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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2013

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aggiornamento al 30.05.2013

aggiornamento al 27.05.2013

aggiornamento al 24.05.2013

aggiornamento al 20.05.2013

aggiornamento al 13.05.2013

aggiornamento al 06.05.2013

aggiornamento al 02.05.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.05.2013

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Una rondine non fa primavera!! O sì??

     Ci sembra assai interessante (e più che mai condivisibile) quanto affermato dal TAR e, tra l'altro, confermato dal Consiglio di Stato. Anche perché, per quanto ci consti, è l'unico pronunciamento noto e reso in siffatta maniera.
     La faccenda è questa: come deve operare correttamente l'U.T.C. circa la verifica degli spazi a parcheggio (minimi di legge) da reperire nell'ambito di una nuova edificazione. Ovviamente in quei comuni laddove la regione nulla dispone nello specifico rimandano alla norma nazionale ovverosia all'art. 41-sexies della l. n. 1150/1942.
     Lasciando a Voi il piacere di leggere nel dettaglio le argomentazioni esposte dal TAR, quest'ultimo, in primis, perviene ad ordinare una
verificazione tecnica onde accertare la superficie effettivamente utilizzabile a parcheggio e secondo i seguenti criteri:
detrazione degli gli spazi di accesso e di manovra;
detrazione delle porzioni non utilizzabili per forma o per ridotte dimensioni.

     Ora, pare assolutamente condivisibile -senza ombra di dubbio- il 2° criterio indicato dal TAR, mentre il 1° sarebbe anch'esso condivisibile se non esistesse la circolare esplicativa dell’allora Ministero dei Lavori Pubblici 28.10.1967 n. 3210 la quale all'art. 9 così recita:
"9. Norme relative all'attività costruttiva, stabilite per le esigenze del traffico e della circolazione (articoli 18 e 19).
L'art. 18 stabilisce che ogni edificio deve essere provvisto di spazi per il parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 20 metri cubi di costruzione, mentre l'art. 19 dispone che, a protezione delle strade al di fuori del perimetro dei centri urbani, l'edificazione non può avvenire a distanza inferiore a quella stabilita con decreto del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con quelli dei trasporti e dell'interno.
La disposizione dell'art. 18 trova immediata applicazione e pertanto dal momento dell'entrata in vigore della legge non possono essere rilasciate nuove licenze edilizie per edifici sprovvisti di spazi per parcheggio nella misura stabilita da detto articolo.
In merito a tale disposizione sembrano necessarie le seguenti precisazioni, anche in relazione a specifici quesiti formulati dalle amministrazioni comunali:
- la norma ha portata generale e si applica a tutti gli edifici, in presenza od in assenza di qualsiasi momento urbanistico, e perciò anche nell'ambito dei piani di zona;
- la norma stessa non si applica, ovviamente, alle licenze concesse prima dell'entrata in vigore della legge 765, come pure alle volture, alle proroghe ed alle varianti riguardanti dette licenze;
- nella dizione "nuove costruzioni" sono comprese le ricostruzioni, ma non gli ampliamenti, le sopraelevazioni e le modifiche: ciò in riferimento anche alla espressione usata nel primo comma dell'articolo 18, ai fini del rilascio della licenza edilizia;
- "spazi per parcheggi" debbono intendersi gli spazi necessari tanto alla sosta quanto alla manovra ed all'accesso dei veicoli;
- i parcheggi possono essere ricavati nella stessa costruzione ovvero in aree esterne oppure promiscuamente; ed anche in aree che non formino parte del lotto, purché siano asservite all'edificio con vincolo permanente di destinazione a parcheggio, a mezzo di atto da trascriversi a cura del proprietario;
- la cubatura, in rapporto alla quale va determinata la superficie da destina re a parcheggi, è costituita dalla sola cubatura destinata ad abitazione, uffici o negozi, con esclusione perciò delle altre parti dell'edificio: scantinati, servizi e cosiddetti "volumi tecnici".
Alle disposizioni suddette (art. 18 e 19) non è possibile, ovviamente, derogare neanche in sede di formazione degli strumenti urbanistici, nel senso che tali strumenti possono stabilire misure maggiori, ma non inferiori a quelle definite con il suddetto decreto interministeriale.
"
     Dunque, la circolare de qua spiega la ratio della legge n. 765/1967 che ha introdotto nell'ordinamento l'obbligo di reperimento degli spazi di sosta nella quantità minima di 1 mq/20 mc (ora 1 mq/10 mc), laddove chiarisce che per
"spazi per parcheggi" debbono intendersi gli spazi necessari tanto alla sosta quanto alla manovra ed all'accesso dei veicoli". Ma è pur vero che stiamo parlando di norma di ben 46 anni fa dove, nella migliore delle ipotesi, in quei tempi c'era una sola autovettura per famiglia mentre oggi se ne contano mediamente 2 o 3. Quindi, il fresco fresco ragionamento cui perviene il Consiglio di Stato, confermando il pensiero del TAR, non ci sembra poi tanto fuori posto, anche se -come già detto in premessa- ci consta essere l'unico in tal senso.
     Comunque, siccome già richiesto in altri aggiornamenti del Portale,
se qualche nostro lettore è a conoscenza di altre sentenze che confermino ovvero sconfessino la tesi sostenuta dal TAR e confermata dal Consiglio di Stato (qui si seguito riportate) è pregato, gentilmente, di darcene notizia inviandoci una mail cliccando esclusivamente qui: info.ptpl@tiscali.it ... e lo ringraziamo già sin d'ora.
     Se avremo riscontri positivi ne daremo prontamente notizia "su questi schermi" a vantaggio di tutti e potremo così dire, maggiormente convinti, che
"una forse no ... ma due, tre, quattro rondini fanno primavera!!"
30.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: In merito alla corretta quantificazione dei parcheggi minimi di legge ex art. 41-sexies l. 1150/1942. Il Consiglio di Stato conferma l'operato del TAR Umbria.
L’unico elemento di valore normativo è quello contenuto nella legge urbanistica, che tuttavia al citato art. 41-sexies prevede unicamente il quantum e la finalità di tali spazi, senza precisare il modus del calcolo delle aree.
Si legge, infatti, nel citato articolo, come aggiunto dall’articolo 18 della legge 06.08.1967, n. 765 e successivamente sostituito dall’articolo 2 della legge 24.03.1989, n. 122: “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”.
Se quindi non si rinviene nell’ordinamento un elemento cogente che possa permettere la scelta in favore di un’interpretazione piuttosto che di un'altra, esistono invero più decisioni di questo Consiglio che hanno sottolineato l’esistenza di uno stretto collegamento tra, da un lato, gli obblighi normativi che impongono la predisposizione di aree a servizio dei manufatti realizzati e, dall’altro, la concreta possibilità di fruizione di tali spazi. Si è così delineata una lettura orientata in senso teleologico delle disposizioni di tutela, specialmente in materia di standard urbanistici.
È pertanto sulla scorta di questa interpretazione della disciplina vigente che deve ritenersi fondata la decisione del giudice di prime cure, giusta la stretta connessione della sentenza con la ratio della legge, ratio che risulterebbe invece violata qualora la norma fosse intesa in senso meramente quantitativo, come voluto dalle parti appellanti.
Infatti, qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito, atteso che essa impone dapprima la riserva di “appositi spazi per parcheggi”, provvedendo poi a quantificarla “in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”.

L’unico elemento di valore normativo è quindi quello contenuto nella legge urbanistica, che tuttavia al citato art. 41-sexies prevede unicamente il quantum e la finalità di tali spazi, senza precisare il modus del calcolo delle aree. Si legge, infatti, nel citato articolo, come aggiunto dall’articolo 18 della legge 06.08.1967, n. 765 e successivamente sostituito dall’articolo 2 della legge 24.03.1989, n. 122: “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”.
Se quindi non si rinviene nell’ordinamento un elemento cogente che possa permettere la scelta in favore di un’interpretazione piuttosto che di un'altra, esistono invero più decisioni di questo Consiglio che hanno sottolineato l’esistenza di uno stretto collegamento tra, da un lato, gli obblighi normativi che impongono la predisposizione di aree a servizio dei manufatti realizzati e, dall’altro, la concreta possibilità di fruizione di tali spazi. Si è così delineata una lettura orientata in senso teleologico delle disposizioni di tutela, specialmente in materia di standard urbanistici.
In tale ratio, si collocano decisioni che hanno negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile (e dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi”, Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard (evidenziando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area”, Consiglio di Stato, sez. IV, 04.02.2013 n. 644).
È pertanto sulla scorta di questa interpretazione della disciplina vigente che deve ritenersi fondata la decisione del giudice di prime cure, e quindi non per un’improbabile compatibilità con la circolare dell’allora Ministero dei Lavori Pubblici 28.10.1967, n. 3210, come evidenziato dal TAR, quanto per la stretta connessione della sentenza con la ratio della legge, ratio che risulterebbe invece violata qualora la norma fosse intesa in senso meramente quantitativo, come voluto dalle parti appellanti.
Infatti, qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito, atteso che essa impone dapprima la riserva di “appositi spazi per parcheggi”, provvedendo poi a quantificarla “in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”.
Il motivo di appello deve quindi essere respinto, stante la correttezza dell’iter motivazionale seguito dal giudice di prime cure
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2013 n. 2916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego di un permesso di costruire (per la costruzione di un fabbricato plurifamigliare) laddove gli spazi di parcheggio -ex art. 41-sexies della l. 1150/1942- sono reperiti in quantità inferiore al minimo di legge e, comunque, reperiti in maniera inadeguata circa la forma e l'effettiva usufruibilità.
E questo Tribunale conferma la bontà delle argomentazioni svolte dal Comune a supporto dell'impugnato diniego avendo disposto una verificazione tecnica onde accertare la superficie effettivamente utilizzabile a parcheggio e secondo i seguenti criteri:
► detrazione degli gli spazi di accesso e di manovra;
► detrazione delle porzioni non utilizzabili per forma o per ridotte dimensioni.

Essenziale ai fini di valutare l’”ineluttabilità” del diniego è dunque lo scrutinio del secondo motivo, con cui si censurano i tre motivi che sorreggono il provvedimento impugnato.
Con riferimento al primo e più significativo motivo di diniego, concernente l’inadeguatezza dei posti auto progettati rispetto al carico urbanistico, a fronte della divergenza di posizioni tra le parti (secondo la prospettazione dei ricorrenti, lo spazio destinato a posti auto ammonterebbe a mq. 807,00, di cui mq. 522,00 all’interno del fabbricato, e mq. 285,00 all’esterno dello stesso, mentre, secondo la prospettazione dell’Amministrazione resistente, lo spazio pertinenziale a ciò effettivamente destinato sarebbe di mq. 263,64, prendendo a parametro un fabbisogno minimo, rispetto al complessivo sviluppo volumetrico del fabbricato, di mq. 563,45), il Tribunale ha disposto una verificazione tecnica onde accertare la superficie effettivamente utilizzabile a parcheggio.
Facendo applicazione dei criteri indicati nell’ordinanza per determinare le dimensioni standard di un posto-macchina, la relazione tecnica ha concluso affermando che il totale dei posti macchina ammonta a mq. 237,50, inferiore ai mq. 563,45 occorrenti in aderenza alla normativa di cui all’art. 41-sexies della legge urbanistica fondamentale, nel testo novellato dalla legge 24.03.1989, n. 122, trovando dunque conferma l’assunto motivazionale del diniego, riposante sull’inadeguatezza degli standard minimi di parcheggio.
Parte ricorrente contesta l’elaborato tecnico, ed, ancor prima, i criteri fissati nell’ordinanza del Tribunale. Quest’ultimo, al fine di determinare la superficie effettivamente utilizzabile a parcheggio, ha stabilito che dovessero essere detratti gli spazi di accesso e di manovra, nonché le porzioni non utilizzabili per forma o per ridotte dimensioni. La ricorrente invece assume, nella propria memoria difensiva del 14.01.2010, che, ai fini del rilascio del permesso di costruire, rileva unicamente la destinazione d’uso, e non anche le modalità d’accesso al (e dunque anche la comodità o meno del) singolo posto auto.
Osserva, al riguardo, il Collegio come, a bene considerare, non sia ravvisabile il dedotto contrasto con la circolare dell’allora Ministero dei Lavori Pubblici 28.10.1967, n. 3210 (recante “Istruzioni per l’applicazione della legge 06.08.1967, n. 765”), la quale, a prescindere da ogni considerazione in ordine al suo valore normativo ed alla sua attuale vigenza, indica, all’art. 9, che per «”spazi per parcheggi” debbono intendersi gli spazi necessari tanto alla sosta quanto alla manovra ed all’accesso dei veicoli», in quanto l’ordinanza ha disposto comunque che la verifica dei posti macchina standard realizzabili nell’intera superficie disponibile sia effettuata tenendo conto delle dimensioni e dell’accessibilità.
Né si può obiettare che la relazione tecnica non abbia valutato, in astratto, il numero dei posti auto realizzabili sull’intera superficie disponibile, atteso che la verificazione riguardava lo specifico progetto presentato unitamente all’istanza di titolo edilizio respinta, e non poteva tradursi dunque in un differente elaborato progettuale; ne consegue che va anche disattesa l’istanza di rinnovazione dell’accertamento istruttorio.
Ovviamente, non è precluso ai ricorrenti proporre un nuovo progetto all’Amministrazione connotato da un diverso utilizzo delle zone destinate a parcheggio, e che soddisfi il rapporto pubblicistico di pertinenzialità stabilito fra immobile e posti auto.
La condivisibilità dell’esaminato motivo di diniego del permesso di costruire è sufficiente di per sé a sorreggere il provvedimento, il quale è fondato su di una pluralità di cause giustificatrici, ciascuna delle quali autonoma dalle altre; e ciò esime il Collegio dalla disamina delle ulteriori sub-censure relative agli altri due (secondari) motivi del provvedimento impugnato.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere respinto, in quanto infondato
(TAR Umbria, sentenza 08.04.2010 n. 236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stante la divergenza di posizioni in ordine ad un elemento fattuale, quale è quello della dimensione della effettiva superficie destinata a parcheggio (ex art. 41-sexies legge 17.08.1942, n. 1150 e s.m.i.), occorre, ai fini del decidere, integrare l’istruttoria, disponendo una verificazione in contraddittorio tra le parti, al fine di accertare quale sia la superficie effettivamente utilizzabile come parcheggio, detratti gli spazi di accesso e manovra e detratte le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso.
A tali fini si dovrà procedere nel seguente modo:
- si dovranno innanzi tutto stabilire le dimensioni convenzionali standard di un posto-macchina;
- si dovrà quindi verificare quanti posti macchina standard possano essere realizzati nell’intera superficie disponibile, tenuto conto delle dimensioni e dell’accessibilità;
- la superficie complessiva dei posti macchina standard così individuati costituirà la superficie destinata a parcheggio, ai fini di cui si discute.

- CONSIDERATO che oggetto del presente ricorso è il diniego del permesso di costruire (per la realizzazione, previa demolizione del preesistente fabbricato, di un edificio residenziale) di cui al provvedimento prot. n. 0028102 in data 20.10.2008 adottato dal Comune di Magione sull’istanza presentata dai ricorrenti, in qualità di comproprietari di un fabbricato ubicato in via del Pozzino, e catastalmente identificato al foglio 28, mapp. 514;
- Considerato che il primo motivo di diniego consiste nell’affermata inadeguatezza dei «posti auto rispetto al carico urbanistico (16 appartamenti) dell’edificio in progetto, in quanto risultano disponibili n. 5 posti auto interni e n. 11 posti auto esterni»;
- Considerato, a questo riguardo, che, ad avviso dei ricorrenti, è pienamente rispettata dal progetto la prescrizione dell’art. 41-sexies della legge urbanistica fondamentale (legge 17.08.1942, n. 1150 e s.m.i.), a mente della quale «nelle nuove costruzioni … debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione», in quanto il fabbisogno di aree a standard, in relazione al complessivo sviluppo volumetrico del fabbricato, sarebbe pari a mq. 563,45 (mc. 5643,50 diviso 10), mentre nel caso di specie ammonta a mq. 807,00, localizzati per mq. 522,00 all’interno del fabbricato, e per mq. 285,00 all’esterno dello stesso;
- Considerato che, al contrario, secondo la prospettazione dell’Amministrazione resistente, lo spazio effettivamente destinato a posti auto sarebbe di mq. 263,64 (5 posti auto interni ed 11 esterni), a fronte del fabbisogno minimo di mq. 563,45, risultato cui si perviene scomputando le porzioni di superficie, pur nominalmente destinate a parcheggio, non fruibili a causa delle scelte progettuali, ed, in definitiva, a causa della struttura del fabbricato;
- Ritenuto dunque che oggetto del contendere è la contestazione di uno spazio auto inadeguato per mq. 299,81, rispetto alle esigenze edilizie ed urbanistiche dell’insediamento, con conseguente asserita non soddisfazione del rapporto (pubblicistico) di pertinenzialità stabilito dalla legge fra immobili e posti auto;
- Ritenuto che, stante tale divergenza di posizioni in ordine ad un elemento fattuale, quale è quello della dimensione della effettiva superficie destinata a parcheggio, occorre, ai fini del decidere, integrare l’istruttoria, disponendo una verificazione in contraddittorio tra le parti, al fine di accertare quale sia la superficie effettivamente utilizzabile come parcheggio, detratti gli spazi di accesso e manovra e detratte le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso;
- Ritenuto che a tali fini si dovrà procedere nel seguente modo: si dovranno innanzi tutto stabilire le dimensioni convenzionali standard di un posto-macchina; si dovrà quindi verificare quanti posti macchina standard possano essere realizzati nell’intera superficie disponibile, tenuto conto delle dimensioni e dell’accessibilità; la superficie complessiva dei posti macchina standard così individuati costituirà la superficie destinata a parcheggio, ai fini di cui si discute (TAR Umbria, ordinanza 20.08.2009 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

ENTI LOCALI: On-line la piattaforma Anci per assistenza alle gestioni associate.
Gli strumenti di supporto alle Gestioni associate sono completati da una raccolta di FAQ e dalla possibilità di richiedere un parere da parte dei Comuni interessati.

Per sostenere i Piccoli Comuni nel complesso percorso di realizzazione delle gestioni associate obbligatorie delle 9 funzioni fondamentali, come sancito dall'art. 19 della legge n. 135/2012, Anci mette a disposizione una rinnovata e più completa piattaforma tecnica informativa.
Un quadro generale sulle gestioni associate, uno scadenzario con la tempistica degli adempimenti previsti, la principale normativa di riferimento, i pareri della Corte dei conti, uno specifico approfondimento sulle convenzioni, sulla normativa per i Comuni con popolazione fino a 1000 abitanti, sulle centrali uniche di committenza e sulla normativa regionale di settore, costituiscono le voci consultabili nel banner dedicato ai Piccoli Comuni ed alle Gestioni Associate.
Gli strumenti di supporto alle Gestioni associate sono completati, infine, da una raccolta di FAQ e dalla possibilità di richiedere un parere da parte dei Comuni interessati, specificando l'Ente e la qualifica del richiedente (link a www.anci.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il complicato scioglimento del consorzio di Polizia Locale dell'Isola (CGIL-FP di Bergamo, nota 29.05.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 29.05.2013, suppl. ord. n. 42/L, "Regolamento recante la disciplina dell’autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, a norma dell’articolo 23 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, della legge 04.04.2012, n. 35" (D.P.R. 13.03.2013 n. 59).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: I. Meo e A. Pesce, Fine della “selva” di antenne (Consulente Immobiliare n. 930/2013).

SICUREZZA LAVORO: A. Proietti Semproni, Infortunio: la responsabilità del delegato alla sicurezza - (commento a Cassazione penale, Sez. III, 11.03.2013 n. 11442) (Pratica Lavoro n. 17/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: G. D'Angelo, La documentazione antimafia nel D.Lgs. 06.09.2011 n. 159: profili critici (Urbanistica e appalti n. 3/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PATRIMONIO - VARI: OGGETTO: La tassazione degli atti notarili - Guida operativa - Testo unico dell’imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26.04.1986, n. 131 (Agenzia delle Entrate, circolare 29.05.2013 n. 18/E).
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In una circolare–vademecum, l’imposta di registro a tuttotondo.
Una vera e propria guida pratica, che sarà periodicamente aggiornata, per offrire a operatori del settore e contribuenti uno strumento di lavoro utile e di facile consultazione.

La tassazione degli atti notarili ha creato, nel corso degli anni, diverse difficoltà interpretative. Spesso, infatti, non soltanto i contribuenti, ma anche gli operatori del settore, si trovano ad affrontare questioni controverse nell’applicazione dell’imposta di registro, il tributo -disciplinato dal Dpr 131/1986- che entra in gioco con la registrazione di determinati documenti giuridici, indici della capacità contributiva dei soggetti coinvolti.
A far chiarezza e ordine in una materia, che comprende anche altri tipi di tassazione indiretta connessa agli atti firmati davanti al notaio e non solo, arriva la circolare n. 18/E del 29.05.2013.
Con questo documento, l’Agenzia delle Entrate dà risposte concrete sull’argomento, affrontando le diverse tematiche in modo esauriente e sintetico al tempo stesso, lasciando largo spazio a esempi pratici e a utili tabelle esplicative. Si tratta, insomma, di una vera e propria guida operativa, di facile consultazione, in grado di fornire soluzioni univoche a problemi di carattere interpretativo.
E’ suddivisa in sei parti, le prime affrontano i principi generali e di interesse più diffuso, come il trasferimento di fabbricati e terreni, e le donazioni a titolo gratuito; a seguire, l’attenzione si sposta sul regime impositivo degli atti societari.
Lo scopo, in ogni caso, è uniformare l’applicazione delle imposte trattate su tutto il territorio nazionale ed eliminare ogni possibile margine di incertezza, in modo da rendere più “fluido” sia il lavoro dell’Amministrazione finanziaria sia quello degli operatori, e facilitare i cittadini che si trovano di fronte allo “sportello” del Registro.
Di riflesso, quindi, la circolare rappresenta uno strumento che, se ben utilizzato, può far diminuire le “incomprensioni” tra i notai e i contribuenti, da una parte, e il Fisco, dall’altra, continuando ad accrescere l’efficienza, l’efficacia e la trasparenza dell’attività degli uffici finanziari.
La circolare-guida è aggiornata al 31.12.2012. Verrà rivista e implementata periodicamente per tener conto delle novità normative che interverranno in materia e delle soluzioni interpretative adottate dall’Agenzia delle Entrate in risposta, ad esempio, a istanze di interpello e consulenze giuridiche (commento tratto da www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, proroga PGT: 31.12.2013 per l'adozione e 30.06.2014 per l'approvazione definitiva.
Termine ultimo fissato al 31.12.2013 per l'adozione e al 30.06.2014 per l'approvazione definitiva dei Piani di Governo del Territorio (PGT) nei Comuni che sono in ritardo sul varo del provvedimento urbanistico. E’ quanto ha deciso oggi il Consiglio regionale con 62 voti a favore e 9 contrari, approvando la legge che introduce anche sanzioni e penalizzazioni per quei Comuni che alle scadenze indicate dovessero risultare ancora inadempienti: a favore si sono espressi i gruppi PdL, Lega Nord, Maroni Presidente, Fratelli d’Italia, Pensionati, PD e Patto Civico Ambrosoli, contrari i soli rappresentanti del Movimento 5 Stelle.
La tempestività dimostrata in Commissione -ha commentato il relatore del provvedimento e presidente della Commissione Alessandro Sala (Maroni Presidente)- ci ha consentito oggi di licenziare un provvedimento importante e necessario, senza il quale i Comuni ancora inadempienti si troverebbero in una situazione di blocco totale legata a qualsiasi attività edilizia, con grave danno per i cittadini, per le imprese, per tutto il settore edilizio e per il relativo indotto, peraltro in un periodo di gravissima crisi economica e occupazionale. La nostra gente –ha concluso Alessandro Sala– vuole dalla politica tempi sempre più stretti per risolvere i problemi. Possiamo ben dire che la Commissione e questo Consiglio sono stati e sono oggi dalla parte del cittadino, e hanno messo al bando le lungaggini”.
Nello specifico, in caso di mancata adozione del PGT entro il 31.12.2013, i Comuni inadempienti saranno esclusi dall’accesso al patto di stabilità territoriale per l’anno 2014 e il mancato rispetto di tale scadenza costituirà un indicatore negativo nell’indice di virtuosità. In caso di mancata approvazione del PGT entro il termine del 30.06.2014, la Giunta regionale, previa diffida ad adempiere entro 60 giorni, nominerà un commissario ad acta il quale disporrà degli uffici tecnici comunali e regionali di supporto nonché dei poteri idonei a completare la procedura di approvazione del piano.
Nei Comuni che entro il 30.06.2014 non avranno approvato il PGT, dal 01.07.2014 e fino all’approvazione del PGT, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee A, B, C e D individuate dal previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) c)
b) nelle zone omogenee E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento urbanistico;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e convenzionati entro il 30.06.2014, con convenzione non scaduta.
Via libera a due emendamenti similari presentati rispettivamente dal capogruppo del PdL Mauro Parolini e dal capogruppo della Lega Nord Massimiliano Romeo che consentono, ai soli Comuni che avevano già approvato il documento di piano entro il 2009, di poter apportare modifiche allo stesso documento di piano fino al 31.12.2014.
Un emendamento dell’assessore Viviana Beccalossi, approvato all’unanimità, prevede speciali deroghe per i Comuni terremotati. Pur preservando il regime di controlli e tutele alle varianti urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per l’autorizzazione delle opere, al fine di garantire la partenza degli interventi di ricostruzione in modo più rapido e snello.
I Comuni che alla data di entrata in vigore della legge non hanno approvato il PGT non possono in ogni caso dar corso o seguito a procedure di variante al vigente PRG. È sempre ammessa l’approvazione di accordi di programma e dei programmi integrati di intervento nonché dei progetti di variante di cui allo sportello unico per le attività produttive.
Via libera infine anche a un ordine del giorno presentato dal capogruppo del Patto Civico Ambrosoli Lucia Castellano e dal Consigliere del PD Jacopo Scandella che chiede alla Giunta regionale di introdurre nuovi strumenti per incentivare la pianificazione d’area vasta che interessi in particolar modo i piccoli Comuni.
Apprezzamento e soddisfazione per l’approvazione del provvedimento è stata espressa dai Consiglieri Mauro Parolini del PdL, Roberto Anelli della Lega Nord, Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia, Alessandro Alfieri del PD e Paolo Micheli del Patto Civico Ambrosoli, mentre il voto contrario del Movimento 5 Stelle è stato annunciato da Gianmarco Corbetta.
In Lombardia su 1544 Comuni sono 1007 quelli che hanno approvato definitivamente il PGT: 213 hanno solo avviato il piano e 324 lo hanno adottato. Mancano all'appello anche città capoluogo di provincia come Lecco e Varese, dove il PGT è stato solo avviato, e Como e Pavia, dove manca ancora l'approvazione definitiva (28.05.2013 - link a www.lombardiaquotidiano.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Pgt, sblocco 3000 cantieri, investimenti per 500 milioni.
"Con il Progetto di legge approvato oggi Regione Lombardia dispone di uno strumento di pianificazione con molti pregi: diamo tempo a tutti i Comuni di dotarsi entro giugno 2014 del loro Piano di governo del territorio e, fatto non irrilevante nel momento di crisi che stiamo vivendo, facciamo ripartire un settore fondamentale come quello edilizio, avviando 3.000 cantieri".
Questo il commento dell'assessore regionale al Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo dopo il via libera da parte del Consiglio regionale al Progetto di legge 28, che contiene le modifiche alla Legge 12 (Legge per il Governo del Territorio), con lo scopo di regolare la situazione dei circa 500 Comuni lombardi che ancora non hanno concluso l'iter del proprio Pgt. Con le nuove norme, i Comuni interessati dovranno approvarlo definitivamente entro il 30.06.2014.
GESTIONE EQUILIBRATA E SOSTENIBILE - "Le nuove regole -ha continuato l'assessore- garantiscono al territorio lombardo una gestione equilibrata e sostenibile. Allo stesso tempo, si torna a permettere di investire a chi vuole farlo, dagli imprenditori edili ai cittadini, che vogliono ristrutturare casa. Le stime parlano di un valore di 500 milioni di euro pronti ad essere spesi facendo ripartire i lavori".
ATTENZIONE A PICCOLI COMUNI - Tra i provvedimenti previsti ha particolare rilevanza quello pensato soprattutto per i Comuni più piccoli, in difficoltà con la predisposizione del proprio Pgt per carenza di strutture e competenze. A richiesta del sindaco, infatti, Regione Lombardia metterà a disposizione i propri tecnici, per supportare il Comune a chiudere la pratica.
EMENDAMENTO PER MANTOVA - Un emendamento molto atteso in provincia di Mantova, invece, prevede speciali deroghe ai Comuni terremotati. Pur preservando il regime di controlli e tutele alle varianti urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per l'autorizzazione delle opere, al fine di garantire la partenza degli interventi di ricostruzione in modo più rapido e snello.
I DATI PER PROVINCIA - Di seguito la suddivisione per provincia dei Comuni sprovvisti di Pgt, i cantieri bloccati e il relativo valore economico (dati Ance - Associazione nazionale costruttori edili aggiornati al 01.03.2013):
Milano: 38 - 278 - 50.726.410 euro
Bergamo: 82 - 351 - 51.597.930 euro
Brescia: 45 - 313 - 42.586.606 euro
Como: 77 - 497 - 72.541.488 euro
Cremona: 13 - 34 - 3.490.894 euro
Lecco: 35 - 240 - 33.235.379 euro
Lodi: 21 - 56 - 6.573.495 euro
Mantova:17 - 92 - 8.929.792 euro
Monza: 14 - 171 - 35.940.973 euro
Pavia: 62 - 177 - 19.738.969 euro
Sondrio:41 - 236 - 30.274.536 euro
Varese: 67 - 689 - 108.306.882 euro (28.05.2013 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

QUESITI & PARERI

TRIBUTI: Valore venale.
Domanda
Un comune del Lecchese vuole applicare l'Imu su un'area fabbricabile di recente acquisto in base al prezzo di compravendita, più alto del valore di mercato per ragioni di specifico interesse dell'acquirente e anche dei valori parametrici indicati dallo stesso comune per ridurre il rischio di contenzioso con i propri contribuenti. Vorrei sapere se la pretesa del comune è legittima.
Risposta
Per le aree fabbricabili taluni comuni hanno inserito nel proprio regolamento la regola secondo la quale se è rilevabile da un atto ufficiale un dato prezzo esso deve essere assunto come base imponibile Imu. Ciò anche nel caso in cui il comune abbia approvato i valori parametrici per le aree fabbricabili ubicate nelle varie zone del territorio comunale ed essi risultino più bassi di quelli desumibili dai predetti atti.
In realtà, tale pretesa incontra un limite nella normativa in quanto l'art. 5, c. 5, del dlgs n. 504/92), applicabile anche all'Imu, precisa che l'imponibile è dato dal valore «venale in comune commercio al 1° gennaio dell'anno di imposizione, avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità, alla destinazione d'uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche».
Inoltre, qualora il comune abbia approvato con delibera consiliare i valori minimi rispettando i quali i contribuenti non soggiacciono al rischio di accertamento, appare contraddittorio e ben poco rispettoso del dovere di imparzialità, derogare a tale regola per i soli possessori di terreni per i quali siano intervenuti trasferimenti a prezzi più elevati: lo stesso terreno, infatti, in un caso sarebbe soggetto ad accertamento, nell'altro no, senza ragione alcuna.
Peraltro, i contribuenti non hanno alcun obbligo di attenersi ai valori parametrici comunali o all'indicazione di dover dichiarare il prezzo di acquisizione dell'area fabbricabile, dal momento che l'imponibile di tale tipologia di immobile è dato dal suo valore venale. Valore venale che può risultare inferiore al prezzo per varie ragioni, tutte legittime, in quanto potrebbe essere stato pagato più del suo valore in dipendenza proprio di specifici interessi del contribuente, come segnalato nel quesito: per esempio, completare una serie di lotti già posseduti con un ulteriore appezzamento, evitare il rischio che l'appezzamento finisca in mani altrui e possa essere edificato pregiudicando il proprio interesse, per ragioni affettive; oppure perché si può avere fatto un cattivo affare e si è pagato un'area più del suo valore commerciale.
Il comune non dovrebbe quindi mai procedere meccanicamente all'accertamento, ma esaminare con la dovuta attenzione quale sia il reale valore venale in comune commercio del bene, a prescindere dal prezzo a cui è avvenuta la transazione, se del caso avviando anche un confronto con il contribuente (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2013).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALICorte dei conti. Per la sezione Autonomie il patrimonio può finanziare la spesa corrente. Nei Comuni in pre-dissesto alienazioni a utilizzo «libero»
L'ALTRO CHIARIMENTO/ Gli enti che ottengono l'anticipazione dalla Cdp devono iscrivere nei fondi vincolati una somma pari a quella ricevuta.
Gli enti che ricorrono alla procedura anti-dissesto prevista dal decreto legge 174/2012 possono destinare le entrate da alienazioni al finanziamento dello squilibrio corrente, derogando così al rigido principio secondo cui i proventi da alienazione dei beni patrimoniali disponibili possono essere utilizzati solo per finanziare gli squilibri di parte capitale, imposto dalla legge di stabilità 2013 (articolo 1, comma 443, della legge 228/2012 e articolo 193, comma 3, del Dlgs 267/2000).
L'accesso al fondo di rotazione per il finanziamento del piano di riequilibrio pluriennale (articolo 243-ter del Tuel), insieme alla situazione degli enti in condizioni di dissesto (articolo 255, comma 9 del Tuel), sono di conseguenza le uniche due deroghe ammesse: solo in questi casi i proventi da vendita del patrimonio concorrono a finanziare l'intera massa passiva.

L'interpretazione, rilevante ai fini del coordinamento di finanza pubblica, arriva dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti (delibera 20.05.2013 n. 14/2013) in risposta alle questioni sollevate dalla Corte dei conti Lazio in relazione al caso di un Comune in procedura anti-default.
L'apertura, per niente scontata, suonerà particolarmente gradita agli enti costretti a entrare nelle maglie della procedura a causa di pesanti sentenze di condanna al pagamento di spese correnti, i quali ora potranno sfruttare il patrimonio disponibile.
Non solo. La delibera interviene anche sulla controversa questione della contabilizzazione in bilancio dell'anticipazione ottenuta sul fondo di rotazione, sospesa a metà fra punti chiari e dubbi. Partendo dalla circostanza che l'entrata è iscritta fra le accensioni di prestiti (codice Siope 5311) e la restituzione tra i rimborsi dei prestiti (codice Siope 3311), i giudici contabili rispondono alla questione dubbia se debba essere impegnata in uscita per l'intero importo.
La soluzione trovata dai magistrati contabili chiede agli enti di iscrivere, nei fondi vincolati dell'esercizio in cui è accertata e riscossa l'anticipazione, una somma pari al totale assegnato, come «Fondo destinato alla restituzione dell'anticipazione ottenuta dal fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria dell'ente» (immaginiamo come il fondo svalutazione crediti).
Dall'anno successivo, con l'inizio del rimborso,il fondo sarà progressivamente ridotto dell'importo pari alle somme restituite saranno impegnate di anno in anno nel bilancio in cui vanno in scadenza. Il ricorso al fondo vincolato –si legge nella delibera– è autorizzato/necessitato per evitare distorsioni sul risultato di amministrazione effettivo e il rischio di autorizzazioni di nuove e maggiori spese. Esso risponde anche al nuovo principio della competenza finanziaria potenziata (Dlgs 118/2011 sull'armonizzazione), secondo cui le obbligazioni attive e passive perfezionate sono imputate all'esercizio nel quale vengono a scadenza.
Resta da confermare, infine, se questa impostazione dovrà essere seguita anche per le anticipazioni concesse dalla Cassa depositi e prestiti secondo il Dl 35/2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStipendi. Corte dei conti Toscana. Nelle partecipate stop agli aumenti dati dal contratto.
IL PRINCIPIO/ Il congelamento del trattamento economico previsto per gli enti «supera» le indicazioni delle intese nazionali.
Il blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici travolge anche i lavoratori delle società partecipate e vieta il riconoscimento degli aumenti stabiliti in sede di contrattazione collettiva nazionale.

A questa conclusione è giunta la Corte dei Conti Toscana, con il parere 14.05.2013 n. 140.
Il dubbio è sorto al Comune di Montecatini Terme (in provincia di Pistoia), il quale ha chiesto ai magistrati contabili se, in sede di determinazione del trattamento economico dei dipendenti delle società partecipate, prevalesse il contratto nazionale di lavoro oppure la disposizione contenuta nell'articolo 4, comma 11, del Dl 95/2012. In particolare, l'amministrazione comunale ha interrogato la Corte dei Conti, evidenziando che il contratto nazionale applicabile ai lavoratori della società partecipata e vigente per il triennio 2011-2013, prevedeva aumenti stipendiali nel corso di quest'anno.
La società è tipo strumentale e, pertanto, alla stessa si applica l'articolo 4, comma 11, del Dl 95/2012, il quale impone, per il biennio 2013-2014, il tetto alle retribuzioni dei singoli dipendenti, che non può superare quello ordinariamente spettante nel 2011. Destinatari di questa norma sono le società controllate direttamente o indirettamente dalle Pubbliche amministrazioni indicate dal l'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001 e che, nel 2011, abbiamo realizzato più del 90% del loro fatturato per prestazioni di servizi nei confronti di Pubbliche amministrazioni.
Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla portata della disposizione, in quanto i dubbi applicativi sono molteplici. Ma rispetto al quesito specifico posto dal Comune di Montecatini, i magistrati contabili non hanno perplessità: la norma si pone nel solco tracciato, per i dipendenti pubblici, dall'articolo 9, comma 1, del Dl 78/2010. Per questo motivo, le indicazioni fornite dalla stessa Corte in ordine a quest'ultima disposizione possono essere estese anche al comma 11 del l'articolo 4 del Dl 95/2012. La logica alla base del quadro normativo in questione è rappresentata dalla volontà di «cristallizzare la spesa di personale» attraverso il blocco del trattamento economico ordinariamente spettante al personale.
E non vi sono dubbi che gli aumenti previsti in un contratto collettivo nazionale di lavoro rientrino in quella nozione di retribuzione prima accennata e che il legislatore ha voluto bloccare in quanto vanno a incidere sul trattamento fondamentale. La conseguenza è inevitabile: nel corso del 2013 non possono essere incrementati gli stipendi, anche se questi aumenti sono stati definiti in un contratto nazionale sottoscritto prima del l'entrata in vigore della norma che ha imposto il tetto delle retribuzioni al 2011.
Come detto, la disposizione travolge le società strumentali controllate dalla pubblica amministrazione. Ma questo non significa che le altre tipologie di società e organismi partecipati possano incrementare i trattamenti economici dei dipendenti ad libitum. Non si può non ricordare la norma che impone il consolidamento della spesa di personale di questi soggetti con l'ente pubblico controllante (articolo Il Sole 24 Ore del 27.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’incentivo del 2% previsto in favore dei dipendenti dell’Amministrazione per prestazioni professionali di progettazione presuppone necessariamente la presenza di lavori ed opere di manutenzione straordinaria e non di semplice manutenzione ordinaria, né di lavori in economia.
In presenza di lavori di manutenzione straordinaria spetta al singolo regolamento comunale indicare se la corresponsione dell’incentivo del 2% debba essere –o meno- necessariamente condizionata alla sussistenza delle tre diverse fasi di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva.

... il Sindaco del Comune di Rapallo ha inviato una richiesta di parere inerente alla condivisibilità, da parte di questa Sezione, delle argomentazioni con cui la Sezione Regionale di Controllo della Toscana, con le deliberazioni 13.11.2012 n. 293 e 19.03.2013 n. 15, ha ritenuto di interpretare restrittivamente l’art. 925 D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, giudicandolo applicabile al solo ambito della <<attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata>>.
In particolare il Comune chiede di sapere se l’incentivo previsto dalla disposizione richiamata sia applicabile anche in presenza di lavori di manutenzione ordinaria o di lavori in economia e se, comunque, sia necessaria la compresenza delle tre fasi di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva dei lavori pubblici.
...

2. La questione di merito. La giurisprudenza di controllo
L’ art. 901,6 D.lgs. 12.04.2006 n. 163 dispone che <<1. Le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori … sono espletate: a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti; … d) da liberi professionisti singoli ed associati nelle forme di cui alla legge 23.11.1939 n. 1815 …; e) dalle società di professionisti; f) dalle società di ingegneria … 6. Le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo, nonché lo svolgimento di attività tecnico – amministrative connesse alla progettazione, ai soggetti di cui al comma 1, lettere d), e), f) … in caso di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di necessità di predisporre progetti integrali che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze, casi che debbono essere accertati e certificati dal responsabile del procedimento>>.
L’ art. 925 D.lgs. 12.04.2006 n. 163 stabilisce che <<una somma non superiore all’importo del due per cento dell’importo posto a base di un’opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione è ripartita tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori … limitatamente alle attività di progettazione, l’incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l’importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo>>.
Il Comune di Rapallo chiede di sapere se l’incentivo del 2% possa essere corrisposto anche a seguito di semplici lavori di manutenzione ordinaria o di lavori in economia.
L’interpretazione positiva era stata sostenuta dall’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici che, con la determinazione 17.02.2000 n. 7 avente ad oggetto la precedente L. 109/1994, aveva rilevato come il generico riferimento alla manutenzione di opere ed impianti fosse tale da ricomprendere anche la manutenzione ordinaria.
In senso opposto la Sezione regionale di controllo della Toscana, con le deliberazioni 13.11.2012 n. 293, 12.12.2012 n. 459 e 19.03.2013 n. 15, ha costantemente ritenuto che <<l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata. Quanto espresso pare escludere dal novero delle attività retribuibili con l’incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili>>.
3. La valutazione della Sezione sulla questione sottoposta
Il Comune di Rapallo chiede di conoscere:
a) se l’incentivo del 2% previsto in favore dei dipendenti dell’Amministrazione per prestazioni professionali di progettazione possa essere corrisposto anche in presenza di lavori di semplice manutenzione ordinaria, se non addirittura in economia;
b) se, in presenza di lavori di manutenzione straordinaria, la corresponsione del medesimo sia condizionata alla sussistenza delle tre diverse fasi di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva.
La Sezione ritiene di condividere su entrambi i punti la soluzione proposta dalla Sezione regionale di controllo della Toscana per le ragioni che ora si espongono.
L’art. 906 D.lgs. 163/2006 prevede l’affidamento dell’attività di progettazione a soggetti estranei all’Amministrazione solo in presenza di caratteristiche di speciale difficoltà oggettivamente riscontrabili ovvero in carenza di personale tecnico in organico. In altre parole, l’affidamento esterno è giustificato in quanto la prestazione non è ordinariamente richiedibile ai dipendenti dell’Ente, ravvisandosi in questo caso la necessità di una prestazione temporanea ed altamente qualificata, ovvero nella diversa ipotesi di impossibilità oggettiva di rinvenire risorse umane all’interno dell’Ente.
Sotto questo profilo la norma costituisce specifica applicazione del principio generale di contenimento della spesa enucleato nell’art. 7 D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 che consente di conferire incarichi professionali esterni solo se non si disponga quantitativamente o qualitativamente di professionalità adeguate in organico e tale carenza non sia risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Proprio l’attuazione di tale principio impone di ritenere che, in presenza di lavori di ordinaria manutenzione o di importo assai contenuto –quali quelli in economia– che assai difficilmente possono presentare problematiche di particolare complessità, i dipendenti non abbiano diritto all’incentivo del 2% trovandosi in presenza di attività appunto ordinaria il cui espletamento è ricompreso nei doveri di ufficio e che pertanto è già remunerata dalla retribuzione omnicomprensivamente erogata.
Per quanto attiene al secondo quesito, occorre rilevare come le disposizioni legislative nulla prevedono, né in senso positivo né in senso negativo, sulla necessità dell’affidamento esterno delle tre fasi di progettazione ai fini della corresponsione dell’incentivo. Esiste cioè una situazione di <<spazio vuoto primario>> che può essere riempito, come avviene attualmente, dai regolamenti dei singoli Comuni i quali possono discrezionalmente valutare i presupposti per l’attribuzione dell’incentivo medesimo.
Pertanto, in sintesi, si può affermare che:
a) nel caso di specie, l’incentivo del 2% previsto in favore dei dipendenti dell’Amministrazione per prestazioni professionali di progettazione presuppone necessariamente la presenza di lavori ed opere di manutenzione straordinaria e non di semplice manutenzione ordinaria, né di lavori in economia;
b) in presenza di lavori di manutenzione straordinaria, spetta al singolo regolamento comunale indicare se la corresponsione dell’incentivo del 2% debba essere –o meno- necessariamente condizionata alla sussistenza delle tre diverse fasi di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondi decentrati. Corte dei conti Lombardia. La Regione non può gonfiare gli incentivi.
Per la Corte dei conti (sezione regionale di controllo per la Lombardia - parere 11.04.2013 n. 137), non rientra tra le prerogative regionali l'incremento dei fondi per il trattamento accessorio del personale con risorse diverse da quelle previste da leggi e contratti collettivi nazionali.
Il Consiglio regionale lombardo ha chiesto se, nei limiti dell'articolo 9, comma 2-bis del Dl 78/2010, sia lecito integrare le risorse decentrate con i seguenti importi aggiuntivi: incremento del fondo per il trattamento accessorio con i risparmi derivanti dalla mancata copertura dei posti di dotazione organica (articolo 44 della Legge regionale 20/2008); incremento, oltre i limiti del contratto nazionale, delle risorse per lo straordinario, giustificato da esigenze degli organi istituzionali del Consiglio (articolo 45 della Legge regionale 20/2008); incrementi delle risorse per il finanziamento delle posizioni organizzative con risorse di bilancio del Consiglio (articolo 46 della Legge regionale 20/2008 e articolo 7, comma 5, della Legge regionale 13/2010); incremento del fondo per il trattamento accessorio con risorse dei bilanci di Giunta e Consiglio (articolo 83, comma 6 della Legge regionale 20/2008).
Inoltre è stato chiesto se le risorse aggiuntive debbano essere necessariamente collegate a specifici obiettivi di miglioramento in precedenza definiti, o possano semplicemente aumentare il premio per gli obiettivi finanziati con le risorse decentrate "ordinarie"; un altro quesito riguardava l'obbligo di definizione preventiva di specifici criteri di distribuzione selettiva delle risorse aggiuntive e d'individuazione del personale coinvolto, o in alternativa la possibilità di distribuire queste somme a tutto il personale con le modalità previste per il premio finanziato con gli stanziamenti "ordinari".
La Corte si è espressa in modo perentorio sul quesito principale, affermando che le risorse che finanziano la contrattazione decentrata (anche per le Regioni) sono tipiche e debbono essere previste da leggi e contratti nazionali. Facendo riferimento alla sentenza 339/2011 della Corte Costituzionale, che afferma che il trattamento economico dei dipendenti regionali rientra nella materia di esclusiva competenza statale dell'ordinamento civile. Infatti si è ritenuto che norme regionali che prevedano risorse aggiuntive per la contrattazione decentrata vadano interpretate nel senso che la loro applicabilità presuppone un esplicito rinvio alla normativa regionale da parte della legge statale.
Le Regioni, neanche con legge, possono integrare le risorse dei fondi in modo discrezionale, al di fuori dei limiti e delle regole stabiliti a livello nazionale. Questa facoltà può esercitarsi, in via mediata, solo a fronte di puntuali previsioni di legge statale che abilitino la Regione a intervenire in materia.
Sui quesiti secondari, invece, viene ricordato che non esiste una produttività «ordinaria» da erogare a tutto il personale ed una selettiva «legata a specifici progetti», ma che la parte variabile della retribuzione incentivante rappresenta un compenso che può essere riconosciuto solo se correlato al raggiungimento di specifici obiettivi connessi all'attività svolta dal dipendente, fissati in via preventiva dalla Pa (articolo Il Sole 24 Ore del 27.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it).

NEWS

TRIBUTIImu, decide il comune. Niente acconto se il bonus non è stato revocato. Spiragli per anziani e disabili ricoverati e per i residenti all'estero.
Anziani, disabili e residenti all'estero non devono pagare l'acconto Imu entro il prossimo 17 giugno se i comuni non hanno revocato per l'anno in corso il trattamento agevolato riconosciuto nel 2012 per gli immobili da loro destinati a abitazione principale.
Lo ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia, con la
circolare 23.05.2013 n. 2/DF.
Dunque chi fruisce del trattamento agevolato, anche se a seguito dell'assimilazione degli immobili all'abitazione principale operata dai comuni, non è tenuto a pagare l'acconto Imu.
Per il dipartimento, considerata la finalità del legislatore di assicurare un regime di favore per l'abitazione principale e relative pertinenze, sia nel caso che l'assimilazione venga disposta per il 2013 «sia in quello in cui la stessa è stata effettuata nel 2012 e non è stata modificata nel 2013, l'assimilazione in questione determina l'applicazione delle agevolazioni». Compresa la sospensione del pagamento della prima rata Imu. I comuni, infatti, possono estendere o ampliare i benefici per la prima casa. Non scontano l'Imu come seconda casa gli immobili posseduti da anziani o disabili e residenti all'estero se il comune li ha assimilati o li assimila all'abitazione principale.
L'articolo 13 del dl 201/2011 prevede che il trattamento agevolato possa essere concesso per le unità immobiliari possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, da anziani o disabili che spostano la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, nonché per quelle possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello stato, a condizione che non risultino locate. Peraltro, nel 2012 la scelta di concedere il beneficio fiscale era opportuna perché l'intero gettito degli immobili utilizzati come «prima casa» era riservato ai comuni. Allo stato non spettava la quota del 50%. E questa regola valeva anche per gli immobili assimilati.
L'articolo 1 del dl 54/2013 ha sospeso il pagamento dell'acconto Imu per gli immobili adibiti a abitazione principale e relative pertinenze. Sono però esclusi dal beneficio i fabbricati classificati nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. La sospensione si estende anche alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dei soci assegnatari, nonché a quelli assegnati da Iacp, Ater o da altri enti di edilizia residenziale pubblica. Sono esonerati dal pagamento dell'acconto anche i titolari di fabbricati rurali e terreni agricoli. La sospensione sembra finalizzata a un successivo riconoscimento dell'esenzione.
Per abitazione principale s'intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Sono da considerare pertinenze dell'abitazione principale esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione. Attualmente la legge prevede per questi fabbricati l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro per ogni figlio che risieda anagraficamente e dimori abitualmente nell'immobile, fino a un massimo di 400 euro, al netto della detrazione ordinaria.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni «prima casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto. I singoli fabbricati vanno assoggettati separatamente a imposizione, ciascuno per la propria rendita. È il contribuente a scegliere quale destinare a abitazione principale (circolare 3/2012) (articolo ItaliaOggi del 28.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: L'offerta senza utile è illegittima. Anche se presentata da una onlus.
In una gara di appalto l'offerta senza utile è sempre illegittima anche se formulata da una Onlus; è irrilevante l'assenza di scopo di lucro della organizzazione.
È quanto afferma la sentenza del TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 20.05.2013 n. 781, che ha preso in esame una vicenda concernente un appalto per un servizio di «assistenza domiciliare integrata» aggiudicato, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, a una onlus.
Veniva eccepito il fatto che l'offerta risultata poi vincente contemplava un margine lordo (utile) pari a zero. Nel ricorso del secondo classificato si sosteneva che tale circostanza avrebbe reso l'offerta stessa inaffidabile ed inattendibile. Viceversa l'aggiudicatario replicava che proprio in ragione della sua natura soggettiva una onlus, priva, in quanto tale, di scopo di lucro, ben poteva effettuare una offerta tale anche da non garantire alcun margine di utile.
Veniva, a margine, anche eccepito che l'aggiudicatario si sarebbe comunque discostato dalle tabelle di cui al decreto ministeriale del 02.04.2012, senza, tuttavia, addurre alcuna logica giustificazione, né specificare le ragioni che consentirebbero di operare in condizioni più favorevoli, ma si trattava comunque di una ulteriori questione di carattere accessorio rispetto alla questione principale posta dal secondo classificato. Nel merito il Tar accoglie il ricorso e annulla il provvedimento di aggiudicazione affermando che la formulazione di un offerta con un margine lordo (utile) pari a zero la rende inaffidabile ed inattendibile, anche nel caso in cui la proposta provenga da una onlus priva, in quanto tale, di scopo di lucro.
La sentenza richiama precedenti decisioni del Consiglio di stato sulle verifiche di congruità delle offerte anomale per sostenere che la stazione appaltante non avrebbe dovuto in alcun modo ritenere congrua l'offerta (anomala) presentata dalla onlus. In via generale, infatti, il Consiglio di stato aveva già avuto modo di precisare che la commissione giudicatrice deve sempre avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e che, in tale ambito risulta in sé ingiustificabile soltanto una offerta con utile pari a zero.
In sostanza, se un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante (si pensi alle ricadute positive che possono discendere in termine di qualificazione, pubblicità, curriculum discendenti per una impresa dall'essersi aggiudicata e dall'avere poi portato a termine un prestigioso appalto), viceversa un utile pari a zero non è indice di serietà dell'offerta: «l'offerta seria rimane, anche laddove l'utile d'impresa si riduca, purché non risulti del tutto azzerato».
La «ratio» cui è preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala è infatti la piena affidabilità della proposta contrattuale. Si tratta di un principio generale che, ad avviso del Tar Puglia, non può essere intaccato neanche in assenza di scopo di lucro. Da ciò il necessario annullamento dell'aggiudicazione a favore della onlus (articolo ItaliaOggi del 28.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it).

VARI: La firma elettronica avanzata? Stesso valore di quella su carta. La tipologia digitale diventa operativa grazie alle regole tecniche pubblicate in G.U..
Dimenticarsi carta e penna tradizionali e usare la penna elettronica e un tablet per firmare un documento è una realtà a portata di mano.
È uno degli effetti della pubblicazione delle regole tecniche, contenute nel Dpcm 22/02/13, nella Gazzetta Ufficiale del 21/05/13, che fissano i criteri in base ai quali la firma elettronica può essere considerata avanzata.
Che cos'è la firma biometrica. Un qualsiasi tablet è in grado di acquisire la semplice immagine di una firma apposta utilizzando come penna un oggetto, meglio se appuntito. Questo strumento permette, quindi, di confrontare visivamente quella firma, statica, con quella apposta su un documento cartaceo.
Se però la medesima operazione viene effettuata utilizzando una particolare penna elettronica e un tablet in grado di rilevare dei parametri dinamici propri del gesto della sottoscrizione (velocità di scrittura; pressione esercitata; angolo di inclinazione della penna; accelerazione del movimento; numero di volte in cui la penna viene sollevata), e se quei dati vengono elaborati da un software in grado di trasformarli in calcoli suscettibili di un confronto (per esempio, con uno «specimen» che potremo definire biometrico precedentemente raccolto con lo stesso strumento), allora saremo di fronte a una firma che potremo definire indifferentemente biometrica e/o grafometrica.
Le firme elettroniche nel Cad. L'attuale versione del Cad (Codice dell'amministrazione digitale) contempla due macro-categorie: a) la firma elettronica semplice, che consiste in dati elettronici associati ad altri dati elettronici (per esempio, una password associata a un file).
L'uso di questo strumento di base non è subordinato al rispetto di nessuna regolamentazione tecnica specifica e il suo valore probatorio e formale è rimesso alla valutazione del giudice (art. 21 Cad); b) esiste poi un diverso insieme, quello della firma elettronica avanzata (Fea), per appartenere al quale una firma elettronica deve presentare dei requisiti ulteriori previsti dall'art. 1 comma 1 lett. q-bis del Cad, tutti centrati sui seguenti principi: identificazione del firmatario; legame tra lo stesso, il mezzo utilizzato per firmare, e il documento firmato; inalterabilità. In linea con quanto previsto sul punto dalla direttiva europea 1999/93/Ce, non sono quindi previste delle caratteristiche tecniche pre-definite: qualunque strumento o processo che soddisfi i richiamati requisiti, può esser considerato una Fea.
L'inquadramento della firma biometrica. Una firma apposta su tablet e caratterizzata dalla raccolta dei dati biometrici è, di base, senza dubbio una firma elettronica semplice, sostanziandosi in dati elettronici (i parametri biometrici) associati ad altri dati elettronici (il documento firmato). Se però il processo presenta le caratteristiche ulteriori richieste dal Cad, e dalle regole tecniche (e cioè a dire la identificazione del firmatario, la connessione univoca al documento e la sua inalterabilità), allora si potrà certamente annettergli la valenza di una Fea. Le soluzioni che si stanno affacciando sul mercato, soprattutto in ambito bancario, muovono proprio in questa direzione.
Il motivo è semplice: se il documento informatico è sottoscritto con una Fea, il suo valore legale non è subordinato alla valutazione di un giudice ma, da un lato, produce lo stesso effetto probatorio del documento cui sia apposta una firma autografa (art. 21, comma 2 Cad); dall'altro, alla luce delle ultimissime modifiche apportate al Cad dal dl 179/2012, soddisfa comunque il requisito della forma scritta richiesto da norme speciali come requisito di validità dell'atto (art. 21, comma 2-bis, del Cad come modificato dal dl 179/2012). Anche un contratto di conto corrente, per esempio, può esser sottoscritto con una Fea, ed è naturale, quindi, che i fornitori di soluzioni di firma biometrica stiano investendo su processi che possano rispondere ai relativi requisiti.
La firma biometrica come Fea, e non solo. La pubblicazione delle regole tecniche si pone come un vero e proprio spartiacque di grandissima importanza. Gli operatori che stanno investendo sullo strumento sono quindi liberi di vendere soluzioni di firma grafometrica espressamente agganciando alle stesse la valenza di una Fea.
Attenzione, però: resta un'area grigia, quella delle firme su tablet che difettino di qualcuno dei requisiti previsti dal Cad, e che quindi, come espressamente previsto dall'art. 56 delle regole tecniche, non possono produrre gli effetti probatori e formali di una Fea. Questi prodotti sono da buttare via? Assolutamente no, atteso che gli stessi integrano comunque gli estremi di una firma elettronica semplice, in quanto tale certamente utilizzabile in tantissimi ambiti (ferme le valutazioni poi operate in sede giudiziale sulla base delle relative caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità): certo, per evitare gli strali dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, non sarà possibile collocare prodotti di questo tipo sul mercato annettendogli gli effetti di una Fea, né gli stessi potranno essere utilizzati, nell'esempio fatto, per sottoscrivere un conto corrente bancario.
Ma ciò non impedisce affatto che siano utilizzati per il compimento di una miriade di atti (quali la sottoscrizione di una contabile di sportello) che non rientrano nelle categorie previste dall'art. 1350 c.c. (forma scritta a pena di nullità), e che dunque sono suscettibili di affrontare il vaglio giudiziale proprio di una firma elettronica semplice senza mettere a rischio la validità dell'atto. Un'azione commerciale corretta, che dia conto di questa efficacia limitata, non può quindi considerarsi in nessun modo illegittima. Staremo a vedere nel prossimo futuro, quale tra le due soluzioni (la firma biometrica utilizzabile come Fea, o quella meno pregiata, avente valore di firma elettronica semplice) si affermerà come traino della rivoluzione digitale che abbiamo davanti (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.201).

ENTI LOCALIBilancio. Il piano esecutivo di gestione. La programmazione diventa triennale.
Il comma 3-bis dell'articolo 169 Tuel, introdotto dall'articolo 3 del Dl 174/1912 dispone che il Peg è deliberato dagli enti locali in coerenza con il bilancio di previsione e con la relazione previsionale e programmatica. Inoltre si stabilisce che il piano dettagliato degli obiettivi e il piano delle performance sono unificati nel Peg. La legge 243/2012, attuativa dell'articolo 81 della Costituzione, dispone che i documenti di programmazione e di bilancio stabiliscono, per ogni annualità del periodo di programmazione (triennale), obiettivi del saldo del conto consolidato delle Pa.
Il bilancio preventivo degli enti locali ha valenza annuale, ma a esso è obbligatoriamente allegato, tra l'altro, il bilancio pluriennale, che ha durata non inferiore a tre anni e carattere autorizzatorio. La relazione copre un periodo pari a quello del bilancio pluriennale, e comprende una valutazione generale sui mezzi finanziari disponibili e la spesa corrente consolidata, quella di sviluppo e quella di investimento. Il piano delle performance è un documento programmatico triennale coerente con la programmazione finanziaria.
È evidente allora che la programmazione ha, ora più che mai, valenza pluriennale, e di conseguenza anche il Peg, che ne è la parte applicativa, deve avere respiro triennale.
Peraltro la Civit (delibera 121/2010) ha affermato che il processo di adattamento a piano delle performance dovrà trasformare il Peg in un documento programmatico triennale in cui, in coerenza con le risorse assegnate, vengono esplicitati obiettivi, indicatori e relativi target.
Rimane da verificare la situazione degli enti locali con popolazione inferiore ai 15mila abitanti.
L'articolo 169, comma 3, del Tuel dichiara infatti facoltativa l'approvazione del Peg per questi enti e per le comunità montane. L'articolo 165, comma 9, del Tuel dispone che a ciascun servizio è affidato, col preventivo, un complesso di mezzi finanziari del quale risponde il responsabile del servizio. È chiaro quindi che la valenza facoltativa del Peg, negli enti locali minori, comporta il venir meno dell'obbligo di suddividere tra i vari responsabili il personale e i beni (immobili e mobili), ma non le risorse finanziarie.
Ne deriva che anche negli enti locali minori il Piano di gestione, benché semplificato, deve essere coerente con il bilancio pluriennale, con la Relazione previsionale e programmatica e con il Piano delle performance e dunque deve avere durata triennale (articolo Il Sole 24 Ore del 27.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILe circolari amministrative, in quanto atti di indirizzo interpretativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei all'amministrazione, mentre per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, e ciò in quanto le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'amministrazione, ben potendo quindi essere disapplicate anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione.
E' pacifico in giurisprudenza che le circolari amministrative, in quanto atti di indirizzo interpretativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei all'amministrazione, mentre per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, e ciò in quanto le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'amministrazione, ben potendo quindi essere disapplicate anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione (Consiglio di Stato, sez. V, 15.10.2010 n. 7521; id., sez. IV, 21.06.2010, n. 3877)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2013 n. 2916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che l'immobile abusivamente realizzato sia sottoposto a sequestro penale non osta all'adozione dell'ordine di demolizione, dal momento che è possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile proprio al fine di ottemperare al predetto ordine.
Pertanto è legittima l'ingiunzione a demolire emessa in pendenza di sequestro penale sul manufatto abusivo, dal momento che è onere del responsabile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile e, pertanto, qualora il soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può successivamente far valere il fatto del sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione.

Sul punto, il Collegio osserva che <La circostanza che l'immobile abusivamente realizzato sia sottoposto a sequestro penale non osta all'adozione dell'ordine di demolizione, dal momento che è possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile proprio al fine di ottemperare al predetto ordine> (cfr., TAR Salerno Campania sez. II, 24.04.2012, n. 802).
Pertanto è legittima l'ingiunzione a demolire emessa in pendenza di sequestro penale sul manufatto abusivo, dal momento che è onere del responsabile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile e, pertanto, qualora il soggetto obbligato neppure dimostri di aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di demolirlo, non può successivamente far valere il fatto del sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della demolizione (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 27.05.2013 n. 5274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le circolari amministrative costituiscono atti interni, diretti agli organi e agli uffici periferici, ai fini di disciplinarne l'attività e, conseguentemente, vincolano i comportamenti degli organi operativi sottordinati, ma non i soggetti destinatari estranei all'Amministrazione, che non hanno neppure l'onere dell'impugnativa, potendo direttamente contestare la legittimità dei provvedimenti applicativi.
Di conseguenza la Pubblica amministrazione non può negare al privato il rilascio di un atto ampliativo trincerandosi dietro l'esistenza e il contenuto di una circolare, risultando quest'ultima, piuttosto, un atto interno di autodisciplina di una generalità di fattispecie astratte, la quale tuttavia deve trovare la giusta collocazione nel caso concreto che l'Amministrazione deve valutare singolarmente.

È da rilevare anzitutto che “Le circolari amministrative costituiscono atti interni, diretti agli organi e agli uffici periferici, ai fini di disciplinarne l'attività e, conseguentemente, vincolano i comportamenti degli organi operativi sottordinati, ma non i soggetti destinatari estranei all'Amministrazione, che non hanno neppure l'onere dell'impugnativa, potendo direttamente contestare la legittimità dei provvedimenti applicativi; di conseguenza la Pubblica amministrazione non può negare al privato il rilascio di un atto ampliativo trincerandosi dietro l'esistenza e il contenuto di una circolare, risultando quest'ultima, piuttosto, un atto interno di autodisciplina di una generalità di fattispecie astratte, la quale tuttavia deve trovare la giusta collocazione nel caso concreto che l'Amministrazione deve valutare singolarmente" (Tar Lecce, sez. I, 10.10.2012, n. 1653; nello stesso senso Cons. St., sez. VI, 13.09.2012, n. 4859) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'ordinanza contingibile ed urgente prevista dagli art. 50 e 54, d.lgs. n. 267 del 2000 è espressione di un potere residuale e atipico; il presupposto per l’adozione dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica, l’igiene o la sanità, dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
L’ordinanza deve avere, come requisito di legittimità formale, una motivazione che dia conto della sussistenza concreta (necessità immediata e tempestiva tutela di interessi pubblici, come la salute o l'incolumità, che in ragione della situazione di emergenza non potrebbero essere protetti in modo adeguato, ricorrendo alla via ordinaria) e costituisce espressione di una elevata discrezionalità diretta a soddisfare esigenze di pubblico interesse onde porre rimedio a danni già verificatisi, ma anche e soprattutto, tenuto conto dei valori espressi dall'art. 32 cost., per evitare che un danno si verifichi.
Pertanto, ai sensi degli art. 50 e 54, t.u.e.l., per giustificare il ricorso allo strumento dell’ordinanza, il collegamento con le esigenze di protezione dell’igiene, della salute pubblica o dell’incolumità costituisce presupposto necessario ma non sufficiente, qualora non sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza.

L'ordinanza contingibile ed urgente prevista dagli art. 50 e 54, d.lgs. n. 267 del 2000 è espressione di un potere residuale e atipico; il presupposto per l’adozione dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica, l’igiene o la sanità, dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
L’ordinanza deve avere, come requisito di legittimità formale, una motivazione che dia conto della sussistenza concreta (necessità immediata e tempestiva tutela di interessi pubblici, come la salute o l'incolumità, che in ragione della situazione di emergenza non potrebbero essere protetti in modo adeguato, ricorrendo alla via ordinaria) e costituisce espressione di una elevata discrezionalità diretta a soddisfare esigenze di pubblico interesse onde porre rimedio a danni già verificatisi, ma anche e soprattutto, tenuto conto dei valori espressi dall'art. 32 cost., per evitare che un danno si verifichi. Pertanto, ai sensi degli art. 50 e 54, t.u.e.l., per giustificare il ricorso allo strumento dell’ordinanza, il collegamento con le esigenze di protezione dell’igiene, della salute pubblica o dell’incolumità costituisce presupposto necessario ma non sufficiente, qualora non sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza (Tar, Lazio, sez. II, 02.01.2012, n. 4).
La Corte costituzionale ha poi di recente escluso l’esistenza di un generale potere sindacale di emettere tale tipo di ordinanze, dichiarando costituzionalmente illegittima la norma su cui lo stesso potere extra ordinem si fonda (art. 54, comma 4, d.lgs. n. 267/2000 come sostituito dall'art. 6 del D.L. n. 92/2008 conv. con legge n. 125/2008) nella parte in cui comprendeva la locuzione "anche" prima delle parole "contingibili ed urgenti" (cfr. decisione n. 115 del 04.04.2011), determinando quindi l’essenzialità dei requisiti della contingibilità ed urgenza.
Posti questi principi, l’ordinanza in questione è illegittima perché è stata adottata con la finalità di dirimere questioni attinenti a rapporti privatistici e senza dimostrare la ricorrenza effettiva di un pericolo per la pubblica incolumità.
Infatti, risulta abbastanza chiaramente dagli atti di causa che l’esercizio dei poteri d’urgenza è preordinato non già a prevenire situazioni igienico-sanitarie o di ordine pubblico, ma a dirimere questioni insorti nei rapporti contrattuali tra la società ricorrente e i singoli utenti.
In sostanza, l’ordinanza è espressione di uno sviamento, che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore-utente, impedire al gestore medesimo di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola col pagamento della prevista tariffa (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 23.05.2013 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’atto con cui la stazione appaltante, in conseguenza dell’informativa prefettizia, recede dal contratto è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali con imprese nei cui confronti emergano sospetti di legami con la criminalità organizzata.
Pertanto, trattandosi di atto estraneo alla sfera del diritto privato, in quanto espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto, la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo.
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Con riferimento alla cd. interdittiva antimafia "tipica" la giurisprudenza amministrativa ha affermato:
- che l'interdittiva prefettizia antimafia costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione;
- che, trattandosi di una misura a carattere preventivo, l'interdittiva prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell'esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente;
- che tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- che, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazioni malavitose e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata;
- che, anche se occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l'instaurazione di un rapporto dell'impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l'appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l'interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l'ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo;
- che di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell'impresa), ma occorre che l'informativa antimafia indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l'autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l'impresa esercitata da loro congiunti;
- che, infine, gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.

Con riferimento al contratto di appalto, si è rilevato che l’atto con cui la stazione appaltante, in conseguenza dell’informativa prefettizia, recede dal contratto è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali con imprese nei cui confronti emergano sospetti di legami con la criminalità organizzata.
Pertanto, trattandosi di atto estraneo alla sfera del diritto privato, in quanto espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto, la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo (Cass. Civ., Sez.. Un,. 29.08.2008, n. 21928).
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Si deve al riguardo ricordare che, con riferimento alla cd. interdittiva antimafia "tipica", prevista dall'art. 4 del D.Lgs. n. 490 del 1994 e dall'art. 10 del D.P.R. 03.06.1998, n. 252 (ed oggi dagli articoli 91 e segg. del D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. III, 19.01.2012) ha affermato:
- che l'interdittiva prefettizia antimafia costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione;
- che, trattandosi di una misura a carattere preventivo, l'interdittiva prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell'esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente;
- che tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- che, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazioni malavitose e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata;
- che, anche se occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l'instaurazione di un rapporto dell'impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l'appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l'interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l'ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo;
- che di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell'impresa), ma occorre che l'informativa antimafia indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l'autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l'impresa esercitata da loro congiunti;
- che, infine, gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 23.05.2013 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: All'azione di risarcimento danni spiegata dinanzi al giudice amministrativo si applica il principio dell'onere della prova previsto nell'art. 2697 c.c., in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e segnatamente del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario.
Conseguentemente, laddove la domanda di risarcimento danni si presenti genericamente formulata, e non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, essa deve essere respinta

Per giurisprudenza consolidata, dalla quale il Collegio non ha motivo nella specie di discostarsi, all'azione di risarcimento danni spiegata dinanzi al giudice amministrativo si applica il principio dell'onere della prova previsto nell'art. 2697 c.c., in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e segnatamente del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario (ex multis, C.G.A.R.S. 12.05.2010, n. 640; TAR Lombardia, sez. IV, 10.06.2010, n. 1787; TAR Cagliari, sez. II, 05.02.2010, n. 126). Conseguentemente, laddove la domanda di risarcimento danni si presenti genericamente formulata, e non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, essa deve essere respinta (C.d.S., sez. VI, 17.07.2008, n. 3592).
Nel caso in esame, i ricorrenti non hanno fornito alcun elemento idoneo a dimostrare nell’an e nel quantum il pregiudizio del quale si invoca il ristoro
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 23.05.2013 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le prescrizioni contenute nel bando gara costituiscono la lex specialis della gara stessa, che vincolano non solo i concorrenti ma anche la stessa amministrazione, la quale non dispone di alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione né può disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse risultino inopportune, salva la possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento d'ufficio del bando.
Invero, in sede di gara indetta per l'aggiudicazione di un contratto, la p.a. è tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo, unitamente alla lettera d'invito, costituisce la lex specialis della gara, che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non conformi allo ius superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela; tale soluzione è giustificata dal rilievo che il bando è atto amministrativo a carattere normativo e lex specialis della procedura, rispetto al quale l'eventuale ius superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti innovatori.

È da rilevare anzitutto che le prescrizioni contenute nel bando gara costituiscono la lex specialis della gara stessa, che vincolano non solo i concorrenti ma anche la stessa amministrazione, la quale non dispone di alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione né può disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse risultino inopportune, salva la possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento d'ufficio del bando.
La giurisprudenza ha infatti precisato che “In sede di gara indetta per l'aggiudicazione di un contratto, la p.a. è tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo, unitamente alla lettera d'invito, costituisce la lex specialis della gara, che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non conformi allo ius superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela; tale soluzione è giustificata dal rilievo che il bando è atto amministrativo a carattere normativo e lex specialis della procedura, rispetto al quale l'eventuale ius superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti innovatori” (Cons. St., sez. IV 29.01.2008, n. 263) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 23.05.2013 n. 1205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: La realizzazione di un'opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato l'orientamento che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e alla irreversibile trasformazione del fondo che a essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d'acquisto.
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima.

Secondo la meno recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra le ultime di quell’orientamento: Sez. Un. Civili, 23.05.2008, n. 13358) "si ha occupazione acquisitiva o appropriativa quando il fondo occupato nell'ambito di una procedura espropriativa ha subito una irreversibile trasformazione in esecuzione di un'opera di pubblica utilità senza che sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà. In tale ipotesi il trasferimento del diritto di proprietà in capo alla mano pubblica si realizza con l'irreversibile trasformazione del fondo -con destinazione ad opera pubblica o di uso pubblico- ed il proprietario di esso può chiedere unicamente la tutela per equivalente, cioè il risarcimento del danno. Infatti è dal momento dell'irreversibile trasformazione del bene e della sua destinazione ad opera pubblica che si verifica l'estinzione del diritto di proprietà in capo al titolare ed il contestuale acquisto dello stesso diritto, a titolo originario, da parte dell'ente pubblico."
Tale orientamento è stato messo in discussione dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che lo ha ritenuto non aderente alla Convenzione europea (sent. 30.05.2000, rich. n. 24638/94, Carbonara e Ventura, e 30.05.2000, rich. n. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera) in quanto un comportamento illecito o illegittimo non può essere posto a base dell'acquisto di un diritto, per cui l'accessione invertita contrasta con il principio di legalità, inteso come preminenza del diritto sul fatto; ne consegue che la realizzazione dell'opera pubblica non costituisce di per se impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente occupata.
Successivamente l'articolo 43 del d.p.r. n. 327 del 2001 ha stabilito al primo comma che: "valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni."
Tale articolo è stato poi dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010 e successivamente è entrato in vigore l'art. 34, comma 1, del decreto legge 06.07.2011, n. 98, convertito nella legge 15.07.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto normativo formatosi a seguito della richiamata sentenza della Corte Costituzionale, inserendo nel testo unico sugli espropri l'art. 42-bis, il quale ha previsto al comma 1 che, in caso di occupazione senza titolo del bene privato per scopi di pubblica utilità, l'Amministrazione "valutati gli interessi in conflitto" può disporre, con formale provvedimento, l'acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile, con la corresponsione al privato di un indennizzo per il pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale, e al comma 8 che le sue disposizioni "trovano altresì applicazione ai fatti anteriori".
Quanto all’orientamento giurisprudenziale formatosi di recente sul punto, è ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui la realizzazione di un'opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato l'orientamento che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e alla irreversibile trasformazione del fondo che a essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d'acquisto (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008; TAR Puglia-Bari sez. I n. 3402/2010, confermata da C.d.S. sez. IV n. 4590/2011; C.d.S. sez. IV n. 4970/2011; C.d.S. sez. IV n. 3331/2011).
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/08, par. 6.1.2), e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso (C.d.S. n. 4970/2011).
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima (TAR Puglia-Bari sez. II n. 2131/2008)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Vanno attribuiste alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio; ciò in quanto in questi casi trattasi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a.
Altresì, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo l'azione con la quale i proprietari di un'area hanno chiesto la restituzione del fondo o, in subordine il risarcimento dei danni, o viceversa, deducendo la sopravvenuta illegittimità degli atti di occupazione, ancorché originariamente avvenuti a seguito di una corretta dichiarazione di pubblica utilità; rientra, invece, nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda relativa alla richiesta dell'indennità di occupazione legittima, senza che l'eventuale connessione tra tale domanda e quella di risarcimento del danno possa giustificare l'attribuzione di entrambe le domande allo stesso giudice, essendo indiscusso in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione anche in presenza di motivi di connessione.
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Il danno da occupazione illegittima si ricollega a una condotta antigiuridica con carattere permanente, in quanto si protrae nel tempo e dà luogo ad una serie di fatti illeciti, a partire dall'iniziale apprensione del bene, con riferimento a ciascun periodo in relazione al quale si determina la perdita di detti frutti, con la conseguenza che in ogni momento sorge per il proprietario il diritto al risarcimento del danno già verificatosi e nello stesso momento decorre il relativo termine di prescrizione quinquennale; pertanto, il diritto al risarcimento dei danni rimane colpito dalla prescrizione per il periodo anteriore al quinquennio precedente la proposizione della domanda, anche qualora i frutti vengano richiesti secondo il criterio dell'attribuzione degli interessi compensativi sulla somma corrispondente al valore venale dell'immobile.
Difatti, muovendosi dal rilievo che neanche il protrarsi dell’occupazione può costituire fattore impeditivo all’esercizio del diritto al risarcimento, deve concludersi nel senso che la prescrizione ricomincia a decorrere da ogni momento dell’illecito permanente (de die in diem); il risultato è che, in assenza di validi atti interruttivi, il diritto al risarcimento deve essere riconosciuto unicamente per i cinque anni di occupazione anteriori alla proposizione dell’azione risarcitoria.
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Quanto al dedotto intervento dell’istituto della c.d. dicatio ad patriam, questo presuppone storicamente una manifestazione di volontà del privato proprietario nel senso dell'asservimento all'uso pubblico (dicatio ad patriam), che sussiste (ad esempio) quando vi sia stata una convenzione di lottizzazione o analogo atto d'obbligo, relativo alla realizzazione dei c.d. standards, seguita dalla trasformazione del suolo mediante la realizzazione dell'opera e dall'effettiva utilizzazione di quest'ultima in conformità al progetto, ancorché sia rimasta inadempiuta l'obbligazione di trasferire all'ente pubblico la proprietà.
Inoltre, costituisce strada pubblica quel tratto viario avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche vie nonché la destinazione al transito di un numero indifferenziato di persone.
Sotto quest'ultimo aspetto, un'area privata può ritenersi assoggettata a uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato.
In sintesi, l'adibizione a uso pubblico di un'area può avvenire, mediante la c.d. dicatio ad patriam , con il comportamento del proprietario che mette il bene a disposizione della collettività indeterminata di cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto nel tempo, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.
Insomma, perché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario oltreché l'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone per soddisfare un pubblico, generale interesse.
Sostanzialmente, quanto alla dicatio ad patriam e all’acquisto della proprietà o di una servitù di uso pubblico, rilevano essenzialmente: 1) l’esistenza di una manifestazione di liberalità da parte del proprietario (nella specie inesistente) nel caso di dicatio ad patriam; 2) il decorso di venti anni per l’acquisto della servitù di uso pubblico o della proprietà per usucapione.

E’ oramai consolidato l'orientamento che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio; ciò in quanto in questi casi trattasi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a. (cfr. Cons. Stato, Ad. Pl., 22.10.2007, nr. 12; id., 30.07.2007, nr. 9; id., 30.08.2005, nr. 4; C.g.a.r.s., 10.11.2010, nr. 1410; Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2008, nr. 5498).
E’ stato anche affermato che rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo l'azione con la quale i proprietari di un'area hanno chiesto la restituzione del fondo o, in subordine il risarcimento dei danni, o viceversa, deducendo la sopravvenuta illegittimità degli atti di occupazione, ancorché originariamente avvenuti a seguito di una corretta dichiarazione di pubblica utilità; rientra, invece, nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda relativa alla richiesta dell'indennità di occupazione legittima, senza che l'eventuale connessione tra tale domanda e quella di risarcimento del danno possa giustificare l'attribuzione di entrambe le domande allo stesso giudice, essendo indiscusso in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione anche in presenza di motivi di connessione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 04.02.2011, n. 804).
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Devono respingersi le eccezioni sollevate dalla difesa civica con le quali si eccepisce oltre alla prescrizione del diritto del ricorrente al risarcimento dei danni subiti, anche la c.d. “dicatio ad patriam” ossia l’acquisto della natura demaniale di una strada privata.
Escluso che la realizzazione dell’opera pubblica determini l’acquisizione dell’area alla mano pubblica, secondo l’indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di aderire (Cfr. Cass. civ., sez. I, 07.03.2011, nr. 5381; Cons. Stato, sez. IV, 02.08.2011, nr. 4590), il danno da occupazione illegittima si ricollega a una condotta antigiuridica con carattere permanente, in quanto si protrae nel tempo e dà luogo ad una serie di fatti illeciti, a partire dall'iniziale apprensione del bene, con riferimento a ciascun periodo in relazione al quale si determina la perdita di detti frutti, con la conseguenza che in ogni momento sorge per il proprietario il diritto al risarcimento del danno già verificatosi e nello stesso momento decorre il relativo termine di prescrizione quinquennale; pertanto, il diritto al risarcimento dei danni rimane colpito dalla prescrizione per il periodo anteriore al quinquennio precedente la proposizione della domanda, anche qualora i frutti vengano richiesti secondo il criterio dell'attribuzione degli interessi compensativi sulla somma corrispondente al valore venale dell'immobile.
Difatti, muovendosi dal rilievo che neanche il protrarsi dell’occupazione può costituire fattore impeditivo all’esercizio del diritto al risarcimento, deve concludersi nel senso che la prescrizione ricomincia a decorrere da ogni momento dell’illecito permanente (de die in diem); il risultato è che, in assenza di validi atti interruttivi, il diritto al risarcimento deve essere riconosciuto unicamente per i cinque anni di occupazione anteriori alla proposizione dell’azione risarcitoria.
Nella specie, il ricorrente ha inviato una prima richiesta con racc. del 22.09.1995, una successiva con nota del 25.03.1997 e un’altra in data 04.02.2002 sicché, essendo intervenuti atti interruttivi della prescrizione, questa non risulta maturata, con conseguente diritto al risarcimento a far data dalla occupazione del bene, ossia dal 23.11.1992 ( come risulta dal processo verbale di consegna del 23.11.1992).
Quanto al secondo aspetto, ossia al dedotto intervento dell’istituto della c.d. dicatio ad patriam, questo presuppone storicamente una manifestazione di volontà del privato proprietario nel senso dell'asservimento all'uso pubblico (dicatio ad patriam), che sussiste (ad esempio) quando vi sia stata una convenzione di lottizzazione o analogo atto d'obbligo, relativo alla realizzazione dei c.d. standards, seguita dalla trasformazione del suolo mediante la realizzazione dell'opera e dall'effettiva utilizzazione di quest'ultima in conformità al progetto, ancorché sia rimasta inadempiuta l'obbligazione di trasferire all'ente pubblico la proprietà.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, inoltre, costituisce strada pubblica quel tratto viario avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche vie (Cass. Civ., Sez. II, 07.04.2000 n. 4345; idem, 28.11.1988 n. 6412) nonché la destinazione al transito di un numero indifferenziato di persone (Cons. Stato, Sez. V, 07.12.2010 n. 8624).
Sotto quest'ultimo aspetto, un'area privata può ritenersi assoggettata a uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato (Cons. Stato, Sez. V, 14.02.2012 n. 728).
In sintesi, l'adibizione a uso pubblico di un'area può avvenire, mediante la c.d. dicatio ad patriam , con il comportamento del proprietario che mette il bene a disposizione della collettività indeterminata di cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto nel tempo, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (Cass. Civ., Sez. II, 21.05.2001 n. 6924; idem, 13.02.2006 n. 3075).
Insomma, la giurisprudenza con gli enunciati sopra esposti afferma che perché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario oltreché l'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone per soddisfare un pubblico, generale interesse.
Sostanzialmente, quanto alla dicatio ad patriam e all’acquisto della proprietà o di una servitù di uso pubblico, rilevano essenzialmente: 1) l’esistenza di una manifestazione di liberalità da parte del proprietario (nella specie inesistente) nel caso di dicatio ad patriam; 2) il decorso di venti anni per l’acquisto della servitù di uso pubblico o della proprietà per usucapione.
Nella specie, non vi è stato alcun atto del privato idoneo a dar luogo alla dicatio ad patriam e comunque l’amministrazione comunale non ha in alcun modo provato la sussistenza degli elementi costitutivi all’uopo necessari
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Se è vero che nel rapporto di pubblico impiego non può essere liquidato legittimamente alcun compenso per lavoro straordinario quando manchi una preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento da parte dell'amministrazione, perché solo in questo modo è possibile controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni, tuttavia, detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il normale orario d'ufficio".
Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve essere pagato, sul presupposto che i competenti organi dell'Amministrazione ne abbiano riconosciuto l’utilità, e abbiano accertato la necessità e sostenibilità della relativa spesa.
Laddove manchi l'autorizzazione preventiva espressa, spetta a chi pretende il relativo pagamento dimostrare l'esistenza dei presupposti per il pagamento, consistenti nell'autorizzazione a sanatoria o nella dimostrazione del verificarsi di una situazione di fatto che ha reso imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni straordinarie, in applicazione del principio di cui all'art. 2967 c.c..
E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è attenuato, in quanto la documentazione necessaria è normalmente nella disponibilità dell'Amministrazione, ma solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo, di un principio di prova, che legittimi l'esperimento di incombenti istruttori.

