strada non ha
caratteristiche
di attività di straordinaria manutenzione, trattandosi
di trasformazione urbanistica).
La sentenza in esame si occupa di un tema particolare nel
campo della disciplina edilizia, in particolare riguardante
la
necessità o meno del rilascio preventivo del permesso di
costruire in caso di realizzazione di una strada o pista,
anche
se di modeste dimensioni.
La vicenda processuale segue
al rigetto da parte del tribunale del riesame dell’istanza
di revoca del sequestro che, per iniziativa del Corpo
Forestale,
era stato disposto in relazione ad un’area di circa
7.000 mq. sulla quale erano stati riscontrati lavori di
spianamento
del terreno senza alcuna autorizzazione, pur essendo
l’area medesima vincolata paesaggisticamente. Il
sequestro di urgenza era stato convalidato dal GIP che
contestualmente aveva emesso decreto di sequestro
preventivo,
ipotizzando a carico dell’indagato i reati di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del
2004, art. 181.
L’istanza di riesame avverso il decreto del
GIP era stata rigettata dal Tribunale, dando atto che la
richiesta
di revoca del sequestro era fondata sul successivo
rilascio di permesso di costruire in sanatoria che, secondo
l’assunto difensivo, avrebbe determinato l’estinzione del
reato urbanistico ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45 e del
reato paesaggistico a norma del D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
181, comma 1-quinquies e che il GIP aveva rigettato la
richiesta
in quanto al rilascio di un’autorizzazione paesaggistica
in sanatoria ostava il disposto del D.Lgs. n. 42 del
2004, art. 146, comma 10.
Dopo aver richiamato la normativa
di riferimento ed in particolare il D.Lgs. n. 42 del 2004,
art. 146, comma 4 e art. 167, commi 4 e 5, riteneva il
Tribunale
che la descrizione, contenuta nell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, dei lavori effettuati fosse
assolutamente
riduttiva. In effetti, non ci si trovava in presenza
di movimenti di terra per uso agricolo, ma, come emergeva
chiaramente dalla informativa del Corpo Forestale, della
realizzazione, con livellamento del terreno e riporto di
materiale
tufaceo, di una pista di circa 200 metri lineari al servizio
di un’avio superficie.
Vi era stata, quindi,
indubitabilmente
la creazione di superfici utili che impediva, a norma
del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167, comma 4, il rilascio di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria. Non c’era dubbio,
infine, che i lavori effettuati, con la creazione di
superfici
utili, determinassero un mutamento stabile del territorio
con notevole compromissione ambientale. Contro l’ordinanza
proponeva ricorso per cassazione l’interessato, denunciando
la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 42
del 2004, artt. 167 e 181 ed al medesimo art. 167 con
riferimento
alla nozione di “superficie utile”.
Il Tribunale aveva
sostanzialmente ritenuto che lo stato di fatto e di diritto
cristallizzato
nella fase cautelare impedisse ogni possibilità di
utilizzo successivo nonostante venga accertata la
compatibilità
con gli strumenti urbanistici vigenti. Contrariamente,
poi, a quanto ritenuto dal Tribunale, non vi sarebbe stata
alcuna realizzazione di una pista ovvero alcuna opera di
carattere
edilizio, ma soltanto lo spianamento del terreno, per
cui, trattandosi di intervento minore, esso era suscettibile
di sanatoria ex post a norma del D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
167.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha ritenuto infondato il motivo di ricorso, in particolare
osservando,
quanto alla modificazione dell’assetto del territorio
ed alla compromissione ambientale dell’intervento eseguito,
che in tal caso sono necessari sia il permesso di costruire
che l’autorizzazione paesaggistica.
Ed invero, si è
affermato
che la modificazione, in area sottoposta a vincolo
paesaggistico, di una preesistente strada sterrata mediante
innalzamento del piano e copertura del manto con massetto
di cemento non rientra tra gli interventi di manutenzione
straordinaria e deve essere preceduta dal rilascio del
permesso di costruire e dalla autorizzazione dell’autorità
preposta
alla tutela del vincolo, comportando una modificazione
di carattere stabile ed incidente sull’assetto urbanistico
stante il potenziale incremento del traffico veicolare
(Cass.
pen., Sez. III, 06.11.2012, n. 1442 - dep. 11.01.2013, P.,
in CED Cass., n. 254264) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.11.2014 n.
49640 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: VALUTAZIONE “GLOBALE” NECESSARIA PER QUALIFICARE
UN’OPERA COME RISTRUTTURAZIONE ANZICHÉ COME
RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO.
La ristrutturazione edilizia, diversamente dal restauro
conservativo, non è vincolata al rispetto degli elementi
tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente,
comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica
e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, mentre
il restauro ed il risanamento conservativo non possono
modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio
preesistente. Al fine di collocare le opere all’interno di
una delle due categorie esse vanno considerate nella loro
globalità tenendo conto delle finalità perseguite con
la loro realizzazione.
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a
delineare
con sufficiente certezza la distinzione sotto il profilo
giuridico-tecnico di un intervento edilizio da sottoporre al
regime della ristrutturazione edilizia rispetto a quello,
meno
gravoso da un punto di vista burocratico, del c.d. restauro
e risanamento conservativo.
La vicenda processuale segue
al provvedimento con cui il tribunale del riesame ha accolto
l’appello proposto dall’indagato avverso l’ordinanza del
Giudice per le indagini preliminari con la quale veniva
rigettata
la richiesta di dissequestro di un immobile interessato
da interventi edilizi, rispetto ai quali venivano ipotizzati
i
reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b),
artt.
93 e 95, L. 07.08.1990, n. 241, art. 19, comma 6.
In
particolare,
l’indagato, unitamente ad altri, veniva sottoposto
ad indagini per aver eseguito, in assenza di permesso di
costruire, lavori di ristrutturazione di un preesistente
immobile,
comportanti la suddivisione in 4 unità immobiliari e la
demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla
realizzazione
di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, ritenuti
non rientranti nell’ambito del mero risanamento
conservativo,
in relazione al quale era stata presentata una S.C.I.A.
Al
medesimo veniva inoltre contestato di aver proseguito i
lavori
nonostante l’ordine di sospensione e la realizzazione
degli stessi, in zona sismica, senza la preventiva
presentazione
del progetto all’ufficio competente, mentre ad altro
coindagato, direttore dei lavori, veniva contestata anche la
falsa rappresentazione, nella planimetria allegata alla
S.C.I.A., della condizione originaria dell’immobile rispetto
alle altezze del piano sottotetto e dei vani prospicienti la
via
A.G. di F., nonché la falsa asseverazione della conformità
dell’intervento agli strumenti urbanistici ed i regolamenti
edilizi.