Secondo orientamento giurisprudenziale pacificamente seguito (C. di S. IV, 31.03.2005, n. 1445) "se è vero che nel rapporto di pubblico impiego non può essere liquidato legittimamente alcun compenso per lavoro straordinario quando manchi una preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento da parte dell'amministrazione, perché solo in questo modo è possibile controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni, tuttavia, detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il normale orario d'ufficio".
Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve essere pagato, sul presupposto che i competenti organi dell'Amministrazione ne abbiano riconosciuto l’utilità, e abbiano accertato la necessità e sostenibilità della relativa spesa.
Laddove manchi l'autorizzazione preventiva espressa, spetta a chi pretende il relativo pagamento dimostrare l'esistenza dei presupposti per il pagamento, consistenti nell'autorizzazione a sanatoria o nella dimostrazione del verificarsi di una situazione di fatto che ha reso imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni straordinarie, in applicazione del principio di cui all'art. 2967 c.c..
E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è attenuato, in quanto la documentazione necessaria è normalmente nella disponibilità dell'Amministrazione, ma solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo, di un principio di prova, che legittimi l'esperimento di incombenti istruttori.
Nella specie manca alcun principio di prova, così come manca la determinatezza della domanda (non esplicitandosi il monte ore effettuato e i giorni interessati in concreto) tanto più che l’Amministrazione previdenziale, a seguito di ordinanza istruttoria adottata dalla sezione, ha prodotto i cedolini relativi alla retribuzione percepita mensilmente dall’avv. Licci nel periodo compreso tra novembre 1992 e luglio 1997 dai quali risultano le ore di straordinario effettuate e i relativi emolumenti corrisposti.
Appare quindi evidente come la pretesa si evidenzi del tutto infondata e priva di qualsivoglia supporto fattuale (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 1172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora le preesistenti canne fumarie per le loro caratteristiche di funzionamento, di combustione e di diffusione di fumi, vengono comunque a determinare gravi inconvenienti igienico-sanitari per gli abitanti delle costruzioni vicine a causa della nocività dei fumi immessi nell’atmosfera o della loro cattiva dispersione, la competente Autorità è comunque facoltizzata a porre rimedio a tale situazione di fastidio e di pericolo per la salute pubblica, anche attraverso l’imposizione di obblighi di adeguamento degli impianti di dispersione dei fumi alle norme regolamentari sopravvenute, se in grado di eliminare o di attenuare la preesistente situazione di rischio igienico sanitario.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima l'ordinanza di rimozione della canna fumaria senza convenientemente procedere ad una doverosa ricerca di eventuali soluzioni alternative, idonee ad eliminare il paventato rischio di inquinamento.
Tale valutazione, ad avviso del collegio, sarebbe stata nella fattispecie vieppiù necessaria in considerazione proprio della preesistenza della canna fumaria ad un regolamento intervenuto a distanza di decenni.
Infine, la evidenziata necessità di una scelta amministrativa più ponderata (l’adeguamento non si identifica con la rimozione) non può che giustificare l’ulteriore doglianza espressa dalla ricorrente in ordine alla omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990.
Va da sé infatti che l’assenza di un vincolo puntuale avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione a garantire la partecipazione dell’interessato ai fini, evidentemente, di una soluzione tecnico-amministrativa la più appropriata.

L’art 194 del Regolamento di igiene e sanità del comune di Monteroni, entrato in vigore il 27/12/1974, stabilisce che “le tubazioni di scarico di fumi, fuliggini, polveri, gas, vapori, devono essere portate ad esalare fin sopra del tetto e la bocca di scarico deve trovarsi ad una distanza, misurata orizzontalmente, non inferiori a m. 3 dalla verticale innalzata dal ciglio stradale o dal limite di altri spazi pubblici o di proprietà di terzi”.
In applicazione di tale disposizione, quindi, il responsabile del Servizio urbanistica–edilizia pubblica e privata ha ritenuto di dover ordinare alla ricorrente sig.ra Madaro la rimozione della canna fumaria insistente sul fabbricato di sua proprietà, sito in via D’Arpe n. 12, in quanto non conformi alla distanza e all’altezza previste.
Orbene, la ricorrente sostanzialmente sostiene che nessuna violazione delle norme disciplinanti le distanze della proprietà vicinale può essere a lei ascritta, posto che l’immobile dotato di canna fumaria sarebbe stato costruito alla fine del secolo XIX, senza che nel tempo fosse intervenuto alcun intervento strutturale (la canna fumaria sarebbe stata interessata soltanto da lavori di pulizia e manutenzione).
Sicché la situazione contraria a regolamento sarebbe stata semmai determinata dalla stessa sig.ra Cappello (denunciante) la quale, soltanto negli anni successivi al 1977 (conc. edilizia n. 287/1977 e n. 111/1980), avrebbe realizzato la sopraelevazione della propria abitazione a piano terra, nonché la costruzione di un ripostiglio al secondo piano.
Ciò stante non è dubbio, in base ai condivisibili orientamenti giurisprudenziali richiamati dalla ricorrente, che lo ius superveniens sulle distanze tra gli edifici non può, di norma, esplicare efficacia retroattiva su situazioni già consolidate.
Occorre tuttavia rilevare come l’ordinanza impugnata non è stata adottata nell’esercizio del potere di controllo in materia edilizia, bensì per rimediare agli inconvenienti igienico-sanitari prodotti da una canna fumaria non conforme al sopravvenuto Regolamento comunale in materia.
Nonostante quindi il su richiamato principio di irretroattività, ritiene il Collegio di poter ribadire che “qualora le preesistenti canne fumarie per le loro caratteristiche di funzionamento, di combustione e di diffusione di fumi, vengono comunque a determinare gravi inconvenienti igienico-sanitari per gli abitanti delle costruzioni vicine a causa della nocività dei fumi immessi nell’atmosfera o della loro cattiva dispersione, la competente Autorità sia comunque facoltizzata a porre rimedio a tale situazione di fastidio e di pericolo per la salute pubblica, anche attraverso l’imposizione di obblighi di adeguamento degli impianti di dispersione dei fumi alle norme regolamentari sopravvenute, se in grado di eliminare o di attenuare la preesistente situazione di rischio igienico sanitario” (TAR Marche sent. n. 960 del 06/08/2003).
Appare però evidente come, nel caso in esame, il comune di Monteroni sia pervenuto alla determinazione di ordinare la rimozione della canna fumaria senza convenientemente procedere ad una doverosa ricerca di eventuali soluzioni alternative, idonee ad eliminare il paventato rischio di inquinamento.
Tale valutazione, ad avviso del collegio, sarebbe stata nella fattispecie vieppiù necessaria in considerazione proprio della preesistenza della canna fumaria ad un regolamento intervenuto a distanza di decenni.
D’altro canto la stessa sig.ra Cappello, dal cui esposto muove il comune di Monteroni per assumere la contestata determinazione, si limita soltanto a sollecitare un adeguamento della canna fumaria in questione.
Infine, la evidenziata necessità di una scelta amministrativa più ponderata (l’adeguamento non si identifica con la rimozione) non può che giustificare l’ulteriore doglianza espressa dalla ricorrente in ordine alla omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. n. 241/1990.
Va da sé infatti che l’assenza di un vincolo puntuale avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione a garantire la partecipazione dell’interessato ai fini, evidentemente, di una soluzione tecnico-amministrativa la più appropriata.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso pertanto deve essere accolto fatti salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione, previo contraddittorio, riterrà di dover adottare (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 22.05.2013 n. 1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per emanare l'ordine di demolizione non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: il presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell’opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.

Ciò premesso il Collegio, con riferimento ai motivi di ricorso che per la loro correlazione possono essere trattati congiuntamente, deve rilevare che l’ordinanza impugnata, emanata in esito al sopralluogo compiuto nel gennaio 2011, costituisce atto dovuto e vincolato e contiene il mero ordine di ripristino dello stato dei luoghi e ha quindi natura di diffida a demolire.
Per tale ordine di demolizione, quindi, non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: il presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell’opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione (Tar Lazio Roma, I, 13.06.2012, n. 5370; Consiglio di Stato, IV, 18.09.2012, n. 4945; Tar Puglia Lecce, III, 28.09.2012 n. 1621) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 20.05.2013 n. 1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario di un immobile confinante con quello per il quale è stato rilasciato il permesso di costruire ha sia la possibilità di intervenire nel procedimento amministrativo volto al rilascio del titolo medesimo ex art. 9 della legge n. 241/1990, sia la legittimazione a ricorrere avverso gli atti adottati in tale sede che possano arrecargli pregiudizio.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che vi sia l’obbligo dell’Amministrazione di comunicare al medesimo l’inizio dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge citata, atteso che ciò comporterebbe un aggravio dello stesso procedimento, contrariamente ai principi di economicità e di efficienza dell’azione amministrativa.
Il cointeressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241 poiché l'invocata estensione ad essi -rectius “ad esso”- della predetta comunicazione comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa. Ciò anche quando si tratti di soggetti in precedenza oppostisi all'attività edilizia del proprietario confinante.

Non vi è dubbio, infatti, che il proprietario di un immobile confinante con quello per il quale è stato rilasciato il permesso di costruire ha sia la possibilità di intervenire nel procedimento amministrativo volto al rilascio del titolo medesimo ex art. 9 della legge n. 241/1990, sia la legittimazione a ricorrere avverso gli atti adottati in tale sede che possano arrecargli pregiudizio; ciò non vuol dire, tuttavia, che vi sia l’obbligo dell’Amministrazione di comunicare al medesimo l’inizio dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge citata (cfr. Consiglio Stato, IV, 06.07.2009, n. 4300), atteso che ciò comporterebbe un aggravio dello stesso procedimento, contrariamente ai principi di economicità e di efficienza dell’azione amministrativa (cfr. per tutte Tar Lecce, II, 26.01.2011 n. 117 -confermata dal Consiglio di Stato, sezione V con sentenza 06.06.2012 n. 3343- che ha inoltre precisato: “In proposito la giurisprudenza ha più volte ribadito che “il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241” (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918), “poiché l'invocata estensione ad essi -rectius “ad esso”- della predetta comunicazione comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa. Ciò anche quando si tratti di soggetti in precedenza oppostisi all'attività edilizia del proprietario confinante” (TAR Liguria Genova, sez. I, 10.07.2009, n. 1736; conforme: Consiglio Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 20.05.2013 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il novero dei soggetti legittimati al rilascio del titolo in sanatoria risulta più ampio rispetto a quanto concerne il rilascio dell'ordinario titolo abilitativo edilizio, laddove secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, occorre la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale o anche obbligatorio a condizione del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria.
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da quello della sanatoria. L'affermazione è consapevolmente recepita da parte della giurisprudenza in riferimento alla sanatoria impropria di cui all'art. art. 13 della legge n. 47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4 della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto, sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o amministrativo.
Se quindi il collegamento con la proprietà o altro diritto reale si attenua già in sede di legittimazione alla sanatoria impropria oggi disciplinata dall'art. 36 t.u. edilizia approvato con d.p.r. 06.06.2001 n. 380, ciò non può non valere anche in riferimento alla sanatoria propria di cui alla l. 724/1994 (II condono edilizio) la quale, presupponendo un abuso di tipo sostanziale e non già formale, ben può riferirsi -come è paradigmatico dell'illecito- anche ad un collegamento non soggettivamente qualificato. Anche la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ritiene che ai sensi dell'art. 31, l. 28.02.1985 n. 47 -secondo cui possono richiedere il condono "i soggetti che abbiano interesse"- legittimato a richiedere la concessione edilizia in sanatoria sia anche il promissario acquirente di un terreno, avuto riguardo all'esperibilità della tutela in forma specifica ex art. 2932, cod. civ.
Tale disciplina non risulta mutata nel regime introdotto con l'art. 39 della l. 724/1994, non emergendo restrizioni rispetto al criterio legittimante di cui al citato art. 31 l. 47/1985.
Va pertanto affermato che "legittimati all'istanza di condono edilizio ex l. 724/1994 sono oltre coloro che hanno titolo a richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire, anche il promissario acquirente o il conduttore e più in generale tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà del proprietario del bene”.
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Poiché “il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari, e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale, considerato anche che le deficienze igienico sanitarie riscontrate dai competenti uffici della U.s.l. integrano la violazione di prescrizioni poste a tutela della salubrità degli ambienti adibiti ad abitazione da fonti normative di carattere primario, quali gli artt. 218 e 221, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265" spetterà quindi all’Autorità sanitaria competente in sede di istruttoria per il rilascio dell’abitabilità valutare se effettivamente nella specie le altezze dei fabbricati siano tali da impedire l’utilizzazione del bene come abitazione.

Invero la giurisprudenza ha chiarito che: “Il novero dei soggetti legittimati al rilascio del titolo in sanatoria risulta […] più ampio rispetto a quanto concerne il rilascio dell'ordinario titolo abilitativo edilizio, laddove secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, occorre la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale o anche obbligatorio a condizione del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria" (Consiglio di Stato V 28.05.2001 n. 2881, TAR Emilia Romagna Bologna 21.02.2007 n. 53, TAR Lombardia Milano sez II 31.03.2010 n. 842) […].
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da quello della sanatoria. L'affermazione è consapevolmente recepita da parte della giurisprudenza (TAR Campania Napoli sez VIII 14.01.2011, n. 196) in riferimento alla sanatoria impropria di cui all'art. art. 13 della legge n. 47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4 della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto, sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o amministrativo.
Se quindi il collegamento con la proprietà o altro diritto reale si attenua già in sede di legittimazione alla sanatoria impropria oggi disciplinata dall'art. 36 t.u. edilizia approvato con d.p.r. 06.06.2001 n. 380, ciò non può non valere anche in riferimento alla sanatoria propria di cui alla l. 724/1994 (II condono edilizio) la quale, presupponendo un abuso di tipo sostanziale e non già formale, ben può riferirsi -come è paradigmatico dell'illecito- anche ad un collegamento non soggettivamente qualificato. Anche la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. IV, 27.10.2009, n. 6545) ritiene che ai sensi dell'art. 31, l. 28.02.1985 n. 47 -secondo cui possono richiedere il condono "i soggetti che abbiano interesse"- legittimato a richiedere la concessione edilizia in sanatoria sia anche il promissario acquirente di un terreno, avuto riguardo all'esperibilità della tutela in forma specifica ex art. 2932, cod. civ.
Tale disciplina non risulta mutata nel regime introdotto con l'art. 39 della l. 724/1994, non emergendo restrizioni rispetto al criterio legittimante di cui al citato art. 31 l. 47/1985.
Va pertanto affermato che "legittimati all'istanza di condono edilizio ex l. 724/1994 sono oltre coloro che hanno titolo a richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire, anche il promissario acquirente o il conduttore (Corte di Appello Firenze sez II 04.05.2010 n. 594) e più in generale tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà del proprietario del bene” (cfr. TAR Bari Puglia 09.07.2011 n. 1057).
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In proposito il Collegio deve rilevare che il condono edilizio è finalizzato alla definizione degli illeciti edilizi che nella specie sono relativi alle opere funzionali al cambio di destinazione d’uso di due stenditoi in civili abitazioni.
Con il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dunque, si sono sanate esclusivamente le opere edilizie, mentre l’utilizzazione degli immobili come civili abitazioni (come del resto risulta nelle condizioni generali in calce al provvedimento impugnato) è soggetto al rilascio del certificato di agibilità.
Poiché “il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari, e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale, considerato anche che le deficienze igienico sanitarie riscontrate dai competenti uffici della U.s.l. integrano la violazione di prescrizioni poste a tutela della salubrità degli ambienti adibiti ad abitazione da fonti normative di carattere primario, quali gli artt. 218 e 221, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265" (cfr. Consiglio di Stato 03.05.2011 n. 2620) spetterà quindi all’Autorità sanitaria competente in sede di istruttoria per il rilascio dell’abitabilità valutare se effettivamente nella specie le altezze dei fabbricati siano tali da impedire l’utilizzazione del bene come abitazione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 20.05.2013 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAumenti a pioggia bloccati dal giudice.
Gli aumenti generalizzati, finanziati con fondi per la contrattazione integrativa cresciuti troppo rispetto ai vincoli di legge, possono essere stoppati dai tribunali.

È questo il dato chiave che emerge dall'ordinanza 20.05.2013 n. 794 con cui il Tribunale del lavoro di Reggio Calabria ha bloccato le progressioni "orizzontali" (cioè gli incrementi di stipendio senza cambiare la qualifica degli interessati) che il Comune di Reggio ha concesso ai propri dipendenti negli anni 2000-2010. I prossimi cedolini saranno quindi alleggeriti di questi aumenti, in attesa dell'udienza di merito che potrebbe dichiararli definitivamente illegittimi aprendo l'infinita battaglia delle restituzioni.
A leggere l'ordinanza, non sembrano molte le chance di superare il problema con le udienze di merito. A far muovere il commissario straordinario che guida Reggio Calabria sono stati prima di tutto i risultati delle ispezioni condotte dalla Ragioneria generale nel 2011, quando gli uomini del Mef avevano concluso che il Comune non ha rispettato i vincoli di spesa del personale e ha distribuito "premi" a pioggia fra i dipendenti. In particolare, alcune "selezioni" hanno visto vincenti il 100% degli interessati, in altri casi la promozione ha oscillato intorno a tassi tra il 97,8% e il 99,6%, assegnando progressioni anche a dipendenti che non avevano totalizzato nemmeno 12 mesi di servizio.
La progressione economica determina aumenti stabili, e quindi danni duraturi a un bilancio che nel caso di Reggio Calabria è «in sostanziale dissesto». Le peculiarità del quadro reggino non devono però far passare in secondo piano il significato complessivo del l'ordinanza, con cui per la prima volta un tribunale blocca aumenti indiscriminati già attribuiti in sede di contrattazione integrativa: anche perché le modalità di costituzione dei fondi integrativi sono oggetto di indagine da parte della Ragioneria e della Corte dei conti in molti Comuni, anche capoluogo di Regione.
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Le tappe della vicenda
01|LE ISPEZIONI
La Ragioneria generale dello Stato ha denunciato il mancato rispetto nel Comune di Reggio Calabria dei vincoli alla spesa di personale, l'incremento illegittimo del fondo per la contrattazione decentrata (parte stabile e variabile) e l'erogazione di bonus a pioggia
02|IL CONTENZIOSO
La battaglia legale nasce dalla decisione del commissario straordinario di Reggio Calabria di agire d'urgenza (ex articolo 700 del Codice di procedura penale) per bloccare l'erogazione degli incrementi
03|L'ORDINANZA
L'ordinanza, con una decisione inedita, concede al Comune la sospensiva, rimandando al merito il giudizio sull'illegittimità che determinerebbe l'obbligo di restituzione degli arretrati (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2013).

EDILIZIA PRIVATANon v’è motivo per ammettere l’accessorietà delle tettoie apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui accedono ed escluderla, invece, laddove, a fronte di medesime caratteristiche tipologico/strutturali, la loro funzione sia quella di supporto di un impianto fotovoltaico, che, consentendo la produzione di energia “pulita” e “rinnovabile”, dovrebbe essere guardato con particolare favore dalle Amministrazioni locali, deputate, per legge, a curare gli interessi della comunità locale.
Ad avviso del Collegio, la tettoia (da realizzasi in sostituzione di una pergola pre-esistente, previa sua demolizione) può ritenersi assorbita nell’edificio principale o, comunque, nella parte di esso cui accede.
Non v’è motivo, infatti, per ammettere l’accessorietà delle tettoie apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui accedono (ex multis TAR Campania Napoli, sez. II, n. 8320 del 02.12.2009, n. 3870 del 13.07.2009, n. 492 del 29.01.2009; TAR Campania Napoli, Sez. IV, n. 19754 del 18.11.2008; TAR Campania Napoli, sez. III, n. 10059 del 09.09.2008) ed escluderla, invece, laddove, a fronte di medesime caratteristiche tipologico/strutturali, la loro funzione sia quella di supporto di un impianto fotovoltaico, che, consentendo la produzione di energia “pulita” e “rinnovabile”, dovrebbe essere guardato con particolare favore dalle Amministrazioni locali, deputate, per legge, a curare gli interessi della comunità locale.
Si rammenta, al riguardo, che la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 27.09.2001, n. 2001/77/CE, attuata col decreto legislativo 29.12.2003, n. 387 al quale si richiama l’art. 36 della l.r. 16 del 2008, riconosce espressamente la necessità di promuovere in via prioritaria le fonti energetiche rinnovabili, poiché queste contribuiscono alla protezione dell'ambiente e allo sviluppo sostenibile, possono creare occupazione locale, avere un impatto positivo sulla coesione sociale, contribuire alla sicurezza degli approvvigionamenti e permettere di conseguire più rapidamente gli obiettivi di Kyoto e individua la promozione dell'elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili come un obiettivo altamente prioritario a livello della Comunità, sottolineando la necessità di individuare obiettivi vincolanti e ambiziosi in materia di fonti energetiche rinnovabili a livello nazionale e di tener conto della struttura specifica del settore delle fonti energetiche rinnovabili, in particolare al momento della revisione delle procedure amministrative di autorizzazione a costruire impianti di produzione di elettricità proveniente da fonti energetiche rinnovabili (vedi considerando n. 1, 2, 3, 4 e 20) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 20.05.2013 n. 299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Quello della regolarità contributiva è un requisito di carattere generale oltre che condizione di partecipazione alla gara, che va posseduto alla data di scadenza della presentazione delle offerte e va assicurato anche successivamente alla presentazione della domanda, attesa l’imprescindibile esigenza di verifica dell’affidabilità del soggetto partecipante sino alla conclusione della gara medesima.
Ciò in quanto le disposizioni normative che prevedono l’obbligo della regolarità contributiva sono poste a presidio di superiori interessi pubblici, quali la tutela dei lavoratori, la provvista di risorse per la finanza pubblica e la corretta concorrenza tra le imprese di ciascun settore, il che giustifica sia la verifica della sussistenza del requisito da parte della stazione appaltante anche in assenza di una espressa previsione del bando o della lettera di invito, sia il fatto che la falsità della dichiarazione costituisca di per sé motivo di esclusione da una gara d’appalto senza che l’irregolarità possa essere sanata dall’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
Ai partecipanti alla gara, pertanto, è richiesto un onere di verifica preventiva al fine di accertare la veridicità delle proprie dichiarazioni, non essendo sufficiente ad evitare l’esclusione o, come nel caso in esame, l’annullamento dell’avvenuta aggiudicazione, il richiamo ad una ipotetica "buona fede" sulla regolarità del pagamento dei contributi.

Come è noto, infatti, quello della regolarità contributiva è un requisito di carattere generale oltre che condizione di partecipazione alla gara, che va posseduto alla data di scadenza della presentazione delle offerte e va assicurato anche successivamente alla presentazione della domanda, attesa l’imprescindibile esigenza di verifica dell’affidabilità del soggetto partecipante sino alla conclusione della gara medesima (Cons. Stato, sez. IV, 02.04.2011, n. 2283; sez. V, 30.09.2009, n. 5896; sez. VI, 26.01.2009, n. 344; TAR Molise Campobasso, sez. I, 08.10.2012, n. 512).
Ciò in quanto le disposizioni normative che prevedono l’obbligo della regolarità contributiva sono poste a presidio di superiori interessi pubblici, quali la tutela dei lavoratori, la provvista di risorse per la finanza pubblica e la corretta concorrenza tra le imprese di ciascun settore, il che giustifica sia la verifica della sussistenza del requisito da parte della stazione appaltante anche in assenza di una espressa previsione del bando o della lettera di invito, sia il fatto che la falsità della dichiarazione costituisca di per sé motivo di esclusione da una gara d’appalto senza che l’irregolarità possa essere sanata dall’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
Ai partecipanti alla gara, pertanto, è richiesto un onere di verifica preventiva al fine di accertare la veridicità delle proprie dichiarazioni, non essendo sufficiente ad evitare l’esclusione o, come nel caso in esame, l’annullamento dell’avvenuta aggiudicazione, il richiamo ad una ipotetica "buona fede" sulla regolarità del pagamento dei contributi (TAR Valle d'Aosta, sez. I, 10.03.2010, n. 21) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 16.05.2013 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina urbanistica da applicare in occasione dell’esame di un progetto edilizio conseguente ad una sentenza di annullamento del diniego della concessione è quella vigente al momento in cui la sentenza è notificata al sindaco, risultando inopponibili all’interessato solo le variazioni dello strumento urbanistico sopravvenute successivamente a tale notificazione.
Nel caso di annullamento del diniego in sede giurisdizionale, l’autorità competente deve provvedere applicando la disciplina vigente alla data di notifica della sentenza di annullamento del diniego.

Premesso che la ricorrente impugnava il diniego oppostole dal Comune di Ostuni alla richiesta di autorizzazione all’installazione di un impianto di telefonia in Contrada Brancati, e, ancora, il Regolamento Comunale per il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di telefonia mobile e la minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici ed il 1° Piano di Installazione Comunale (PIC) approvati con delibera di C.C. n. 67 del 28.12.2005, il Collegio osserva che il ricorso è ormai improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.
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L’Amministrazione Comunale intimata, difatti, con delibera di C.C. n. 43 del 30.09.2010 approvava, al termine di una fase di concertazione con i vari gestori e sulla base dei relativi piani stralcio, il nuovo PIC, che, notificato alla ricorrente e dalla stessa mai censurato, non contempla il sito il Contrada Brancati: dall’eventuale accoglimento del gravame, dunque, la Wind non trarrebbe alcuna utilità, poiché la sua istanza sarebbe comunque, sulla base del nuovo strumento di pianificazione, insuscettibile di accoglimento (e d’altronde, per consolidato orientamento giurisprudenziale, “la disciplina urbanistica da applicare in occasione dell’esame di un progetto edilizio conseguente ad una sentenza di annullamento del diniego della concessione è quella vigente al momento in cui la sentenza è notificata al sindaco, risultando inopponibili all’interessato solo le variazioni dello strumento urbanistico sopravvenute successivamente a tale notificazione”; Consiglio di Stato, V, 10.01.2012, n. 36.
E ancora: “nel caso di annullamento del diniego in sede giurisdizionale, l’autorità competente deve provvedere applicando la disciplina vigente alla data di notifica della sentenza di annullamento del diniego (cfr. Cons. Stato, IV, 02.06.2000, n. 3177; Cons. Stato, V, 13.11.1999, n. 1551 e 08.01.1998 n. 53)”; Tar Toscana, II, 11.10.2007, n. 3188) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 16.05.2013 n. 1121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, stretta sugli ambulanti. Trasporto per la vendita e il recupero solo se autorizzato. La Corte di cassazione fa il punto sull'applicazione del Codice ambientale (dlgs 152/2006).
L'attività di ritiro presso privati di rifiuti, così come il loro trasporto, deve essere esercitata nel rispetto delle norme autorizzatorie e gestionali previste dal Codice ambientale ogni qual volta sia finalizzata alla vendita dei beni a fine vita a impianti di recupero.

Questa la logica deduzione cui porta la recente sentenza 03.05.2013 n. 19111 con la quale la Corte di Cassazione, Sez. III penale, ha compiuto una larga ricognizione sulla disciplina risultante dal combinato disposto delle norme (previste dal dlgs 152/2006, cosiddetto «Codice ambientale») che recano un regime di favore per le attività di raccolta e trasporto rifiuti effettuate dai cosiddetti «robivecchi» e delle regole (previste dal dlgs 114/1998) in materia di commercio in generale.
Punto di partenza della pronuncia del giudice di legittimità è l'articolo 266, comma 5 del dlgs 152/2006, a mente del quale «Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 (ndr: dello stesso Codice, che impongono dichiarazione Mud, registri di carico/scarico, formulario di trasporto ed iscrizione all'Albo gestori) non si applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio».
Agendo in linea con i principi comunitari in materia di tutela ambientale che impongono una interpretazione restrittiva delle norme derogatorie, la Suprema Corte ha infatti con la sentenza in parola tracciato i precisi confini della eccezionale disciplina storicamente prevista (dal dlgs 22/1997 prima, dal dlgs 152/2006 dopo) a favore dei rigattieri.
In primo luogo la Cassazione ha ricordato (con ciò allineandosi alle precedenti pronunce di legittimità) come il citato regime derogatorio valga solo per raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi (sentenze 25352/2012 e 27290/2012).
Scendendo nel dettaglio, la Corte ha poi precisato come i soggetti ammessi alla deroga (ossia quelli che svolgono le citate attività «in forma ambulante») siano unicamente i «commercianti al dettaglio» identificati dall'articolo 4 del citato dlgs 114/1998 (e abilitati dal comune all'attività ex articolo 27, stesso provvedimento), essendo questi (secondo la definizione datane dallo stesso dlgs) gli unici commercianti a poter svolgere il loro mestiere (anche) in forma itinerante, al contrario di quelli «all'ingrosso», vincolati invece a una sede fissa.
Oltre alla modalità operativa, a distinguere i «dettaglianti» dai «grossisti» è altresì (sempre in base al citato articolo 4) il fatto che i primi possono vendere i propri beni solo a «consumatori finali», ossia a soggetti che agiscono per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale, mentre i secondi hanno come clienti finali esclusivamente questi ultimi.
Da tale precisazione, rintracciabile nella pronuncia della Corte, è lecito dedurre (come peraltro già da tempo sostenuto da autorevole dottrina) che il citato regime derogatorio previsto dal dlgs 152/2006 non si applichi all'attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuata da soggetti che poi rivendono gli stessi a impianti di recupero.
Ancora, per la Cassazione il regime eccezionale previsto dal dlgs 152/2006 deve inoltre essere strettamente limitato alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti che (sempre secondo il tenore del Codice) «formano oggetto del commercio» dei soggetti in parola, dovendo dunque escludersi la sua applicazione alla gestione di materiali non ricompresi nel particolare settore merceologico cui l'abilitazione comunale rilasciata fa riferimento.
Tracciati i confini del regime di favore previsto dal Codice ambientale per raccolta e trasporto dei rifiuti (oggi mediante l'esenzione, oltre che dall'Albo, dall'obbligo di tenuta delle scritture verdi cartacee, domani dall'adozione del «Sistri») la sentenza 19111/2013 non pare però affrontare la questione dell'eventuale «commercializzazione» dei rifiuti.
In tal senso appare coerente ricordare una precedente pronuncia della stessa Corte (medesima Sezione penale: la Terza), l'ordinanza 6602/2012, nella parte in cui si sancisce che i provvedimenti abilitativi al commercio itinerante su aree pubbliche nulla hanno a che vedere con le autorizzazioni ambientali previste dal dlgs 152/2006 (anche) in relazione al commercio e l'intermediazione dei rifiuti, ragion per cui mancando queste ultime appare ipotizzabile il reato di gestione illecita ex articolo 256, comma 1, stesso Codice ambientale (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGODanno esistenziale per il lavoro senza interruzioni. Il Consiglio di Stato sui riposi settimanali.
IL MECCANISMO/ Il dipendente non deve dimostrare di aver subito un effetto negativo È sufficiente provare di non aver fatto pause.
Va risarcito il danno per usura psicofisica al dipendente pubblico che per anni ha lavorato anche di domenica senza fruire del riposo compensativo.
È quanto affermato dalla sentenza 19.04.2013 n. 7 dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato in relazione alla domanda risarcitoria proposta da alcuni dipendenti addetti al servizio di trasporto pubblico locale.
Il Consiglio ha chiarito due questioni: la prima attiene a come provare il danno da usura psicofisica del lavoratore; la seconda riguarda il termine di prescrizione. Sulla prima questione si è affermato che il dipendente pubblico che lamenti un danno per aver prestato attività lavorativa sette giorni su sette deve allegare circostanze e documenti (buste paga, statini, istanze e diffide alla pubblica amministrazione di appartenenza) che dimostrino la mancata fruizione del riposo compensativo, protrattasi nel tempo per esigenze aziendali. Non occorre provare che la mancanza del giorno di effettivo riposo gli abbia provocato un danno. L'amministrazione potrà fornire la prova contraria sulle predette circostanze, con la conseguenza che, in loro mancanza, le dichiarazioni del dipendente si considerano non contestate e possono fondare la decisione del giudice (articolo 115 del Codice di procedura civile).
Esistono due tipi di danno: quello biologico consistente in un'infermità cioè nella lesione dell'integrità psicofisica; quello esistenziale consistente nell'alterazione di abitudini, relazioni e scelte di vita. Il danno derivante al dipendente per aver lavorato sette giorni su sette attiene alla sfera esistenziale e il giudice lo desume in base a regole di esperienza, circostanze concrete e al tipo di mansione svolta dal dipendente con il meccanismo delle presunzioni semplici, cioè immediatamente percepibili.
In altri termini, il giudice, dallo svolgimento di mansioni che presuppongono un elevato grado di diligenza, come quelle svolte da macchinisti posti alla guida di treni senza godere di riposi compensativi, in modo sistematico nel corso di un decennio, desume il danno esistenziale consistente in una situazione patologica di stress derivante dal mancato recupero delle energie psicofisiche. Ciò in quanto il diritto al riposo settimanale e compensativo, irrinunciabile in base all'articolo 36 della Costituzione, consente al lavoratore di ricostituire le proprie energie psicofisiche e svolgere attività espressione della propria personalità.
La pronuncia chiarisce inoltre che il dipendente può agire per il ristoro di tale danno entro dieci anni dalla più antica festività non goduta, in quanto il danno deriva dall'inadempimento del contratto di lavoro da parte della pubblica amministrazione (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2013).

APPALTI: L’informativa prefettizia non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certo sull’esistenza della contiguità con organizzazioni malavitose e di un condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici ed indiziari da cui emergano gli elementi di pericolo di dette infiltrazioni mafiose ma tali elementi devono comunque essere costanti e attuali e riferibili all’attività di impresa con un certo grado di probabilità e consequenzialità.
In merito, non è posta in discussione la discrezionalità di cui dispone il Prefetto nella ricerca e ponderazione degli elementi dai quali possa dedursi, nel quadro della disciplina dettata dal d.lgs. n. 252/1998, l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società ed imprese con le quali le pubbliche amministrazioni stipulano contratti o nei cui confronti autorizzano o comunque consentono concessioni o erogazioni ma tale potere deve comunque essere esercitato con prudente bilanciamento fra la libertà di iniziativa dell’impresa e la concorrente tutela delle condizioni di sicurezza e di ordine pubblico cui sono indirizzate le norme di prevenzione in questione, con la conseguenza che il complesso degli elementi sintomatici ed indiziari che emergono nella fase istruttoria che precede l’adozione del provvedimento devono, quantomeno, configurarsi idonei, nella loro emergenza ed oggettiva potenzialità, ad indurre con efficienza casuale e con carattere di attualità la situazione di condizionamento da parte della criminalità organizzata dell’impresa sottoposta a monitoraggio.
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La giurisprudenza ha precisato che l'accertamento dell'esistenza di un legame di parentela o affinità con soggetti inquisiti o condannati per reati di mafia non determina automaticamente la sussistenza di tentativi di infiltrazioni criminali nella impresa, occorrendo che vengano provati gli effettivi ed attuali tentativi di condizionamento degli indirizzi e delle scelte della società.
Ciò perché l’informativa prefettizia è strumento che, pur potendosi fondare su un attendibile giudizio di possibilità secondo la nozione di pericolo, poiché non occorre che sia provata l'esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo invece sufficiente, secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale, ancorché ragionevole e circostanziato, “la mera possibilità di interferenze malavitose rivelata da fatti idonei a configurarne il substrato", deve essere utilizzato, oltre che con estremo rigore, anche con estrema attenzione e cautela, perché il suo meccanismo opera incidendo nel delicato equilibrio, proprio dell'ordinamento democratico, che sussiste tra diritti di difesa e di libertà di impresa, da un lato, ed esigenze di politica repressiva e preventiva, dall'altro.

Il Collegio è ben conscio che l’informativa prefettizia non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certo sull’esistenza della contiguità con organizzazioni malavitose e di un condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma che può essere sorretta da elementi sintomatici ed indiziari da cui emergano gli elementi di pericolo di dette infiltrazioni mafiose (Cons. Stato, Sez. III, n. 4360/2011) ma tali elementi devono comunque essere costanti e attuali e riferibili all’attività di impresa con un certo grado di probabilità e consequenzialità.
In merito, non è posta in discussione la discrezionalità di cui dispone il Prefetto nella ricerca e ponderazione degli elementi dai quali possa dedursi, nel quadro della disciplina dettata dal d.lgs. n. 252/1998, l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società ed imprese con le quali le pubbliche amministrazioni stipulano contratti o nei cui confronti autorizzano o comunque consentono concessioni o erogazioni ma tale potere deve comunque essere esercitato con prudente bilanciamento fra la libertà di iniziativa dell’impresa e la concorrente tutela delle condizioni di sicurezza e di ordine pubblico cui sono indirizzate le norme di prevenzione in questione, con la conseguenza che il complesso degli elementi sintomatici ed indiziari che emergono nella fase istruttoria che precede l’adozione del provvedimento devono, quantomeno, configurarsi idonei, nella loro emergenza ed oggettiva potenzialità, ad indurre con efficienza casuale e con carattere di attualità la situazione di condizionamento da parte della criminalità organizzata dell’impresa sottoposta a monitoraggio (Cons. Stato, n. 204/2013 cit.).
Come detto, nel caso in esame, i fatti di rilevanza penale risalivano nel tempo a due anni e mezzo addietro e nessun ulteriore elemento è contenuto nella motivazione dell’informativa in merito all’esistenza, con carattere di prossimità, attualità ed immanenza, del pericolo di condizionamento malavitoso al momento dell’adozione dell’informativa in questione (Cons. Stato, Sez. VI, 10.02.2010, n. 684).
Tale valutazione non poteva essere sostenuta comunque dall’unica altra circostanza presa in considerazione dal Prefetto, legata al mero rapporto di coniugio con il nuovo amministratore della società, in assenza dell’individuazione di pluralità di rapporti parentali e di riferimento ad unico centro di interessi malavitosi e di ulteriori circostanze significative che ne confermino i presupposti potenziali di infiltrazione mafiosa. La giurisprudenza ha infatti precisato che l'accertamento dell'esistenza di un legame di parentela o affinità con soggetti inquisiti o condannati per reati di mafia non determina automaticamente la sussistenza di tentativi di infiltrazioni criminali nella impresa, occorrendo che vengano provati gli effettivi ed attuali tentativi di condizionamento degli indirizzi e delle scelte della società (Cons. Stato, Sez. VI, 17.07.2006, n. 4574 e 02.05.2007, n. 1916; Sez. V, 29.08.2005, n. 4408).
Ciò perché –come prima già anticipato– l’informativa prefettizia è strumento che, pur potendosi fondare su un attendibile giudizio di possibilità secondo la nozione di pericolo (Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2001, n. 4724), poiché non occorre che sia provata l'esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo invece sufficiente, secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale, ancorché ragionevole e circostanziato, “la mera possibilità di interferenze malavitose rivelata da fatti idonei a configurarne il substrato" (Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2008, n. 3090), deve essere utilizzato, oltre che con estremo rigore, anche con estrema attenzione e cautela, perché il suo meccanismo opera incidendo nel delicato equilibrio, proprio dell'ordinamento democratico, che sussiste tra diritti di difesa e di libertà di impresa, da un lato, ed esigenze di politica repressiva e preventiva, dall'altro (TAR Calabria, Cz, Sez. I, 17.04.2012, n. 402) (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 13.03.2013 n. 2659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire ha carattere vincolato, in quanto, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u. in materia di edilizia), può essere negato solamente per contrasto con disposizioni di legge, di strumenti urbanistici o di regolamenti edilizi.
Ne consegue che, a norma dell’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della legge sul procedimento, non è annullabile l’atto adottato in violazione di norme sul procedimento (tra cui va ricompresa quella di cui all’art. 10-bis dello stesso corpus normativo qualora l’atto stesso, per la sua natura vincolata, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.
Nel nuovo quadro sistematico normativizzato dall’art. 21-octies la violazione dell’art. 10-bis non produce ex se l’illegittimità del provvedimento terminale, dovendo il giudice valutare il contenuto sostanziale del provvedimento, e quindi non annullare l’atto nel caso in cui la violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato.

Deve essere anzitutto disattesa, nei termini che seguono, la censura con cui si deduce la violazione dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241 per omessa comunicazione del “preavviso di rigetto” anteriormente all’adozione del diniego del permesso di costruire.
Ed invero, secondo l’assunto anche di parte ricorrente, il permesso di costruire ha carattere vincolato, in quanto, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u. in materia di edilizia), può essere negato solamente per contrasto con disposizioni di legge, di strumenti urbanistici o di regolamenti edilizi.
Ne consegue che, a norma dell’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della legge sul procedimento, non è annullabile l’atto adottato in violazione di norme sul procedimento (tra cui va ricompresa quella di cui all’art. 10-bis dello stesso corpus normativo: così, tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 02.02.2009, n. 552) qualora l’atto stesso, per la sua natura vincolata, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso (in termini, in materia di permesso di costruire, TAR Veneto, Sez. II, 17.04.2008, n. 1000; TAR Lazio, Latina, 05.06.2007, n. 413).
Nel nuovo quadro sistematico normativizzato dall’art. 21-octies la violazione dell’art. 10-bis non produce ex se l’illegittimità del provvedimento terminale, dovendo il giudice valutare il contenuto sostanziale del provvedimento, e quindi non annullare l’atto nel caso in cui la violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato (Cons. Stato, Sez. II, 30.07.2009; TAR Toscana, Sez. II, 17.06.2009, n. 1058; TAR Umbria, 26.06.2009, n. 360)
(TAR Umbria, sentenza 08.04.2010 n. 236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, la quale costituisce installazione precaria e non incide in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio.
L’intervento in questione rientra, piuttosto nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., a mente dell'art. 22 del t.u. dell'edilizia, la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previsti dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità del medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ma con l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività.

La prima argomentazione a supporto dei provvedimenti impugnati fa riferimento al mancato rispetto delle formalità previste dal t.u. edilizia n. 380 del 2001 e al mancato rilascio del titolo abilitativo (autorizzazione) asseritamente occorrente per l’intervento.
Tali considerazioni non valgono a fondare la legittimità dei provvedimenti impugnati.
Va rilevata, innanzitutto, la genericità della motivazione del diniego di installazione (“l’intervento oggetto di comunicazione deve essere presentato come richiesta ai sensi del DPR 380/2001”) la quale, peraltro, appare incoerente rispetto al contenuto dispositivo dell’atto che considera la comunicazione dei proprietari come vera e propria istanza di parte (“per le motivazioni di cui sopra, la vostra richiesta è respinta”).
La mancanza di autorizzazione edificatoria non costituisce, in ogni caso, valida giustificazione dell’impugnato ordine di rimozione.
Le opere di recinzione del terreno non si configurano, infatti, come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, la quale costituisce installazione precaria e non incide in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio (cfr., fra le ultime, TAR Lazio, Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644).
L’intervento in questione rientra, piuttosto nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato della d.i.a., a mente dell'art. 22 del t.u. dell'edilizia, la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previsti dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità del medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ma con l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 15.02.2010 n. 950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppare irrilevante che la recinzione in esame (costituita da una semplice rete metallica e da paletti infissi nel terreno) sia stata eseguita senza nulla-osta in area vincolata, trattandosi di opera priva di apprezzabile impatto ambientale.
Un secondo ordine di considerazioni fa riferimento alla mancanza di autorizzazione paesaggistica.
Si osserva preliminarmente che non è contestata l’esistenza del vincolo, atteso che l’area interessata dall’intervento è pacificamente inclusa nella fascia di rispetto di 150 metri dalle sponde del torrente Orco.
Va quindi precisato, a confutazione dei rilievi di legittimità svolti dalla parte ricorrente, che l’erroneo riferimento normativo contenuto in entrambi i provvedimenti impugnati (è stato richiamato l’abrogato d.lgs. n. 490 del 1999, in luogo del vigente d.lgs. n. 42 del 2004) non vale certo ad inficiarne la legittimità, poiché i presupposti dei provvedimenti stessi sono riconducibili senza margini di incertezza alle disposizioni legislative che li regolano (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 19.12.2006, n. 2997).
Ciò premesso, appare irrilevante che la recinzione in esame (costituita, si ribadisce, da una semplice rete metallica e da paletti infissi nel terreno) sia stata eseguita senza nulla-osta in area vincolata, trattandosi di opera priva di apprezzabile impatto ambientale (cfr., in analoga fattispecie, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08.05.2007, n. 4821)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 15.02.2010 n. 950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere comunale di autotutela possessoria sulle strade vicinali richiede la sussistenza di requisiti di fatto (un passaggio esercitato “iure servitutis publicae” da una collettività di persone, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, l'esistenza di un titolo valido a fondamento del diritto di uso pubblico) che la parte ricorrente non ha fatto oggetto di contestazione, essendosi la deducente limitata a rimarcare le caratteristiche oggettive che imporrebbero di configurare l’arteria in questione come un semplice sentiero di campagna.
Tali caratteristiche, peraltro, non ne escludono la riconducibilità alla categoria delle strade, poiché l’art. 3 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, definisce il sentiero (o mulattiera o tratturo) come la strada a fondo naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di animali.

Rimane da considerare il terzo motivo posto a fondamento dei provvedimenti impugnati, riferito all’esistenza di una strada comunale che attraversa il fondo dei ricorrenti e che sarebbe stata interrotta dalla recinzione.
Il provvedimento ripristinatorio specifica ulteriormente, al riguardo, che l’esistenza della recinzione impedisce la regolare circolazione sulla strada e l’accesso a un tombino di derivazione dell’acqua potabile ivi esistente; il tombino è posto a servizio di un limitrofo fabbricato di proprietà di terzi, cosicché si verificherebbe nella specie l’interruzione del pubblico servizio di manutenzione dell’acquedotto.
Tale corredo motivazionale prescinde, quindi, da esigenze di tutela di valori urbanistici o ambientali e presuppone, invece, l’esercizio del potere comunale di autotutela possessoria sulle strade vicinali, finalizzato alla rimozione degli ostacoli che si frappongono all’uso pubblico delle strade, tuttora previsto dall’art. 15 del decreto legge luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446, convertito nella legge 17.04.1925, n. 473.
L'esercizio di tale potere richiede la sussistenza di requisiti di fatto (un passaggio esercitato “iure servitutis publicae” da una collettività di persone, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, l'esistenza di un titolo valido a fondamento del diritto di uso pubblico) che la parte ricorrente non ha fatto oggetto di contestazione, essendosi la deducente limitata a rimarcare le caratteristiche oggettive che imporrebbero di configurare l’arteria in questione come un semplice sentiero di campagna.
Tali caratteristiche, peraltro, non ne escludono la riconducibilità alla categoria delle strade, poiché l’art. 3 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, definisce il sentiero (o mulattiera o tratturo) come la strada a fondo naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di animali.
Né il potere comunale di autotutela esercitato nella fattispecie avrebbe potuto essere escluso dal diritto, riconosciuto dall’art. 841 cod. civ., del proprietario di chiudere il proprio fondo, poiché la facoltà di chiusura non può esercitarsi con modalità tali da impedire (o da rendere difficoltoso) l’esercizio della preesistente servitù
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 15.02.2010 n. 950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una recinzione costituita da semplice rete metallica e paletti infissi nel terreno non necessita di concessione edilizia, dal momento che non configura un’opera edilizia permanente, ma un manufatto di precaria installazione e di immediata asportazione.
Si tratta invece di opera sottoposta a semplice regime di Denuncia Inizio Attività, come tra l’altro espressamente stabilito dall’art. 4 L. n. 493/1993 (L. n. 662/1996).
Nessuno rilievo può avere, poi, il fatto che, nella specie, l’opera in questione sia stata realizzata in area vincolata, sia perché le richiamate disposizioni non pongono alcuna distinzione al riguardo (che pertanto non può essere posta dall’interprete), sia perché si tratta comunque di opere, per quanto sopra, prive di impatto ambientale.

Preliminarmente occorre chiarire, in punto di fatto, che le opere in questione consistono (alla luce della stessa istruttoria tecnica espletata dal Comune resistente) nella realizzazione, in area vincolata paesaggisticamente, di <<una recinzione costituita con 11 putrelle in ferro piantate nel terreno e recintate con 10 pannelli di rete elettrosaldata, legata alle putrelle con filo di ferro per una lunghezza totale di 15 metri circa>>.
Non si tratta quindi tout court di “pannelli” (come affermato in memoria dal Comune), ma di “pannelli di rete elettrosaldata”, come tali privi di qualsiasi impatto ambientale, posti unicamente a delimitazione della proprietà privata (come si evince altresì dalla perizia e dalla relativa documentazione fotografica allegata al ricorso).
Tanto chiarito, il Collegio ritiene, conformemente alla giurisprudenza formatasi sul punto, che la realizzazione di una recinzione costituita da semplice rete metallica e paletti infissi nel terreno (come appunto avvenuto nel caso di specie) non necessiti di concessione edilizia, dal momento che non configura un’opera edilizia permanente, ma un manufatto di precaria installazione e di immediata asportazione (cfr. TAR Emilia Romagna, Sez. II, n. 82/2007).
Si tratta invece di opera sottoposta a semplice regime di Denuncia Inizio Attività, come tra l’altro espressamente stabilito dall’art. 4 L. n. 493/1993 (L. n. 662/1996), nonché dall’art. 35 del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli.
Nessuno rilievo può avere, poi, il fatto che, nella specie, l’opera in questione sia stata realizzata in area vincolata, sia perché le richiamate disposizioni non pongono alcuna distinzione al riguardo (che pertanto non può essere posta dall’interprete), sia perché si tratta comunque di opere, per quanto sopra, prive di impatto ambientale.
Il Comune avrebbe dovuto quindi applicare la diversa sanzione prevista per la mancanza di Denuncia Inizio Attività (
TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 08.05.2007 n. 4821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 27.05.2013

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IN EVIDENZA

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: In merito ai cosiddetti "lavori di somma urgenza".
Il comma 3 dell’art. 191 dlgs n. 267/2000 risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi indicati dal terzo comma.
Allora, appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.

Diversamente, la presenza di fondi a tal fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.

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... il Sindaco del Comune di Riva Ligure chiede alla Sezione di controllo un parere in merito alla corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 191, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, (come modificato dall'art. 3, comma 1, lettera i), legge n. 213 del 2012), in base a cui “Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti, entro dieci giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.”
Il Sindaco chiede di conoscere se nel caso in cui per i lavori di somma urgenza i fondi previsti a bilancio siano sufficienti occorra seguire la procedura di cui all’art. 194 (riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio).
...
Quesito analogo era stato posto dalla provincia di La Spezia cui questa Sezione di controllo ha rilasciato parere con delibera n. 12 del 2013, dalle cui conclusioni questa Sezione non intende discostarsi.
Brevemente il Collegio, nel ripercorrere quanto già osservato nelle delibera suddetta, ritiene che non sia indifferente, al fine di un corretto percorso argomentativo, evidenziare l’allocazione della norma all’interno del TUEL. L’art. 191, difatti, fissa le “Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese” nel rispetto dei “Principi di gestione e controllo di gestione” (CAPO IV).
Il primo comma della norma citata individua l’ordinaria procedura di spesa per cui l’Ente può attivarsi solo se sussistono l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Solo dopo, il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista dalla legge,
il comma 3 dell’articolato normativo risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati
appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.
Diversamente, la presenza di fondi a tal fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto,
la deroga è una sorta di autorizzazione del legislatore con cui l’Ente può procedere a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare interessi primari e consentire, successivamente, attivare un percorso che consenta l’individuazione delle risorse da destinare alla copertura finanziaria dei lavori ordinati in via d’urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano trovarsi all’interno del bilancio dell’Ente non interessa al fine della corretta applicazione della norma.

Altro non farà l’Ente, in sede di riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio) del TUEL (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 22).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOConsulenze, no web no money. Senza pubblicazione non è possibile liquidare l'onorario. La Corte conti ha condannato un responsabile finanziario a una sanzione pari al compenso.
Il funzionario pubblico che liquida un compenso ad un consulente esterno, nonostante l'amministrazione non abbia ottemperato alla pubblicazione, sul proprio sito internet, del relativo provvedimento di conferimento, è soggetto, a titolo di responsabilità erariale, al pagamento di una sanzione pari al compenso pattuito.
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È quanto ha deciso la Sez. giurisdizionale della Corte dei Conti per la regione Molise, nel testo della recente sentenza 29.04.2013 n. 48, applicando, per la prima volta sul panorama giurisprudenziale, i precetti indicati dal legislatore all'articolo 1, comma 127, della legge finanziaria 2007 (come modificato dall'art. 3 comma 54, della finanziaria 2008), dirimendo la vicenda che ha visto convenuto in giudizio un responsabile finanziario di un comune molisano che aveva provveduto a liquidare il compenso a un soggetto esterno, non avendo preventivamente verificato la pubblicazione dell'incarico sulla pagina istituzionale dell'amministrazione comunale.
E nei fatti oggetto del giudizio in esame, al momento del pagamento, sulla home-page del comune non vi era alcuna traccia del provvedimento di incarico.
Come si ricorderà, la disposizione sopra richiamata impone che le p.a. che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso, sono tenute (è pertanto un obbligo e non certo una facoltà) a pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti completi di indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell'incarico e dell'ammontare erogato. La norma, poi, prevede che in caso di omessa pubblicazione, la liquidazione del corrispettivo per gli incarichi di collaborazione o di consulenza costituisca illecito disciplinare e determini la responsabilità erariale del dirigente preposto al pagamento.
Secondo il collegio giudicante della magistratura contabile molisana, la disposizione si mostra chiara e non necessita di alcuna interpretazione estensiva nel prevedere una responsabilità erariale per tutti quei casi in cui si provveda a liquidare gli incarichi di collaborazione, senza che si sia preventivamente pubblicato, sul sito della p.a., il provvedimento di incarico, completo dei dati che vanno nella direzione auspicata dei principi che devono regolare la massima trasparenza e pubblicità tra la pubblica amministrazione e il cittadino.
Entrando nel merito, sotto il profilo del danno, il collegio ha osservato che la responsabilità di cui sopra non implica necessariamente che si accerti la sussistenza di un danno patrimoniale (quindi di un depauperamento delle casse comunali). Pertanto, in queste ipotesi, occorrerà solamente verificare la semplice violazione della disposizione normativa, oltre ad accertare la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa grave (o del dolo, in alcuni casi) in capo al soggetto convenuto.
In particolare, ha aggiunto la Corte nella sua attenta disamina, deve essere chiarito che la norma violata, pur connotando l'illiceità della liquidazione del compenso in assenza dei necessari requisiti di pubblicità e trasparenza, non individua una specifica sanzione come conseguenza della violazione commessa. La sua quantificazione, quindi, è rimessa all'autonoma valutazione del giudice contabile.
Sotto il profilo soggettivo, è indubbio che la condotta del responsabile finanziario sia connotata da colpa grave, sia per la funzione apicale rivestita in seno all'ente locale sia perché la norma, al verificarsi della liquidazione delle spettanze (siamo nel novembre del 2009), era già in vigore da circa due anni (1/1/2008). La colpa grave, pertanto, è collegata all'inescusabilità dell'errore interpretativo su una norma sanzionatoria che, ammette il collegio, «si mostra estremamente chiara e inequivoca» o, in alternativa, alla mancata attivazione di un procedimento che avrebbe consentito al convenuto di accertare la regolare osservanza della norma.
Tuttavia, nella quantificazione del danno, rispetto alla richiesta della Procura, pari all'ammontare del compenso, liquidato in 3.900 euro, il collegio ha optato per un suo dimezzamento. In questo caso, infatti, trova applicazione l'istituto della «compensatio lucri cum damno», ovvero la detrazione dall'importo contestato dei vantaggi comunque ricevuti dall'amministrazione, grazie all'opera svolta dal consulente esterno (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Assunzione ai sensi della legge 12.03.1999, n. 68. Quote d'obbligo (nota 22.05.2013 n. 23580 di prot.).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

TRIBUTI: Oggetto: Novità attinenti il versamento della prima rata IMU ed alle relative modalità di calcolo (ANCE di Bergamo, circolare 24.05.2013 n. 125).

TRIBUTI: OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche recate dall’art. 10, comma 4, lett. b), del D.L. 08.04.2013, n. 35, in corso di conversione. Quesiti in materia di pagamento della prima rata dell’imposta relativa all’anno 2013 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 23.05.2013 n. 2/DF).

TRIBUTI: Decreto Ministero dell’Economia e delle Finanze del 14.05.2013 di approvazione del modello di bollettino di conto corrente postale concernente il versamento del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES) (IFEL, nota 21.05.2013).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIVi è un principio basilare nel nostro ordinamento, da lungo tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all’ente locale, deve assolvere ai compiti istituzionali avvalendosi delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto.
Detto principio costituisce, per jus receptum, il corollario del canone costituzionale di buona amministrazione (art. 97 Cost.) che impone alla pubblica amministrazione di uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità, economicità, efficienza ed imparzialità.
Tuttavia, la possibilità di far ricorso a personale esterno (esternalizzazione) è ammessa nei limiti e alle condizioni in cui la legge lo preveda.
Dalla lettura sistematica delle disposizioni che disciplinano il ricorso alle risorse esterne, e quindi dall’esegesi dell’art. 7 del d.lgs. 1993, n. 29, dell’ art. 110, comma 1, 2, e 6 del dlg. 267/2000 (con esclusivo riferimento ai comuni ed alla province), dell’art. 1, co. 11 e co. 116 della legge n. 311/2004, dell’art. 32 del d.l. 223/2006 e successivamente dell’art. 3, comma 76, della l. 244 del 2007, è dato cogliere un principio normativo di fondo che regola tutta la materia e cioè il conferimento di incarichi all’esterno, in qualunque delle ipotesi previste, è consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione organica non sia possibile reperire personale competente ad affrontare problematiche di particolare complessità od urgenza.
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Requisito imprescindibile della responsabilità amministrativo-contabile è la sussistenza del danno erariale.

Il legislatore si è occupato di disciplinare in dettaglio i presupposti legittimanti il ricorso alla collaborazione esterna così esprimendo a monte una valutazione di utilità; per cui è, oltreché illegittimo, assolutamente inutile qualsiasi conferimento di incarico che non rispetti i presupposti normativi.
In altri termini lo stesso legislatore subordina l’utilità dell’esternalizzazione a ferrei limiti legali, solo in presenza dei quali si giustifica l’esborso di denaro.

Ne consegue che tutti gli emolumenti erogati al M. costituiscono un danno all’erario del Comune di Serrata a prescindere dall’attività concretamente svolta da questi, poiché in ogni caso non può considerarsi utile atteso che avrebbe potuto, per come sopra evidenziato, essere svolta da soggetti interni all’amministrazione stessa.
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L’evento dannoso per cui è causa (ndr: illegittimo incarico professionale all'esterno dell'ente) è stato determinato non solo dalla condotta colposa degli odierni convenuti ma anche dal comportamento di soggetti che sono rimasti estranei al presente giudizio ed in particolare dal segretario comunale che ha reso parere favorevole di legittimità sulla deliberazione della giunta municipale con la quale è stato deciso il conferimento dell’incarico per cui è causa.
Conseguentemente, in ragione dell'art. 53, comma 3, l. n. 142 del 1990, di tale parere deve rispondere, a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa.
Peraltro il segretario comunale, che è un tecnico del diritto, svolge una specifica funzione di garante della legalità e della correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa, sicché non avrebbe dovuto rilasciare il parere favorevole proprio in considerazione della palese violazione dei parametri normativi.

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1) La questione posta al vaglio del Collegio riguarda una ipotesi di danno erariale relativo all’attribuzione di un incarico a soggetto estraneo all’ente comunale.
In particolare, parte requirente contesta agli odierni convenuti di aver conferito, con contratto di diritto privato a tempo determinato, la gestione operativa dell’attività contabile e tributaria del comune di Serrata al sig. Macrì, in assenza dei presupposti cui il legislatore subordina l’esternalizzazione.
2) In primo luogo si ritiene di dovere premettere alcune considerazioni, tenendo comunque presente che con la delibere richiamata in citazione è stato stipulato un contratto a tempo determinato in ragione dell’art. 110, comma 2° del Tuel.
Vi è un principio basilare nel nostro ordinamento, da lungo tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all’ente locale, deve assolvere ai compiti istituzionali avvalendosi delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto.
Detto principio costituisce, per jus receptum, il corollario del canone costituzionale di buona amministrazione (art. 97 Cost.) che impone alla pubblica amministrazione di uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità, economicità, efficienza ed imparzialità
(Corte dei conti, Sez. Sardegna, 18.09.2008, n. 1831; Corte dei conti, Sez. Lazio, 12.05.2008, n. 787).
Tuttavia, la possibilità di far ricorso a personale esterno (esternalizzazione) è ammessa nei limiti e alle condizioni in cui la legge lo preveda (Sez. controllo, 26.11.1991, n. 111; SS. RR., 23.06.1992, n. 792, e 12.06.1998, n. 27; Sez. II, 13.06.1997, n. 81, e 18.10.1999, n. 271).
Dalla lettura sistematica delle disposizioni che disciplinano il ricorso alle risorse esterne, e quindi dall’esegesi dell’ art. 7 del d.lgs. 1993, n. 29, dell’art. 110, comma 1, 2, e 6 del dlgs. 267/2000 (con esclusivo riferimento ai comuni ed alla province), dell’art. 1, co. 11 e co. 116 della legge n. 311/2004, dell’art. 32 del d.l. 223/2006 e successivamente dell’art. 3, comma 76, della l. 244 del 2007, è dato cogliere un principio normativo di fondo che regola tutta la materia e cioè il conferimento di incarichi all’esterno, in qualunque delle ipotesi previste, è consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione organica non sia possibile reperire personale competente ad affrontare problematiche di particolare complessità od urgenza.
3) Tanto premesso, come innanzi evidenziato, la disposizione di riferimento è contenuta nell’art. 110, comma 2, del d.lgs. 276/200, che consente, entro i limiti e seguendo i criteri e le modalità indicate nel regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, di stipulare contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva.
Anche detta disposizione, tuttavia, subordina il ricorso a risorse esterne solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente.
4) Ebbene, il Collegio non ritiene che l’incarico assegnato al Macrì sia stato conferito in presenza dei presupposti legittimanti.
In primo luogo occorre chiarire che le incombenze assegnate al suddetto avevano la forma di “operazioni amministrative”, e quindi avevano un esclusivo contenuto materiale.
Con riferimento all’attività contabile e tributaria, infatti, quando si parla di gestione operativa (soprattutto in un ente di ridottissime dimensioni), non può che farsi riferimento all’attività necessaria per portare ad esecuzione le già disposte decisioni amministrative, in termini di pagamenti delle spese e di riscossioni dell’entrate.
Trattasi, sostanzialmente di operazioni reali seguite dai doveri di annotazione nelle scritture contabili dell’ente delle operazioni svolte; compiti dunque aventi esclusivamente natura esecutiva.
Ebbene, dall’esame della pianta organica risulta che, all’epoca dei fatti, nell’Area Amministrativa nel Comune di Serrata vi era un posto (coperto) di istruttore amministrativo, categoria C, posizione economica C5 le cui mansioni erano perfettamente compatibili con “la gestione operativa dell’attività contabile e tributaria” di un paese di 1.000 abitanti circa.
L’istruttore amministrativo, infatti, secondo la declaratoria dei profili professionali di cui al CC.N.EE.LL. del 31/03/1999, svolge un’attività caratterizzata da contenuti di concetto con responsabilità di risultato relativi a specifici processi produttivi/ amministrativi, ha un’autonomia di iniziativa circoscritta al proprio ambito operativo tant’è che se posto nell’ambito di una organizzazione di medie dimensioni assume la funzione di capoufficio. E’ un lavoratore che svolge attività istruttoria nel campo amministrativo, tecnico e contabile, curando, nel rispetto delle procedure e degli adempimenti di legge ed avvalendosi delle conoscenze professionali tipiche del profilo, la raccolta, l’elaborazione e l’analisi dei dati.
Peraltro che le mansioni attribuite al Macrì fossero al massimo quelle proprie dell’istruttore amministrativo emerge senza alcun dubbio altresì ove si pongano a confronto con quelle proprie del funzionario, Istruttore Direttivo, categoria d (profilo immediatamente superiore alla cat. C) al quale, invece, è chiesto di espletare funzioni di elevato contenuto professionale che si concretizzano in attività di studio, di ricerca, di elaborazione di piani e programmi, di predisposizione e formazione di atti e provvedimenti di notevole grado di difficoltà.
Non solo; la Giunta Municipale aveva previsto in pianta organica, nell’area amministrativa, un posto di istruttore contabile, categoria C.
Tanto premesso,
si ritiene che le incombenze assegnate al ragioniere esterno avrebbero dovuto essere espletate dall’Istruttore amministrativo già presente nell’Area Amministrativa o addirittura, da altro dipendente (anche con profilo funzionale inferiore) mediante la progressione verticale.
Detto assunto, infatti, scaturisce dalla delibera dell’Organo giuntale avente ad oggetto “approvazione nuova dotazione organica e piano triennale delle assunzioni” nella quale viene chiaramente affermato “la copertura del posto di istruttore contabile è prevista mediante la progressione verticale”; la qualcosa lascia presumere che nell’ambito della dotazione organica vi fossero professionalità ,anche di profilo inferiore alla C, capaci di svolgere le funzioni assegnate all’esterno.
5) Tra l’altro, nella delibera con la quale si autorizza il sindaco al conferimento dell’incarico esterno, nessuna motivazione concreta viene formulata in ordine alla inesistenza di idonea professionalità nell’ambito dell’ente.
Nessun argomento, infatti, viene esternato in ordine alla eventuale inidoneità dell’istruttore amministrativo in organico a svolgere le mansioni esternalizzate Né risulta in altro modo che una tale valutazione sia stata concretamente svolta.
In proposito il Collegio condivide quanto affermato dalla Sezione Toscana, nella sentenza n 329/2009, e cioè che “non si può ignorare la necessità che tali valutazioni siano suffragate da serie e documentate azioni”.
6) Invero, l’attribuzione della gestione operativa dell’attività contabile e tributaria all’istruttore amministrativo in organico sarebbe stata altresì possibile in considerazione dell’esigua mole di lavoro conferita all’esterno; si consideri al riguardo che Il Macrì, secondo il contratto, avrebbe dovuto garantire almeno due accessi settimanali in ufficio; e per tuziorismo si evidenzia che le mansioni affidate al ragioniere potevano essere svolte solo in ufficio.
Ebbene, seppure l’istruttore fosse già impegnato all’Ufficio anagrafe (per come assunto dalla difesa), ben poteva svolgere anche detta ulteriore mansione anche solo in considerazione della modesta entità di lavoro che l’ ufficio anagrafe di un paesino di meno di 1000 abitanti è chiamato ad espletare.
7) Ma la illegittimità scaturisce anche da altra considerazione.
Il Macrì, contro ogni principio che disciplina l’esternalizzazione, è stato consulente contabile presso il comune di Serrata dal 1980 al 2002, ed incaricato all’Ufficio finanziario e tributario dal 2003 a tutt’oggi.
In sostanza il suddetto ragioniere, a dispetto di tutte le norme che regolano le procedure di reclutamento e di assunzione del personale nelle pubbliche amministrazioni, svolge attività lavorativa a favore del comune di Serrata da oltre trent’anni senza aver mai superato un concorso pubblico.
Tanto emerge sia dal curriculum vitae del Macrì che dalla deliberazione della Giunta municipale nella quale è espressamente dichiarato “che l’Ufficio di ragioneria si è avvalso del supporto del Rag. Macrì Tito da lungo tempo”.
Tanto premesso, l’incarico è stato conferito in assenza dei presupposti normativi.
8) Requisito imprescindibile della responsabilità amministrativo-contabile è, tuttavia, la sussistenza del danno erariale.
Il difensore dei convenuti oppone, in proposito, che l’amministrazione avrebbe comunque beneficiato delle prestazioni professionali rese dal Macrì.
Il Collegio tuttavia ritiene di non poter condividere detto assunto e di non poter configurare un’ipotesi di vantaggio derivante all’amministrazione locale.
Il legislatore, infatti, si è occupato di disciplinare in dettaglio i presupposti legittimanti il ricorso alla collaborazione esterna così esprimendo a monte una valutazione di utilità; per cui è, oltreché illegittimo, assolutamente inutile qualsiasi conferimento di incarico che non rispetti i presupposti normativi.
In altri termini lo stesso legislatore subordina l’utilità dell’esternalizzazione a ferrei limiti legali, solo in presenza dei quali si giustifica l’esborso di denaro.

Ne consegue che tutti gli emolumenti erogati al Macrì costituiscono un danno all’erario del Comune di Serrata a prescindere dall’attività concretamente svolta da questi, poiché in ogni caso non può considerarsi utile atteso che avrebbe potuto, per come sopra evidenziato, essere svolta da soggetti interni all’amministrazione stessa.
9) La Procura ha ritenuto di citare il Sindaco e gli assessori che hanno deliberato di conferire l’incarico al Macrì.
E’ fuori ogni dubbio che il danno testé configurato sia etiologicamente riconducibile alla condotta posta in essere dai suddetti soggetti.
Si consideri, infatti, che il Sindaco e gli assessori Sofi e Sorrento, con il provvedimento n. 4 del 07.01.2010, hanno deliberato il conferimento della gestione operativa dell’attività contabile e tributaria del comune di Serrata al rag. Macrì. Così come, il Sindaco, in ottemperanza a quanto disposto nella delibera giuntale, ha provveduto a conferire l’incarico.
Tutti atti illegittimi, per i motivi innanzi indicati e forieri del danno erariale per cui è causa.
10) Ma la condotta, oltre ad essere illecita è altresì connotata da colpa grave.
I suddetti, infatti, in spregio alle norme che regolano la materia con assoluta noncuranza dei parametri normativi (propri dell’azione amministrativa) dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità ed in violazione alle più elementari regole di buona amministrazione, hanno gestito con evidente negligenza e trascuratezza il patrimonio del Comune di Serrata.
Peraltro la gravità della colpa appare di tutta evidenza proprio in considerazione che detto incarico è stato conferito, senza soluzione di continuità, dal 2003 ad oggi.
Non solo; gli odierni convenuti ben conoscevano la dotazione organica nonché la previsione di copertura del posto di istruttore contabile mediante la progressione verticale: loro stessi, infatti, lo avevano deliberato nel 2009.
Un ulteriore elemento emerge dagli atti e cioè che il Comune di Serrata, da oltre venticinque anni utilizzava l’esternalizzazione per provvedere ai bisogni istituzionali dell’ente evidentemente considerando il ricorso a professionalità esterne come una prerogativa arbitraria propria degli amministratori.
In ogni caso, l’elemento che, a fortiori, convince il Collegio ad affermare la gravità della colpa nella condotta degli odierni convenuti, scaturisce dal fatto che il 05.03.2010, quindi appena due mesi dopo il conferimento, il gruppo consiliare “Nuovi orizzonti” chiedeva al Sindaco, alla Giunta Municipale ed al Segretario comunale, di revocare l’incarico al Macrì in considerazione dei molteplici profili di illegittimità.
Ebbene,
anche a fronte di una puntuale ed argomentata richiesta di revoca, i suddetti organi non hanno inteso prendere posizione, mantenendo, seppure avvisati della illegittimità, l’incarico al Macrì in spregio alle disposizioni che disciplinano la materia.
11) L’ultimo profilo da esaminare riguarda la ripartizione del danno evidenziando che “se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso” (art. 1-quater l. 20/1994 ).
Il Collegio ritiene innanzi a tutto che
l’evento dannoso per cui è causa è stato determinato non solo dalla condotta colposa degli odierni convenuti ma anche dal comportamento di soggetti che sono rimasti estranei al presente giudizio ed in particolare dal segretario comunale che ha reso parere favorevole di legittimità sulla deliberazione della giunta municipale con la quale è stato deciso il conferimento dell’incarico per cui è causa.
Conseguentemente, in ragione dell'art. 53, comma 3, l. n. 142 del 1990, di tale parere deve rispondere, a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa.
Peraltro il segretario comunale, che è un tecnico del diritto, svolge una specifica funzione di garante della legalità e della correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa, sicché non avrebbe dovuto rilasciare il parere favorevole proprio in considerazione della palese violazione dei parametri normativi.

Tanto premesso, il Collegio ritiene di dover imputare idealmente il 25% del danno erariale al segretario comunale non citato e di ripartire il restante 75% in parti uguali tra il sindaco (Vinci Salvatore) e gli altri due membri della giunta municipale presenti alla seduta del 07.01.2010 (Sofi Angelo e Sorrenti Gioacchino) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, sentenza 10.05.2013 n. 159).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONon è ammissibile la partecipazione di membri del Consiglio Comunale al sistema dei controlli interni disciplinato dagli articoli 147 e seguenti del dlgs 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.), introdotti dall’articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni con legge 07.12.2012 n. 213.
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... il Sindaco del Comune di Cervo, dopo aver premesso che lo specifico regolamento comunale vigente in materia prevede che al sistema dei controlli partecipino il segretario comunale, i responsabili dei servizi e l’unità organizzativa appositamente istituita, chiede se il regolamento stesso possa essere legittimamente modificato nel senso di ammettere la possibilità della partecipazione a tale sistema anche di membri del Consiglio Comunale.
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Nel merito,
questa Sezione ritiene di riservare al quesito una soluzione negativa, nel senso cioè della inammissibilità della partecipazione di membri del Consiglio Comunale al sistema dei controlli interni disciplinato dagli articoli 147 e seguenti del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.), introdotti dall’articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni con legge 07.12.2012 n. 213.
Alla conclusione si perviene già in base alla stessa lettera del nuovo art. 147 T.U.E.L. che al quarto comma individua distintamente i soggetti coinvolti in tale sistema nelle figure organizzative di maggior livello di responsabilità presenti negli enti, quali il segretario comunale, il direttore generale e i responsabili dei servizi, oltre che nelle unità amministrative di controllo eventualmente istituite. Nei successivi articoli da 147-bis a 147-quinquies sono poi contenute norme che definiscono con maggior precisione il ruolo di ciascuno di tali soggetti con riguardo alle diverse tipologie di controllo interno e che non lasciano spazio all’inserimento di ulteriori figure soggettive con proprie specifiche competenze, fatta salva l’eccezione rappresentata dal coinvolgimento attivo degli organi di governo nel controllo sugli equilibri finanziari di cui all’art. 147-quinquies, il quale peraltro avviene sotto la direzione e il coordinamento del responsabile del servizio finanziario e che comunque non riguarda i consiglieri comunali.
La suddetta elencazione normativa dei soggetti che partecipano al sistema dei controlli interni deve pertanto considerarsi tassativa, ferma restando l’autonomia normativa ed organizzativa di ciascun ente in ordine alla puntuale disciplina del medesimo.
D’altro canto, che tale spazio di autonomia riservata agli enti non possa essere in questo ambito esercitato fino a ricomprendere specifiche competenze in capo ad organi aventi natura politica quali i componenti del Consiglio Comunale è conclusione che discende dallo stesso principio generale di separazione tra funzioni di indirizzo politico esercitate da organi elettivi o rappresentativi e funzioni amministrative e di gestione attribuite ad organi burocratici, principio cui fa per giunta riferimento il primo periodo dello stesso art. 147, co. 4, T.U.E.L. già citato e al quale gli enti sono tenuti a conformarsi nel tracciare la disciplina del sistema dei controlli.
Occorre precisare al riguardo che i controlli interni di cui si verte in questa sede appartengono evidentemente alla generale categoria dei controlli “amministrativi” nelle pubbliche amministrazioni, nella quale sono ricomprese tutte le varie forme di controllo che hanno comunque ad oggetto atti o attività poste in essere da organi o uffici amministrativi di un ente. Come tali essi stessi sono esplicazione di attività propriamente amministrativa, sia pur di carattere accessorio e strumentale rispetto a quella di amministrazione attiva nonché svolta attraverso procedimenti definiti di secondo grado, il cui esercizio è in genere precluso agli organi di natura politica quali sono anche i membri del Consiglio Comunale. Siffatti organi figurano piuttosto tra i soggetti referenti e beneficiari delle risultanze delle attività di controllo espletate all’interno dell’apparato amministrativo, come nel nostro caso emerge dalle stesse norme qui considerate (cfr. art. 147-bis, co. 3 e art. 147-ter, co. 2, T.U.E.L.).
Va infine rammentato che nel vigente ordinamento degli enti locali di certo non manca la previsione di altri strumenti giuridici a disposizione dei membri del consiglio comunale, finalizzati a garantire il pieno soddisfacimento delle esigenze informative e cognitive connesse all’adempimento del loro ufficio.
Oltre al potere singolarmente riconosciuto dall’articolo 43, comma primo, T.U.E.L. di presentare interrogazioni e mozioni all’esame del Consiglio, potere in cui è connaturata una funzione di sindacato politico che può estendersi allo svolgimento delle funzioni amministrative da parte di sindaco e giunta, ci si riferisce soprattutto al cosiddetto diritto di accesso sancito dal secondo comma dello stesso articolo, in base al quale ciascun consigliere ha il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Tale istituto è stato oggetto di ampia trattazione da parte della giurisprudenza amministrativa la quale, oltre a rilevarne la natura propriamente funzionale rispetto all’interesse pubblico perseguito dal singolo consigliere quale organo di rappresentanza esponenziale della collettività amministrata, ne ha anche rilevato l’esteso oggetto di applicazione, specificando tra l’altro che il diritto di accesso può investire tutti gli atti necessari a consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. V, 02.04.2001, n. 1893) e che tutto ciò che concerne l’attività della pubblica amministrazione in cui è incardinato il consigliere comunale non può non essere messo a sua disposizione in virtù della sua funzione a tutela della collettività (Cons. Stato, sez. V, 23.09.2010, n. 7083) (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 35).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Deve essere riconosciuto al R.U.P. il diritto ad una quota parte dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione ed esecuzione dell’opera.
La corresponsione del medesimo peraltro dovrà essere subordinata all’esistenza del regolamento con cui il Comune fissi preventivamente la percentuale effettiva da corrispondere, in rapporto all’entità e complessità dell’opera da realizzarsi.

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... il Sindaco del Comune di Cairo Montenotte ha inviato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, una richiesta di parere sulla possibilità di corrispondere al tecnico comunale la quota spettante, ai sensi dell’art. 925 D.Lgs. 163/2006, al Responsabile Unico del Procedimento per l’attività svolta nella realizzazione di un’opera pubblica la cui progettazione ed esecuzione è stata affidata a professionisti esterni in conseguenza dell’oggettiva complessità della prestazione richiesta, indicando come sul punto si siano già espresse le Sezioni Regionali di Controllo dell’Umbria e del Piemonte.
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2. La questione di merito. La giurisprudenza di controllo
L’ art. 925 D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 stabilisce che <<una somma non superiore all’importo del due per cento dell’importo posto a base di un’opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione è ripartita, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall’amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. … La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti … Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie>>.
Il Comune di Cairo Montenotte chiede di sapere se sia applicabile tale disposizione nell’ipotesi in cui un tecnico comunale abbia svolto le funzioni di Responsabile Unico del Procedimento finalizzato alla realizzazione di un’opera pubblica mentre tutte le altre fasi di progettazione ed esecuzione della medesima siano state affidate a professionisti esterni.
L’interpretazione positiva è sostenuta da C.d.C. Sez. contr. Umbria
con il parere 17.01.2012 n. 3, che richiama le determinazioni dell’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici 12.04.2001 e 22.06.2005 n. 70, ritenendo sufficiente la sola esistenza del regolamento con cui l’Ente fissi preventivamente la percentuale effettiva dell’incentivo da corrispondere.
In senso opposto C.d.C. Sez. contr. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290, ritiene che il Responsabile del procedimento abbia diritto al compenso incentivante qualora effettivamente l’attività di progettazione o esecuzione sia stata svolta internamente. Diversamente, nel caso in cui queste ultime siano state esternalizzate, <<non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’Ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio>>.
3. La valutazione della Sezione sulla questione sottoposta.
La soluzione del quesito proposto presuppone la preventiva analisi del ruolo assolto dal Responsabile unico del procedimento, il quale svolge una funzione pregnante all’interno del medesimo, gestendone le varie fasi, assicurando il contraddittorio con le parti private e il coordinamento con gli uffici interni. Tali compiti assumono particolare rilevanza nell’ambito delle procedure di affidamento di opere o servizi. Ciò è confermato dal fatto che anche in caso di incarichi di progettazione o pianificazione a soggetti esterni deve essere nominato comunque un Responsabile unico che coordini le diverse attività svolte dagli incaricati.
Tale considerazione induce a ritenere che
debba essere riconosciuto a tale figura il diritto ad una quota parte dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione ed esecuzione dell’opera. La corresponsione del medesimo peraltro dovrà essere subordinata all’esistenza del regolamento con cui il Comune fissi preventivamente la percentuale effettiva da corrispondere, in rapporto all’entità e complessità dell’opera da realizzarsi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 18.04.2013 n. 18).

APPALTI FORNITURE E SERVIZINei confronti dei comuni montani fino a 5.000 abitanti trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, da cui discende l’obbligo di affidare la gestione delle gare ad evidenza pubblica ad un'unica centrale di committenza, in assenza della quale essi devono avvalersi, per gli acquisti di rilevanza comunitaria, delle convenzioni Consip e di quelle messe a disposizione da altre centrali di riferimento, ferma restando la specificità della disciplina contemplata dall’art. 1, comma 7, del più volte citato d.l. n. 95/2012 riguardo ad alcune categorie merceologiche di beni e servizi (energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile) ritenute di particolare rilevanza per il contenimento della spesa pubblica.
Resta da dire, per completezza, che le conclusioni raggiunte restano ferme anche a seguito delle innovazioni apportate dalla l. 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), i cui commi 149 e 150 hanno ancora modificato, rispettivamente, i commi 450 e 449 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, e il cui comma 154 ha integrato l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 95/2012, come modificato in sede di conversione.
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L
’obbligo prescritto dal comma 3-bis dell’art. 33 del Codice dei contratti pubblici di ricorrere al mercato della pubblica amministrazione, in assenza di una centrale unica e di strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza, pure regionali, investe senz’altro le acquisizioni di valore inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria.
La stringente formulazione della norma non sembra ammettere eccezioni all’obbligo di acquisizione tramite mercato elettronico, fatta salva l’applicazione –diretta o analogica– della disposizione di cui al secondo periodo del comma 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, che prevede il ricorso ad esso “fermi restando gli obblighi … previsti al comma 449”, con ciò intendendo che,
nel caso in cui sia disponibile una convenzione Consip (o regionale), il bene o il servizio può essere acquisito a mezzo del mercato elettronico a condizione che sia comprovato il rispetto dei parametri di prezzo e qualità ivi indicati. Del resto, il citato art. 328 del Regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici prevede (comma 4, lettera b) la possibilità di acquistare sul mercato elettronico ricorrendo alle procedure in economia.
In questo assetto, le uniche ipotesi in cui possono ritenersi consentite procedure autonome sono quelle che si realizzano nel caso di assenza di disponibilità sul mercato elettronico del bene o del servizio da acquisire e nel caso di inidoneità dell’uno o dell’altro alle esigenze dell’amministrazione per mancanza di qualità essenziali.

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... la richiesta di parere della Sezione di controllo, formulata dai Sindaci dei comuni di Brusson, Donnas, Montjovet, Pont-Saint-Martin e Valtournenche, in merito all’applicabilità delle disposizioni relative all’obbligo di approvvigionamento di beni e servizi a mezzo delle convenzioni e del mercato elettronico della pubblica amministrazione della Consip s.p.a. e di altre centrali di committenza ai comuni montani aventi popolazione non superiore a 5000 abitanti.
Il quesito propone le seguenti problematiche:
a) se, nei confronti dei comuni montani con meno di 5.000 abitanti, trovi applicazione l’art. 33, comma 3-bis, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture);
b) se la disposizione ivi recata abbia a oggetto i soli contratti di rilevanza comunitaria o si estenda anche ai contratti sotto la soglia di rilevanza comunitaria.
...
9.- La richiesta di parere formulata dalle amministrazioni comunali di Brusson, Donnas, Montjovet, Pont-Saint-Martin e Valtournenche propone la soluzione dei seguenti quesiti:
a) se, nei confronti dei comuni montani con popolazione fino a 5.000 abitanti, trovi applicazione o meno la disciplina contenuta nel comma 3-bis dell’art. 33 del d.lgs. n. 163/2006, in forza della quale i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, devono effettuare i propri acquisti tramite un’unica centrale di committenza costituita a livello locale o attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza e il mercato elettronico della pubblica amministrazione;
b) se, in caso affermativo, le disposizioni ivi recate abbiano a oggetto anche le acquisizioni di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria.
Riguardo al primo quesito, le amministrazioni richiedenti hanno rappresentato che a distinte conclusioni potrebbe giungersi attribuendo rilievo prevalente alla lettera della norma, che fa riferimento ai comuni con popolazione non superiore ai 5.000 abitanti, senza distinzioni di sorta, o al coordinamento di tale norma –introdotta dal comma 4 dell’art. 1 del d.l. 06.07.2012, n. 95, come modificato, in sede di conversione, dall’art. 1, comma 1, della l. 07.08.2012, n. 135 [rectius: introdotta dal comma 4 dell’art. 23 del d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito dalla l. 22.12.2011, n. 214, e modificata dal comma 4 dell’art. 1 del d.l. n. 95/2012, come modificato dalla legge di conversione]– con quella contenuta nel comma 1 di tale articolo, la quale, nel regolamentare le conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle procedure di acquisto di beni e servizi, ricollega tali conseguenze alla violazione dell’art. 26, comma 3, della l. 23.12.1999, n. 488 (legge finanziaria 2000), che espressamente esclude dal proprio ambito di applicazione i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e quelli montani con popolazione fino a 5.000 abitanti.
Riguardo al secondo quesito, le amministrazioni istanti hanno evidenziato che la norma della cui applicabilità dubitano trova collocazione nella parte del Codice dei contratti pubblici che disciplina i contratti di rilevanza comunitaria.
Tanto premesso, esse hanno prospettato che i comuni montani con popolazione non superiore a 5.000 abitanti siano soggetti all’obbligo di affidamento a un’unica centrale di committenza, potendo alternativamente effettuare acquisti tramite il mercato elettronico, per i contratti di rilevanza comunitaria, e che, per i restanti contratti, non trovi applicazione nei loro confronti il sistema delle convenzioni e del mercato elettronico, con l’avvertenza, sotto quest’ultimo aspetto, che diversa sembra essere l’impostazione seguita dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte della Corte dei conti (del. n. 271/2012), dalla quale deriverebbe una riduzione dell’ambito di non applicabilità del sistema agli affidamenti diretti e alle acquisizioni mediante amministrazione diretta.
10.- L’acquisto di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche è stato oggetto, a partire dal 1999, di numerosi interventi del legislatore statale, indotto a razionalizzare le relative procedure da esigenze di contenimento della spesa pubblica.
Appare pertanto opportuno, al fine di ricondurre a sistema la materia, ripercorrere sinteticamente le principali fasi del processo di riforma.
11.- La centralizzazione degli acquisti delle amministrazioni pubbliche ha preso avvio con l’art. 26 della l. n. 488/1999. La disciplina originaria, nel prevedere l’adesione necessaria delle amministrazioni statali alle convenzioni centralizzate, lasciava alla disponibilità di quelle non statali, tra cui quelle locali, la scelta di aderirvi o meno, obbligandole, peraltro, a utilizzarne i parametri di qualità e prezzo per l’acquisto di beni comparabili con quelli oggetto di convenzionamento.
Succedutisi altri interventi normativi con le leggi finanziarie degli anni immediatamente successivi, il legislatore ha nuovamente riformulato il comma 3 dell’art. 26 con il d.l. 12.07.2004, n. 168, nel testo integrato dalla legge di conversione 30.07.2004, n. 191, aggiungendo in particolare la previsione secondo cui “le disposizioni che danno facoltà alle amministrazioni non statali di avvalersi delle convenzioni stipulate dalla centrale di committenza nazionale (Consip s.p.a.), imponendo loro di utilizzare i parametri di qualità e prezzo ivi previsti come limiti massimi in caso di acquisti effettuati in proprio, non si applicano ai comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e a quelli montani con popolazione fino a 5.000 abitanti”.
12.- A seguito di ulteriori modifiche della disposizione appena riportata, introdotte dall’art. 1, comma 4, del d.l. 12.07.2004, convertito, con modificazioni, dalla l. 30.07.2004, n. 191, la materia veniva ridisciplinata dalla l. 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007).
Il comma 449 dell’art. 1 di tale legge, riferito alle commesse di importo comunitario, stabiliva, al primo periodo, l’obbligo delle amministrazioni statali di approvvigionarsi attraverso le convenzioni-quadro Consip, limitatamente ad alcune tipologie di beni e servizi, da individuarsi annualmente con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze; il secondo periodo ribadiva la facoltà delle restanti amministrazioni pubbliche di ricorrere alle convenzioni –quelle stipulate da Consip o quelle stipulate dalle centrali di committenza regionali, introdotte dal comma 456 dell’art. 1 della legge stessa– e il vincolo di utilizzarne alternativamente i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti.
Al riguardo, pare opportuno evidenziare che tale periodo si riferiva indistintamente –come si è accennato– alle “restanti amministrazioni pubbliche di cui al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165”, delle quali fanno parte gli enti locali, sicché non parrebbe destituito di fondamento ritenere che l’esclusione dei comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e di quelli montani con popolazione fino a 5.000 abitanti dall’applicazione della norma di cui all’art. 26, comma 3, della l. n. 488/1999 fosse stata da esso implicitamente superata.
Il comma 450, relativo agli acquisti sotto la soglia di rilievo comunitario, imponeva, a sua volta, alle amministrazioni dello Stato di ricorrere al mercato elettronico della pubblica amministrazione, nulla disponendo riguardo alle altre amministrazioni.
I commi 449 e 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006 sono stati modificati dall’art. 7 del d.l. 07.05.2012, n. 52, come sostituito dalla legge di conversione 06.07.2012, n. 94. Mentre il primo comma dell’art. 7 ha modificato il comma 449, estendendo l’obbligo di approvvigionamento attraverso le convenzioni-quadro Consip a tutte le tipologie di beni e servizi che devono essere acquistati dalle amministrazioni statali, il secondo comma ha innovato la disciplina prevista dal comma 450 per le amministrazioni diverse da quelle statali, e dunque anche per le autonomie locali, cui è stato imposto di fare ricorso al mercato della pubblica amministrazione, analogamente alle amministrazioni dello Stato, ovvero ad altri mercati elettronici, fatto salvo il rispetto del sistema delle convenzioni previsto nel ridetto comma 449.
13.- Peraltro, la norma ora richiamata è stata preceduta dal d.l. n. 201/2011, convertito dalla l. n. 214/2011, il cui art. 23, comma 4, ha aggiunto all’art. 33 del Codice dei contratti pubblici il comma 3-bis, con il quale è stato stabilito che “i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32 del testo unico di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici”.
Alla disposizione così introdotta, finalizzata –secondo quanto precisato nella relazione tecnica al decreto-legge– a superare, attraverso l’imposizione del divieto ai piccoli comuni di gestire autonomamente le procedure di evidenza pubblica, la frammentazione degli appalti e a ridurre, conseguentemente, i costi di gestione dei relativi procedimenti, è stata aggiunta quella di cui al comma 4 dell’art. 1 del d.l. 06.07.2012, n. 95, come modificato dalla legge di conversione 07.08.2012, n. 135, a termini del quale “in alternativa, gli stessi comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 1999, n. 448, e il mercato elettronico della pubblica amministrazione”.
Nella relazione tecnica che accompagna il d.d.l. di conversione del decreto-legge viene affermato che l’utilizzo, da parte dei piccoli comuni (quelli con popolazione non superiore a 5.000 abitanti), degli strumenti elettronici di acquisto gestiti dalle centrali di committenza vale quale adempimento dell’obbligo di acquistare attraverso un’unica centrale di committenza, consentendo loro di superare le difficoltà di aggregazione che possono incontrare.
La norma autorizza, pertanto, espressamente i piccoli comuni ad avvalersi degli strumenti già previsti in generale per le amministrazioni pubbliche non statali, tra cui quelle locali, dalle disposizioni di cui ai commi 449 e 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006; il che costituisce anche un vincolo in caso di mancata costituzione della centrale unica di committenza.
Significativo appare, in questa prospettiva, il richiamo, operato dalla norma, alle convenzioni di cui all’art. 26 della l. n. 488/1999: se, infatti, per effetto della norma in questione, ai comuni fino a 5.000 abitanti è stata accordata la possibilità, tra le altre, di avvalersi di quelle stesse convenzioni, dal cui utilizzo erano stati esclusi dalla legge da ultimo citata i comuni fino a 5.000 abitanti e quelli montani fino a 1.000, se ne può dedurre –a non voler accedere alla tesi secondo cui l’estromissione fosse già venuta meno– che l’esclusione dall’applicazione del disposto di tale articolo dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti e dei comuni montani con popolazione fino a 1.000 abitanti sia stata da tale norma superata, sostanzialmente uniformando la disciplina degli acquisti delle amministrazioni locali (e, più in generale, delle amministrazioni pubbliche non statali), sulla base dell’assunto che un sistema centralizzato di acquisti contribuisce al risanamento della finanza pubblica.
14.- In questo contesto,
il riferimento alla violazione dell’art. 26, comma 3, della l. n. 448/1999, contenuto nella norma introdotta dal comma 1 dello stesso articolo che ha integrato, nei termini anzidetti, il comma 3-bis del Codice dei contratti pubblici (invocato dagli enti richiedenti a sostegno di una possibile interpretazione volta a estromettere i comuni di montagna con popolazione fino a 5.000 abitanti dal campo di applicazione della norma ivi recata), norma peraltro riproduttiva in parte di precetti già esistenti, va semplicemente inteso, a giudizio della Sezione, nel senso che gli effetti sanzionatori determinati dalla stipulazione di contratti in violazione delle disposizioni di cui all’art. 26, comma 3 (nullità dei contratti, responsabilità disciplinare, responsabilità amministrativa: conseguenze identiche, queste, a quelle previste in caso di contratti stipulati in violazione dell’obbligo di acquisizione mediante gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip s.p.a.), si producono in capo alle amministrazioni assoggettate all’applicazione di tali disposizioni in base alla normativa vigente.
Per quanto sopra esposto, la Sezione ritiene, conclusivamente, che
nei confronti dei comuni montani fino a 5.000 abitanti trovino applicazione le disposizioni di cui all’art. 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, da cui discende l’obbligo di affidare la gestione delle gare ad evidenza pubblica ad un'unica centrale di committenza, in assenza della quale essi devono avvalersi, per gli acquisti di rilevanza comunitaria, delle convenzioni Consip e di quelle messe a disposizione da altre centrali di riferimento, ferma restando la specificità della disciplina contemplata dall’art. 1, comma 7, del più volte citato d.l. n. 95/2012 riguardo ad alcune categorie merceologiche di beni e servizi (energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile) ritenute di particolare rilevanza per il contenimento della spesa pubblica.
Resta da dire, per completezza, che le conclusioni raggiunte restano ferme anche a seguito delle innovazioni apportate dalla l. 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), i cui commi 149 e 150 hanno ancora modificato, rispettivamente, i commi 450 e 449 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, e il cui comma 154 ha integrato l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 95/2012, come modificato in sede di conversione.

15.- Quanto al tema della riferibilità della disciplina ai contratti c.d. sotto soglia, le amministrazioni richiedenti hanno prospettato la tesi della non applicabilità, nei confronti dei comuni (montani) fino a 5.000 abitanti, del sistema delle convenzioni Consip e del mercato della pubblica amministrazione, come disciplinati dal comma 3-bis dell’art. 33, fondando tale tesi –oltre che sull’art. 1, comma 1, del d.l. n. 95/2012, come modificato in sede di conversione, della cui portata si è già detto– sulla collocazione della norma nella parte del Codice relativa ai contratti di rilevanza comunitaria.
In effetti, la disciplina in questione è situata nel Titolo I (Contratti di rilevanza comunitaria) della Parte II (contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture nei settori ordinari) del Codice. Tuttavia, l’art. 121, ubicato nel Titolo II, dedicato ai contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, stabilisce che a questi si applicano, tra le altre, le disposizioni contenute nella Parte II, in quanto non derogate dalle norme dello stesso Titolo II.
Muovendo da questa premessa, la Sezione di controllo per il Piemonte, nella deliberazione richiamata dai richiedenti, ha ritenuto, basando il proprio orientamento anche sul dato contenuto nell’art. 23, comma 5, del d.l. n. 201/2011 –il quale, nel determinare il termine a partire dal quale trova applicazione l’obbligo di gestione associata, si riferisce alle “gare bandite successivamente al 31.03.2012” (termine poi prorogato dall’art. 29, comma 11-ter, del d.l. 29.12.2011, n. 216, al 31.03.2013), sembrava ancorare tale obbligo alle ipotesi in cui esiste un confronto concorrenziale tra i partecipanti–, che, dovendo qualificarsi come gare, secondo le disposizioni codicistiche, anche le procedure di affidamento in economia mediante cottimo fiduciario, restassero escluse le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta e le altre ipotesi in cui le norme consentono, eccezionalmente, la negoziazione diretta.
16.- Pur condividendosi il percorso argomentativo seguito e le conclusioni raggiunte nella menzionata deliberazione in relazione alla fattispecie ivi scrutinata, occorre considerare che, nel frattempo,
il quadro normativo di riferimento è significativamente mutato, per essere intervenuti, da un lato, il nuovo testo del comma 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, che, come si è detto, ha introdotto l’obbligo per le amministrazione diverse da quelle delle Stato di fare ricorso al mercato della pubblica amministrazione, ovvero ad altri mercati elettronici (fatto salvo il rispetto del sistema delle convenzioni previsto nel comma precedente); dall’altro lato, la seconda parte del comma 3-bis dell’art. 33, che, nell’individuare le alternative alla centrale unica, ha espressamente richiamato –oltre agli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza– il mercato della pubblica amministrazione, che costituisce uno strumento utilizzabile soltanto per approvvigionamenti di importo inferiore alla soglia comunitaria (art. 328 d.p.r. 05.10.2010, n. 207).
Di qui la conclusione che –indipendentemente dalla collocazione della norma– a seguito dell’emanazione delle predette disposizioni,
l’obbligo prescritto dal comma 3-bis dell’art. 33 del Codice dei contratti pubblici di ricorrere al mercato della pubblica amministrazione, in assenza di una centrale unica e di strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza, pure regionali, investe senz’altro le acquisizioni di valore inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria.
Rimane da precisare che la stringente formulazione della norma non sembra ammettere eccezioni all’obbligo di acquisizione tramite mercato elettronico, fatta salva l’applicazione –diretta o analogica– della disposizione di cui al secondo periodo del comma 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, che prevede il ricorso ad esso “fermi restando gli obblighi … previsti al comma 449”, con ciò intendendo che,
nel caso in cui sia disponibile una convenzione Consip (o regionale), il bene o il servizio può essere acquisito a mezzo del mercato elettronico a condizione che sia comprovato il rispetto dei parametri di prezzo e qualità ivi indicati. Del resto, il citato art. 328 del Regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici prevede (comma 4, lettera b) la possibilità di acquistare sul mercato elettronico ricorrendo alle procedure in economia.
In questo assetto,
le uniche ipotesi in cui possono ritenersi consentite procedure autonome sono quelle che si realizzano nel caso di assenza di disponibilità sul mercato elettronico del bene o del servizio da acquisire e nel caso di inidoneità dell’uno o dell’altro alle esigenze dell’amministrazione per mancanza di qualità essenziali (Corte dei Conti, Sez. controllo Valle d'Aosta, parere 29.03.2013 n. 7).

NEWS

TRIBUTIImprese, acconto Imu leggero. Si paga con l'aliquota (anche ridotta) vigente nel 2012. Circolare del Mineconomia sulle modifiche in corso di approvazione con il dl 35.
Acconto Imu più semplice per gli immobili delle imprese. E anche più soft, rispetto a quanto si sarebbe dovuto pagare quest'anno, in quei comuni (pochi a dire il vero) che avevano deciso di ritoccare al ribasso l'aliquota standard dello 0,76 per mille (dal 2013 modificabile solo al rialzo).
È uno dei chiarimenti forniti dalle Finanze con la circolare 23.05.2013 n. 2/DF.
L'aumento da 60 a 65 del moltiplicatore per il calcolo della base imponibile si applicherà già dall'acconto del 17 giugno, e questo certamente produrrà un aggravio di imposta (+8,3%).
Ma gli immobili di categoria catastale D, al pari di tutti gli altri non esentati dall'acconto, pagheranno la prima rata dell'Imu sulla base dell'aliquota vigente nel 2012 anche se questa risulta inferiore rispetto a quella standard fissata dalla legge di stabilità 2013 allo 0,76% (elevabile di un ulteriore 0,3% da parte dei comuni). La ragione è chiara: semplificare l'acconto di giugno applicando a 360 gradi la novità contenuta in un emendamento al decreto legge sui debiti della p.a. (dl 35/2013) introdotto alla camera ai sensi del quale il versamento della prima rata dell'Imu va eseguito «sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente» senza tenere conto per il momento delle delibere che i comuni devono pubblicare sul sito delle Finanze entro il 16 maggio di ogni anno.
Si tratta di una norma di semplificazione non ancora formalmente in vigore, perché il dl 35 nel testo modificato da Montecitorio non è ancora stato definitivamente approvato (dovrà essere convertito in legge entro il 7 giugno). Ma di cui non si può non tenere conto visto il brevissimo tempo (solo 10 giorni) a disposizione dei contribuenti tra la dead-line del 7 giugno e la scadenza dell'acconto. La volontà di stabilire un trattamento uniforme a vantaggio dei contribuenti ha così prevalso sulle esigenze dello stato (a cui andrà il gettito dell'Imu su fabbricati D) che così facendo ha rinunciato ad applicare sin dall'acconto le nuove aliquote stabilite dalla legge n. 228/2012.
Nella circolare il Mef tranquillizza i contribuenti: chi pagherà l'acconto Imu calcolando il tributo «sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente» ancor prima della conversione in legge del dl n. 35 del 2013 potrà appellarsi al principio stabilito dall'art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente che sterilizza l'applicazione di sanzioni quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria.
Nessuno impedisce, comunque, ai contribuenti di procedere al pagamento della prima rata seguendo la norma in vigore.
L'emendamento approvato può dar luogo a complicazioni procedurali in danno del contribuente che si trovi in particolari situazioni, come chi, ad esempio, nel 2013, destina un immobile ad abitazione principale diversamente dall'anno precedente. In tal caso sarebbe assurdo richiedere al contribuente il pagamento dell'Imu sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi dell'anno precedente, giacché il versamento della prima rata dell'Imu è sospeso. Lo stesso dicasi per il caso in cui il contribuente possiede un'area fabbricabile che nel 2013 diventa terreno agricolo: anche il tale ipotesi il versamento della prima rata dell'Imu è sospeso. Viceversa, nel caso in cui il terreno agricolo, nel 2013, diventa area edificabile, la prima rata dell'Imu dovrà essere calcolata applicando l'aliquota prevista per tale fattispecie per l'anno 2012.
Altre particolari fattispecie possono verificarsi quando, ad esempio, il contribuente:
- ha acquistato un immobile, non destinato ad abitazione principale, il 01.10.2012: entro il 17.06.2013, dovrà calcolare l'Imu dovuta per l'anno 2013 sulla base dell'aliquota dei 12 mesi dell'anno precedente, indipendentemente dalla circostanza che nell'anno 2012 abbia avuto il possesso dell'immobile per soli 3 mesi;
- ha venduto l'immobile il 28.03.2013 e quindi al momento del pagamento della prima rata ne ha avuto il possesso per soli 3 mesi; in tal caso sarebbe del tutto irrazionale imporgli di calcolare l'Imu sulla base dell'aliquota dei 12 mesi dell'anno precedente, addossandogli l'onere di anticipare una somma superiore a quella realmente dovuta per l'anno in corso e di presentare poi istanza di rimborso per l'ammontare del tributo versato in eccedenza. Il contribuente potrà, pertanto, versare la prima rata dell'Imu dovuta per l'anno 2013 commisurandola ai 3/12 dell'importo calcolato sulla base dell'aliquota dei dodici mesi dell'anno precedente.
Tali soluzioni pratiche ricalcano quelle contenute nella circolare n. 3/FL del 07.03.2005 che ha risolto le problematiche sorte per l'Ici al momento dell'entrata in vigore di una disposizione di analogo tenore a quella in esame.
I codici tributo per l'Imu delle imprese. Vale la pena di ricordare che con risoluzione n. 33/E del 21.05.2013, l'Agenzia delle Entrate ha istituito i nuovi codici tributo per il versamento dell'Imu relativa a tale tipologia di fabbricati, vale a dire:
- «3925» denominato «IMU – imposta municipale propria per gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D – STATO»;
- «3930» denominato «IMU – imposta municipale propria per gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D – INCREMENTO COMUNE
Sono stati, peraltro, istituiti anche i codici tributo per consentire, tramite modello F24 EP, il versamento dell'IMU per gli immobili appartenenti al comune o ad altri enti pubblici, e cioè:
- «359E» denominato «IMU – imposta municipale propria per gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D – STATO»;
- «360E» denominato «IMU – imposta municipale propria per gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D – INCREMENTO COMUNE» (articolo ItaliaOggi del 25.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Garante sui sistemi di videosorveglianza. Privacy, stop a riprese occulte.
Niente telecamere all'insaputa dei lavoratori. La videosorveglianza sul lavoro non gioca a nascondino e gli strumenti di ripresa non devono essere occultati.

Lo ha stabilito il Garante con il provvedimento 04.04.2013 n. 164, con cui ha bloccato le riprese all'interno di un noto quotidiano del sud Italia.
Nel caso specifico è emerso che la gran parte delle telecamere installate (15 su 19) era stata nascosta in rilevatori di fumo o in lampade di allarme, all'insaputa dei lavoratori. Inoltre ai dipendenti non era stata fornita alcuna informativa sulla presenza dell'impianto, né attraverso comunicazioni individuali, né attraverso cartelli visibili.
Tra l'altro, le regole sulla videsorveglianza (provvedimento generale dell'08.04.2010) prevedono che i cartelli devono essere collocati prima del raggio di azione delle telecamere. Le uniche informazioni, peraltro insufficienti, erano scritte su un cartello di piccole dimensioni (15x15 cm), affisso a tre metri di altezza nell'ingresso del luogo di lavoro.
Il garante ha ravvisato, quindi, la violazione delle norme specifiche di privacy, ma anche delle disposizioni sul divieto di controllo a distanza dei lavoratori (articolo 4 legge 300/1970).
Di conseguenza il garante ha disposto il divieto del trattamento di dati personali mediante gli apparati di ripresa occultamente installati presso la sede della società, con obbligo per la società di sola conservazione dei dati eventualmente registrati ai soli fini di consentire l'attività di accertamento da parte delle competenti autorità e la tutela dei diritti degli interessati.
In materia va ricordato che si deve certamente evitare di esporre le telecamere ad atti vandalici, ma i cartelli devono essere idonei a informare della presenza di strumenti di ripresa.
Con altri tre provvedimenti il garante si è occupato di marketing selvaggio, comminando sanzioni per un totale di 800 mila euro a due importanti società di servizi informatici, specializzate nel settore delle banche dati e a un operatore di telecomunicazioni (articolo ItaliaOggi del 25.05.2013).

TRIBUTI: La riforma Imu punti all'equità. Niente esenzione prima casa in presenza di altri immobili.  I comuni dovrebbero avere libertà di manovra sulle aliquote per i grandi patrimoni.
La volontà politica del nuovo governo di procedere con la riforma complessiva del fisco immobiliare locale è una scelta condivisibile, a condizione di non generare aspettative frutto di demagogia o di banalizzazione, con agevolazioni o esenzioni prive di copertura finanziaria, mettendo a rischio le entrate degli enti locali.
Il decreto legge 54 del 21.05.2013, ha sospeso il pagamento dell'Imu per le abitazioni principali e relative pertinenze, esclusi i fabbricati di categoria A/1, A/8 e A/9, per le unità immobiliari delle cooperative a proprietà indivisa e degli istituti autonomi case popolari e enti similari, per i terreni agricoli e per i fabbricati rurali.
La sospensione è una scelta transitoria e impone l'obbligo di assumere decisioni definitive entro il 31.08.2013, ma in primo luogo è necessario arrivare a una riforma complessiva, indicando con chiarezza tempi realistici e fonti di finanziamento.
Una riforma seria dell'Imu dovrebbe porsi pochi obiettivi raggiungibili, comprensibili e applicabili con semplicità, evitando di porsi obiettivi troppo ambiziosi che renderebbero impossibili le fasi attuative, in tempi così brevi.
L'ipotesi di eliminazione dell'Imu e della Tares, con la nascita, peraltro in corso d'anno, di una nuova «Service Tax», è un progetto troppo ambizioso e pieno di ostacoli tecnici e operativi, con il rischio di una profonda confusione sull'individuazione del soggetto passivo, sulla base imponibile, sul concetto di utilizzo, sulla inconciliabilità tra un'imposta patrimoniale e il principio europeo sui rifiuti «paghi in base a quanto inquini».
La scelta della «Service Tax» è già stata abbandonata negli anni passati e la sua replica, lascia trasparire un eccesso di sottovalutazione delle problematiche tecniche ed operative da parte di coloro che ne alimentano l'introduzione, senza alcuna reale consapevolezza delle difficoltà applicative.
In questo quadro i comuni italiani come possono deliberare aliquote Imu e tariffe Tares, senza conoscere se i loro tributi saranno confermati o eliminati, come si pensa che i contribuenti interpretino questa ondivaga volontà del governo rispetto alla prossima scadenza di giugno, quali gettiti saranno credibilmente incassati in assenza di regole certe sulla Tares, quali sicurezze vi sono sulla conferma dell'attività di riscossione coattiva per i comuni da parte di Equitalia.
Prima di approfondire le possibili scelte della riforma, è necessario, a tutela dei circa 6 mila comuni che riscuotono con Equitalia e a tutela dei livelli occupazionali della stessa società di riscossione pubblica, intervenire con una proroga immediata dell'attività in scadenza il 30.06.2013, per dare continuità all'invio dei ruoli per la riscossione coattiva, evitando l'isolamento dei piccoli comuni e il disperdersi di potenziali gettiti comunali.
In questo quadro di profonda incertezza della fiscalità locale, la riforma rischia di disattendere aspettative politiche eccessive, prive di coperture, e di produrre difficoltà nei flussi finanziari dei comuni, è quindi necessario riformulare l'attuale struttura dell'Imu e della Tares limitandosi ad apportare correttivi qualitativi e credibili, riducendo le disuguaglianze sociali.
In assenza di risorse, non è equo decidere se l'Imu sulla prima casa non di lusso, debba essere pagata o esentata a tutti i contribuenti, a prescindere dal reddito e dalla ricchezza posseduta.
Il concetto di abitazione principale, ha necessità di essere distinto tra l'unica casa e la prima casa. Il legislatore tende a uniformare le due fattispecie, ma in quella distinzione vi sono spesso storie personali e familiari molto diverse e con capacità patrimoniali e finanziarie non allineate.
Esiste quindi la necessità di andare oltre il concetto di tassazione Imu della prima casa, non di lusso, separando la casistica in due fattispecie fiscali diverse:
1. unica casa non di lusso,
2. prima casa di altre.
Trattasi di fabbricati che, al momento, sono sottoposti allo stesso livello di tassazione con identica aliquota, seppure la differenziazione patrimoniale delle due casistiche non sfugge certamente al lettore.
Il nuovo decreto legge 54/2013 si è limitato a mantenere la tassazione sulle prime case di lusso, esentando tutte le altre abitazioni principali, ma il minore gettito di circa 4 miliardi di euro che ne deriva, è insostenibile per le casse dei comuni, per questo motivo Legautonomie propone di passare dal concetto di prima casa, al concetto di unica casa non di lusso.
Applicare l'esenzione Imu sull'unica casa non di lusso, è una scelta di equità che garantirebbe un risparmio fiscale alle fasce sociali più deboli e maggiormente aggredite dalla crisi economica generale, con un minore gettito che potrebbe essere assorbito utilizzando il principio di progressività sui grandi patrimoni immobiliari, così come richiestoci dall'Unione europea.
In carenza di risorse, l'esenzione non può eticamente essere attribuita ai proprietari di una prima casa e di molti altri immobili, l'appiattimento del beneficio rischia di accentuare le disuguaglianze sociali, ponendosi in palese contrasto con il principio dell'art. 53 della Costituzione che recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Una parte significativa della popolazione è proprietaria della propria abitazione:
- 17 milioni di famiglie circa sul totale di 23 milioni di famiglie italiane possiedono la prima casa;
- 18 milioni di famiglie sono proprietarie di seconda casa, immobili per usi non abitativi propri, immobili in affitto per abitazione e altri usi.
Ben diversa appare invece la situazione quando si esamina l'aspetto strettamente legato alla distribuzione del patrimonio immobiliare e della ricchezza, che risulta, al contrario, caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie ne detengono livelli modesti o nulli; all'opposto, poche famiglie dispongono di patrimoni elevati: il 10% delle famiglie italiane detiene circa il 46% della ricchezza complessiva.
La riforma dell'Imu deve quindi tendere all'eliminazione dell'imposta per i soli proprietari di un'unica casa non di lusso, ampliando gli spazi di manovra dei comuni sulle aliquote per i grandi patrimoni, per valore o per numero, chiedendo un contributo fiscale più elevato ai più ricchi, a favore della necessaria copertura finanziaria del minore gettito derivante dall'applicazione della suddetta esenzione sull'unica casa posseduta.
È inoltre necessario procedere con una semplificazione della tassazione immobiliare, eliminando le molteplici imposte statali che colpiscono fabbricati e terreni (imposta di registro, imposta catastale e ipotecaria, imposta su successioni e donazioni, cedolare secca) accorpandole nell'Imu, al fine di avere un tributo comunale unico sugli immobili.
Equità, progressività e semplificazione sono obiettivi credibili, raggiungibili e capaci di ridurre le disuguaglianze, a parità di gettito, evitando il ricorso a improbabili riforme complessive che risultano prive di logica in un contesto temporale così breve.
Una riforma complessiva e più ambiziosa della fiscalità immobiliare, non deve infatti partire dalla rimodulazione dell'Imu, ma dalla emanazione di un Testo unico sui tributi locali, che raccolga tutte le norme di riferimento e dalla profonda e efficace revisione del catasto affinché le rendite catastali diventino credibili ed esprimano il concreto valore dei patrimoni immobiliari, evitando medie e appiattimenti che penalizzano i più deboli.
Per capire quanto le rendite catastali siano distanti dalla realtà, è infatti sufficiente visionare i dati dell'osservatorio del mercato immobiliare, forniti da altro ufficio della stessa Agenzia del territorio.
L'Imu è anche un metodo di redistribuzione finanziaria delle risorse, attraverso un parziale e modesto trasferimento monetario di riequilibrio sociale.
Tutto questo è doveroso ed equo, soltanto se la progressività per le grandi ricchezze e l'esenzione per l'unica abitazione non di lusso, divengono obiettivi di una politica fiscale seria e condivisa, garantendo agli enti locali il diritto di esercitare la propria autonomia fiscale con principi di equità e di semplificazione (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIFatture ad hoc per la p.a.. Il documento digitale è valido solo in xml. Il regolamento 55/2013 del Mef sui metodi di pagamento elettronici.
Fatturazione elettronica vincolante e vincolata nei rapporti con la pubblica amministrazione. L'adozione del documento digitale non è soltanto obbligatoria, ma dovrà seguire le specifiche prescrizioni fissate dal regolamento n. 55/2013 varato dal ministero dell'economia, in attuazione della legge 244/2007 (si veda ItaliaOggi di ieri).
In particolare, questa fattura elettronica dovrà avere il formato di un file xml sottoscritto con firma elettronica o digitale, così come imponeva l'art. 21 del dpr 633/1972 anteriormente alle modifiche apportate dalla legge 228/2012.

Quella destinata ai vari uffici delle pubbliche amministrazioni sarà dunque una fattura elettronica speciale, rispetto a quella che invece è ora ammessa, in via generale, dal nuovo testo dell'art. 21 della legge Iva. Dal 1° gennaio scorso, infatti, detto articolo è stato modificato per recepire la semplificazione della fatturazione elettronica attuata, a livello comunitario, dalla direttiva 2010/45/Ue (neppure menzionata nelle premesse al regolamento, che richiama invece la precedente direttiva 2001/115/Ce).
A seguito delle recenti modifiche, volte ad eliminare, come spiegato nella direttiva 2010/45, gli oneri e le barriere che ostacolavano il ricorso alla fatturazione elettronica (quali, per esempio, i vincoli del sistema di trasmissione o della firma digitale), il comma 1 dell'art. 21 stabilisce che «per fattura elettronica, si intende la fattura che è stata emessa e ricevuta in un qualunque formato elettronico». Il successivo comma 3 stabilisce poi, che l'autenticità dell'origine e l'integrità del contenuto della fattura, sia cartacea, sia elettronica, possono essere garantite, alternativamente:
a) mediante sistemi di controllo di gestione che assicurino un collegamento affidabile tra la fattura e la cessione o prestazione ad essa riferibile;
b) mediante l'apposizione della firma elettronica qualificata o digitale dell'emittente;
c) mediante sistemi Edi di trasmissione elettronica dei dati o altre tecnologie in grado di garantire i predetti obiettivi di autenticità e integrità.
La libertà accordata alle imprese, nel ricorso alla fatturazione elettronica, dal recente intervento di semplificazione normativa, incontra pertanto una limitazione nei rapporti con le amministrazioni pubbliche. Secondo l'allegato A al
decreto 03.04.2013 n. 55, infatti, i dati delle fatture elettroniche da trasmettere al sistema di interscambio (Sdi) istituito, con dm 07.03.2008, gestito dall'Agenzia delle entrate, devono infatti rispondere obbligatoriamente allo standard xml e, il file, non deve contenente macroistruzioni o codici eseguibili tali da attivare funzionalità, che possano apportarvi modifiche.
La trasmissione delle fatture dall'emittente, o dall'intermediario, al sistema, come pure la successiva trasmissione dal sistema alle amministrazioni destinatarie, deve inoltre avvenire attraverso posta elettronica certificata, oppure attraverso uno dei canali di trasmissione telematica indicati nell'allegato B al regolamento.
Si tratta, dunque, di una disciplina del tutto particolare, finalizzata, tra l'altro, ad attuare la totale dematerializzazione del processo del ciclo di fatturazione passiva delle pubbliche amministrazioni mediante integrazione con i sistemi gestionali e di pagamento, oltreché a permettere il monitoraggio dei flussi finanziari da parte della ragioneria generale dello stato.
In questa ottica, infatti, la fattura elettronica alla p.a. conterrà informazioni utili alle predette finalità, supplementari rispetto ai dati fiscali richiesti dall'art. 21 del dpr 633 (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRedditi su internet, le sanzioni le irroga il prefetto. Va esclusa la competenza del sindaco o del presidente di provincia.
È il prefetto l'autorità competente a irrogare la sanzione prevista dall'articolo 47 del dlgs 33/2013 per gli amministratori che non comunichino la loro situazione patrimoniale, da pubblicare sui siti internet degli enti locali.
Il comma 3 del citato articolo 47 consente di giungere, indirettamente, alla competenza prefettizia. Esso dispone che le sanzioni «sono irrogate dall'autorità amministrativa competente in base a quanto previsto dalla legge 24.11.1981, n. 689».
Per comprendere quale possa essere l'autorità per gli enti locali, occorre partire dall'abolizione dell'articolo 41-bis del dlgs 267/2000, disposta espressamente dall'articolo 53, comma 1, lettera c), del dlgs 33/2013. La norma abolita demandava ai regolamenti degli enti locali (escludendo i comuni con meno di 15 mila abitanti) il compito di disciplinare il regime di pubblicazione e pubblicità della situazione patrimoniale degli amministratori degli enti locali.
Era, nella vigenza dell'articolo 41-bis, allora possibile ritenere che l'autorità competente fosse il sindaco o il presidente della provincia.
Abolito, però, l'articolo 41-bis, cade la fonte normativa che assegnava alla potestà regolamentare degli enti locali la disciplina della pubblicità del patrimonio degli amministratori; di conseguenza, è esclusivamente la legge e, segnatamente, l'articolo 14 del dlgs 33/2013 a fissare le regole di detta pubblicità. Pertanto, viene a cadere qualsiasi possibilità per gli enti locali di disciplinare con regolamenti la materia, in quanto esaurita direttamente dalla legge, sia di ritenere competenti i vertici politici monocratici di tali enti. Scatta l'applicazione dell'articolo 17, comma 1, della legge 689/1981, ai sensi del quale «qualora non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il funzionario o l'agente che ha accertato la violazione, salvo che ricorra l'ipotesi prevista nell'articolo 24, deve presentare rapporto, con la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni, all'ufficio periferico cui sono demandati attribuzioni e compiti del ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in mancanza, al prefetto».
Competente in tema di trasparenza dovrebbe essere considerato il ministero della funzione pubblica. Tuttavia, tale dicastero non dispone di uffici periferici nel territorio. La conclusione obbligata, allora, è che riscontrando l'assenza di uffici provinciali del ministero competente, l'autorità competente a ricevere il rapporto sull'accertamento della violazione amministrativa è il prefetto. Conseguentemente si può anche ricostruire quale sia il soggetto competente ad accertare l'infrazione: non può che essere il responsabile della trasparenza (negli enti locali coincidente col segretario comunale a meno di particolari motivate situazioni), chiamato dall'articolo 43 del dlgs a svolgere il ruolo di controllore del corretto adempimento degli obblighi sulla trasparenza incombenti sugli uffici e sui componenti degli organi di governo.
Dunque, accertato che gli organi politici non abbiano comunicato agli uffici i dati necessari alla pubblicazione prevista dall'articolo 14 del dlgs 33/2013, il responsabile della trasparenza deve predisporre il verbale che li ammette al pagamento in misura ridotta (nel caso di specie 1.000 euro, cioè il doppio del minimo previsto, che è di 500 euro) e notificarlo al responsabile della violazione. Laddove entro 60 giorni non si accerti l'avvenuto pagamento, il responsabile della trasparenza dovrà trasmettere il rapporto al prefetto, per l'emanazione dell'ordinanza ingiunzione (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALIOneri urbanistici ad alto rischio. Dubbi sull'utilizzabilità per finanziare spese correnti. La chance non è consentita dal 2012. Ma una recente norma ha messo tutto in discussione.
C'è incertezza, fra i comuni, circa la possibilità di continuare a utilizzare per spese correnti i cosiddetti oneri di urbanizzazione, ovvero i proventi dei permessi di costruire e delle sanzioni previste dal testo unico dell'edilizia. Fino allo scorso anno, tale possibilità (concessa in deroga alla regola generale secondo la quale le spese correnti devono essere finanziate esclusivamente da entrate della stessa natura) era espressamente prevista dall'art. 2, c. 8, della l. 244/2007, da ultimo modificato dall'art. 2, c. 41, del dl 225/2009.
Tale disposizione consentiva di utilizzare gli oneri, per una quota non superiore al 50%, per il finanziamento di spese correnti indifferenziate e per una quota non superiore ad un ulteriore 25% esclusivamente per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Tuttavia, tali eccezioni erano consentite solo fino al 2012.
Già l'anno scorso, quindi, i sindaci sono stati costretti a far quadrare i conti degli ultimi due anni del loro bilancio pluriennale senza potersi avvalere della deroga. Da quest'anno, dovrebbe applicarsi pienamente la regola generale, per cui le entrate da permessi di costruire dovrebbero poter essere destinate solo a coprire le spese di investimento (tit. II).
Il condizionale, tuttavia, è d'obbligo, considerato quanto previsto dall'art. 4, c. 3, della recente l. 10/2013. Tale disposizione, infatti, recita così: «le maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire e dalle sanzioni sono destinate alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale in misura non inferiore al 50% del totale annuo».
La norma non è chiarissima né laddove richiama le «maggiori» entrate, né laddove individua le loro possibili finalizzazioni, che peraltro sembrano circoscritte a opere pubbliche, di cui il recupero urbanistico e la manutenzione del patrimonio comunale sembrerebbero specificazioni. È sintomatico, inoltre, il fatto che si preveda un limite minimo e non (come in precedenza) massimo.
Secondo alcuni, sarebbe ancora vigente l'art. 49, c. 7, della l. 449/1997, ai sensi del quale «i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni possono essere destinati anche al finanziamento di spese di manutenzione del patrimonio comunale», senza distinzioni fra spese correnti e in conto capitale. Tuttavia, la seconda parte della norma, che si apre con la locuzione «a tal fine» e pare quindi collegata teleologicamente alla prima, limita la deroga solo al 30.06.1998.
Occorre considerare, ancora, che la l. 228/2012 ha previsto altre disposizioni volte a rafforzare l'equilibrio di parte corrente. Da un lato, non è più possibile utilizzare il plusvalore delle alienazioni patrimoniali per finanziare le spese correnti aventi carattere non permanente e per rimborsare la quota di capitale dei mutui. Dall'altro lato, i proventi delle alienazioni patrimoniali potranno essere destinati solo a coprire le spese di investimento ovvero, in assenza di queste o per la parte eccedente, per ridurre il debito. Le medesime entrate, inoltre, non potranno più andare a ripristinare gli equilibri di parte corrente, ma solo quelli di parte capitale.
Non va trascurato, infine quanto prevede (sia pure pro futuro) l'art. 9 della l. 243/2012 sul pareggio di bilancio, chiarendo che i conti dei comuni si considerano in equilibrio quando, sia nella fase di previsione che di rendiconto, registrano un saldo non negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti.
In un simile contesto, la possibilità di applicare gli oneri in parte corrente non pare così certa e deve essere valutata con estrema cautela anche in punto di legittimità, oltre che per le conseguenze negative sulla valutazione di virtuosità degli enti (uno dei parametri, infatti, è proprio l'equilibrio di parte corrente).
Anche l'Ancitel, del resto si è espressa in senso negativo, ma una risposta definitiva ai dubbi potrà arrivare solo dai questionari sul bilancio 2013 della Corte dei conti. È chiaro, comunque, che al massimo la deroga è da ritenersi circoscritta alle manutenzioni del patrimonio comunale (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTINon sono obbligatorie le scadenze Tares fissate dal Mef. I chiarimenti in una nota Ifel che sollecita la pubblicazione dei codici tributo.
Le scadenze per il pagamento della Tares indicate nel decreto ministeriale con il quale è stato approvato il bollettino di conto corrente postale non sono obbligatorie perché non previste dalla norma di legge. Il ministero dell'economia e delle finanze, nel fissare le scadenze delle rate, si è spinto oltre quanto stabilito dalla norma che disciplina il tributo. Il nuovo bollettino potrà essere utilizzato solo a partire dal prossimo 1° luglio e riporta un unico numero di conto corrente che è valido per tutti i comuni del territorio nazionale. La maggiorazione va pagata con l'ultima rata Tares.
Sono alcune precisazioni contenute nella nota 21.05.2013 dell'Ifel che, tra l'altro, sollecita la pubblicazione dei codici tributo Tares da inserire nel modello F24. Inoltre, con una nota del 22 maggio sono stati segnalati i nuovi codici tributo, istituiti con la risoluzione n. 33/E dell'Agenzia delle entrate, per il pagamento dell'Imu, tramite «F24» e «F24 EP», relativamente agli immobili di categoria D, il cui gettito va allo stato con aliquota standard del 7,6 per mille.
Pagamento Tares. Correttamente la fondazione Anci ha chiarito che il decreto ministeriale «si spinge ad indicare periodi di pagamento non previsti dalla normativa primaria (dal 1° giorno ed entro il 16° giorno di ciascun mese di scadenza delle rate)». Quindi, non possono essere considerate obbligatorie.
L'Ifel pone in evidenza che il modello di bollettino di conto corrente postale, intestato a «Pagamento Tares», riporta obbligatoriamente il numero di conto 1011136627, che è valido per tutti i comuni del territorio nazionale. In base alle ultime modifiche normative introdotte con l'articolo 10 del dl 35/2013, la maggiorazione va pagata contestualmente all'ultima rata del tributo, nella misura fissa di 30 centesimi al metro quadrato, e verrà incassata dallo stato.
In deroga alla disciplina ordinaria del tributo, infatti, i comuni non possono aumentarla fino a 40 centesimi. La nota interviene anche sulle modalità di riversamento ai comuni delle somme riscosse e ricorda che la tempistica e le modalità sono analoghe a quelle previste per i versamenti unitari (F24) dal decreto legislativo 241/1997. In effetti, il decreto ministeriale dispone che la società Poste italiane è tenuta a riversare sulla contabilità speciale n. 1777 «Agenzia delle entrate - Fondi della riscossione», aperta presso la Banca d'Italia, le somme pagate dai contribuenti tramite i bollettini di conto corrente.
Deve poi trasmettere alla struttura di gestione i dati analitici indicati nei bollettini. In seguito alla rendicontazione da parte delle Poste, la struttura di gestione accredita le somme agli enti. Tributo e maggiorazione sono accreditati ai comuni, mentre la tariffa deve essere accreditata al gestore del servizio. Solo per il 2013, se deliberato dal comune, il gestore può riscuotere anche il tributo.
Il comune o l'affidatario del servizio possono inviare ai contribuenti i bollettini precompilati nei quali vanno riportati il codice catastale dell'ente e gli importi dovuti. Infine è urgente, per l'Ifel, la pubblicazione dei codici tributo Tares da inserire nel modello F24.
Imu. Con la nota del 22 maggio viene invece dato risalto alla risoluzione n. 33 con la quale l'Agenzia delle entrate ha diffuso i codici tributo per il versamento, tramite modello «F24» e «F24 EP», dell'imposta municipale relativa agli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo catastale D. Da quest'anno, infatti, l'Imu torna a essere a tutti gli effetti un'imposta comunale.
Tuttavia, allo stato va la quota del gettito derivante dagli immobili classificati nel gruppo catastale D, calcolato con l'aliquota standard del 7,6 per mille. Per questi fabbricati i comuni hanno la facoltà di aumentare l'aliquota base di 3 punti percentuali e di incassare le maggiori somme (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, decide l'ente. Nei regolamenti i casi di espulsione dai gruppi. Il funzionamento dell'assemblea spetta all'autonomia del comune.
È ammissibile l'espulsione di un consigliere comunale da parte del gruppo consiliare di appartenenza, senza che la stessa sia stata formalmente notificata all'interessato, né comunicata per iscritto al presidente del consiglio comunale? Lo stesso amministratore può essere privato dal ruolo di rappresentante del gruppo presso le commissioni consiliari permanenti, a seguito di una comunicazione fatta pervenire al presidente del consiglio comunale dalla segreteria provinciale del proprio partito di appartenenza?

La tematica del rapporto tra partiti politici e gruppi costituiti nell'ambito degli organi assembleari è argomento ampiamente dibattuto; in dottrina ed in giurisprudenza sono state elaborate suggestive e variegate definizioni circa la natura giuridica dei gruppi.
In linea generale, il rapporto tra il candidato eletto e il partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506 del 2005).
Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente. Al riguardo si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar per il Lazio ha precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale.
Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche (cfr. Cass. civ, Sezioni unite, 19.02.2004, n. 3335; C.s., IV, 02.10.1992, n. 932; Corte cost. 12.04.1990, n. 187)».
Il nostro ordinamento «si preoccupa di assicurare un metodo di organizzazione democratica dei gruppi (in linea con quanto previsto dall'art. 49 Cost. relativamente ai partiti politici), ma non intende in alcun modo condizionarne la vita e le dinamiche interne. In altre parole, il concreto funzionamento e la gestione dei gruppi (parlamentari, regionali, consiliari), diventano rilevanti per l'ordinamento solo quando questi ultimi interferiscano con lo svolgimento delle funzioni proprie delle assemblee» (Tar Lazio ul. cit). L'art. 38, comma 2, del dlgs n. 267/2000, demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Nel caso di specie, dalle disposizioni regolamentari relative al funzionamento del consiglio comunale si rileva una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio da un gruppo ad altro, con il presupposto indefettibile dell'accettazione da parte del presidente del gruppo cui il consigliere chiede di aderire; non si rinviene, invece, una specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario. Tuttavia, atteso che la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative, posto che, diversamente, sarebbero necessarie modifiche ed integrazioni a dette fonti di disciplina locale.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 24.05.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStop alle categorie protette se la Pa ha l'organico pieno. Spending review. Le istruzioni della Funzione pubblica.
DOPO LA SPENDING/ La chiamata rischierebbe di far perdere il posto a chi è già di ruolo Unica eccezione i centralinisti non vedenti.

Le Pubbliche amministrazioni devono sospendere le assunzioni delle categorie protette se il loro organico è già pieno o se, peggio, sono arrivate ad avere personale in soprannumero. L'unica via possibile si apre se l'assunzione riguarda profili professionali di aree in cui vi sia disponibilità in organico, ma anche in questo caso la mossa va valutata «in base alla coerenza e attendibilità del piano di assorbimento dei soprannumeri» entro il 31.12.2014: esclusi da questa disciplina rigida sono solo i centralinisti non vedenti, per i quali la legge 113/1985 (articolo 4, comma 4) prevede in ogni caso l'inserimento in soprannumero «fino al verificarsi della prima vacanza» in organico.
La ricostruzione delle regole alla luce del decreto 95/2012 sulla revisione di spesa si deve alla Funzione pubblica, che nel parere 22.05.2013 n. 23580 di prot. risponde in questo modo all'Inps. L'istituto di previdenza, che in seguito all'incorporazione di Inpdap ed Enpals «presenta una situazione di soprannumerarietà in diverse aree», ha sospeso «in via cautelativa» le procedure avviate prima della fusione con gli altri enti e ha ottenuto con il parere l'approvazione della Funzione pubblica.
La questione è legata appunto alle nuove regole introdotte con l'articolo 2 del decreto 95/2012, che ha avviato la revisione degli organici pubblici sfociati nei Dpcm in cui sono state elencate le «eccedenze» in tutte le Pubbliche amministrazioni centrali. Proprio il carattere diffuso delle situazioni di eccedenza, o comunque degli organici occupati al gran completo, aumenta il peso delle istruzioni dettate da Palazzo Vidoni.
Le regole sulle categorie protette, sostiene la Funzione pubblica, vanno lette in modo coordinato con i vincoli della revisione di spesa, e in particolare con le sanzioni che il testo unico del pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e il decreto 95/2012 prevedono per le amministrazioni che escono dai binari consentiti. In particolare, l'articolo 6, comma 1, del Dlgs 165/2001 impedisce nella versione aggiornata con gli ultimi interventi normativi di creare posizioni di soprannumerarietà e impone l'avvio della mobilità collettiva quando il personale è in eccesso.
In questo quadro, arricchito dagli obblighi di ricognizione annuale del personale e di assorbimento dei soprannumeri, «eventuali assunzioni, anche di categorie protette, andrebbero ad alimentare soprannumerarietà ed eccedenze producendo, a fronte dell'occupazione di una categoria protetta, il rischio della perdita del posto di lavoro per il personale già in ruolo». Conseguenza finale: «L'obbligo di coprire le quote di riserva per le categorie protette è sospeso» fino a quando non ci sono posti disponibili nella dotazione organica.
Per rafforzare la propria lettura, la Funzione pubblica richiama anche le normative previste per il settore privato dalla legge 68/1999, che all'articolo 3, comma 5, sospende gli obblighi di avere categorie protette fra i dipendenti per le imprese che attivano la cassa integrazione. La ratio di questa norma, conclude Palazzo Vidoni, è «mutuabile» per il settore pubblico anche alla luce della revisione degli organici imposta dalla spending review.
Proprio il decreto sulla revisione di spesa, come accennato, elenca con i suoi provvedimenti attuativi le eccedenze presenti nelle varie articolazioni dell'amministrazione centrale. Rimane invece ancora da attuare la nuova regola per gli enti locali, che prevedeva un trattamento analogo nei Comuni o nelle Province in cui si registrasse un dato superiore del 40% rispetto alla media della loro fascia nel rapporto fra dipendenti e popolazione amministrata (articolo Il Sole 24 Ore 24.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: L’obbligo posto dagli artt. 4 della legge n. 490 del 1994 e 10 del d.P.R. n. 252 del 1998 a carico delle stazioni appaltanti di acquisire l’informativa antimafia per contratti o sub contratti di valore superiore alla soglia comunitaria, mentre introduce una doverosità assoluta di attivare il procedimento accertativo nei casi specificatamente presi in considerazione dalla legge, non assorbe la sfera di discrezionalità della stazione appaltante, che può acquisire l’informativa in determinate situazioni in cui scelte ed indirizzi delle imprese interessate possano ricevere condizionamento da parte della criminalità organizzata.
In linea con quanto ritenuto dalla Sezione in fattispecie analoga (cfr. Cons. St. sez. VI, n, 249 del 29.01.2008) va ribadito che l’obbligo posto dagli artt. 4 della legge n. 490 del 1994 e 10 del d.P.R. n. 252 del 1998 a carico delle stazioni appaltanti di acquisire l’informativa antimafia per contratti o sub contratti di valore superiore alla soglia comunitaria, mentre introduce una doverosità assoluta di attivare il procedimento accertativo nei casi specificatamente presi in considerazione dalla legge, non assorbe la sfera di discrezionalità della stazione appaltante, che può acquisire l’informativa in determinate situazioni in cui scelte ed indirizzi delle imprese interessate possano ricevere condizionamento da parte della criminalità organizzata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.05.2013 n. 2798 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOE' illegittimo l'atto sindacale di rotazione dei dirigenti laddove L’arch. C. e l’ing. S., rispettivamente a capo del Settore Urbanistica e del Settore Lavori Pubblici, sono stati trasferiti a dirigere il Settore Affari Generali (arch. C.) e la Polizia Municipale (ing. S.).
E'
certamente vero che un dirigente in possesso della laurea in giurisprudenza può essere chiamato indifferentemente a dirigere l’Ufficio Affari Generali o l’Ufficio Contratti o il Settore Pubblica Istruzione e Servizi Sociali o financo il Settore Urbanistica o la Polizia Municipale; ciò in quanto il corso di laurea in giurisprudenza impartisce allo studente nozioni che sono in qualche modo trasversali ai settori sopra indicati.
Ma non è vera la reciproca, in quanto un ingegnere o un architetto non dispongono certo della preparazione più adeguata per dirigere settori in cui sono preponderanti i profili giuridico-amministrativi e del tutto assenti quelli tecnici (ma lo stesso è a dirsi, ad esempio, in relazione a professioni sanitarie, quale ad esempio quella di farmacista – che non può che essere incaricato della direzione della farmacia comunale –o di geologo– che non può che essere impiegato nei settori tecnici, quale ad esempio il Settore Ambiente).

L’arch. Cioni e l’ing. Santelli, all’epoca dei fatti dipendenti del Comune di Falconara Marittima e, rispettivamente, a capo del Settore Urbanistica e del Settore Lavori Pubblici, impugnano il provvedimento con il quale il Sindaco pro tempore, in dichiarata applicazione del principio di rotazione degli incarichi dirigenziali, li ha trasferiti a dirigere il Settore Affari Generali (arch. Cioni) e la Polizia Municipale (ing. Santelli). Il controinteressato dott. Brunori è stato invece destinato a dirigere il Settore Urbanistica e, temporaneamente, il Settore Lavori Pubblici; in seguito a capo di quest’ultimo Settore è stato posto, mediante conferimento di incarico esterno, l’ing. Governatori.
...
E’ certamente vero che, a seguito della riforma del pubblico impiego del 1993, sul dirigente incombe una responsabilità di tipo manageriale, ossia legata ad una valutazione complessiva dei risultati conseguiti della struttura che egli dirige in relazione agli obiettivi periodicamente fissati dagli organi di direzione politica dell’ente, ma è anche vero che l’imputazione della responsabilità presuppone di necessità che il dirigente sia posto in condizione di poter controllare l’operato dei funzionari adibiti alla struttura. Si ricordi, fra l’altro, che proprio nell’organizzazione degli enti locali le deliberazioni consiliari e giuntali debbono essere munite del parere di regolarità tecnica rilasciato dal dirigente del settore competente, dal che discendono rilevanti conseguenze in termini di responsabilità amministrativo-contabile (art. 53 L. n. 142/1990).
Ma, per fare un esempio banale, si pensi alla deliberazione con cui la Giunta approva il progetto di un’opera pubblica: su tale delibera deve esprimere il parere di regolarità tecnica il dirigente dell’ufficio lavori pubblici, il quale deve essere in grado di “leggere” gli elaborati tecnici predisposti dall’ufficio.
Fra l’altro, le stesse norme invocate dal Comune, pur prevedendo il criterio della rotazione degli incarichi, fanno salve quelle mansioni per il cui svolgimento sia richiesto il possesso di specifiche professionalità e, soprattutto, di titoli di studio e/o abilitazioni particolari (oltre all’art. 19 del D.Lgs. n. 29/1993, si veda proprio l’art. 26, comma 2, del citato regolamento comunale sulla mobilità e le progressioni dei dipendenti). Sotto questo profilo, non c’è dubbio alcuno sul fatto che l’ingegnere e l’architetto debbono essere in possesso di abilitazione rilasciata a seguito del superamento del c.d. esame di Stato (vedasi gli artt. 4 e 62 del R.D. n. 2537/1925).
Tornando poi al criterio della rotazione degli incarichi, per restare all’esempio del Comune, è certamente vero che un dirigente in possesso della laurea in giurisprudenza può essere chiamato indifferentemente a dirigere l’Ufficio Affari Generali o l’Ufficio Contratti o il Settore Pubblica Istruzione e Servizi Sociali o financo il Settore Urbanistica o la Polizia Municipale; ciò in quanto il corso di laurea in giurisprudenza impartisce allo studente nozioni che sono in qualche modo trasversali ai settori sopra indicati. Ma non è vera la reciproca, in quanto un ingegnere o un architetto non dispongono certo della preparazione più adeguata per dirigere settori in cui sono preponderanti i profili giuridico-amministrativi e del tutto assenti quelli tecnici (ma lo stesso è a dirsi, ad esempio, in relazione a professioni sanitarie, quale ad esempio quella di farmacista – che non può che essere incaricato della direzione della farmacia comunale –o di geologo– che non può che essere impiegato nei settori tecnici, quale ad esempio il Settore Ambiente).
Ma, in ogni caso, il discorso non regge quando, al fine di realizzare il principio di rotazione, l’ente destina i dirigenti in possesso di specifiche abilitazioni professionali a dirigere settori in cui tali professionalità non possono emergere in alcun modo e, per converso, pone a capo dei settori tecnici dirigenti in possesso di lauree afferenti le discipline umanistiche. In questo senso si realizza un evidente depauperamento delle risorse umane di cui l’ente dispone.
E non si deve nemmeno dimenticare che la rotazione non è sostanzialmente praticabile nei Comuni di più ridotte dimensioni, nei quali solitamente sono presenti in organico solo un ragioniere (il quale deve evidentemente essere posto a capo del settore finanziario) e un tecnico diplomato o laureato (il quale si deve occupare dei settori LL.PP., protezione civile, urbanistica, etc.). Le massime giurisprudenziali citate dalla difesa del Comune debbono dunque essere adattate alla concreta realtà, altrimenti non si spiegherebbe la ragione per la quale l’art. 26, comma 2, del citato regolamento comunale di Falconara Marittima esclude dalla rotazione alcuni particolari incarichi.
Proprio per evitare tali inconvenienti l’art. 25 del più volte citato regolamento comunale sulla mobilità e le progressioni dei dipendenti impone che gli atti di affidamento degli incarichi dirigenziali (il precedente art. 24 stabilisce infatti che le disposizioni del capo IV si applicano anche alle qualifiche dirigenziali) siano motivati e diano conto dell’opportunità delle scelte compiute dal Sindaco. Nella specie, il decreto impugnato non contiene alcuna motivazione specifica, se non il riferimento al criterio della rotazione, che però, come si è detto, non è il solo previsto dalle norme di riferimento.
E, fra l’altro, nella presente vicenda la illegittimità della decisione del Sindaco è confermata anche dal fatto che per coprire il posto lasciato vacante dall’ing. Santelli il Comune ha dovuto ricorrere ad un incarico esterno (il che rende palese il fatto che il dott. Brunori non è stato ritenuto in possesso dei requisiti professionali adeguati per dirigere il Settore LL.PP.).
L’obiettivo della rotazione nella specie avrebbe potuto essere conseguito semplicemente invertendo gli incarichi dei ricorrenti (destinando cioè l’arch. Cioni al Settore Lavori Pubblici e l’ing. Santelli al Settore Urbanistica).
In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Marche, sentenza 23.05.2013 n. 370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAi fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum sostanziale”, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice (vale a dire nella domanda di annullamento di atti amministrativi) ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi cioè dell'intrinseca natura della controversia dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione.
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Rientrano nella giurisdizione del g.o. le controversie relative all’impugnazione di provvedimenti amministrativi allorché la parte ricorrente contesti la demanialità dell'area stessa in quanto non investano vizi dell'atto amministrativo, ma si esauriscano nell'indagine sulla titolarità della proprietà e, quindi, rivolte alla tutela di posizioni di diritto soggettivo.
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L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù; ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del g.o., giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della p.a..
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Secondo giurisprudenza pacifica è da ricondurre alla nozione di strada vicinale di uso pubblico la strada che:
a) per le sue dimensioni, struttura, e condizioni consente un generale passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso o di vincoli di proprietà o condominio;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è contraddistinta da un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile;
d) è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, sopra o sotto di essa, di infrastrutture di servizio da parte dell'ente pubblico (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche).
E’ altresì pacifico che la mancata utilizzazione di essa da parte della generalità degli utenti, protrattasi anche per un lungo lasso di tempo, non depone ex se per la cessata destinazione all'uso pubblico, occorrendo fatti concludenti ed univoci atti a comprovare il venir meno delle esigenze di utilizzo generale.
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Il questionario fatto compilare dal Comune ad un gruppo di cittadini appartenenti al bacino d’utenza della strada non è di per sé sufficiente allo scopo poiché, tuttalpiù, esso comprova la generica permanenza dell’interesse all’uso della strada “uti singuli” da parte di un gruppo limitato di persone e non già di una collettività indeterminata “iure servitutis publicae”; inoltre, la mera tolleranza dei proprietari interessati, secondo costante giurisprudenza, impedisce la costituzione sia di una servitù pubblica di passaggio per uso ultraventennale sia per effetto di dicatio ad patriam.
Parimenti non costituiscono elementi decisivi idonei a comprovare l’uso pubblico né l’inserimento nella toponomastica comunale, né l’avvenuta posa in opera di una tubazione idrica per servire alcuni utenti, in assenza di altri elementi comprovanti la manutenzione pubblica della strada vicinale.

Come noto, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum sostanziale”, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice (vale a dire nella domanda di annullamento di atti amministrativi) ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi cioè dell'intrinseca natura della controversia dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione (ex plurimis Consiglio di Stato sez IV 02.03.2011, n. 1360; Cassazione Sezioni Unite 26.01.2011, n. 1767; TAR Campania - Napoli, sez. V, 01.04.2011, n. 1909).
Con l’azione in epigrafe l’odierna ricorrente, al di là della formale domanda di annullamento degli atti impugnati, contesta la sussistenza dei presupposti per il ripristino dell’uso pubblico della strada vicinale per cui è causa, ed in particolare lamenta l’illegittimità dell’esercizio del potere con cui l’Amministrazione ha ripristinato l’idoneità all’uso pubblico, implicitamente revocando le proprie opposte e ripetute precedenti manifestazioni di volontà espresse al riguardo.
Ciò premesso, secondo giurisprudenza consolidata da cui il Collegio non ha ragione di discostarsi, rientrano nella giurisdizione del g.o. le controversie relative all’impugnazione di provvedimenti amministrativi allorché la parte ricorrente contesti la demanialità dell'area stessa (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 14.11.2012, n. 5741; id. sez. IV 05.
06.2012 n. 3298; id. sez. VI, 29.05.2002, n. 2972; TAR Campania-Napoli, sez VII, 07.06.2012, n. 2715; Cassazione civile Sez. Un. 27.01.2010, n. 1624; id. Sez. Un. 18.04.2003, n. 6347) in quanto non investano vizi dell'atto amministrativo, ma si esauriscano nell'indagine sulla titolarità della proprietà e, quindi, rivolte alla tutela di posizioni di diritto soggettivo.
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù; ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del g.o., giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della p.a. (Cassazione civile sez. un. 27.01.2010 n. 1624).
Nel caso di specie, è invece evidente la giurisdizione del giudice amministrativo, poiché la controversia investe esattamente la legittimità dell’esercizio di un potere autoritativo, riconducibile all’autotutela con funzione di riesame, seppur implicita, rispetto a precedenti manifestazioni di volontà incompatibili con l’impugnato provvedimento, da ascriversi alla materia del “governo del territorio”, devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a. (art. 133, c. 1, lett. f) cod. proc. amm.). Entro tale ambito di giurisdizione, spetta al giudice amministrativo oltre la cognizione diretta sul corretto esercizio del potere di ripristino del pubblico transito, quella in via incidentale ex art. 8 cod. proc. amm. sui sottostanti diritti reali, se necessaria per pronunciare sulle questioni principali (ex multis TAR Calabria-Catanzaro 05.03.2003, n. 523; TAR Emilia Romagna-Parma 25.05.2005, n. 287).
Va pertanto affermata la giurisdizione dell’adito TAR.
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Come noto e ben riassunto dalle stesse difese, secondo giurisprudenza pacifica (ex multis Consiglio di Stato sez. IV 08.06.2011, n. 3509; id. sez. V 19.04.2013 n. 2218; Cassazione civ. sez. II n. 7718/1991; TAR Toscana sez. I 28.01.2013, n. 136; TAR Campania Napoli 19.12.2012, n. 5250) è da ricondurre alla nozione di strada vicinale di uso pubblico la strada che:
a) per le sue dimensioni, struttura, e condizioni consente un generale passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso o di vincoli di proprietà o condominio;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è contraddistinta da un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile;
d) è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, sopra o sotto di essa, di infrastrutture di servizio da parte dell'ente pubblico (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche).
E’ altresì pacifico che la mancata utilizzazione di essa da parte della generalità degli utenti, protrattasi anche per un lungo lasso di tempo, non depone ex se per la cessata destinazione all'uso pubblico, occorrendo fatti concludenti ed univoci atti a comprovare il venir meno delle esigenze di utilizzo generale (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V 30.11.2011, n. 6338; id. sez. IV, 07.09.2006 n. 5209; TAR Liguria sez. II 19.05.2011, n. 799; TAR Umbria 21.09.2004, n. 545).
L’Amministrazione resistente, sulla base di precise ricognizioni effettuate nel periodo 1997-2006 dai propri organi tecnici depositate in giudizio (sopra specificate) sulle condizioni morfologiche dei luoghi, ha escluso non solo l’idoneità all’uso pubblico ma anche la stessa qualificazione quale strada, in considerazione, tra l’altro:
- dell’irregolarità del sedime (in alcuni tratti sterrato ed in altri costituito da terreno vegetativo)
- del pessimo stato di manutenzione e della notevole pendenza di alcuni tratti (tale da impedire il transito dei veicoli)
- dell’assenza di collegamento con la strada pubblica e l’esistenza di tratti di strade alternativi per il collegamento tra San Carlo e San Bartolomeo.
Conseguentemente, ha coerentemente deciso di procedere all’espressa sdemanializzazione della strada vicinale in questione.
Di li a poco, e precisamente nel mese di novembre 2006, ha esercitato un repentino “ius poenitendi” senza effettuare l’indispensabile valutazione tecnica sull’opportunità di considerare tutt’ora prevalente l’esigenza pubblica del ripristino della situazione precedente per tutta o solo una parte della strada stessa, si da contravvenire alle risultanze precedentemente raggiunte, come accertato dalla sentenza 592/2009 di annullamento delle deliberazioni di revoca.
Come condivisibilmente argomentato dalla difesa della ricorrente, la nuova deliberazione C.C. 270/2010 qui impugnata, da una parte, interviene a disciplinare la questione dell’uso pubblico in costanza di proprie precedenti deliberazioni tutt’ora valide ed efficaci, per effetto della sentenza 592/2009 la quale, nell’annullare la revoca in autotutela, ne ha pienamente ripristinato ogni efficacia; d’altra parte, la deliberazione impugnata è espressione del potere dell’Amministrazione di rinnovare le proprie precedenti valutazioni, nel rispetto dei vincoli conformativi derivanti dalla sentenza, vale a dire effettuando una più approfondita valutazione tecnica sullo stato dei luoghi e sulla idoneità all’uso pubblico.
Non ritiene il Collegio che la suesposta rinnovata valutazione sia idonea a dimostrare la sopravvenienza di fatti o la logica diversa valutazione di circostanze già accertate dai numerosi pareri tecnici dell’Amministrazione poste a fondamento della deliberazione di sdemanializzazione, oltre che dalle risultanze emerse dalle perizie disposte in sede penale e dalla CTU depositata in sede civile.
Da una parte, il questionario fatto compilare dal Comune ad un gruppo di cittadini appartenenti al bacino d’utenza della strada non è di per sé sufficiente allo scopo poiché, tuttalpiù, esso comprova la generica permanenza dell’interesse all’uso della strada “uti singuli” da parte di un gruppo limitato di persone e non già di una collettività indeterminata “iure servitutis publicae”; inoltre, la mera tolleranza dei proprietari interessati, secondo costante giurisprudenza, impedisce la costituzione sia di una servitù pubblica di passaggio per uso ultraventennale (Consiglio di Stato sez. V 28.01.1998 n. 102) sia per effetto di dicatio ad patriam (Cassazione civ. sez. II 12.08.2002, n. 12167).
D’altronde, la contraddittorietà dell’operato del Comune traspare apertamente dalla stessa motivazione della deliberazione impugnata, laddove si afferma che in alcuni tratti la strada sarebbe addirittura inesistente (pag. 4/5) mentre alla successiva pag. 6 si evince che la strada sarebbe aperta al pubblico transito da tempo immemorabile.
Se è vero che con l'introduzione dell'art. 21-quinquies della L n. 241/1990, il potere di revoca ricomprende sia il c.d. “ius poenitendi”, ossia la mutata valutazione soggettiva dell’interesse pubblico, sia ogni diversa valutazione per il sopravvenuto mutamento delle circostanze di fatto o di diritto che costituivano il fondamento della decisione (Consiglio di Stato sez. V 05.07.2011 n. 4028; id. sez. V 21.04.2010, n. 2244), esso non può certo spingersi sino al disconoscimento dei fatti obiettivamente accertati, nella specie la natura e la morfologia della strada, posti a fondamento dell’attività oggetto dell’autotutela, a pena di evidente travisamento e sviamento della funzione pubblica.
Parimenti non costituiscono elementi decisivi idonei a comprovare l’uso pubblico né l’inserimento nella toponomastica comunale, né l’avvenuta posa in opera di una tubazione idrica per servire alcuni utenti, in assenza di altri elementi comprovanti la manutenzione pubblica della strada vicinale
(TAR Umbria, sentenza 23.05.2013 n. 304  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza amministrativa ha da tempo elaborato e riconosciuto il pur controverso istituto dell’atto amministrativo implicito, individuandone in modo rigoroso i presupposti anche al fine di garantirne la compatibilità con la legge sul procedimento amministrativo, con particolare riferimento agli artt. 2, 3, 7 e 10-bis della L. 241/1990.
E’ tuttavia incerta, nella stessa giurisprudenza, la configurabilità sul piano sistematico di una attività di autotutela con funzione di riesame implicita, allorquando la volontà di annullamento o di revoca sia desumibile in modo inequivoco da diversa manifestazione provvedimentale proveniente da organo astrattamente competente al riesame.
Infatti, a fronte della tesi positiva invalsa presso parte della giurisprudenza di prime cure si è efficacemente replicato che la revoca o l’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo implica la necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione, con la conseguenza che essa non può assumere la forma implicita, pena la violazione dell'art. 3 della L. 07.08.1990 n. 241, prescrivente l'obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, a meno che le ragioni della stessa non siano chiaramente intuibili sulla base del contenuto del provvedimento impugnato.
Senza contare poi, che connaturato all’attività di secondo grado, per sua natura ampiamente discrezionale, è il rigoroso rispetto del contraddittorio procedimentale, fatta eccezione per le ipotesi, invero residuali, di interesse pubblico in re ipsa, contraddittorio che, viceversa, ammettendo l’autotutela in via implicita, sarebbe inopinatamente escluso.

Come noto, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo elaborato e riconosciuto il pur controverso istituto dell’atto amministrativo implicito, individuandone in modo rigoroso i presupposti (ex multis di recente C.G.A.S. sez. giurisd. 01.02.2012, n. 118) anche al fine di garantirne la compatibilità con la legge sul procedimento amministrativo, con particolare riferimento agli artt. 2, 3, 7 e 10-bis della L. 241/1990.
E’ tuttavia incerta, nella stessa giurisprudenza, la configurabilità sul piano sistematico di una attività di autotutela con funzione di riesame implicita, allorquando la volontà di annullamento o di revoca sia desumibile in modo inequivoco da diversa manifestazione provvedimentale proveniente da organo astrattamente competente al riesame.
Infatti, a fronte della tesi positiva invalsa presso parte della giurisprudenza di prime cure (TAR Lombardia-Milano, sez. II, 07.07.2008, n. 2882) si è efficacemente replicato che la revoca o l’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo implica la necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione, con la conseguenza che essa non può assumere la forma implicita, pena la violazione dell'art. 3 della L. 07.08.1990 n. 241, prescrivente l'obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, a meno che le ragioni della stessa non siano chiaramente intuibili sulla base del contenuto del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, sez V 28.06.2011 n. 3875; id. 22.09.2003, n. 5398). Senza contare poi, che connaturato all’attività di secondo grado, per sua natura ampiamente discrezionale, è il rigoroso rispetto del contraddittorio procedimentale, fatta eccezione per le ipotesi, invero residuali, di interesse pubblico in re ipsa, contraddittorio che, viceversa, ammettendo l’autotutela in via implicita, sarebbe inopinatamente escluso.
Ciò premesso, non ritiene il Collegio di poter configurare, nella fattispecie, alcuna revoca indiretta o implicita, poiché alla luce della disciplina normativa dell’annullamento e della revoca d’ufficio di cui agli artt. 21-nonies e 21-quinques della legge 241/1990, l’attività di riesame presuppone, a pena di illegittimità, tra l’altro, una espressa e puntuale ponderazione dell’interesse pubblico con gli interessi contrapposti, nonché l’indicazione delle stesse ragioni di illegittimità o inopportunità del provvedimento.
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha completamente ignorato anche le opposte risultanze fattuali acclarate sino al mese di giugno 2006, non specificando le particolari ragioni atte a giustificarne una valutazione diametralmente opposta e non ha effettuato alcuna comparazione tra gli interessi contrapposti
(TAR Umbria, sentenza 23.05.2013 n. 304  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo trascorso dalla realizzazione giammai può legittimare.
A ciò va aggiunto che -in linea generale- l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo trascorso dalla realizzazione giammai può legittimare (cfr. ex multis TAR Piemonte sez. II, 28.02.2013, n. 271; TAR Catanzaro sez. I, 22.02.2013, n. 183; TAR Lazio sez. I, 11.03.2013, n. 2518) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Va ricordato il consolidato indirizzo giurisprudenziale che riconosce la possibilità di proporre impugnativa avverso strumenti di pianificazione del territorio allorquando la nuova destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente, incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente.
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I rilievi svolti dai privati in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi, che non onerano l'amministrazione a ciò competente di un obbligo di puntuale e analitica motivazione.