Avverso il provvedimento, con il quale il Tribunale
ha disposto la restituzione dell’immobile in sequestro,
proponeva
ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica
deducendo la violazione di legge, osservando che il
Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto la legittimità
dell’intervento
edilizio solo per il fatto che l’amministrazione
comunale aveva con proprio provvedimento successivo
ripristinato
la validità ed efficacia della S.C.I.A. presentata,
senza approfondire la questione concernente la corretta
qualificazione dell’intervento edilizio. Assumeva infatti il
PM che le opere realizzate andavano inquadrate nell’ambito
della ristrutturazione edilizia e non anche tra quelle di
risanamento
conservativo come ritenuto dal Tribunale sulla
base di quanto rilevato dall’amministrazione comunale.
La Cassazione ha, sul punto, accolto il ricorso del
Procuratore
e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha
ritenuto
che il Tribunale non poteva automaticamente dedurre
la legittimità dell’intervento edilizio sulla base di un
acritico
recepimento delle determinazioni dell’autorità comunale
che avrebbe dovuto, al contrario, valutare, seppure nel
limitato
ambito di cognizione riservatogli nel giudizio di appello
relativo ad un provvedimento di revoca di una misura
cautelare reale.
Sulla distinzione tra restauro e
risanamento
conservativo e la c.d. ristrutturazione edilizia, la
giurisprudenza
di legittimità si è più volte pronunciata in precedenza.
In particolare, si è chiarito che la ristrutturazione
edilizia,
poiché non vincolata al rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell’edificio, differisce sia dalla
manutenzione
straordinaria, che non può comportare aumento
della superficie utile o del numero delle unità immobiliari,
o, ancora, modifica della sagoma o mutamento della
destinazione
d’uso, sia dal restauro e risanamento conservativo,
che non può modificare in modo sostanziale l’assetto
edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d’uso
“compatibili” con l’edificio conservato (Cass. pen., Sez.
III, 16.03.2010, n. 20350 - dep. 28.05.2010, M., in
CED Cass., n. 247178; Cass. pen., Sez. III, n. 20776 del 13.01.2006 - dep. 16.06.2006, P.M. in proc. P., in
CED Cass., n. 234466) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.11.2014 n.
49221 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: SULLA VALENZA DEL D.M. 1444/1968.
In materia di distanze fra costruzioni, l’art. 9 D.M.
02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato,
essendo
stato emanato su delega dell’art. 21-quinquies L.
17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), come
novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d.
legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo
dispone
l'inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati
-in caso di redazione o revisione dei propri strumenti
urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate
da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i
regolamenti
locali siano con esse in contrasto.
Sorge, fra due privati, una controversia che investe
l’applicazione
delle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444/1968 -norma posta a tutela di un interesse d’igiene pubblica- a
mente della quale nei centri urbani, le distanze minime fra
pareti finestrate di edifici antistanti non può essere
inferiore
dieci metri.
Il Tribunale civile condannava la parte convenuta
all’arretramento
del fabbricato di metri cinque dal confine. Il giudice
d’appello, in parziale riforma, dimidiava la distanza. Per
quanto qui interessi, la Corte di merito affermò che la
norma
in esame -diretta ai Comuni nella redazione degli strumenti
urbanistici- non ha immediata efficacia nei confronti
dei privati e opera esclusivamente per i regolamenti edilizi
successivi all’entrata in vigore del decreto stesso,
avvenuta
in data 17.04.1968.
Nella fattispecie, all'epoca della costruzione realizzata
dalla
convenuta, era in vigore il preesistente regolamento
edilizio,
che prescriveva una diversa e inferiore distanza dal
confine (di metri 2,50).
La questione giunge all’esame della Cassazione, che accoglie
il ricorso osservando che in tema di distanze tra
costruzioni,
l’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di
legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art.
21-quinquies della L. 17.08.1942, n. 1150 (c.d.
legge urbanistica), come novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo dispone
l'inderogabilità
dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra
i
fabbricati, i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o
revisione dei propri strumenti urbanistici- a non
discostarsi
dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque
prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in
contrasto (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 11.11.2014 n. 24013
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
ESPROPRIAZIONE: CONSEGUENZE DELL’OCCUPAZIONE D’URGENZA NON
SEGUITA DA PROVVEDIMENTO DI ESPROPRIO.
Nell’ipotesi di occupazione d'urgenza autorizzata per
l'esecuzione di opera pubblica, non seguita da decreto
di esproprio, non ricorre alcun illecito civile poiché il
mero fatto che durante il suo corso non sia stato emesso
il provvedimento ablativo non vale a far considerare
illegittima ab origine l'occupazione, trattandosi di
procedimenti
(quello di espropriazione e quello di occupazione
legittima) distinti e autonomi, sebbene coordinati
e finalizzati alla realizzazione del medesimo scopo di
pubblica utilità.
L'indennità per il periodo di occupazione autorizzata il
quale ha, per definizione, carattere di legittimità ed è
quindi improduttivo di danni, mirando unicamente a
compensare, per la durata dello stato di temporanea
indisponibilità
del bene, il mancato suo godimento, ossia
la perdita reddituale che, essendo diversa dalla perdita
della proprietà del cespite, postula un compenso separato.
Un privato convenne, avanti il Tribunale civile, alcune
Amministrazioni
deducendo di aver acquistato nel 1977 alcuni
appezzamenti di terreno per la cui edificazione era stato
rilasciato,
ai propri danti causa, un titolo abilitativo ancor valido
al momento della vendita e, con essa, traslato in capo
all’attore.
In forza di ciò egli iniziò l’edificazione ma il
Comune
dispose la sospensione dei lavori in ragione del fatto
che i terreni erano interessati dalla realizzazione di una
strada per la quale -al termine del 1977 (dopo il rilascio
del
titolo edilizio)- fu approvato il progetto esecutivo,
comportante
dichiarazione di p.u. La costruzione della strada era
stata affidata in concessione, alla Provincia, autorizzata
all'occupazione
d'urgenza dei terreni dell'attore per una durata
di cinque anni. L’immissione in possesso dell’area avvenne
solo nel 1980 e allo scadere del periodo per il quale
fu autorizzata l'occupazione la Provincia non aveva ancora
eseguito alcuna opera sui terreni appresi, né aveva dato
corso all'espropriazione.