Prescindendo dall’effettiva portata e fondatezza delle contestazioni sollevate dalla ricorrente, non si può negare che esse -se esaminate sulla base del parametro di astrattezza tipico delle condizioni di ingresso dell’azione processuale- delineano sufficienti profili di ammissibilità del ricorso, posto che la legittimazione ad agire, nel caso di specie, oltre che sulla vicinitas della ricorrente all’area interessata dalla variante urbanistica, si fonda su specifici effetti pregiudizievoli che la Forgest paventa in conseguenza dei provvedimenti impugnati.
Tale conclusione si inserisce nel contesto del consolidato indirizzo giurisprudenziale che riconosce la possibilità di proporre impugnativa avverso strumenti di pianificazione del territorio allorquando la nuova destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente, incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente (cfr. Cons. St. sez. IV, 28.07.2005, n. 4018, concernente un caso in cui la legittimazione a ricorrere avverso atti di pianificazione riguardanti aree diverse da quelle di proprietà del ricorrente, è stata correlata al pregiudizio -connesso al limitato godimento di una servitù di passaggio- che la contestata previsione urbanistica determinava nella sfera giuridica del ricorrente).
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L’illustrazione delle ragioni del rigetto delle osservazioni, appare certamente adeguata allo sforzo esigibile dall’amministrazione in subiecta materia, posto che, per indirizzo consolidato della giurisprudenza, i rilievi svolti dai privati in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi, che non onerano l'amministrazione a ciò competente di un obbligo di puntuale e analitica motivazione (Cons. St., sez. IV, 12.02.2013 n. 845 e 16.11.2011, n. 6049) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Gli impianti di distribuzione di carburante (disciplinati dal d.lgs. 11.02.1998 n. 32) non sono definibili in senso proprio come “impianti produttivi”, rientrando piuttosto tra le opere catalogabili lato sensu come opere di urbanizzazione secondaria e come infrastrutture complementari al servizio della circolazione stradale, come tali ubicabili in ogni ambito del P.R.G..
In proposito, coglie nel segno l’argomentazione difensiva del Comune secondo cui gli impianti di distribuzione di carburante (disciplinati dal d.lgs. 11.02.1998 n. 32) non sono definibili in senso proprio come “impianti produttivi”, rientrando piuttosto tra le opere catalogabili lato sensu come opere di urbanizzazione secondaria e come infrastrutture complementari al servizio della circolazione stradale, come tali ubicabili in ogni ambito del P.R.G. (cfr. Cons. St. sez. V, 23.01.2007, n. 192; TAR Palermo sez. III, 18.11.2011, n. 2143) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa. Concedendo spazio al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato -legato allo svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore.
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare illegittime le condizioni che subordinano la validità della concessione edilizia alla cessione gratuita di aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche, in quanto condizionare l’assenso all’intervento edilizio a fattori diversi da quelli di stretta conformità ai richiesti parametri normativi, appare non in linea con la natura e le finalità dei poteri dell’amministrazione in materia edilizia, trattandosi di attività vincolata da specifiche norme e funzionale al solo accertamento della corrispondenza degli interventi e dei relativi elaborati progettuali con tali prescrizioni normative.
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La recinzione di un fondo non può essere ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono.
Le censure svolte dal ricorrente appaiono fondate sotto plurimi profili.
Innanzitutto, il provvedimento di diniego opposto dal Comune alla richiesta di concessione edilizia non reca adeguata motivazione in merito all’intervenuta cessazione del vincolo espropriativo che in precedenza destinava parte dell’area privata a viabilità pubblica.
L’intenzione palesata dall’amministrazione di condizionare il rilascio del titolo abilitativo alla previa cessione della fascia di terreno inscritta nell’ambito dei viabilità pubblica, non trova infatti giustificazione nella pianificazione urbanistica all’epoca vigente.
Il punto è di evidente rilievo se si considera che lo "ius aedificandi" costituisce facoltà insita nel diritto di proprietà, comprimibile esclusivamente per un contrasto con esigenze di pubblico interesse recepite nelle prescrizioni urbanistiche. Se, pertanto, un provvedimento di diniego presuppone necessariamente che siano evidenziate ipotesi di contrasto tra l'elaborato progettuale e le prescrizioni urbanistiche, senza possibilità di limitazioni non strettamente pertinenti all'aspetto urbanistico, nel caso di specie tale condizione di contrasto non è rinvenibile, atteso che all’epoca della presentazione dell’istanza di concessione, in data 20.04.2006, era già pacificamente decaduto il vincolo espropriativo potenzialmente configgente con l’intervento edificatorio.
L’operato della pubblica amministrazione si è svolto, inoltre, in contrasto con il principio -costantemente affermato dalla giurisprudenza- secondo il quale l'apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento. Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale della concessione stessa. Concedendo spazio al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato -legato allo svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore (cfr. TAR Milano sez. IV, 10.09.2010, n. 5655; TAR Trentino Alto Adige, Trento sez. I, 04.01.2011, n. 2; TAR Lecce sez. III, 28.09.2012, n. 1623).
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare illegittime le condizioni che subordinano la validità della concessione edilizia alla cessione gratuita di aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche (cfr. Cons. St. sez. V, 24.03.2001, n. 1702; TAR Milano sez. II, 18.02.1984, n. 77), in quanto condizionare l’assenso all’intervento edilizio a fattori diversi da quelli di stretta conformità ai richiesti parametri normativi, appare non in linea con la natura e le finalità dei poteri dell’amministrazione in materia edilizia, trattandosi di attività vincolata da specifiche norme e funzionale al solo accertamento della corrispondenza degli interventi e dei relativi elaborati progettuali con tali prescrizioni normative.
Sotto diverso profilo, correttamente la difesa di parte ricorrente richiama il principio giurisprudenziale secondo il quale la recinzione di un fondo non può essere ostacolata dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore (nel caso di specie peraltro assente), in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono (cfr. TAR Bari sez. III, 22.02.2006, n. 572; TAR Catanzaro sez. II, 24.02.2003, n. 351; TAR Milano, sez. II, 20.05.1993 n. 334 e 24.10.1991 n. 1247) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Relativamente ai contrasti insorti tra il ricorrente e le proprietà confinanti per l’esercizio del passaggio sulla strada esistente, va rilevato che si tratta di profilo meramente civilistico, sul quale l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna preclusione al rilascio del titolo edilizio, se ed in quanto il sottostante intervento sia, indipendentemente dalla controversia civile in atto, legittimamente assentibile in quanto conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Invero, i rapporti tra l'istante e i vicini hanno natura e rilevanza privatistica e non devono interessare l'amministrazione locale, anche in ragione della clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi (oggi prevista dall'art. 11, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Pertanto, in sede di rilascio di concessione od autorizzazione edilizia, l'amministrazione deve limitarsi a verificare che il richiedente sia proprietario od abbia comunque la disponibilità dell'area interessata, non essendo necessario compiere ulteriori ed autonome indagini circa l'esistenza e/o la natura (reale o personale) di diritti vantati da terzi, che la legge fa comunque salvi.
Infine, per quanto concerne la questione (pure evocata negli atti comunali del 17 e 25.08.2006) dei contrasti insorti tra il ricorrente e le proprietà confinanti per l’esercizio del passaggio sulla strada esistente, va rilevato che si tratta di profilo meramente civilistico, sul quale l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna preclusione al rilascio del titolo edilizio, se ed in quanto il sottostante intervento sia, indipendentemente dalla controversia civile in atto, legittimamente assentibile in quanto conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Invero, i rapporti tra l'istante e i vicini hanno natura e rilevanza privatistica e non devono interessare l'amministrazione locale, anche in ragione della clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi (oggi prevista dall'art. 11, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380; cfr. in questo senso parere Cons. St., sez. II, 27.02.2002, n. 2559, secondo cui "una volta accertata la conformità dell'intervento agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, l'assumere a presupposto del diniego un elemento estraneo a tale verifica, qual è la viabilità di accesso al lotto sul quale si chiede di costruire, esula dai poteri assegnati al Comune dalla legge in sede di rilascio dl permesso di costruire". Nello stesso senso cfr. Cons. di Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341; TAR Veneto sez. II, 12.01.2011, n. 37; TAR Latina sez. I, 09.12.2010, n. 1949).
Pertanto, in sede di rilascio di concessione od autorizzazione edilizia, l'amministrazione deve limitarsi a verificare che il richiedente sia proprietario od abbia comunque la disponibilità dell'area interessata, non essendo necessario compiere ulteriori ed autonome indagini circa l'esistenza e/o la natura (reale o personale) di diritti vantati da terzi, che la legge fa comunque salvi (cfr. TAR Trento Trentino Alto Adige, Trento 18.06.2002, n. 197, vertente su fattispecie analoga a quella per cui è causa) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.05.2013 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' inaffidabile un'offerta con margine di utile pari a zero, anche se formulata da una Onlus priva, in quanto tale, di scopo di lucro.
La formulazione di un offerta da parte di un'ATI, ad una gara per l'affidamento del servizio di assistenza domiciliare integrata, con un margine lordo (utile) pari a zero la rende inaffidabile ed inattendibile, anche nel caso in cui la proposta provenga da una ONLUS priva, in quanto tale, di scopo di lucro.
L'ATI suddetta si sarebbe discostata dalle tabelle di cui al decreto ministeriale del 02.04.2012, senza, tuttavia, addurre alcuna logica giustificazione, né specificare le ragioni che consentirebbero di operare in condizioni più favorevoli; pertanto, le giustificazioni dell'ATI controinteressata non offrirebbero elementi di prova a supporto degli scostamenti dai dati tabellari, il che renderebbe inaffidabile l'offerta (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 20.05.2013 n. 781 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'illegittimità nel caso di aggiudicazione di una gara ad un consorzio di cooperative di produzione e lavoro, della designazione di secondo grado, o "a cascata".
L'art. 13, c. 4, della l. n. 109/1994 (ora art. 37, c. 7, del d.lgs. n. 163 del 2006), ha eccezionalmente previsto che i consorzi tra società cooperative di produzione e lavoro indichino, nell'offerta, per quali loro consorziati essi concorrano e non ha, invece, esteso anche ai soggetti (eventualmente costituiti in forma consortile) così designati di indicare, a loro volta, a cascata, i propri consorziati chiamati ad eseguire i lavori stessi.
Il consorzio concorrente ed aggiudicatario può avvalersi delle prestazioni di un'impresa cooperativa in esso associata e specificamente designata in sede di gara; e, in tal caso, l'impresa indicata può eseguire i lavori pur essendo priva dei requisiti di qualificazione tecnica; ma non anche, a quest'ultima, di avvalersi di un'ulteriore impresa -a sua volta, in essa associata- altrimenti potendosi innescare un meccanismo di designazioni a catena destinato a beneficiare non (secondo la ratio legis) il consorzio concorrente e le imprese cooperative in esso associate, ma, in ipotesi (come nel caso di specie) anche soggetti terzi, non concorrenti direttamente alla gara, né in questa puntualmente designati, secundum legem, dal concorrente risultato aggiudicatario, quali materiali esecutori dei lavori (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.05.2013 n. 14 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla insussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo per le questioni riguardanti la legittimità del documento unico di regolarità contributiva (durc).
La valutazione di gravità o meno della infrazione previdenziale è riservata agli enti previdenziali e la stessa è, pertanto, vincolante per le stazioni appaltanti, precludendo ad esse qualsivoglia apprezzamento autonomo.

Sotto il profilo soggettivo le Casse Edili appartengano alla categoria delle associazioni non riconosciute ex art. 36 c.c. le quali, nell'esercizio delle loro funzioni tipiche, non sono soggette di regola alla giurisdizione del giudice amministrativo. Sotto il profilo oggettivo, poi, il documento unico di regolarità contributiva (durc), si sostanza in una dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso dell'ente, assistiti da pubblica fede ex articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso.
Ne consegue che eventuali errori contenuti in detto documento, involgendo posizioni di diritto soggettivo afferenti al sottostante rapporto contributivo, potranno essere corretti dal giudice ordinario, o all'esito di proposizione di querela di falso, o a seguito di ordinaria controversia in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria. Infatti, ciò che forma oggetto di valutazione ai fini del rilascio del certificato è la regolarità dei versamenti effettuata dall'impresa iscritta presso la Cassa Edile, ed in questo ambito ciò che viene in rilievo non è certo un rapporto pubblicistico, bensì un rapporto obbligatorio previdenziale di natura privatistica.
In altri termini, il rapporto sostanziale di cui il durc è mera attestazione si consuma interamente in ambito privatistico, senza che su di esso vengano ad incidere direttamente o indirettamente poteri pubblicistici, per cui il sindacato sullo stesso esula dall'ambito della giurisdizione, ancorché esclusiva, di cui è titolare il giudice amministrativo in materia di appalti.
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Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 38, c. 1, lett. i), d.lgs. n.163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di irregolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacare il contenuto (Adunanza Plenaria del CdS 16/04/2012, n. 8) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.05.2013 n. 2682 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: La normativa a tutela della concorrenza nel settore dell'acqua si applica anche agli appalti o ai concorsi riguardanti lo smaltimento o il trattamento delle acque reflue.
L'art. 209 del D.Lgs. n. 163/2006, riproduce pedissequamente l'art. 4 della Direttiva 2004/17/CE, in forza del quale la normativa a tutela della concorrenza nel settore dell'acqua si applica anche agli appalti o ai concorsi riguardanti lo smaltimento o il trattamento delle acque reflue, qualora siano attribuiti o organizzati da alcuno degli enti del settore speciale dell'acqua, analogamente è a dirsi per lo smaltimento dei fanghi prodotti dalla depurazione, che ne costituisce il necessitato complemento operativo. Il dato, tuttavia, non comporta di per sé che qualsivoglia affidamento avente ad oggetto lo smaltimento di fanghi da depurazione debba obbedire alla disciplina dettata dall'art. 209, posto che questa riguarda i soli affidamenti attribuiti od organizzati da enti che esercitano le attività di messa a disposizione o gestione di reti fisse in connessione con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acque potabile, ovvero l'alimentazione delle reti con acqua potabile.
Deve riconoscersi ad un'impresa operante nel settore dei rifiuti speciali non pericolosi e titolare dell'affidamento, da parte di enti pubblici, di numerosi servizi di prelievo e smaltimento di fanghi da depurazione, di un interesse qualificato ad accedere a tutti gli atti e documenti concernenti l'affidamento a terzi, da parte di Aquapur, società a prevalente partecipazione pubblica affidataria della gestione del depuratore, in quanto la summenzionata società riveste la qualità di organismo di diritto pubblico, e questo anche a voler ammettere che la prevalente attività esercitata presenti invece carattere industriale e commerciale. L'infrazionabilità dei reflui implica peraltro l'attrazione dell'intero affidamento del servizio di prelievo e smaltimento dei fanghi nella sfera pubblicistica dell'attività di Aquapur, non potendosi altrimenti garantire tutela ai superiori principi di libera concorrenza, parità di trattamento, imparzialità, pubblicità, trasparenza (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 15.05.2013 n. 813 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che il Comune non sia intervenuto tempestivamente nell’assumere iniziative per il ripristino della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della strada discendente dalla sua iscrizione nell’elenco delle strade pubbliche, ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono l’esistenza di una strada vicinale iscritta come tale nell’elenco delle strade comunali, l’uso da parte della collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse per il collegamento con la pubblica via del santuario dell’acqua nera e l’interruzione e trasformazione da parte del ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo la realizzazione sull’area stradale di opere edilizie abusive.
L’asserita privatizzazione della strada “ab immemore” sulla quale insiste la difesa del Grassini, appare priva di consistenza, atteso che l’istituto richiamato dall’interessato, presuppone il disuso del bene demaniale per un tempo superiore a cinquanta anni, ovvero il verificarsi di fatti naturali che abbiano mutato l’originaria consistenza e funzione del bene.
Nel caso non risulta che ci siano stati eventi naturali significativi e l’unico elemento portato a suffragio di tale ricostruzione giuridica è la costruzione di opere abusive, avvenuta solamente quindici anni prima dell’ordinanza di rimozione qui in questione e che, verosimilmente è stata la causa dello spostamento che la strada avrebbe subito.
La circostanza che il Comune non sia intervenuto tempestivamente nell’assumere iniziative per il ripristino della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della strada discendente dalla sua iscrizione nell’elenco delle strade pubbliche (giusta delibera comunale n. 57 del 1969), ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono l’esistenza di una strada vicinale iscritta come tale nell’elenco delle strade comunali, l’uso da parte della collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse per il collegamento con la pubblica via del santuario dell’acqua nera e l’interruzione e trasformazione da parte del ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo la realizzazione sull’area stradale di opere edilizie abusive (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2012, n. 3531; sez. V, 04.02.2004, n. 373; sez. V, 24.10.2002, n. 5692; Cass. civ., sez. II, 10.10.2000, n. 13485; 07.04.2000, n. 4345; Sez. I, 03.10.2000, n. 13087, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d) c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta, da sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera; anzi, l’eventuale danno pregresso produce la necessità di una indagine ancor più accurata, per scongiurare un maggiore, più grave e definitivo turbamento, dei valori tipici dei luoghi.
Osserva, a questo proposito, il Collegio che, come rilevato dal giudice di prime cure, il Soprintendente -nel ritenere illegittimo l’atto emesso dal Comune di Taranto in quanto nell’attuare “una inammissibile deroga al vincolo” si pone in contrasto con quest’ultimo- espone in maniera puntuale le ragioni di tale contrasto al fine di evidenziare i profili di illegittimità connessi all’azione del dirigente comunale, atteso che, ai sensi dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, la funzione del parere soprintendentizio è quella di verificare la compatibilità dell’opera abusiva con i valori paesistici tutelati dal vincolo.
Tale motivazione, strettamente connessa alla illegittimità del provvedimento n. 2230 del comune di Taranto, non travalica i limiti propri del sindacato estrinseco di legittimità e non svolge specifiche valutazioni di merito, essendo invece volta esclusivamente a evidenziare l’iter logico sotteso alla menzionata dichiarazione di illegittimità del provvedimento comunale.
Risulta infatti del tutto immotivata –e in contrasto logico con la realtà dei luoghi– la considerazione posta a base della autorizzazione comunale, la quale ha rilevato che l’immobile in questione, posto in prossimità del mare, “non costituisce alterazione dell’ambiente circostante, già interessato da una diffusa edificazione”.
Contrariamente a quanto affermato dall’appellante, quindi, il “sindacato” esercitato dalla Soprintendenza con il decreto n. 4724 del 26.02.2004 è esente da censure, rientrando nell’ambito del suo potere il constatare la sostanziale assenza di motivazione della autorizzazione.
Il Collegio ritiene, altresì, che sotto il profilo sostanziale non può trovare condivisione la valutazione comunale sul rilievo della presenza di diffusi illeciti edilizi nella medesima zona ove è stato realizzato l’immobile oggetto degli impugnati provvedimenti: al contrario, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto esprimersi sul perché la sua demolizione non avrebbe consentito una riqualificazione del territorio.
In ogni caso, per la pacifica giurisprudenza “in materia di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta, da sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera; anzi, l’eventuale danno pregresso produce la necessità di una indagine ancor più accurata, per scongiurare un maggiore, più grave e definitivo turbamento, dei valori tipici dei luoghi” (Cons. di Stato, Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la censura relativa alla mancata sospensione del procedimento volto a reprime l’abuso edilizio in pendenza della domanda di condono presentata ai sensi dell’art. 32, comma 25, del decreto legge n. 269 del 2003, la sospensione non opera quale effetto automatico connesso alla presentazione della domanda di condono, poiché tale effetto risulta subordinato all’“astratta sanabilità” delle opere abusivamente eseguite a norma dell’art. 32, comma 27, del citato decreto legge.
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In sede di rilascio della concessione in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo […] l’esistenza del vincolo (stesso) va valutata al momento in cui deve essere presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo in questione.

Il Collegio rileva, infine, per quanto riguarda la censura relativa alla mancata sospensione del procedimento volto a reprime l’abuso edilizio in pendenza della domanda di condono presentata dall’appellante ai sensi dell’art. 32, comma 25, del decreto legge n. 269 del 2003, che la sospensione non opera quale effetto automatico connesso alla presentazione della domanda di condono, poiché tale effetto risulta subordinato, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, all’“astratta sanabilità” delle opere abusivamente eseguite a norma dell’art. 32, comma 27, del citato decreto legge (Cons. di Stato, Sez. V, 03.08.2004, n. 5412).
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La consolidata giurisprudenza in questa materia dispone, infatti, che “in sede di rilascio della concessione in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo […] l’esistenza del vincolo (stesso) va valutata al momento in cui deve essere presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo in questione” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.11.2012, n. 6882)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: I procedimenti concorsuali si concludono con l’approvazione della graduatoria, cui segue, normalmente senza soluzione di continuità, l’atto di nomina costitutivo del rapporto giuridico e degli effetti che ne conseguono.
L’amministrazione, successivamente all’approvazione della graduatoria, può, per specifiche ragioni di tipo organizzativo o finanziario, che devono essere esternate, non procedere alla nomina o spostare in avanti l’adozione dell’atto di nomina.
Nel caso, invece, in cui tale adozione sia impedita dall’esistenza di un contenzioso giudiziale –avente ad oggetto, come nella specie, la legittimità di un atto di esclusione– gli effetti giuridici devono essere collegati ad una data anteriore rispetto a quella di adozione del decreto di nomina. Infatti, una volta emanata la sentenza l’atto illegittimo viene annullato con effetto retroattivo, con la conseguenza che viene meno, per una fictio iuris, anche lo spazio temporale esistente tra l’approvazione della graduatoria e l’adozione dell’atto di nomina.
In altri termini, considerando come mai adottato l’atto di esclusione, si applica la regola generale che pone in rapporto di stretta successione temporale l’approvazione della graduatoria e l’atto di nomina. Il fenomeno giuridico descritto non è riconducibile, sul piano della qualificazione, alla retroattività in senso proprio dell’atto amministrativo, in quanto la produzione dell’effetto “da tempo anteriore” non deriva da una determinazione volontaria dell’amministrazione ma è connessa alla natura della sentenza di annullamento e, in particolare, all’effetto di ripristinazione proprio del giudicato.

I procedimenti concorsuali si concludono con l’approvazione della graduatoria, cui segue, normalmente senza soluzione di continuità, l’atto di nomina costitutivo del rapporto giuridico e degli effetti che ne conseguono.
L’amministrazione, successivamente all’approvazione della graduatoria, può, per specifiche ragioni di tipo organizzativo o finanziario, che devono essere esternate, non procedere alla nomina o spostare in avanti l’adozione dell’atto di nomina (cfr. Cons. Stato, VI, 21.10.2011, n. 5672).
Nel caso, invece, in cui tale adozione sia impedita dall’esistenza di un contenzioso giudiziale –avente ad oggetto, come nella specie, la legittimità di un atto di esclusione– gli effetti giuridici devono essere collegati ad una data anteriore rispetto a quella di adozione del decreto di nomina. Infatti, una volta emanata la sentenza l’atto illegittimo viene annullato con effetto retroattivo, con la conseguenza che viene meno, per una fictio iuris, anche lo spazio temporale esistente tra l’approvazione della graduatoria e l’adozione dell’atto di nomina.
In altri termini, considerando come mai adottato l’atto di esclusione, si applica la regola generale che pone in rapporto di stretta successione temporale l’approvazione della graduatoria e l’atto di nomina. Il fenomeno giuridico descritto non è riconducibile, sul piano della qualificazione, alla retroattività in senso proprio dell’atto amministrativo, in quanto la produzione dell’effetto “da tempo anteriore” non deriva da una determinazione volontaria dell’amministrazione ma è connessa alla natura della sentenza di annullamento e, in particolare, all’effetto di ripristinazione proprio del giudicato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTAZIONE: Non è necessario per poter partecipare all'affidamento di incarichi di progettazione in qualità di raggruppamento temporaneo avere come associato un professionista abilitato da meno di cinque anni all'esercizio della professione.
Per poter partecipare all'affidamento di incarichi di progettazione in qualità di raggruppamento temporaneo non è necessario avere come associato un professionista abilitato da meno di cinque anni all'esercizio della professione, e ciò in quanto il c. 7 dell'art. 90 del codice dei contratti (D.lgs. n. 163/2006), parla soltanto di "presenza" di un giovane professionista, con evidenti finalità di carattere "promozionale", non potendo essere intesa come prescrizione di un vero e proprio obbligo di "associare" il giovane professionista al raggruppamento.
Pertanto, ai fini della valida partecipazione di un R.T.I. a procedure indette per l'aggiudicazione di servizi di progettazione, è sufficiente che nella compagine del raggruppamento sia contemplata la presenza, con rapporto di collaborazione professionale o di dipendenza, di un professionista abilitato iscritto all'albo da meno di cinque anni, senza la necessità che questi assuma anche responsabilità contrattuali.
Ciò che conta, in definitiva, è che il giovane professionista -pur senza assurgere a responsabilità sociali probabilmente non proporzionate alla sua ridotta formazione professionale- partecipi al servizio di progettazione oggetto di affidamento maturando esperienze professionali e lavorative.
È questa la finalità promozionale della previsione, che viene radicalmente disattesa ove il giovane professionista -pur figurando sulla carta come componente del gruppo di lavoro- non è in realtà investito della benché minima incombenza collaborativa e non può quindi acquisire alcuna utile esperienza formativa (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 08.05.2013 n. 268 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVINon è ravvisabile violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento, di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 241, nel caso in cui il soggetto inciso sfavorevolmente dal provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto del suddetto avvio, sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far determinare in modo diverso le scelte dell'amministrazione procedente.
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Nel caso dell’ordinanza contingibile e urgente, come disciplinata dall’art. 54, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, il ricorso a tale provvedimento presuppone una situazione di pericolo effettivo ed imprevisto, costituente concreta minaccia per la pubblica incolumità, per fronteggiare la quale sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento quali sono appunti i rimedi di carattere ordinario.
Ne consegue che il carattere di temporaneità è tipico delle ordinanze contingibili e urgenti e che, pertanto, è conforme, alla ratio della legge, oltre che satisfattivo ai fini motivazionali, che a distanza di 6 anni, come nel caso di specie, la situazione di pericolo, per la parte in cui persiste, possa essere affrontata con strumenti di carattere ordinario e che conseguentemente l’ordinanza contingibile ed urgente debba essere revocata per lasciare il posto a quest’ultima tipologia di provvedimenti.
In ogni caso, si tratta di poteri derogatori attribuiti al Sindaco, il cui esercizio non può essere subordinato alla preventiva attivazione del contraddittorio.

In proposito si considera che, per costante orientamento giurisprudenziale, non è ravvisabile violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento, di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 241, nel caso in cui il soggetto inciso sfavorevolmente dal provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto del suddetto avvio, sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far determinare in modo diverso le scelte dell'amministrazione procedente (tra le più recenti, Cons. St., sez. IV, 16.02.2010 n. 885; sez. III, 20.06.2012, n. 3595).
Nel caso dell’ordinanza contingibile e urgente, come disciplinata dall’art. 54, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 nel testo vigente alla data dell’emanazione dell’ordinanza sindacale 03.12.2005 n. 17, il ricorso a tale provvedimento presuppone una situazione di pericolo effettivo ed imprevisto, costituente concreta minaccia per la pubblica incolumità, per fronteggiare la quale sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento quali sono appunti i rimedi di carattere ordinario. Ne consegue che il carattere di temporaneità è tipico delle ordinanze contingibili e urgenti e che, pertanto, è conforme, alla ratio della legge, oltre che satisfattivo ai fini motivazionali, che a distanza di 6 anni, come nel caso di specie, la situazione di pericolo, per la parte in cui persiste, possa essere affrontata con strumenti di carattere ordinario e che conseguentemente l’ordinanza contingibile ed urgente debba essere revocata per lasciare il posto a quest’ultima tipologia di provvedimenti.
In ogni caso, si tratta di poteri derogatori attribuiti al Sindaco, il cui esercizio non può essere subordinato alla preventiva attivazione del contraddittorio (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 30.04.2013 n. 2055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Invero la violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr: Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 585 del 02.02.2012; Tar Toscana-Firenze, sez. III, n. 1616/2005), atteso che il rapporto in questione non sussisteva “da almeno tre mesi dalla data del 30.06.2009” (TAR Siciliza-Catania, Sez. IV, sentenza 26.04.2013 n. 1182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di opere in assenza di autorizzazione paesaggistica ex art. 151 D.Lgs. 490/1999, l’art. 164 prevede una sanzione pecuniaria commisurata alla maggior somma tra danno arrecato e profitto conseguito. Tale alternativa dimostra che il pregiudizio ambientale non è esclusivo presupposto applicativo di tale sanzione, comunque denominata, dovendo essa essere applicata anche in caso di illecito formale.
Inoltre le opere di mitigazione, anche se eliminano il pregiudizio all’interesse ambientale, non sono evidentemente equipollenti e fungibili rispetto alle demolizione nella prospettiva dell’interesse privato del proprietario, non avendo per esso alcuna valenza sanzionatoria.

a) In caso di opere in assenza di autorizzazione paesaggistica ex art. 151 D.Lgs. 490/1999, l’art. 164 prevede una sanzione pecuniaria commisurata alla maggior somma tra danno arrecato e profitto conseguito. Tale alternativa dimostra che il pregiudizio ambientale non è esclusivo presupposto applicativo di tale sanzione, comunque denominata, dovendo essa essere applicata anche in caso di illecito formale.
Inoltre le opere di mitigazione, anche se eliminano il pregiudizio all’interesse ambientale, non sono evidentemente equipollenti e fungibili rispetto alle demolizione nella prospettiva dell’interesse privato del proprietario, non avendo per esso alcuna valenza sanzionatoria (cfr. in termini TAR Toscana, 15.07.2011, n. 1195; Cons. Stato, IV, 14.04.2010, n. 2083; TAR Liguria 854/2005).
b) L’opzione per la sanzione pecuniaria anziché demolitoria non necessita di motivazione in presenza della domanda (di sanatoria) formulata in tal senso dall’interessato.
c) Il procedimento attivato con la domanda di concessione è senz’altro concluso con il perfezionamento del titolo: il suo ritiro e il pagamento della sanzione da parte dell’interessato sono soltanto condizioni di efficacia, il cui avveramento o meno non rientra nella sfera di disponibilità della P.A. (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 17.04.2013 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il legislatore del 1999 ha innovato solo per quanto riguarda lo stato di disoccupazione al momento dell’assunzione e non per quello della partecipazione e ciò in quanto tale requisito deve considerarsi sempre il presupposto necessario” per l’accesso alle riserve di posto di cui agli artt. 1 e 3 della citata legge.
Altresì, la Consulta ha stabilito che, in base al combinato disposto degli artt. 7, 8 e 16 della l. n. 68 del 1999, “il principio, secondo cui le quote di riserva nelle assunzioni presso le pubbliche amministrazioni postulano necessariamente lo stato di disoccupazione del soggetto -costante nella vigenza della legge 02.04.1968, n. 482- persiste anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 68 del 1999”.
In conclusione il Collegio deve rilevare che dal combinato disposto degli artt. 7, comma 2, 8, comma 2 e 16, comma 2 della citata l. n. 68 del 1999 discende che il requisito della disoccupazione, che trova il suo presupposto nell’iscrizione negli appositi elenchi, deve sussistere al momento della presentazione della domanda e può non sussistere al momento dell’assunzione.

L’art. 7, comma 2, della legge 12.03.1999, n. 68, nell’indicare le modalità delle assunzioni obbligatorie, stabilisce che per le assunzioni di cui all’art. 36, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 29 del 1993 (sostituito dall’art. 35, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 165 del 2001) gli appartenenti alle categorie protette -iscritti nell’elenco di cui all’art. 8, comma 2 della predetta legge in cui possono essere inseriti esclusivamente quelli che risultano disoccupati- hanno diritto alla riserva dei posti nei limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta per cento dei posti messi a concorso.
Osserva il Collegio che la chiarezza del disposto normativo non consente di condividere la decisione che il giudice di prime cure ha dato della normativa vigente, atteso che detto articolo stabilisce per tabulas che soltanto i soggetti iscritti nell’elenco di cui all’art. 8, comma 2, della predetta legge, in quanto disoccupati, hanno titolo alla riserva dei posti.
A quanto precede deve aggiungersi che l’art. 16, comma 2, della l. n. 68 del 1999 -che dispone che i lavoratori disabili “che abbiano conseguito l’idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell'adempimento dell'obbligo di cui all'articolo 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso”- non si pone in contrasto con le sopracitate norme, ma anzi, disciplinando una fattispecie diversa e cioè quella successiva al conseguimento dell’idoneità, le completa e le integra prevedendo che ai fini dell’assunzione il lavoratore disabile possa anche non trovarsi in stato di disoccupazione e ciò con l’evidente ratio di non penalizzare i soggetti interessati a causa della durata imprevedibile dell’iter concorsuale.
Tale indirizzo risulta, peraltro, confermato dalla giurisprudenza, che ha affermato che “il legislatore del 1999 ha innovato solo per quanto riguarda lo stato di disoccupazione al momento dell’assunzione e non per quello della partecipazione” e ciò in quanto tale requisito “deve considerarsi sempre il presupposto necessario” per l’accesso alle riserve di posto di cui agli artt. 1 e 3 della citata legge (Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.12.2006, n. 7395; Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.03.2003, n. 1271).
Il medesimo orientamento risulta corroborato anche dalla decisione della Corte Costituzionale che ha stabilito che, in base al combinato disposto degli artt. 7, 8 e 16 della l. n. 68 del 1999, “il principio, secondo cui le quote di riserva nelle assunzioni presso le pubbliche amministrazioni postulano necessariamente lo stato di disoccupazione del soggetto -costante nella vigenza della legge 02.04.1968, n. 482- persiste anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 68 del 1999” (Corte Costituzionale, 11.05.2006, n. 190).
In conclusione il Collegio deve rilevare che dal combinato disposto degli artt. 7, comma 2, 8, comma 2 e 16, comma 2 della citata l. n. 68 del 1999 discende che il requisito della disoccupazione, che trova il suo presupposto nell’iscrizione negli appositi elenchi, deve sussistere al momento della presentazione della domanda e può non sussistere al momento dell’assunzione e che, di conseguenza, l’interpretazione della vigente normativa effettuata dal Tar per la Campania nella sentenza in epigrafe impugnata -oltre a non essere conforme al dettato normativo- risulta anche in contrasto con la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato e con le statuizioni della Corte Costituzionale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 1992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa lamentata omissione della previa notifica dell’atto di accertamento dell’inottemperanza (dell'ordinanza di demolizione) produce l'impossibilità di adottare la successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale e di disporre tale acquisizione, ciò in quanto, come previsto al quarto comma dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, “l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3 (novanta giorni dall’ordinanza di demolizione), previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari”.
Sicché, mancando la notifica al ricorrente dell'atto di accertamento della inottemperanza, deve ritenersi illegittimo il provvedimento di acquisizione delle opere abusive e dell'area di sedime.

Il ricorso è fondato in parte qua.
Il Comune ha eccepito di aver notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c. alla ricorrente il verbale di inottemperanza, ma non ha comprovato il rispetto degli adempimenti da tale norma stabiliti (deposito della copia dell'atto nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affissione dell'avviso del deposito, notizia del deposito al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento) in mancanza dei quali la notifica deve comunque ritenersi non perfezionatasi.
Infatti, la notificazione eseguita a norma dell'art. 140 c.p.c. non si perfeziona se l'ufficiale giudiziario, a completamento delle altre formalità, non spedisce la raccomandata con la quale dà notizia degli estremi dell'atto (Giurisprudenza assolutamente pacifica; tra le tante Consiglio di Stato sez. VI, 28.12.2011 n. 6897).
Ciò posto, non rimane che riaffermare l’orientamento (anche) di questa Sezione (per tutte, sent. n. 1688/2009 del 22/10/2009), secondo il quale la lamentata omissione della previa notifica dell’atto di accertamento dell’inottemperanza produce l'impossibilità di adottare la successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale e di disporre tale acquisizione, ciò in quanto, come previsto al quarto comma dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, “l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3 (novanta giorni dall’ordinanza di demolizione), previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari”.
Sicché, mancando la notifica al ricorrente dell'atto di accertamento della inottemperanza, deve ritenersi illegittimo il provvedimento di acquisizione delle opere abusive e dell'area di sedime (in termini, TAR Sicilia Sez. I di Catania, n. 1688/2009 cit. e Giur. ivi richiam.: TAR Sicilia Palermo, sez. III, 25.09.2006, n. 1947; TAR Venezia n. 478 del 30.03.1996; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 28.04.2003, n. 4175) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.04.2013 n. 1053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SEGRETARI COMUNALIDopo la riforma indotta dall’art. 51 della legge n. 127 del 1997, il meccanismo giuridico che caratterizza i segretari comunali e provinciali è scisso in una doppia procedura, ognuna delle quali è indipendente dall’altra: la prima consiste nella iscrizione all’albo, il che determina la idoneità dei soggetti a ricoprire la posizione di segretario comunale o provinciale, a seconda della relativa fascia, mentre la seconda è affidata alla scelta dei sindaci, i quali possono richiedere la nomina di uno dei segretari iscritti all’albo, ma ciò non è un obbligo giuridico, ma solo una facoltà, mentre, naturalmente, i soggetti iscritti all’albo non possono pretendere alcunché dai sindaci per il fatto della loro iscrizione, la quale, si ripete, è solo un presupposto per la eventuale, successiva richiesta di nomina.
Osserva invero la Sezione che il ricorrente è un soggetto che, a seguito del superamento di un pubblico concorso, è stato inserito all’albo dei segretari comunali e provinciali, relativamente alla fascia C (comuni fino a 3.000 abitanti) e pertanto lo stesso è un soggetto potenzialmente idoneo ad essere chiamato, a livello personale e fiduciario, da qualche sindaco di comuni ricadenti nel territorio della regione Friuli-Venezia Giulia ed essere nominato nel rapporto di ufficio di segretario comunale, ma la sua situazione personale si ferma qui, non avendo egli titolo ad ingerirsi, per il solo fatto della sua idoneità potenziale, in attività (nella specie di tipo organizzatorio) posta in essere dai comuni.
Infatti, come è noto, dopo la riforma indotta dall’art. 51 della legge n. 127 del 1997, il meccanismo giuridico che caratterizza i segretari comunali e provinciali è scisso in una doppia procedura, ognuna delle quali è indipendente dall’altra: la prima consiste nella iscrizione all’albo, il che determina la idoneità dei soggetti a ricoprire la posizione di segretario comunale o provinciale, a seconda della relativa fascia, mentre la seconda è affidata alla scelta dei sindaci, i quali possono richiedere la nomina di uno dei segretari iscritti all’albo, ma ciò non è un obbligo giuridico, ma solo una facoltà, mentre, naturalmente, i soggetti iscritti all’albo non possono pretendere alcunché dai sindaci per il fatto della loro iscrizione, la quale, si ripete, è solo un presupposto per la eventuale, successiva richiesta di nomina (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 08.04.2013 n. 1661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALII provvedimenti concernenti la circolazione stradale sulle strade comunali sono espressione di funzioni gestionali. Essi, infatti, non implicano l’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo ma di gestione ordinaria. I relativi poteri rientrano, pertanto, nella sfera di attribuzione dei dirigenti e non del Sindaco, secondo il criterio generale di cui all’art. 107 T.U. 18.08.2000 n. 267.
Tale previsione, cronologicamente successiva e specificamente dedicata al riparto di competenze all'interno delle pubbliche amministrazioni, prevale sul diverso regime previsto dall'art. 7 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285.

Ritiene il Collegio che i provvedimenti concernenti la circolazione stradale sulle strade comunali siano espressione di funzioni gestionali. Essi, infatti, non implicano l’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo ma di gestione ordinaria. I relativi poteri rientrano, pertanto, nella sfera di attribuzione dei dirigenti e non del Sindaco, secondo il criterio generale di cui all’art. 107 T.U. 18.08.2000 n. 267.
Tale previsione, cronologicamente successiva e specificamente dedicata al riparto di competenze all'interno delle pubbliche amministrazioni, prevale sul diverso regime previsto dall'art. 7 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285 (TAR Sardegna, sez. II, 06.04.2010 n. 661; TAR Lombardia, Brescia, 28.04.2003 n. 464; Cons. St. sez. II, 01.04.2003 n. 1661) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 29.03.2013 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il rapporto di lavoro alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni (oggi regolato dal d.lgs. n. 165 del 2001) è disciplinato da una lex specialis, che deroga, rendendolo inapplicabile, l’art. 2096 c.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base di detta norma.
In altre parole, mentre nell’impiego privato è pacifico ritenere che il patto di prova debba essere predisposto in forma scritta a pena di nullità, con la conseguenza che, in mancanza di detta formalità lo stesso deve considerarsi nullo e l’assunzione del lavoratore va considerata definitiva, nel pubblico impiego il periodo di prova scaturisce direttamente per effetto ex lege e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale.

... per la riforma della sentenza del TAR CALABRIA-SEZ. STACCATA DI REGGIO CALABRIA n. 00118/2002, resa tra le parti, concernente concorso interno riservato ai vigili urbani
...
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Preliminarmente deve osservarsi che il Titolo III del CCNL in esame (rapporto di lavoro), al Capo I (costituzione del rapporto di lavoro) specifica nell’art. 14 (contratto individuale di lavoro) che “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato è costituito e regolato da contratti individuali, secondo le disposizioni di legge, della normativa comunitaria e del presente contratto. Nel contratto di lavoro individuale, per il quale è richiesta la forma scritta, sono comunque indicati: (…) e) durata del periodo di prova”.
Il successivo art. 14-bis (Periodo di prova) stabilisce che “Il dipendente assunto in servizio a tempo indeterminato è soggetto ad un periodo di prova” e che “possono essere esonerati dal periodo di prova i dipendenti che lo abbiano già superato nella medesima qualifica e profilo professionale presso altra amministrazione pubblica”.
Da tali norme si evince che il periodo di prova nelle Amministrazioni pubbliche è obbligatorio e le assunzioni sono assoggettate all’esito positivo dello stesso.
Come ha chiarito la giurisprudenza, infatti, il rapporto di lavoro alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni (oggi regolato dal d.lgs. n. 165 del 2001) è disciplinato da una lex specialis, che deroga, rendendolo inapplicabile, l’art. 2096 c.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base di detta norma (cfr. Corte di Cassazione, sezione lavoro, 13.08.2008, n. 21586, nonché Corte Costituzionale nn. 313-1996, 309-1997, 89-2003 e 199-2003).
In altre parole, mentre nell’impiego privato è pacifico ritenere che il patto di prova debba essere predisposto in forma scritta a pena di nullità, con la conseguenza che, in mancanza di detta formalità lo stesso deve considerarsi nullo e l’assunzione del lavoratore va considerata definitiva, nel pubblico impiego il periodo di prova scaturisce direttamente per effetto ex lege e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale.
Nel caso di specie, l’esito completamente e radicalmente negativo del periodo di prova è stato ampiamente e motivatamente dimostrato dall’Amministrazione, potendosi così prescindere da ogni questione del tutto formale circa la complessiva valutazione del servizio prestato, vista l’entità e il contenuto di tale giudizio negativo che indubbiamente esprimono un mancato superamento della prova, a prescindere dal fatto che lo stesso fosse o meno compiuto e che la valutazione avesse riguardo al servizio effettivamente prestato a titolo di prova, trattandosi di un giudizio di idoneità dell’appellante a rivestire il ruolo per il quale avrebbe dovuto essere assunto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata.
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti, giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti.
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio.

Rileva in proposito la Sezione che, secondo la condivisibile giurisprudenza formatasi in materia, il bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata (Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n. 1157).
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V, 20.10.2004, n. 6810), giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004, n. 3136).
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio (Consiglio Stato, Sezione IV, 11.09.2006, n. 6060) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALo scopo precipuo della fascia di rispetto di dieci metri, prevista dal RD 523/1904, è quello di assicurare il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi; in altri termini deve essere garantito, attraverso la fascia suindicata, il regolare deflusso idraulico.
Ai fini della soluzione del problema, ritiene il Collegio di dovere prendere le mosse dalla “ratio” dell’art. 96 citato, per verificarne la corretta applicazione nel caso di specie, alla luce dell’accurata analisi tecnica svolta dal CTU.
Lo scopo precipuo della fascia di rispetto di dieci metri, prevista dalla norma 523/1904, è quello di assicurare il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi; in altri termini deve essere garantito, attraverso la fascia suindicata, il regolare deflusso idraulico (cfr., fra le tante, TAR Toscana, sez. III, 26.04.2012, n. 842).
Ciò premesso, risulta -senza smentita alcuna- dalla relazione del CTU (cfr. soprattutto il punto 6 della relazione stessa) che:
- il corso d’acqua di cui è causa –vale a dire il torrente Ripiantino– scorre in una stretta gola, collocata al fondo di una scarpata avente un forte dislivello (circa 9 metri), rispetto all’edificio del sig. Rambelli;
- la sponda del torrente è rocciosa e quindi di sicura stabilità, almeno per quanto concerne la misurazione metrica;
- a monte della proprietà del sig. Rambelli, il torrente è intubato (scorre cioè al coperto in un tubo artificiale), per cui l’eventuale portata di piena non è dissimile a quella che appare in condizioni ordinarie.
La misurazione della “distanza” di cui all’art. 96 citato, effettuata con il sistema tridimensionale, non porta certo a risultati in contrasto con la finalità già ricordata dell’art. 96, in quanto le particolari caratteristiche della zona ove insiste l’abitazione del sig. Rambelli escludono, in base alla relazione del CTU, pericoli o ostacoli del regolare deflusso delle acque.
L’interpretazione dell’art. 96, propugnata dal Comune di Saltrio nella presente fattispecie, risulta quindi erronea, dovendosi preferire il calcolo della distanza minima di legge attraverso un sistema tridimensionale, che consente di affermare il rispetto della distanza stessa da parte della costruzione del sig. Rambelli.
La soluzione interpretativa accolta dallo scrivente Tribunale garantisce da una parte il pieno rispetto dell’art. 96, in conformità alla finalità della norma e dall’altra salvaguarda anche l’interesse del privato, nel complessivo rispetto del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, di diretta derivazione comunitaria, da osservarsi soprattutto nel caso di specie, in cui la Pubblica Amministrazione si è avvalsa del proprio potere di autotutela (sul necessario rapporto fra principio comunitario di proporzionalità ed autotutela amministrativa, si veda TAR Toscana, sez. II, 08.01.2010, n. 8).
Il provvedimento impugnato si fonda quindi su un erroneo presupposto di fatto, vale a dire la violazione –in realtà insussistente– dell’art. 96 citato per effetto del rilascio del permesso di costruire n. 10/2008.
L’Amministrazione di Saltrio è quindi incorsa in un eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e difetto di istruttoria, oltre che nella violazione dell’art. 96 sopra menzionato, dal che consegue l’accoglimento del motivo di ricorso indicato con il numero I^ (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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Il destinatario di un ordine di demolizione di un manufatto abusivo (ovvero il suo avente causa) non è titolare di un affidamento meritevole di tutela, quando siano stati realizzati abusi edilizi, né ci si può dolere del ritardo con cui l’amministrazione ha esercitato il suo potere, così avvantaggiando chi ha l’obbligo di rimuovere gli abusi.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel considerare che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (tra gli altri Cons. Stato, IV, 04.02.2013, n. 666; IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Neppure è fondata la censura secondo cui sarebbe occorsa una specifica motivazione a tutela dell’affidamento che sarebbe sorto, in ragione del notevolissimo decorso del tempo, rispetto alla data dell’abuso.
Infatti, il destinatario di un ordine di demolizione di un manufatto abusivo (ovvero il suo avente causa) non è titolare di un affidamento meritevole di tutela, quando siano stati realizzati abusi edilizi, né ci si può dolere del ritardo con cui l’amministrazione ha esercitato il suo potere, così avvantaggiando chi ha l’obbligo di rimuovere gli abusi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2013 n. 1682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIQualora la p.a., sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento, quello successivo ha valore di atto di conferma, e non di atto meramente confermativo, con la conseguenza che deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento.
Si ha atto meramente confermativo (c.d. conferma impropria), invece, allorché l’amministrazione, di fronte ad un’istanza di riesame, si limiti a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione, e dunque senza riaprire i termini per l’impugnazione.
Con la conferma la p.a. entra, diversamente dall’atto meramente confermativo, nel merito di una nuova istanza e, dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi prospettati dal richiedente, si esprima in senso negativo con provvedimento autonomamente impugnabile.

Al riguardo la costante giurisprudenza di questo Consiglio, dalla quale non vi è motivo di discostarsi nel caso di specie, insegna che qualora la p.a., sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento, quello successivo ha valore di atto di conferma, e non di atto meramente confermativo, con la conseguenza che deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento (Cons. St., sez. V, 25.08.2011, n. 4807).
Si ha atto meramente confermativo (c.d. conferma impropria), invece, allorché l’amministrazione, di fronte ad un’istanza di riesame, si limiti a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione, e dunque senza riaprire i termini per l’impugnazione.
Con la conferma la p.a. entra, diversamente dall’atto meramente confermativo, nel merito di una nuova istanza e, dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi prospettati dal richiedente, si esprima in senso negativo con provvedimento autonomamente impugnabile (Cons. St., sez. VI, 11.05.2007, n. 2315) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.03.2013 n. 1655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla base di una interpretazione funzionale dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942, sussiste la necessità della dotazione di parcheggi privati anche per interventi di ristrutturazione che importino cambio di destinazione con conseguente aumento del carico urbanistico.
Comunque, il vincolo di pertinenza inseparabile tra parcheggio e appartamento è venuto meno in virtù dell’art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246.

Fondata è anche la censura relativa all’imposizione di un vincolo di “pertinenzialità” tra unità immobiliari e posti auto da reperire.
Ferma restando infatti, sulla base di una interpretazione funzionale dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942, la necessità della dotazione (nella misura indicata dalla disciplina impugnata, non fatta oggetto di censura sul punto) di parcheggi privati anche per interventi di ristrutturazione che importino –come nel caso di specie- cambio di destinazione con conseguente aumento del carico urbanistico (cfr. TAR Lazio, II, 07.11.2011, n. 8535; TAR Liguria, I, 14.04.2011, n. 592), il vincolo di pertinenza inseparabile tra parcheggio e appartamento è in effetti venuto meno in virtù dell’art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246 (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.03.2013 n. 525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può affermarsi che i terrapieni trattenuti dai muri in questione abbiano prodotto un dislivello oppure abbiano aumentato il dislivello già esistente per la natura dei luoghi, presupposto che deve invece sussistere perché i muri possano qualificarsi quali costruzioni.
Esclusa la natura di costruzioni delle opere realizzate ed attesa la funzione svolta, di sostenere il terreno al fine evitare movimenti franosi, esse non sono computabili ai fini delle distanze e non violano la destinazione impressa dal p.r.g. all’area in questione, né sono, tantomeno, soggette alle disposizioni che regolano le recinzioni.

Con il primo ed il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 34 delle n.t.a. in relazione all'art. 1, l. n. 10/1977, essendo i terreni inseriti in zona F1 ed inedificabili ed in quanto la norma tecnica di attuazione consentirebbe la realizzazione di recinzioni e non di terrazzamenti con relativi muri di sostegno.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 5 delle n.t.a., la quale prescrive la distanza minima delle costruzioni di cinque metri dal confine: a suo avviso, i muri in questione ed i retrostanti terrapieni, che sarebbero stati realizzati artificialmente, sarebbero delle costruzioni, tenute al rispetto delle distanze legali.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano logico e giuridico, sono privi di fondamento.
Il Collegio è dell’avviso che l’attività istruttoria compiuta nel corso del giudizio civile che si è svolto tra le medesime parti -e che si è concluso con la sentenza del Tribunale di Milano n. 607/2007 del 17.04.2007, parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 500/12 del 09.02.2012- sia esaustiva e che possa, pertanto, disattendersi ogni richiesta di consulenza tecnica d’ufficio avanzata dal ricorrente.
La consulenza tecnica d’ufficio disposta dalla Corte d’Appello di Milano –al fine di ottenere chiarimenti in merito alle conclusioni espresse dalla consulenza tecnica depositata nel giudizio di primo grado- ha accertato la funzione di contenimento dei muri e la loro necessità al fine di evitare “il denudamento, il franamento e/o lo scivolamento della terra naturale”.
Queste valutazioni sono state recepite nella sentenza della Corte d’Appello n. 500/2012 del 09.02.2012, che ha escluso la natura di "costruzioni", agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., dei muri e dei terrazzamenti realizzati dai sig.ri Luigi Pietroboni e Silvio Pietroboni e quindi la violazione della distanza dal confine, quale prescritta dallo strumento urbanistico vigente.
Il Collegio condivide le conclusioni cui è giunta la Corte d’Appello, ritenendo che -alla luce di quanto accertato dalle consulenze tecniche rese nel corso del giudizio civile- non possa affermarsi che i terrapieni trattenuti dai muri in questione abbiano prodotto un dislivello oppure abbiano aumentato il dislivello già esistente per la natura dei luoghi, presupposto che deve invece sussistere perché i muri possano qualificarsi quali costruzioni (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.04.2009, n. 2579).
Né assume rilievo, ai fini della qualificazione dell’intervento, la circostanza che l’amministrazione abbia rilasciato un permesso di costruire in sanatoria: il rilascio di un permesso di costruire è previsto all’art. 10 d.P.R. n. 380/2001 anche per la realizzazione di interventi diversi dalle nuove costruzioni e, comunque, non incide sulla qualificazione delle opere con esso assentite.
Esclusa la natura di costruzioni delle opere realizzate ed attesa la funzione svolta, di sostenere il terreno al fine evitare movimenti franosi, esse non sono computabili ai fini delle distanze e non violano la destinazione impressa dal p.r.g. all’area in questione, né sono, tantomeno, soggette alle disposizioni che regolano le recinzioni.
Non sussiste quindi la violazione degli artt. 5 e 34 delle n.t.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.03.2013 n. 645 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando è proposta una domanda volta ad ottenere il rilascio di un titolo edilizio, il vicino del richiedente può intervenire nel corso del relativo procedimento e può impugnare il provvedimento che accolga l'istanza, ma non ha titolo a ricevere l'avviso dell'avvio del procedimento in quanto ciò comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese violazione dei principi di economicità ed efficacia dell'attività amministrativa.
Per giurisprudenza costante, invero, quando è proposta una domanda volta ad ottenere il rilascio di un titolo edilizio, il vicino del richiedente può intervenire nel corso del relativo procedimento e può impugnare il provvedimento che accolga l'istanza, ma non ha titolo a ricevere l'avviso dell'avvio del procedimento in quanto ciò comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese violazione dei principi di economicità ed efficacia dell'attività amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 15.09.1999, n. 1197; 14.03.2002, n. 1533; 18.04.2005, n. 1773; Tar Liguria, 10.07.2009, n. 1736) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.03.2013 n. 645 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA fronte dell’esercizio di un potere vincolato, quale è quello di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, il provvedimento finale non necessita di altra motivazione che non sia quella della rispondenza dell'opera ai presupposti previsti dalla legge, senza che possa onerarsi l’amministrazione di confutare le osservazioni presentate da un vicino.
Parimenti, il provvedimento non è viziato per difetto di motivazione per non avere la p.a. replicato alle osservazioni formulate nella nota presentata dal ricorrente del 20.02.2002 e nell’allegata relazione redatta dal dott. Landi.
A fronte dell’esercizio di un potere vincolato, quale è quello di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, il provvedimento finale non necessita di altra motivazione che non sia quella della rispondenza dell'opera ai presupposti previsti dalla legge, senza che possa onerarsi l’amministrazione di confutare le osservazioni presentate da un vicino (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.03.2013 n. 645 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano”.
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire.

... per l'annullamento del provvedimento 97149/12 P.G. adottato in data 07.11.2012 dal Responsabile del Settore “Sportello Unico dell’Edilizia” del Comune di Brescia attraverso il quale è stato ordinato all’Associazione Culturale Al-Noor Brescia – Italia di ripristinare la destinazione d’uso autorizzata “commerciale” nell’unità immobiliare sita in via F.lli Bonardi n. 9, piano terra, individuabile al NCT fg. 26, part. 132 sub. 12, con l’avvertimento che “per poter utilizzare in futuro i locali a Centro Culturale e/o a sede associativa e centro di culto, dovrà essere richiesto ed ottenuto il necessario permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12, così come previsto dalle norme regionali sopradescritte, ed una nuova certificazione di agibilità”, nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente.
...
Il ricorso risulta fondato.
L’Amministrazione comunale, una volta preso conoscenza dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Associazione islamica qui ricorrente, è pervenuta dunque alla conclusione che l’utilizzo dei locali richiederebbe, anche in assenza di lavori, il rilascio del permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n. 6415 del 23.9.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art. 74 c.p.a. (Per comodità del lettore si riporta il punto centrale della sentenza: <<di per sé le opere oggetto dell’istanza non rivelano, in alcun modo, la volontà dell’associazione ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005, piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per effetto di tali interventi, quale immobile destinato al culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n. 12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso, l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione “Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa” assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti ad una comunità appartenente ad una determinata confessione religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società, non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad attività connesse all’esercizio del ministero pastorale, come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n. 12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”- deve, invero, trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione di tipo religioso
.>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata su un presupposto diverso, che ben può essere quello che storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante. In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera.
Infatti, come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire;
>> (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'analisi dell'anomalia dell'offerta va compiuta in un'ottica di generale valutazione in ordine alla “congruità complessiva dei costi” in relazione al servizio globalmente offerto.
Non dunque una analisi puntuale delle singole voci va compiuto, ma una verifica della “capienza” del corrispettivo proposto in relazione ai servizi/opere che si intendono rendere.
Invero, "il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo; mentre, in caso positivo, non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate".
"Il giudizio di verifica della congruità di un'offerta apparentemente anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, restando irrilevanti eventuali singole voci di scostamento; tale verifica non ha dunque per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta sia attendibile nel suo complesso e, dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, sicché ciò che rileva è che l'offerta rimanga nel complesso <seria>".
Questo significa che, in sede di ricorso, colui che detiene il contrapposto interesse deve essere in grado di dimostrare la sussistenza di “voci di costo”, con un margine tale da rendere sostanzialmente "incapiente” il corrispettivo proposto dall’aggiudicataria.

L'analisi dell'anomalia dell'offerta va compiuta in un'ottica di generale valutazione in ordine alla “congruità complessiva dei costi” in relazione al servizio globalmente offerto.
Non dunque una analisi puntuale delle singole voci va compiuto, ma una verifica della “capienza” del corrispettivo proposto in relazione ai servizi/opere che si intendono rendere.
Secondo la giurisprudenza, infatti, "Il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo; mentre, in caso positivo, non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate" (Consiglio di Stato sez. V 10.09.2012 n. 4785).
"Il giudizio di verifica della congruità di un'offerta apparentemente anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, restando irrilevanti eventuali singole voci di scostamento; tale verifica non ha dunque per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta sia attendibile nel suo complesso e, dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, sicché ciò che rileva è che l'offerta rimanga nel complesso <seria>" (Consiglio di Stato sez. VI 07.09.2012 n. 4744).
Questo significa che, in sede di ricorso, colui che detiene il contrapposto interesse deve essere in grado di dimostrare la sussistenza di “voci di costo”, con un margine tale da rendere sostanzialmente "incapiente” il corrispettivo proposto dall’aggiudicataria (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 28.02.2013 n. 1894 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa giurisprudenza ha rilevato come l’obbligo di pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana costituisca regola generale, vincolante in assenza di previsioni diverse e derogatorie, rivolta come è a garantire la conoscibilità dell’esistenza di un concorso pubblico a tutti i cittadini –indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato–, in perfetta armonia con i principi costituzionali sull’accesso agli impieghi pubblici.
Si è altresì escluso che detta previsione sia in contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001 (“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti princìpi: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che …”), in quanto la norma primaria sopravvenuta nulla specifica in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sicché le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la prima costituendone coerente e conforme attuazione, anche in relazione agli enti locali territoriali.
Neppure una preclusione alla perdurante operatività dell’obbligo di pubblicazione di bandi e/o avvisi di concorso in Gazzetta Ufficiale deriva dalla nuova disciplina di cui all’art. 32, comma 1 (“A far data dal 01.01.2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”) e comma 5 (“A decorrere dal 01.01.2011 e, nei casi di cui al comma 2, dal 01.01.2013, le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio”), della legge n. 69 del 2009, essendo stato precisato che l’ultimo comma del medesimo art. 32 (“È fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici …”) sottrae all’applicazione delle restanti disposizioni gli effetti giuridici regolati dalla normativa vigente in tema di pubblicità dei procedimenti concorsuali a mezzo inserzione in Gazzetta Ufficiale.

- Ritenuto che, ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994 («Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi»), le “domande di ammissione al concorso, redatte in carta semplice, devono essere indirizzate e presentate direttamente o a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento … entro il termine perentorio di giorni trenta dalla data di pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica” (comma 1) e che per “gli enti locali territoriali la pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale di cui al comma 1 può essere sostituita dalla pubblicazione di un avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande” (comma 1-bis);
- che la giurisprudenza ha rilevato come l’obbligo di pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana costituisca regola generale, vincolante in assenza di previsioni diverse e derogatorie, rivolta come è a garantire la conoscibilità dell’esistenza di un concorso pubblico a tutti i cittadini –indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato–, in perfetta armonia con i principi costituzionali sull’accesso agli impieghi pubblici (v., tra le altre, TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 28.01.2009 n. 105);
- che si è altresì escluso che detta previsione sia in contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001 (“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti princìpi: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che …”), in quanto la norma primaria sopravvenuta nulla specifica in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sicché le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la prima costituendone coerente e conforme attuazione, anche in relazione agli enti locali territoriali (v. Cons. Stato, Sez. V, 16.02.2010 n. 871);
- che neppure una preclusione alla perdurante operatività dell’obbligo di pubblicazione di bandi e/o avvisi di concorso in Gazzetta Ufficiale deriva dalla nuova disciplina di cui all’art. 32, comma 1 (“A far data dal 01.01.2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”) e comma 5 (“A decorrere dal 01.01.2011 e, nei casi di cui al comma 2, dal 01.01.2013, le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio”), della legge n. 69 del 2009, essendo stato precisato che l’ultimo comma del medesimo art. 32 (“È fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici …”) sottrae all’applicazione delle restanti disposizioni gli effetti giuridici regolati dalla normativa vigente in tema di pubblicità dei procedimenti concorsuali a mezzo inserzione in Gazzetta Ufficiale (v. TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 08.06.2012 n. 1474);
- che quanto, infine, alla disciplina contenuta nel Regolamento comunale sull’ordinamento generale degli uffici e servizi, non vi si individuano ragioni ostative all’obbligo di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, posto che, nel regolare la selezione del personale, l’art. 69 del regolamento prevede che il “bando deve … essere affisso all’Albo Pretorio del Comune” (comma 5) e che ad “ogni bando … deve essere data adeguata pubblicità in relazione alla natura della procedura selettiva indetta” (comma 6), disposizioni che non contraddicono le previsioni statali, per essere quella all’Albo pretorio una necessaria integrazione a fronte della facoltà di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo un estratto del bando, e per essere quella sull’«adeguata pubblicità» una prescrizione ripetitiva del disposto dell’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, che si è già visto essere non incompatibile con la disciplina di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994;
- che indebitamente, allora, il Comune di Bologna ha nella circostanza omesso di pubblicare –neanche per estratto– il bando di concorso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, essendosi limitato alla pubblicità sull’Albo pretorio on-line e sul proprio sito web, con l’effetto di legittimare la ricorrente all’impugnativa degli atti del concorso cui non ha potuto partecipare e che ha però titolo a censurare anche se non ha presentato una sia pur tardiva domanda di ammissione (v. Cons. Stato, Sez. V, n. 871/2010 cit.) (TAR Emilia Romagna–Bologna, Sez. I, sentenza 22.02.2013 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA Il semplice scarico e spianamento su un terreno di una certa quantità di detriti non integra l’ipotesi di trasformazione della destinazione a zona agricola dello stesso, né quella di occupazione di suolo mediante deposito di materiali di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9 per le quali sia necessaria specifica autorizzazione dell’autorità comunale, concretando piuttosto un’ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga fare del proprio terreno, per la quale è esclusa la necessità di un titolo concessorio.
Il provvedimento impugnato non specifica e non dà modo di comprendere per quali ragioni, e sotto quali profili, il deposito di materiale di risulta sull’area di proprietà della società ricorrente sia stato ritenuto “difforme” dalle denunce di inizio attività presentate dall’interessata.
Il richiamo, fatto nel preambolo dell’atto impugnato, al contenuto della relazione istruttoria dell’ufficio tecnico comunale non è conferente sotto tale profilo, dal momento che detta relazione si era limitata a riferire dell’esistenza di difformità “del muro di cinta” rispetto al progetto allegato alla DIA, non del deposito del materiale di risulta, al quale l’ufficio tecnico aveva accennato solo come elemento sintomatico, unitamente alla realizzazione delle opere di recinzione, dell’esistenza in atto di una lottizzazione abusiva del terreno.
Soprattutto, e più in generale, il semplice scarico e spianamento su un terreno di una certa quantità di detriti non integra l’ipotesi di trasformazione della destinazione a zona agricola dello stesso, né quella di occupazione di suolo mediante deposito di materiali di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9 per le quali sia necessaria specifica autorizzazione dell’autorità comunale (Cons. St. Ad Plen. 05.12.1984, n. 22), concretando piuttosto un’ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga fare del proprio terreno, per la quale è esclusa la necessità di un titolo concessorio (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 08.02.2013 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
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In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.
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Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza.
Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere”.
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Laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva.
E' illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p..
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
In tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale.

La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi) non comporta certo che si possa omettere di rispettare la successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione della disposizione, siccome collidente con la disciplina nazionale inderogabile (ex multis: “in tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.” -TAR Puglia-Lecce Sez. III, 28.09.2012, n. 1624-).
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In ultimo, rammenta il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.” (Consiglio Stato , sez. IV, 30.06.2005, n. 3539)
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)” (Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione).” (Cassazione civile , sez. II, 21.10.1980, n. 5652).
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E’ appena il caso di rammentare, conclusivamente, che in ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva” (Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p." (Cass. pen. Sez. III, 12.01.2012, n. 10431 -rv. 252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di conseguenza applicativa del principio, il condivisibile principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale” (Cons. Stato Sez. IV, 27-10-2011, n. 5759)
(Cons. Stato Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio <<soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento>>.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid”.

Come già evidenziato da questo Tar in sede cautelare, in specie (v. l’ordinanza n. 1195 del 2001 e quella, per l’esecuzione della prima, n. 1424 dello stesso anno), le condizioni prescritte dalla Commissione Edilizia -e richiamate dall’Ufficio Tecnico- per il rilascio del titolo richiesto dalla sig.ra Silibello, anche per come esplicitate con il provvedimento di conferma del 03.09.2001, erano sicuramente illegittime, atteso che:
- la condizione sub a), <<che il muro non superi i 30 cm. di altezza dal piano campagna per tutta la sua estensione>>, era priva di fondamento normativo, non trovando giustificazione neppure nella disciplina edilizia comunale e, in specie, nel R.E.C. vigente;
- la condizione sub b), <<che prima del rilascio dell’autorizzazione sia sottoscritto un atto di sottomissione in cui il titolare rinuncia al pagamento del valore delle opere autorizzate al momento della concreta attuazione da parte dell’A.C. del Comparto di “167” denominato Ces1 […]>>, era del tutto estranea al fisiologico esplicitarsi delle potestà pubbliche in campo urbanistico ed edilizio.
In termini generali, d’altronde, e con riguardo a entrambi i richiamati profili, va posto in rilievo come la giurisprudenza abbia ritenuto ammissibile l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio <<soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento>> [fondamento assente, per quanto prima scritto, nel caso di specie].
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi” (Tar Abruzzo Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti -come nel caso di specie- di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid” (Tar Abruzzo Pescara, 08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta contrasta anche con il principio di rango costituzionale -ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza 29.03.2006, caso Scordino contro Italia]- che subordina necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.)>> (Tar Lombardia Milano, IV, 10.09.2010, n. 5655) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.09.2012 n. 1623 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid”.
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La specifica condizione apposta al rilascio della richiesta concessione edilizia (e cioè
la consegna da parte degli odierni ricorrenti di una “dichiarazione di non indennizzabilità delle opere realizzate in caso di eventuale esproprio”) contrasta anche con il principio di rango costituzionale che subordina necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro, espressione di un ragionevole legame con il valore venale, come prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo”.
... per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia:
- della condizione apposta al provvedimento 11.08.1999, prot. n. 5547 del responsabile del Servizio tecnico del Comune di Abbadia Lariana avente ad oggetto “l’avviso di emanazione dei provvedimenti di concessione edilizia” per la “realizzazione di area a parcheggio sull’area al mapp. 3487 in Comune Censuario di Abbadia Lariana”, nella parte in cui il rilascio della concessione edilizia è stato subordinato alla consegna da parte degli odierni ricorrenti di una “dichiarazione di non indennizzabilità delle opere realizzate in caso di eventuale esproprio”.
...
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta contrasta anche con il principio di rango costituzionale –ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza 29.03.2006, caso Scordino contro Italia (n.1)]– che subordina necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro, espressione di un ragionevole legame con il valore venale, come prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo” (Cassazione civile, I, 22.01.2009, n. 1606; altresì, Corte costituzionale, 24.10.2007, n. 348) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5655 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto del proprietario di chiudere il proprio fondo non può essere impedito dall’esistenza di una previsione vincolistica interessante l’area in questione (nella specie verde pubblico), atteso che il legittimo esercizio dello “ius escludendi alios”, laddove attuato mediante l’apposizione di una recinzione costituita da una rete metallica -senza l’uso di materiali ad elevato impatto ambientale quali cemento, mattoni e simili- non contrasta, di per sé, con detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all’area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche.
- Considerato che il diritto del proprietario di chiudere il proprio fondo non può essere impedito dall’esistenza di una previsione vincolistica interessante l’area in questione (nella specie verde pubblico), atteso che il legittimo esercizio dello “ius escludendi alios”, laddove attuato mediante l’apposizione di una recinzione costituita da una rete metallica -senza l’uso di materiali ad elevato impatto ambientale quali cemento, mattoni e simili- non contrasta, di per sé, con detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all’area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 22.02.2006 n. 572 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il completamento della recinzione di un fondo non può essere impedito dall’esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi alios, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all’area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l’amministrazione nell’esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Ed invero, il completamento della recinzione di un fondo non può essere impedito dall’esistenza di una previsione vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus excludendi alios, di per sé, non contrasta con la detta previsione, non avendo per fine quello di imprimere all’area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in alcun modo l’amministrazione nell’esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono (cfr. TAR Milano, sez. II, 20.05.1993 n. 334 e 24.10.1991 n. 1247) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 24.02.2003 n. 351 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 24.05.2013

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SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, maggio 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 22.05.2013 n. 118 "Regolamento in materia di emissione, trasmissione e ricevimento della fattura elettronica da applicarsi alle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 1, commi da 209 a 213, della legge 24.12.2007, n. 244" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 03.04.2013 n. 55).

TRIBUTI: G.U. 21.05.2013 n. 117 "Interventi urgenti in tema di sospensione dell’imposta municipale propria, di rifinanziamento di ammortizzatori sociali in deroga, di proroga in materia di lavoro a tempo determinato presso le pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli stipendi dei parlamentari membri del Governo" (D.L. 21.05.2013 n. 54).

TRIBUTI: G.U. 20.05.2013 n. 116 "Approvazione del modello di bollettino di conto corrente postale concernente il versamento del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 14.05.2013).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Bando di gara pubblica, quando è lesivo?
Domanda
I bandi di una gara pubblica sono da ritenersi lesivi dei principi generali in materia di appalti quando c'è la concreta impossibilità per le imprese di formulare offerte coerenti e serie, a causa dell'eccessiva diversità, eterogeneità delle prestazioni, e dell'oggettiva indeterminatezza dell'oggetto del contratto.
Risposta
La giurisprudenza sottolinea come il concreto esercizio del potere discrezionale deve essere funzionalmente coerente con il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto e deve rispettare le specifiche norme del Codice dei contratti. L'intero impianto non deve costituire dunque una violazione sostanziale dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione, trasparenza di cui all'art. 2, comma 1, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e s.m..
Specie nel settore sanità sono stati utilizzati bandi con un contenuto variegato ed omnicomprensivi, tuttavia tali bandi diventano lesivi dei princìpi generali in materia di appalti quando vi sia la concreta impossibilità per le imprese di formulare offerte consapevoli a cagione della eccessiva diversità, della assoluta eterogeneità delle prestazioni, dell'oggettiva indeterminatezza dell'oggetto del contratto; della carenza e dell'illogicità e, conseguente l'inapplicabilità dei criteri selettivi previsti dal bando.
A seguito di queste premesse, bisogna specificare che la lesione effettiva dell'interesse giuridicamente rilevante dell'impresa partecipante e che legittima l'immediata impugnativa del bando, non deve essere necessariamente connessa alla presenza di clausole che possano comportare la sua esclusione dalla selezione.
Tale lesione può, infatti, consistere anche nella concreta impossibilità per l'impresa stessa di formulare un'offerta informata per le cause appena dette, a causa di disposizioni che impediscono di comprendere e valutare con sufficiente precisione l'entità delle prestazioni da offrire e gli oneri economici connessi (22.05.2013 - tratto da www.ispoa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. P. Melia, Il discrimine tra la ristrutturazione edilizia e la realizzazione di una nuova costruzione (20.05.2013 - link a www.diritto.it).

APPALTI: A. Concas, La responsabilità contrattuale nel contratto di appalto (04.04.2013 - link a www.diritto.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: L’incompetenza dei geometri nella progettazione degli impianti fotovoltaici (Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, aprile 2013).

INCARICHI PROGETTUALI: L’estensione dell’obbligo di assicurazione agli iscritti all’Ordine degli ingegneri (art. 3, comma 5, lettera e), del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148 e art. 5 del D.P.R. 07.08.2012, n. 137) (Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, aprile 2013).

PUBBLICO IMPIEGO: U. Bonsante, “I REATI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE” (20.03.2013 - link a www.diritto.it).

APPALTI: M. Dell'Unto, BANDO-TIPO: INDICAZIONI GENERALI PER LA REDAZIONE DEI BANDI DI GARA (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI: G. Napolitano, CONTRATTO DI DISPONIBILITÀ: SPESA OFF BALANCE SOLO SE IL RISCHIO RICADE SUL PRIVATO (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI: L. Capicotto, COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE –GRANDE SEZIONE– 19.12.2012. ELEMENTI IDENTIFICATIVI DEGLI ACCORDI DI COOPERAZIONE, EX ART. 15 LEGGE 241 DEL 1990 E S.M.I. E OBBLIGO DI RISPETTARE LE REGOLE DELL’UNIONE EUROPEA SUGLI APPALTI PUBBLICI (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI: T. Molinaro, ISTITUZIONE DELL’AUTHORITY VIRTUAL COMPANY PASSPORT (AVCPASS): QUALI NOVITÀ? (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI: A. Cantone, LA SPONSORIZZAZIONE PASSIVA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DALLE ORIGINI ALL’ATTUALE CRISI ECONOMICA (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI: I Di Toro, APPALTI PUBBLICI: ESTESA LA PLATEA DEI POTENZIALI AGGIUDICATARI (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI SERVIZI: G. Bacosi e V. Giammaria, I SERVIZI PUBBLICI LOCALI: LA RILEVANZA ECONOMICA DEL SERVIZIO DI ILLUMINAZIONE VOTIVA (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: S. Napolitano, IL RICORSO AL M.E.P.A. QUALE STRUMENTO ATTUATIVO DELLA RAZIONALIZZAZIONE DELLA SPESA PUBBLICA: CRITERI APPLICATIVI (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: M. Amitrano Zingale, L’ATTIVITÀ DI INSTALLAZIONE DI CONDIZIONATORI CLIMATICI SULLE FACCIATE DI EDIFICI: MANUTENZIONE ORDINARIA, STRAORDINARIA, RISANAMENTO CONSERVATIVO E/O RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA? (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: A. Cernelli, PUNTI FERMI SU STATO DI NECESSITÀ E REATI EDILIZI (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: A. Cernelli, MANUFATTI LEGGERI E NECESSITÀ DEL TITOLO ABILITATIVO: IL CASO DEI C.D. GAZEBO DESTINATI ALLA RISTORAZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: S. Fifi, AMPIEZZA DEI POTERI COMUNALI IN TEMA DI INSEDIAMENTI URBANISTICI DI IMPIANTI TELEFONICI (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: M. Esposito, IL CONTROLLO DI REGOLARITÀ AMMINISTRATIVA ED IL RUOLO DEL SEGRETARIO COMUNALE (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: V. Napolitano, LIMITI SOGGETTIVI ED OGGETTIVI DEI PARERI CONSULTIVI DI CUI ALL'ART. 7, CO. 8, DELLA L. 05.06.2003 N. 131 (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Cordasco, ART. 2-BIS L. 241/1990: OBBLIGO DI PROVVEDERE DA PARTE DELL'AMMINISTRAZIONE, SILENZIO E RISARCIMENTO DEL DANNO (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

ENTI LOCALI: A. Marini, DIFFICOLTÀ INTERPRETATIVE PER L’ART. 9 DELLA SPENDING REVIEW (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

ENTI LOCALI: E. Materia, IL FENOMENO DEI DEBITI FUORI BILANCIO QUALE COMPONENTE FONDAMENTALE NELLA REGOLAMENTAZIONE DEL CONTROLLO DI REGOLARITÀ AMMINISTRATIVA E CONTABILE PREVISTA DAL D.L. N. 174/2012 (Gazzetta Amministrativa n. 4/2012).

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ENTI LOCALI: P.a., addio alle fatture di carta. Al più tardi entro due anni solo documenti elettronici. Decreto dell'Economia su emissione e gestione pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
La fattura cartacea delle forniture alle pubbliche amministrazioni ha i giorni contati: al più tardi, entro due anni, la fatturazione dovrà avvenire in forma elettronica.
Lo stabilisce il decreto del ministro dell'economia del 03.04.2013, n. 55, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 118 di ieri, 22.05.2013, che approva il regolamento per l'emissione, trasmissione e ricezione della fattura elettronica nei rapporti con le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 209, della legge n. 244/2007, in attuazione di quanto previsto dalla legge stessa.
Le fatture elettroniche, rappresentate in formato XML e contenenti le indicazioni dettagliatamente riportate nell'allegato A al decreto, dovranno essere trasmesse alle amministrazioni destinatarie attraverso il sistema di interscambio di cui al decreto ministeriale 07.03.2008, gestito dall'Agenzia delle entrate avvalendosi del supporto informatico di Sogei. Le regole tecniche di emissione, trasmissione e ricevimento sono definite nell'allegato B al decreto.
La fattura elettronica si considera trasmessa e ricevuta solo a fronte del rilascio della ricevuta di consegna. Le amministrazioni dovranno identificare con appositi codici gli uffici abilitati alla ricezione delle fatture elettroniche, che dovranno riportare anche tali codici.
Per le piccole e medie imprese fornitrici delle pubbliche amministrazioni, il ministero dell'economia provvederà a rendere disponibile gratuitamente sul proprio portale elettronico i servizi e gli strumenti informatici di supporto per la generazione delle fatture elettroniche. Per le stesse imprese, l'Agenzia per l'Italia digitale mette a disposizione gratuitamente il supporto per lo sviluppo di strumenti informatici «open source» per la fatturazione elettronica.
Gli operatori economici possono comunque avvalersi di intermediari per la trasmissione, la conservazione e l'archiviazione delle fatture elettroniche, ferma restando la responsabilità fiscale dell'emittente.
I tempi di attuazione
A decorrere dal termine di sei mesi dal 06.06.2013, data di entrata in vigore del regolamento pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale, il sistema di interscambio sarà reso disponibile alle amministrazioni che volontariamente e sulla base di specifici accordi con tutti i propri fornitori, intendono avvalersene per la ricezione delle fatture elettroniche.
In tal caso, la data di effettiva applicazione delle disposizioni sarà quella comunicata dalle amministrazioni al gestore del sistema.
Al di fuori dell'ipotesi precedente, l'obbligo della fatturazione elettronica decorre dal termine di 12 mesi dall'entrata in vigore del regolamento nei confronti dei ministeri, delle agenzie fiscali e degli enti nazionali di previdenza e assistenza sociale individuati nell'elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato.
Negli altri casi, l'obbligo decorre dal termine di 24 mesi dalla predetta data.
Con successivo decreto saranno disciplinate le modalità di applicazione degli obblighi alle fatture emesse da non residenti in Italia e a quelle, già trasmesse per via telematica, relative al servizio di pagamento delle entrate oggetto del sistema di versamento unificato. Dalle decorrenze indicate sopra, le amministrazioni non potranno accettare fatture che non siano trasmesse in forma elettronica tramite il sistema di interscambio e, decorsi tre mesi da tali date, non potranno procedere ad alcun pagamento, nemmeno parziale, sino all'invio delle fatture in formato elettronico (articolo ItaliaOggi del 23.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Fotovoltaico, oltre i sei kW progettazione agli ingegneri.
No alla progettazione da parte dei geometri di un impianto fotovoltaico di potenza superiore a 6 kW. Il geometra può solo progettare un impianto di potenza inferiore ai 6 kW in qualità di tecnico abilitato ai sensi dell'articolo 4 del dm n. 37/2008. Il solo iscritto all'albo potrà dunque progettare un impianto fotovoltaico di potenza superiore a 6 kW mentre per quelli di potenza inferiore la progettazione potrà essere eseguita dal tecnico abilitato dipendente dell'azienda installatrice. Il professionista abilitato dovrà quindi avere uno dei seguenti requisiti: diploma di laurea in materia tecnica specifica; qualifica conseguita al termine di scuola secondaria seguita da un periodo di inserimento di almeno due anni continuativi alle dirette dipendenze di una impresa del settore; attestato di formazione professionale conseguito dopo un periodo di inserimento di almeno quattro anni consecutivi alle dirette dipendenze di una impresa del settore; prestazione lavorativa svolta, alle dirette dipendenze di una impresa abilitata nel ramo di attività per un periodo non inferiore a tre anni, escluso quello computato ai fini dell'apprendistato e quello svolto come operaio installatore.

Questa è la conclusione a cui è giunto il Centro studi del consiglio nazionale ingegneri, con lo studio dell'aprile scorso.
Il consiglio sottolinea da un lato che il regio decreto 247/1929 (ordinamento professionale geometri) all'art. 16 «non ricomprende fra le competenze professionali la redazione di progetti di impianti, tanto meno quelli elettrici», dall'altro il dm n. 37/2008 precisa che per installazione, trasformazione e ampliamento degli impianti di produzione di energia elettrica, il progetto deve essere redatto da professionisti iscritti in albi professionali e stabilisce che se la potenza dell'impianto supera i 6 kW, la progettazione può essere eseguita solo da un professionista iscritto all'albo (articolo ItaliaOggi del 23.05.2013).

APPALTIAppalti registrati. Iscrizioni aperte fino al 10 luglio. I committenti dovranno entrare nell'Anagrafe unica.
Entro il 10 luglio le stazioni appaltanti devono chiedere l'iscrizione all'anagrafe unica gestita dall'Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici. L'inadempimento dell'obbligo è previsto a pena di nullità degli atti di gara.

Questo è quanto afferma il presidente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Sergio Santoro, che ha siglato la nota 16.05.2013 indirizzata a tutte le stazioni appaltanti.
La creazione dell'Anagrafe unica, è prevista dall'art. 33-ter del dl 179/2012. Per rendere effettiva l'attuazione dell'Anagrafe, la norma di legge, non soltanto impone la registrazione presso la banca dati gestita dall'Authority di via di Ripetta, ma annette a tale obbligo di registrazione anche l'ulteriore obbligo di aggiornamento annuale dei dati identificativi forniti dalle stazioni appaltanti.
È di particolare rilievo la conseguenza derivante dall'inadempimento degli obblighi di registrazione. La legge infatti prevede, in caso di inadempimento di entrambi gli obblighi, la nullità degli atti adottati e la responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari responsabili. Per il funzionamento dell'intero sistema, è poi la stessa legge 221 a prevedere che sia l'Autorità per la vigilanza a dettare le regole.
Con la nota varata il 16 maggio, «nelle more dell'implementazione e della definizione delle modalità di iscrizione», è quindi il presidente Santoro a dettare le prime indicazioni transitorie, mettendo in relazione l'anagrafe con gli obblighi informativi che già spettano alle stazioni appaltanti registrate presso la banca dati. In particolare, si precisa che, in via transitoria, ai fini dell'adempimento all'obbligo di registrazione previsto dall'articolo 33-ter, le stazioni appaltanti già registrate presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, devono acquisire sul sito dell'Autorità, a partire dal 10.07.2013, l'Attestato di iscrizione all'Anagrafe unica. «L'attestato», si legge nella nota, «avrà validità per tutto il 2013 e sarà rilasciato ai soggetti richiedenti per il tramite dei propri utenti già titolari di credenziali per I'accesso ai servizi sul portale dell'Autorità».
Inoltre viene fatto presente che, a partire dal 01.09.2013 e comunque entro il 31.12.2013, le stazioni appaltanti dovranno anche comunicare, il nominativo del responsabile, il quale provvederà alla iniziale verifica o alla compilazione ed al successivo aggiornamento delle informazioni. Nel merito, le informazioni da fornire e le modalità con le quali verranno trasmesse, saranno però definite con una successiva nota, al fine di potere consentire il permanere dell'iscrizione nell'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti, da effettuarsi a cura del responsabile.
La nota infine ricorda che, l'aggiornamento delle informazioni dell'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti, dovrà essere effettuato dal soggetto individuato, entro il 31 dicembre di ciascun anno (articolo ItaliaOggi del 22.05.2013).

ENTI LOCALIBattaglia Tar-Corte dei conti sui dissesti nei municipi. Enti locali. I giudici calabresi fermano il default di Vibo.
L'ITER BLOCCATO/ Tramite il Prefetto i giudici contabili avevano dato 20 giorni al consiglio per dichiarare «fallimento» Stop con ordinanza.

Si estende nelle Regioni del Sud il braccio di ferro fra i giudici amministrativi e i loro colleghi contabili sulla sorte dei Comuni che rischiano il dissesto e provano a evitarlo con la ciambella lanciata dal decreto «salva-enti» 174/2012. La nuova puntata della telenovela è stata scritta dal Tar Calabria, che con l'ordinanza 229/2013 ha sottratto il Comune di Vibo Valentia al default e ha bloccato tutto fino alla decisione di merito: in calendario per il 20 giugno.
La vicenda ricalca un precedente siciliano, relativo al Comune di Cefalù (Palermo; si veda «Il Sole 24 Ore» del 23 gennaio scorso), quando il Tar dell'isola aveva stoppato il dissesto del Comune anche sulla base della considerazione che le ragioni alla base del disastro contabile fossero «chiaramente attribuibili ai precedenti Governi del Comune». Il caso di Vibo assume però significati ulteriori, e non solo per il fatto che al centro della contesa fra giudici questa volta si trova un Comune capoluogo di Provincia.
A differenza della vicenda siciliana, la questione del Comune di Vibo Valentia prima di tutto non intreccia in alcun modo la complessa gestione transitoria legata al debutto del «pre-dissesto» e del fondo rotativo per salvare con una mano statale i Comuni in crisi. Vibo infatti aveva deliberato l'11 gennaio scorso, quindi in piena vigenza delle regole del Dl 147/2012 ormai stabilizzate, di aderire alla procedura del «pre-dissesto». Dopo questo passaggio, però, il meccanismo si è inceppato perché la Giunta si è vista respingere dal Consiglio il piano di rientro: vista la «condizione finanziaria disastrosa» del Comune, in cui alla «crisi di cassa» si accompagna «la presenza di una gigantesca massa passiva alla quale non riesce in alcun modo a fare fronte», la sezione regionale di controllo (delibera 21/2013) ha ripreso l'iter del «dissesto guidato» nel punto in cui l'aveva sospesa in attesa del piano di rientro, e per il tramite del prefetto ha dato al Comune i classici 20 giorni di tempo per dichiarare il default.
Il Tar Calabria, però, ha sospeso la nota del prefetto, riportando in un limbo il capoluogo gravato da un deficit pesante (4,3 milioni nel 2010, 3,8 nel 2011) e dalle incognite legate alla presenza in bilancio di 55 milioni di residui passivi precedenti al 2007.
Il punto, però, è nel conflitto fra giudici amministrativi e magistrati contabili, che non si ferma nemmeno di fronte alla sentenza 60/2013 in cui la Consulta ha stabilito che, in particolare dopo il Dl 174/2012, i controlli della Corte dei conti «si collocano su un piano distinto rispetto al controllo sulla gestione amministrativa» perché servono a garantire una vigilanza indipendente sugli «obiettivi di finanza pubblica» e a tutelare «l'unità economica della Repubblica». In questa chiave, spiegava la Consulta, l'azione della Corte dei conti si verifica «in riferimento a parametri costituzionali (articoli 81, 119 e 120 della Costituzione) e ai vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea (articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione)». Una funzione "pesante", che non sembra però in grado di blindare le decisioni della Corte e quindi di rendere certa l'applicazione delle norme del «pre-dissesto» e del «dissesto guidato» nei tanti enti locali coinvolti (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: Congelato l'acconto dell'Imu. Sospensione per la prima casa. Immobili di pregio esclusi. Il provvedimento del consiglio dei ministri, in attesa di una riforma del sistema.
Sospeso il pagamento dell'acconto Imu, fissato per il prossimo 17 giugno, per gli immobili adibiti ad abitazione principale e relative pertinenze. Sono però esclusi dal beneficio i fabbricati classificati nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. La sospensione si estende anche alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dei soci assegnatari, nonché a quelli assegnati da Iacp, Ater o da altri enti di edilizia residenziale pubblica. Sono esonerati dal pagamento dell'acconto anche i titolari di fabbricati rurali e terreni agricoli, in attesa di una complessiva riforma dell'imposizione fiscale sul patrimonio immobiliare che dovrebbe essere varata nei prossimi mesi.
È quanto prevede l'articolo 1 del decreto legge approvato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri.
La sospensione del pagamento dell'acconto Imu, la cui scadenza è prevista per il 17 giugno, nelle more della riforma del sistema di tassazione degli immobili, sia a livello statale sia locale, sembra finalizzata a un successivo riconoscimento dell'esenzione dal pagamento, soprattutto per gli immobili destinati a abitazione principale. Va ricordato che dal 2008 al 2011 sono stati esonerati dal pagamento dell'Ici i titolari di questi immobili. Così come sono state escluse dal beneficio le unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli).
La qualificazione giuridica di abitazione principale. Per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Sono da considerare pertinenze dell'abitazione principale esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione. Attualmente la legge prevede per queste unità immobiliari l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro per ogni figlio che risiede anagraficamente e dimora abitualmente nell'immobile, fino a un massimo di 400 euro, al netto della detrazione ordinaria.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni «prima casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, a meno che non abbia provveduto al loro accatastamento unitario. Lo ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia con la circolare 3/2012. Rispetto a quanto previsto per l'Ici, la definizione di abitazione principale presenta dei profili di novità. L'articolo 13, comma 2, del dl 201/2011 prevede che per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Dalla lettura della norma, per il dipartimento, «emerge, innanzitutto, che l'abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto a prescindere dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione principale più di una unità immobiliare». Quindi, le singole unità vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. È il contribuente a scegliere quale destinare a abitazione principale.
L'interpretazione ministeriale, però, non può essere condivisa, in quanto richiama nella circolare il principio affermato per la prima volta dalla Cassazione (sentenza 25902/2008) per l'Ici, poi ribadito con altre pronunce, ma lo ritiene superato dalla nuova disposizione, secondo la quale il beneficio fiscale è limitato a una sola unità immobiliare, mentre le altre, ancorché utilizzate di fatto come abitazione principale, non possono fruire del trattamento agevolato. Invece, anche per l'Imu il contribuente dovrebbe fruire dei benefici fiscali, qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare «iscritta o iscrivibile» come tale in catasto. Occorre dare un senso alla formulazione letterale della norma che fa riferimento ai diversi immobili che sono potenzialmente «iscrivibili» come un'unica unità immobiliare. In questi casi, dunque, è sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. In particolare, le diverse unità immobiliari devono essere possedute dallo stesso titolare (o dagli stessi titolari) e devono essere contigue. E l'Agenzia del territorio dovrebbe certificare l'iscrivibilità come unica unità immobiliare.
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Esonero esteso ai fabbricati rurali e ai terreni agricoli.
Sono esonerati dal pagamento dell'acconto Imu anche i titolari di fabbricati rurali e terreni agricoli.
Fabbricati rurali. Per gli immobili rurali dal 2012 sono cambiate le regole sulle agevolazioni. Quelli adibiti ad abitazione di tipo rurale sono stati assoggettati al pagamento dell'Imu con applicazione dell'aliquota ordinaria, a meno che non siano destinati a prima casa. Mentre per quelli strumentali, vale a dire quelli utilizzati per la manipolazione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli, non è più prevista l'esenzione, ma un trattamento agevolato con applicazione dell'aliquota del 2 per mille che i comuni possono ridurre all'1 per mille. Mentre è stata confermata l'esenzione solo per i fabbricati strumentali ubicati in comuni montani o parzialmente montani indicati in un elenco predisposto dall'Istat.
Bisogna inoltre ricordare che per i fabbricati rurali strumentali non conta più la classificazione catastale per avere diritto alle agevolazioni fiscali. Possono infatti mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali che siano per loro natura censibili nella categoria D/10. Con la circolare 2/2012 l'Agenzia ha anche fornito dei chiarimenti, relativamente a quanto disposto dal decreto ministeriale emanato il 26.07.2012, sugli adempimenti che devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu del trattamento agevolato.
Terreni agricoli e incolti. L'articolo 1 del dl si limita a concedere la sospensione dal pagamento dell'imposta solo per i terreni agricoli, mentre sono tenuti a passare alla cassa i titolari di terreni incolti. Dal 2012, infatti, sono soggetti al pagamento dell'Imu anche i terreni incolti che prima erano esclusi dal campo di applicazione dell'Ici. Oltre ai terreni agricoli la nuova imposta colpisce i terreni diversi da quelli fabbricabili e da quelli utilizzati per l'esercizio delle attività agricole.
Terreni agricoli, secondo la definizione contenuta nell'articolo 2135 del Codice civile, sono quelli utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola, ovvero la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l'allevamento animali e le attività connesse. In base all'articolo 13 del dl salva-Italia (201/2011), il valore dei terreni agricoli su cui calcolare l'imposta è ottenuto moltiplicando il reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, per 135. La norma, invece, prevede un trattamento agevolato per i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali iscritti nella previdenza agricola, per i quali il moltiplicatore di riferimento è ridotto a 110, anche se i terreni non vengono coltivati (articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI - VARI: È conto alla rovescia: a ogni professionista la sua polizza. Obbligati alla sottoscrizione oltre 2 milioni di iscritti all'albo e le società entro il 15 agosto.
Countdown per la sottoscrizione di una polizza di responsabilità civile per tutti i professionisti iscritti in albi. Tale obbligo (che peraltro è imposto anche a tutte le nuove società fra professionisti) dovrà essere assolto entro il prossimo 15 agosto da tutti coloro, fra i circa 2 milioni di iscritti a un albo professionale, che a oggi non hanno ancora provveduto.
L'obbligo nasce con l'art. 3, comma 5, lett. e), del dl 13/08/2011, n. 138 , e viene confermato con la conversione nella legge 14/09/2011 n. 148, in G.U. 216 del 16/09/2011. Una regolamentazione (soft) dell'obbligo avviene con il dpr 137/2012 con il quale è peraltro stabilità una proroga annuale dell'obbligo dall'agosto 2012 all'agosto 2013.
Tutti i professionisti (e le società da loro costituite) dovranno rendere noto ai clienti, evidenziando loro al momento dell'assunzione dell'incarico, come si legge nel regolamento «gli estremi della polizza professionale, il relativo massimale e ogni variazione successiva». La violazione di tale dovere costituirà un illecito disciplinare. Ecco, in dettaglio, i maggiori rischi da coprire per ciascuna categoria professionale, da un lato, e dall'altro il confronto tra alcuni prodotti proposti dalle principali compagnie assicurative.
La copertura per il commercialista. La polizza Rc professionale tiene indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (a titolo di sanzioni, interessi e spese) per danni colposamente cagionati a terzi, compreso i clienti, in conseguenza di errori personalmente commessi nell'esercizio della professione, mentre restano sempre escluse da copertura le sanzioni dirette comminate al professionista. Nelle condizioni standard del contratto viene normalmente inclusa la copertura per danni relativi:
a) all'attività di tenuta di contabilità, registri Iva e redazione di dichiarazioni fiscali, a causa di errori (non dolosi) imputabili al consulente;
b) al fatto colposo o doloso di collaboratori, sostituti di concetto, praticanti e dipendenti facenti parte dello studio professionale;
c) alla perdita, distruzione, danneggiamento di documenti di proprietà dell'assicurato o per i quali egli è legalmente responsabile o custode nell'esercizio dell'attività professionale;
d) a lesioni corporali e/o materiali involontariamente cagionati a terzi, compresi i clienti, in relazione alla conduzione dei locali e delle attrezzature adibite all'attività dell'assicurato, nonché per fatti dolosi o colposi dei dipendenti e collaboratori dello studio;
e) a perdite patrimoniali subite dai clienti e seguito dell'apposizione del visto di conformità (c.d. visto leggero) e/o dall'asseverazione per gli studi di settore e della certificazione tributaria (c.d. visto pesante), a condizione che l'Assicurato abbia e mantenga per tutto il periodo di Assicurazione i requisiti previsti dalle norme applicabili per l'esercizio di tali attività;
f) a perdite patrimoniali cagionate a terzi in conseguenza dell'errato trattamento dei dati personali (privacy) degli assistiti conseguente ad atti colposi.
Da evidenziare, tuttavia, che alcuni rischi, ordinariamente riscontrabili nell'attività di dottore commercialista ed esperto contabile, vengano «coperti» solo se espressamente richiamati dal contratto e, di norma con una integrazione del premio.
In particolare, si tratta di rischi rinvenibili nello svolgimento di specifiche funzioni, quali:
- consigliere di amministrazione o del consiglio di gestione;
- membro di collegi sindacali (o altro organo di controllo) di società o enti;
- revisore legale dei conti in società;
- membro di Commissione tributaria (legge 13/4/1988 n. 117);
- revisore/amministratore in Enti locali;
- liquidatore, anche giudiziale, di società o imprese;
- curatore e commissario giudiziale;
- incaricato per l'invio telematico di dichiarazioni fiscali (dpr 322/98 e succ. mod.);
- incaricato del pagamento di imposte, tasse e contributi (anche online) per conto del cliente;
- consulente su pratiche per l'accesso a finanziamenti agevolati o a fondo perduto;
- amministratore di stabili (condomini);
- consulenza del lavoro o in materia giuslavoristica;
- mediatore ex dlgs 28/2010 e dm 180/2010;
- amministratore di centri elaborazione dati;
- direttore presso Caf.
Va puntualizzato, in ogni caso, che una attenzione deve essere dedicata alle clausole relative alla «franchigia» e, soprattutto, allo «scoperto», ordinariamente inserite nelle polizze, che rimangono, comunque a carico degli assicurati (articolo ItaliaOggi Sette del 20.05.2013t).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione. Le strade per conciliare gli obblighi della spending review con le incompatibilità della nuova disciplina
Nei Cda dipendenti con limiti. Possibile ingresso ma senza deleghe se non svolgono attività di vigilanza e controllo.
L'OSTACOLO/ Il presidente di una società nell'anno dopo la cessazione non può essere nominato in un'altra azienda all'interno della regione.

Dopo lo sconcerto iniziale, i primi approfondimenti consentono di individuare qualche punto fermo delle norme su incompatibilità e inconferibilità del Dlgs 39/2012, che spesso però mancano di coerenza interna.
Anzitutto le motivazioni di fondo: non permettere la trasmigrazione dei politici (evidentemente considerati "infettati") nei ruoli gestionali per evitare che possano dar luogo a fenomeni corruttivi. Il divieto è temporaneo, salvo casi di responsabilità penale (anche solo in primo grado), e dura due anni o un anno, in ragione di quanto si fosse vicini all'infezione (ovvero alla politica).
Il problema è che il decreto non ha una visione chiara delle diverse posizioni, e vede come "politici" non solo i membri della Giunta e i consiglieri comunali ma anche gli amministratori con deleghe degli enti partecipati e perfino chi riveste incarichi amministrativi apicali (segretario generale e direttore generale) dei diversi enti (articolo 1). Un elemento rilevante è la distinzione tra consiglieri con e senza deleghe gestionali dirette: i primi sono colpiti, i secondi ignorati (anche se il Codice civile vede il Cda come organo collegiale e collettivamente responsabile).
Tutto ciò consente di individuare una "conciliazione" tra articolo 4 del Dl 95/2012 e Dlgs 39/2013: i dipendenti di un ente locale possono dunque entrare nei Cda delle controllate purché non svolgano vigilanza e controllo (articolo 9), e non sono incompatibili purché non rivestano deleghe (altrimenti si cade nel divieto di cui all'articolo 12, comma 4, lettera c). Questo vale anche per il presidente del Cda, purché non abbia deleghe gestionali dirette.
Il divieto di "trasmigrazione", comprensibile, si ritrova già in molte norme, alcune abrogate (articolo 23-bis del Dl 112/2008) altre tuttora in essere (articoli 63 e 67 del Dlgs 267/2000). Crea però infiniti problemi l'ambigua collocazione del presidente e dell'ad tra i politici. Mentre nelle definizioni si precisa che il presidente debba avere delle deleghe operative dirette, nell'inconferibilità prevista dall'articolo 7 si parla di «presidente e amministratore delegato». Chi rivestiva tali cariche non può, nell'anno successivo alla cessazione, essere nominato presidente con deleghe gestionali dirette o ad di una società a controllo pubblico nella regione.
L'articolo 7 fa nascere però il dubbio dell'ammissibilità di un'eventuale riconferma nella stessa società. Nonostante alcune perplessità, sembrerebbe di sì. Se la finalità è combattere le trasmigrazioni, qui il problema non si pone; e l'uso del passato prossimo fa pensare a una cesura temporale, che in questo caso non sussisterebbe se non sul piano formale. Sarebbe opportuno, però, un chiarimento immediato da fonte istituzionale, perché sono in gioco i diritti soggettivi.
Nonostante le ambiguità dell'articolo 1, comma 2, lettera 1), (che considera il dg un incarico amministrativo di vertice e non un incarico dirigenziale) non pare sostenibile la compatibilità tra dg e presidente o ad della stessa società. Ciò anche alla luce dell'articolo 3, comma 44, della legge 244/2007, che esclude la possibilità del contemporaneo espletamento del doppio incarico (e dunque della duplicazione dei compensi) prevedendo per il dipendente l'automatica messa in aspettativa (articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego. Nessuna norma transitoria nel decreto. Nelle Pa divieti per il futuro.
IL PRINCIPIO/ La giurisprudenza spiega che gli incarichi legittimi al momento del conferimento rimangono validi fino alla scadenza naturale.

Un tema cruciale introdotto dalle nuove regole sulle incompatibilità e inconferibilità è rappresentato, per le fattispecie legate al pubblico impiego, dalla decorrenza dei divieti previsti dal Dlgs 39/2013.
La ratio è di prevenire ogni possibile situazione di "conflitto di interessi" o comunque contrastante con il principio costituzionale di imparzialità.
L'articolo 20, applicabile a regime, chiarisce che le cause di inconferibilità vanno verificate una tantum alla data di conferimento dell'incarico, mentre l'incompatibilità è un vizio che può insorgere anche successivamente. Tuttavia, l'articolo 20 non affronta il problema della decorrenza delle nuove disposizioni e della loro applicabilità agli incarichi in corso alla data di entrata in vigore del decreto, disattendendo parzialmente alla delega contenuta all'articolo 1, comma 50, lettere e) e f), della legge 190.
In assenza di norme transitorie, è stata richiamata la giurisprudenza consolidata in materia che tende a bilanciare il principio di legalità con la tutela costituzionale riconosciuta alle posizioni giuridiche soggettive oggetto delle disposizioni. Di regola, un provvedimento originariamente conforme al dettato normativo non può risultare viziato a causa del mutato scenario normativo; l'applicabilità dello ius superveniens presuppone che il procedimento sia ancora in itinere (Consiglio di Stato, parere 440/2007, e sentenze 6361/2003 e 5316/2005).
Trova quindi applicazione il principio «tempus regit actum», con riferimento agli incarichi pregressi legittimamente assegnati, che restano validi ed efficaci fino a naturale scadenza. Ferma restando la complessità della vicenda interpretativa in esame, queste argomentazioni sono rispondenti ai principi di legalità, tassatività ed irretroattività che informano le materie dell'illecito amministrativo e civile.
Più precisamente, una norma afflittiva si applica agli incarichi conferiti successivamente alla modifica di legge, anche con riferimento a fatti pregressi; non si applica invece agli incarichi conferiti prima dell'entrata in vigore della norma.
In definitiva, le cause di incompatibilità in esame si applicherebbero quindi con esclusivo riferimento agli incarichi conferiti dopo l'entrata in vigore del decreto (04.05.2013). Nessun dubbio invece sulle cause di inconferibilità, che per loro natura non sono suscettibili di applicazione retroattiva.
Tale ricostruzione non esclude evidentemente la possibilità di rivedere comunque gli incarichi in corso, nell'ottica di un'etica politica improntata alla "cultura delle regole", secondo modalità di tipo consensuale e quindi tali da prevenire ogni possibile contenzioso (articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALISanzioni. Niente nomine per tre mesi. Bloccato il sindaco che sbaglia.
IL TERMINE/ Entro il 3 agosto le amministrazioni devono adeguare gli statuti per individuare i sostituti degli organi interdetti.
Il sindaco che viola i limiti per le nomine stabiliti dalla disciplina sull'inconferibilità degli incarichi non può procedere a nuove designazioni per tre mesi e il Comune deve individuare un sostituto che eserciti il potere di nomina.

La nuova disciplina prevista dal Dlgs 39/2013 definisce un sistema molto articolato che garantisce due livelli di vigilanza sulla sua corretta applicazione, oltre a un quadro di sanzioni specifiche che associano la nullità degli atti con l'interdizione temporanea degli organi.
Il responsabile anticorruzione è il soggetto di riferimento per l'intero sistema, in quanto deve vigilare sul rispetto delle disposizioni sull'inconferibilità e sull'incompatibilità degli incarichi, particolarmente in relazione ai procedimenti di nomina degli amministratori di società partecipate.
Il responsabile anticorruzione è tenuto a segnalare i casi di violazione della disciplina sul conferimento di incarichi e sulle nomine alla Civit (in quanto autorità nazionale anticorruzione), all'Agcm (per l'esercizio delle sue funzioni in materia di conflitto di interessi) e alla Corte dei conti (per la verifica di responsabilità amministrative).
La Civit esercita poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi, potendo (articolo 16) anche sospendere una procedura di nomina con un proprio provvedimento che contiene osservazioni o rilievi sull'atto di designazione, di cui l'amministrazione deve tener conto.
Il sistema di sanzioni presenta il profilo più pesante nell'articolo 17, il quale stabilisce la nullità degli atti di conferimento di incarico o di nomina in violazione della disciplina contenuta nel Dlgs 39/2013.
Tuttavia a questo si accompagnano (articolo 18) i profili di responsabilità degli organi che abbiano proceduto al conferimento di questi incarichi o a queste nomine, ma, soprattutto, il divieto per gli stessi di procedere ad incarichi o nomine per tre mesi.
Gli enti locali devono adeguare entro il 3 agosto i propri ordinamenti (ad esempio le norme statutarie per le nomine) al fine di individuare le procedure interne e gli organi che in via sostitutiva possono procedere al conferimento degli incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari (se non provvedono, interviene in via sostitutiva il Prefetto).
Altrettanto rilevante è la sanzione relativa ai casi di incompatibilità, per i quali l'articolo 19 prevede la decadenza dall'incarico o dalla nomina decorsi quindici giorni dalla contestazione dell'incompatibilità da parte del responsabile anticorruzione (articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOLegali p.a. imprigionati. Patrocinio solo per gli enti di appartenenza. Consulta: niente difesa e consulenza verso le società partecipate.
Gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici possono patrocinare cause solo per l'ente di appartenenza. Il principio, affermato dalla legge professionale forense del 1933, riconfermato dalla riforma del 2012 (legge n. 247) e più volte interpretato restrittivamente dalle sezioni unite della Cassazione, non ammette deroghe. Nemmeno per la difesa legale delle società partecipate dall'ente di appartenenza.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza 22.05.2013 n. 91.
La Consulta ha bacchettato il tentativo della regione Campania di estendere le prerogative della propria avvocatura interna, fino a ricomprendere anche l'attività di consulenza e patrocinio in giudizio verso gli enti strumentali e delle società interamente partecipate dalla regione. Tutto questo in una norma contenuta nella Finanziaria regionale per il 2009 (lr 19.01.2009 n. 1) già finita nel mirino dei giudici, visto che lo stesso Tar Campania l'ha ritenuta costituzionalmente a rischio trasmettendo gli atti alla Consulta.
La regione si è difesa rivendicando la propria competenza in materia di professioni, ma si è trattato di un'argomentazione incoferente dato che le prerogative regionali in materia sono limitate solo «agli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale», mentre invece la disciplina delle professioni «è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo stato». E le leggi statali parlano chiaro.
Il punto di partenza è la legge professionale forense del 1933 che ha sancito che la professione di avvocato è incompatibile con qualunque impiego o ufficio retribuito con stipendio a carico dello stato. Il principio, ha ribadito la Corte, è di stretta interpretazione, e conosce deroghe limitate solo «per quanto concerne le cause e gli affari propri dell'ente presso il quale gli avvocati prestano la loro opera» a condizione che siano iscritti nell'elenco speciale annesso agli albi professionali. Le eccezioni al principio generale dell'incompatibilità vanno dunque interpretate in maniera restrittiva e non sono suscettibili di estensione analogica.
Sul punto non hanno mai avuto dubbi le sezioni unite (con numerose sentenze dal 1996 al 2009) e nemmeno il legislatore che, riformando l'ordinamento forense l'anno scorso (legge n. 247/2012), ha sostanzialmente riconfermato il principio. Tanto che la Consulta ha deciso di trattenere la questione per deciderla nel merito, anziché dichiarare l'inammissibilità per ius superveniens come di solito accade nel caso di normativa sopravvenuta.
La decisione ha bacchettato la regione Campania, la cui normativa, consentendo agli avvocati regionali di svolgere attività di patrocinio e consulenza anche a favore di enti strumentali e società partecipate, «amplia la deroga al principio di incompatibilità, prevista dal legislatore statale esclusivamente in riferimento agli affari legali propri dell'ente pubblico di appartenenza». Infatti, conclude la sentenza redatta dal giudice Marta Cartabia, «la norma secondo cui gli avvocati dipendenti possono patrocinare solo per l'ente di appartenenza non è suscettibile di estensione da parte del legislatore regionale, ma rientra nell'ambito dei principi fondamentali della materia delle professioni» (articolo ItaliaOggi del 23.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

VARI: Ristoratori, non badanti.
Il gestore di un ristorante non è obbligato al controllo del parco giochi annesso al ristorante. La messa a disposizione di un parco giochi a perfetta regola d'arte da parte di un titolare di un ristorante non determina a carico di costui alcun obbligo di sorveglianza dei minori intenti all'uso delle relative attrezzature.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione (Sez. III civile) con sentenza 21.05.2013 n. 12401.
Secondo gli ermellini la Corte di appello aveva attribuito a carico del ristoratore un obbligo di necessaria sorveglianza dei minori intenti all'uso dell'attrezzatura ludica, senza considerare che la messa a disposizione del parco-giochi da parte del titolare dell'esercizio commerciale non comporta l'assunzione di obbligazioni ulteriori rispetto al contratto di ristorazione (articolo ItaliaOggi del 23.05.2013).

APPALTI: Il documento unico di regolarità contributiva (durc) si sostanza in una dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso dell'ente, assistiti da pubblica fede ex articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso.
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La regolarità contributiva deve essere conservata nel corso di tutto l'arco temporale impegnato dallo svolgimento della procedura, non assumendo quindi valore sanante l'intervento di un adempimento tardivo da parte dell'impresa.
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Eventuali certificazioni di irregolarità rilasciate da Casse edili non abilitate, pur accompagnate da certificazioni di regolarità separate da parte degli Istituti, non possono …. in alcun modo sostituirsi al Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ancorché dette Casse abbiano in passato sottoscritto Accordi a livello locale ovvero abbiano in corso contenzioso e merito alla possibilità di rilasciare attestazioni di regolarità nelle more della definizione dei procedimenti.

Sotto il profilo oggettivo, poi, il documento unico di regolarità contributiva (durc), come più volte precisato dalla giurisprudenza di questo Consiglio, si sostanza in una dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso dell'ente, assistiti da pubblica fede ex articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso (cfr. Cons. Stato Sez. IV n. 1458/2009; Sez. V n. 789/2011).
Ne consegue che eventuali errori contenuti in detto documento, involgendo posizioni di diritto soggettivo afferenti al sottostante rapporto contributivo, potranno essere corretti dal giudice ordinario, o all'esito di proposizione di querela di falso, o a seguito di ordinaria controversia in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria.
Infatti, ciò che forma oggetto di valutazione ai fini del rilascio del certificato è la regolarità dei versamenti effettuata dall'impresa iscritta presso la Cassa Edile, ed in questo ambito ciò che viene in rilievo non è certo un rapporto pubblicistico, bensì un rapporto obbligatorio previdenziale di natura privatistica.
In altri termini, il rapporto sostanziale di cui il durc è mera attestazione si consuma interamente in ambito privatistico, senza che su di esso vengano ad incidere direttamente o indirettamente poteri pubblicistici, per cui il sindacato sullo stesso esula dall'ambito della giurisdizione, ancorché esclusiva, di cui è titolare il giudice amministrativo in materia di appalti.
Correttamente, pertanto, il primo giudice ha concluso sul punto rilevando che “…essendo precluso al giudice amministrativo disporre l'annullamento del durc, questo Tribunale è privo di giurisdizione quanto all'impugnativa del certificato rilasciato dalla Cassa Edile di Latina”.
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Né, al riguardo, può assumere rilievo la regolarità dei durc successivamente rilasciati dalla stessa Cassa Edile di Latina, a seguito della ripetizione delle somme originariamente dovute da parte di Coem.
Infatti, come più volte affermato dalla giurisprudenza amministrativa, la regolarità contributiva deve essere conservata nel corso di tutto l'arco temporale impegnato dallo svolgimento della procedura, non assumendo quindi valore sanante l'intervento di un adempimento tardivo da parte dell'impresa (cfr. Cons. Stato Sezione V 26.06.2012, n. 3738; Sez. IV 15.09.2010,n. 6907; 12.03.2009,n. 1458 ).
Infine, per ciò che attiene alla asserita erroneità del durc rilasciato dalla Cassa ed alla ritenuta prevalenza di quello rilasciato dalla Cenai, non può che farsi rinvio a quanto già precisato al punto 3 che precede.
Peraltro, pur se in via meramente incidentale, va rilevato al riguardo come il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con specifiche circolari assunte sulla base dell'attuale quadro normativo di riferimento, abbia precisato che “Eventuali certificazioni di irregolarità rilasciate da Casse edili non abilitate, pur accompagnate da certificazioni di regolarità separate da parte degli Istituti, non potranno …. in alcun modo sostituirsi al Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ancorché dette Casse abbiano in passato sottoscritto Accordi a livello locale ovvero abbiano in corso contenzioso e merito alla possibilità di rilasciare attestazioni di regolarità nelle more della definizione dei procedimenti” (cfr. circolari n. 8367 del 02.05.2012; n. 12 del 01.06.2012)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.05.2013 n. 2682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La funzione programmatoria propria del piano urbanistico, anche di dettaglio, è prettamente rivolta all’ordinato sviluppo del tessuto esistente, con la costituzione di parametri validi per il futuro sviluppo del territorio. La funzione propria della tutela dei valori paesaggistici è, invece, rivolta per definizione a preservare l’esistente, una volta che dell’esistente sia riconosciuta la portata espressiva di quei valori. Essa ha perciò, in linea con il significato dell’espressione “tutela” di cui all’art. 9 Cost., funzione eminentemente conservativa e di salvaguardia del dato pregiuridico stimato meritevole di essere preservato, e che non è un oggetto da programmare e realizzare nel futuro.
Quanto all’oggetto della valutazione, nel primo caso –cioè, nel contesto del piano attuativo- è la compatibilità dell’espansione programmata con i tutelati valori paesaggistici espressi dal territorio preso in considerazione, e dunque riguarda solo ciò che del piano attuativo è l’oggetto essenziale (es. opere di urbanizzazione); nel secondo caso –cioè, riguardo ai singoli manufatti- è, invece, la coerenza del concreto intervento edilizio o urbanistico con il pregio riconosciuto all’area destinata ad accoglierlo e con le eccellenze che vi insistono, e la valutazione è volta ad evitare, a norma dell’art. 146 (o, transitoriamente, 159) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che sopravvengano alterazioni inaccettabili del valore paesaggistico protetto.
Diversamente si cancellerebbe, contro la legge (la quale vuole sia valutato e legittimato ogni singolo intervento) la necessità dell’autonoma autorizzazione per ogni singola edificazione. Per ogni intervento, infatti, devono essere considerate le caratteristiche costruttive, il concreto inserimento nel tessuto esistente, le dimensioni e l’ubicazione, al fine di valutarne la compatibilità con il vincolo.

La comparazione valorizzata dal giudice territoriale, tra approvazione del piano urbanistico e autorizzazione paesaggistica, sconta la riconducibilità della funzione esercitata e dei relativi poteri a una medesima sequenza, identica per oggetto, scopo e ampiezza di valutazione: è invece evidente che, tra (approvazione del) piano particolareggiato e (parere sull’) autorizzazione paesaggistica diversa è la funzione esercitata e diverso è l’oggetto della valutazione nella quale la funzione si concreta.
Quanto ai primi punti, si deve osservare che la funzione programmatoria propria del piano urbanistico, anche di dettaglio, è prettamente rivolta all’ordinato sviluppo del tessuto esistente, con la costituzione di parametri validi per il futuro sviluppo del territorio. La funzione propria della tutela dei valori paesaggistici è, invece, rivolta per definizione a preservare l’esistente, una volta che dell’esistente sia riconosciuta la portata espressiva di quei valori. Essa ha perciò, in linea con il significato dell’espressione “tutela” di cui all’art. 9 Cost., funzione eminentemente conservativa e di salvaguardia del dato pregiuridico stimato meritevole di essere preservato, e che non è un oggetto da programmare e realizzare nel futuro.
Quanto all’oggetto della valutazione, nel primo caso –cioè, nel contesto del piano attuativo- è la compatibilità dell’espansione programmata con i tutelati valori paesaggistici espressi dal territorio preso in considerazione, e dunque riguarda solo ciò che del piano attuativo è l’oggetto essenziale (es. opere di urbanizzazione); nel secondo caso –cioè, riguardo ai singoli manufatti- è, invece, la coerenza del concreto intervento edilizio o urbanistico con il pregio riconosciuto all’area destinata ad accoglierlo e con le eccellenze che vi insistono, e la valutazione è volta ad evitare, a norma dell’art. 146 (o, transitoriamente, 159) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che sopravvengano alterazioni inaccettabili del valore paesaggistico protetto. Diversamente –come già questa Sezione ha rilevato (Cons. Stato, VI, 06.06.2011, da n. 3342 a n. 3346)- si cancellerebbe, contro la legge (la quale vuole sia valutato e legittimato ogni singolo intervento) la necessità dell’autonoma autorizzazione per ogni singola edificazione. Per ogni intervento, infatti, devono essere considerate le caratteristiche costruttive, il concreto inserimento nel tessuto esistente, le dimensioni e l’ubicazione, al fine di valutarne la compatibilità con il vincolo (cfr. altresì Cons. Stato, VI, 23.11.2011, n. 6156; 18.01.2012, n. 173).
Deriva da quanto sopra che nessuna interferenza del tipo riconosciuto dal primo giudice può esistere tra l’approvazione del piano particolareggiato, intervenuta da ultimo nel 2006, e l’impugnato diniego dell’autorizzazione paesaggistica, posto che tali valutazioni hanno procedimenti, oggetti e finalità diversi e procedono da diverse prospettive (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.05.2013 n. 2666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte urbanistiche effettuate dal comune in sede di adozione del piano regolatore generale costituiscono valutazioni discrezionali attinenti al merito amministrativo che, come tali, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo in sede di giudizio impugnatorio, a meno che non risultino inficiate da errori di fatto o da vizi di grave illogicità, con la precisazione che le osservazioni proposte dai cittadini e/o proprietari nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi e, pertanto, non danno luogo a peculiari aspettative, sicché il loro rigetto o il loro accoglimento, di regola, non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali sottesi allo strumento pianificatorio.
Le evenienze che, invece, giustificano una più incisiva e singolare motivazione nelle scelte pianificatorie degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate nel superamento degli standards urbanistici ed edilizi, nella lesione dell’affidamento qualificato del privato basato su precedenti determinazioni dell’amministrazione o su provvedimenti giurisdizionali (ad es., derivante dall’avvenuta stipula di convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, da sentenze passate in giudicato di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione), o nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Mentre, quindi, ai fini motivazionali delle previsioni degli strumenti urbanistici generali, è sufficiente l’esplicitazione dei criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano, che può essere assolta con l’espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto del piano rielaborato, nei casi particolari, sopra evidenziati, si configura uno specifico e puntuale obbligo motivazionale a carico dell’amministrazione.

Al riguardo giova premettere, in linea di diritto, che secondo costante orientamento di questo Consiglio di Stato le scelte urbanistiche effettuate dal comune in sede di adozione del piano regolatore generale costituiscono valutazioni discrezionali attinenti al merito amministrativo che, come tali, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo in sede di giudizio impugnatorio, a meno che non risultino inficiate da errori di fatto o da vizi di grave illogicità, con la precisazione che le osservazioni proposte dai cittadini e/o proprietari nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi e, pertanto, non danno luogo a peculiari aspettative, sicché il loro rigetto o il loro accoglimento, di regola, non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali sottesi allo strumento pianificatorio.
Le evenienze che, invece, giustificano una più incisiva e singolare motivazione nelle scelte pianificatorie degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate (v. sul punto, per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 22.12.1999, n. 24) nel superamento degli standards urbanistici ed edilizi, nella lesione dell’affidamento qualificato del privato basato su precedenti determinazioni dell’amministrazione o su provvedimenti giurisdizionali (ad es., derivante dall’avvenuta stipula di convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, da sentenze passate in giudicato di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione), o nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Mentre, quindi, ai fini motivazionali delle previsioni degli strumenti urbanistici generali, è sufficiente l’esplicitazione dei criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano, che può essere assolta con l’espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto del piano rielaborato, nei casi particolari, sopra evidenziati, si configura uno specifico e puntuale obbligo motivazionale a carico dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.05.2013 n. 2653 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La legittimazione del consigliere di un ente locale, in questo caso di un consigliere comunale, ad impugnare atti dell’organo collegiale di appartenenza è soggetta a limiti ben precisi.
Esclusa la fattispecie in cui gli atti approvati riguardino direttamente e personalmente il consigliere stesso, ad esempio nel caso in cui essi pregiudichino l’interesse a permanere nella carica rivestita e a esercitarla, tale legittimazione infatti sussiste solo a fronte di atti lesivi del cd. diritto all’ufficio, ovvero delle prerogative spettanti alla persona fisica eletta alla carica, come nel caso in cui si deduca un vizio del procedimento di formazione dell'atto deliberativo che interferisca sul corretto esercizio del mandato del consigliere, ad esempio allorquando l’organo sia stato irritualmente convocato o costituito, ovvero ne sia stato violato l’ordine del giorno, ovvero ancora non sia stata depositata nei termini la documentazione da fornire ai suoi membri.
Tutto ciò in omaggio alla regola per cui il processo amministrativo è diretto di regola a risolvere controversie intersoggettive, e non controversie fra organi o componenti di organi di uno stesso ente, né può configurarsi come “organo di soluzione delle contese politiche interne tra maggioranza e minoranza”.

Secondo costante giurisprudenza, condivisa da questo Tribunale nella sentenza sez. II 30.04.2010 n. 1660, ove ampi richiami di conformi precedenti, e di recente ribadita anche da C.d.S. sez. V 21.03.2012 n. 1610, correttamente citata dal Comune intimato, la legittimazione del consigliere di un ente locale, in questo caso di un consigliere comunale, ad impugnare atti dell’organo collegiale di appartenenza è soggetta a limiti ben precisi.
Esclusa la fattispecie, all’evidenza qui non ricorrente, in cui gli atti approvati riguardino direttamente e personalmente il consigliere stesso, ad esempio nel caso in cui essi pregiudichino l’interesse a permanere nella carica rivestita e a esercitarla, tale legittimazione infatti sussiste solo a fronte di atti lesivi del cd. diritto all’ufficio, ovvero delle prerogative spettanti alla persona fisica eletta alla carica, come nel caso in cui si deduca un vizio del procedimento di formazione dell'atto deliberativo che interferisca sul corretto esercizio del mandato del consigliere, ad esempio allorquando l’organo sia stato irritualmente convocato o costituito, ovvero ne sia stato violato l’ordine del giorno, ovvero ancora non sia stata depositata nei termini la documentazione da fornire ai suoi membri.
Tutto ciò in omaggio alla regola per cui il processo amministrativo è diretto di regola a risolvere controversie intersoggettive, e non controversie fra organi o componenti di organi di uno stesso ente, né può configurarsi come “organo di soluzione delle contese politiche interne tra maggioranza e minoranza”, come sottolineato espressamente da C.d.S. sez. V, 15.12.2005 n. 7122, e come a ben guardare si vorrebbe nel caso di specie, in cui il Sindaco uscente e i suoi compagni di gruppo politico contestano, in buona sostanza, alla nuova maggioranza di aver modificato le loro precedenti scelte.
Nel caso concreto, infatti, non si denuncia alcuna lesione del diritto all’ufficio, ma si contestano atti con i quali il Comune ha inteso realizzare una data operazione, parte del proprio indirizzo politico amministrativo. La legittimazione quindi non sussiste.
E’ solo per completezza che si ricorda come la giurisprudenza invocata dai ricorrenti a sostegno dell’opposta loro tesi sia in realtà non esattamente pertinente. In dettaglio, C.d.S. sez. V 31.01.2001 n. 358 e TAR Liguria sez. II 15.02.2007 n. 231 sono sulla stessa linea qui sostenuta, e negano la legittimazione, rispettivamente quanto alla impugnazione degli atti relativi ad un’opera pubblica e all’approvazione dello strumento urbanistico generale. Viceversa, TAR Lombardia Brescia 11.08.2004 n. 889 e 19.06.2006 n. 752, TAR Lombardia Milano sez. III 24.06.2004 n. 2664, nonché 06.05.2004 n. 1622, confermata da C.d.S. sez. V 03.03.2005 n. 832, riguardano proprio casi di lesione delle prerogative del consigliere, ovvero la sottrazione di competenze al consiglio da parte della giunta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.05.2013 n. 475 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' del tutto noto che la motivazione di un qualunque provvedimento amministrativo deve consentire in modo agevole di ripercorrere il percorso logico seguito nell’emanare il provvedimento stesso: sul principio, si veda per tutte. La regola è intesa in modo ampio, nel senso che la motivazione si considera presente in tutti i casi in cui anche “a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni… della determinazione assunta”; rimane fermo però che tale ricostruzione deve essere possibile, e non meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione poi, come previsto in modo espresso dall’art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, può essere assolto anche con il rinvio esplicito ad uno degli atti del procedimento, cd. motivazione per relationem: come dispone il comma 3 dell’articolo in questione, infatti, “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”.
In termini generali, è del tutto noto, e condiviso da questo Collegio, che la motivazione di un qualunque provvedimento amministrativo deve consentire in modo agevole di ripercorrere il percorso logico seguito nell’emanare il provvedimento stesso: sul principio, si veda per tutte C.d.S. sez. V 11.11.2005 n. 6347. La regola è intesa in modo ampio, nel senso che la motivazione si considera presente in tutti i casi in cui anche “a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni… della determinazione assunta”, come affermato di recente da C.d.S. sez. IV 10.05.2005 n. 2231; rimane fermo però che tale ricostruzione deve essere possibile, e non meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione poi, come previsto in modo espresso dall’art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, può essere assolto anche con il rinvio esplicito ad uno degli atti del procedimento, cd. motivazione per relationem: come dispone il comma 3 dell’articolo in questione, infatti, “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”. In proposito, come ha chiarito la giurisprudenza, l’atto richiamato deve essere offerto in copia o per lo meno in visione, e ciò su istanza di parte, si che non può dolersi di un difetto di motivazione chi non possa provare di avere richiesto l’accesso all’atto e di non essere stato in ciò soddisfatto: così sul punto C.d.S. sez. IV 24.12.2007 n. 6653 e 20.10.2000 n. 5619 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.05.2013 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 38, comma 1, lettera f), nello stabilire che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni, degli appalti i soggetti che “secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualunque mezzo di prova dalla stazione appaltante” comprende due ipotesi, l’una relativa a prestazioni affidate dalla stessa amministrazione che ha bandito l’appalto e l’altra che riguarda la negligenza professionale anche in rapporti con altre amministrazioni.
La vicenda relativa alla grave inadempienza con soggetto diverso dall’amministrazione che ha bandito la gara rientra per l’appunto nella seconda parte della disposizione, che consente la valutazione dei precedenti professionali delle imprese concorrenti anche in rapporti contrattuali intercorsi con amministrazioni diverse da cui desumere, eventualmente, l’affidabilità dell’impresa che concorre; l’accertamento del grave errore professionale può avvenire con qualsiasi mezzo di prova ed è rimesso al giudizio insindacabile dell’amministrazione , salvo il limite della abnormità che non si registra nel caso di specie.

La questione centrale della controversia riguarda l’interpretazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’erronea applicazione della suddetta disposizione da parte della stazione appaltante che non aveva esclusa Gema dalla gara, malgrado avesse reso falsa dichiarazione in ordine a detto requisito.
L’art. 38, comma 1, lettera f), nello stabilire che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni, degli appalti i soggetti che “secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualunque mezzo di prova dalla stazione appaltante” comprende due ipotesi, l’una relativa a prestazioni affidate dalla stessa amministrazione che ha bandito l’appalto e l’altra che riguarda la negligenza professionale anche in rapporti con altre amministrazioni.
La vicenda relativa alla grave inadempienza con soggetto diverso dall’amministrazione che ha bandito la gara rientra per l’appunto nella seconda parte della disposizione, che consente la valutazione dei precedenti professionali delle imprese concorrenti anche in rapporti contrattuali intercorsi con amministrazioni diverse da cui desumere, eventualmente, l’affidabilità dell’impresa che concorre; l’accertamento del grave errore professionale può avvenire con qualsiasi mezzo di prova ed è rimesso al giudizio insindacabile dell’amministrazione , salvo il limite della abnormità che non si registra nel caso di specie (cfr. in termini, Cons. Stato, sez. V, 15.03.2010, n. 1500; 14.04.2008, n. 1716; sez. VI, 10.05.2007, n. 2245; determinazione Autorità di vigilanza n. 1 del 2010 cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2610 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ordine alla gratuità degli interventi in zona agricola, l’art. 9, comma 1, lett. a), della l. n. 10 del 1977 (oggi art. 17, co. 3, lett. a), t.u. edilizia) prevede una duplice condizione:
a) che la zona di intervento abbia nello strumento urbanistico destinazione agricola;
b) che l’intervento sia funzionale allo sfruttamento agricolo del fondo.
Non è sufficiente quindi la destinazione agricola dell’area interessata dalla costruzione, essendo, invece, necessaria la concorrenza della destinazione della costruzione allo sfruttamento del fondo che presuppone la qualità soggettiva del richiedente, di imprenditore agricolo a titolo principale.
In ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è univoca nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da delimitarne l’ambito esclusivamente all’imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153.
La gratuità della concessione edilizia è, dunque, prevista ove concorrano qualità soggettive del richiedente, che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e qualità oggettive del fabbricato da erigersi.

In ordine alla gratuità degli interventi in zona agricola, l’art. 9, comma 1, lett. a), della l. n. 10 del 1977 (oggi art. 17, co. 3, lett. a), t.u. edilizia), rinviando all’art. 12 della l. 09.05.1975, n. 153 (successivamente abrogato dall’art. 1 del d.lgs. 29.03.2004 n. 99 a sua volta modificato dall’art. 1 d.lgs. 27.05.2005, n. 101), prevede una duplice condizione:
a) che la zona di intervento abbia nello strumento urbanistico destinazione agricola;
b) che l’intervento sia funzionale allo sfruttamento agricolo del fondo.
Non è sufficiente quindi la destinazione agricola dell’area interessata dalla costruzione, essendo, invece, necessaria la concorrenza della destinazione della costruzione allo sfruttamento del fondo che presuppone la qualità soggettiva del richiedente, di imprenditore agricolo a titolo principale.
In ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è univoca nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da delimitarne l’ambito esclusivamente all’imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02.09.1990, n. 682; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 03.10.2005, n. 1533; Palermo, sez. I, 15.07.2004, n. 1554).
La gratuità della concessione edilizia è, dunque, prevista ove concorrano qualità soggettive del richiedente, che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e qualità oggettive del fabbricato da erigersi.
Nel caso non sussistevano tali requisiti soggettivi, in disparte ogni considerazione sul tipo di costruzione, consistente nell’ampliamento di una villa residenziale destinata ad abitazione permanente, che per struttura è ben lontana da potersi ritenere destinata a scopi agricoli.
Quanto all’asserita applicabilità della esenzione al fabbricato da destinare ad abitazione dell’imprenditore agricolo, in disparte la questione di principio sull’ammissibilità della interpretazione estensiva di una norma derogatoria, nel caso non poteva trovare ingresso l’esenzione non avendo mai la ricorrente provato la qualità di imprenditore agricolo ai sensi della richiamata l. n. 153 del 1975, che deve coesistere con la destinazione dell’intervento alla destinazione agricola.
In conclusione, il Sindaco legittimamente ha richiesto il pagamento degli oneri contemplati dall’art. 3 della l. 28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione edilizia in questione, in mancanza di allegazione da parte dell’istante della documentazione attestante il possesso dei requisiti per beneficiare di siffatta esenzione (in termini, Cons. Stato, sez. V, 02.09.1990, n. 682) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I pareri sulle delibere di giunta/consiglio rilevano solo sul piano interno, pertanto la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità.
Del pari infondate sono le censure imperniate sull’assenza del parere di regolarità contabile e sulla necessità che il parere tecnico venisse espresso dal Responsabile per il personale e non dal Segretario comunale, ma per ragioni diverse da quelle poste a base dell’impugnata sentenza (secondo cui il primo non sarebbe necessario non comportando un impegno di spesa, mentre il secondo sarebbe stato correttamente espresso dal Segretario comunale sulla scorta di una non condivisibile esegesi del comma 3 dell’art. 49, t.u. enti locali.),
Invero, secondo un consolidato orientamento di questo Consiglio, da cui non si ravvisano ragioni per decampare (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez IV, 22.06.2006, n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), i pareri in questione rilevano solo sul piano interno, pertanto, la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La stipula del contratto preliminare, ed invero nemmeno quella del contratto definitivo, non escludono affatto la legittimazione, della stazione appaltante, all’annullamento del provvedimento di aggiudicazione.
Invero, "il provvedimento di aggiudicazione definitiva non costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che all’annullamento degli atti amministrativi che ne costituiscono il presupposto.
Ed ancora, “non può accogliersi la tesi propugnata dalle appellanti secondo cui le sole (peraltro pacifiche) circostanze dell’intervenuta stipulazione del contratto e della sua attuale esecuzione, costituirebbero elementi sufficienti ad escludere nella fattispecie in esame la giurisdizione del giudice amministrativo e a radicare quella del giudice ordinario. Di fronte all’esercizio del potere di annullamento la situazione del privato è di interesse legittimo, a nulla rilevando che tale esercizio, in ultima analisi, produca effetti indiretti su di un contratto stipulato da cui sono derivati diritti.”

Le argomentazioni esposte legittimano, in conclusione, la decisione dell’Amministrazione di non procedere alla stipula del contratto definitivo, implicita nell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione.
Inoltre, la stipula del contratto preliminare, ed invero nemmeno quella del contratto definitivo, non escludono affatto la legittimazione, della stazione appaltante, all’annullamento del provvedimento di aggiudicazione.
C. di S., V, 07.09.2011, n. 5032, ha infatti stabilito che “il provvedimento di aggiudicazione definitiva non costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che all’annullamento degli atti amministrativi che ne costituiscono il presupposto”; “non può accogliersi la tesi propugnata dalle appellanti secondo cui le sole (peraltro pacifiche) circostanze dell’intervenuta stipulazione del contratto e della sua attuale esecuzione, costituirebbero elementi sufficienti ad escludere nella fattispecie in esame la giurisdizione del giudice amministrativo e a radicare quella del giudice ordinario. Di fronte all’esercizio del potere di annullamento la situazione del privato è di interesse legittimo, a nulla rilevando che tale esercizio, in ultima analisi, produca effetti indiretti su di un contratto stipulato da cui sono derivati diritti.” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il decreto del Presidente della Repubblica, che decide il ricorso straordinario in conformità del parere del Consiglio di Stato, è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, comma 1, cod. proc. civ., solo per motivi attinenti alla giurisdizione, e non anche con le altre censure di diritto previste dall’art. 360 cod. proc. civ., e il decreto decisorio sul ricorso straordinario, una volta divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo ed è, quindi, suscettibile di essere azionato nel giudizio di ottemperanza.
Giova rilevare, in linea di diritto, che secondo orientamento ormai consolidato della Corte regolatrice il decreto del Presidente della Repubblica, che decide il ricorso straordinario in conformità del parere del Consiglio di Stato, è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, comma 1, cod. proc. civ., solo per motivi attinenti alla giurisdizione, e non anche con le altre censure di diritto previste dall’art. 360 cod. proc. civ., e che il decreto decisorio sul ricorso straordinario, una volta divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo ed è, quindi, suscettibile di essere azionato nel giudizio di ottemperanza (v. in tal senso, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Un., 19.12.2012, n. 23464, con ulteriori richiami giurisprudenziali) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di accesso alla documentazione amministrativa, nella nozione di <pubblica amministrazione> la legge [art. 22, comma 1, lett. e), della legge n. 240 del 1990] ricomprende anche i soggetti di diritto privato, sia pur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
E’ da premettere che, in materia di accesso alla documentazione amministrativa, nella nozione di <pubblica amministrazione> la legge [art. 22, comma 1, lett. e), della legge n. 240 del 1990] ricomprende anche i soggetti di diritto privato, sia pur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
Ciò detto, il Collegio condivide la lettura interpretativa fornita dal Giudice di primo grado riguardo all’ammissibilità ed alla fondatezza, nel caso in esame, della istanza ostensiva proposta dai partecipanti alla selezione dei mandatari SIAE per le sedi Agropoli e Sorrento.
Anzitutto non appare fondata la censura proposta dall’appellante in relazione alla pretesa carenza di nesso strumentale tra accesso ed esigenze di difesa in giudizio delle proprie ragioni, a seguito della pronuncia declinatoria della giurisdizione sul capo di domanda di primo grado afferente la legittimità degli atti della procedura selettiva.
In ossequio al principio della translatio iudicii, il Tar ha infatti correttamente disposto che la causa principale debba proseguire dinanzi al giudice civile munito di giurisdizione e, pertanto, il vincolo di strumentalità rispetto alle esigenze defensionali prospettate dagli originari ricorrenti permane, essendo ininfluente che sia il giudice ordinario anziché il giudice amministrativo ad essere investito della decisione nel merito: al di là del profilo della corretta individuazione del giudice munito di giurisdizione, nel caso in esame l’accesso è funzionale ad una più proficua difesa degli interessi degli originari ricorrenti, i quali attraverso l’acquisizione della documentazione richiesta vorrebbero meglio comprendere per quali ragioni siano stati preferiti loro altri soggetti quali mandatari nelle indicate sedi.
Vero è che nei poteri istruttori del giudice ordinario dinanzi al quale proseguirà il giudizio di merito è senz’altro ricompreso quello di acquisire al giudizio gli atti oggetto della richiesta ostensiva, ma non par dubbio che l’acquisizione preventiva di tale documentazione, in esecuzione dell’ordine di esibizione conseguente all’accoglimento del ricorso contro il diniego di accesso, possa risultare utile alle odierne parti appellate, al fine di apprestare una più proficua linea difensiva dinanzi al giudice munito di giurisdizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A fronte di un’istanza tesa all’esercizio dei suoi poteri repressivi in materia edilizia, l’inerzia del Comune consente all’interessato di ricorrere avverso il suo silenzio.
Contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, nella specie è rilevabile un’inerzia in senso tecnico dell’amministrazione comunale, dato che la stessa avrebbe dovuto ultimare il procedimento sanzionatorio avviato, adottando, a seguito dell’emanazione dell’ingiunzione di demolizione, i provvedimenti e gli atti materiali ulteriori, diretti a darvi piena attuazione.
Infatti, al dovere di concludere il procedimento, previsto dall’art. 2, comma 1, l. n. 241/1990, si accompagna l’art. 21-quater della legge medesima, il quale dispone che “i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente”, sicché l’applicazione congiunta delle due disposizioni configura, in esplicazione del principio di esecutorietà dei provvedimenti amministrativi –ossia, della loro idoneità ad essere eseguiti, direttamente e coattivamente, dall’amministrazione senza necessità di precostituire un titolo esecutivo giudiziale– un potere-dovere dell’amministrazione di portare ad effettiva attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del procedimento.
Ovviamente, il sopra richiamato art. 21-quater va interpretato in connessione con le disposizioni del testo unico n. 380 del 2001 sull’obbligo di eseguire l’ordinanza di demolizione entro il termine di novanta giorni successivi alla sua notifica, decorso il quale l’amministrazione ha lo specifico dovere di emanare gli atti conseguenti e di porre in essere –a spese dell’inadempiente– l’attività materiale di adeguamento dello stato di fatto a quello di diritto.
Ne deriva che a fronte di un’istanza tesa all’esercizio dei suoi poteri repressivi in materia edilizia, l’inerzia del Comune consente all’interessato di ricorrere avverso il suo silenzio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Quando siano in causa espressioni di discrezionalità tecnica, in quanto fondata sul difetto di istruttoria e motivazione dell’atto all’esame, il giudice di legittimità può “intervenire solo in presenza di vizi macroscopici di illegittimità o di travisamento dei fatti ictu oculi rilevabile”.
A quanto rilevato deve, peraltro, aggiungersi che per costante giurisprudenza, da cui il Collegio medesimo non ravvisa ragioni per discostarsi, quando siano in causa espressioni di discrezionalità tecnica, come nel caso della valutazione di cui alla nota soprintendentizia n. 1148 del 2011, in quanto fondata sul difetto di istruttoria e motivazione dell’atto all’esame, il giudice di legittimità può “intervenire solo in presenza di vizi macroscopici di illegittimità o di travisamento dei fatti ictu oculi rilevabile”: vizi questi che non risultano riscontrabili nel provvedimento soprintendentizio impugnato (Cons. di Stato, Sez. IV, 03.05.2007, n. 2781).
Osserva, altresì, il Collegio, riguardo alle censure avanzate dalla signora Moscatello nella memoria dell’08.01.2013, relativamente alla compatibilità ambientale del manufatto nel caso in cui rimanga “montato” oltre il periodo estivo, che, come già rilevato con recente pronuncia della Sezione per un caso analogo (Cons. Stato, Sez. VI, 07.09.2012, n. 4761):
a) l'esistenza di una autorizzazione che attesti la compatibilità ambientale e paesaggistica delle opere in questione per il solo periodo estivo non comporta necessariamente che tale compatibilità sussista anche per il periodo invernale;
b) la limitazione temporale dell'autorizzazione al solo periodo estivo risulta, infatti, frutto di un complessivo bilanciamento fra gli interessi dei privati e quelli pubblici connessi con la necessità di tutela del paesaggio garantita dall'art. 9 della Costituzione, che ha trovato il suo punto di equilibrio proprio nella limitata incidenza temporale del manufatto sull’ambiente circostante;
c) non può, infine, trovare accoglimento anche la censura dedotta dall’appellata concernente il fatto che la rimozione delle strutture in esame determinerebbe danni ambientali maggiori rispetto al loro mantenimento poiché tale rilievo non risulta adeguatamente supportato dagli atti di causa e non sarebbe comunque idoneo a far ritenere irragionevoli le valutazioni espresse dall’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare d’appalto, ciascun membro di un’associazione temporanea può impugnare a titolo individuale gli atti della procedura, atteso che il fenomeno del raggruppamento di imprese non dà luogo a un’entità giuridica autonoma che escluda la soggettività delle singole imprese che lo compongono.
Tale legittimazione –che si correla alla posizione sostanziale di interesse legittimo alla regolarità della procedura concorsuale, in relazione ai poteri autoritativi che fanno capo alla stazione appaltante nella fase di evidenza pubblica della selezione del contraente, ed alla consequenziale pretesa al risarcimento dei danni (in forma specifica e/o per equivalente monetario)– non viene meno, né trova limite quanto all’oggetto ed agli effetti della domanda di annullamento e della connessa domanda risarcitoria, ove taluno degli iniziali litisconsorti, individuati fra le imprese del raggruppamento costituito o costituendo, non impugni la sentenza sfavorevole di primo grado (oppure rinunzi al ricorso in corso di causa).

Ritiene la Sezione che è infondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello, in quanto:
- per il consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, nelle gare d’appalto, ciascun membro di un’associazione temporanea può impugnare a titolo individuale gli atti della procedura, atteso che il fenomeno del raggruppamento di imprese non dà luogo a un’entità giuridica autonoma che escluda la soggettività delle singole imprese che lo compongono (v., per tutte, Cons. St., Ad. Plen., 15.04.2010, n. 1);
- tale legittimazione –che si correla alla posizione sostanziale di interesse legittimo alla regolarità della procedura concorsuale, in relazione ai poteri autoritativi che fanno capo alla stazione appaltante nella fase di evidenza pubblica della selezione del contraente, ed alla consequenziale pretesa al risarcimento dei danni (in forma specifica e/o per equivalente monetario)– non viene meno, né trova limite quanto all’oggetto ed agli effetti della domanda di annullamento e della connessa domanda risarcitoria, ove taluno degli iniziali litisconsorti, individuati fra le imprese del raggruppamento costituito o costituendo, non impugni la sentenza sfavorevole di primo grado (oppure rinunzi al ricorso in corso di causa) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La pubblicazione all’albo pretorio non è sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza dell’atto da parte dei soggetti, ai quali l’atto direttamente si riferisce e interessati a impugnarlo, ai quali il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione, deve essere notificato o comunicato direttamente.
L’art. 21 l. n. 1034 del 1971 prevede che il termine decadenziale di sessanta giorni per impugnare l’atto amministrativo decorre dal momento in cui «l’interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento» (v. ora art. 41, secondo comma, Cod. proc. amm.).
L’art. 124 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) prevede che «tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia sono pubblicate mediante affissione all’albo pretorio, nella sede dell'ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge».
Il Consiglio di Stato, con orientamento costante, afferma che la pubblicazione all’albo pretorio non è sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza dell’atto da parte dei soggetti, ai quali l’atto direttamente si riferisce e interessati a impugnarlo, ai quali il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione, deve essere notificato o comunicato direttamente (da ultimo, Cons. Stato, V, 15.03.2011, n. 1589)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della pubblica amministrazione.

La giurisprudenza, con orientamento costante cui la Sezione aderisce, ritiene che affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della pubblica amministrazione (ex multis, Cons. Stato, IV, 24.02.02011, n. 1240; IV, n. 2760 del 2012, cit.)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente affermato, quanto all’oggetto della valutazione paesaggistica nel contesto del procedimento di condono edilizio, che il detto parere «ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario».
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato afferma anche che il potere di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica da parte della Soprintendenza, che esprime non un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, se non comporta un riesame di merito delle valutazioni dell’ente competente, nondimeno impone la valutazione dell’atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l’ente che rilascia l’atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l’atto locale per difetto di motivazione e possono indicare –anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere– le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell’intervento edilizio con i valori tutelati.

In relazione alla disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, alla sua durata e ai controlli sui di essa effettuabili, la legge 29.06.1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali) prevedeva che i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di immobili vincolati, ai sensi delle previsioni contenute nella stessa legge, avrebbero dovuto ottenere una apposita autorizzazione dalle autorità competenti per i lavori che intendessero eseguire. Il potere di annullamento ministeriale fu poi disciplinato, a seguito del riordino delle competenze tra Stato e regioni, dall’art. 82 d.P.R. 24.07.1977, n. 616, come modificato dall’art. 1 d.l. 27.06.1985, n. 312, come convertito dalla l. 08.08.1985, n. 431.
Il decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 08.10.1997, n. 352), applicabile ratione temporis, ha formalmente abrogato, sostanzialmente riordinandola, la legge n. 1497 del 1939, ribadendo all’art. 151 la necessità, in presenza di immobili vincolati, del rilascio dell’autorizzazione ad effettuare lavori, con potere ministeriale di annullare l’autorizzazione rilasciata in sede regionale o locale.
La materia è stata poi regolata dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). In particolare, l’art. 159 prevede un regime transitorio operante –in sostanziale continuità della fattispecie normativa rispetto alle citate discipline precedenti– fino al 31.12.2009.
In relazione al c.d. condono edilizio, o sanatoria straordinaria, la disciplina rilevante è, mediante rinvio anche per i condoni edilizi successivi a quello del 1985 (l. 23.12.1994, n. 724; d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. dalla l. 24.11.2003, n. 326) contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie). In particolare, l’art. 32 dispone che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente affermato, quanto all’oggetto della valutazione paesaggistica nel contesto del procedimento di condono edilizio, che il detto parere «ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario» (es. Cons. Stato, VI, 15.03.2007, n. 1255).
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato afferma anche che il potere di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica da parte della Soprintendenza, che esprime non un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, (cfr. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14.02.2001, n. 9) se non comporta un riesame di merito delle valutazioni dell’ente competente, nondimeno impone la valutazione dell’atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l’ente che rilascia l’atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l’atto locale per difetto di motivazione e possono indicare –anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere– le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell’intervento edilizio con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, VI, 20.12.2012, n. 6585; Cons. Stato, VI, 18.01.2012, n. 173; VI, 28.12.2011, n. 6885; VI, 21.09.2011, n. 5292) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.05.2013 n. 2535 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia è necessaria, anche qualora non sussistano i presupposti che ne comportano l'obbligatorietà, quando gli elementi dell'offerta e l'entità del ribasso complessivo non trovino adeguata giustificazione negli atti e presentino evidenti o comunque seri dubbi di anomalia, in attuazione dei principi generali di efficacia, imparzialità, parità di trattamento e buon andamento dell'azione amministrativa.
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Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte deve ritenersi circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento.
E tale principio deve ritenersi applicabile anche nella fase (precedente), in cui l’amministrazione ritiene di utilizzare (o non utilizzare) la facoltà di procedere al controllo di anomalia, ai sensi dell’art. 86, comma 3, del codice dei contratti pubblici.
Si deve poi aggiungere che è la scelta di effettuare la verifica facoltativa di anomalia che esige una espressa ed adeguata motivazione (in ordine alle ragioni ed agli elementi di fatto sulla base dei quali essa si sia risolta nel senso di attendere alla verifica di anomalia ai sensi del citato comma 3), mentre una motivazione non è (normalmente) necessaria quando l’amministrazione ritiene di non dover far uso di tale facoltà, il cui mancato esercizio non è pertanto censurabile.

Neppure ricorrevano le condizioni per l’attivazione del controllo facoltativo di cui al comma 3, del citato articolo 86, secondo cui «le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa».
In proposito questa Sezione ha, di recente, affermato che nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia è necessaria, anche qualora non sussistano i presupposti che ne comportano l'obbligatorietà, quando gli elementi dell'offerta e l'entità del ribasso complessivo non trovino adeguata giustificazione negli atti e presentino evidenti o comunque seri dubbi di anomalia, in attuazione dei principi generali di efficacia, imparzialità, parità di trattamento e buon andamento dell'azione amministrativa (Consiglio di Stato, sez. III, 14.12.2012, n. 6442).
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Peraltro, si deve anche ricordare che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 36 del 29.11.2012, ha affermato che il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte deve ritenersi circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento.
E tale principio deve ritenersi applicabile anche nella fase (precedente), in cui l’amministrazione ritiene di utilizzare (o non utilizzare) la facoltà di procedere al controllo di anomalia, ai sensi dell’art. 86, comma 3, del codice dei contratti pubblici.
Si deve poi aggiungere che, come pure ricordato dal TAR, è la scelta di effettuare la verifica facoltativa di anomalia che esige una espressa ed adeguata motivazione (in ordine alle ragioni ed agli elementi di fatto sulla base dei quali essa si sia risolta nel senso di attendere alla verifica di anomalia ai sensi del citato comma 3), mentre una motivazione non è (normalmente) necessaria quando l’amministrazione ritiene di non dover far uso di tale facoltà (Consiglio di Stato, sez. VI, 27.07.2011, n. 4489), il cui mancato esercizio non è pertanto censurabile
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.05.2013 n. 2533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'attività repressiva in tema di opere edilizie abusive non è necessaria la previa comunicazione dell' avvio procedimentale di cui all'art. 7 l. 241/1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato; sicché l'ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera edilizia e, proprio in quanto atto vincolato, l'ordinanza medesima non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
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Avuto riguardo alla natura tipicamente vincolata dell’ordine di demolizione in esame, l’impugnato provvedimento non necessitava di una particolare motivazione, diversa da quella consistente nell’indicazione del tipo di abuso realizzato dal ricorrente, e delle norme da lui violate.
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La giurisprudenza prevalente considera che la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione vada effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione.
Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali ad esempio recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è necessario il permesso di costruire, quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica.

Si legge nell’impugnato provvedimento che i ricorrenti hanno realizzato “… una recinzione in c.a. dell’altezza fuori terra di mt. 3,50 circa, dal livello della strada privata che fronteggia l’area, con tre accessi chiusi da un portone in ferro. Sul lato della recinzione … è stato realizzato un muro di contenimento in c.a. dell’altezza variabile tra mt 3,00 e mt. 5,00 con una lunghezza di mt. 38 circa”.
Tale essendo la ricostruzione in fatto operata dall’amministrazione, e considerato altresì che l’impugnato provvedimento dà conto che “trattasi di opere realizzate in assenza di permesso di costruire”, occorre ora stabilire se tale impianto motivazionale soddisfa il relativo obbligo di cui all’art. 3 l. n. 241/1990.
A tal riguardo, premette il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “nell'attività repressiva in tema di opere edilizie abusive non è necessaria la previa comunicazione dell' avvio procedimentale di cui all'art. 7 l. 241/1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato; sicché l'ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera edilizia e, proprio in quanto atto vincolato, l'ordinanza medesima non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione” (TAR Campania, Salerno, II, 28.11.2012, n. 2161. In senso confermativo, cfr. altresì, ex multis, TAR Campania, Napoli, III, 04.12.2012, n. 4913; TAR Friuli Venezia Giulia, I, 20.12.2012, n. 498; TAR Lazio, II, 05.09.2012, n. 7570; TAR Liguria, I, 24.07.2012, n. 1073; TAR Sardegna, II, 23.07.2012, n. 747).
Tanto chiarito, e venendo ora al caso di specie, reputa il Collegio che, avuto riguardo alla natura tipicamente vincolata dell’ordine di demolizione in esame, l’impugnato provvedimento non necessitava di una particolare motivazione, diversa da quella consistente nell’indicazione del tipo di abuso realizzato dal ricorrente, e delle norme da lui violate. E poiché l’impugnata ordinanza reca compiute indicazioni in entrambi i sensi or ora menzionati, essa si sottrae senz’altro alle censure lamentate in parte qua dal ricorrente.
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Con il secondo motivo di ricorso, deducono i ricorrenti l’illegittimità dell’impugnato provvedimento, in quanto assunto sul falso presupposto dell’assenza di permesso di costruire. A tal riguardo, deducono i ricorrenti che la presentazione, in data 15.06.2006, di denuncia di inizio di attività, sia sufficiente a ritenere integrata la sussistenza di regolare titolo edilizio.
L’assunto è infondato.
La giurisprudenza prevalente, cui il Collegio aderisce, considera che la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione vada effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione (TAR Lazio Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2003, n. 6196).
Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali ad esempio recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà (TAR Campania Napoli, sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.05.2007, n. 4821; TAR Emilia Romagna, sez. II, 26.01.2007, n. 82; TAR Veneto Venezia, sez. II, 07.03.2006, n. 533).
Viceversa, è necessario il permesso di costruire, quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (TAR Campania, Napoli, IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897) o da opera muraria (Cassazione penale , sez. III, 13.12.2007, n. 4755).
Ciò chiarito, e venendo ora al caso di specie, si legge nell’impugnato provvedimento che l’abuso in esame consiste in una recinzione in c.a. dell’altezza fuori terra di mt. 3,50 circa, con tre accessi chiusi da un portone in ferro. Inoltre, sul lato della recinzione è stato realizzato un muro di contenimento in c.a. dell’altezza variabile tra mt. 3,00 e mt. 5,00, con una lunghezza di mt. 38 circa.
Avuto riguardo a tale descrizione delle opere in esame, è pertanto di tutta evidenza che i ricorrenti hanno realizzato non già una struttura precaria, ma un’opera che, per natura e dimensioni, può senz’altro definirsi permanente, incidendo in maniera durevole sull’assetto del territorio.
Ne discende che i ricorrenti avrebbero dovuto premunirsi di permesso di costruire, non essendo sufficiente una mera denuncia di inizio attività. E poiché essi non hanno in tal senso operato, del tutto legittimamente l’amministrazione ha ordinato la demolizione delle opere da loro abusivamente realizzate
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 10.05.2013 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto, né essendo necessario acquisire il parere di organi, quali la Commissione edilizia integrata.
Va infine esaminato il quarto motivo di gravame, con il quale i ricorrenti si dolgono della mancata acquisizione del parere della commissione edilizia comunale.
Il motivo è infondato.
Costituisce approdo giurisprudenziale del tutto condiviso quello secondo cui: “l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto, né essendo necessario acquisire il parere di organi, quali la Commissione edilizia integrata” (C.d.S, V, 09.06.2012, n. 3337).
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, deve pertanto ritenersi del tutto irrilevante, nel caso di specie, l’acquisizione di pareri di organismi tecnici, venendo in rilievo un potere a contenuto tipicamente vincolato, che postula unicamente l’accertamento dell’abuso. E poiché non v’è dubbio, alla luce delle considerazioni sopra esposte, che abuso vi è stato, tale circostanza rende di per sé legittima, sotto questo profilo, l’emanato ordine di demolizione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 10.05.2013 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quanto al concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo, lo stesso non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” -il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento prevede l’istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta. Ciò comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della “piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione.
Ed infatti, se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale.
In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi aggiunti consentirebbe di interpretare la “piena conoscenza” come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo (ipotetico) caso si produrrebbe –diversamente opinando- un vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe compresso tra un termine decadenziale che corre ed una impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di completa e consapevole articolazione di una linea difensiva.
Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova ex se che la “piena conoscenza” indicata dal legislatore come determinatrice del dies a quo della decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può che essere intesa se non come quella che consenta all’interessato, di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente ammissibile –quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire- l’azione in sede giurisdizionale.
Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo, ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi, incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della domanda di annullamento.
Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione dei citati motivi aggiunti.

Il Collegio rileva che -come già diffusamente esposto nella propria decisione 28.05.2012 n. 3159- quanto al concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo, lo stesso, anche con riferimento alla previgente disciplina, non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” -il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento prevede l’istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta. Ciò comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della “piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione.
Ed infatti, se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale.
In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi aggiunti consentirebbe di interpretare la “piena conoscenza” come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo (ipotetico) caso si produrrebbe –diversamente opinando- un vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe compresso tra un termine decadenziale che corre ed una impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di completa e consapevole articolazione di una linea difensiva.
Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova ex se che la “piena conoscenza” indicata dal legislatore come determinatrice del dies a quo della decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può che essere intesa se non come quella che consenta all’interessato, di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente ammissibile –quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire- l’azione in sede giurisdizionale.
Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo, ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi, incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della domanda di annullamento.
Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione dei citati motivi aggiunti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2013 n. 2521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell'intervento da eseguire, ancorché connessi, restano due procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse.
Ne consegue che l’inammissibilità del ricorso avverso il nulla-osta inibisce la riproposizione di tali censure nel confronti del permesso di costruire, risultando diversamente eluso il termine decadenziale.

Il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell'intervento da eseguire, ancorché connessi, restano due procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse (Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, Sentenza 30.07.2012, n. 4312).
Ne consegue che l’inammissibilità del ricorso avverso il nulla-osta inibisce la riproposizione di tali censure nel confronti del permesso di costruire, risultando diversamente eluso il termine decadenziale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2013 n. 2513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel procedimento di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, il parere della Commissione edilizia comunale, considerata la mancanza di espressa previsione normativa e la specialità del procedimento, deve essere considerato facoltativo.
Così dicasi anche per il mancato parere della Commissione edilizia comunale: la giurisprudenza della Sezione è nel senso che nel procedimento di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, il parere della Commissione edilizia comunale, considerata la mancanza di espressa previsione normativa e la specialità del procedimento, deve essere considerato facoltativo (Cfr. Consiglio Stato sez. IV, 02.11.2009, n. 6784) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2013 n. 2513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha da tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni che si definiscono “muro”, in base alla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia unicamente la delimitazione della proprietà, si ricade nell'ipotesi della “pertinenza”, per cui non è normalmente necessario il rilascio della concessione ai sensi di quanto previsto, a contrario, dall’art. 3, comma 1, lett. e.6, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel caso in cui il muro sia invece destinato non solo a recingere un fondo, ma anche a contenere o a sostenere esso stesso dei volumi ulteriori, l’opera è tale da presentare una funzione autonoma, sia dal punto di vista edilizio che da quello economico, con la conseguenza che fuoriesce dalla nozione edilizia di “pertinenza” e necessita del permesso di costruire.
In ogni caso ciò che più conta è “l’impegno visivo” dell’opera, ossia la sua concreta idoneità ad incidere sulla trasformazione del suolo: beninteso, purché però tale “impegno” (che deve formare, evidentemente, oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione) sia adeguatamente valorizzato come parte integrante della motivazione dell’ordine di ripristino, nel senso che l’amministrazione deve preoccuparsi di offrire ragionevoli indicazioni (derivanti, ad esempio, dalle notevoli dimensioni o dalle modalità costruttive dell’opera) in ordine alla ritenuta trasformazione del suolo, tali da giustificare il più severo regime edilizio applicato.