Sulla scorta di tali premesse, l’attore chiese al Tribunale
che la Provincia e l'Agenzia per lo sviluppo nel
Mezzogiorno,
finanziatrice dell’opera, fossero condannate alla
restituzione
dei terreni, al pagamento dell'indennità d'occupazione
legittima e al risarcimento dei danni causati da quella
illegittima.
Ancora, che il Comune fosse condannato al risarcimento
dei danni causati dall'illegittimo provvedimento di
sospensione dei lavori.
Il Tribunale, con sentenza parziale, rigettava le domande
attoree verso Comune e Agenzia, disponendo istruttoria
quanto alla domanda contro la Provincia che, all’esito del
giudizio era condannata al pagamento di una somma per
occupazione legittima e di altri importi per occupazione
illegittima,
oltre a importi per maggior costo di costruzione e
mancato godimento dell'immobile, con rivalutazione monetaria
fino alla data della sentenza e interessi sino al soddisfo.
La sentenza fu gravata dalla Provincia, censurando che il
Tribunale avesse attribuito al privato un risarcimento per
il
maggior costo di produzione dell'immobile e al suo mancato
godimento, malgrado non fosse stata dimostrata né la
possibilità di ultimazione del fabbricato nel termine di
validità
del titolo abilitativo edilizio, né che egli avesse perduto
possibilità di utilizzazione del bene.
Ancora, fu censurata
l’acritica recezione delle conclusioni del CTU nel computo
dell’indennità da occupazione illegittima (computata anche
nel periodo in cui nessuna occupazione era stata operata
dall’appellante) e, infine, che il danno da mancato
godimento
dell'immobile, fosse stato stimato con parametri
ipotetici. Soprattutto, fu oggetto di doglianza il fatto che
la
domanda di liquidazione dell'indennità da occupazione
legittima
fosse stata esaminata dal Tribunale nonostante essa
rientri nella competenza funzionale della Corte d’appello.
Seguirono, infine, altre censure, tanto in rito, quanto sul
computo dell’indennità.
La Corte territoriale accolse parzialmente il gravame,
determinando
in misura ridotta l’indennità di occupazione legittima
e riducendo il risarcimento per occupazione illegittima.
Quanto al resto, la Corte osservò che l'opera pubblica
viaria,
realizzata dalla Provincia, non aveva interessato i terreni
dell'attore, per cui non ricorreva alcuna acquisizione in
proprietà
per “accessione invertita”. Sicché al privato poteva
esser riconosciuta solo un'indennità per occupazione
legittima
quinquennale e un risarcimento di indole aquiliana
per le perdite patrimoniali determinate da mancata
disponibilità
dei terreni stessi nel periodo d'occupazione illegittima.
Non spettava, di contro, alcun risarcimento per la perdita
(non verificatasi) del diritto di proprietà.
Ritenendo la propria competenza funzionale per la
determinazione
dell’indennità da occupazione legittima essa -sul
presupposto che la relativa domanda era stata riproposta-
si pronunciò determinandola in misura corrispondente a
una percentuale dell'indennizzo espropriativo, l’occupazione
temporanea aveva riguardato aree solo parzialmente
edificate. Di contro, fu escluso, tra l’altro, un ristoro
per
mancato godimento del fabbricato, posto che ciò ne avrebbe
presupposta la concreta esistenza.
Avverso questa sentenza, il privato ricorre per Cassazione,
che accoglie il gravame limitatamente alla liquidazione
dell’indennità
espropriativa, nei termini sotto riferiti, per il resto
integralmente confermando la sentenza d’appello.
Osserva la Suprema Corte, nell’accogliere l’unico mezzo
condiviso, che la doglianza inerente all'indennità da
occupazione
legittima e il risarcimento da occupazione illegittima
del terreno inedificato (ma urbanisticamente edificabile)
siano stati commisurati in rapporto ad indennità di
espropriazione
calcolata ai sensi dell’art. 5-bis della L. n.
359/1992. La Corte ha chiarito anzitutto che, trattandosi di
occupazione d'urgenza autorizzata, non ricorreva alcun
illecito
civile poiché -in caso d’occupazione d'urgenza di un
suolo per l'esecuzione di opera pubblica- il mero fatto che
durante il suo corso non sia stato emesso il decreto di
esproprio non vale a far considerare illegittima ab origine
l'occupazione, trattandosi di procedimenti (quello di
espropriazione
e quello di occupazione legittima) distinti ed autonomi,
sebbene coordinati e finalizzati alla realizzazione del
medesimo scopo di pubblica utilità.
L'indennità dovuta per il periodo di occupazione autorizzata
il quale ha, per definizione, carattere di legittimità ed è
improduttivo
di danni, mira a compensare, per la durata dello
stato di temporanea indisponibilità del bene, il mancato
godimento,
ossia una perdita reddituale che, essendo diversa
dalla perdita della proprietà del cespite, postula un
compenso
separato (cfr. Cass., Sez. I, n. 19972/2009). Ancora,
tale indennità integra un debito di valuta e, quindi non è
suscettibile di automatica rivalutazione (Cass., Sez. I, n.
719/2011).
Peraltro, poiché le censure involgono questioni inerenti
tanto alla quantificazione dell'indennità che del
risarcimento,
spettanti per l'intero periodo di protrazione
dell'occupazione
temporanea sulla sola porzione di terreno inedificata
e sia l'attuata parametrazione del dovuto all'indennità
virtuale
di espropriazione calcolata in base al criterio riduttivo
già prescritto per le aree edificabili (quale ritenuta
quella di
specie) dall’art. 5-bis della L. n. 359/1992, criterio
venuto
meno per effetto della declaratoria d’incostituzionalità
(Corte
cost. n. 348/2007) la sentenza su tal punto va cassata
con rinvio, onde procedersi alla rideterminazione
dell'indennità
virtuale di espropriazione secondo il diverso criterio
del valore pieno di mercato del bene occupato, secondo la
previsione dell’art. 39 L. n. 2359/1865 (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
07.11.2014 n. 23874 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
URBANISTICA: CONDIZIONI DELLA RESPONSABILITÀ PENALE
DELL’ACQUIRENTE PER IL REATO DI LOTTIZZAZIONE
ABUSIVA.
È sufficiente un aggravamento consolidante la trasformazione
dell'assetto urbanistico per porre in essere, anche
da parte di chi ha acquistato l'immobile successivamente
all'alienazione dei lotti, il reato di lottizzazione
abusiva.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente, della
configurabilità del reato di lottizzazione abusiva in capo
al
soggetto che abbia acquistato l’immobile successivamente
alla vendita dei lotti abusivamente frazionati.
La vicenda
processuale trae origine dal provvedimento con cui il
Tribunale
ha respinto l'istanza di riesame presentata dall’interessata
avverso il sequestro preventivo di un'area e di opere
edili su di essa realizzate disposto dal GIP del Tribunale
in
relazione a indagini nei confronti di vari soggetti, tra cui
l’indagata, per avere commesso lottizzazione abusiva.
Contro
l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessata,
sostenendo che il Tribunale non avrebbe verificato il
quadro indiziario e che, comunque, sarebbe impossibile
porre la lottizzazione abusiva a suo carico, avendo la
stessa
acquistato l'immobile due anni dopo il rilascio dei permessi
di costruire e quando era comunque nella attuale situazione
territoriale: la stessa sarebbe stata pertanto in buona fede
per avere fidato sulla vigilanza dell'ufficio tecnico
comunale
e della polizia giudiziaria.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, osservando come correttamente
i giudici di merito avessero contestato alla medesima
l’illecito
lottizzatorio mediante il frazionamento di una particella,
le modifiche catastali di altre due particelle con
successiva
formazione di quattro lotti sulle predette particelle
nonché con la costruzione sui lotti di manufatti abusivi,
realizzando una rilevante modificazione urbanistica ed
edilizia
di un'area non adeguatamente urbanizzata e in contrasto
con lo strumento urbanistico.
Sulla questione, si noti, la
Cassazione ha ormai chiarito che il reato di lottizzazione
abusiva è integrato già con il frazionamento e la vendita
dei terreni e può proseguire con la successiva esecuzione
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, poiché
queste compromettono ulteriormente le scelte di
pianificazione dell'assetto urbanistico riservate alla
pubblica amministrazione
(Cass. pen., Sez. III, 15.10.2013, n. 42361,
in CED Cass., n. 257731, che ha anche affermato che il
concorso nel reato del venditore lottizzatore permane sino
a quando continua l'attività edificatoria degli acquirenti,
anche se successiva all'alienazione dei lotti) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.10.2014 n. 44945
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTO EDILIZIO SU AREA PAESAGGISTICAMENTE
VINCOLATA E QUALIFICAZIONE DELLO STESSO COME DI
MINIMA ENTITÀ.
Ferma restando la natura del reato di pericolo formale
della figura delittuosa prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004,
art. 181, comma 1-bis, laddove sia stato accertato un
intervento
edilizio su area paesaggisticamente vincolata,
la condotta deve ritenersi sempre punibile tranne che
nelle residuali ipotesi di interventi di minima entità,
senza che possa assumere rilevanza il concetto di lieve
entità come enunciato nella L. n. 35 del 2012, art. 44,
attesa
la mancanza di specifiche indicazioni illustrative di
tale concetto, ancora di là da venire e comunque tale
da non escludere l'applicabilità, allo stato attuale, del
criterio della minima entità degli interventi così come
elaborato pacificamente dalla giurisprudenza della
Cassazione.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della delimitazione del perimetro
applicativo che consente di attribuire rilevanza penale agli
interventi qualificati dalla legge come di “lieve entità”.
La
vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui
la Corte di appello confermava la sentenza del Tribunale
con la quale l’imputato era stato condannato per il delitto
di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis.
Contro
la sentenza, per quanto qui di interesse, questi proponeva
ricorso per cassazione denunciando l’erronea applicazione
della legge penale con riferimento alla ritenuta sussistenza
del reato di cui all'art. 181 c.p., comma 1-bis.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, peraltro inserendosi in un
orientamento giurisprudenziale di legittimità che ha
ribadito
che la punibilità del reato di pericolo previsto dall'art.
181, comma 1, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è esclusa
solo nell'ipotesi di interventi di “minima entità”, e cioè
di
quelli inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il
paesaggio,
e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale,
precisando
che non può ritenersi applicabile al reato di cui all'art.
181, comma 1-bis cit. la causa di non punibilità della
lieve entità degli interventi, introdotta dall'art. 44 D.L.
n. 5
del 2012, conv. in L. n. 35 del 2012, che presuppone un
regolamento
attuativo ad oggi non ancora emanato (Cass.
pen., Sez. III, 23.09.2013, n. 39049, in CED Cass., n.
256426) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.10.2014 n. 44928
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
LAVORI PUBBLICI:
CLAUSOLA DI PAGAMENTO DIFFERITO DEL CORRISPETTIVO
DELL’APPALTO E CONDIZIONI DI VALIDITÀ.
Nei contratti d’appalto per la realizzazione di opere
pubbliche, la clausola pattizia che impegna l'appaltante
a pagare il capitale al momento dell’effettiva acquisizione
dei finanziamenti da parte di un ente terzo, non è
nulla ai sensi dell’art. 4, comma 3, L. n. 741/1981: invero,
essa non implica una rinuncia agli stessi ma ha la
funzione di determinare il termine dell'adempimento
dell'obbligazione e, con esso, il momento in cui il credito
dell'appaltatore diventi esigibile, in concomitanza
con la disponibilità delle somme accreditate all'appaltante.
Per l’effetto, gli interessi moratori sono dovuti
nel caso in cui quest'ultimo, pur avendo ricevuto
tempestivamente
l'accredito delle somme da parte dell'ente
finanziatore, abbia ritardato il versamento in favore
dell'appaltatore,
risultando in tal modo inadempiente all'obbligazione
di pagamento nel termine convenzionalmente
pattuito.
All’esito dei due gradi di merito, la Corte d'appello -giudicando
sulla domanda di un’impresa per il pagamento del
saldo finale e degli interessi su acconti dovuti a seguito
di
Stati di avanzamento lavori (SAL)- accoglie l'appello
incidentale
della Stazione appaltante assolvendola da ogni domanda
di pagamento. La Corte ha ritenuto la validità e il
carattere non vessatorio d’una clausola che subordinava il
pagamento all'erogazione alla S.A. degli accrediti da parte
della Regione.