Osserva il Collegio che la giurisprudenza, anche di questo TAR (cfr. TAR Piemonte, sez. I, n. 657 del 2003), ha da tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni che si definiscono “muro”, in base alla destinazione del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia unicamente la delimitazione della proprietà, si ricade nell'ipotesi della “pertinenza”, per cui non è normalmente necessario il rilascio della concessione ai sensi di quanto previsto, a contrario, dall’art. 3, comma 1, lett. e.6, del d.P.R. n. 380 del 2001. Nel caso in cui il muro sia invece destinato non solo a recingere un fondo, ma anche a contenere o a sostenere esso stesso dei volumi ulteriori, l’opera è tale da presentare una funzione autonoma, sia dal punto di vista edilizio che da quello economico, con la conseguenza che fuoriesce dalla nozione edilizia di “pertinenza” e necessita del permesso di costruire (cfr., più di recente, TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 4275 del 2012).
In ogni caso –è stato anche aggiunto– ciò che più conta è “l’impegno visivo” dell’opera, ossia la sua concreta idoneità ad incidere sulla trasformazione del suolo (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 3847 del 2010): beninteso, purché però tale “impegno” (che deve formare, evidentemente, oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione) sia adeguatamente valorizzato come parte integrante della motivazione dell’ordine di ripristino, nel senso che l’amministrazione deve preoccuparsi di offrire ragionevoli indicazioni (derivanti, ad esempio, dalle notevoli dimensioni o dalle modalità costruttive dell’opera) in ordine alla ritenuta trasformazione del suolo, tali da giustificare il più severo regime edilizio applicato.
Nel caso di specie non appare dubbio, in base sia agli atti versati in giudizio sia alla motivazione dell’ordinanza di demolizione, che la funzione del muro edificato è unicamente quella di recingere l’area adibita a deposito e stoccaggio di materiali industriali, anche al fine di assicurare idonee condizioni di sicurezza dello stabilimento. Sotto altro profilo, poi, la motivazione dell’atto, nella sua estrema sinteticità, non si è preoccupata di individuare i profili che potevano indurre a ritenere integrata una vera e propria trasformazione urbanistica del suolo, in modo da giustificare l’applicazione del regime edilizio della concessione, in luogo di quello tipico delle opere pertinenziali.
Emerge, in definitiva, ed allo stato degli atti, un’oggettiva destinazione pertinenziale dell’opera de qua a servizio della proprietà, senza particolari problematiche di compatibilità urbanistica (se non un fugace, e del tutto generico, accenno –compiuto nell’ordinanza impugnata– a non meglio definite “difformità da quanto previsto dalle norme di attuazione del vigente PRGC”), con un quadro di risulta tale quindi da determinare l’applicazione del più blando regime edilizio della d.i.a., e la conseguente inapplicabilità della sanzione ripristinatoria ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 09.05.2013 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ordinanze inutilizzabili per eliminare gli odori di un allevamento.
Oggetto del contendere, nella sentenza in commento, era un ordinanza con la quale il Sindaco di un comune pugliese aveva interdetto l’allevamento zootecnico avi-cunicolo al proprietario di un terreno, “sino alla data di esecuzione dei lavori per abbattere la percezione di odori molesti”.
I giudici del Tribunale amministrativo di Lecce, hanno accolto il ricorso decretando l’impossibilità di ricorrere allo strumento atipico in questione in circostanze come questa, visto che il Sindaco si è limitato a prendere atto del persistere di inconvenienti igienico-sanitari. Tale inconvenienti, tuttavia, lungi dal costituire un concreto pericolo per la collettività (non enunciato affatto), secondo gli stessi giudici erano fronteggiabili con gli ordinari strumenti, imponendo ad esempio l’osservanza di specifici e puntuali obblighi nella tenuta dell’allevamento (cfr. Cons. Stato – Sez. VI, 13.06.2012 n. 3490, cit.: “le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono, di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario”).
È giurisprudenza costante, infatti, che i caratteri dell’urgenza e della contingibilità, che legittimano le ordinanze in questione, sono rinvenibili nell’esistenza di un evento eccezionale ed imprevedibile, accompagnato a una situazione di pericolo, e nel contempo nell’inesistenza di ordinari strumenti con cui provvedere. Più in particolare, è stato affermato che la situazione di pericolo è individuabile nella “ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui l’amministrazione non intervenga prontamente”.
E la conclusione non muta, secondo i giudici salentini, anche a voler ritenere applicabile l’art. 50, quinto comma, TUEL (per il quale il Sindaco provvede a fronteggiare “emergenze sanitarie o di igiene pubblica”), non essendo ipotizzabile il carattere emergenziale della situazione derivante dalla percezione di odori, ancorché nauseabondi, provenienti da allevamento sito in zona agricola e che gli stessi accertatori hanno descritto come “caratteristici dell’allevamento in questione”.
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Dal preambolo del provvedimento (“Letto ed applicato l’art. 54, comma 2° del D. Leg.vo 267/2000”) è palese che il Sindaco di Francavilla abbia inteso far ricorso al potere “extra ordinem”, accordato dalla norma (correttamente, quarto comma art. cit.) “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Come affermato costantemente, i caratteri dell’urgenza e della contingibilità che legittimano le ordinanze in questione sono rinvenibili nell’esistenza di un evento eccezionale ed imprevedibile, accompagnato a una situazione di pericolo, e nel contempo nell’inesistenza di ordinari strumenti con cui provvedere (giurisprudenza pacifica; per tutte, Cons. Stato – Sez. VI, 13.06.2012 n. 3490).
Più in particolare, è stato affermato che la situazione di pericolo è individuabile nella “ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso in cui l’amministrazione non intervenga prontamente” (TAR Toscana – Sez. II, 09.04.2004 n. 1006).
La conclusione non muta, anche a voler ritenere applicabile l’art. 50, quinto comma, TUEL (per il quale il Sindaco provvede a fronteggiare “emergenze sanitarie o di igiene pubblica”), non essendo ipotizzabile il carattere emergenziale della situazione derivante dalla percezione di odori, ancorché nauseabondi, provenienti da allevamento sito in zona agricola e che gli stessi accertatori hanno descritto come “caratteristici dell’allevamento in questione” (cfr. la stessa ordinanza impugnata).
A ciò consegue l’impossibilità di ricorrere allo strumento atipico in questione, posto che il Sindaco di Francavilla Fontana si è limitato a prendere atto che persistono gli inconvenienti igienico-sanitari; essi tuttavia, lungi dal costituire un concreto pericolo per la collettività (non enunciato affatto), sono fronteggiabili con gli ordinari strumenti, imponendo ad esempio l’osservanza di specifici e puntuali obblighi nella tenuta dell’allevamento (cfr. Cons. Stato – Sez. VI, 13.06.2012 n. 3490, cit.: “le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono, di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario”)
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 08.05.2013 n. 1012 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica, presentata ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura di provvedimento tacito di reiezione della domanda di sanatoria (e, quindi, di silenzio-rigetto, e non di silenzio-rifiuto), sicché una volta decorso il termine di sessanta giorni (previsto dal citato art. 36) si forma il silenzio-diniego, che è un provvedimento tacito che va impugnato dall’interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni dalla sua formazione.
Il Collegio –premesso che, notoriamente (alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale consolidato), il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica, presentata ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura di provvedimento tacito di reiezione della domanda di sanatoria (e, quindi, di silenzio-rigetto, e non di silenzio-rifiuto), sicché una volta decorso il termine di sessanta giorni (previsto dal citato art. 36) si forma il silenzio-diniego, che è un provvedimento tacito che va impugnato dall’interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni dalla sua formazione (“ex plurimis”: Consiglio di Stato, IV Sezione, 13.01.2010 n° 100)– ritiene sufficiente rilevare che, nella fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, il ricorrente ha (in sostanza) contestato il provvedimento comunale (tacito) di rigetto dell’istanza di sanatoria quasi un anno dopo la formazione del silenzio diniego, proponendo (in data 14.07.2012) ricorso dinanzi a questo TAR (con “petitum” qualificabile come domanda di annullamento) ben dopo la scadenza del predetto termine di decadenza di sessanta giorni, previsto dagli artt. 29 e 41 del Codice del Processo Amministrativo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.04.2013 n. 995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche in materia urbanistico-edilizia, il giudice amministrativo ha da sempre richiesto, in capo ai ricorrenti, la dimostrazione di requisiti soggettivi differenziati rispetto al “quivis de populo”, nonostante il dettato di cui all’art. 31, comma 9, L. 17.08.1942, n. 1150.
Tale differenziazione è stata generalmente riconosciuta sulla base della c.d. “vicinitas”, intesa come prossimità fisica, nel senso di adiacenza tra le aree, da cui la legittimazione a ricorrere del proprietario confinante del terreno oggetto del provvedimento amministrativo, ovvero dello “stabile collegamento” riconoscibile nell’insediamento stabile non necessariamente collegato alla titolarità di diritti reali.
La giurisprudenza ha così evidenziato la varietà degli interessi sottesi ad un determinato assetto territoriale, che conduce ad intendere il titolo legittimante di “vicinitas” non limitato al significato rigidamente geografico, ma piuttosto identificabile nell’interesse a preservare il valore del proprio investimento, la propria posizione imprenditoriale e la preesistente amenità della propria situazione proprietaria, ove in concreto lesi.
Resta tuttavia confermato che il criterio della “vicinitas” non importa l’introduzione di un’azione popolare e che lo stesso riferimento geografico non esclude la necessaria verifica della sussistenza di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato del ricorrente, considerando il durevole rapporto esistente tra la sua proprietà e l’area interessata dall’intervento.
In termini, “nel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l’interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente“.
Tale interesse va per necessità indagato caso per caso, avuto riguardo agli effetti diretti ed indiretti dell’intervento sui diversi fattori caratterizzanti il contesto ambientale e territoriale di riferimento, considerando la natura e le dimensioni dell’opera realizzata, la sua destinazione, le sue implicazioni urbanistiche ed anche le conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa o simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera.
Va ancora considerato che il principio della necessaria verifica dell’interesse a ricorrere quale condizione di ammissibilità dell’azione in giudizio è stato recentemente confermato e corroborato dall’art. 35, comma 1, lett. b), del codice del processo amministrativo.
Ne resta confermata la necessità di individuare con esattezza il grado di differenziazione della posizione giuridica da ricercare in capo al ricorrente e di cui lo stesso deve dar conto al fine di dimostrare la diretta riconducibilità alla propria persona dell’utilità derivante da un eventuale giudicato di accoglimento, così da scongiurare l’ingresso nel processo amministrativo di possibili ed eventuali ricorsi popolari.
In termini, l’interesse a ricorrere nei confronti del proprietario confinante sussiste nelle sole ipotesi in cui si verifichi una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante, suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico che il ricorrente intende conservare”.

A sostegno dell’eccezione deducono che la ricorrente non avrebbe in alcun modo giustificato tale interesse, del tutto insussistente in ragione della circostanza che la medesima ricorrente non sarebbe neppure “confinante” con la controinteressata, giacché le due proprietà sono divise da una pubblica strada, e comunque nessuna lesione ha allegato (né dimostrato) derivante dalla pretesa illegittimità dell’attività edilizia autorizzata; dal che la dedotta carenza di interesse “personale, attuale e contrario” spendibile in sede giurisdizionale.
Com’è noto, anche in materia urbanistico-edilizia, il giudice amministrativo ha da sempre richiesto, in capo ai ricorrenti, la dimostrazione di requisiti soggettivi differenziati rispetto al “quivis de populo”, nonostante il dettato di cui all’art. 31, comma 9, L. 17.08.1942, n. 1150.
Tale differenziazione è stata generalmente riconosciuta sulla base della c.d. “vicinitas”, intesa come prossimità fisica, nel senso di adiacenza tra le aree, da cui la legittimazione a ricorrere del proprietario confinante del terreno oggetto del provvedimento amministrativo, ovvero dello “stabile collegamento” riconoscibile nell’insediamento stabile non necessariamente collegato alla titolarità di diritti reali.
La giurisprudenza ha così evidenziato la varietà degli interessi sottesi ad un determinato assetto territoriale, che conduce ad intendere il titolo legittimante di “vicinitas” non limitato al significato rigidamente geografico, ma piuttosto identificabile nell’interesse a preservare il valore del proprio investimento, la propria posizione imprenditoriale e la preesistente amenità della propria situazione proprietaria, ove in concreto lesi.
Resta tuttavia confermato che il criterio della “vicinitas” non importa l’introduzione di un’azione popolare e che lo stesso riferimento geografico non esclude la necessaria verifica della sussistenza di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato del ricorrente, considerando il durevole rapporto esistente tra la sua proprietà e l’area interessata dall’intervento.
In termini, “nel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l’interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente“ (Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 485/2011).
Tale interesse va per necessità indagato caso per caso, avuto riguardo agli effetti diretti ed indiretti dell’intervento sui diversi fattori caratterizzanti il contesto ambientale e territoriale di riferimento, considerando la natura e le dimensioni dell’opera realizzata, la sua destinazione, le sue implicazioni urbanistiche ed anche le conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa o simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 30.11.2009, n. 7490).
Va ancora considerato che il principio della necessaria verifica dell’interesse a ricorrere quale condizione di ammissibilità dell’azione in giudizio è stato recentemente confermato e corroborato dall’art. 35, comma 1, lett. b), del codice del processo amministrativo (cfr. TAR Veneto, n. 959/2012).
Ne resta confermata la necessità di individuare con esattezza il grado di differenziazione della posizione giuridica da ricercare in capo al ricorrente e di cui lo stesso deve dar conto al fine di dimostrare la diretta riconducibilità alla propria persona dell’utilità derivante da un eventuale giudicato di accoglimento, così da scongiurare l’ingresso nel processo amministrativo di possibili ed eventuali ricorsi popolari.
In termini, l’interesse a ricorrere nei confronti del proprietario confinante sussiste nelle sole ipotesi in cui si verifichi una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante, suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico che il ricorrente intende conservare” (cfr. Cons. di Stato, Sez.IV. n. 6157/2007) (TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 26.04.2013 n. 404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La decadenza dei vincoli urbanistici preordinati all’esproprio comporta l’obbligo per il Comune di “reintegrare” la disciplina urbanistica dell’area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione.
Ne consegue che il proprietario dell’area interessata può presentare all’Amministrazione un’istanza, volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica; e che l’Amministrazione è tenuta a pronunziarsi motivatamente sulla stessa, anche nel caso in cui non la ritenga suscettibile di accoglimento, fermo restando, naturalmente, il potere discrezionale dell’amministrazione comunale in ordine alla verifica e alla scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio e con l’interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo.
In ordine ai termini di durata dei vincoli espropriativi urbanistici, va, peraltro, richiamato il parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa secondo cui deve ritenersi applicabile nel territorio della Regione Siciliana il termine di durata quinquennale dei vincoli espropriativi urbanistici di cui all’art. 9 del D.P.R. 327/2001, con decorrenza dalla data di approvazione degli strumenti urbanistici.
E’ stato, inoltre, evidenziato:
- che “l’obbligo di provvedere gravante sul Comune in caso di decadenza di vincolo preordinato all’esproprio, va assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di una variante generale, gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale, rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse”;
- e che “il potere di conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla legge all’organo consiliare, di talché il semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale comunale non costituisce adempimento da parte del Comune in ordine all’obbligo di riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante”.
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L’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere dato soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da parte del competente Organo consiliare.
La decadenza dei vincoli urbanistici per l'inutile decorso del termine quinquennale dall'approvazione del piano regolatore generale obbliga il Comune a procedere alla nuova qualificazione dell'area rimasta priva di disciplina, per cui è illegittima l'inerzia serbata al riguardo dalla P.A. ed è possibile la formazione del silenzio-rifiuto a seguito dell'intimazione da parte dei proprietari dell'area stessa. Laddove, però, l'amministrazione, a giustificazione del silenzio, pronunci asserzioni generiche e non indichi con precisione i tempi procedimentali necessari, il provvedimento silenzioso va dichiarato illegittimo, con la consequenziale declaratoria dell'obbligo di provvedere in capo all'organo competente ad effettuare discrezionalmente la scelta della nuova destinazione da imprimere all'area, mediante adeguata motivazione.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che trova le sue radici nelle statuizioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 02.04.1984 e n. 12 dell’11.06.1984, al quale anche questo Tribunale ha aderito, da ultimo con le richiamate sentenze -dalle quali non si ravvisano ragioni per discostarsi- la decadenza dei vincoli urbanistici preordinati all’esproprio comporta l’obbligo per il Comune di “reintegrare” la disciplina urbanistica dell’area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione.
Ne consegue che il proprietario dell’area interessata può presentare all’Amministrazione un’istanza, volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica; e che l’Amministrazione è tenuta a pronunziarsi motivatamente sulla stessa, anche nel caso in cui non la ritenga suscettibile di accoglimento (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.06.2004, n. 4426; TAR Campania, Salerno, sez. I, 03.06.2009, n. 2825; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 25.06.2009, n. 1167; Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 467; 18.07.2006, n. 1183; 21.06.2004, n. 1733), fermo restando, naturalmente, il potere discrezionale dell’amministrazione comunale in ordine alla verifica e alla scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio e con l’interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2007, n. 3025).
In ordine ai termini di durata dei vincoli espropriativi urbanistici, va, peraltro, richiamato il parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 461/2005 del 01.09.2005 secondo cui deve ritenersi applicabile nel territorio della Regione Siciliana il termine di durata quinquennale dei vincoli espropriativi urbanistici di cui all’art. 9 del D.P.R. 327/2001, con decorrenza dalla data di approvazione degli strumenti urbanistici (cfr. sul punto, anche TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 09.07.2008, n. 905).
E’ stato, inoltre, evidenziato (TAR Sicilia, Palermo, II, n. 1318 del 2012):
- che “l’obbligo di provvedere gravante sul Comune in caso di decadenza di vincolo preordinato all’esproprio, va assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di una variante generale, gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale, rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse (in termini: Consiglio di Stato, sez. IV, 31.05.2007, n.2885)”;
- e che “il potere di conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla legge all’organo consiliare, di talché il semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale comunale non costituisce adempimento da parte del Comune in ordine all’obbligo di riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante (cfr.: Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2006, n. 7131; sez. V, 01.10.2003, n. 5675)”.
Come precisato nella sentenza n. 1565/2009, “l’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere dato soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da parte del competente Organo consiliare”.
È stato anche affermato che: "la decadenza dei vincoli urbanistici per l'inutile decorso del termine quinquennale dall'approvazione del piano regolatore generale obbliga il Comune a procedere alla nuova qualificazione dell'area rimasta priva di disciplina, per cui è illegittima l'inerzia serbata al riguardo dalla P.A. ed è possibile la formazione del silenzio-rifiuto a seguito dell'intimazione da parte dei proprietari dell'area stessa. Laddove, però, l'amministrazione, a giustificazione del silenzio, pronunci asserzioni generiche e non indichi con precisione i tempi procedimentali necessari, il provvedimento silenzioso va dichiarato illegittimo, con la consequenziale declaratoria dell'obbligo di provvedere in capo all'organo competente ad effettuare discrezionalmente la scelta della nuova destinazione da imprimere all'area, mediante adeguata motivazione" (TAR Puglia Bari, Sez. II, 22.11.2001, n. 5129; in senso conforme, da ultimo: TAR Sicilia, Palermo, n. 7035/2010 e n. 1565/2009) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 23.04.2013 n. 938 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In caso di acclarata illegittimità dell'atto amministrativo, asseritamente foriero di danno, al privato non è richiesto un particolare sforzo probatorio per ciò che attiene al profilo dell'elemento soggettivo della colpa, potendo egli invocare l'illegittimità del provvedimento quale presunzione (semplice) della colpa, spettando poi all'Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile nelle ipotesi di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una fonte normativa di formulazione incerta o di recente entrata in vigore ovvero di notevole complessità del fatto o di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti.
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Per quanto concerne, poi, i rapporti fra il lucro cessante (coincidente con l’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione non avvenuta per le illegittimità qui rilevate) e danno emergente (coincidente con la diminuzione patrimoniale dovuta per le spese e gli esborsi sostenuti per la partecipazione alla gara), si osserva quanto segue.
Invero, il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione ad una gara d'appalto, non è risarcibile, in favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell'appalto (o anche la sola perdita della relativa chance). Infatti, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione.
Detti costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo se l'impresa illegittimamente esclusa lamenti (e chieda di essere tenuta indenne in relazione a) questi profili dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in considerazione soltanto la pretesa risarcitoria del contraente che si duole del fatto di essere stato coinvolto in trattative inutili. Tali danni, peraltro, vanno, in via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica, mediante rinnovo delle operazioni di gara e, solo ove tale rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente.
Per converso, nel caso in cui l'impresa ottenga il risarcimento del lucro cessante per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione.

Neppure può trovare accoglimento l’ulteriore motivo con cui si è lamentato che la sentenza in epigrafe sarebbe meritevole di riforma per la parte in cui ha ritenuto di poter accordare alla società ricorrente in primo grado un pieno risarcimento del danno, mentre invece il pertinente quadro giuridico e fattuale avrebbe al più consentito di riconoscere alla ricorrente un indennizzo pari al (solo) interesse negativo connesso all’infruttuosa partecipazione alla gara.
Al riguardo si osserva:
- che sussistono nel caso di specie tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie foriera di danno, con particolare riguardo: a) al fatto costitutivo (rappresentato dalla mancata aggiudicazione in assenza di una qualunque valida giustificazione); b) all’evento dannoso (rappresentato dalle mancate utilità ritraibili dall’esecuzione dell’appalto); c) dall’evidente esistenza di un nesso eziologico fra il fatto e l’evento;
- che, per quanto concerne il profilo della colpevolezza, la sentenza in epigrafe risulta meritevole di conferma laddove ha osservato che (anche a prescindere dalla giurisprudenza comunitaria in tema di prova della colpa nelle controversie risarcitorie in tema di pubblici appalti – C.G.C.E., sentenza 30.09.2010 in causa C-314/2009), deve nondimeno trovare applicazione nel caso di specie il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui in caso di acclarata illegittimità dell'atto amministrativo, asseritamente foriero di danno, al privato non è richiesto un particolare sforzo probatorio per ciò che attiene al profilo dell'elemento soggettivo della colpa, potendo egli invocare l'illegittimità del provvedimento quale presunzione (semplice) della colpa, spettando poi all'Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile nelle ipotesi (che qui non sussistono) di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una fonte normativa di formulazione incerta o di recente entrata in vigore ovvero di notevole complessità del fatto o di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti (sul punto –ex plurimis -: Cons. Stato, V, 19.11.2012, n. 5846; id., V, 03.07.2012, n. 3888; id., VI, 20.07.2010, n. 4660).
Per quanto concerne, poi, i rapporti fra il lucro cessante (coincidente con l’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione non avvenuta per le illegittimità qui rilevate) e danno emergente (coincidente con la diminuzione patrimoniale dovuta per le spese e gli esborsi sostenuti per la partecipazione alla gara), si osserva quanto segue.
Al riguardo il Collegio ritiene che non sussistano ragioni per discostarsi dall’orientamento secondo cui il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione ad una gara d'appalto, non è risarcibile, in favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell'appalto (o anche la sola perdita della relativa chance). Invero, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione.
Detti costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo se l'impresa illegittimamente esclusa lamenti (e chieda di essere tenuta indenne in relazione a) questi profili dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in considerazione soltanto la pretesa risarcitoria del contraente che si duole del fatto di essere stato coinvolto in trattative inutili. Tali danni, peraltro, vanno, in via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica, mediante rinnovo delle operazioni di gara e, solo ove tale rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente.
Per converso, nel caso in cui l'impresa ottenga il risarcimento del lucro cessante per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione (Cons. Stato, VI, 16.09.2011, n. 5168) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 1999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, il tir responsabile.
Il trasportatore professionale di rifiuti è responsabile di come e dove li trasporta. La verifica dell'esistenza dell'autorizzazione in capo al titolare dell'impianto ove il rifiuto trasportato è destinato rientra tra quei dati verificabili dal trasportatore. Il riferimento alla normale diligenza richiesta in relazione alla natura dell'incarico rende evidente che il trasportatore deve considerarsi comunque soggetto tecnicamente competente in relazione alla tipologia di attività svolta. Nella quale il trasportatore risulta professionalmente inserito e non può, quindi, invocare la sua ignoranza circa la natura di quanto trasportato o della sua destinazione finale.

È quanto previsto dalla sentenza 09.04.2013 n. 16209 della Corte di Cassazione penale (Sez. III) (articolo ItaliaOggi del 23.05.2013).
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Chi trasporta rifiuti deve considerarsi un soggetto tecnicamente competente in relazione alla tipologia di attività svolta, nella quale risulta professionalmente inserito, e non può invocare la sua completa ignoranza circa la natura di quanto trasportato o disinteressarsi del tutto della natura effettiva del carico o della sua destinazione finale.
«Come è noto, il trasporto dei rifiuti rientra tra le attività di gestione, come espressamente previsto dall’art. 183, lett. n), d.lgs. 152/2006. La stessa disposizione, alla lettera h), individua come “detentore” del rifiuto “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”. Tale ampia definizione, rimasta sostanzialmente invariata rispetto alle numerose modifiche apportate all’art. 183, ricomprende evidentemente anche il trasportatore del rifiuto, (…) Nell’attuale formulazione l’art. 188 prevede, al quarto comma, che i soggetti, enti o imprese, che provvedono alla raccolta o al trasporto dei rifiuti a titolo professionale, devono conferire i rifiuti raccolti e trasportati agli impianti autorizzati alla gestione ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 214 e 216 e nel rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 177, comma 4. Come è dato rilevare dal tenore letterale delle disposizioni menzionate, viene sempre espressamente previsto (e non poteva essere altrimenti), che il conferimento dei rifiuti avvenga presso soggetti autorizzati e ciò anche quando la disposizione prevede specifiche esenzioni di responsabilità, quali quelle indicate al terzo comma.
(…) non può legittimamente pretendersi dal trasportatore la verifica di dati riscontrabili attraverso attività di analisi, uso di particolari tecnologie o strumentazione tecnica, ma il riferimento alla normale diligenza richiesta in relazione alla natura dell’incarico rende altrettanto evidente che il trasportatore deve considerarsi comunque un soggetto tecnicamente competente in relazione alla tipologia di attività svolta, nella quale risulta professionalmente inserito e non può, quindi, invocare la sua completa ignoranza circa la natura di quanto trasportato o disinteressarsi del tutto della natura effettiva del carico o della sua destinazione finale. La richiesta diligenza, inoltre, può ritenersi palesemente mancante allorquando taluni elementi sintomatici, quali, ad esempio, la quantità dei rifiuti, il loro stato di conservazione o confezionamento per il trasporto, le modalità di ricezione del carico, quelle di trasporto o la destinazione del rifiuto rendano evidente o, comunque, facilmente riscontrabile, la discrepanza tra documentazione e realtà.
È indubbio che la verifica dell’esistenza dell’autorizzazione in capo al titolare dell’impianto ove il rifiuto trasportato è destinato rientra tra quei dati verificabili dal trasportatore con la normale diligenza e l’inosservanza di tale elementare regola di condotta potrà essere riscontrata dal giudice del merito con adeguata valutazione degli elementi in fatto offerti al suo esame.
(…) l’esistenza dell'autorizzazione poteva essere accertata non soltanto mediante la prassi adottata dell'invio via fax dell’autorizzazione medesima, ma anche mediante una semplice visura presso l'Albo Nazionale Gestori Ambientali»
(massima tratta da www.dirittoambiente.net).

EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di sanatoria posteriore all'ordine di demolizione non incide sulla legittimità di quest'ultimo, che l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione, se e non appena abbia rigettato tale domanda.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.

Per costante giurisprudenza  -anche della Sezione- l'istanza di sanatoria posteriore all'ordine di demolizione non incide sulla legittimità di quest'ultimo, che l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione, se e non appena abbia rigettato tale domanda (TAR Lazio, I, 09.07.2012, n. 6197; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1084).
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra le tante, TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda. In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso (così TAR Campania-Napoli, II, 02.03.2010, n. 1259; TAR Liguria, I, 05.02.2011, n. 226)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.03.2013 n. 524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 4, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, spetta al regolamento edilizio indicare gli interventi sottoposti al “preventivo” parere della commissione edilizia.
Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono della mancata acquisizione del necessario parere della commissione edilizia.
Anche questo motivo è infondato.
E’ noto che, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, spetta al regolamento edilizio indicare gli interventi sottoposti al “preventivo” parere di tale organo consultivo.
Nel caso di specie, da un lato i ricorrenti non hanno citato la disposizione del regolamento edilizio che renderebbe obbligatorio tale parere per interventi della natura di quello in questione; dall’altro, stante la ontologica diversità del procedimento di accertamento di conformità (in cui il parere é privato della sua naturale funzione di consulenza preventiva) e di quello per il rilascio del titolo edilizio ordinario, non può ritenersi che le disposizioni sul parere obbligatorio della C.E. dettate per il secondo siano automaticamente estensibili al primo (in tal senso cfr. TAR Campania, VIII, 10.09.2010, n. 17398), ostandovi il principio generale di divieto di inutile aggravamento del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, L. n. 241/1990
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.03.2013 n. 524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'interesse ad agire è dato dal rapporto tra la situazione antigiuridica che viene denunciata e il provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante l'applicazione del diritto, e questo rapporto deve consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per acquisire all'interesse leso la protezione accordata dal diritto. Prima ancora, colui che intende proporre un ricorso deve essere titolare di una posizione differenziata, protetta dall'ordinamento e riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall'Amministrazione (cd. legittimazione al ricorso).
Si è ulteriormente precisato che nel processo amministrativo, la legittimazione ad impugnare un atto amministrativo deve essere di norma direttamente correlata ad una situazione giuridica sostanziale che sia lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse diretto, attuale e concreto del ricorrente all'annullamento dell'atto vantaggio pratico e concreto anche soltanto eventuale o morale che può derivare al ricorrente dall'accoglimento dell'impugnativa.

Come è noto l'interesse ad agire è dato dal rapporto tra la situazione antigiuridica che viene denunciata e il provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante l'applicazione del diritto, e questo rapporto deve consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per acquisire all'interesse leso la protezione accordata dal diritto. Prima ancora, colui che intende proporre un ricorso deve essere titolare di una posizione differenziata, protetta dall'ordinamento e riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall'Amministrazione (cd. legittimazione al ricorso).
Si è ulteriormente precisato che nel processo amministrativo, la legittimazione ad impugnare un atto amministrativo deve essere di norma direttamente correlata ad una situazione giuridica sostanziale che sia lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse diretto, attuale e concreto del ricorrente all'annullamento dell'atto vantaggio pratico e concreto anche soltanto eventuale o morale che può derivare al ricorrente dall'accoglimento dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2008, n. 2546 TAR Campania, Salerno, sez. II, 20.10.2011, n. 1695) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 25.03.2013 n. 467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Attraverso l’approvazione dei piani attuativi, il cui contenuto è stabilito dalla norma generale di cui all’art. 13 della legge n. 1150/1942, l’amministrazione competente mira a dare concreta attuazione alle previsioni contenute nei piani generali i quali, considerata la loro natura, necessitano di essere integrati da una disciplina di dettaglio.
Nei piani attuativi, dunque, viene prevista la tipologia concreta delle opere assentibili, la quantità realizzabile e la tipologia e quantità di opere di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie per conferire alla zona, sulla quale si intendono realizzare gli interventi, un assetto armonico, ordinato e sostenibile dal punto di vista urbanistico.
La giurisprudenza ha sempre ritenuto che le prescrizioni contenute nei piani attuativi siano particolarmente stringenti: è attraverso di essi infatti che l'amministrazione deve provvedere alla determinazione concreta degli impianti urbanistici da realizzare nella zona, dei vincoli concreti da apporre alla proprietà privata e dei limiti quantitativi e tipologici cui deve soggiacere l'attività edilizia.
E’ quindi con il piano attuativo che viene configurato l’assetto ottimale della zona interessata dall’intervento ed è, dunque, con esso che viene definito il livello quantitativo ottimale delle dotazioni di interesse generale da realizzare (fra le quali rientrano senz’altro i parcheggi).
Ne consegue che il soggetto che dà esecuzione al piano attuativo deve attenersi alle prescrizioni ivi contenute; e che ogni opera ivi non prevista (o prevista per un limite quantitativo inferiore) non può essere realizzata, se non previa modifica del piano stesso.
Ammettere il contrario comporterebbe invero lo stravolgimento dell’assetto ottimale concreto che, con il piano attuativo, l’amministrazione ha inteso configurare per la zona interessata.
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Il piano per gli insediamenti produttivi (PIP) ai sensi dell’art. 27, comma terzo, della legge 22.10.1971 n. 865 ha valore di piano particolareggiato d'esecuzione (e dunque di piano attuativo).

Come noto, attraverso l’approvazione dei piani attuativi, il cui contenuto è stabilito dalla norma generale di cui all’art. 13 della legge n. 1150/1942, l’amministrazione competente mira a dare concreta attuazione alle previsioni contenute nei piani generali i quali, considerata la loro natura, necessitano di essere integrati da una disciplina di dettaglio.
Nei piani attuativi, dunque, viene prevista la tipologia concreta delle opere assentibili, la quantità realizzabile e la tipologia e quantità di opere di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie per conferire alla zona, sulla quale si intendono realizzare gli interventi, un assetto armonico, ordinato e sostenibile dal punto di vista urbanistico.
La giurisprudenza ha sempre ritenuto che le prescrizioni contenute nei piani attuativi siano particolarmente stringenti: è attraverso di essi infatti che l'amministrazione deve provvedere alla determinazione concreta degli impianti urbanistici da realizzare nella zona, dei vincoli concreti da apporre alla proprietà privata e dei limiti quantitativi e tipologici cui deve soggiacere l'attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.01.2006 n. 238; id, sez. IV, 03.06.1980 n. 622).
E’ quindi con il piano attuativo che viene configurato l’assetto ottimale della zona interessata dall’intervento ed è, dunque, con esso che viene definito il livello quantitativo ottimale delle dotazioni di interesse generale da realizzare (fra le quali rientrano senz’altro i parcheggi).
Ne consegue che il soggetto che dà esecuzione al piano attuativo deve attenersi alle prescrizioni ivi contenute; e che ogni opera ivi non prevista (o prevista per un limite quantitativo inferiore) non può essere realizzata, se non previa modifica del piano stesso.
Ammettere il contrario comporterebbe invero lo stravolgimento dell’assetto ottimale concreto che, con il piano attuativo, l’amministrazione ha inteso configurare per la zona interessata.
Ciò premesso, va rilevato che, nella fattispecie in esame, è incontestato che la zona sulla quale la ricorrente vuole realizzare il parcheggio e l’autorimessa interrata è interessata da un piano per gli insediamenti produttivi (PIP), il quale, ai sensi dell’art. 27, comma terzo, della legge 22.10.1971 n. 865 ha valore di piano particolareggiato d'esecuzione (e dunque di piano attuativo); e che detto piano non prevede affatto la possibilità di realizzazione di tali interventi.
Ne discende che, per le ragioni sopra illustrate, l’Amministrazione intimata ha correttamente negato il rilascio del titolo necessario per procedere alla loro costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.02.2013 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122 e l’art. 66 della l.r. 11.03.2005 n. 12 contengono norme di particolare favore per la realizzazione di parcheggi, le quali autorizzano addirittura la loro costruzione (nel sottosuolo) anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Tali disposizioni hanno carattere straordinario, ed hanno la finalità di far fronte al problema dell’ingombro dei veicoli parcheggiati nelle pubbliche vie causato dalla conformazione dei nostri centri storici risalenti ad epoca antecedente l’avvento delle automobili. Queste disposizioni pertanto si applicano solo con riferimento ai fabbricati già esistenti, per i quali non si è tenuto conto, al momento del rilascio del titolo edilizio che ne ha autorizzato la realizzazione, della necessità di prevedere una adeguata dotazione di parcheggi onde ovviare alla problematica suindicata.
Per i nuovi fabbricati, invece, si applica la regola di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150/1942 (introdotto dall’art. 2, comma 2, della stessa legge n. 122/1989) che impone, già al momento del rilascio del titolo edilizio, di verificare se nel progetto sia prevista una adeguata dotazione di parcheggi.

A conclusioni contrarie non può portare l’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122, né l’art. 66 della l.r. 11.03.2005 n. 12 che, come noto, contengono norme di particolare favore per la realizzazione di parcheggi, le quali autorizzano addirittura la loro costruzione (nel sottosuolo) anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Per costante giurisprudenza, tali disposizioni hanno carattere straordinario, ed hanno la finalità di far fronte al problema dell’ingombro dei veicoli parcheggiati nelle pubbliche vie causato dalla conformazione dei nostri centri storici risalenti ad epoca antecedente l’avvento delle automobili (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 16.04.2012 n. 2185). Queste disposizioni pertanto si applicano solo con riferimento ai fabbricati già esistenti, per i quali non si è tenuto conto, al momento del rilascio del titolo edilizio che ne ha autorizzato la realizzazione, della necessità di prevedere una adeguata dotazione di parcheggi onde ovviare alla problematica suindicata.
Per i nuovi fabbricati, invece, si applica la regola di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150/1942 (introdotto dall’art. 2, comma 2, della stessa legge n. 122/1989) che, come visto, impone, già al momento del rilascio del titolo edilizio, di verificare se nel progetto sia prevista una adeguata dotazione di parcheggi.
Nel caso in esame è pacifico che la dotazione di parcheggi posti a pertinenza dei fabbricati che insistono sull’area ove dovrebbero realizzarsi i nuovi interventi soddisfa già il fabbisogno di cui all’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942; e ciò proprio in quanto tale condizione è stata verificata al momento del rilascio del titolo edilizio e, prima ancora, al momento dell’approvazione del piano per gli insediamenti produttivi. Ne consegue che le disposizioni recate dall’art. 9 della legge n. 122/1989 e dall’art. 66 della l.r. n. 12/2005 non sono applicabili alla fattispecie.
Va pertanto ribadita la correttezza delle valutazioni effettuate dall’Amministrazione intimata e, di conseguenza, va affermata l’infondatezza delle censure esaminate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.02.2013 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quando un atto si fonda su una pluralità di ragioni ciascuna delle quali sufficiente per giustificare il suo contenuto dispositivo, l’infondatezza delle censure rivolte contro una di esse rende inutile lo scrutinio delle altre censure, posto che il loro accoglimento non potrebbe comunque determinare l’annullamento dell’atto stesso.
Va invero osservato che, per costante orientamento giurisprudenziale, quando un atto si fonda su una pluralità di ragioni ciascuna delle quali sufficiente per giustificare il suo contenuto dispositivo, l’infondatezza delle censure rivolte contro una di esse rende inutile lo scrutinio delle altre censure, posto che il loro accoglimento non potrebbe comunque determinare l’annullamento dell’atto stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 15.11.2012 n. 5769; TAR Roma Lazio, sez. I, 05.12.2012 n. 10141) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.02.2013 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Anche in ambito procedimentale vero e proprio, i pareri obbligatori ma non vincolanti, rilasciati dagli organi consultivi, non sono autonomamente impugnabili, atteso che tali pareri non definiscono il procedimento e che quindi l’organo competente ad adottare il provvedimento finale può sempre disattenderli.
Proprio rifacendosi a questo principio, altra parte della giurisprudenza afferma che il parere obbligatorio della commissione edilizia sull'istanza dell’interessato (volta al rilascio di un titolo edilizio vero e proprio) non definisce il procedimento e, pertanto, non è atto autonomamente impugnabile.
A maggior ragione deve ritenersi non impugnabile un parere preventivo (reso quindi addirittura al di fuori del procedimento) richiesto proprio al fine di valutare se dare o meno corso ad esso.

Va invero rilevato che l’atto impugnato con i motivi aggiunti consiste in una nota con la quale il Responsabile del Servizio Edilizia Privata e Pianificazione del Comune di Sondrio ha riscontrato una richiesta di parere preventivo circa l’assentibilità di una recinzione, di una pavimentazione in ghiaia e di un impianto di illuminazione da realizzarsi presso un’area di proprietà della ricorrente.
L’atto impugnato dunque non consiste in un diniego di permesso di costruire ma, semplicemente, in un parere negativo espresso da un tecnico incardinato nell’Amministrazione.
Il Collegio non ignora che, secondo una parte della giurisprudenza, il parere preventivo negativo riguardante la possibilità di rilascio di un titolo edilizio costituisce atto autonomamente impugnabile (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 10.06.2011 n. 278; nel caso di specie si trattava di un parere preventivo espresso dalla commissione edilizia).
Questa giurisprudenza tuttavia si scontra con un principio generalmente riconosciuto nel diritto amministrativo secondo il quale, anche in ambito procedimentale vero e proprio, i pareri obbligatori ma non vincolanti, rilasciati dagli organi consultivi, non sono autonomamente impugnabili, atteso che tali pareri non definiscono il procedimento e che quindi l’organo competente ad adottare il provvedimento finale può sempre disattenderli.
Proprio rifacendosi a questo principio, altra parte della giurisprudenza afferma che il parere obbligatorio della commissione edilizia sull'istanza dell’interessato (volta al rilascio di un titolo edilizio vero e proprio) non definisce il procedimento e, pertanto, non è atto autonomamente impugnabile (cfr. TAR Roma Lazio sez. II, 16.03.2010 n. 4170; cfr. anche TAR Lombardia Brescia, sez. II, 20.04.2011 n. 588).
A maggior ragione deve ritenersi non impugnabile un parere preventivo (reso quindi addirittura al di fuori del procedimento) richiesto proprio al fine di valutare se dare o meno corso ad esso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.02.2013 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa legge n. 241/1990, nel fornire definizioni e principi in materia di accesso, ha qualificato il "diritto di accesso" come il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, mentre per "interessati" ha inteso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (cfr. art. 22, comma 1, lett. a e b).
Al contempo, la stessa legge n. 241/1990 conferisce al "diritto" di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di "principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza" (cfr. art. 22, comma 2, come sostituito dalla legge n. 69/2009).
Circa il diritto di accesso agli atti in materia edilizia, l’individuazione della "situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso" (art. 22 della legge n. 241/1990) è operata direttamente dalla legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già disponeva che "chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione".
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel fissare le competenze e responsabilità dello "sportello unico per l’edilizia", ha individuato quella di "fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)" (cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) "anche mediante predisposizione di un archivio informatico", al dichiarato fine di consentire a chiunque vi abbia interesse "l’accesso gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle domande presentate, allo stato del loro iter procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili".
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I pareri legali sono suscettibili di accesso, ove posti a base del provvedimento finale come parte integrante della sua motivazione.

Al riguardo, è opportuno rammentare, in via generale, come la legge n. 241/1990, nel fornire definizioni e principi in materia di accesso, abbia qualificato il "diritto di accesso" come il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, mentre per "interessati" ha inteso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (cfr. art. 22, comma 1, lett. a e b).
Al contempo, la stessa legge n. 241/1990 conferisce al "diritto" di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di "principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza" (cfr. art. 22, comma 2, come sostituito dalla legge n. 69/2009).
Circa il diritto di accesso agli atti in materia edilizia, l’individuazione della "situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso" (art. 22 della legge n. 241/1990) è operata, così come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr., Cons. di Stato, sez. IV, n. 2092/2010), direttamente dalla legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già disponeva che "chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione".
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel fissare le competenze e responsabilità dello "sportello unico per l’edilizia", ha individuato quella di "fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)" (cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) "anche mediante predisposizione di un archivio informatico", al dichiarato fine di consentire a chiunque vi abbia interesse "l’accesso gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle domande presentate, allo stato del loro iter procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili".
Ebbene, con specifico riguardo al caso in esame, non v’è dubbio che l’Immobiliare Polo vanti un interesse giuridicamente tutelato alla conoscenza dei documenti inerenti la vicenda urbanistico-edilizia meglio descritta nell’istanza di accesso, così come richiamata nella parte in fatto.
Si tratta, infatti, di soggetto che, non soltanto, è proprietario di area confinante con quella ceduta dal Comune resistente alla controinteressata (situazione nella quale rileva, pertanto, l’elemento della cd. vicinitas), ma che ha stipulato col Comune di Brugherio la convenzione urbanistica di attuazione del PII “San Cristoforo” (per l’ambito C1.4 del PRG), le cui prescrizioni si assumono essere violate proprio con i titoli edilizi o, comunque, con gli atti adottati dal Comune in favore della Brughiera Due F. srl.
L’area di proprietà di quest’ultima società, infatti, stando alla ricostruzione dell’istante, avrebbe dovuto essere destinata con Piano di zona comunale ad area per l’edilizia economico residenziale, nel rispetto, contestato, delle prescrizioni contenute nella Convenzione attuativa del cit. P.I.I. San Cristoforo.
In tale situazione appare evidente che l’Immobiliare Polo vanti una posizione giuridica all’accesso che, in quanto qualificata e differenziata e non meramente emulativa o preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione amministrativa, è idonea -ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241/1990- a legittimare il diritto di accesso alla documentazione amministrativa richiesta (cfr. Cons. Stato. Sez. V, 14.05.2010, n. 2966).
È, pertanto, illegittimo il diniego opposto dal Comune di Brugherio in ordine all’istanza di accesso concernente i titoli edilizi eventualmente rilasciati a favore della soc. controinteressata (e i relativi dati progettuali), trattandosi di atti detenuti dal Comune medesimo e concernenti un’attività di pubblico interesse alla cui conoscenza la ricorrente è specificamente interessata in virtù della riferita situazione di cd. vicinitas (cfr. al riguardo anche l’ampia definizione di <<documento amministrativo>> di cui all’art. 22, co. 1, lett. d), della legge n. 241/1990, che delimita l’oggetto dell’acceso facendo riferimento a <<ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale>>).
D’altra parte, la motivazione addotta dalla difesa resistente a giustificazione del diniego (o comunque del differimento) di accesso è priva di un valido supporto normativo, atteso che essa non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi che, ai sensi dell’art. 24 legge n. 241/1990, giustificano l’esclusione dal diritto di accesso.
Le limitazioni all'accesso possono essere disposte, infatti, unicamente nelle ipotesi previste dal comma 1 e dal comma 6 dell'art. 24, ovvero in quelle ulteriori eventualmente individuate, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 24, dai regolamenti di cui le Amministrazioni si siano dotate per disciplinare l'accesso alla documentazione in loro possesso.
Sennonché, la documentazione afferente la vicenda che coinvolge la società controinteressata e il Comune di Brugherio, di cui l'odierna ricorrente ha domandato l'ostensione, non rientra –così come evidenziato dalla ricorrente- in alcuna delle summenzionate ipotesi derogatorie e, pertanto, la relativa domanda di accesso non è suscettibile -sotto tale aspetto- di limitazioni.
Né potrebbe invocarsi, nella fattispecie in esame, la prevalenza del diritto alla riservatezza del soggetto cui i documenti si riferiscono rispetto all'interesse del richiedente, in quanto la documentazione oggetto della domanda non investe alcuno dei dati -sensibili o sensibilissimi- la cui tutela giustifica la facoltà di esclusione dell'accesso, sancita dal comma 7 del medesimo art. 24.
Trova, pertanto, nella specie, incondizionata applicazione il principio di cui all’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990 (per il quale "deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici"), senza che possa essere attribuito alcun rilievo al coinvolgimento in sede giurisdizionale dell’odierna resistente (a più riprese invocato dal Comune, sia nel diniego del 24.08.2012 che nell’odierna discussione camerale), giacché tale circostanza, sia pure sotto forma di tutela del diritto di mantenere riservata la conoscenza degli atti processuali dell’amministrazione, non vale a superare l'obbligo posto in capo alla P.A. di garantire la trasparenza dell'attività amministrativa, nella parte in cui viceversa sussistono tutti i presupposti oggettivi e soggettivi del diritto di accesso.
In altri termini, la tutela del diritto di difesa strettamente inerente al contenzioso in essere con le parti, non può essere utilizzata, come pretende il Comune, per opporsi in toto al diritto di accesso, ma eventualmente e motivatamente per escludere l’accesso a quei documenti (e solo a quelli) che non possono e non debbono essere divulgati perché non ineriscono al procedimento amministrativo ma al contenzioso in essere tra soggetti terzi rispetto al ricorrente che non risulta essere né parte né contro interessato né interveniente nello stesso giudizio.
D’altro canto, non soltanto è del tutto indimostrato che l’ostensione dei documenti richiesti dall’Immobiliare Polo possa pregiudicare il diritto di difesa del Comune, atteso che il diniego di accesso è formulato in termini generici e non con riferimento a determinati documenti riservati, ma, va comunque rimarcato come, secondo la giurisprudenza amministrativa maggioritaria, persino i pareri legali sono suscettibili di accesso, ove posti a base del provvedimento finale come parte integrante della sua motivazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 23.06.2011, n. 3812; id. 15.04.2004, n. 2163; TAR Lombardia, Milano, II, 18.11.2011 n. 2788; TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 16.03.2011, n. 658 e TAR Campania, Napoli, 16.05.2007, n. 5264).
L’area dei documenti preordinati alla difesa giudiziale sottratti all’accesso non può che essere, in tal senso, circoscritta ai soli pareri o relazioni legali che non abbiano assunto alcuna rilevanza esterna e il cui contenuto non sia stato in alcun modo trasfuso in un provvedimento.
Quanto alla più esatta individuazione dei documenti, va rammentato come ciò che rileva, ai fini dell'accoglimento dell'istanza di accesso, non sia il "nomen iuris" di un determinato atto o documento dell'Amministrazione, ma l'informazione in esso contenuta, indipendentemente dal modo in cui l'atto sia stato denominato.
Di conseguenza, al di là del termine con cui siano stati indicati gli atti cui si intende accedere, l'accesso deve essere consentito a tutti gli atti esistenti contenenti le informazioni indicate nell’istanza (cfr. Consiglio di Stato, VI, 26.01.2006, n. 229) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.01.2013 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel silenzio del legislatore, i termini di costituzione delle parti intimate devono ritenersi di natura ordinatoria, e non perentoria, con la conseguenza che la costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata, ancorché avvenuta oltre il termine di sessanta giorni di cui all'art. 46, c.p.a. è ammissibile. La costituzione tardiva dell'Amministrazione non incorre, pertanto, in alcuna decadenza, avendo la sola conseguenza che la stessa interviene allo stato in cui il procedimento si trova.
Ciò comporta che non può fare un utilizzo tardivo delle potestà processuali di produrre documenti e memorie, in quanto tali potestà soggiacciono ai termini perentori/decadenziali previsti direttamente dalla normativa che regola il processo amministrativo; per cui la parte tardivamente costituita il giorno prima dell’udienza può solo svolgere la sola difesa orale nel corso dell’udienza di discussione.

Secondo, infatti, un costante e consolidato orientamento degli organi di giustizia amministrativa, nel silenzio del legislatore, i termini di costituzione delle parti intimate devono ritenersi di natura ordinatoria, e non perentoria, con la conseguenza che la costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata, ancorché avvenuta oltre il termine di sessanta giorni di cui all'art. 46, c.p.a. è ammissibile (Cons. St., sez. V, 19.06.2012, n. 3562, e sez. III, 23.02.2012, n. 1070). La costituzione tardiva dell'Amministrazione non incorre, pertanto, in alcuna decadenza, avendo la sola conseguenza che la stessa interviene allo stato in cui il procedimento si trova.
Ciò comporta che non può fare un utilizzo tardivo delle potestà processuali di produrre documenti e memorie, in quanto tali potestà soggiacciono ai termini perentori/decadenziali previsti direttamente dalla normativa che regola il processo amministrativo; per cui la parte tardivamente costituita il giorno prima dell’udienza può solo svolgere la sola difesa orale nel corso dell’udienza di discussione (TAR Toscana, sez. III, 12.03.2012, n. 496, TAR Lombardia, sede Milano, sez. II, 07.07.2011, n.1829, TAR Campania, sede Napoli, sez. VI, 10.01.2011, n. 35, e TAR Lazio, sede Roma, sez. I, 07.04.2011, n. 3108, e sez. III, 03.08.2012, n. 7216).
Né sembra al Collegio che nella specie si rinvengono ragioni per autorizzare “eccezionalmente” tale deposito in base al disposto dell’art. 54 del codice.
Di conseguenza, nel mentre deve ritenersi ammissibile la costituzione in giudizio del Comune, in accoglimento della puntuale eccezione della parte ricorrente, deve essere rilevata la tardività, con conseguente inutilizzabilità ai fini del presente giudizio, della memoria depositata dalla difesa comunale il 05.12.2012
(TAR Sicilia, sez. Catania, 23.03.2012, n. 831) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.12.2012 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per effetto del D.Lgs. n. 4/2008 oggi debbono essere sottoposti a valutazione ambientale strategica (VAS) tutti gli atti di “pianificazione territoriale” e di “destinazione dei suoli” e tale valutazione deve essere effettuata -come disposto dall’art. 11, n. 3- prima dell’approvazione del piano, in quanto tale normativa ha individuato, quale unico limite temporale inderogabile per l’espletamento della valutazione ambientale, la data di “approvazione” del piano e non quella di “adozione”, tanto che l’art. 11, n. 5, ha dichiarato espressamente annullabili i provvedimenti di approvazione degli strumenti pianificatori ove non siano stati preceduti dal sub-procedimento in questione.
Con la prima doglianza la parte ricorrente ha dedotto che -in violazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 27.06.2001 n. 2001/42/CE, e degli artt. 4 e segg. del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 (in vigore a decorrere al 31.07.2007)- non era stata esperita, prima dell’approvazione del piano, la prescritta valutazione ambientale strategica (VAS), né, quanto meno, era stata effettuata la relativa verifica di assoggettabilità.
Tale doglianza è fondata.
Va al riguardo ricordato che la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 27.06.2001 n. 2001/42/CE, concernente la valutazione degli effetti i determinati piani e programmi sull’ambiente, ha imposto all’art. 3 agli Stati membri di individuare i piani ed i programmi che “possono avere effetti significativi sull’ambiente”; mentre la norma transitoria contenuta nell’art. 13 ha da un lato imposto agli Stati membri di conformarsi alla direttiva entro il 21.07.2004 e dall’altro ha precisato (al n. 3) che tale obbligo non si applica ai piani ed ai programmi il cui primo atto formale preparatorio sia precedente a tale data e “che sono stati approvati più di ventiquattro mesi dopo”.
Tale direttiva, ritenuta dalla giurisprudenza non self-executing (Cons. St., sez. IV, 14.04.2010, n. 2097, TAR Lombardia, sede Milano, sez. II, 17.02.2011, n. 481, e TAR Veneto, sez. I, 07.10.2011, n. 1503), è stata recepita con il D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, il quale ha previsto la sottoposizione a valutazione ambientale non solo dei “piani e dei programmi statali, regionali e sovracomunali” (art. 4, n. 1, lett. a, n. 3), ma anche dei “piani e programmi che possono avere effetti significativi sull’ambiente” (art. 4, n. 1, lett. a, n. 4); l’art. 7 ha previsto a tal fine al n. 5 che “l’autorità competente all’approvazione del piano deve preliminarmente verificare se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente”. La norma transitoria contenuta nell’art. 52 di tale decreto ha poi previsto che i procedimenti amministrativi in corso “alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché i procedimenti per i quali a tale data sia già stata formalmente presentata istanza introduttiva da parte dell'interessato, si concludono in conformità alle disposizioni ed alle attribuzioni di competenza in vigore all'epoca della presentazione di detta istanza”.
Tale decreto, a seguito di successive proroghe, è entrato in vigore il 31.07.2007 (Cons. St., sez. VI, 10.05.2011, n. 2755).
Successivamente, tale decreto legislativo ha subito sostanziali modifiche a seguito prima del D.Lgs. 16.01.2008, n. 4 (c.d. primo correttivo), e poi del D.Lgs. 29.06.2010, n. 120. L’intera parte seconda del D.Lgs. 152 del 2006 è stata, infatti, abrogata dall’art. 4, comma 2, del decreto legislativo 16.01.2008, n. 4, ed è stata sostituita dagli artt. 1, comma 2, e 4, comma 3, del medesimo decreto correttivo, che hanno introdotto, in materia di VAS, una disciplina (v. gli artt. da 4 a 18 e da 30 a 36, nonché gli allegati da I a V della parte seconda) largamente differente. Le disposizioni in materia di VAS contenute nel decreto originario hanno, pertanto, avuto vigenza dal 31.07.2007 al 13.02.2008, data di entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal c.d. primo correttivo.
Per effetto di tale D.Lgs. n. 4/2008 oggi debbono, pertanto, essere sottoposti a valutazione ambientale strategica tutti gli atti di “pianificazione territoriale” e di “destinazione dei suoli” e tale valutazione deve essere effettuata -come disposto dall’art. 11, n. 3, e come questa stessa Sezione ha già avuto modo di chiarire con sentenze 13.12.2011, nn. 693-700- prima dell’approvazione del piano, in quanto tale normativa ha individuato, quale unico limite temporale inderogabile per l’espletamento della valutazione ambientale la data di “approvazione” del piano, e non quella di “adozione”, tanto che l’art. 11, n. 5, ha dichiarato espressamente annullabili i provvedimenti di approvazione degli strumenti pianificatori, ove non siano stati preceduti dal sub procedimento in questione (cfr. nello stesso senso TAR Sicilia, sez. Catania, sez. I, 01.09.2011, n. 2143, e sede Palermo, sez. III, 31.10.2011, n. 1934, e TAR Friuli Venezia - Giulia, 10.08.2011, n. 365).
Con riferimento a tali considerazioni ritiene il Collegio che l’atto impugnato sia inficiato dal vizio denunciato in quanto -come sembra evidente dagli atti di causa- l’atto di approvazione del piano non è stato preceduto dal sub procedimento in questione.
Né appaiono al riguardo rilevanti le difese prospettate dal Comune che ha fatto riferimento alla circostanza che il piano era stato adottato prima della predetta modifica introdotta con il D.Lgs. 16.01.2008, n. 4, e che le norme transitorie contenute nell’art. 35, n. 2-ter (nuovo testo), prevedono espressamente che “le procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente all’entrata in vigore del presente decreto sono concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell'avvio del procedimento”.
Secondo la resistente, invero, l’art. 4, 1° co., n. 3), del D.Lgs. n. 152/2006, nella versione originaria, prevedeva “l’utilizzo della valutazione ambientale [strategica] nella stesura dei piani e dei programmi statali, regionali e sovra comunali” e che i PRG comunali fossero esclusi dalla VAS, la cui necessità sarebbe stata introdotta dal D.Lgs. n. 4/2008 (entrato in vigore il 13.02.2008), che, all’art. 6, ha esteso tale procedura a tutti i piani ed i programmi di pianificazione territoriale e di destinazione dei suoli, mentre il procedimento di adozione del PRG, concluso con la deliberazione n. 37 del 21.12.2007, soggiaceva alla normativa ante riforma e nessuna necessità era ravvisata in ordine alla VAS.
Deve, invero, osservarsi in merito innanzitutto che il D.Lgs. n. 152/2006 nel suo testo originario prevedeva, come si è già ricordato, la sottoposizione a valutazione ambientale anche dei “piani e programmi che possono avere effetti significativi sull’ambiente” (art. 4, n. 1, lett. a, n. 4) e tra tali piani non può non rientrare lo strumento urbanistico in questione che disciplina una zona di rilevante dimensione (l’intero territorio comunale), che comprende anche zone sottoposte a particolare tutela ambientale; tale previsione impositiva dell’obbligo di eseguire la procedura VAS era in vigore in epoca antecedente la deliberazione di adozione dello strumento urbanistico in questione. E basta al riguardo ricordare quanto questo Tribunale ha già avuto modo di evidenziare con le sopra ricordate sentente del 2011 relative ad una fattispecie per molti versi analoga relativa al P.R.G. del Comune di Vasto. Va, inoltre, considerato che la mancata adozione della procedura VAS non attiene ad un aspetto meramente formale, ma al contrario appare fondamentale per determinare le scelte di pianificazione del territorio.
Inoltre, va anche osservato per un verso che tale procedura di valutazione ambientale strategia deve precedere, come già detto, non la delibera di adozione, ma quella di approvazione del piano e per altro verso che la norma transitoria contenuta nel predetto art. 35, così come quella contenuta nel previgente art. 52, si riferisce alle ipotesi in cui fosse già stata avviata una procedura VAS, mentre nella specie tale procedura è stata omessa del tutto e non risulta sia mai stata espletata (TAR Sicilia, sez. Catania, 23.03.2012, n. 831)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.12.2012 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 20.05.2013

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OKKIO: la manutenzione degli impianti tecnologici, innanzitutto!!

     Siamo tutti indaffarati, pieni di rogne sul tavolo, sotto organico ed il lavoro che si accumula di giorno in giorno ... senza contare il tempo che si perde appresso agli amministratori che ogni giorno ne inventano una nuova anziché -prima di ogni cosa- spendere le proprie energie nel cercare di azzerare il pregresso di lavoro inevaso, creare/sistemare le banche dati necessarie per poter lavorare meglio e garantire anche un miglior servizio al cittadino e lavorare fiduciosi, così, con miglior qualità per il futuro ...
     Per non parlare, poi, del tempo che si perde appresso ai progetti di propaganda politica perché (guarda caso) la legislatura sta per finire e non si vuole perdere il consenso popolare, cercando di realizzare quanto più possibile con una precisa caratteristica: "abbagliare" l'elettore !! (così se ne ricorderà -favorevolmente- nella cabina elettorale ...).
     Invero, le priorità sono ben altre: per esempio, sistemare, ammodernare, mettere in sicurezza ciò che già c'è al fine di garantire la pubblica incolumità ... e spesso e volentieri queste cose non si vedono, non "abbagliano" l'elettore !! Tuttavia, se non si vuole rischiare in prima persona, sarà bene porre maggiormente l'attenzione su ciò che, quotidianamente, non attrae i nostri pensieri: stiamo alludendo agli impianti tecnologici.
     Ebbene, un tecnico comunale è stato condannato dal Tribunale penale, condanna confermata in Cassazione laddove il ricorso è stato dichiarato inammissibile, per aver temporeggiato oltre misura nel metter mano all'impianto elettrico risultato non a norma a seguito di sopralluogo da parte della ASL. Di seguito le sentenze ...

PATRIMONIOVa condanno il dirigente dell'ufficio tecnico per non aver tenuto gli impianti elettrici (nel caso di specie, del parco comunale, della biblioteca e dell'archivio del Comune) in condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81 l'obbligo della sicurezza grava sia sul datore di lavoro e sia sul dirigente.

All'udienza odierna avveniva la discussione. Al termine della stessa il PM chiedeva l'assoluzione dell'imputato per non aver commesso il fatto; la difesa si associava.
Ritiene questo decidente che in base agli elementi acquisiti nel corso del giudizio debba essere, invece, affermata la penale responsabilità di L.G. per tutte e tre le contravvenzioni allo stesso ascritte.
...
Riferisce in udienza in ordine ai fatti il tecnico Asl della prevenzione G.D.:
- che interveniva presso il Comune di Severe nel 2008 in due distinte occasioni per verificare la idoneità degli impianti elettrici sotto il profilo della sicurezza;
- che, esattamente il controllo riguardava il 20.05.2008 il Parco Comunale ed il 28.05.2008 la Biblioteca comunale (e l'archivio comunale);
- che per il Parco Comunale esattamente le carenze rilevate erano tre, così puntualizzate nel verbale di contestazione delle irregolarità: "Sono rotti i morsetti di connessione dei conduttori PE ai dispersori collocati lungo il perimetro del campo da tennis, gli interruttori del quadro generale non riportano chiare indicazioni dei circuiti ai quali si riferiscono ed il dispositivo differenziale del quadro prese, collocato all'aperto, è guasto e privo di pannello di protezione";
- che il verbale di violazione veniva elevato nei confronti del geom. L.G., quale responsabile del settore gestione del territorio del Comune di Sovere;
...
Al prevenuto L. viene, invero, rimproverato -nella contestazione che la Pubblica accusa ha elevato
elevato- di non aver tenuto gli impianti elettrici del parco comunale, della biblioteca e dell'archivio del Comune di Sovere in condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81 l'obbligo della sicurezza grava sia sul datore di lavoro e sia sul dirigente.

...
Non vi è necessità di avere una particolare competenza per rendersi conto che gli impianti elettrici sono in uno stato di abbandono mancando pure i normali interventi di manutenzione per la sostituzione, ad cs., delle luci che non funzionano (significativamente la Asl, come visto, respinge la richiesta di proroga del termine inerente gli adempimenti relativi al parco comunale perché ritiene che si sia di fronte a semplici interventi di ordinaria manutenzione).
Segue che la pratica stessa non può non avere una priorità nella gestione (dovendo altrimenti prendersi l'iniziativa doverosa della chiusura per motivi di sicurezza dell'archivio, della biblioteca e del parco comunale), con evidente stimolazione del progettista se lo stesso tarda a fare i sopralluoghi e poi a redigere il progetto.
Non c'è traccia di un impegno simile del prevenuto. Solo dopo i controlli della Asl lo stesso si attiva in qualche modo.
La colpevolezza appare quindi innegabile (TRIBUNALE di Bergamo, Sez. distaccata di Clusone, sentenza 27.02.2012 n. 46).

PATRIMONIO: Responsabile del settore gestione del territorio di un Comune e omissione di regolare manutenzione per gli impianti ed i dispositivi di sicurezza presso il parco comunale e la biblioteca.
Dichiara inammissibile il ricorso avverso la
sentenza 27.02.2012 n. 46 del TRIBUNALE di Bergamo, Sez. distaccata di Clusone e, di fatto, resta confermata la condanna in 1° grado (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.2013 n. 10932).

     Morale?? Si svolgano le necessarie priorità con la diligenza e correttezza del buon funzionario pubblico, anche a costo di inimicarsi l'assessore di turno ... diversamente, memorizzate il numero di cellulare dell'avvocato di fiducia, con la speranza di non doverlo chiamare nottetempo ...
20.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier ASCENSORE

IN EVIDENZA

Con lo scorso AGGIORNAMENTO AL 13.05.2013 ponevamo la questione se all'interno del cimitero comunale occorresse, o meno, il titolo edilizio abilitativo (ex DPR n. 380/2001) per la costruzione di una edicola funeraria privata.
In quel contesto davamo ampia pubblicità a numerose sentenze secondo cui non occorre che il cittadino si premuri di acquisire preliminarmente alcun titolo edilizio ma un semplice atto amministrativo autorizzatorio in conformità al vigente regolamento comunale di polizia mortuaria. Sentenze che costituiscono giurisprudenza assolutamente maggioritaria rispetto a quella (minoritaria) che vorrebbe imporre il rilascio del permesso di costruire (o DIA che sia ...) e, magari, far pure pagare gli oo.uu..
Di seguito, riportiamo un'altra pronuncia che va nel senso sopra esposto, e ringraziamo il nostro lettore che ce l'ha segnalata.
20.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

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EDILIZIA PRIVATAL’attività edilizia in aree cimiteriali (poiché le relative costruzioni non comportano un carico urbanistico di tipo ordinario) è regolata in via primaria, non dalla normazione urbanistica, ma dalle norme del Regolamento di Polizia Mortuaria (attualmente il D.P.R. 285/1990, che ha sostituito il D.P.R. 803/1975, a sua volta subentrato al R.D. 21.12.1942 n. 1880) nonché, in via secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali, ma dal Piano cimiteriale, che, ai sensi degli artt. 54 e segg. del citato decreto ogni Comune è tenuto ad adottare, cosicché il privato non deve munirsi di alcun autonomo titolo edilizio, essendo sufficiente all’uopo il provvedimento di approvazione previsto dall’art. 94 della citata normativa.
Parimenti, non può fondatamente sostenersi una intervenuta automatica decadenza della concessione cimiteriale in questione per mancato esercizio della facoltà di costruire, in applicazione dell’art. 15, co. II, del D.P.R. 380/2001.
Invero, l’attività edilizia in aree cimiteriali (poiché le relative costruzioni non comportano un carico urbanistico di tipo ordinario) è regolata in via primaria, non dalla normazione urbanistica, ma dalle norme del Regolamento di Polizia Mortuaria (attualmente il D.P.R. 285/1990, che ha sostituito il D.P.R. 803/1975, a sua volta subentrato al R.D. 21.12.1942 n. 1880) nonché, in via secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali, ma dal Piano cimiteriale, che, ai sensi degli artt. 54 e segg. del citato decreto ogni Comune è tenuto ad adottare, cosicché il privato non deve munirsi di alcun autonomo titolo edilizio, essendo sufficiente all’uopo il provvedimento di approvazione previsto dall’art. 94 della citata normativa (cfr. Cass. Pen. sez. III, 02.03.1983 – Patimo) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 22.06.2009 n. 3428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROGuida ANCE per la sicurezza nelle imprese edili: le responsabilità del datore di lavoro e la delega di funzioni, con 13 modelli di incarico.
Garantire adeguati livelli di sicurezza sul lavoro nell’ambito di un’impresa edile è un’operazione complessa che richiede un’apposita organizzazione che deve collaborare con il datore di lavoro.
Con la delega di funzioni il Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 81/2008) ha introdotto un importante istituto che permette di delineare i ruoli e le responsabilità all’interno di un’azienda.
La delega di funzioni è per definizione un atto organizzativo interno all’impresa, con il quale il datore di lavoro (delegante) trasferisce ad un altro soggetto (delegato) doveri originariamente gravanti su di lui, il cui omesso o negligente adempimento può dare luogo a responsabilità penali.
Il TUSL prevede che la delega di funzioni:
risulti da atto scritto recante data certa;
sia affidata a personale dotato di tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
sia accettata dal delegato per iscritto.
Con l’obiettivo di fornire agli imprenditori edili le indispensabili indicazioni sulla delega in materia di sicurezza sul lavoro, l’ANCE ha pubblicato l’opuscolo “La responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro.
La guida fornisce un quadro dettagliato sui ruoli e sulle responsabilità tracciate dal D.Lgs. 81/2008.
Questi gli argomenti trattati:
Le figure previste dal Testo Unico Sicurezza e le relative posizioni di garanzia (il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione)
La delega di funzioni (i requisiti di validità, la posizione del delegante, modelli di organizzazione e gestione, la posizione del delegato, la subdelega)
Applicazione della disciplina al settore dei lavori in edilizia: imprese esecutrici ed impresa affidataria (il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, dirigenti e preposti nei cantieri, l’impresa affidataria)
Nel documento sono inoltre presenti 13 esempi di lettere di incarico e di delega in materia di sicurezza, utilizzabili direttamente dai datori di lavoro (16.05.2013 - link a www.acca.it).

APPALTI: La nuova responsabilità fiscale solidale nei contratti di appalto (dossier ItaliaOggi Sette del 13.05.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

TRIBUTI: Nota di approfondimento sulle innovazioni normative in materia di IMU e Tares anche con riferimento agli orientamenti espressi dal Mef (Risoluzione n. 5/DF del 28.03.2013 e Circolare n. 1/DF del 29.04.2013) (IFEL, nota 10.05.2013).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità volontaria: non è così "neutra" come afferma la Corte dei Conti (CGIL-FP di Bergamo, nota 16.05.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Cosmai, Il diritto di accesso agli atti in materia ambientale (Ambiente & Sviluppo n. 5/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Responsabilità del proprietario del fondo e scarico abusivo di rifiuti (nota a Cass. pen. n. 9213/2013) (Ambiente & Sviluppo n. 5/2013).

APPALTI: G. F. Nicodemo, Sull’esclusione per ‘‘grave negligenza’’ quando è commessa a danno di altre p.a. (Urbanistica e appalti n. 5/2013).

URBANISTICA: V. Gastaldo, Opere integrative previste nella convenzione urbanistica e necessità di una procedura ad evidenza pubblica per la loro realizzazione (Urbanistica e appalti n. 5/2013).

URBANISTICA: S. R. Masera, La VAS del piano attuativo conforme allo strumento urbanistico generale (Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, UN’INTERPRETAZIONE FUORI DAL CORO DELL’ART. 9 DELLA LEGGE N. 122/1989 - (nota critica a TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, sentenza n. 4087 del 23.04.2013) (tratto da www.lexambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 20.05.2013, "Aggiornamento Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008, art. 57)" (decreto D.S. 13.05.2013 n. 3951).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2013, "Terzo aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 09.05.2013 n. 3885).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA: Circa il fatto che l'Agenzia del territorio (ora Agenzia delle Entrate) richiede al comune il riconoscimento di una somma di denaro a titolo di "rimborso dei costi sostenuti per lo svolgimento delle attività richieste", in forza del dettato di cui all'art. 64 del d.lgs. n. 300/1999 (comma 3-bis), per rendere la richiesta perizia ex art. 37, comma 4, dpr 380/2001.
Il comune non è d'accordo a riconoscere tale somma, chiede lumi alla Corte per non incappare in una spesa illegittima e la stessa risponde picche (... Con specifico riferimento ai quesiti posti, gli stessi devono ritenersi inammissibili, in quanto, oltre ad afferire a materia esulante dal concetto di contabilità, risultano altresì diretti alla risoluzione di un contrasto tra enti, con conseguente trasformazione dell’attività consultiva della Corte in una funzione latamente arbitrale).

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Il comune istante espone di non potere, ai sensi della normativa edilizia vigente, comminare le sanzioni pecuniarie urbanistiche senza aver preliminarmente acquisito agli atti la perizia redatta dall'Agenzia del Territorio (ora Agenzia dell'Entrate) circa la determinazione dell'eventuale incremento di valore dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere edilizie abusive oggetto di sanatoria.
Al riguardo, l'Agenzia delle Entrate, per rendere al comune la perizia richiesta, imporrebbe la sottoscrizione di un "accordo di collaborazione per attività di valutazione immobiliare" la cui sottoscrizione, però, comporta il riconoscimento alla stessa Agenzia di una somma di denaro a titolo di "rimborso dei costi sostenuti per lo svolgimento delle attività richieste", e ciò in forza del dettato di cui all'art. 64 del d.lgs 30.07.1999, n. 300 (nello specifico il comma 3-bis).
Il comune evidenzia altresì che -in forza delle casistiche di sanatoria che si possono presentare al vaglio dell'ufficio tecnico comunale ex art. 37, comma 4, di cui sopra- verosimilmente si avrebbe una percentuale maggioritaria di sanatorie per le quale non si verifica alcun incremento di valore dell'immobile conseguente alle opere abusive eseguite ed oggetto di sanatoria talché la sanzione amministrativa da comminare sarebbe quantificabile nel minimo di legge pari a € 516,00.
Tanto premesso, il comune richiede:
i. se sia pertinente la norma di legge invocata dall'Agenzia delle Entrate, per il caso di specie, circa la richiesta di somma di denaro a titolo di "rimborso dei costi sostenuti per lo svolgimento delle attività richieste";
ii. comunque, se sia legittimo -da parte del comune- il riconoscimento all'Agenzia delle Entrate della somma di denaro che sarà richiesta; in caso affermativo ai quesiti precedenti:
   iii. se la spesa da sostenere, nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, potrà/dovrà avvenire a consuntivo e solamente a seguito della produzione in atti delle necessarie pezze (sic) giustificative;
   iv. se sia legittimo recuperare la spesa sostenuta, nei confronti dell'Agenzia delle entrate, addebitando al richiedente la sanatoria edilizia unitamente alla sanzione pecuniaria di cui sopra.
...
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo di ammissibilità del quesito, occorre rammentare che la richiesta di parere è formulata ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, recante “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3”.
La disposizione contenuta nell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003 deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali.
Lo svolgimento delle funzioni è qualificato dallo stesso legislatore come una forma di controllo collaborativo.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma che, lungi dal conferire alle Sezioni regionali di controllo un generale ruolo di consulenza, la limitano alla sola contabilità pubblica. Preliminare all’ulteriore procedibilità del parere è quindi la ricomprensione del parere tra quelli attribuibili per materia alle Sezioni regionali di controllo.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, intervenute con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, hanno al riguardo precisato che detto concetto non si estende sino a ricomprendere la totalità dell’azione amministrativa che presenti riflessi di natura finanziaria, ma deve intendersi limitato al “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici”, sia pure “in una visione dinamica dell’accezione che sposta l’angolo visuale dal tradizionale contesto della gestione del bilancio a quello inerente ai relativi equilibri”.
Con specifico riferimento ai quesiti posti, gli stessi devono ritenersi inammissibili, in quanto, oltre ad afferire a materia esulante dal concetto di contabilità come sopra descritto, risultano altresì diretti alla risoluzione di un contrasto tra enti, con conseguente trasformazione dell’attività consultiva della Corte in una funzione latamente arbitrale (cfr nei termini la Sezione con deliberazione 18.03.2013, n. 95)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.05.2013 n. 201).

ENTI LOCALIPartecipate. La Corte dei conti lombarda «amplia» le opzioni degli enti locali.
Amministratore unico anche per i servizi pubblici. Riduzione Cda non più limitata alle società strumentali.
Gli enti locali devono procedere alla nomina dei componenti dei consigli di amministrazione delle società partecipate nel rispetto dei limiti numerici stabiliti dalla legge, ma possono optare per un amministratore unico sia per le società che svolgono attività strumentali che in quelle che gestiscono servizi pubblici.