In particolare, per la Corte di merito, non
versandosi in fattispecie assimilabile a una condizione
sospensiva,
bensì di un termine dipendente dalla verificazione
di un evento costituito dalla condotta di un terzo
(l'accredito
del finanziamento regionale) certus an sed incertus quandum.
Per l’effetto, ha ritenuto valida la suddetta clausola,
non contraddetta dalle previsioni del Capitolato generale
oo.pp. (artt. 35 e 36 D.P.R. n. 1063/1962) qui inapplicabili
perché incompatibili con la clausola contrattuale di cui si
tratta, che subordinava il pagamento all'erogazione del
finanziamento.
Ancora, la Corte di merito ha ritenuto che i
crediti dell'impresa non fossero produttivi d’interessi
perché
non liquidi, né esigibili finché la Regione non avesse
approvato gli atti contabili e effettuato gli
accreditamenti,
osservando peraltro che la S.A. era sempre stata sollecita
in ogni adempimento di propria spettanza, compresi i
pagamenti,
non appena ricevuti i finanziamenti regionali.
L’appaltatore ricorre per Cassazione, che rigetta il
ricorso.
A fondamento del gravame è dedotta la violazione dell’art.
4 L. n. 741/1981. In applicazione di quanto da esso
previsto,
sarebbe nulla la clausola contrattuale che subordina il
pagamento del corrispettivo (e, così, l’esigibilità del
credito)
a un momento incerto, quale l’effettiva acquisizione dei
finanziamenti
da parte della Stazione appaltante, poiché l'incertezza
sulla data del pagamento sarebbe suscettibile di
realizzare un inaccettabile divario tra il momento di
verificazione
del ritardo nell'adempimento e quello di decorrenza
degli interessi moratori.
La Suprema Corte disattende l’argomento, osservando che
l’art. 4 della L. n. 741/1981 prevede che l'importo degli
interessi
da tardato pagamento, dovuti per legge, capitolato
generale speciale, o per contratto, è computato e
corrisposto
in occasione del pagamento, in conto a saldo, immediatamente
successivo, senza necessità di apposite domande
e riserve. Il successivo comma 2, riduce da novanta
a sessanta giorni il termine dilatorio per la produzione di
interessi
moratori già previsto nel Capitolato generale (artt.
35 e 36 D.P.R. n. 1063/1962) e, al comma 3, commina la
nullità di ogni patto contrario o in deroga a quanto
previsto
in tale articolo.
Dal menzionato quadro normativo, osserva la Corte
nomofilattica,
risulta che l'applicabilità dei commi 1 e 3 non è limitata
agli appalti stipulati dal Ministero o da enti diversi
dallo Stato (nei casi in cui il medesimo capitolato generale
sia richiamato in virtù di rinvio recettizio) ma è generale
e
riguarda tutti gli appalti per la realizzazione di opere
pubbliche
(cfr. Cass. n. 14974/2002).
Tuttavia, ciò non soccorre all’accoglimento del ricorso,
perché
va considerato che la specifica clausola contrattuale -per la quale il Consorzio provvede a effettuare il pagamento
dei lavori soltanto a seguito di accertamento e approvazione
da parte degli organi competenti e nell'ambito dell'avvenuta
erogazione degli accrediti regionali- non nasconde
un patto contrario al divieto portato nella norma
imperativa contenuta nella L. n. 741/1981, con conseguente
nullità della stessa a norma del comma 3.
La conclusione è conforme ad altri precedenti della stessa
Corte, relativi a clausole che escludevano il pagamento
degli
interessi fino al momento dell'accreditamento (o in caso
di ritardato accreditamento) dei finanziamenti in favore
dell'appaltante/
debitore (cfr. Cass. nn. 15788/2000;
13125/2004; 16814/2006).
Del resto, non va sottaciuto che l'art. 4 citato, prevedendo
la nullità delle pattuizioni che stabiliscano forme
particolari
o dilatorie per la corresponsione di interessi moratori
spettanti
all'appaltatore, intende ancorare la loro decorrenza
esclusivamente al ritardo nell'adempimento in occasione
del pagamento, in conto o a saldo, immediatamente
successivo. A rilevare, a tal fine, è il termine
d'adempimento -contrattualmente individuato nell'erogazione del
finanziamento
regionale– sicché solo a questo può essere ancorata
la decorrenza degli interessi moratori, come previsto
dall’art.
4 della L. n. 741/1981.
La sentenza richiama un altro precedente (Cass., n.
3648/2009), per il quale una clausola analoga a quella in
esame non implica affatto rinuncia agli interessi, bensì un
diverso dies a quo per il loro decorso e computo, non
irragionevole
tenuto conto della fonte esterna regionale di finanziamento.
La ragionevolezza e, con essa, la legittimità
della pattuizione siffatta deriva dal fatto che la clausola
ha
funzione di determinare il tempo d'adempimento
dell'obbligazione
e, con ciò, il momento in cui il credito dell'appaltatore
diventi esigibile (ossia, in concomitanza con la
disponibilità
delle somme accreditate all'appaltante-debitore) con
ogni conseguente insussistenza della dedotta violazione
dell’art. 4, L. n. 741/ 1981.
Ne consegue che gli interessi
moratori sono dovuti all’appaltatore solo da quel momento,
non trattandosi di clausola meramente potestativa, poiché
l'adempimento dipende da un accadimento che, pur rimesso
alla volontà e attività di una sola parte, non è mai
configurabile
alla stregua di un mero “si voluero” e ne ha rilevato
la piena funzionalità ad uno specifico interesse dedotto
nel contratto (Cass. civ., nn. 9587/2000; 20444/2009) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
29.10.2014 n. 22996 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
APPALTI:
RESPONSABILITÀ DELLA S.A. PER RITARDATO
PAGAMENTO DIPESO DA FINANZIAMENTO ALTRUI.
L’Ente pubblico committente è responsabile per il ritardo
nei pagamenti dei corrispettivi d’appalto, dipendenti
dal ritardo nell'erogazione del finanziamento da parte
di altro Ente pubblico, perché i fatti -pur in apparenza
ascrivibili alla condotta di un finanziatore terzo- restano
imputabili al committente debitore, in assenza d’una
specifica convenzione con la quale l'ente finanziatore
garantisca al committente la tempestiva erogazione del
finanziamento.
Le disposizioni dell’art. 13 D.L. n. 55/1983, sono
applicabili
tanto agli appalti per la fornitura di beni e servizi,
quanto a quelli di opere pubbliche e riguardano i soli
interventi
finanziati dalla Cassa Depositi e Prestiti e non
anche ad altre forme di finanziamento, senza possibilità
di applicazione estensiva in caso di altri enti
finanziatori,
anche se pubblici.