La Corte dei conti, sezione regionale controllo Lombardia, con il parere 03.05.2013 n. 186 ha chiarito le problematiche applicative determinate dall'articolo 4, comma 5 del Dl 95/2012, evidenziando anzitutto come gli organi di amministrazione societari debbano rispettare i rigorosi limiti dimensionali previsti dalla legge.
Il quadro normativo si compone, peraltro, non solo del l'articolo 4, comma 5 del Dl spending review, ma anche dell'articolo 1, comma 729, della legge 296/2006: entrambe le disposizioni prevedono una composizione che può variare da un numero massimo di 3 membri a un numero massimo di 5 per le società a capitale interamente pubblico.
I parametri della rilevanza e della complessità delle attività svolte indicati dalla norma del 2012 devono essere rapportati al riferimento di valore stabilito dalla norma del 2006, che individua il discrimine nel valore di due milioni di euro del capitale sociale.
La scelta dei componenti dei consigli di amministrazione delle società partecipate deve comprendere anche la designazione di almeno due o tre dipendenti degli enti locali soci (a seconda che il cda sia composto nel massimo da tre o cinque componenti), i quali hanno l'obbligo di riversare i compensi alle proprie amministrazioni.
Gli altri amministratori (che possono essere soggetti esterni all'ente socio) dovranno essere scelti o designati nel rispetto degli indirizzi elaborati dal Consiglio comunale o provinciale.
La Corte dei conti lombarda evidenzia tuttavia come i soci pubblici possano optare per l'amministratore unico al posto del cda, sia nelle società che gestiscono servizi pubblici sia in quelle che gestiscono attività strumentali, in quanto tale soluzione rientra pienamente nella ratio di risparmio della spending review. In tal caso, tuttavia, risulta evidente come l'amministratore possa essere scelto, a discrezione dell'ente locale socio, tra propri dipendenti o soggetti esterni.
Nel nominare gli amministratori destinati a ricoprire il ruolo di componente del cda o di amministratore unico gli enti locali di dimensioni maggiori devono tener conto del nuovo limite posto dall'articolo 7, comma 2, del Dlgs 39/2013. La disposizione, infatti, impedisce che a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato controllati da enti locali della stessa Regione siano conferiti incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una Provincia, di un Comune o di un'unione di Comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti.
In altre parole chi è stato presidente di una società partecipata non può essere nominato nel cda della stessa società. Inoltre, per i dirigenti delle amministrazioni locali che svolgono attività di controllo sulle partecipate occorre tener conto dell'incompatibilità determinata dall'articolo 9, comma 1, dello stesso Dlgs 39/2013.
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Le scelte
01 |I COMPONENTI
La Corte dei conti della Lombardia, rispondendo a un quesito, ha ammesso che la strada dell'amministratore unico, indicata dal Dl spending review, è percorribile non solo per le società partecipate che svolgono attività strumentali, ma anche per quelle che gestiscono servizi pubblici locali, in un'ottica di risparmio
02 | LE INCOMPATIBILITÀ
Gli enti locali non possono nominare nel consiglio di amministrazione di una loro partecipata i soggetti che siano stati presidenti o amministratori delegati di società partecipate da Province, Comuni o unioni di Comuni con oltre 15mila abitanti (articolo Il Sole 24 Ore del 13.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI SERVIZI: Affidamento del servizio di assistenza e del servizio infermieristico a favore degli ospiti del Centro sociale residenziale per anziani. Esclusione di un concorrente.
Le indicazioni fornite dalla giurisprudenza e dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp) in merito alla portata del precetto contenuto nell'art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. 163/2006, non appaiono univoche e generano, pertanto, l'oggettiva incertezza di stabilire se risulti legittimamente apposta la clausola, prevista dalla lex specialis, del possesso 'da almeno un anno' della certificazione di qualità, che costituisce requisito essenziale per la partecipazione alla gara.
Il Comune, che ha già posto un quesito
[1] circa la rispondenza, alle previsioni del bando di gara per l'affidamento del 'servizio di assistenza e servizio infermieristico rivolto agli ospiti del Centro sociale residenziale per anziani', della certificazione di conformità del sistema di qualità aziendale, prodotto da una ditta in virtù di un contratto di avvalimento, richiede l'ulteriore assistenza di questo Ufficio, al fine di stabilire se le contestazioni mosse dalla ditta medesima, a seguito della sua esclusione dalla gara, possano ritenersi fondate.
Occorre, anzitutto, ricordare che lo scrivente Servizio fornisce attività di consulenza giuridico-amministrativa, a favore degli enti locali, su problematiche aventi rilevanza di carattere generale e non implicanti valutazioni di casi specifici, tanto più ove si tratti di questioni che potrebbero sfociare in un contenzioso in sede giurisdizionale.
Si rammenta, inoltre, la possibilità, per l'Ente, di interpellare l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp)
[2].
Tuttavia, a titolo meramente collaborativo, si esaminano gli elementi normativi e giurisprudenziali che la ditta esclusa pone a fondamento delle proprie rimostranze, con l'auspicio di poter coadiuvare il Comune nell'assunzione delle proprie determinazioni al riguardo.
L'Ente ha disposto la predetta esclusione in considerazione dei seguenti elementi:
1) il contratto di avvalimento prodotto è inidoneo, giacché si limita a prevedere la disponibilità generica e astratta della certificazione ISO posseduta dall'impresa ausiliaria;
2) il campo di applicazione indicato nel certificato di qualità prodotto dalla ditta (Progettazione ed erogazione di servizi socio-educativi in regime diurno e socio-assistenziali in regime domiciliare per anziani, minori e disabili. Progettazione ed erogazione di corsi di formazione professionale) risulta sostanzialmente diverso dal servizio oggetto di gara (Servizio di assistenza e servizio infermieristico rivolto agli ospiti del Centro sociale residenziale per anziani);
3) la validità della certificazione di qualità decorre dal 23.07.2012, mentre il bando di gara richiedeva il possesso del requisito 'da almeno un anno'.
Avverso il predetto provvedimento la ditta esclusa ha inviato la comunicazione preventiva ai sensi dell'art. 243-bis
[3] del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, diffidando l'Ente a voler provvedere alla sua riammissione in gara e preannunciando, in difetto, l'intenzione di proporre ricorso giurisdizionale.
La ditta contesta la sanzione adottata nei suoi confronti facendo, peraltro, riferimento ad uno solo dei motivi posti alla base del provvedimento comunale. Essa sostiene, infatti, che la previsione, quale requisito di partecipazione alla gara, del possesso 'da almeno un anno' della certificazione di qualità è lesiva del principio della libera concorrenza, pregiudicando la partecipazione alla procedura di tutte quelle aziende che -come essa stessa- risultano costituite da meno di un anno e non possono, pertanto, possedere l'anzianità del requisito nei termini richiesti dal bando.
La ditta ricorda, in particolare, il principio di tassatività delle cause di esclusione, desumibile dall'art. 46, comma 1-bis
[4], del D.Lgs. 163/2006, il quale prevede che «La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle.».
Dopo aver svolto alcune considerazioni al riguardo
[5], la ditta richiama, a sostegno della propria tesi, la sentenza del Consiglio di Stato - Sez. V, 31.01.2012, n. 467, nella quale è stato statuito che «solo qualora la documentazione prodotta da un concorrente ad una pubblica gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, di guisa che sussista un indizio del possesso del requisito richiesto, l'Amministrazione non può pronunciare l'esclusione dalla procedura, ma è tenuta a richiedere al partecipante di integrare e chiarire il contenuto di un documento già presente, costituendo siffatta attività acquisitiva un ordinario 'modus procedendi', ispirato all'esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma.». [6]
Occorre, anzitutto, rilevare che tanto l'affermazione della ditta, quanto il richiamo giurisprudenziale, non appaiono inerire al caso di specie, nel quale viene in rilievo la carenza, di natura sostanziale, della prevista anzianità nel possesso di un requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, ma alla diversa ipotesi di incompletezza meramente formale nella produzione della documentazione richiesta dal bando, rispetto alla quale deve essere tendenzialmente consentita la regolarizzazione, tranne ove -come chiarisce la predetta sentenza del Consiglio di Stato- si tratti di «integrare documenti che avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione in quanto attinenti a requisiti essenziali per la partecipazione».
Quanto alla portata della disposizione invocata dalla ditta, si rende necessario segnalare che la giurisprudenza non sembra esprimersi in maniera univoca al riguardo.
Infatti, essa afferma che:
- l'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 «introduce il c.d. 'principio di tassatività delle cause di esclusione', secondo cui solo le violazioni di norme di legge o di regolamento o quelle che determinano irregolarità sostanziali in relazione a quanto esplicitamente indicato nella stessa disposizione, comportano l'esclusione dal procedimento. Ciò determina, da un lato, la nullità di quelle previsioni dei bandi ad oggetto omnicomprensivo, che rendono obbligatoria la presentazione di tutta la documentazione richiesta e nelle forme indicate, riconnettendo automaticamente l'esclusione della concorrente al generico difetto di una qualsiasi parte della documentazione stessa; e dall'altro, l'obbligo per il giudice di accertare se l'omissione di cui una concorrente si lamenta (ai fini della domanda di esclusione dalla gara di altro concorrente) sia effettivamente ascrivibile alle condizioni del menzionato art. 46»
[7];
- «In difetto di esplicite sanzioni di esclusione contenute nella legge e/o nel bando, deve ritenersi che non possa farsi luogo ad esclusioni, come prevede ora l'art. 46 comma 1-bis, del codice dei contratti, modificato dall'art. 4, comma II, lett. d), D.L. 13.5.2011, n. 70»
[8];
- «anche prima della positivizzazione (ad opera del decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di tassatività delle clausole di esclusione nell'ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti comminatorie di esclusione, non possono essere applicate meccanicisticamente, ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua dell'interesse che la norma violata è destinata a presidiare per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la preferenza al favor partecipationis»
[9];
- a fronte dell'incompletezza, non colmabile ricorrendo al contenuto di altri atti, di autodichiarazioni da rendere ai fini della partecipazione alla gara, «in applicazione delle chiare ed inequivoche clausole del disciplinare», va disposta l'esclusione del concorrente, dovendosi ritenere che, anche nella vigenza dell'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006, «sia rimasta inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73
[10] e 74 [11] del Codice dei contratti (cfr. Sez. V, 12.06.2012, n. 3884)» [12];
- «con riferimento all'attività della c.d. stazione appaltante prodromica all'avvio della selezione, pur confermandosi in capo ad essa il potere discrezionale a predisporre le regole di gara, detto potere appare essere ormai legislativamente ridotto nella latitudine di sviluppo, in quanto condizionato al rispetto delle prescrizioni normative che impongono all'Amministrazione procedente di non ignorare, in tema di introduzione di clausole ostative alla partecipazione ovvero di modalità di partecipazione il cui inadempimento provoca l'espulsione del concorrente, la recente formula normativa di estrinsecazione del principio della esclusiva indicazione legislativa, con portata tassativa, delle cause di esclusione dalla selezione. [...] D'altronde la disciplina di gara ben può richiedere ai concorrenti requisiti di partecipazione e di qualificazione più rigorosi e restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla legge, purché tali ulteriori prescrizioni si rivelino rispettose dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza con riguardo alle specifiche esigenze imposte dall'oggetto dell'appalto e comunque non introducano indebite discriminazioni nell'accesso alla procedura (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 02.02.2010 n. 426, Sez. VI, 11.05.2007 n. 2304 nonché TAR Lazio, Sez. II, 09.12.2008 n. 11147)»
[13];
- «l'interpretazione delle clausole munite di sanzioni espulsive va condotta necessariamente alla luce dell'art. 46, c. 1-bis, del D.lgs. 12.04.2006 n. 163 (che assurge al rango di principio generale interpretativo), ossia per i casi previsti dalla legge, nonché in quelli '... di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte...'. Poiché nella specie, i plichi della controinteressata son stati verificati integri, completi, sicuramente provenienti e sottoscritti da questa e non manca l'atto richiesto, quello sì inderogabilmente, non è possibile interpretare la vicenda in esame fuori dal principio di tassatività delle cause d'esclusione indicati dalla norma»
[14].
Circa la posizione assunta, sulla questione, dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), si ritiene utile segnalare le indicazioni fornite con determinazione 10.10.2012, n. 4
[15]:
- la ratio delle disposizioni contenute nell'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 «è rinvenibile nell'intento di garantire un concreto rispetto dei principi di rilievo comunitario di massima partecipazione, concorrenza e proporzionalità nelle procedure di gara, evitando che le esclusioni possano essere disposte a motivo della violazione di prescrizioni meramente formali, la cui osservanza non risponde ad alcun apprezzabile interesse pubblico»;
- infatti, come si evince dalla relazione illustrativa del D.L. 70/2011, «la finalità è quella di effettuare una 'tipizzazione tassativa delle cause di esclusione dalle gare e di ridurre il potere discrezionale della stazione appaltante', limitando 'le numerose esclusioni che avvengono sulla base di elementi formali e non sostanziali, con l'obiettivo di assicurare il rispetto del principio della concorrenza e di ridurre il contenzioso in materia di affidamento dei contratti pubblici'»;
- «La norma elenca, quindi, i vincoli ed i criteri che le stazioni appaltanti, nonché la stessa Autorità, devono osservare nell'individuazione delle ipotesi legittime di esclusione, allorché redigono, rispettivamente, i documenti di gara ed i bandi-tipo»;
- «rispetto alle ipotesi tipizzate nel presente bando-tipo, le stazioni appaltanti possono prevedere ulteriori cause di esclusione, previa adeguata e specifica motivazione, solo con riferimento a disposizioni di leggi vigenti ovvero alle altre regole tassative previste dall'art. 46, comma 1-bis, del Codice».
Venendo, ora, all'unico motivo oggetto di contestazione da parte della ditta esclusa e rammentato che la giurisprudenza prevalente ritiene che la certificazione di qualità debba essere annoverata tra i requisiti speciali di carattere tecnico-organizzativo, si segnala che, con riferimento a tali requisiti, l'Avcp chiarisce che «essi costituiscono presupposti di natura sostanziale per la partecipazione alla gara, ai sensi dell'art. 2 del Codice».
Pertanto -prosegue l'Avcp- «la carenza dei requisiti speciali di partecipazione indicati nel bando di gara si traduce necessariamente nell'esclusione dalla gara».
Sul tema, la medesima Avcp ha, successivamente, affermato che «La stazione appaltante può introdurre nella lex specialis della gara d'appalto disposizioni che limitano la platea dei concorrenti, al fine di consentire la partecipazione di soggetti particolarmente qualificati, specialmente per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, se tale scelta non sia eccessivamente o irragionevolmente limitativa della concorrenza. Siffatta scelta può essere sindacata dal giudice amministrativo in sede di legittimità solo in quanto sia manifestamente irragionevole, irrazionale, arbitraria, sproporzionata, illogica o contraddittoria (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.02.2009 n. 525 e 23.07.2008 n. 3655)»
[16].
Dal quadro degli orientamenti sopra esposti emerge l'oggettiva incertezza nella soluzione della questione posta, rispetto alla quale potrebbe esprimersi solo il giudice competente.
In relazione a quanto finora osservato si rileva che, anche ove la clausola del possesso, da almeno un anno, della certificazione di qualità, richiesta quale requisito essenziale per la partecipazione alla gara, dovesse ritenersi come non apposta, restano comunque ferme le ulteriori ragioni sostanziali che -stante quanto illustrato, con dovizia di richiami giurisprudenziali, nel parere già reso da questo Ufficio- hanno indotto la stazione appaltante a disporre l'esclusione della ditta e che si concretano:
a) nella diversità ed incompletezza, rispetto alla natura dei servizi oggetto di gara, del campo di applicazione cui il certificato di qualità si riferisce
[17];
b) nell'inidoneità -per l'assenza del contenuto minimo, già individuato dalla giurisprudenza ed ora previsto dall'art. 88, comma 1
[18], del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207- del contratto di avvalimento prodotto dalla ditta esclusa, ai fini della dimostrazione della concreta ed effettiva disponibilità, nell'esecuzione dell'appalto, delle risorse, dei mezzi e delle attrezzature posseduti dalla ditta certificata.
A tale ultimo riguardo, si segnala un'ulteriore recente pronuncia del Consiglio di Stato
[19], nella quale risulta confermato che «l'avvalimento, così come configurato dalla legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente 'prestare' la certificazione posseduta (Cons. Stato, III, 18.04.2011, n. 2343) assumendo impegni assolutamente generici, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell'istituto, finalizzato non già ad arricchire la capacità tecnica ed economica del concorrente, bensì a consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti (C.d.S., sez. V, 03.12.2009, n. 7592), garantendo l'affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture appaltati».
Il supremo Giudice amministrativo ha, infatti, rilevato che la responsabilità solidale, che viene assunta con il contratto di avvalimento da parte dell'impresa ausiliaria nei confronti dell'amministrazione appaltante e che discende direttamente dalla legge, «si giustifica proprio per l'effettiva partecipazione dell'impresa ausiliaria all'esecuzione dell'appalto (Cons. Stato, VI, 13.05.2010, n. 2956, secondo cui l'impresa ausiliaria diventa titolare passivo di un'obbligazione accessoria dipendente rispetto a quella principale del concorrente, obbligazione che si perfeziona con l'aggiudicazione a favore del concorrente ausiliato, di cui segue le sorti)».
Pertanto, il Consiglio di Stato ha ritenuto inidoneo il contratto di avvalimento sottoposto al suo giudizio
[20], «mancando del tutto l'autentica messa a disposizione di risorse, mezzi o di altro elemento necessario».
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[1] Al quale è stato fornito riscontro con parere prot. n. 12088 del 16.04.2013.
[2] Per le modalità di acquisizione dei relativi pareri, v. le informazioni reperibili all'indirizzo Internet avcp.it/portal/public/classic/FAQ/FAQ_precontenzioso.
[3] «1. Nelle materie di cui all'articolo 244, comma 1, i soggetti che intendono proporre un ricorso giurisdizionale informano le stazioni appaltanti della presunta violazione e della intenzione di proporre un ricorso giurisdizionale.
2. L'informazione di cui al comma 1 è fatta mediante comunicazione scritta e sottoscritta dall'interessato, o da un suo rappresentante, che reca una sintetica e sommaria indicazione dei presunti vizi di illegittimità e dei motivi di ricorso che si intendono articolare in giudizio, salva in ogni caso la facoltà di proporre in giudizio motivi diversi o ulteriori. L'interessato può avvalersi dell'assistenza di un difensore. La comunicazione può essere presentata fino a quando l'interessato non abbia notificato un ricorso giurisdizionale. L'informazione è diretta al responsabile del procedimento. La comunicazione prevista dal presente comma può essere effettuata anche oralmente nel corso di una seduta pubblica della commissione di gara ed è inserita nel verbale della seduta e comunicata immediatamente al responsabile del procedimento a cura della commissione di gara.
3. L'informativa di cui al presente articolo non impedisce l'ulteriore corso del procedimento di gara, né il decorso del termine dilatorio per la stipulazione del contratto, fissato dall'articolo 11, comma 10, né il decorso del termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale.
4. La stazione appaltante, entro quindici giorni dalla comunicazione di cui al comma 1, comunica le proprie determinazioni in ordine ai motivi indicati dall'interessato, stabilendo se intervenire o meno in autotutela. L'inerzia equivale a diniego di autotutela.
5. L'omissione della comunicazione di cui al comma 1 e l'inerzia della stazione appaltante costituiscono comportamenti valutabili, ai fini della decisione sulle spese di giudizio, nonché ai sensi dell'articolo 1227 del codice civile.
6. Il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente all'atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti.».
[4] Come inserito dall'art. 4, comma 2, lett. d), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106.
[5] 'La normativa in materia di appalti pubblici esprime sempre più la prevalenza dell'interesse sostanziale rispetto ai canoni meccanicamente formalistici codificando un modo di procedere volto a far valere la sostanza sulla forma, al fine di limitare le numerose esclusioni che avvengono solo sulla base di elementi formali e non sostanziali, e di ridurre, anche in quest'ipotesi, il contenzioso in materia di affidamento dei contratti pubblici.'.
[6] V. anche TAR Lazio-Roma, Sez. II, 19.02.2013, n. 1828, il quale afferma, al riguardo, che «Come è noto nelle procedure di tipo concorsuale quali gare d'appalto, concorsi pubblici, selezioni pubbliche per la concessione di finanziamenti et similia, per giurisprudenza assolutamente pacifica, la regolarizzazione documentale può essere consentita quando i vizi siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore solo materiale, e sempre che riguardino dichiarazioni o documenti che non sono richiesti a pena di esclusione, non essendo, in quest'ultima ipotesi, consentita la sanatoria o l'integrazione postuma che si tradurrebbero in una violazione dei termini massimi di presentazione dell'offerta e, in definitiva, in una violazione della 'par condicio' (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 14.09.2010 n. 6687, Sez. IV, 19.06.2006 n. 3660 e 06.03.2006 n. 1068, Sez. VI 18.05.2001 n. 2781). Sanatorie documentali sono possibili, dunque, con la possibilità d'integrare successivamente la documentazione prodotta con la domanda di partecipazione alla gara o, comunque, con l'offerta, nel rispetto di un duplice limite: a) la regolarizzazione deve riferirsi a carenze puramente formali od imputabili ad errori solo materiali (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 31.08.2004 n. 5734); b) la regolarizzazione non può mai riguardare produzioni documentali che abbiano violato prescrizioni del bando (o della lettera di invito) sanzionate con una comminatoria di esclusione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 09.12.2002 n. 6675), sempreché queste ultime non si rivelino affette da nullità.».
[7] TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, 22.03.2012, n. 245. Ai fini della corretta comprensione della riportata affermazione, si ritiene utile segnalare che il Giudice calabrese precisa, di seguito, che «L'obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all'art. 38 lett. 'c' del Dlgs 163/2006 anche da parte di amministratori o tecnici appartenenti ad operatori economici terzi rispetto all'impresa concorrente, ma a questa legati da negozi di trasferimento dell'azienda o di un ramo di essa, deriva dalla previsione del bando, non dalla norma di legge o dal regolamento; pertanto la violazione della suddetta previsione non può determinare automaticamente l'esclusione dall'appalto della concorrente, dovendosi verificare se dall'ammissione sia derivato alla concorrente un effettivo vantaggio, mediante violazione della par condicio rilevante ai fini dell'art. 46 cit.».
[8] Consiglio di Stato - Sez. III, 04.10.2012, n. 5203.
[9] Consiglio di Stato - Sez. VI, 19.10.2012, n. 5389.
[10] La norma, che disciplina la forma e il contenuto delle domande di partecipazione, dispone, per quanto qui rileva, che «3. Le stazioni appaltanti richiedono gli elementi essenziali di cui al comma 2 nonché gli elementi e i documenti necessari o utili per operare la selezione degli operatori da invitare, nel rispetto del principio di proporzionalità in relazione all'oggetto del contratto e alle finalità della domanda di partecipazione.».
[11] La disposizione, che attiene alla forma e al contenuto delle offerte, prevede, ai fini di cui di discute, che «4. Le offerte sono corredate dei documenti prescritti dal bando o dall'invito ovvero dal capitolato d'oneri.» e che «5. Le stazioni appaltanti richiedono gli elementi essenziali di cui al comma 2, nonché gli altri elementi e documenti necessari o utili, nel rispetto del principio di proporzionalità in relazione all'oggetto del contratto e alle finalità dell'offerta.».
[12] Consiglio di Stato - Sez. V, 18.02.2013, n. 974.
[13] TAR Lazio - Roma, Sez. II, n. 1828/2013, cit., il quale precisa, inoltre, che:
- «alla luce dei principi di derivazione comunitaria ed immanenti nell'ordinamento nazionale, di ragionevolezza e di proporzionalità, nonché di apertura alla concorrenza degli appalti pubblici, il potere discrezionale della stazione appaltante di prescrivere adeguati requisiti ovvero speciali modalità per la partecipazione alle gare per l'affidamento di appalti pubblici è soggetto ai limiti connaturati alla funzione affidata alle clausole del bando volte a prescrivere i requisiti speciali o le peculiari modalità partecipative pretese in stretta relazione con le finalità proprie della selezione tra più aspiranti per la scelta di quello più idoneo e l'oggetto della commessa da affidarsi»;
- «in buona sostanza il potere discrezionale dell'amministrazione appaltante di determinare le regole della gara e, in specie, di introdurre requisiti di partecipazione alla gara, oggettivi e/o soggettivi ovvero modalità specifiche di partecipazione -ulteriori e maggiormente selettivi rispetto a quelli stabiliti dalle norme- incontra il limite del rispetto del principio di proporzionalità e di ragionevolezza»;
- «Fermo quanto sopra» si rammenta che, con la disposizione di cui all'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 «il legislatore ha inteso rimettere alla sola fonte normativa la competenza ad individuare cause di non ammissione a procedure di gara, residuando in capo alle stazioni appaltanti, un'attività di stretta interpretazione di siffatte ipotesi, o comunque di mera ricognizione delle medesime».
[14] Consiglio di Stato - Sez. III, 14.03.2013, n. 1533. La vicenda riguarda l'esclusione di un concorrente a causa dell'erroneo inserimento di un atto -richiesto, come rileva lo stesso Consiglio di Stato, «quello sì inderogabilmente»- nella busta contenente la documentazione amministrativa, anziché in quella contenente la documentazione tecnica. Il supremo Giudice amministrativo osserva, infatti, che l'accaduto non integra affatto un inadempimento della legge di gara, poiché l'atto è comunque pervenuto alla stazione appaltante. Inoltre, aggiunge il Consiglio di Stato, «non v'è inadempimento anche perché, come evincesi dalla serena lettura della precisazione vincolante, il documento de quo era obbligatorio in sé e non nella sua collocazione specifica, in un luogo, piuttosto che in un altro».
[15] Recante «Indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici».
[16] V. parere di precontenzioso 27.09.2012, n. 149.
[17] Si ricorda che il punto 6), lett. f), del bando di gara, richiedeva espressamente il possesso di tale certificazione «per il servizio oggetto di gara».
[18] «Per la qualificazione in gara, il contratto di cui all'articolo 49, comma 2, lettera f), del codice deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente:
a) oggetto: le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico;
b) durata;
c) ogni altro utile elemento ai fini dell'avvalimento.».
[19] V. Sez. V., 10.01.2013, n. 90.
[20] Contratto che si limitava a stabilire che l'ausiliaria si obbligava, nei confronti dell'impresa concorrente e della stazione appaltante, a fornire il requisito di cui l'impresa era carente, nonché a mettere a disposizione i mezzi e le attrezzature necessarie per tutta la durata dell'appalto, rinviando ad una separata scrittura privata la dettagliata regolamentazione degli impegni che l'ausiliaria avrebbe assunto nei confronti dell'impresa concorrente, qualora questa fosse risultata aggiudicataria dell'appalto
(16.05.2013 - link a www.regione.fvg.it).

TRIBUTI: Nullità Tarsu.
Domanda
Per la tassa sui rifiuti solidi urbani mi è stata notificata una cartella esattoriale non preceduta dalla notifica dell'avviso bonario o dell'avviso di accertamento da parte del comune. Chiedo se nel caso prospettato la cartella di pagamento possa essere inficiata di nullità.
Risposta
La Commissione tributaria provinciale di Bolzano, Sezione prima, con la sentenza del 07.06.2012, numero 66, ha sentenziato che la cartella di pagamento, in materia di tassa sui rifiuti solidi urbani, è nulla se non è stata preceduta dalla notifica dell'avviso bonario o dell'avviso di accertamento da parte dell'ente creditore. I giudici di Bolzano fondano il loro ragionamento su quanto deciso dalla Corte di cassazione civile, sezione quinta, con la sentenza numero 6104, del 16.03.2011,.
In materia, infatti, i Supremi giudici della Corte di cassazione hanno stabilito che «in tema di Tarsu, essendo a tale tributo in larga parte applicabile la disciplina prevista per la riscossione delle imposte sui redditi, in virtù dell'articolo 72, commi 4 e 5, del decreto legislativo 15.11.1993, numero 507, deve ritenersi che la mancata previa notifica della cartella esattoriale di pagamento, o, a maggior ragione, dell'avviso di accertamento, comporti la nullità dell'avviso di mora, deducibile in quanto vizio proprio dell'atto, anche nei confronti del concessionario che lo abbia emesso».
Anche se il richiamo alla sentenza della Corte di cassazione è un richiamo lato, la sentenza dei giudici di Bolzano, nel merito, è condivisibile (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2013).

TRIBUTI: Termine Imu.
Domanda
Gli enti non commerciali entro quale data devono presentare la dichiarazione Imu?
Risposta
Il ministero dell'economia e delle finanze, con la Risoluzione dell'11.01.2013, numero 1/DF, ha chiarito che per quanto riguarda gli adempimenti relativi agli obblighi dichiarativi Imu degli enti non commerciali, si deve fare riferimento all'articolo 91-bis del decreto legge 24.01.2012, numero 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, numero 27, integrato dal comma 6 dell'articolo 9 del decreto legge 10.10.2012, numero 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, numero 213, il quale prevede che, a partire dal 01.01.2013, l'esenzione di cui alla lettera i), comma 1, dell'articolo 7 del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, si applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile, quale risulta da apposita dichiarazione e che, con successivo decreto del ministro dell'economia e delle finanze sono stabilite le modalità e le procedure relative alla predetta dichiarazione, gli elementi rilevanti ai fini dell'individuazione del rapporto proporzionale nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del comma dell'articolo 7 del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, come svolte con modalità non commerciali.
Il decreto ministeriale 19.11.2012, numero 200, di attuazione del citato comma 3, dell'articolo 91-bis, all'articolo 6 stabilisce che gli enti non commerciali presentano la dichiarazione di cui all'articolo 9, comma 6, del decreto legislativo 14.03.2011, numero 23, indicando distintamente gli immobili per i quali è dovuta l'Imu, anche a seguito dell'applicazione del comma 2 dell'articolo 91-bis, del decreto legge numero 1 del 2012, nonché gli immobili per i quali l'esenzione Imu si applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale degli stessi. La dichiarazione non è presentata negli anni in cui non vi sono variazioni.
«
Pertanto», puntualizza la suddetta risoluzione, «gli enti interessati non devono presentare la dichiarazione Imu entro il 04.02.2012, ma devono attendere la successiva emanazione del decreto di approvazione dell'apposito modello di dichiarazione, in cui verrà indicato anche il termine di presentazione della stessa» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Obblighi di pubblicità e trasparenza delle pubbliche amministrazioni.
Ai sensi dell'articolo 26 del d.lgs. 33/2013, sono soggetti all'obbligo di pubblicazione tutti gli atti di concessione dei benefici economici ivi indicati che comportino l'erogazione al medesimo beneficiario, nel corso di un anno solare, di un importo complessivo superiore ai mille euro. Risulta, pertanto, opportuno pubblicare anche i singoli atti di importo inferiore a detta somma per evitare il rischio che più atti di erogazione di piccoli importi, nei confronti dello stesso soggetto, comportino il superamento della soglia di mille euro prevista dalla norma, con le conseguenti sanzioni disciplinate al comma 3.
 Il Comune chiede chiarimenti in merito alle previsioni di cui all'articolo 18 del DL 83/2012, convertito dalla legge 134/2012, relativamente ai limiti di importo oltre i quali risulta obbligatoria la pubblicazione degli atti di attribuzione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e comunque vantaggi economici di cui all'articolo 12 della legge 241/1990.
Si rappresenta che l'articolo 18 del DL 83/2012 risulta abrogato, a decorrere dal 20 aprile u.s., dall'articolo 53 del d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazione da parte delle pubbliche amministrazioni'. La disciplina da esso dettata relativamente agli obblighi di pubblicazione degli atti in argomento è ora contenuta nell'articolo 26 del citato d.lgs. 33/2013, il quale dispone che: '1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano gli atti con i quali sono determinati, ai sensi dell'articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241, i criteri e le modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi per la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e per l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati.
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano gli atti di concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati ai sensi del citato articolo 12 della legge n. 241 del 1990, di importo superiore a mille euro.
3. La pubblicazione ai sensi del presente articolo costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti che dispongano concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel corso dell'anno solare al medesimo beneficiario; la sua eventuale omissione o incompletezza è rilevata d'ufficio dagli organi dirigenziali, sotto la propria responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per l'indebita concessione o attribuzione del beneficio economico. La mancata, incompleta o ritardata pubblicazione rilevata d'ufficio dagli organi di controllo è altresì rilevabile dal destinatario della prevista concessione o attribuzione e da chiunque altro abbia interesse, anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo da parte dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 30 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
4. È esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati
.'.
Dal tenore letterale della norma si evince che sono soggetti all'obbligo di pubblicazione tutti gli atti di concessione dei benefici economici sopra indicati che comportino l'erogazione al medesimo beneficiario, nel corso di un anno solare, di un importo complessivo superiore ai mille euro.
Ciò rende necessario valutare l'opportunità di pubblicare anche i singoli atti di importo inferiore a detta somma per evitare il rischio che più atti di erogazione di piccoli importi, a vario titolo, nei confronti dello stesso soggetto, comportino il superamento della soglia di mille euro prevista dalla norma, con le conseguenti sanzioni disciplinate al comma 3
(10.05.2013 - link a www.regione.fvg.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Documento di regolarità contributiva di libero professionista.
Con riferimento all'attività svolta da un legale a favore di un ente locale, trova applicazione la disciplina relativa all'attestazione di regolarità contributiva solo qualora detta attività sia riconducibile ad un appalto di servizi e non anche nel caso in cui consista in un incarico di collaborazione affidato ai sensi dell'articolo 7, comma 6, d.lgs. 165/2001, avente natura di prestazione di opera intellettuale e come tale non inquadrabile nella materia degli appalti e non soggetta alla relativa normativa.
Il Comune chiede di conoscere se sussista la necessità di acquisizione del documento di regolarità contributiva di un libero professionista (avvocato) privo di dipendenti.
Sul tema si è espressa l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici che nella sezione FAQ, alla voce 'Documento unico di regolarità contributiva - DURC', in risposta al quesito n. 17: 'Il DURC va acquisito anche per i liberi professionisti?' così risponde: 'La risposta è affermativa; tuttavia, in caso di lavoratori autonomi liberi professionisti iscritti alle rispettive casse previdenziali volontarie, il DURC non può essere acquisito attraverso lo Sportello Unico Previdenziale, poiché si tratta di lavoratori autonomi non soggetti alla gestione previdenziale dell'INPS e dell'INAIL. Per ottenere l'attestazione di regolarità contributiva, è invece possibile richiedere il rilascio di una certificazione equipollente direttamente alle rispettive casse previdenziali di appartenenza dei professionisti. L'acquisizione di tale certificazione di regolarità contributiva è necessaria sia al momento della stipulazione del contratto, sia all'atto dei pagamenti dei relativi compensi previsti in favore del professionista.'.
Si osserva, tuttavia, che l'ambito di applicazione della normativa in materia di DURC
[1], come precisato dall'articolo 1 [2] del DM 24/10/2007 e dalla relativa circolare attuativa, riguarda le seguenti fattispecie:
- tutti gli appalti pubblici (lavori, servizi e forniture) nonché i servizi e attività pubbliche svolti in convenzione o in concessione;
- i lavori privati dell'edilizia soggetti a denuncia di inizio attività e a permesso di costruire;
- i finanziamenti e sovvenzioni per la realizzazione di investimenti previsti dalla disciplina comunitaria;
- i benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e di legislazione sociale;
- l'attestazione SOA, l'iscrizione all'Albo Fornitori e tutti gli altri casi specificatamente indicati dalla normativa nazionale o regionale per i quali è richiesto il DURC.
Nei casi sopra indicati, i datori di lavoro devono essere sempre in possesso del DURC.
I lavoratori autonomi devono essere in possesso del DURC nel solo caso degli appalti pubblici (opere, servizi e forniture) e dei lavori privati edili.
[3]
Sembrano pertanto non contemplati dalla disciplina del DURC gli incarichi di collaborazione affidati ai sensi dell'articolo 7, comma 6, d.lgs. 165/2001 e aventi natura di prestazione di opera intellettuale
[4], in quanto non inquadrabili nella materia degli appalti e non soggetti alla relativa normativa.
Pertanto, per la valutazione del caso di specie il Comune dovrà individuare la natura dell'attività svolta dal legale
[5] e, solo qualora essa sia riconducibile ad un appalto di servizi, dovrà applicare la disciplina relativa all'attestazione di regolarità contributiva.
---------------
[1] Il quadro normativo relativo al DURC è costituito dai seguenti atti:
   - Legge 22.11.2002, n. 266: 'Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, recante disposizioni urgenti in materia di emersione del lavoro sommerso e di rapporti di lavoro a tempo parziale';
   - Decreto Legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modifiche ed integrazioni: 'Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14.02.2003, n. 30';
   - Decreto Legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni: 'Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE';
   - Legge 27.12.2006, n. 296: "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)", art. 1, commi 1175 e 1176;
   - Dcreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445 e successive modifiche ed integrazioni: 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa';
   - Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 24.10.2007 recante 'Documento Unico di Regolarità contributiva';
   - Circolari Inail n. 38 del 25.07.2005 e n. 52 del 22.12.2005 recanti istruzioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva;
   - Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale 30.01.2008, n. 5: 'Decreto recante le modalità di rilascio ed i contenuti analitici del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) di cui all'art. 1, comma 1176, della legge n. 296/2006'.
[2] L'articolo 1, del DM 24/10/2007 recita: 'Il possesso del Documento Unico di Regolarita' Contributiva (DURC) e' richiesto ai datori di lavoro i fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale previsti dall'ordinamento nonché ai fini della fruizione dei benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria. Ai sensi della vigente normativa il DURC è inoltre richiesto ai datori di lavoro ed ai lavoratori autonomi nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia.'.
[3] Cfr. Circolare INAIL - DIREZIONE GENERALE - DIREZIONE CENTRALE RISCHI n. 7 dd. 05.02.2008.
[4] Si veda, a tal proposito, parere ANCI 15.02.2013, ove si segnala la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 11.05.2012, n. 2730.
[5] Sulla natura dell'incarico conferito al legale cfr. parere prot. 3911 dd. 29/02/2008, espresso dallo scrivente Ufficio, consultabile sul portale delle autonomie locali all'indirizzo: http://autonomielocali.regione.fvg.it
(07.05.2013 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Quesito in tema di compatibilità tra la posizione di responsabile per la prevenzione della corruzione e di responsabile dell’ufficio per i procedimenti disciplinari.
Domanda:
E’ stato chiesto alla Commissione se il Segretario comunale, quale responsabile per la prevenzione della corruzione e, al tempo stesso, responsabile dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, versi in situazioni di conflitto di interesse o di incompatibilità
Risposta:
La Commissione ha espresso l’avviso che, anche alla luce di quanto previsto dalla circolare n. 1/2013 del Dipartimento della Funzione pubblica, il responsabile della prevenzione della corruzione non può rivestire contemporaneamente il ruolo di responsabile dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, versandosi in tale ipotesi in una situazione di potenziale conflitto di interessi” (marzo 2013 - link a www.civit.it).

NEWS

TRIBUTICONSIGLIO DEI MINISTRI/ Varato il dl. Per le imprese deducibilità dall'Ires, ma non subito.
Imu sospesa in attesa di riforma. Senza nuove regole entro agosto, versamenti al 16/09.
Imu prima casa sospesa in attesa di riforma. Mentre le imprese incassano per il momento solo una promessa: quando metterà mano all'intera materia della fiscalità immobiliare (Tares compresa), il governo introdurrà forme di deducibilità dai redditi d'impresa (Ires) dell'Imu pagata sugli immobili strumentali.

È questo il compromesso raggiunto nel consiglio dei ministri di ieri che ha approvato il decreto legge di sospensione dell'imposta municipale sugli immobili in attesa di una complessiva riforma dell'imposizione immobiliare che avrà come deadline il 31 agosto.
Nel frattempo l'appuntamento del 17 giugno per l'acconto Imu slitterà per 15 milioni di proprietari di abitazione principale (e relative pertinenze) ad accezione solo degli immobili di lusso, iscritti nelle categorie catastali A/1 (abitazioni di tipo signorile), A/8 (ville) e A/9 (castelli e palazzi di pregio storico-artistico). Niente acconto a giugno anche per gli immobili delle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibiti ad abitazione principale (e relative pertinenze), nonché per gli alloggi assegnati dagli Istituti autonomi case popolari (Iacp) e per gli enti di edilizia residenziale pubblica. E anche per terreni agricoli e fabbricati rurali l'appuntamento con l'acconto è rimandato a settembre (si veda altro pezzo in pagina).
Il testo del provvedimento, che stanzia anche 990 milioni per il finanziamento della Cassa integrazione in deroga e proroga al 31 dicembre i contratti dei precari della pubblica amministrazione, non è stato tuttavia ancora licenziato in via definitiva dal governo (lo sarà lunedì) in attesa di completare l'allegato con le quantificazioni della quota Imu di competenza di ciascun comune.
Nel periodo di sospensione dell'acconto il governo dovrà riformare la fiscalità immobiliare locale nel rispetto degli obiettivi indicati nel Documento di economia e finanza 2013 (dove però l'Imu, senza distinzione tra prima e seconda casa, viene descritta come un'imposta permanente e strutturale, il che ne escluderebbe qualsiasi ipotesi di definitiva cancellazione) e in coerenza con gli impegni assunti in sede europea. Se la riforma non arriverà entro fine agosto, l'attuale disciplina dell'Imu prima casa rivivrà e i contribuenti saranno chiamati al versamento entro il 16 settembre.
La sospensione dell'imposta non produrrà problemi di liquidità nei comuni. Infatti, i buchi di bilancio che si apriranno nei conti per effetto del mancato incasso dell'acconto saranno compensati attraverso il meccanismo delle anticipazioni di tesoreria. Come anticipato su ItaliaOggi dell'08/05/2013, i comuni potranno chiedere sino al 30 settembre anticipazioni pari al 50% del gettito Imu prima casa 2012 di propria pertinenza calcolato ad aliquota base (là dove i sindaci hanno deciso di limitare il prelievo al 4 per mille) o ad aliquota maggiorata (nei municipi che l'anno scorso hanno deliberato una tassazione extra anche sulla prima casa). Gli importi che gli enti potranno chiedere terranno conto anche del gettito Imu proveniente dagli immobili di cooperative e Iacp.
Gli oneri per interessi sulle somme anticipate ai sindaci saranno a carico dello stato, nel senso che sarà il ministero dell'interno a rimborsarli ai comuni con modalità da definire entro 20 giorni dall'entrata in vigore del decreto. Si dovrebbe trattare in totale di 18,2 milioni per il 2013, che saranno attinti in questo modo: 12,5 milioni, mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, 5,1 milioni mediante riduzione di alcuni fondi speciali nello stato di previsione del Mef e infine 600 mila euro dal risparmio ottenuto dal divieto di cumulo tra gli stipendi da ministro, viceministro e sottosegretario con l'indennità parlamentare. Una misura, questa, annunciata da Enrico Letta nel discorso con cui ha chiesto la fiducia delle camere e trasposta nel decreto legge approvato ieri.
Secondo la Cgia di Mestre, la deducibilità dell'Imu dalle imposte dirette produrrebbe un vantaggio fiscale medio sui capannoni a uso industriale di oltre 3.300 euro. La simulazione è stata realizzata sul risparmio Imu che potrebbe godere una srl metalmeccanica avente un reddito di 90.000 euro e un capannone da 5.000 mq con una rendita catastale di oltre 9.500 euro.
Tuttavia secondo gli artigiani di Mestre «è indispensabile che questa opportunità sia concessa non solo ai proprietari degli immobili a uso produttivo, ma anche alle micro imprese (laboratori artigianali e negozi) che si trovano in perenne crisi di liquidità». «Vigileremo perché non si facciano differenza tra grandi e piccole imprese», ha assicurato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia. Soddisfazione per la sospensione dell'acconto è stata anche espressa da Confedilizia, il cui presidente, Corrado Sforza Fogliani, ha però puntato il dito contro la «superficialità» con cui si sono individuati gli immobili di lusso per i quali la sospensione non si applicherà. Mentre il presidente dell'Anci, Alessandro Cattaneo, ha rimarcato la situazione di incertezza in cui con la sospensione dell'Imu si troveranno i comuni nella predisposizione dei bilanci. «Incertezze alle quali pare difficile poter dare risposta» (articolo ItaliaOggi del 18.05.2013).

TRIBUTILa Tares a conguaglio va versata al comune. I gestori possono incassare soltanto gli acconti, dice l'Ifel.
L'ultima rata Tares, a conguaglio di quanto pagato dai contribuenti in acconto, deve essere versata ai comuni. I gestori del servizio rifiuti possono incassare solo i pagamenti in acconto.
È quanto affermato dall'Ifel (fondazione Anci) con la nota 10.05.2013, con la quale ha fornito dei chiarimenti ai comuni sulla corretta applicazione delle nuove disposizioni contenute nell'articolo 10 del dl 35/2013. Questa interpretazione si pone però in contrasto con quanto sostenuto dal ministero dell'economia con la circolare 1/2013.
Dunque, l'Ifel prende una posizione diversa dal ministero anche sulla riscossione della Tares, oltre che sull'Imu. Ha infatti precisato nella nota che i gestori del servizio possono incassare solo gli acconti. Il saldo va versato direttamente ai comuni. Mentre per il ministero possono incassare anche il saldo. Secondo la fondazione Anci la circolare ministeriale «propone una lettura estensiva» dell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.», poiché attribuisce «direttamente alle aziende di gestione del servizio rifiuti l'intero gettito annuale del tributo, previa delibera comunale in tal senso», nonostante la norma non deroghi espressamente
«alla diretta destinazione al comune delle somme incassate a titolo di Tares, come prescritto ordinariamente dallo stesso comma 35, terzo periodo».
La nota pone in rilievo che «una lettura più prudente delle norme straordinarie recate dal dl 35» porta a escludere che il gestore incassi l'ultima rata 2013, in quanto «dall'attivazione del pagamento via F24 il comune dovrebbe invece essere il diretto destinatario delle somme riscosse». Fermo restando che bisogna accelerare l'iter per i pagamenti delle somme dovute al gestore per l'attività svolta.
In effetti l'articolo 10, che deroga alla disciplina ordinaria del tributo, dispone che la nuova tassa sui rifiuti e la maggiorazione sui servizi si pagheranno con l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto. Le rate possono essere determinate in base a quanto già versato dai contribuenti nell'anno 2012 per Tarsu, Tia1 e Tia2. Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il gettito è riservato allo stato.
Gli enti locali, con propria deliberazione, possono stabilire il numero delle rate di versamento del tributo. Ma i cittadini devono essere informati, anche con la pubblicazione sul sito internet del comune, almeno 30 giorni prima della data di scadenza dei pagamenti. Per le prime due rate le amministrazioni locali possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
La prima rata fissata ex lege per il mese di luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), può essere anticipata anche nel caso in cui il comune non abbia adottato il regolamento, che deve essere emanato entro il prossimo 30 giugno. Concessionari e gestori del servizio possono continuare a riscuotere il tributo, con l'unico dubbio che possano incassarlo per tutto il 2013, anche a saldo, o solo in acconto. Si ritiene più aderente al dettato normativo la circolare ministeriale, che opta per la prima soluzione (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio Viminale/ Sulla casella mail del gruppo decide il consiglio comunale.
È possibile l'attivazione dell'indirizzo di posta elettronica del proprio gruppo consiliare al fine di agevolare la comunicazione con i cittadini?

In materia, si fa riferimento all'art. 9 del codice dell'amministrazione digitale di cui al dlgs n. 82 del 2005, come modificato dal dlgs n. 235 del 2010, recante «partecipazione democratica elettronica», con la quale il legislatore ha stabilito che le pubbliche amministrazioni devono favorire ogni forma di uso delle nuove tecnologie per promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini al processo democratico.
Le scelte in ordine alla declinazione concreta del principio della partecipazione democratica elettronica e della compatibilità delle stesse con le esigenze di ottimizzazione e contenimento dei costi rientrano nella autonomia decisionale del comune interessato.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio Viminale/ Dimissioni.
L'aver rassegnato le dimissioni da sindaco al fine di prendere parte alle elezioni ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. d) del dl 18.12.2012, n.223, e quindi aver accettato la candidatura in data antecedente a quella in cui le dimissioni rassegnate dallo stesso diventino irrevocabili, ne comporta la decadenza ai sensi dell' art. 62 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?

Le dichiarazioni di accettazione delle singole candidature, ai sensi dell'art. 20 del dpr 30.03.1957, n. 361, per l'elezione della camera dei deputati, e ai sensi dell'art. 9 del dlgs 20.12.1993, n. 533, per l'elezione del senato della repubblica, devono essere presentate, unitamente ai certificati di iscrizione elettorale dei candidati, a corredo della documentazione concernente la presentazione, da parte dei partiti e gruppi politici, delle liste dei candidati stessi; ciò che dovrà essere effettuato, con riferimento alle elezioni politiche indette, esclusivamente dalle ore 8 del 35° giorno alle ore 20 del 34° giorno antecedente a quello della votazione.
Solo nel giorno stesso di presentazione della lista dei candidati, può ritenersi che le dichiarazioni di accettazione delle candidature possano assumere giuridica rilevanza ed efficacia, in quanto, prima di quel momento, l'accettazione della candidatura rimane nella disponibilità della forza politica che l'ha raccolta e che, ovviamente, può desistere da formalizzare la propria partecipazione alla competizione o può anche ritenere di modificare i componenti della propria lista.
Pertanto, se non revocate, a decorrere dal giorno successivo alla data del perfezionamento delle dimissioni del sindaco dovrà essere avviata la procedura di scioglimento del consiglio comunale, ai sensi dell'art. 141 del dlgs 18.08.2000, n. 267 (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIncompatibilità a due vie. Stretta per le partecipate, sugli incarichi decide l'ente. Molti comuni sono in affanno nel definire l'esatto ambito applicativo del dlgs 39/2013.
L'incompatibilità degli incarichi ai dipendenti pubblici prevista dal dlgs 39/2013 riguarda esclusivamente lo svolgimento di attività professionali se finanziate dall'ente di appartenenza, o di funzioni con poteri negoziali negli organi di amministrazione delle società partecipate.
Non rientrano, dunque, nella disciplina del dlgs 39/2013 gli incarichi di diversa natura, conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del dlgs 165/2001.

Molte amministrazioni si stanno ponendo il problema della legittimità dello svolgimento di incarichi professionali, sotto forma di collaborazione, consulenza, studio o ricerca, da parte di propri dipendenti presso altre amministrazioni o, anche, a favore di società da esse partecipate, nonché presso soggetti privati anche non partecipati.
Il dubbio è se detti incarichi restino o meno coinvolti dal regime di incompatibilità recentemente introdotto.
A ben vedere, il dlgs 39/2013 ha un ambito di applicazione tendenzialmente ristretto, posto a scongiurare il pericolo di un conflitto di interessi, consistente sia nella posizione di controllore e controllato, sia nella eventualità che incarichi in enti e società partecipate possano essere una sorta di compenso per decisioni di favore (altrimenti non spettanti) garantite dal dipendente destinatario.
Il rimedio posto dal dlgs 39/2013 è drastico: l'impossibilità di continuare a condurre il rapporto di lavoro con l'amministrazione di appartenenza, mentre si svolge anche l'incarico incompatibile.
La fattispecie degli incarichi di prestazione di lavoro autonomo contemplata dal dlgs 165/2001 e, segnatamente, dall'articolo 7, commi 6 e seguenti, è totalmente differente. In questo caso, il dipendente pubblico viene chiamato non a svolgere funzioni connesse a poteri di governo e rappresentanza, ma a realizzare prestazioni di collaborazione. Non è, dunque, inserito nella governance dell'ente, ma è un prestatore di lavoro autonomo. Lo stesso vale nel caso in cui gli incarichi di collaborazione siano conferiti da società partecipate e, a maggior ragione, da soggetti privati tout court.
In questo caso, non entra in gioco il dlgs 39/2013, ma l'articolo 53 del dlgs 165/2001, che regolamenta le ipotesi nelle quali l'amministrazione pubblica di appartenenza può autorizzarlo o meno allo svolgimento delle prestazioni di lavoro autonomo. Non scattano, dunque, le incompatibilità di cui al dlgs 39/2013, connesse esclusivamente alle fattispecie tipiche ivi elencate e non suscettibili di interpretazioni estensive. Si applica, invece, la disciplina propria, quella del già citato articolo 53 del dlgs 165/2001, che non è mirata solo a scongiurare conflitti di interesse anche potenziali, ma è finalizzata ad assicurare che le energie lavorative del dipendente -che conduce con l'amministrazione un rapporto in esclusiva- non siano assorbite da altre prestazioni lavorative, così risultando pregiudicate.
Se l'amministrazione autorizza le prestazioni richieste dal dipendente, si esaurisce la fattispecie e non si aggiunge alla disciplina dell'articolo 53 del dlgs 165/2001 anche quella del dlgs 39/2013, perché si tratta di norme con finalità in parte simili, ma rivolte a casi del tutto autonomi e diversi tra loro (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTITarsu sui campeggi, strutture fisse come le civili abitazioni. Sentenza della ctp Lecce.
Tarsu campeggi: equiparata la superficie delle strutture fisse abitative a quella delle civili abitazioni.

Con la sentenza n. 177/02/13, la Ctp di Lecce ha stabilito che le strutture fisse abitative dei campeggi (per esempio bungalow, piazzole) devono essere tassate con l'aliquota unica delle civili abitazioni.
La vicenda ha a oggetto l'impugnazione da parte di una società, proprietaria di un campeggio, di una cartella di pagamento relativa a Tarsu anno 2008. In particolar modo, la ricorrente eccepiva la nullità della cartella per illegittimità della tariffa per contrasto con l'art. 68 del dlgs n. 507/1993 nonché la nullità della cartella per illegittimità del regolamento e della relativa delibera comunale, con conseguente disapplicazione degli stessi; in subordine, chiedeva che venisse disposta la riliquidazione della tassa dovuta in applicazione della tariffa prevista per le abitazioni private ai sensi dell'art. 68 citato.
I giudici di merito nell'accogliere parzialmente il ricorso della società ricorrente hanno ricordato come l'art. 68 del dlgs 507/1993 stabilisce che i comuni, per l'applicazione della tassa, sono tenuti ad adottare apposito regolamento che deve contenere, tra l'altro, la classificazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie di locali e aree con omogenea potenzialità di rifiuti da tassare con la medesima misura tariffaria. Con il comma 2 del suddetto articolo il legislatore suggerisce l'articolazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie da compiersi «ai fini della determinazione comparativa delle tariffe» tenendo conto, in via di massima, di alcuni gruppi di attività o di utilizzazione.
La lettera c) del citato comma 2 accorpa nel medesimo gruppo i locali e aree a uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri; tale elencazione, peraltro, deve considerarsi meramente esemplificativa. Alla luce di tanto, è dato leggersi in sentenza, «appare irragionevole ritenere che un nucleo familiare in vacanza produca maggiori rifiuti di quelli prodotti ordinariamente nella propria abitazione» e, pertanto, il comune deve provvedere alla riliquidazione della Tarsu.
Con tale pronuncia, in sostanza, è stato ribadito quanto già stabilito per gli alberghi che sono stati parimenti assimilati, dalla giurisprudenza di merito, a civili abitazioni (articolo ItaliaOggi del 15.05.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARaee, raccolta al passo europeo. Ritardi sulla direttiva degli apparecchi elettronici nuovi. La foto della filiera degli elettrorifiuti in Italia scattata dal centro di coordinamento.
Raccolta media pro capite di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. «Raee») in linea con gli obiettivi Ue e incremento dei centri di conferimento presenti sul territorio nazionale. Ma anche diminuzione della raccolta generale dovuta a flessione del mercato delle apparecchiature elettriche ed elettroniche nuove (c.d. Aee) e aumento dei Raee contenenti metalli preziosi gestiti nell'ombra.
Questa la fotografia della filiera degli elettrorifiuti nell'Italia del 2012 scattata dal Centro di coordinamento Raee (l'organismo costituito dal dlgs 151/2005 dai sistemi collettivi di gestione dei rifiuti elettrici) attraverso il nuovo «Rapporto annuale sul sistema di ritiro e trattamento dei Raee».
Ma da un'analisi del più ampio contesto normativo comunitario l'Italia risulta in ritardo sul recepimento delle ultime norme Ue sulla produzione di Aee, mentre altre nuove regole comunitarie si affacciano all'orizzonte.
I dati del Rapporto 2012. In base al citato Rapporto 2012 la raccolta media pro capite di Raee nel 2012 è stata di 4 kg per abitante, coincidente proprio con il minimo imposto dall'articolo 5, paragrafo 5 della direttiva madre Ue in materia (la 2002/96/Ce). Questo, sottolinea lo studio, nonostante il 2012 abbia visto un abbassamento della quantità totale di Raee raccolti rispetto al precedente 2011 (circa 8,5% in meno), fatto dovuto alla crisi economica che riducendo il volume di acquisto di nuove Aee (come gli elettrodomestici) da parte delle famiglie (facendo segnare un -12% dell'immesso sul mercato) ha pesato anche sulla rituale e parallela restituzione delle Aee obsolete detenute. Sempre in base al rapporto si è invece registrato un aumento annuo del 9% dei centri di conferimento presenti sul territorio cui recapitare i rifiuti (tra cui quelli comunali e quelli gestiti direttamente dai distributori di Aee).
L'allarme che viene lanciato dal Centro di coordinamento Raee è quello relativo a un crescente canale «informale» di smaltimento dei Raee contenenti metalli preziosi poco attento agli impatti ambientali e finalizzato (complice l'aumento dei prezzi delle relative materie prime) all'esclusivo recupero dei materiali pregiati contenuti negli stessi. Il tutto, sottolinea il rapporto, con l'aumento della quantità dei Raee che sfuggono alla gestione da parte dei sistemi collettivi ufficiali e, dunque, ai loro impegnativi target qualitativi (anche dal punto di vista del rispetto dell'ecosistema) di riciclo.
Le novità Raee in arrivo. Il rapporto 2012 ricorda le consistenti novità in tema di raccolta degli elettrorifiuti che arriveranno con il recepimento della nuova direttiva 2012/19/Ue (Guue del 24.07.2012 n. L197) destinata a sostituire (dal 15.02.2014) l'attuale e citata 2002/96/Ce. La nuova direttiva (da tradurre sul piano nazionale entro il 14.02.2014, plausibilmente tramite la riformulazione del dlgs 151/2005, decreto attuativo del provvedimento del 2002) prevede, infatti, sotto questo profilo un sostanzioso upgrade degli attuali parametri di raccolta, chiamando a nuovi obblighi sia distributori di Aee che gestori dei relativi rifiuti. I distributori dovranno assicurare il ritiro gratuito «one on zero» dei rifiuti da Aee di «piccolissime dimensioni» (ossia di dimensioni esterne inferiori a 25 centimetri) provenienti da nuclei domestici e conferiti dagli utenti finali, laddove l'attuale regola è quella del «one on one» (ossia obbligo di ritiro solo previo acquisto di Aee equivalente).
Il «one on zero» sarà obbligatorio per i negozi al dettaglio con superfici di vendita di Aee uguali o superiori ai 400 metri quadrati e potrà essere evitato solo ove sia dimostrato che i regimi di raccolta alternativa esistenti siano altrettanto efficaci. A livello di raccolta generale dei Raee, la nuova direttiva 2012/19/Ue prevede invece dei nuovi parametri da osservare, stabilendo a partire dal 2019 un tasso annuale minimo da conseguire pari al 65% del peso medio delle Aee immesse sul mercato nello stato membro nei tre anni precedenti (secondo quindi un nuovo sistema di calcolo), o in alternativa, pari all'85% del peso dei Raee prodotti nel territorio nazionale (secondo quindi l'attuale metodo di calcolo, ma con un incremento percentuale rispetto l'odierno «range» che varia tra il 70 e l'80%).
Le novità Aee «in ritardo». Se per l'adeguamento alle nuove regole Raee la deadline è ancora lontana, è invece scaduto lo scorso 02.01.2013 il termine entro il quale l'Italia avrebbe dovuto recepire la parallela direttiva 2011/65/Ce (sostitutiva della 2002/95/Ce, anch'essa recepita con il citato dlgs 1521/2005) sulle nuove restrizioni all'uso di sostanze pericolose nelle Aee. Il provvedimento comunitario in parola (pubblicato sulla Guue 01.07.2011, n. L174, previsto tra quelli oggetto di delega governativa già negli ultimi disegni di «legge comunitaria» del precedente parlamento, mai giunti ad approvazione) prevede un allargamento del divieto di commercializzazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche contenenti determinate sostanze pericolose, e ciò tramite un'estensione della stessa definizione di Aee (a qualsiasi apparecchiatura, pezzi di ricambio inclusi, che dipenda da correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare «almeno una» delle funzioni previste) e la possibilità di derogare agli stringenti limiti solo a condizione che l'impiego delle sostanze pericolose non contrasti con il livello di precauzione sancito dal regolamento Ce n. 1907/2006 (recante la disciplina «Reach» sul controllo delle sostanze chimiche).
Raee e metalli preziosi. Ad arginare il preoccupante fenomeno, evidenziato dal rapporto sopra esaminato, del recupero «informale» dei metalli preziosi contenuti nei Raee potrà verosimilmente concorrere la nuova disciplina in arrivo dall'Ue sull'«end of waste» del rame. Le regole in itinere, previste da uno schema di regolamento già messo a punto dal consiglio Ue lo scorso gennaio 2013, stabiliranno (con efficacia immediata e vincolante per tutti gli stati membri) le condizioni da rispettare per riabilitare allo status di veri e propri beni (determinandone quindi con certezza la «cessazione della qualifica di rifiuto») i materiali ottenuti all'esito di precisi processi di recupero di rifiuti che li contengono.
L'uscita dal regime dei rifiuti del rame recuperato (anche dai Raee) dovrà essere garantita dal produttore delle materie prime secondarie attraverso una propria «certificazione di conformità» a precise norme tecniche su: tipologia di rifiuti trattati (saranno esclusi i pericolosi); standard tecnici di settore osservati; compatibilità dei rottami ottenuti con usi consentiti (diretta produzione di sostanze od oggetti in impianti di fusione, raffinazione, fabbricazione di altri metalli); adozione di un sistema interno di gestione della qualità (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2013).

EDILIZIA PRIVATASportello unico edilizia, nessuna sanzione se il Comune non parte. Ampia flessibilità alla Pa, ma su molti punti restano nodi da sciogliere.
Per lo Sportello unico edilizia la legge affida ai Comuni molta flessibilità organizzativa, ma nessuna conseguenza deriva in realtà dalla mancata costituzione del Sue, e qualche dubbio resta sul nodo dell’acquisizione dei pareri di terzi.
LE NUOVE COMPETENZE
Lo Sportello unico edilizia, ancor prima delle recenti novelle operate dalle leggi 106/2001 e 134/2012, vedeva tra le sue attribuzioni non solo la competenza per il rilascio dei permessi di costruire e di tutte le certificazioni edilizio-urbanistiche, ma anche l’assunzione di tutti i provvedimenti a carattere urbanistico, paesaggistico-ambientale, edilizio e comunque rilevanti ai fini degli interventi di trasformazione edilizia del territorio.
Tale funzione generale risulta ora rafforzata con il riconoscimento legislativo di unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio oggetto dello stesso, al fine di fornire una risposta tempestiva in luogo delle altre Pa coinvolte nel procedimento (comprese quelle preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o della salute e pubblica incolumità), oltre a essere l’unico ufficio ad acquisire direttamente da tali amministrazioni tutti gli atti di assenso (cfr. commi 1-bis e 1-ter aggiunti all’art. 5 Testo Unico dalla legge 134/2012).
ORGANIZZAZIONE ELASTICA
Il modello organizzativo –a dir poco elastico– previsto dalla legge (accorpamento, disarticolazione, soppressione di uffici o organi già esistenti), se da un lato non pone limitazioni alle Amministrazioni, dall’altro non risolve evidenti questioni organizzative e procedurali laddove l’attivazione dello Sportello non avvenga in forma associata (si tratta comunque di una scelta, non di un obbligo) per tutti gli Enti locali appartenenti a uno specifico ambito di area vasta (in cui altro ente territoriale esercita competenze specifiche, si pensi ad es. alla Provincia o alla Comunità montana).
Uniche certezze sono date dall’obbligatorietà di costituzione dell’ufficio “unico” da parte dei Comuni con proprio atto organizzativo, non ravvisando nel testo di legge una costituzione automatica in caso di inerzia dell’amministrazione e dall’obbligo di interfacciarsi con il Sue (laddove costituito) sia per quanto attiene al privato, sia per gli atti di competenza delle diverse amministrazioni coinvolte.
Pertanto istanze private pervenute a una singola amministrazione interessata in un ambito territoriale in cui risulta istituito lo Sportello, andranno inoltrate d’ufficio dall’ente ricevente allo Sportello per l’avvio dell’istruttoria; diversamente, nei casi di mancata costituzione del Sue, l’istanza andrà inoltrata al competente ufficio comunale, salvo non contenga la richiesta di rilascio di un atto di competenza esclusiva dell’ente ricevente (ovviamente diverso dal Comune: si pensi ad es. alle autorizzazioni ambientali ecc.).
ENTI DI TUTELA, LA SENTENZA
La recente giurisprudenza ha precisato che il Dpr 380/2001, nell’assegnare al Sue l’acquisizione di tutti gli «atti di assenso, comunque denominati», si riferisce certamente a tutti i pareri e nulla osta endoprocedimentali intesi al rilascio del permesso di costruire, ma non può estendersi anche a un’autorizzazione diversa ed esterna rispetto a tale procedimento, quale è l’autorizzazione paesaggistica eventualmente richiesta per l’esecuzione dell’intervento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30/07/2012, n. 4312).
La questione si complica ulteriormente nei casi in cui sia manifestato il dissenso da parte dell’amministrazione preposta alla tutela, dato che lo stesso Dlgs 42/2004 disciplina la conferenza dei servizi esclusivamente per i procedimenti relativi a opere o lavori incidenti su beni culturali (cfr. art. 25), ma nulla dispone con riguardo alla conferenza dei servizi indetta per gli interventi su aree e immobili di interesse paesaggistico (anche se devono comunque ritenersi applicabili le disposizioni generali dell’art. 14-quater della 241/1990).
ALTRO NODO: LA VIGILANZA
Ulteriori questioni insorgono anche in materia di vigilanza, dato che l’individuazione delle competenze del Sue operata dalla legge (ancorché non tassativa) nulla prevede, e lo stesso Titolo IV Dpr 380/2001 assegna tale funzione al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale, ma sempre secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente, che può quindi decidere di attribuire anche questa attività al Sue.
Se invece il regolamento locale del Sue nulla prevede sulla vigilanza, la competenza resta dell’ufficio tecnico.
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I PRINCIPALI PROBLEMI OPERATIVI - Dai nuovi compiti ai poteri istruttori e di vigilanza
I nuovi compiti - Lo Sportello è l’unico punto di accesso per il privato interessato, in tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio oggetto dello stesso, con la conseguenza che:
a) deve acquisire d’ufficio presso le Pa competenti (anche con conferenza di servizi) gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, storico-artistica o della salute e pubblica incolumità;
b) deve trasmettere all’interessato tutte le comunicazioni relative al procedimento, sia per gli atti di propria competenza che per atti emessi dalle altre amministrazioni e inviati allo Sportello.
Mancata costituzione - La costituzione dello Sportello unico è obbligatoria per i Comune, ma l’omessa costituzione non comporta sanzioni a carico dell’ente obbligato né l’esercizio di poteri sostitutivi in capo alla Regione o allo Stato.
Tuttavia, anche senza Sue: a) resta l’obbligo in capo al soggetto interveniente di richiedere preventivamente i titoli abilitativi all’ufficio tecnico del Comune (dato che la mancata istituzione non ha alcuna incidenza sul regime autorizzatorio e non esonera dal conseguimento dei necessari titoli abilitativi);
b) resta l’obbligo di ottenere tutte le autorizzazioni o pareri previsti dalla legge incidenti sulla specifica opera e di eseguire tutti gli adempimenti in materia di sicurezza;
c) resta legittimato il potere di repressione degli abusi edilizi da parte dell’organo competente.
Esercizio del diritto di accesso - L’accesso gratuito alle informazioni sugli adempimenti necessari per lo svolgimento delle procedure, all’elenco delle domande presentate, allo stato dell’iter procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili, non può prescindere dalle regole generali dettate dal Capo V della legge 241/1990: il richiedente deve sempre dimostrare un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto.
Conferenza di servizi e diniego di enti di tutela - Lo Sportello, qualora debba procedere mediante conferenza di servizi ai sensi dell’art. 14 e ss. l. 241/1990, deve sempre valutare se il parere negativo espresso da una delle amministrazioni di tutela coinvolte sia fondato su profili di legittimità (rispetto delle leggi o degli atti amministrativi presupposti) o sia invece espressione di una valutazione di merito di tipo discrezionale: solo nella prima fattispecie non potrà essere superato il diniego, diversamente la valutazione è rimessa alle amministrazioni coinvolte le quali potranno, sulla base dell’interesse prevalente, pronunciarsi favorevolmente.
Poteri istruttori e di vigilanza - L’esercizio dei poteri istruttori deve sempre svolgersi in ossequio del principio di leale collaborazione tra privato e pubblica amministrazione e finalizzato ad accertare la corrispondenza del progetto presentato alle norme vigenti.
Laddove il regolamento organizzativo dello Sportello nulla preveda in materia di vigilanza, tale funzione e gli eventuali provvedimenti sanzionatori restano di competenza del responsabile dell’ufficio comunale preposto.
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I quesiti
AVVIO AUTOMATICO O SERVE UNA DELIBERA?
Il Comune per rispondere all’art. 5, comma 1, del Dpr 380/2001 deve formalizzare l’istituzione del Sue con un atto interno all’Ente (delibera di Giunta, determina del Responsabile servizio ecc.) oppure trattandosi di un obbligo normativo il Sue è già automaticamente attivato?
COSA SUCCEDE SENZA SUE COSTITUITO
Nel caso serva un atto di costituzione, e il Comune non lo faccia, l’ente preposto al rilascio di autorizzazioni (nel nostro caso, una Comunità montana: autorizzazioni su vincoli forestali, idrogeologico e paesaggistico) cosa deve fare se l’interessato gli chiede direttamente il parere? Rinvia l’atto al Comune come se il Sue esistesse, o procede all’emanazione del parere?
IL PARERE CHIESTO ALLA PA TERZA
Se il soggetto interessato, nonostante il Sue sia stato costituito, invia la richiesta di parere direttamente alla Pa terza competente, questa può emanarlo direttamente, o deve necessariamente girare la richiesta al Sue?
COMUNITÀ MONTANE, QUALI POTERI RESTANO?
In base alla nostra legge regionale, le Comunità montana esercitano in alcuni casi un potere diretto di emanazione di titoli abilitativi edilizi. L’art. 44, c. 4, della Lr 31/2008 cita: «Le Province, le Comunità montane e gli enti gestori di parchi e riserve regionali, per il territorio di rispettiva competenza, rilasciano ... le autorizzazioni alla trasformazione d’uso del suolo». L’art. 80, c. 3-bis, della Lr 12/2005 cita: «Nei territori compresi ... le funzioni amministrative di cui al comma 1 inerenti interventi di trasformazione del bosco, di cui ... (Orientamento e modernizzazione del settore forestale, ...) sono esercitate dalle Comunità montane».
Anche in questi casi tutto passa al Sue, e il nostro si trasforma in un parere, o restano queste nostre competenze? (articolo Edilizia e Territorio n. 19/2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: 1. La p.a. creditrice di oneri concessori ha il dovere, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede operanti nei rapporti paritetici, di preventiva escussione della polizza fideiussoria posta a garanzia del credito dal soggetto titolare della concessione edilizia.
1.1. Nell’ipotesi in cui il soggetto titolare di una concessione edilizia che ha rilasciato al Comune richiedente una polizza assicurativa, a garanzia degli oneri concessori collegati al rilascio del titolo, effettui in ritardo il versamento di detti oneri, sussiste in capo all’Amministrazione creditrice il dovere (e non la mera facoltà) di preventiva escussione dell'istituto garante, anche ove si tratti di polizza “a prima richiesta” e priva del beneficio di preventiva escussione.
1.2. Il principio di salvaguardia dell’effetto utile impone un’applicazione e un’interpretazione di tale fideiussione, quale atto di regolamentazione in rapporto di strumentalità alla riscossione del credito, che sia funzionale al raggiungimento della sua finalità e dell’obiettivo di garanzia da essa prefissato. Infatti, a mente del combinato disposto degli artt. 1362 e 1367 del codice civile, tra le possibili interpretazioni del contratto, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una soluzione che lo renda improduttivo di effetti.
1.3. Alla luce dei più recenti approdi giurisprudenziali, i principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e di buona fede (art. 1375 c.c.) incombono anche sulla Pubblica Amministrazione la quale, ove (come nel caso in esame) si verta in ambito del tutto paritetico e non provvedimentale, non può al riguardo vantare alcuno statuto speciale, perché non si deve avere riguardo alla legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, bensì alla correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’amministrazione.
1.4. I sopra richiamati principi generali funzionano in chiave di reciprocità nell’ambito dei rapporti comportamentali e costituiscono rivelazione dei precetti costituzionali di solidarietà sociale (art. 2) e di buon andamento (art. 97) nei termini declinati dalla legge 07.08.1990, n. 241, che si estrinseca nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto paritetico o autoritativo, il dovere di agire in leale collaborazione tale da preservare il giusto interesse dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
1.5. La correttezza, quale regola di condotta, si concreta dunque nella c.d. buona fede oggettiva, rispettosa degli altrui interessi che non può assumere i connotati della libera discrezionalità con abuso del diritto e non affranca perciò l’Amministrazione per comportamenti superficiali o negligenti, perché diversamente verrebbe ad essere inutile nel sinallagma l’onere imposto della fideiussione e la funzione propria della garanzia, come accade nel caso in cui non venga attivata prontamente l’escussione e recuperato tempestivamente il credito della p.a., facendo lievitare invece sanzioni e interessi con consistente aggravio alla posizione della debitrice.

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2. Dal ritardo nel pagamento degli oneri concessori non deriva automaticamente l’applicazione della sanzione prevista dall'art. 42 del D.P.R. n. 380/2001.
2.1. Nella giurisprudenza amministrativa, con riferimento all’applicabilità della sanzione di cui all’art. 42 D.P.R. n. 380/2001, si sono formati due opposti orientamenti. Secondo un primo orientamento, che fa leva su una una interpretazione di senso della disposizione, “in forza degli artt. 1175, 1375 e 1227 c.c. comma 2, le sanzioni previste per il ritardo nel versamento del contributo edilizio, non sono dovute in tutti quei casi in cui il creditore, restando inerte e non richiedendo quanto dovutogli al garante, avrebbe potuto evitare con una condotta attiva la causazione dell’evento dannoso attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza”; secondo un diverso orientamento, invece, si deve ricorrere ad una applicazione letterale della norma in termini di “automatico obbligo sanzionatorio governato dalla disciplina pubblicistica di riferimento, con esclusione della configurabilità di ogni onere di previa escussione ai fini dell’adempimento puntuale non tempestivo”.
2.2. Nell’attuale panorama giurisprudenziale, appare opportuno seguire, in quanto aderente alle attuali sensibilità in tema di cooperazione nel rapporto amministrazione-amministrati, il condivisibile convincimento secondo il quale “Nell'ipotesi in cui il soggetto titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi concessori, polizza fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione dell'obbligato principale, in virtù di quanto disposto dall'art. 1227, comma 2 c.c., che pone a carico del creditore i danni che questi avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza, non può farsi luogo all'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 3 della l. 28.02.1985 n. 47 che puniscono l'omesso o ritardato versamento dei contributi concessori, ove l'amministrazione creditrice, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel richiedere all'istituto garante il pagamento delle somme dovutele”.
2.3. La circostanza che la società abbia effettuato in ritardo il pagamento rateizzato degli oneri di urbanizzazione non può dunque comportare l’applicazione automatica della sanzione prevista dall'art. 3 della legge 28.02.1985, n. 47 (ora art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001), per il ritardato o mancato pagamento degli oneri concessori.
2.4. Invero, il principio dell’affidamento costituisce valore guida dell’intero ordinamento ed è espressione di principi generali immanenti nel diritto (in particolare, correttezza e buona fede), anche di rango costituzionale (artt. 2, 3 e 97), sicché esso vincola l’interprete, in forza del canone ermeneutico dell’interpretazione conforme a Costituzione, essendo regola deputata a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti.
2.5. Dai principi sopra richiamati discende la sussistenza di un obbligo (e non di una mera facoltà), per l'Amministrazione creditrice, di escutere il garante nel caso di ritardato versamento dei contributi concessori e, correlativamente, la sua colpa oggettiva per l’inerzia causativa della mancata tempestiva percezione e corresponsione degli oneri concessori. Né, in contrario, si può far leva sulla natura sanzionatoria e non risarcitoria della pretesa irrogata, perché essa, a salvaguardia degli interessi pubblici di specifica attribuzione nella materia urbanistico-edilizia, costituisce evento posteriore rispetto alla stabilita e interposta “obbligazione patrimoniale”(fideiussoria) finalizzata al programmato puntuale incameramento degli oneri concessori dilazionati.
2.6. Infatti, l’effetto dissuasivo di legge finalizzato al regolare versamento degli oneri concessori trova copertura proprio nella procedimentalizzata fideiussione a prima richiesta, che è strumento non disciplinato dall’art. 3 della legge n. 47 del 1985, ma applicazione amministrativa per l’appunto a garanzia del tempestivo contributo afferente alla concessione, il cui introito, in applicazione del principio di buon andamento, non può essere dall’Amministrazione differito a piacimento ad un tempo futuro e indeterminato quando ha pronta la soluzione dell’immediato incasso tramite l’escussione della polizza fideiussoria richiesta per la rateizzazione.

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Considerato:
- la società ricorrente ha effettuato in ritardo il pagamento rateizzato degli oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione connessi alla concessione edilizia assentita (la rata del 2009 dopo 902 giorni, quella del 2010 dopo 537 gg., quella del 2011 dopo 172 gg.);
- a garanzia degli oneri concessori collegati al rilascio di titolo edilizio, la società deducente aveva rilasciato al Comune resistente polizza assicurativa che nello specifico prevedeva (clausola 2.5) “Il pagamento delle somme dovute in base alla presente polizza sarà effettuato dalla Società entro il termine di 30 giorni dal ricevimento della richiesta scritta dell'Ente Garantito, restando inteso che, ai semi dell'art. 1944 del Codice Civile, la Società non godrà del beneficio della preventiva escussione del Contraente. La Società rinuncia inoltre ad avvalersi del disposto di cui all'art. 1957 del Codice Civile. Il pagamento avverrà dopo un semplice avviso al Contraente senza bisogno di preventivo consenso da parte di quest'ultimo, che nulla potrà eccepire alla Società in merito al pagamento stesso”;
- in presenza di tale apposita polizza assicurativa a prima richiesta e priva del beneficio di preventiva escussione, non merita condivisione la tesi del Comune resistente che contesta la sussistenza di un onere normativo di collaborazione in capo all'Amministrazione creditrice e, quindi, nega ogni dovere di preventiva escussione dell'istituto garante, all’opposto sostenendo l'automatismo nell'applicazione della sanzione indicata dall'art. 3 della legge 28.02.1985, n. 47 (ora art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001), per il ritardato o mancato pagamento degli oneri concessori;
- innanzitutto, sul piano prettamente generale, merita osservare come il principio di salvaguardia dell’effetto utile imponga un’applicazione e un’interpretazione di tale fideiussione, quale atto di regolamentazione in rapporto di strumentalità alla riscossione del credito, che sia funzionale al raggiungimento della sua finalità e dell’obiettivo di garanzia da essa prefissato. Infatti, a mente del combinato disposto degli artt. 1362 e 1367 del codice civile, tra le possibili interpretazioni del contratto, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una soluzione che lo renda improduttivo di effetti (Cass. Civ., Sez. II, 27.03.2013, n. 7791);
- inoltre, alla luce dei più recenti approdi giurisprudenziali, i principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e di buona fede (art. 1375 c.c.) incombono anche sulla Pubblica Amministrazione la quale, vertendosi nella specie in ambito del tutto paritetico e non provvedimentale, non può al riguardo vantare alcuno statuto speciale, perché non si deve avere riguardo alla legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, bensì alla correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’amministrazione (Cons. St., Sez. IV, 07.03.2005, n. 920);
- oltre a ciò, questi principi generali funzionano in chiave di reciprocità nell’ambito dei rapporti comportamentali e costituiscono rivelazione dei precetti costituzionali di solidarietà sociale (art. 2) e di buon andamento (art. 97) nei termini declinati dalla legge 07.08.1990, n. 241, che si estrinseca nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto paritetico o autoritativo, il dovere di agire in leale collaborazione tale da preservare il giusto interesse dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Cons. St., Sez. VI, 12.07.2011, n. 4196);
- la correttezza, quale regola di condotta, si concreta dunque nella c.d. buona fede oggettiva, rispettosa degli altrui interessi che non può assumere i connotati della libera discrezionalità con abuso del diritto e non affranca perciò l’Amministrazione per comportamenti superficiali o negligenti perché diversamente verrebbe ad essere inutile nel sinallagma l’onere imposto della fideiussione e la funzione propria della garanzia, come accaduto nel caso di specie in cui non si è attivata prontamente l’escussione e recuperato tempestivamente il credito comunale, facendo lievitare invece sanzioni e interessi con consistente aggravio alla posizione della debitrice;
- entrando così nel merito della controversia, alla Sezione sono ben note le contrastanti posizioni che si registrano nella giurisprudenza amministrativa di primo e secondo grado, le quali possono essere indicativamente sintetizzate negli opposti orientamenti, ma in prevalenza per una interpretazione di senso, secondo cui “in forza degli artt. 1175, 1375 e 1227 c.c. comma 2, le sanzioni previste per il ritardo nel versamento del contributo edilizio, non sono dovute in tutti quei casi in cui il creditore, restando inerte e non richiedendo quanto dovutogli al garante, avrebbe potuto evitare con una condotta attiva la causazione dell’evento dannoso attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza” (Cons. St., Sez. IV, 02.03.2011, n. 1357 e 17.12.1990, n. 880; Sez. V, 05.02.2003, n. 585; 10.01.2003, n. 32; 03.07.1995, n. 1001) rispetto a quella piuttosto orientata ad una applicazione letterale della norma in termini di “automatico obbligo sanzionatorio governato dalla disciplina pubblicistica di riferimento, con esclusione della configurabilità di ogni onere di previa escussione ai fini dell’adempimento puntuale non tempestivo” (Cons. St., Sez. IV, 13.03.2008, n. 1084 e 10.08.2007, n. 4419; Sez. V, 16.07.2007, n. 4025 e 11.11.2005, n. 6345);
- ad avviso della Sezione, nell’attuale panorama giurisprudenziale per le considerazioni tutte prima illustrate, è da seguire perché aderente alle attuali sensibilità in tema di cooperazione nel rapporto amministrazione-amministrati il condivisibile convincimento secondo il quale “Nell'ipotesi in cui il soggetto titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi concessori, polizza fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione dell'obbligato principale, in virtù di quanto disposto dall'art. 1227 comma 2, c.c., che pone a carico del creditore i danni che questi avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza, non può farsi luogo all'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 3 della l. 28.02.1985 n. 47 che puniscono l'omesso o ritardato versamento dei contributi concessori, ove l'amministrazione creditrice, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel richiedere all'istituto garante il pagamento delle somme dovutele” (per tutte, Cons. St., Sez. V, 05.02.2003, n. 585);
- invero, il principio dell’affidamento costituisce valore guida dell’intero ordinamento ed è espressione di principi generali immanenti nel diritto (in particolare, correttezza e buona fede), anche di rango costituzionale (artt. 2, 3 e 97), sicché esso vincola l’interprete, in forza del canone ermeneutico dell’interpretazione conforme a Costituzione, essendo regola deputata a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti,
- dai principi innanzi riportati discende nel caso in esame la sussistenza di un obbligo (e non di una mera facoltà), per l'Amministrazione creditrice, di escutere il garante nel caso di ritardato versamento dei contributi concessori e, correlativamente, la sua colpa oggettiva per l’inerzia causativa della mancata tempestiva percezione e corresponsione degli oneri concessori, ove si consideri il ritardo tollerato di quasi tre anni che ha aggravato la posizione debitoria con le sanzioni accessorie applicate e che si sono intese ora recuperare con l’impugnato atto di intempestiva verifica contabile;
- né, in contrario, si può far leva sulla natura sanzionatoria e non risarcitoria della pretesa irrogata, perché essa, a salvaguardia degli interessi pubblici di specifica attribuzione nella materia urbanistico-edilizia, costituisce evento posteriore rispetto alla stabilita e interposta “obbligazione patrimoniale” (fideiussoria) finalizzata al programmato puntuale incameramento degli oneri concessori dilazionati (Cons. St., Sez. IV, 17.12.1990, n. 880);
- infatti, l’effetto dissuasivo di legge finalizzato al regolare versamento degli oneri concessori trova copertura proprio nella procedimentalizzata fideiussione a prima richiesta, che è strumento non disciplinato dall’art. 3 della legge n. 47 del 1985, ma applicazione amministrativa per l’appunto a garanzia del tempestivo contributo afferente alla concessione, il cui introito, in applicazione del principio di buon andamento, non può essere dall’Amministrazione differito a piacimento ad un tempo futuro e indeterminato quando ha pronta la soluzione dell’immediato incasso tramite l’escussione della polizza fideiussoria richiesta per la rateizzazione;
- il ricorso va pertanto accolto nei sensi che precedono, dovendo trovare applicazione le disposizioni generali in materia di obbligazioni in quanto, pur potendo essere i singoli pagamenti prontamente riscossi con l’escussione, si è invece preferito nella sostanza lasciare montare e raddoppiare il credito contributivo con la maturazione dei consistenti aumenti sanzionatori;
P.Q.M.
Esprime l’avviso che il ricorso straordinario in esame debba essere accolto (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. I, parere 17.05.2013 n. 2366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAlbo avvocati chiuso alla Pa. La riforma delle professioni non ha eliminato lo stop all'ingresso. Cassazione. Le sezioni unite confermano il divieto di iscrizione per i dipendenti pubblici part-time.
Il divieto di iscrizione all'albo degli avvocati per i dipendenti pubblici part-time, soddisfa l'interesse pubblico a difendere l'indipendenza del legale.
Le Sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza 16.05.2013 n. 11833) difendono le incompatibilità previste dalla legge 339/2003, che vieta ai dipendenti della pubblica amministrazione a "mezzo servizio", di svolgere la professione forense.
La Suprema Corte riunisce e respinge una serie di ricorsi, avallando la scelta del Consiglio nazionale forense di confermare la cancellazione dall'albo di chi non aveva esercitato l'opzione per l'una o l'altra attività.
I giudici smontano le molte obiezioni mosse dai diretti interessati che si appellavano alle norme più favorevoli.
La legge 339 del 2003 ha, in effetti, dettato un contrordine rispetto a quanto previsto dalle «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica» (legge 662/1996) che sfilavano dal regime delle incompatibilità i dipendenti della Pubblica amministrazione a tempo parziale.
Un salvacondotto a cui si erano appellati i ricorrenti iscritti all'albo durante il regime favorevole, chiedendo per questo di salvaguardare i diritti acquisti e il loro legittimo affidamento.
I ricorrenti avevano visto uno spiraglio anche nella manovra d'agosto (Dl 138/2011) e nel Dpr professioni (137/2012), portatori di una ventata liberalizzatrice che subordinava lo svolgimento della libera professione al solo possesso dei titoli: per il Dpr 137/2012, in particolare, la libera professione poteva essere esercitata in maniera sia abituale sia prevalente. I soli paletti riguardavano le condanne penali e i motivi di interesse generale.
Su quest'ultimo si infrangono le speranze dei ricorrenti.
La Suprema corte si pone due domande: se lo "ius superveniens" abbia tacitamente abrogato la legge "scomoda" e se l'esigenza di scongiurare il rischio di avere avvocati poco indipendenti possa essere considerata «motivo imperativo di interesse generale». La prima risposta è no e la seconda è sì, e l'una è il risultato dell'altra.
La Suprema Corte esclude che la legge 339/2003 possa essere stata implicitamente abrogata proprio perché l'incompatibilità tra l'impiego pubblico part-time e l'esercizio della professione forense risponde a esigenze specifiche di interesse pubblico «correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata e ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente». Ad avviso del collegio la legge 339/2003 fa da scudo a interessi di rango costituzionale, come l'imparzialità e il buon andamento della Pa, oltre che all'indipendenza dell'avvocato da poteri che potrebbero mettere in dubbio la correttezza della difesa causa dei possibili conflitti tra interessi pubblici e privati. Inutile anche il tentativo dei ricorrenti di sollevare contrasti sia con la Carta e con il diritto dell'Unione.
La Cassazione ricorda che la Corte costituzionale, si è espressa sul punto con due sentenze (390/2006 e 166/2012): con la prima ha considerato il divieto coerente con la peculiarità della professione e con la seconda ha affermato la possibilità di modificare in senso meno favorevole norme più "permissive", pur di non sfociare in regolamenti irrazionali. Un'irragionevolezza esclusa dal lasso di tempo concesso per esercitare l'opzione. Va male anche sul fronte comunitario: la Corte di giustizia con la sentenza C-225/09 ha dato il suo nulla osta a una limitazione prevista anche dal nuovo ordinamento forense (articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTravet part-time ma mai avvocati. La sentenza della Cassazione.
Legittima la cancellazione dall'Albo dell'Ordine forense per il dipendente pubblico che aveva optato per il part-time in modo da poter fare anche l'avvocato. È escluso, infatti, che la manovra bis (dl 138/11) abbia tacitamente abrogato le disposizioni della legge 339/03. E d'altronde anche la recente riforma forense conferma l'incompatibilità, benché non risulti ancora applicabile in merito perché manca ancora il provvedimento ad hoc del ministero della Giustizia.
Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 16.05.2013 n. 11833.
Exit strategy
Veniamo alla legge «incriminata». La normativa dispone che gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l'iscrizione sulla base della richiamata normativa del 1996 possono optare, nel termine di tre anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno, e il mantenimento dell'iscrizione all'albo degli avvocati con contestuale cessazione dei rapporto di pubblico impiego; in questa seconda ipotesi il dipendente pubblico part-time conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno; inoltre in caso di mancato esercizio dell'opzione tra libera professione e pubblico impiego entro il termine di trentasei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione d'ufficio dell'iscritto dal proprio albo.
Interesse pubblico
Insomma, la legge 339/2003 ha posto un aut aut ai travet che avevano scelto l'orario ridotto per esercitare la contestualmente professione forense. Non ha senso riproporre le argomentazioni contrarie all'incompatibilità anche dopo il dl 138/2011, che pure ha introdotto liberalizzazioni nel mondo delle professioni oltre che nell'economia.
Il punto è che deve escludersi ogni abolizione dei vincoli per effetto dello ius superveniens perché l'incompatibilità fra pubblico impiego, per quanto part-time, ed esercizio della professione forense risponde a specifiche esigenze di interesse pubblico: l'attività privata di avvocato ha natura molto peculiare e può dar vita a intrecci pericolosi se combinata al lavoro di dipendente dell'amministrazione. Il «no» ai conflitti d'interesse viene anche dalla giurisprudenza della Consulta. Inutile infine invocare la giurisprudenza Ue, laddove la stessa Corte di giustizia europea ritiene legittimo per il legislatore nazionale disporre la cancellazione dell'albo.
Non si può dunque invocare il principio comunitario della libera circolazione contro la legge 339/2003: la normativa, in effetti, non regola l'organizzazione della professione forense ma soltanto le modalità di svolgimento del servizio presso enti pubblici (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013).

COMPETENZE PROGETTUALINei limiti del carattere “modesto” dell’edificio civile, la progettazione può essere eseguita in zona sismica anche da un geometra e tale competenza del professionista permane anche -ai sensi dell’art. 2 della l. n. 1086/1971 (Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica), ora ribadito anche dall’art. 64, comma 2, del T.U. Edilizia approvato con d.P.R. n. 380/2001- nelle ipotesi in cui il progetto di un edificio modesto preveda l’impiego di cemento armato.
È stato in proposito affermato da condivisibile giurisprudenza:
A) che spetta "al G.A. il sindacato sulla valutazione circa l’entità quantitativa e qualitativa della costruzione al fine di stabilire se la stessa … rientri o meno nella nozione di “modesta costruzione civile”, alla cui progettazione è limitata la competenza professionale del geometra, ai sensi degli art. 16 ss. r.d. 274/1929";
B) che “il geometra è sempre abilitato alla progettazione di “modeste costruzioni civili”; e che tale competenza permane anche per le costruzioni a struttura metallica o per quelle che richiedano l’impiego di conglomerato cementizio armato normale o precompresso, a condizione -in questo caso- che persista la qualificazione di edificio civile “modesto”…";
C) che i limiti posti dal predetto art. 16, lettera m), alla competenza professionale dei geometri, se è pur vero che rispondono a una scelta inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, lasciano nella sostanza all’interprete ampi margini in ordine alla valutazione dei requisiti della “modestia” della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell’assenza d’implicazioni per la pubblica incolumità.