Un’impresa appaltatrice dei lavori di costruzione di una
scuola, lamentando un ritardo nei pagamenti degli acconti
dovuti sulla base dei SAL e del saldo, adiva il Tribunale
chiedendo la condanna della committente Amministrazione
comunale al pagamento d’interessi di mora e spese.
Il
Tribunale respinse la domanda osservando che tali ritardi
nei pagamenti, pur pacifici, non erano imputabili all'ente
locale
stante il richiamo, contenuto in contratto di appalto, al
mutuo stipulato -come mezzo di finanziamento dell'opera-
con il Ministero del Tesoro ed erogato con ritardo pur in
assenza
di condotta omissiva del Comune il quale anzi -in
modo diligente- ha corrisposto i pagamenti all’impresa
non appena ricevuti i ratei finanziari da parte del
mutuante.
La Corte territoriale, in totale riforma della sentenza resa
in
prime cure, condannò il Comune a pagare gli interessi
moratori,
ritenendo che il vaglio dell’impossibilità d’una prestazione
per causa non imputabile al debitore (art. 1218
c.c.) debba valutarsi sulla scorta di criteri oggettivi e
assoluti,
senza che l'impossibilità di pagare il proprio debito per
l'eventuale inadempimento del proprio finanziatore possa
escludere la sua responsabilità verso il creditore.
Ancora,
perché la previsione contrattuale, attinente le forme di
finanziamento
dell'opera, non sarebbe stata pattuita per esonerare
da ogni responsabilità per il ritardo, avendo essa valore
di semplice dichiarazione di scienza. Infine, perché la
disposizione contenuta all’art. 13, comma 6, del D.L. n.
55/1983, che attribuisce rilievo ed esonera la P.A.
appaltante
dalla responsabilità per il ritardo nel pagamento derivato
dal ritardo nell’erogazione del finanziamento, a condizione
che il bando richiami il finanziamento a mezzo Cassa
Depositi
e Prestiti, non è qui applicabile.
Ricorre per la cassazione di questa sentenza
l’Amministrazione
committente, con un ricorso affidato a quattro motivi,
tutti reietti.
Osserva la Corte che -pur aderendo al ragionamento svolto
dal ricorrente nelle premesse e, così, al principio per cui
la preferibile interpretazione degli artt. 1218 e 1176 c.c.
porta a escludere la responsabilità del debitore per
inadempimento
se esso s’è comportato con diligenza sicché in capo
al medesimo occorre, per essere esonerato da responsabilità,
solo provare di non essere in colpa- non può pervenirsi
alle conclusioni tratte dal ricorrente.
Questo, anzitutto,
perché in materia di responsabilità contrattuale, l'art.
1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del
debitore,
per il solo fatto dell'inadempimento, una presunzione
di colpa superabile mediante la prova dello specifico
impedimento
che abbia reso impossibile la prestazione o, almeno,
la dimostrazione che qualunque sia stata la causa
dell'impossibilità,
la medesima non possa essergli imputabile.
Sotto concorrente profilo, in ragione del fatto che affinché
l'impossibilità della prestazione costituisca causa
d’esonero
per il debitore da responsabilità, non basta eccepire che la
prestazione non possa eseguirsi per fatto del terzo ma
occorre
dimostrare la propria assenza di colpa con l'uso della
diligenza spiegata per rimuovere l'ostacolo frapposto da
altri
all'esatto adempimento.
Con riguardo al ritardo cagionato dal finanziamento da parte
del terzo è applicabile il principio per cui, sussistendo la
piena identità di ratio, la Sezione (Cass., n. 4214/2012) ha
già affermato che l'ente finanziatore non è tenuto a
rivalere
il concessionario della somma che si sia obbligato a versare
all'appaltatore, salvo che non sia stata stipulata una
convenzione
accessoria all'atto di concessione, con la quale
l'ente garantisca la tempestiva erogazione del
finanziamento,
ovvero la copertura del concessionario dai rischi derivanti
per i ritardi nei pagamenti dovuti all'appaltatore (cfr.,
da ultima, Cass., n. 14340/2013).
La decisione desta interesse anche ove afferma
l’applicabilità
delle disposizioni dell’art. 13 D.L. n. 55/1983 all'appalto
di opere pubbliche (Cass., Sez. I, n. 17197/ 2012) e
ribadisce
che la disposizione riguarda soltanto le opere finanziate
dalla Cassa Depositi e Prestiti, non anche altre forme di
finanziamento.
Il fondamento di questo particolare regime di
favore per il debitore (e di sfavore per il creditore), che
deroga
al regime ordinario della responsabilità nell'adempimento
delle obbligazioni civili (e pecuniarie), riguarda, con
tutta evidenza, solo i contratti collegati a finanziamenti
erogati
da tale specifico ente pubblico, per le peculiari funzioni
da esso svolte, ciò che non ne consente l'estensione ad
altri enti finanziatori, anche se pubblici (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
23.10.2014 n. 22580 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: “NUDO” PROPRIETARIO NON COMMITTENTE E
RESPONSABILITÀ CONCORSUALE (COLPOSA O DOLOSA)
NEL DELITTO PAESAGGISTICO.
La responsabilità per la realizzazione di opere abusive è
configurabile anche nei confronti del nudo proprietario
che ha la disponibilità dell'immobile ed un concreto
interesse
all'esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze
utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati
da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà,
ma - nel caso in cui sia contestato il delitto paesaggistico
(D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis) è obbligo
del giudice fornire adeguata argomentazione in ordine
alle ragioni per le quali è ipotizzabile un concorso
(colposo o doloso) del nudo proprietario in tale reato
doloso.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema non adeguatamente approfondito
nell’esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato
dall’individuazione delle condizioni in presenza delle
quali può ritenersi configurabile in capo al proprietario
non committente un’opera edilizia eseguita in zona paesaggisticamente
vincolata, il c.d. delitto paesaggistico di
cui all’art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. n. 42 del 2004.
La
vicenda
processuale trae origine dalla sentenza della Corte
d'appello con cui era stata confermata la sentenza di
condanna
emessa dal tribunale in relazione al delitto paesaggistico
di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis.
Contro la sentenza aveva proposto ricorso per cassazione
la nuda proprietaria dell’immobile, in particolare
sostenendo
che la medesima, proprio per tale sua qualità, non sarebbe
stata responsabile dell'abuso posto in essere dal padre,
usufruttuario dell'immobile sul quale vennero eseguiti
gli interventi abusivi.
La Corte d'appello, a confutazione
della tesi, aveva richiamato il consueto criterio del "cui prodest",
sostenendo l'esistenza di un concorso della stessa
con il proprio padre, usufruttuario e autore materiale
dell'intervento,
sia perché la stessa era colei che aveva presentato
domanda per la realizzazione della cisterna, sia
perché era proprio lei ad avere interesse, in quanto
dell'abuso
edilizio “paterno” ne avrebbe usufruito anche la medesima
quando vi si sarebbe recata in vacanza.
La Corte di Cassazione, nell’affermare il principio di cui
in
massima, ha annullato la sentenza con rinvio al giudice di
appello, ritenendo che la questione da risolvere fosse se il
criterio adottato dalla Corte d'appello, sicuramente
corretto
per ritenere raggiunta la prova di un concorso in un reato
contravvenzionale, possa essere idoneo a sostenere la
configurabilità
del concorso in un delitto, qual è quello paesaggistico.
Vero è, si osserva, che ai fini della configurabilità
del delitto in esame è sufficiente il dolo generico (Cass.
pen., Sez. III, 28.12.2011, n. 48478, in CED Cass., n.
251635), ma è altrettanto vero -evidenziano gli Ermellini-
che, nel caso in esame, occorre valutare la peculiare
posizione
del concorrente, proprietario non committente, rappresentato
dalla nuda proprietaria, soprattutto in una fattispecie
in cui la stessa -come era emerso pacificamente
dalla stessa sentenza- non risultava risiedere nello stesso
luogo di consumazione dell'illecito (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.10.2014 n. 43562
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA “BASSA SCOLARIZZAZIONE” NON È SUFFICIENTE PER
ESSERE ASSOLTI DAL REATO EDILIZIO PER IGNORANZA
DELLA LEGGE PENALE.
A seguito della sentenza 23.03.1988 n. 364 della
Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della
legge penale, se incolpevole a cagione della sua
inevitabilità,
scusa l'autore dell'illecito, vanno stabiliti i limiti
di tale inevitabilità.
Per il comune cittadino tale
condizione
è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto,
con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto
“dovere
di informazione”, attraverso l'espletamento di
qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza
della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo
è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono
professionalmente una determinata attività, i quali
rispondono dell'illecito anche in virtù di una culpa levis
nello svolgimento dell'indagine giuridica.
Per
l'affermazione
della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè,
che da un comportamento positivo degli organi amministrativi
o da un complessivo pacifico orientamento
giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento
della correttezza dell'interpretazione normativa e,
conseguentemente,
della liceità del comportamento tenuto.
Di estremo interesse la questione giuridica oggetto di esame
da parte della Corte di Cassazione con la sentenza in
esame, in cui i giudici di Piazza Cavour si soffermano ad
analizzare la questione della possibile rilevanza penale
della c.d. buona fede, determinata dall’ignoranza
inevitabile della disciplina normativa edilizia.
La vicenda processuale
traeva origine dalla sentenza di condanna, confermata anche
in grado di appello, nei confronti di due soggetti cui
era stato contestato di aver commesso un reato edilizio.
Contro la sentenza i due proponevano ricorso per cassazione,
in particolare sostenendo di non essere a conoscenza
della normativa, trattandosi di soggetti con bassa
scolarizzazione,
che non avevano pensato di informarsi su quali
fossero i vincoli e le autorizzazioni da richiedere, donde
sarebbe
stato insussistente l'elemento psicologico; in altri
termini,
gli stessi sostenevano che, ai fini della ignoranza
inevitabile
della legge penale, deve tenersi conto della qualità
dei soggetti.
La Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha
ribadito
l’importante principio di cui in massima, già affermato
autorevolmente dalle Sezioni Unite della Cassazione
(Sez. Un., 18.07.1994, n. 8154, in CED Cass., n.
197885), osservando come i due imputati non avessero assolto
a quel minimo “dovere di informazione”, condicio sine
qua non per poter prospettare una situazione di buona fede.
Del resto, i giudici di appello avevano escluso l'esistenza
di un errore interpretativo, osservando che nel caso di
errore in ordine alla necessità dell'autorizzazione
amministrativa
per l'edificazione di un'opera per la quale il permesso
di costruire sia necessario, l'imputato non può fondatamente
invocare la scriminante della buona fede (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.10.2014 n. 43560
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: PROPRIETARIO NON COMMITTENTE “IRRESPONSABILE”
SOLO SE È POSSIBILE ESCLUDERE L'INTERESSE O IL
CONSENSO DI QUEST'ULTIMO ALL'ABUSO.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del
comproprietario
non committente quale soggetto responsabile dell'abuso
edilizio può essere desunta da elementi oggettivi
di natura indiziaria, sottraendosi tale valutazione al
sindacato di legittimità della Suprema Corte in quanto
comporta un giudizio di merito che non contrasta né
con la disciplina in tema di valutazione della prova né
con le massime di esperienza.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della individuazione degli elementi
“indizianti” in base ai quali è legittimo ascrivere al
proprietario
non committente l’opera abusiva la responsabilità per
la realizzazione dell’illecito.
La vicenda processuale che
ha
fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione
segue alla sentenza con cui la Corte di appello confermava
la sentenza del Tribunale nei confronti di un’imputata,
proprietaria
non committente, dichiarata responsabile del reato
previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per
avere realizzato senza la prescritta concessione un
fabbricato
di circa mq. 44 alto da 4 a 5,60 metri e copertura con
travi di cemento armato, oltre ai reati concernenti la
realizzazione
di opere in zona sismica senza preavviso e senza
dare avviso al genio Civile.
Contro la sentenza proponeva
ricorso per Cassazione l’imputata, lamentandosi, per quanto
qui di interesse, per essere stata condannata, pur non
sussistendo a suo carico la prova dell'avvenuta
realizzazione
dei manufatti, sul semplice presupposto di essere la
proprietaria dell'immobile.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, operando un interessante
approfondimento
procedendo ad individuare una casistica di
elementi indizianti che consentono di ascrivere la
responsabilità
al proprietario non committente:
a) piena disponibilità
giuridica e di fatto del suolo e interesse specifico ad
effettuare
la nuova costruzione, così come nei rapporti di parentela
o affinità tra terzo e proprietario, nella eventuale
presenza di quest'ultimo "in loco", nello svolgimento di
attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, nella
richiesta di
provvedimenti abilitativi in sanatoria, nel regime
patrimoniale
dei coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e
comportamenti
positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi
integrativi della colpa (Cass. pen., Sez. III, 12.04.2005,
n. 26121, in CED Cass., n. 231954);
b) accertamento che il
proprietario non committente abiti nello stesso territorio
comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia
stato individuato sul luogo, che sia il destinatario finale
dell'opera
(Cass. pen., Sez. III, 20.01.2004, n. 9536, in
CED Cass., n. 227403);
c) quando, il proprietario non
committente,
a conoscenza dell'assenza del preventivo rilascio
del permesso di costruire, abbia fornito un contributo
causale
che abbia agevolato la edificazione abusiva (Cass.
pen., Sez. III, 12.01.2007, n. 8667, che nell'occasione
ha ulteriormente precisato che il giudice deve verificare
l'esistenza
di comportamenti, che possono assumere sia forma
positiva che negativa, dai quali si possa ricavare una
compartecipazione anche solo morale nella altrui condotta
illecita);
d) disponibilità dell'immobile ed un concreto
interesse
all'esecuzione dei lavori, se il proprietario non
committente
non allega circostanze utili a dimostrare che si
tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e
senza
la sua volontà (Cass. pen., Sez. III, 21.03.2013, n. 39400,
in CED Cass., n. 257676) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2014 n. 42867 - tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
corretto affermare che dei 77 parcheggi vincolati ad uso
pubblico, 52 risultarono realizzati su suolo demaniale
concesso in diritto di superficie e 25 sulla proprietà
privata sotto il fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del
piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard
e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi
privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L.
122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente
differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli
standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L.
n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde
pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444.
La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo
del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come
dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo
ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in
aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18
L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella
L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal
citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del
1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti
delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con
vincolo di pertinenzialità.
La funzione è certamente simile (il decongestionamento della
viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione
di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei
beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia
in relazione al computo degli spazi che in merito al regime
proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si
instaura con l’unità immobiliare principale.
---------------
Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo
demaniale concesso in superficie o su suolo privato e
asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile
registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione
primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate
a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di
individuare una particolare posizione giuridica soggettiva
tale da differenziare il condominio o i suoi condomini
rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di gestione
dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di
specifici divieti, all’uso generale da parte della
generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza
alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie
della comunicazione di avviso di avvio del procedimento
relativo.
La ragione evidenziata in ricorso, ossia la presunta doppia
utilità del parcheggio in esame, altro non è che un
espediente argomentativo che conferma la posizione centrale
del primo giudice, ossia l’inesistenza di una posizione
differenziata delle parti appellanti rispetto alla comunità
dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il trattamento
peculiare richiesto.
3.1. - Le censure avverso la sentenza del TAR, in relazione
al profilo qui in esame, sono infondate e vanno respinte.
Il primo giudice ha correttamente ricostruito il regime
giuridico dei parcheggi in esame, evidenziando come, al
contrario di quanto voluto dai ricorrenti (per cui si
tratterebbe di parcheggi privati di pertinenza delle singole
unità immobiliari ai quali si applicherebbe il particolare
regime costituito dal vincolo inderogabile di accessorietà
degli stessi all’immobile principale, dato dal vincolo di
destinazione e dall’inalienabilità separata, di cui all’art.
41-sexies della legge urbanistica n. 1150 del 1942 e alla L.
n. 122/1989), deve invece ritenersi assodata la loro
destinazione pubblica.
Rinviando alla descrizione della fattispecie sopra operata,
è corretto affermare che in definitiva, dei 77 parcheggi
vincolati ad uso pubblico, 52 risultarono realizzati su
suolo demaniale concesso in diritto di superficie alla
Europa s.r.l., e 25 sulla proprietà privata sotto il
fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del
piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard
e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi
privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L.
122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente
differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli
standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L.
n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde
pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444. La loro
funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del
territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra
il modo di computo degli standard pubblico relativo ai
parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in
aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18
L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella
L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal
citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del
1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti
delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con
vincolo di pertinenzialità. La funzione è certamente simile
(il decongestionamento della viabilità pubblica tramite
l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio
degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la
disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al
computo degli spazi che in merito al regime proprietario,
stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità
immobiliare principale.
Così inquadrata la questione, appare del tutto corretta la
soluzione data dal primo giudice alle censure proposte,
anche in questa sede, dalle parti appellanti.
Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo
demaniale concesso in superficie o su suolo privato e
asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile
registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione
primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate
a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di
individuare una particolare posizione giuridica soggettiva
tale da differenziare il condominio Europa o i suoi
condomini rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di
gestione dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di
specifici divieti, all’uso generale da parte della
generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza
alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie
della comunicazione di avviso di avvio del procedimento
relativo. La ragione evidenziata in ricorso, ossia la
presunta doppia utilità del parcheggio in esame, altro non è
che un espediente argomentativo che conferma la posizione
centrale del primo giudice, ossia l’inesistenza di una
posizione differenziata delle parti appellanti rispetto alla
comunità dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il
trattamento peculiare richiesto.
Del pari, è infondata la doglianza in relazione alla ragione
della destinazione dei parcheggi in favore della particolare
destinazione data loro dalla delibera inizialmente gravata.
Nei limiti dell’interesse delle parti, che come si è visto
non è connotato da particolare rilevanza giuridica, deve
convenirsi con la valutazione operata dal primo giudice in
relazione alla natura del potere esercitato dal Comune.
Infatti, con l’ordinanza impugnata con il primo ricorso, i
posti auto in esame sono stati riservati al ricovero degli
automezzi di proprietà comunale in uso alla polizia
municipale (i cui veicoli, si noti, non godono di un regime
proprietario differenziato rispetto a quello degli altri
automezzi comunali), in ciò in aderenza a quanto previsto
dall’art. 7, lett. d), del Codice della strada, che
espressamente prevede tale facoltà e, peraltro, come anche
notato dal primo giudice, senza che tale determinazione
abbia compromesso la dotazione minima di parcheggi pubblici
stabilita per gli standard.
Conclusivamente, le censure relative ai capi di sentenza con
cui si è esaminato il ricorso n. 2394 del 1999 sono
infondati
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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