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Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta, e rientri quindi nella competenza professionale dei geometri, va individuato nelle difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e nelle capacità occorrenti per superarle; a questo fine assumono specifico rilievo, oltre alla complessità della struttura e delle relative modalità costruttive, anche, ma in via complementare, il costo presunto dell’opera, in quanto si tratta di un elemento sintomatico che vale ad evidenziare le difficoltà tecniche che coinvolgono la costruzione.
In aggiunta, competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili riguarda anche le piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone.
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In materia di progettazione delle opere private, lo scopo perseguito dalla disciplina legislativa che stabilisce i limiti di competenza dei geometri e periti edili e indica i progetti per i quali è invece necessario l’intervento di un ingegnere o di un architetto (art. 16 r.d. 11.02.1929, n. 275, art. 1 r.d. 16.11.1939 n. 2229, l. 24.06.1923 n. 1395 e r.d. 23.10.1925 n. 2537) consiste, non nel garantire una buona qualità delle opere sotto il profilo estetico e funzionale, ma unicamente nell’assicurare l’incolumità delle persone; …. e se -a tali fini- viene ritenuta sufficiente in giurisprudenza la “ratifica, con assunzione di responsabilità” ad opera di un ingegnere del progetto redatto da un geometra, allora si deve ritenere che -a maggior ragione- sia legittimo ed ammissibile il progetto che un geometra abbia redatto solo per la parte architettonica, allorquando lo stesso contempli gli elaborati tecnico strutturali firmati tutti da un ingegnere.

Il ricorrente, in qualità di professionista iscritto all’Albo dei Geometri, impugna il provvedimento del dirigente del Servizio tecnico e di Pianificazione territoriale provinciale di non accettazione del deposito del progetto elaborato per la realizzazione di un’edicola funeraria, in quanto “il direttore dei lavori delle strutture in c.a. relativi alle costruzioni in oggetto è un geometra laureato” nonché la conseguente nota del responsabile dell’U.T.C. comunale nella quale si specifica che “in assenza dell’attestazione di cui agli artt. 93-94 del d.P.R. 380/2001 i lavori relativi alle strutture in c.a. non possono essere eseguiti”.
...
Il ricorso è fondato nei termini di seguito esposti.
Va premesso che in zona sismica, ai sensi dell’art. 17 della L. 64/1974, possono essere eseguite costruzioni su progetto d’ingegneri, architetti, geometri o periti edili iscritti nell’albo, nei limiti delle rispettive competenze.
Per delineare, allora, le competenze dei geometri occorre fare riferimento alle norme che disciplinano la specifica figura professionale e, quindi, all’art. 16 del R.D. 274/1929 (Regolamento per la professione di geometra).
Dispone, per quanto d’interesse, tale noma: “L’oggetto ed i limiti dell’esercizio professionale di geometra sono regolati come segue: …
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d’industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; …
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili; ...
”.
Ne consegue, in primo luogo, che nei limiti del carattere “modesto” dell’edificio civile, la progettazione può essere eseguita in zona sismica anche da un geometra e, in secondo luogo, che tale competenza del professionista permane anche -ai sensi dell’art. 2 della l. n. 1086/1971 (Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica), ora ribadito anche dall’art. 64, comma 2, del T.U. Edilizia approvato con d.P.R. n. 380/2001- nelle ipotesi in cui il progetto di un edificio modesto preveda l’impiego di cemento armato.
È stato in proposito affermato da condivisibile giurisprudenza:
A) che spetta "al G.A. il sindacato sulla valutazione circa l’entità quantitativa e qualitativa della costruzione al fine di stabilire se la stessa … rientri o meno nella nozione di “modesta costruzione civile”, alla cui progettazione è limitata la competenza professionale del geometra, ai sensi degli art. 16 ss. r.d. 274/1929" (Tar Salerno 9772/2010);
B) che “il geometra è sempre abilitato alla progettazione di “modeste costruzioni civili”; e che tale competenza permane anche per le costruzioni a struttura metallica o per quelle che richiedano l’impiego di conglomerato cementizio armato normale o precompresso, a condizione -in questo caso- che persista la qualificazione di edificio civile “modesto”…" (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 22.04.2011, n. 1022; nello stesso senso: Cons. St., sez. V, 16.09.2004, n. 6004);
C) che i limiti posti dal predetto art. 16, lettera m), alla competenza professionale dei geometri, se è pur vero che rispondono a una scelta inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, lasciano nella sostanza all’interprete ampi margini in ordine alla valutazione dei requisiti della “modestia” della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell’assenza d’implicazioni per la pubblica incolumità.
Della questione, va ricordato, si è già occupato, tra gli altri, con sentenza 05.03.2009, n. 134, il anche il TAR Abruzzo, “che in tale occasione ha precisato che il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta, e rientri quindi nella competenza professionale dei geometri, vada individuato nelle difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e nelle capacità occorrenti per superarle; ed ha ritenuto che a questo fine assumono specifico rilievo, oltre alla complessità della struttura e delle relative modalità costruttive, anche, ma in via complementare, il costo presunto dell’opera, in quanto si tratta di un elemento sintomatico che vale ad evidenziare le difficoltà tecniche che coinvolgono la costruzione.
In aggiunta, ha anche precisato che la competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili riguarda anche le piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone
” (TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 16.11.2010, n. 1213).
Il Collegio non ignora la sussistenza di un contrario orientamento, manifestato dalla giurisprudenza civile (Cass., II, 17028/2006, e 19292/2009), che ha considerato nulli sul piano civilistico i contratti d’opera professionale stipulati da geometri in quanto aventi ad oggetto la realizzazione di opere in cemento armato.
Si tratta, tuttavia, di una ricostruzione del dato normativo non condividibile in quanto non tiene conto del fatto che anche le norme relative alle costruzioni in cemento armato, così come quelle dettate per le zone sismiche, fanno espresso richiamo “per relationem” alle competenze stabilite dall’ordinamento professionale dei geometri (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 22.04.2011, n. 1022).
Ciò posto e per passare all’esame del caso di specie, ritiene la Sezione che nella specie la costruzione progettata possa essere ascritta fra le modeste costruzioni, di cui all’art. 16, lett. m), del R.D. n. 274/1929, assimilabili a quelle accessorie in cemento armato, di cui alla precedente lett. l), atteso che, per un verso, non richiede per la sua progettazione particolari operazioni di calcolo e, per altro verso, non implica pericolo per l’incolumità delle persone proprio in riferimento alla sua specifica destinazione a edicola funeraria - ove l’utilizzo del cemento armato, peraltro, riguarda opere interne (strutture di divisione dei n. 6 loculi, il relativo basamento e i setti).
Quanto esposto vale come inquadramento generale della problematica sulla quale si incentra il giudizio.
Deve essere, tuttavia, evidenziato il fatto che nel caso sono presenti delle peculiari circostanze che conferiscono alla vicenda una specifica singolarità: se è vero che il progettista architettonico e direttore dei lavori è un geometra laureato (il ricorrente), calcolatore delle strutture è, invece, un ingegnere (dott. ing. Salvatore Miceli).
In altri termini, non siamo in presenza di un progetto ascritto solo al geometra; ma di una progettazione effettuata a più mani, nella quale l’apporto dell’ingegnere risulta prevalente sul piano quantitativo e tecnico, mentre quello del progettista/geometra è secondario e per certi versi atecnico, essendo limitato a definire l’aspetto esteriore dell’edificio.
La predetta conclusione risulta avvalorata anche dalla giurisprudenza (Cons. Stato, V, 83/1999) che ha precisato il ruolo da attribuire, nella progettazione, all’intervento del tecnico laureato: “In materia di progettazione delle opere private, lo scopo perseguito dalla disciplina legislativa che stabilisce i limiti di competenza dei geometri e periti edili e indica i progetti per i quali è invece necessario l’intervento di un ingegnere o di un architetto (art. 16 r.d. 11.02.1929, n. 275, art. 1 r.d. 16.11.1939 n. 2229, l. 24.06.1923 n. 1395 e r.d. 23.10.1925 n. 2537) consiste, non nel garantire una buona qualità delle opere sotto il profilo estetico e funzionale, ma unicamente nell’assicurare l’incolumità delle persone; …. e se -a tali fini- viene ritenuta sufficiente in giurisprudenza la “ratifica, con assunzione di responsabilità” ad opera di un ingegnere del progetto redatto da un geometra; allora si deve ritenere che -a maggior ragione- sia legittimo ed ammissibile il progetto che un geometra abbia redatto solo per la parte architettonica, allorquando lo stesso contempli gli elaborati tecnico strutturali firmati tutti da un ingegnere" (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 22.04.2011, n. 1022).
Sulla base delle sovra esposte considerazioni, il ricorso va accolto, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 15.05.2013 n. 1108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali, le nuove tariffe e le modalità di calcolo per gli oneri di urbanizzazione ribadendosi l'integrale applicazione del principio tempus regit actum e quindi la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 DPR 380/2001 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”) i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali, le nuove tariffe e le modalità di calcolo per gli oneri di urbanizzazione ribadendosi l'integrale applicazione del principio tempus regit actum e quindi la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 15.05.2013 n. 1103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.l.gs. 163/2006 impongono, anche per gli appalti di servizi e forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica di tutti i costi relativi alla sicurezza. Il combinato disposto delle due norme impone ai concorrenti di evidenziare gli oneri economici che ritengono di sopportare al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza sul lavoro, al duplice fine di assicurare la consapevole formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto nevralgico e di consentire alla stazione appaltante la valutazione della congruità dell’importo destinato a tale scopo.
Gli oneri della sicurezza -sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- devono essere distinti tra oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze (che devono essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri concernenti i costi specifici connessi con l’attività delle imprese, che devono essere indicati dalle stesse nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
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La mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla “lex specialis” non giustifica la mancata indicazione dei costi per la sicurezza, e ciò sul fondamentale rilievo del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge che prescrivono di esibire tali costi, idonee come tali a eterointegrare le regole della singola gara (ai sensi dell’art. 1374 del c.c.), e a imporre, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla procedura.
Pertanto, “anche in difetto di una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara, dunque, l’inosservanza della prescrizione primaria che impone l’indicazione preventiva dei costi di sicurezza implica la sanzione dell’esclusione, in quanto rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa”.
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L’esclusione dell’offerta si rivela doverosa anche ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006, configurando l’omessa specificazione degli oneri di sicurezza un’ipotesi di “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice” idoneo a determinare “incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta” per difetto di un elemento essenziale.

Secondo giurisprudenza costante:
A) “gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.l.gs. 163/2006 impongono, anche per gli appalti di servizi e forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica di tutti i costi relativi alla sicurezza. Il combinato disposto delle due norme impone ai concorrenti di evidenziare gli oneri economici che ritengono di sopportare al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza sul lavoro, al duplice fine di assicurare la consapevole formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto nevralgico e di consentire alla stazione appaltante la valutazione della congruità dell’importo destinato a tale scopo.
Gli oneri della sicurezza -sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- devono essere distinti tra oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze (che devono essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri concernenti i costi specifici connessi con l’attività delle imprese, che devono essere indicati dalle stesse nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura
” (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181; nello stesso senso: TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 17.01.2013, n. 124; TAR Lazio, Roma, sez. II, 07.01.2013, n. 66; TAR Veneto, Venezia, sez. I, 04.12.2012, n. 1477; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 12.01.2012, n. 23);
B) la mancanza di una specifica previsione sul tema in seno alla “lex specialis” non giustifica la mancata indicazione dei costi per la sicurezza, e ciò sul fondamentale rilievo del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge che prescrivono di esibire tali costi, idonee come tali a eterointegrare le regole della singola gara (ai sensi dell’art. 1374 del c.c.), e a imporre, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla procedura.
Pertanto, “anche in difetto di una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara, dunque, l’inosservanza della prescrizione primaria che impone l’indicazione preventiva dei costi di sicurezza implica la sanzione dell’esclusione, in quanto rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa” (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181, nello stesso senso: Cons. di St., sez. V, 29.02.2012, n. 1172; TAR Venezia, Veneto, sez. I, 22.11.2011, n. 1720);
C) “l’esclusione dell’offerta si rivela doverosa anche ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006, configurando l’omessa specificazione degli oneri di sicurezza un’ipotesi di “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice” idoneo a determinare “incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta” per difetto di un elemento essenziale” (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 15.05.2013 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cattivi odori dalle stalle? Rischio multe.
L'allevatore non ottempera all'ordine del sindaco di chiudere la stalla, causa di esalazioni maleodoranti e viene punito, quindi, con 50 euro di ammenda. La sentenza di 1° grado, impugnata dall'imprenditore agricolo è stata ritenuta esente da vizi anche se non era stata effettuata alcuna misurazione, ovvero senza compiere nessun accertamento circa l'entità delle emissioni, ai fini della verifica del reato, che sussiste ogni qualvolta viene ad essere superata la normale tollerabilità secondo la previsione dell'art. 844 cc..
Ma se manca la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, com'è il caso degli odori, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi su dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 14.05.2013 n. 20748 (articolo ItaliaOggi del 18.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Va preliminarmente affermata la legittimazione dell’odierno appellante a proporre censura avverso la rilasciata concessione edilizia, essendo egli, in quanto confinante con il manufatto oggetto della sua impugnativa, portatore dell’interesse a che l’attività edificatoria svolta dai proprietari confinanti avvenga nel rispetto delle norme poste a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo urbanistico-edilizio, tra le quali sono indiscutibilmente comprese quelle regolatrici della corretta progettazione e realizzazione degli edifici.
Detto interesse pubblico altro non è, infatti, che la sintesi di una pluralità di interessi, tra i quali anche quello meramente privato inerente la conservazione delle costruzioni realizzate nelle immediate vicinanze, di cui Longo è nel caso di specie portatore.

Ciò precisato, è innanzitutto fondato l’ultimo motivo, incentrato sull’incompetenza professionale del geometra incaricato dai controinteressati per la progettazione della loro costruzione.
A confutazione dell’eccezione di inammissibilità sollevata da questi ultimi, va preliminarmente affermata la legittimazione dell’odierno appellante a proporre tale censura, essendo egli, in quanto confinante con il manufatto oggetto della sua impugnativa, portatore dell’interesse a che l’attività edificatoria svolta dai proprietari confinanti avvenga nel rispetto delle norme poste a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo urbanistico-edilizio, tra le quali sono indiscutibilmente comprese quelle regolatrici della corretta progettazione e realizzazione degli edifici. Detto interesse pubblico altro non è, infatti, che la sintesi di una pluralità di interessi, tra i quali anche quello meramente privato inerente la conservazione delle costruzioni realizzate nelle immediate vicinanze, di cui Longo è nel caso di specie portatore (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Ancora di recente questo Consiglio di Stato ha ricordato che è inibita al geometra la progettazione di opere in cemento armato a destinazione abitativa strutturate su più piani.
Su posizioni non dissimili si pone l’incontrastata giurisprudenza della Cassazione.
Secondo il giudice di legittimità, la competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili è circoscritta alle costruzioni in cemento armato con destinazione agricola, in quanto non richiedenti particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per la incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili con struttura portante in cemento armato, ancorché di modeste dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri ed architetti.
Nelle sentenze ora citate la stessa Cassazione ha anche precisato che la legge n. 1086/1971 non ha innovato la ripartizione di competenze tra geometri da una parte ed architetti ed ingegneri dall’altra quale definita dai citati testi legislativi del 1929, ma la ha semplicemente recepita.
Il TAR non si è attenuto a questo indirizzo, enucleando un criterio di carattere quantitativo, vale a dire la cubatura dell’edificio, sfornito di base normativa, risultando invece, sulla scorta di tali rilievi, evidente che l’edificio realizzato non potesse, per caratteristiche costruttive e destinazione, essere progettato da un geometra.
Tra l'altro, è evidente che una palazzina residenziale di tre piani fuori terra importa l’adozione di accurati e complessi calcoli strutturali, al fine di assicurarne la stabilità, chiaramente esorbitanti dal limitato ambito entro il quale la legge circoscrive la competenza professionale dei geometri in materia.

Venendo al merito della doglianza, risulta innanzitutto in fatto, sulla base della documentazione progettuale versata agli atti di causa, ed anche per deduzione dei fratelli Galiandro, che tale costruzione si sostanzia in un fabbricato di civile abitazione su tre piani fuori terra, oltre che uno interrato, con strutture portanti in cemento armato.
In diritto, per contro, in base al regolamento professionale di cui al citato r.d. n. 274/1929, e precisamente l’art. 16, lett. m), il geometra può essere incaricato di progettare “modeste costruzioni civili”, laddove, ai sensi dell’art. 1 del r.d. n. 2229/1939 (“Norme per la esecuzione di opere in conglomerato cementizio semplice od armato”), la progettazione delle opere comportanti l’impiego di tale tecnica costruttiva, “la cui stabilità possa comunque interessate l’incolumità delle persone”, è riservata agli ingegneri o agli architetti.
In aderenza al dato normativo in questione, che si impernia dunque sul pericolo per l’incolumità pubblica, ancora di recente questo Consiglio di Stato ha ricordato che è inibita al geometra la progettazione di opere in cemento armato a destinazione abitativa strutturate su più piani (Sez. IV, sentenza 14.03.2013 n. 1526).
Su posizioni non dissimili si pone l’incontrastata giurisprudenza della Cassazione.
Secondo il giudice di legittimità, la competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili è circoscritta alle costruzioni in cemento armato con destinazione agricola, in quanto non richiedenti particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per la incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili con struttura portante in cemento armato, ancorché di modeste dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri ed architetti (da ultimo: Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; in precedenza: 30.03.1999, n. 3046; 21.12.2006, n. 27441; 07.09.2009, n. 19292).
Nelle sentenze ora citate la stessa Cassazione ha anche precisato, per rispondere alle difese svolte sul punto dagli appellati, che la legge n. 1086/1971 (“Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato”), non ha innovato la ripartizione di competenze tra geometri da una parte ed architetti ed ingegneri dall’altra quale definita dai citati testi legislativi del 1929, ma la ha semplicemente recepita.
Il TAR non si è attenuto a questo indirizzo, enucleando un criterio di carattere quantitativo, vale a dire la cubatura dell’edificio, sfornito di base normativa, risultando invece, sulla scorta di tali rilievi, evidente che l’edificio realizzato dai fratelli Galiandro non potesse, per caratteristiche costruttive e destinazione, essere progettato da un geometra.
Del tutto infondatamente questi ultimi asseriscono che l’appellante non avrebbe indicato quale soluzione tecnica di particolare difficoltà ponga la realizzazione del manufatto edificato sul terreno di proprietà, essendo evidente che una palazzina residenziale di tre piani fuori terra importa l’adozione di accurati e complessi calcoli strutturali, al fine di assicurarne la stabilità, chiaramente esorbitanti dal limitato ambito entro il quale la legge circoscrive la competenza professionale dei geometri in materia.
L’accoglimento di tale censura comporta l’assorbimento di tutte le altre, qui riproposte, concernenti le asserite difformità progettuali rispetto agli standard fissati nei citati decreti ministeriali, rivestendo la stessa piena idoneità ad invalidare ab imis la concessione in sanatoria n. 79/1994 impugnata da Longo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
Merita, infatti, condivisione l’indirizzo ermeneutico alla stregua del quale l’art. 120, comma 5 c.p.a., non prevedendo forme di comunicazione "esclusive" e "tassative", non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel caso di specie, con forme diverse di quelle dell'art. 79 cit..

E’ documentato nel verbale in atti che alla seduta di gara del 26.11.2010, nella quale è stata data comunicazione alla ricorrente dell’esclusione, hanno presenziato due rappresentanti della società ricorrente.
La qualifica di rappresentanti attribuita ai soggetti in parola dal nel verbale di gara in parola è suffragata, in termini decisivi, dalla ruolo effettivamente svolto dagli stessi nel corso della seduta in esame, tale da evidenziare, al di là dell’ esistenza di un mandato formale o della specifica carica a sociale rivestita, l’attribuzione di un effettivo potere rappresentativo che esorbita dalla veste di mero nuncius della società concorrente. E’ significativa, soprattutto, la circostanza che uno dei suddetti soggetti non si sia limitato ad assistere alle operazioni di gara, ma vi abbia partecipato attivamente, censurando le determinazioni della Commissione e instaurando un vero e proprio contraddittorio.
La tipologia dei poteri esercitati dimostra, in definitiva, che non si tratta di persone incaricate solamente di ad assistere alle operazioni ma di veri e propri rappresentanti, legittimati a manifestare la volontà dell’impresa e, conseguentemente, a rappresentarla anche ai fini della piena conoscenza.
La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, comma 5, del codice dei contratti pubblici. Merita, infatti, condivisione l’indirizzo ermeneutico alla stregua del quale l’art. 120, comma 5 c.p.a., non prevedendo forme di comunicazione "esclusive" e "tassative", non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel caso di specie, con forme diverse di quelle dell'art. 79 cit. (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 28.02.2013, n. 1204; sez. III, 22.08.2012, n. 4593; sez. VI, 13.12.2011, n. 6531) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.05.2013 n. 2614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell’Amministrazione, con la conseguenza che nell’adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale l’Amministrazione stessa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, a meno che sulla precedente disciplina urbanistica siano state fondate specifiche aspettative, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato d’annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
In tale concezione di programmazione urbanistica rientra anche la rete viaria, compreso il dimensionamento e la limitazione delle superfici di aree per parcheggio. Le relative scelte possono essere sottoposte al vaglio della giustizia amministrativa solo per palese arbitrarietà, illogicità, manifesta irragionevolezza, errori di fatto, che non sussistono nel caso in cui nella scelta della località vengano fornite adeguate motivazioni di ordine urbanistico e di dislocazione dei parcheggi. Di conseguenza non è arbitraria la scelta dell’area che, secondo le valutazioni del comune, ha caratteristiche idonee alla localizzazione delle aree viarie e di parcheggio, in base alla dimensione territoriale del comune e delle attività d’interesse pubblico locale anche in relazione alle specifiche condizioni di viabilità.

Per il rimanente, le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell’Amministrazione, con la conseguenza che nell’adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale l’Amministrazione stessa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, a meno che sulla precedente disciplina urbanistica siano state fondate specifiche aspettative, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato d’annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto (Consiglio di Stato sez. VI, 17.02.2012 n. 854).
In tale concezione di programmazione urbanistica rientra anche la rete viaria, compreso il dimensionamento e la limitazione delle superfici di aree per parcheggio. Le relative scelte possono essere sottoposte al vaglio della giustizia amministrativa solo per palese arbitrarietà, illogicità, manifesta irragionevolezza, errori di fatto, che non sussistono nel caso in cui nella scelta della località vengano fornite adeguate motivazioni di ordine urbanistico e di dislocazione dei parcheggi. Di conseguenza non è arbitraria la scelta dell’area che, secondo le valutazioni del comune, ha caratteristiche idonee alla localizzazione delle aree viarie e di parcheggio, in base alla dimensione territoriale del comune e delle attività d’interesse pubblico locale anche in relazione alle specifiche condizioni di viabilità (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.05.2013 n. 2337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASe i clienti sono rumorosi paga il titolare del bar.
Se i clienti sono rumorosi, il titolare del bar ne paga le conseguenze se nell'ambito dell'ordinaria gestione dell'attività non impedisce che gli avventori del locale provochino eccessivo rumore, tale da procurare disturbo alle ordinarie occupazioni ed al riposo degli abitanti degli immobili siti nei pressi del bar stesso.

La Corte di Cassazione, Sez. I penale, con la sentenza 10.05.2013 n. 20207, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Venezia per il reato di cui all'art. 659 del codice penale che punisce il disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone.
In sostanza, la Cassazione ha rilevato che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità, la quale ritiene che elemento essenziale della contravvenzione è l'idoneità del fatto, che nel caso specifico, corrisponde a eccessivi rumori, strepiti e schiamazzi provocati dal personale e dai frequentatori del bar, ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone. In sostanza, perché maturi l'ipotesi di reato non è richiesto l'effettivo disturbo al riposo di più persone, essendo invece necessario venga accertata l'astratta attitudine del fatto medesimo ad arrecare tale tipo di disturbo.
Nel caso specifico, la sentenza impugnata ha adeguatamente motivato tale circostanza. E lo ha fatto sia con riferimento alla concreta sussistenza di voci e rumori provenienti dal bar che si protraevano ben oltre la mezzanotte, e che si diffondevano per una vasta area circostante l'esercizio commerciale, sia la loro idoneità ad arrecare disturbo al riposo di un vasto ed indeterminato numero di persone, ovvero gli abitanti degli edifici circostanti. Del resto, secondo la Cassazione era del tutto irrilevante che due testi affermassero di non essere stati infastiditi dai rumori molesti, perché occorre al contrario fare riferimento al comune modo di sentire della generalità dei consociati.
E, a tale proposito, afferma la sentenza «il vociare del personale e degli avventori di un bar è un evento oggettivamente idoneo ad arrecare disturbo al riposo delle persone costrette a vivere nelle vicinanze di tale fonte di rumori molesti» (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la possibilità di condonare fabbricati abusivi, soccorre il disposto dell’art. 31, comma 2, della l. n. 47/1985 (richiamato dall’art. 39 della l. n. 724/1994), in base al quale “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
A livello giurisprudenziale, sono state tracciate le seguenti coordinate ermeneutico-applicative:
- innanzitutto, la costruzione condonabile deve essere completata a rustico, ossia in tutte le sue strutture essenziali, mediante realizzazione delle tamponature e della copertura, in quanto determinanti per stabilire la relativa volumetria e la sagoma esterna, restando, invece, irrilevanti le opere di rifinitura, quali, ad es., la pavimentazione e gli infissi;
- il rustico deve essere completato, in particolare, nelle tamponature esterne, necessarie a realizzare in concreto i volumi individuabili ed esattamente calcolabili, indipendentemente dai materiali utilizzati; tamponature esterne che assolvono, quindi, la funzione di isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria;
- quanto alla copertura –essenziale, al pari delle tamponature esterne–, essa deve intendersi come qualsiasi chiusura superiore, anche non avente carattere di stabilità e definitività, idonea a consentire l'individuazione del volume dell'edificio e ad impedirne la maggiorazione.
Dalla superiore rassegna normativa e giurisprudenziale si evince che, per aversi ultimazione delle opere abusive suscettibile di condono edilizio, è indispensabile l’avvenuta realizzazione del rustico, consistente, segnatamente, nell’esecuzione delle tamponature esterne (muri perimetrali) e della copertura (senza necessità di rifiniture) così da ottenere un volume integrante nuova costruzione.
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Nell'ambito del condono edilizio, va esclusa la formazione del silenzio-assenso nelle ipotesi di domanda rivelatasi dolosamente infedele per la portata delle omissioni o delle inesattezze in essa riscontrate.
Il titolo abilitativo tacito può, dunque, formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di definizione dell’illecito edilizio presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero coelemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché sia abbia silenzio assenso, occorre, cioè, che l’iter amministrativo sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
La mancata definizione dell’illecito edilizio da parte dell’amministrazione comunale entro il termine perentorio all’uopo prefissato non determina, cioè, ope legis, la regolarizzazione tacita dell'abuso, qualora manchino i presupposti di fatto e di diritto normativamente richiesti, tra cui, segnatamente, quello del completamento delle opere abusive entro la data del 31.12.1993, ovvero qualora la domanda di condono –con specifico riferimento a quest’ultimo presupposto essenziale– rappresenti la realtà, attraverso omissioni o inesattezze rilevanti, in maniera dolosamente infedele.

Sul piano normativo, soccorre il disposto dell’art. 31, comma 2, della l. n. 47/1985 (richiamato dall’art. 39 della l. n. 724/1994), in base al quale “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
A livello giurisprudenziale, sono state tracciate le seguenti coordinate ermeneutico-applicative:
- innanzitutto, la costruzione condonabile deve essere completata a rustico, ossia in tutte le sue strutture essenziali, mediante realizzazione delle tamponature e della copertura (TAR Campania, Salerno, sez. II, 09.01.2007, n. 3), in quanto determinanti per stabilire la relativa volumetria e la sagoma esterna (TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.09.2005, n. 7000; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.10.2006, n. 4973), restando, invece, irrilevanti le opere di rifinitura (Cons. Stato, sez. IV, 26.01.2009, n. 393; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 14.05.2004, n. 2917), quali, ad es., la pavimentazione e gli infissi (TAR Umbria, Perugia, 06.11.2008, n. 702);
- il rustico deve essere completato, in particolare, nelle tamponature esterne (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 04.07.2007, n. 1739; cfr. Cass. pen., sez. III, 29.05.2007, n. 28515), necessarie a realizzare in concreto i volumi individuabili ed esattamente calcolabili, indipendentemente dai materiali utilizzati (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 08.04.2005, n. 1982); tamponature esterne che assolvono, quindi, la funzione di isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria (TAR Calabria, Reggio Calabria, 09.12.2002, n. 1955; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.10.2006, n. 1745);
- quanto alla copertura –essenziale, al pari delle tamponature esterne–, essa deve intendersi come qualsiasi chiusura superiore, anche non avente carattere di stabilità e definitività, idonea a consentire l'individuazione del volume dell'edificio e ad impedirne la maggiorazione (TAR Sardegna, Cagliari, 14.10.2003, n. 1212).
Dalla superiore rassegna normativa e giurisprudenziale si evince che, per aversi ultimazione delle opere abusive suscettibile di condono edilizio, è indispensabile l’avvenuta realizzazione del rustico, consistente, segnatamente, nell’esecuzione delle tamponature esterne (muri perimetrali) e della copertura (senza necessità di rifiniture) così da ottenere un volume integrante nuova costruzione.
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Al riguardo, il citato art. 39 subordina, innanzitutto, al comma 1, la consentita sanatoria delle opere abusive al relativo completamento entro la data del 31.12.1993.
Stabilisce, altresì, al comma 4, cit., che il pagamento dell’oblazione e degli oneri concessori, la presentazione della documentazione a corredo della domanda di condono (prescritta dall’art. 35, commi 3 e 5, della l. n. 47/1985) e della denuncia in catasto, nonché “il decorso del termine di un anno e di due anni per i comuni con più di 500.000 abitanti dalla data di entrata in vigore della presente legge senza l’adozione di un provvedimento negativo del comune” “equivale a concessione o ad autorizzazione edilizia in sanatoria”. Ma precisa, nel contempo, che “se nei termini previsti l’oblazione dovuta non è stata interamente corrisposta o è stata determinata in modo non veritiero e palesemente doloso, le costruzioni realizzate senza licenza o concessione edilizia sono assoggettate alle sanzioni richiamate agli artt. 40 e 45 della l. 28.02.1985, n. 47”.
Analogamente a tali previsioni, l’art. 35 della l. n. 47/1985 (richiamato dall’art. 39 della l. n. 724/1994) stabilisce, al comma 18, che, "fermo il disposto del primo comma dell'art. 40 … decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento"; mentre il successivo art. 40 precisa, al comma 1, che, “se nel termine prescritto non viene presentata la domanda … per opere abusive realizzate in totale difformità o in assenza della licenza o concessione, ovvero se la domanda presentata, per la rilevanza delle omissioni o delle inesattezze riscontrate, deve ritenersi dolosamente infedele, gli autori di dette opere abusive non sanate sono soggetti alle sanzioni di cui al capo I” e che “le stesse sanzioni si applicano, se, presentata la domanda, non viene effettuata l’oblazione dovuta”.
La disciplina dianzi riportata prevede che la domanda di condono si intende accolta, in presenza delle seguenti condizioni:
- ultimazione delle opere abusive entro il 31.12.1993;
- decorso del termine perentorio prefissato per una pronuncia espressa dell’amministrazione comunale;
- pagamento dell’oblazione e degli oneri concessori dovuti;
- produzione della documentazione richiesta;
- denuncia in catasto dell’immobile abusivo.
In omaggio al principio ‘fraus omnia corrumpit’, esclude, poi, la formazione del silenzio-assenso nelle ipotesi di domanda rivelatasi dolosamente infedele per la portata delle omissioni o delle inesattezze in essa riscontrate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.07.2010, n. 4823; TAR Campania, Napoli, sez. III, 25.10.2010, n. 21436; TAR Puglia, Bari, sez. II, 18.11.2011, n. 1762; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 12.09.2012, n. 1517).
Il titolo abilitativo tacito può, dunque, formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di definizione dell’illecito edilizio presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero coelemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché sia abbia silenzio assenso, occorre, cioè, che l’iter amministrativo sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
Secondo il legislatore, la mancata definizione dell’illecito edilizio da parte dell’amministrazione comunale entro il termine perentorio all’uopo prefissato non determina, cioè, ope legis, la regolarizzazione tacita dell'abuso, qualora manchino i presupposti di fatto e di diritto normativamente richiesti, tra cui, segnatamente, quello del completamento delle opere abusive entro la data del 31.12.1993, ovvero qualora la domanda di condono –con specifico riferimento a quest’ultimo presupposto essenziale– rappresenti la realtà, attraverso omissioni o inesattezze rilevanti, in maniera dolosamente infedele (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.07.2004, n. 5039; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.02.2006, n. 2124; Salerno, sez. II, 13.07.2009, n. 3990; Napoli, sez. VIII, 14.07.2011, n. 3849; sez. II, 06.02.2012, n. 585; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 27.05.2009, n. 1627; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 18.09.2012, n. 951; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 12.04.2012, n. 625; Bari, sez. III, 19.04.2012, n. 743)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A norma dell’art. 9, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 nelle c.d. ‘zone bianche’, e cioè nelle zone rimaste sprovviste di strumento urbanistico sono consentiti, al di fuori del perimetro dei centri abitati, interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di mc/mq 0,03.
In proposito, giova rammentare che, a norma dell’art. 9, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001, nonché a norma del comb. disp. artt. 3, comma 1, lett. b, della l.r. Campania n. 17/1982 e 38, comma 3, della l.r. Campania n. 16/2004, nelle c.d. ‘zone bianche’, e cioè nelle zone rimaste sprovviste di strumento urbanistico (segnatamente –come nella specie– per sopravvenuta decadenza dei vincoli espropriativi da questo imposti su di esse: cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.03.2001, n. 1596; sez. IV, 17.07.2002, n. 3999; sez. V, 09.05.2003, n. 2449; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 08.10.2003, n. 5156; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 11.02.2004, n. 201), sono consentiti, al di fuori del perimetro dei centri abitati, interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di mc/mq 0,03 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La normativa consente alla amministrazione comunale di inibire l’attività edilizia prevista dalla d.i.a. entro il termine perentorio di 30 giorni dalla presentazione di quest’ultima.
Ora, ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 241/1990, una simile misura interdittiva, per la sua natura recettizia, acquista efficacia con la sua comunicazione al destinatario e deve, quindi, considerarsi tempestivamente e legittimamente attuata, unicamente se, prima della maturazione del richiamato termine perentorio di 30 giorni, essa sia stata non solo adottata, ma anche notificata.
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Evocando l'autotutela (e, in particolare, l'annullamento d'ufficio), il legislatore … ha voluto solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di 30 giorni per l'esercizio del potere inibitorio, la pubblica amministrazione conserva un potere residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui generis, che si differenzia della consueta autotutela decisoria proprio perché non implica un'attività di secondo grado insistente su un procedente provvedimento amministrativo … il riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990 … consente alla pubblica amministrazione di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell'amministrazione, ma che con l'autotutela classica condivide soltanto i presupposti e il procedimento … in questo senso, deve ritenersi che il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies vada riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i poteri di inibizione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti, nell'osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti dal tali norme … in tal modo, il legislatore, nel recepire l'orientamento giurisprudenziale che ammetteva la sussistenza in capo alla pubblica amministrazione di un potere residuale di intervento anche dopo la scadenza dl termine, si fa pure carico di tutelare l'affidamento che può essere maturato in capo al privato per effetto del decorso del tempo.
Non vi è dubbio, invero, che la d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un privato, sia comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato tempestivo esercizio del potere inibitorio da parte della pubblica amministrazione, di consolidare, analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento espresso, un affidamento meritevole di protezione … tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da parte della pubblica amministrazione, anche perché altrimenti per effetto della d.i.a., si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva del provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela) … ed allora, superando anche i dubbi interpretativi in passato da qualcuno sollevati circa l'esistenza di un residuo potere di intervento da parte della pubblica amministrazione una volta scaduto il termine perentorio di 30 giorni, la l. n. 80/2005, nel riformulare l'art. 19 della l. n. 241/1990, ha precisato che la pubblica amministrazione può vietare lo svolgimento dell'attività ed ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti anche dopo che è scaduto il termine perentorio … lo potrà fare, però, soltanto se vi sono i presupposti per l'esercizio del potere di autotutela (in particolare dell'annullamento d'ufficio) e, quindi, entro un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di interesse pubblico.
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Ai sensi dell’art. 23, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, la d.i.a. può essere presentata da chiunque, non solo essendo proprietario dell’immobile, ma anche vantando altro idoneo titolo di legittimazione, ossia la disponibilità giuridicamente qualificata dello stesso, abbia la facoltà di eseguire i lavori progettati.
Oltre al proprietario dell’immobile interessato dalle opere progettate, possono, cioè, invocare il rilascio del permesso di costruire, i titolari di diritti reali di godimento sullo stesso ovvero di obbligazioni, che accordino la disponibilità del fondo e il relativo ius aedificandi, così da legittimarli, nei confronti sia dell’autorità competente sia dei proprietari, ad eseguire le divisate trasformazioni urbanistico-edilizie del suolo.

Ciò premesso, occorre qui rammentare che, a norma dell’art. 23, commi 1 e 6, del d.p.r. n. 380/2001, “il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno 30 giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie … il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento”.
La disciplina dianzi riportata –previgente alle innovazioni apportate all’art. 19 della l. n. 241/1990 dall’art. 49, comma 4-bis, del d.l. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010, ed applicabile, ratione temporis, alla fattispecie dedotta in giudizio– consente, dunque, alla competente amministrazione comunale di inibire l’attività edilizia prevista dalla d.i.a. entro il termine perentorio (cfr. TAR Abruzzo, L’Aquila, 08.06.2005, n. 433; TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.06.2005, n. 8707) di 30 giorni dalla presentazione di quest’ultima.
Ora, ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 241/1990, una simile misura interdittiva, per la sua natura recettizia, acquista efficacia con la sua comunicazione al destinatario e deve, quindi, considerarsi tempestivamente e legittimamente attuata, unicamente se, prima della maturazione del richiamato termine perentorio di 30 giorni, essa sia stata non solo adottata, ma anche notificata (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.06.2005, n. 8707; 11.04.2008, n. 2093; TAR Liguria, Genova, sez. I, 02.11.2011, n. 1511).
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In proposito, giova rammentare l’arresto di Cons. Stato, sez. VI, 09.02.2009, n. 717: “evocando l'autotutela (e, in particolare, l'annullamento d'ufficio), il legislatore … ha voluto solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di 30 giorni per l'esercizio del potere inibitorio, la pubblica amministrazione conserva un potere residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui generis, che si differenzia della consueta autotutela decisoria proprio perché non implica un'attività di secondo grado insistente su un procedente provvedimento amministrativo … il riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990 … consente alla pubblica amministrazione di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell'amministrazione, ma che con l'autotutela classica condivide soltanto i presupposti e il procedimento … in questo senso, deve ritenersi che il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies vada riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i poteri di inibizione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti, nell'osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti dal tali norme … in tal modo, il legislatore, nel recepire l'orientamento giurisprudenziale che ammetteva la sussistenza in capo alla pubblica amministrazione di un potere residuale di intervento anche dopo la scadenza dl termine, si fa pure carico di tutelare l'affidamento che può essere maturato in capo al privato per effetto del decorso del tempo … non vi è dubbio, invero, che la d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un privato, sia comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato tempestivo esercizio del potere inibitorio da parte della pubblica amministrazione, di consolidare, analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento espresso, un affidamento meritevole di protezione … tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da parte della pubblica amministrazione, anche perché altrimenti per effetto della d.i.a., si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva del provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela) … ed allora, superando anche i dubbi interpretativi in passato da qualcuno sollevati circa l'esistenza di un residuo potere di intervento da parte della pubblica amministrazione una volta scaduto il termine perentorio di 30 giorni, la l. n. 80/2005, nel riformulare l'art. 19 della l. n. 241/1990, ha precisato che la pubblica amministrazione può vietare lo svolgimento dell'attività ed ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti anche dopo che è scaduto il termine perentorio … lo potrà fare, però, soltanto se vi sono i presupposti per l'esercizio del potere di autotutela (in particolare dell'annullamento d'ufficio) e, quindi, entro un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di interesse pubblico”.
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Ed invero, ai sensi dell’art. 23, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, la d.i.a. può essere presentata da chiunque, non solo essendo proprietario dell’immobile, ma anche vantando altro idoneo titolo di legittimazione, ossia la disponibilità giuridicamente qualificata dello stesso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.05.2001, n. 2882; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 27.04.2004, n. 1255), abbia la facoltà di eseguire i lavori progettati.
Oltre al proprietario dell’immobile interessato dalle opere progettate, possono, cioè, invocare il rilascio del permesso di costruire, i titolari di diritti reali di godimento sullo stesso ovvero di obbligazioni –come, appunto, la C.M.T. & C.–, che accordino la disponibilità del fondo e il relativo ius aedificandi, così da legittimarli, nei confronti sia dell’autorità competente sia dei proprietari, ad eseguire le divisate trasformazioni urbanistico-edilizie del suolo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.05.2001, n. 2882; TAR Abruzzo, L’Aquila, 06.06.2002, n. 316; TAR Basilicata, Potenza, 24.11. 2003, n. 1007; TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.09.2006, n. 8243; TAR Puglia, Bari, sez. II, 04.06.2010, n. 2250)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessata, non richiede apporti partecipativi di quest’ultima, la quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, è stata, in ogni caso, posta in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive.
Non può, infine, accreditarsi il secondo motivo di ricorso, concernente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio concluso con l’ordinanza n. 10 del 18.02.2008.
Il provvedimento gravato, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessata, non richiedeva, infatti, apporti partecipativi di quest’ultima, la quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, è stata, in ogni caso, posta in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.011.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le caratteristiche del manufatto (tettoia con struttura portante in ferro e legno, bullonata al muro dell’abitazione, senza pilastri di sostegno ed interamente aperta su tre lati) e la sua destinazione al servizio dell’abitazione principale portano ad escludere che essa dia luogo ad una autonoma costruzione e a nuovo volume edilizio.
In proposito, deve infatti richiamarsi l’indirizzo espresso da questa Sezione secondo cui, in materia urbanistico–edilizia, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base coperto e due superfici verticali contigue, e tale presupposto non si riscontra nel caso di una tettoia aperta su tutti i lati.
Le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono pur richiedendo il previo rilascio del permesso di costruire qualora esse attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.

E’ errato il presupposto logico–giuridico sul quale si fonda il costrutto argomentativo delle ricorrenti, secondo cui la realizzazione della tettoia in esame darebbe luogo ad una “nuova costruzione”, come tale assoggettata al rispetto delle prescrizioni sulle distanze minime.
In senso contrario, le caratteristiche del manufatto (tettoia con struttura portante in ferro e legno, bullonata al muro dell’abitazione, senza pilastri di sostegno ed interamente aperta su tre lati) e la sua destinazione al servizio dell’abitazione principale portano ad escludere che essa dia luogo ad una autonoma costruzione e a nuovo volume edilizio.
In proposito, deve infatti richiamarsi l’indirizzo espresso da questa Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.02.2013 n. 789) secondo cui, in materia urbanistico–edilizia, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base coperto e due superfici verticali contigue, e tale presupposto non si riscontra nel caso di una tettoia aperta su tutti i lati.
Né la ricorrente può trarre utili elementi a sostegno della propria tesi difensiva dall’orientamento della Corte di Cassazione (Sez. VI, 02.10.2012 n. 1676), secondo cui la realizzazione di una struttura con tettoia è da considerarsi come una costruzione ai fini della misurazione delle distanze legali tra edifici. In realtà, la ricorrente trascura di considerare che, nel precedente citato, si controverteva di un manufatto (struttura metallica con tettoia realizzata in violazione delle distanze legali) idoneo a determinare autonoma volumetria, circostanza che non ricorre nella fattispecie in esame nella quale, come si è visto, si è in presenza di una struttura completamente aperta su tre lati sprovvista di pilastri ed infissa al muro perimetrale del fabbricato.
Neppure può ritenersi che tale tettoia sia destinata ad estendere ed ampliare la consistenza dell’edificio al quale accede, tenuto conto della indiscutibile sussistenza di un rapporto di pertinenzialità del bene con l’abitazione della controinteressata. In argomento, si è difatti affermato che le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono (TAR Lazio Latina, 03.03.2010 n. 205; TAR Piemonte, 12.06.2002 n. 1205 e 21.12.2002 n. 2155) pur richiedendo il previo rilascio del permesso di costruire qualora esse attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2396 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. 380/2001 ed in vista del rilascio del permesso di costruire, è necessario che esistano –ovvero se ne preveda l’imminente realizzazione– almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, in modo che la zona possa dirsi atta a soddisfare adeguatamente le esigenze indotte dal nuovo insediamento abitativo.
Compito primario della pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale che valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della L. 847/1964 e comprendono fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, spazi di sosta o di parcheggio nonché strade residenziali.

Deve rammentarsi che, ai sensi dell’art.12 del D.P.R. 380/2001 ed in vista del rilascio del permesso di costruire, è necessario che esistano –ovvero se ne preveda l’imminente realizzazione– almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, in modo che la zona possa dirsi atta a soddisfare adeguatamente le esigenze indotte dal nuovo insediamento abitativo (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 25.09.2012 n. 3942 e 22.02.2010 n. 1091).
Compito primario della pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale che valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della L. 847/1964 e comprendono fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, spazi di sosta o di parcheggio nonché strade residenziali
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pronuncia di decadenza del permesso di costruire è espressione di un potere strettamente vincolato, ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ed ha decorrenza ex tunc (secondo l'art. 15 dpr 380/2001 "Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”).
Inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo abilitativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine (e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore).

Peraltro, ai sensi dell'art. 15, secondo comma, T.U. Edilizia e alla luce dell’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, 23.02.2012 n. 974), la pronuncia di decadenza del permesso di costruire è espressione di un potere strettamente vincolato, ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ed ha decorrenza ex tunc (secondo la menzionata disposizione “Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”).
Inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo abilitativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine (e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per determinare il carattere essenziale o meno di una variante alla concessione edilizia si deve avere riguardo al risultato complessivo dell'intervento costruttivo, per cui il relativo giudizio va formulato, non già esaminando l'intervento stesso nei suoi singoli elementi, ma valutando l'insieme delle modificazioni apportate al progetto originario, con particolare riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o quantitativo, quali la superficie coperta, il perimetro, la volumetria e le caratteristiche funzionali e strutturali dell'edificio.
In argomento, giova rammentare il tradizionale orientamento giurisprudenziale, secondo il quale per determinare il carattere essenziale o meno di una variante alla concessione edilizia si deve avere riguardo al risultato complessivo dell'intervento costruttivo, per cui il relativo giudizio va formulato, non già esaminando l'intervento stesso nei suoi singoli elementi, ma valutando l'insieme delle modificazioni apportate al progetto originario (Consiglio di Stato, Sez. V, 03.08.2004 n. 5429; 22.01.2003 n. 249; 18.10.2001 n. 5496; TAR Puglia, Bari, 14.12.2006 n. 4355), con particolare riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o quantitativo, quali la superficie coperta, il perimetro, la volumetria e le caratteristiche funzionali e strutturali dell'edificio (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: - la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001;
- l'art. 87 del codice delle comunicazioni prevede al nono comma che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda … non sia stato comunicato un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte dell'organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36…”;
- la ratio della summenzionata disposizione va ricercata nella previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990;
- è evidente che tali criteri risulterebbero irrimediabilmente vanificati se il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro procedimento, anche di natura edilizia.
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E' illegittimo un regolamento comunale in tema di fissazione dei criteri per la localizzazione delle SRB laddove l'ente territoriale si sia posto quale obiettivo (non dichiarato, ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare) quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di radiocomunicazione, ad esempio attraverso la fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da particolari tipologie d'insediamenti abitativi, essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-Regioni dell'art. 117 Cost..
Al riguardo, si è inoltre precisato che occorre distinguere tra criteri localizzativi (consentiti) e limitazioni alla localizzazione (vietate) ritenendo che “è consentito alle Regioni ed ai Comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti de quibus, nell’ambito della funzione di definizione degli ‘obiettivi di qualità’ …. di cui all’art. 3, comma 1, lettera d, ed all’art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge quadro (n.d.r. L. 22.02.2001 n. 36); non è invece consentito introdurre limitazioni alla localizzazione.
Sono criteri localizzativi (legittimi, ancorché espressi ‘in negativo’) i divieti di installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici; sono, invece, limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico–artistici o individuati come edifici di pregio storico–architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi.
In conclusione, i comuni possono legittimamente vietare l’installazione su specifici edifici e dettare criteri distanziali concreti, omogenei e specifici. Non possono introdurre misure di cautela distanziali generiche ed eterogenee”.

Orbene, quanto al primo rilievo, ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm. il Collegio non ritiene di discostarsi dalla richiamata pronuncia di questo TAR n. 426/2012, secondo cui:
- la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001 (cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.04.2010 n. 2436 e 15.07.2010 n. 4557);
- l'art. 87 del codice delle comunicazioni prevede al nono comma che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda … non sia stato comunicato un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte dell'organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36…”;
- la ratio della summenzionata disposizione va ricercata nella previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990;
- è evidente che tali criteri risulterebbero irrimediabilmente vanificati se il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro procedimento, anche di natura edilizia (cfr. anche TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 05.06.2009 n. 3098);
- in data 29.09.2010 la società Vodafone inoltrava istanza di autorizzazione ex art. 87 e, rispetto a tale dies a quo ed in mancanza di atti di autotutela del Comune di Sessa Aurunca, è maturato il termine di 90 giorni per il silenzio–assenso ex art. 87, nono comma, D.Lgs. 259/2003 con la conseguenza che l’intervento edilizio della ricorrente deve ritenersi assistito da idoneo titolo abilitativo (cfr. TAR Napoli, 426/2012).
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Nel merito, l’impugnazione della citata delibera è fondata alla luce dell’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7128; 28.04.2010 n. 2436; 20.12.2002 n. 7274; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 14.07.2005 n. 9668 e Sez. I, 10.03.2005 n. 1708).
In argomento, si è condivisibilmente osservato che è illegittimo un regolamento comunale in tema di fissazione dei criteri per la localizzazione delle SRB laddove l'ente territoriale si sia posto quale obiettivo (non dichiarato, ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare) quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di radiocomunicazione, ad esempio attraverso la fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da particolari tipologie d'insediamenti abitativi (come nella fattispecie in esame), essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-Regioni dell'art. 117 Cost..
Al riguardo, si è inoltre precisato (TAR Napoli, sent. cit. 9668/2005) che occorre distinguere tra criteri localizzativi (consentiti) e limitazioni alla localizzazione (vietate) ritenendo che “è consentito alle Regioni ed ai Comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti de quibus, nell’ambito della funzione di definizione degli ‘obiettivi di qualità’ …. di cui all’art. 3, comma 1, lettera d, ed all’art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge quadro (n.d.r. L. 22.02.2001 n. 36); non è invece consentito introdurre limitazioni alla localizzazione. Sono criteri localizzativi (legittimi, ancorché espressi ‘in negativo’) i divieti di installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici; sono, invece, limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico–artistici o individuati come edifici di pregio storico–architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi. In conclusione, i comuni possono legittimamente vietare l’installazione su specifici edifici e dettare criteri distanziali concreti, omogenei e specifici. Non possono introdurre misure di cautela distanziali generiche ed eterogenee
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive non deve essere preceduta né dalla comunicazione di avvio del procedimento, attesa la situazione di urgenza in cui intervengono tali provvedimenti e data la loro natura strettamente vincolata, né dalla comunicazione di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, trattandosi di procedimenti d’ufficio.
In merito alla rappresentazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 31 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, per l’irrogazione della sanzione demolitoria, è sufficiente che l’amministrazione deduca la natura abusiva delle opere realizzate, nel caso di specie specificamente indicata nel provvedimento impugnato.
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L’esistenza di un sequestro giudiziario di edifici abusivamente realizzati e delle relative aree di insistenza non costituisce un’oggettiva condizione di impossibilità di adempimento all’ingiunzione di demolizione, dovendo il soggetto onerato procedere a richiedere il dissequestro all’autorità competente, iniziativa che non risulta mai adottata nel caso in esame.

Quanto al ricorso introduttivo, se ne deve dichiarare l’infondatezza; innanzitutto, secondo costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive non deve essere preceduta né dalla comunicazione di avvio del procedimento, attesa la situazione di urgenza in cui intervengono tali provvedimenti e data la loro natura strettamente vincolata (da ultimo Consiglio di Stato sez. VI 29.11.2012 n. 6071; TAR Campania Napoli sez. II 04.02.2013 n. 700), né dalla comunicazione di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/1990, trattandosi di procedimenti d’ufficio.
Quanto alla carenza di motivazione, va rilevato che, in merito alla rappresentazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 31 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, per l’irrogazione della sanzione demolitoria, è sufficiente che l’amministrazione deduca la natura abusiva delle opere realizzate, nel caso di specie specificamente indicata nel provvedimento impugnato (Consiglio di Stato sez. VI 28.01.2013 n. 496; TAR Napoli Campania sez. VII 08.02.2013 n. 826).
Riguardo al terzo motivo, osserva il Collegio che non potrebbe giammai consentirsi all’amministrazione di non adottare ordini di demolizione relativi ad opere accertate come abusive, nel caso di specie per carenza di titolo abilitativo, dal momento, in assenza di un’istanza ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. 06.06.001 n. 380, la contrarietà alla disciplina urbanistica consiste tout court nella mancanza del titolo edilizio abilitativo fin dal momento dell’edificazione.
Quanto alla mancata valutazione da parte del Comune di Aversa della possibilità di applicare sanzioni alternative, argomento dedotto con la quarta censura, rileva il Collegio che, nel caso in esame, la demolizione ha riguardato immobili realizzati in assenza del permesso di costruire, come tali ricadenti nella fattispecie di cui all’art. 31 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 che non ammette soluzioni alternative alla demolizione.
Nemmeno meritevole di accoglimento è l’ultima censura, dal momento che i manufatti da demolire sono stati adeguatamente identificati, aggiungendosi a tale rilievo che, in ogni caso, un più puntuale accertamento è richiesto nell’eventuale fase di acquisizione dei beni al patrimonio indisponibile comunale (TAR Napoli Campania sez. III 15.01.2013 n. 294; TAR Napoli Campania sez. III 20.11.2012 n. 4647).
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Rileva il Collegio che l’esistenza di un sequestro giudiziario di edifici abusivamente realizzati e delle relative aree di insistenza non costituisce un’oggettiva condizione di impossibilità di adempimento all’ingiunzione di demolizione, dovendo il soggetto onerato procedere a richiedere il dissequestro all’autorità competente, iniziativa che non risulta mai adottata nel caso in esame (TAR Campania Napoli, sez. VII 10.05.2012 n. 2175; TAR Campania, Napoli, VII, 01.09.2011, n. 4259; TAR Campania, Napoli, Sezione II, 30.10.2006, n. 9243; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 04.02.2003, n. 614) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.05.2013 n. 2386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato, deve essere collegata alla data in cui sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario -salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di decadenza decorre dunque dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito.
Per giunta, sempre nel caso di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga affatto il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede giurisdizionale, dato che, ad esempio, potrebbe trattarsi di un’edificazione abusiva; pertanto il termine decadenziale per l'impugnazione decorre solo dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o dal contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio.

Quanto alla tardività dell’impugnata concessione, si deve ricordare che la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato, deve essere collegata alla data in cui sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario -salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di decadenza decorre dunque dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3358).
Per giunta, sempre nel caso di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga affatto il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede giurisdizionale, dato che, ad esempio, potrebbe trattarsi di un’edificazione abusiva; pertanto il termine decadenziale per l'impugnazione decorre solo dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o dal contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio (cfr., fra le molte, Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
In conseguenza, contrariamente a quanto vorrebbe l’appellante, la fattura che proverebbe la realizzazione ad una certa data dei rustici da parte dell’appellata è inconferente, in quanto non vi è comunque sicurezza che fossero materialmente apprezzabili le caratteristiche essenziali, la legittimità, la destinazione specifica delle opere e la reale portata dell'intervento qui in contestazione.
Nel dubbio deve infatti farsi applicazione dei principi generali di cui all’art. 24 ed all’art. 113 Cost., per cui la tutela dei diritti e interessi legittimi in giudizio è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e non può essere pregiudicato da formalismi non strettamente ed assolutamente necessari all’economia processuale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da una costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che possono pregiudicare la loro posizione per l’incisione delle condizioni dell'area e, più in generale, per le modifiche all'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona ove sono ricompresi gli immobili di cui hanno la disponibilità, senza che sia necessaria la prova di un danno specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno a tutti i membri di quella collettività.
Infatti, se l'art. 31, comma 9, L. 17.08.1942 n. 1150 (come modificato dall'art. 10 L. 06.08.1967 n. 765) non ha introdotto un'azione popolare, nondimeno ha riconosciuto una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di “stabile collegamento” con la zona stessa.
Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, atteso che l'esistenza della suddetta posizione legittimante abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli potrebbero arrecare.

I proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da una costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che possono pregiudicare la loro posizione per l’incisione delle condizioni dell'area e, più in generale, per le modifiche all'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona ove sono ricompresi gli immobili di cui hanno la disponibilità, senza che sia necessaria la prova di un danno specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno a tutti i membri di quella collettività (cfr. Consiglio Stato sez. IV n. 284 del 23/01/2012; Consiglio Stato sez. IV 13.01.2010 n. 72).
Infatti, se l'art. 31, comma 9, L. 17.08.1942 n. 1150 (come modificato dall'art. 10 L. 06.08.1967 n. 765) non ha introdotto un'azione popolare, nondimeno ha riconosciuto una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di “stabile collegamento” con la zona stessa.
Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, atteso che l'esistenza della suddetta posizione legittimante abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli potrebbero arrecare (cfr. Consiglio Stato, Sez. VI 15.06.2010 n. 3744)
(Consiglio di Stato. Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non risulta che la “giurisprudenza costituzionale” dia la prevalenza all’edificazione rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali.
Al contrario, la visione “costituzionalmente orientata” della materia è ancorata all’art. 9 della Cost., che inserisce la “tutela del paesaggio” nelle disposizioni fondamentali, sull’implicito insegnamento di Benedetto Croce il quale, all’epoca Ministro della Pubblica Istruzione, aveva affermato che “… il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della Patria...” (così la relazione di accompagnamento al primo disegno di legge in materia del 1920).
In tale scia, il Giudice delle leggi, superando il significato meramente estetico di “bellezza naturale”, ha configurato il paesaggio nella sua unitarietà come il “complesso dei valori inerenti il territorio”, e l’ambiente come bene “primario” ed “assoluto”.
La Corte Costituzionale -in conformità ai principi costituzionali e con riguardo all'applicazione della Convenzione europea sul paesaggio, adottata a Firenze il 20.10.2000- ha affermato che l’oggetto della tutela del paesaggio non è il concetto astratto delle "bellezze naturali" ma l'insieme delle terre, acque, vegetazione, beni materiali, cose e le loro composizioni. Pertanto la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, è un valore che precede la tutela -e che comunque costituisce un limite per gli altri interessi pubblici e privati- in materia edilizia, di governo del territorio, e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali.
In tale prospettiva la disciplina legislativa in materia di ricostruzione post-terremoto non può essere affatto derogatoria della disciplina ambientale, per cui l'opera di ricostruzione del patrimonio edilizio danneggiato dal sisma non può avvenire con sacrificio del valore ambientale.

Inoltre alla Sezione non risulta che la “giurisprudenza costituzionale” (del resto nemmeno indicata dagli appellanti) dia la prevalenza all’edificazione rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali.
Al contrario, la visione “costituzionalmente orientata” della materia è ancorata all’art. 9 della Cost., che inserisce la “tutela del paesaggio” nelle disposizioni fondamentali, sull’implicito insegnamento di Benedetto Croce il quale, all’epoca Ministro della Pubblica Istruzione, aveva affermato che “… il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della Patria...” (così la relazione di accompagnamento al primo disegno di legge in materia del 1920).
In tale scia, il Giudice delle leggi (cfr. Corte Cost., 07.11.1994, n. 379; 05.05.2006, nn. 182, 183; 22.07.2004 n. 259), superando il significato meramente estetico di “bellezza naturale”, ha configurato il paesaggio nella sua unitarietà come il “complesso dei valori inerenti il territorio”, e l’ambiente come bene “primario” ed “assoluto”. La Corte Costituzionale -in conformità ai principi costituzionali e con riguardo all'applicazione della Convenzione europea sul paesaggio, adottata a Firenze il 20.10.2000- ha affermato che l’oggetto della tutela del paesaggio non è il concetto astratto delle "bellezze naturali" ma l'insieme delle terre, acque, vegetazione, beni materiali, cose e le loro composizioni. Pertanto la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, è un valore che precede la tutela -e che comunque costituisce un limite per gli altri interessi pubblici e privati- in materia edilizia, di governo del territorio, e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali (cfr. sentenza cost. n. 182 cit.).
In tale prospettiva la disciplina legislativa in materia di ricostruzione post-terremoto non può essere affatto derogatoria della disciplina ambientale, per cui l'opera di ricostruzione del patrimonio edilizio danneggiato dal sisma non può avvenire con sacrificio del valore ambientale
(Consiglio di Stato. Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi dell'art. 21-quinquies l. 07.08.1990 n. 241 (introdotto dall'art. 14 l. 11.02.2005 n. 15), i presupposti che, in via alternativa, legittimano l'adozione di un provvedimento di revoca, in senso tecnico, di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole da parte dell'Autorità emanante sono rispettivamente;
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse,
b) nuova valutazione dell'interesse pubblico originario;
c) mutamento della situazione di fatto.
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La revoca ha per sua natura effetto ex nunc, per cui non può comportare la retrodatazione degli effetti.

Come la Sezione ha avuto nodo di ricordare (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 31.05.2012 n. 3262), ai sensi dell'art. 21-quinquies l. 07.08.1990 n. 241 (introdotto dall'art. 14 l. 11.02.2005 n. 15), i presupposti che, in via alternativa, legittimano l'adozione di un provvedimento di revoca, in senso tecnico, di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole da parte dell'Autorità emanante sono rispettivamente;
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse,
b) nuova valutazione dell'interesse pubblico originario;
c) mutamento della situazione di fatto.
A quest’ultima ipotesi deve essere ricondotto il caso in esame. La revoca era stata adottata in immediata esecuzione di una sentenza del giudice amministrativo n. 7609/2005. Tuttavia il TAR -nel ritenere illegittima, con un’interpretazione costituzionalmente orientata, la preclusione ex lege alla riammissione del ricorrente nel Corpo della Polizia penitenziaria- non aveva toccato specificamente la questione dell’effettiva idoneità dello stesso ad assolvere le funzioni proprie del servizio di istituto.
Pertanto il provvedimento con cui si poneva nel nulla il passaggio al ruolo civile non poteva essere configurabile in termini di “annullamento”, in quanto tale fattispecie presuppone l’illegittimità di un atto presupposto, che nel caso non sussiste.
Il transito ai ruoli civili era stato conseguenza non di un atto illegittimo dell’amministrazione, ma da un’infermità invalidante che aveva afflitto il ricorrente.
Per questo, nel caso in esame, è esatta la qualificazione del provvedimento in termini di “revoca” ex art. 21-quinquies cit., in quanto: a) il transito ai ruoli civili era originariamente legittimo siccome conseguente all’inidoneità fisica ai servizi di istituto; b) sennonché, a seguito dell’evoluzione positiva delle condizioni sanitarie del dipendente, detto transito non corrispondeva più alla situazione di fatto dell’interessato, il che appunto giustificava la “revoca”.
In conseguenza ha ragione il primo giudice quando ricorda che:
- la revoca ha per sua natura effetto ex nunc, per cui non può comportare la retrodatazione degli effetti;
- nel caso in esame il termine “revoca” è stato esattamente utilizzato dall’amministrazione, perché “… lo status precedentemente posseduto dal Sig. Cristiani è stato rimosso non già per illegittimità del provvedimento che lo aveva statuito, bensì per la sopravvenienza di una diversa situazione in fatto –la sua guarigione– che ha comportato la sua idoneità, accertata dall’organo dell’Amministrazione a ciò competente, ad assumere la nuova posizione nella Polizia penitenziaria”.
In tale prospettiva, l’esigenza di impugnare tempestivamente il decreto del 2006 derivava in realtà dalla necessità impedire il consolidamento del predetto, relativamente alla fissazione della data di decorrenza della riammissione.
In assenza di disposizioni speciali (che qui non risultano), tale momento aveva comunque rilievo decisivo ai fini giuridici, economici, e di carriera a prescindere dal momento in cui sarebbero stati adottati i conseguenti atti di inquadramento stipendiale e di inserimento in ruolo.
In simile ipotesi, in assenza di una specifica disposizione di legge, non è, infatti, possibile concepire un servizio nella Polizia Penitenziaria utile ai fini dell’avanzamento che possa essere computato antecedentemente alla decorrenza fissata in sede di rientro nel Corpo.
In sostanza, il decreto 2006 avrebbe dovuto essere impugnato nei termini dall’appellante, in quanto la riammissione al 15.12.2006 restava definitivamente fissata -senza alcuna possibilità di successive variazioni- la data della ripresa del servizio a tutti i fini, ivi compresa anche la decorrenza del periodo necessario per maturare il passaggio al ruolo di assistente ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 443 del 1992 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di esecuzione di sanzioni amministrative per abusi edilizi, la sussistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo non può affatto costituire, per il responsabile, un’esimente per l’inosservanza dell’ordine di demolizione del manufatto medesimo, ben potendo –ed anzi dovendo- l’interessato farsi parte attiva per chiedere alla competente A.G. la revoca del sequestro al fine di dare esecuzione all’ordine suddetto.
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L’acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime sono atti dovuti, consequenziali, connessi e conseguenti all’inottemperanza che non richiedono particolare ed ulteriore motivazione.
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Nell'ambito di un procedimento amministrativo per la demolizione di opere abusive, non è necessaria la rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di demolizione.
In assenza di un’esplicita norma di legge, per poter affermare l’inefficacia sopravvenuta delle ordinanze sul piano procedimentale sarebbe stato necessario un provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull’istanza di sanatoria. In caso contrario il riesame negativo circa l'abusività dell'opera, che è provocato dall'istanza di sanatoria, se porta alla formazione di un provvedimento di rigetto, non dà luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica e quindi costituisce un tipico atto conformativo del precedente provvedimento sanzionatorio.

Come già ricordato in sede cautelare, in materia di esecuzione di sanzioni amministrative per abusi edilizi, la sussistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo non può affatto costituire, per il responsabile, un’esimente per l’inosservanza dell’ordine di demolizione del manufatto medesimo, ben potendo –ed anzi dovendo- l’interessato farsi parte attiva per chiedere alla competente A.G. la revoca del sequestro al fine di dare esecuzione all’ordine suddetto (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 20.01.2010, n. 299).
L'argomentazione della società appellante avrebbe potuto trovare legittimo ingresso in questa sede solo in presenza di un esplicito rifiuto dell'autorità giudiziaria sull’istanza di dissequestro a fini demolitori dell'interessato.
Né occorreva alcuna specificazione nel provvedimento circa le attività necessarie per consentire all'autore dell'abuso di rispettare l’ordine di demolizione dell’autorità, e di evitare quindi le conseguenze della sua attività illecita.
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L’acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime sono atti dovuti, consequenziali, connessi e conseguenti all’inottemperanza che non richiedono particolare ed ulteriore motivazione (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.03.2011, n. 1793).
In conseguenza, del tutto inconferente è la presunta incoerenza del provvedimento con i precedenti ordini di demolizione, dato che l’art. 31 del DPR 06/06/2001 n. 380 struttura l’acquisizione come effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione (…sono acquisiti di diritto …).
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La doglianza non merita adesione.
L’appellante, infatti, non oppone nulla di concreto al rilievo del TAR per cui “…l’ordinanza impugnata è stata emanata solo dopo la conclusione del procedimento di condono edilizio avviato con istanza della società in data 13.01.1995 e culminato in un diniego datato 05.04.2004. Ciò significa che il procedimento finalizzato a conseguire la sanatoria dell’abuso edilizio non ha subito alcuna interferenza a causa del parallelo procedimento di repressione dell’abuso ma ha seguito il proprio iter in tutta autonomia giovandosi della naturale sospensione divisata in casi di concomitante esercizio delle potestà di settore.”
Nell'ambito di un procedimento amministrativo per la demolizione di opere abusive, non è dunque necessaria la rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di demolizione (cfr. Consiglio Stato sez. V 09.05.2006 n. 2562).
In assenza di un’esplicita norma di legge, per poter affermare l’inefficacia sopravvenuta delle ordinanze sul piano procedimentale sarebbe stato necessario un provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull’istanza di sanatoria. In caso contrario il riesame negativo circa l'abusività dell'opera, che è provocato dall'istanza di sanatoria, se porta alla formazione di un provvedimento di rigetto, non dà luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica e quindi costituisce un tipico atto conformativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Come tale, non costituiva un fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' infondata la tesi per cui un lotto è da ricondursi a "centro storico” per il solo fatto che ivi insiste un vincolo a suo tempo imposto ex L. 1497 del 1939, posto che così argomentando tutte le aree assoggettate a vincolo paesistico risulterebbero automaticamente classificate sotto il profilo urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n. 3210 chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di aree nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati urbani”, e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante la sua ben evidente marginalità rispetto al centro urbano.
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L’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, laddove impone la distanza di 10 metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma di ordine generale, prevalente anche sulla disciplina regionale eventualmente difforme, e va pertanto applicata anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa l’ipotesi di sopraelevazione.

Convince viceversa il Collegio la censura rimasta assorbita nel giudizio di primo grado e riproposta in via tuzioristica dal Wurthner circa la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, violazione e falsa applicazione dell’art. 11 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, violazione e falsa applicazione dell’art. 31 della L.R. 06.06.2008 n. 16, nonché eccesso di potere per carenza assoluta di istruttoria e di motivazione e difetto del presupposto ed illogicità manifesta: ossia che, sinteticamente, in difformità da tali disposizioni normative il progetto prevede che i muri perimetrali della porzione immobiliare di proprietà Ascheri distino all’incirca 7,15 metri dalle pareti finestrate di proprietà Wurthner.
A fronte dell’eccezione del Comune e dell’Ascheri secondo la quale la disciplina di cui all’art. 9, secondo comma, del D.M. 02.04.1968 n. 1444 –segnatamente contemplata nella misura di 10 metri per i nuovi edifici– non si applica alle zone A così come definite dall’art. 2 dello stesso D.M., la Sezione ha disposto un’istruttoria chiedendo al Comune medesimo di produrre agli atti di causa un certificato di destinazione urbanistica del sito in cui ricade la costruzione Ascheri – Wurthner.
Il documento prodotto certifica che il foglio 8 del mappale n. 972 ricade integralmente nella Zona A.12 del P.U.C. (Piano urbanistico comunale) comprendente l’ambito di conservazione e riqualificazione delle località Pian dei Rossi, Sciarto, Mei, Feu … Torre del Mare, nonché secondo il P.T.C.P. –Piano territoriale di coordinamento paesistico (Assetto insediativo) nella Zona ID-MA– Regime normativo di mantenimento, in Zona COL-ISS del P.T.C.P. (Assetto vegetazionale), secondo il P.T.C.P. (Assetto Geomorfologico) in Zona MO-A – Aree assoggettate a regime normativo di modificabilità di tipo-A.
Lo stesso foglio 8, mappale 972, ricade integralmente nella Carta della suscettività al dissesto dei versanti quale PG1 – Area a suscettività al dissesto bassa, è sottoposta integralmente a vincolo paesistico-ambientale a’ sensi del D.L.vo 22.01.2004 n. 42 ed è inoltre assoggettata integralmente a vincolo idrogeologico a’ sensi della L.R. 16.04.1984 (peraltro ad oggi abrogata dalla L.R. 03.01.2001 n. 1) e del R.D. 30.12.1923 n. 3267.
Secondo la tesi del Comune e dell’Ascheri l’area in questione ricadrebbe nella Zona A contemplata dall’art. 2 del D.M. 1444 del 1968 in quanto ivi si menzionano “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”, e l’ambito A.12 del P.U.C. di Bergeggi, con superficie territoriale di mq. 540.146 è definito da tale strumento di pianificazione “della grande edificazione residenziale per la seconda casa”, completato da “vaste aree boscate di notevole pregio ambientale, soprattutto sul versante a mare”.
Sempre secondo il Comune il vincolo paesaggistico introdotto sull’area medesima a’ sensi del D.M. 06.04.1957 emanato sulla base dell’allora vigente L. 29.06.1939 n. 1497 in tal senso dirimente, posto che ivi si definisce l’area stessa di “una bellezza paesistica costituente un quadro naturale unitamente all’isolotto omonimo”.
In dipendenza di tutto ciò, quindi, la distanza di cui trattasi –ossia “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”– non si applicherebbe al caso di specie, stante la vigenza della disciplina specificamente contemplata relativamente alla zona A “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni”, laddove –per l’appunto- “le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”.
Né, da ultimo, andrebbe sottaciuto che la distanza predetta di m. 10 non si applicherebbe se i fabbricati non hanno tra loro pareti contrapposte (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.2005 n. 5348), stante il fatto che la relativa disciplina non è deputata alla tutela del diritto alla riservatezza, ma alla “salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie”, nella specie non sussistenti (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2013 n. 354).
Orbene, ad avviso del Collegio risulta innanzitutto infondata la tesi che riconduce l’ambito A.12 – Torre di Porto a “centro storico” per il solo fatto che ivi insiste un vincolo a suo tempo imposto ex L. 1497 del 1939, posto che così argomentando tutte le aree assoggettate a vincolo paesistico risulterebbero automaticamente classificate sotto il profilo urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n. 3210 chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di aree nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati urbani”, e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante non solo la sua ben evidente marginalità rispetto al centro urbano di Bergeggi, ma anche –e soprattutto– sia la circostanza che l’art. 28 del P.U.C. la definisce quale ambito della “grande edificazione residenziale della seconda casa, realizzata fra gli anni ’50 e ’90, costituito da grandi condomίni e ville unifamiliari”, sia l’avvenuta inclusione nel previgente P.R.G. della zona di “Torre del Mare” in zona SR, espressamente equiparata dal Piano stesso a Zona B.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la tesi dell’Ascheri secondo la quale il suo progetto sarebbe una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Tale tesi risulta infatti smentita dalla giurisprudenza, come ad es. Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011 n. 5759, anche sulla scorta di Cass., Civ., Sez. II, 27.03.2001 n. 4413.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la tesi dell’Ascheri, secondo la quale il suo progetto sarebbe una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Va, infatti, in primo luogo evidenziata l’intrinseca contraddittorietà della tesi dell’Ascheri secondo la quale la distanza di m. 10 non si applicherebbe alle ipotesi di “edificio unico”, come –per l’appunto– nel caso in esame, posto che l’Ascheri medesimo ha ben più fondatamente sostenuto per l’innanzi, anche con l’adesione di questo stesso giudice, che l’edificio di cui trattasi non costituisce un “condominio” ma due unità abitative tra di loro autonome.
Ma, soprattutto, è assorbente la constatazione, derivante dalla giurisprudenza dianzi citata, che l’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, laddove impone l’anzidetta distanza di 10 metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma di ordine generale, prevalente anche sulla disciplina regionale eventualmente difforme, e va pertanto applicata anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa l’ipotesi di sopraelevazione (cfr. sul punto, ad es., Cass. Civ., Sez. II, 27.03.2001 n. 4413)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può per certo configurarsi congruamente motivato l’assunto della Commissione locale per il paesaggio secondo il quale “la soluzione progettuale determina un sensibile miglioramento dell’assetto compositivo del fabbricato preesistente”, posto che tale assunto è carente di qualsivoglia giudizio in ordine all’impatto che la nuova realizzazione edilizia avrà sul territorio e che, dalle fotografie e dalle prefigurazioni dello stato di fatto quale risulterà all’esito dei lavori, si ricava che sarà apportato un rilevante mutamento sotto il profilo paesaggistico, la cui compatibilità con i piani vigenti a tale riguardo avrebbe dovuto essere giustificata in modo puntuale.
Va inoltre da ultimo respinto il motivo di appello riguardante la carente motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rispetto al contenuto della pianificazione paesaggistica locale, posto che –come ben evidenziato dal giudice di primo grado– non può per certo configurarsi congruamente motivato l’assunto della Commissione locale per il paesaggio secondo il quale “la soluzione progettuale determina un sensibile miglioramento dell’assetto compositivo del fabbricato preesistente”, posto che tale assunto è carente di qualsivoglia giudizio in ordine all’impatto che la nuova realizzazione edilizia avrà sul territorio e che, dalle fotografie e dalle prefigurazioni dello stato di fatto quale risulterà all’esito dei lavori, si ricava che sarà apportato un rilevante mutamento sotto il profilo paesaggistico, la cui compatibilità con i piani vigenti a tale riguardo avrebbe dovuto essere giustificata in modo puntuale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa previsione di penali, per il ritardo nella realizzazione delle opere di urbanizzazione indicate nel piano attuativo, non è affatto incompatibile con i principi della materia. Al contrario, una clausola avente questo contenuto riflette l’intensità dell’interesse pubblico al completamento dell’intervento, ed è coerente con la facoltà di espropriazione nei confronti dei proprietari dissenzienti.
Parimenti, lo scomputo solo parziale del costo dei lavori dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione rientra nei margini normalmente riservati alla negoziazione delle parti.

Sullo schema di convenzione urbanistica
28. Il ricorrente censura anche alcune clausole dello schema di convenzione urbanistica del piano attuativo (penale per i ritardi nella realizzazione delle opere di urbanizzazione, scomputo degli oneri di urbanizzazione limitato a 2/3 dei costi effettivi). Benché in generale l’impugnazione possa essere sostenuta anche da un interesse strumentale, al quale anzi deve essere assicurata ampia estensione a garanzia del diritto di difesa, è pur sempre necessario che l’accoglimento della censura possa portare un risultato utile a chi la propone.
Nello specifico, invece, l’eventuale l’eliminazione delle predette clausole avrebbe il solo effetto di migliorare la posizione economica del soggetto lottizzante, il che dovrebbe favorire e non rallentare o impedire la realizzazione del piano attuativo.
29. Anche tralasciando la questione dell’ammissibilità della censura, si osserva, comunque, che la stessa non è condivisibile nel merito. In particolare, la previsione di penali, per il ritardo nella realizzazione delle opere di urbanizzazione indicate nel piano attuativo, non è affatto incompatibile con i principi della materia. Al contrario, una clausola avente questo contenuto riflette l’intensità dell’interesse pubblico al completamento dell’intervento, ed è coerente con la facoltà di espropriazione nei confronti dei proprietari dissenzienti.
Parimenti, lo scomputo solo parziale del costo dei lavori dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione rientra nei margini normalmente riservati alla negoziazione delle parti (v. CS Sez. IV 28.07.2005 n. 4015; TAR Brescia Sez. I 14.05.2010 n. 1739) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’area del piano attuativo è sottoposta a vincolo paesistico-ambientale, ma il Comune, discostandosi dalla previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942, non ha acquisito l’autorizzazione della Soprintendenza.
Occorre precisare che questo adempimento, pur essendo riferito ai piani particolareggiati, è necessario anche nel caso di lottizzazioni a iniziativa privata. In effetti, le esigenze di tutela ambientale sottese a queste tipologie di piani sono identiche. Vi è poi un elemento formale in questo senso, costituito dall’art. 28, comma 2, della legge 1150/1942. Tale norma, nel descrivere la procedura di approvazione dei piani di lottizzazione, inserisce anche il parere della “competente Soprintendenza”, il che implica una valutazione estesa a interessi pubblici diversi da quelli rimessi alla tutela dei comuni. Tra gli interessi pubblici che devono essere salvaguardati, già nella fase di approvazione dei piani attuativi, rientra a pieno titolo quello paesistico-ambientale. Il parere della Soprintendenza è richiesto indipendentemente dalla presenza formale del vincolo. Qualora, però, un tale vincolo sussista, tanto per l’intervento di una dichiarazione di notevole interesse pubblico, riferita a un bene determinato, quanto per effetto della tutela ex lege dei contesti ambientali, è necessaria una vera e propria autorizzazione paesistica.
La mancata acquisizione dell’autorizzazione paesistica non provoca tuttavia l’illegittimità del piano attuativo, in quanto non impedisce alla Soprintendenza di esercitare le proprie funzioni, ma semplicemente le concentra sui provvedimenti a valle, ovvero sui singoli permessi di costruire. Il rilascio dell’autorizzazione paesistica sul piano attuativo esaurisce, infatti, il potere della Soprintendenza di contestare in seguito, nella procedura di rilascio del permesso di costruire, i progetti delle singole edificazioni con riferimento a scelte urbanistiche o costruttive già esposte nel piano attuativo. Se però la Soprintendenza non è stata coinvolta in precedenza, può svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le valutazioni di carattere urbanistico che avrebbe potuto formulare nei confronti del piano attuativo. In altri termini, il mancato coinvolgimento della Soprintendenza rende inopponibile alla stessa il piano attuativo, e il conseguente rischio è a carico dei lottizzanti.

Sull’autorizzazione paesistica
30. L’area del piano attuativo è sottoposta a vincolo paesistico-ambientale, ma il Comune, discostandosi dalla previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942, non ha acquisito l’autorizzazione della Soprintendenza.
31. Occorre precisare che questo adempimento, pur essendo riferito ai piani particolareggiati, è necessario anche nel caso di lottizzazioni a iniziativa privata. In effetti, le esigenze di tutela ambientale sottese a queste tipologie di piani sono identiche. Vi è poi un elemento formale in questo senso, costituito dall’art. 28, comma 2, della legge 1150/1942. Tale norma, nel descrivere la procedura di approvazione dei piani di lottizzazione, inserisce anche il parere della “competente Soprintendenza”, il che implica una valutazione estesa a interessi pubblici diversi da quelli rimessi alla tutela dei comuni. Tra gli interessi pubblici che devono essere salvaguardati, già nella fase di approvazione dei piani attuativi, rientra a pieno titolo quello paesistico-ambientale. Il parere della Soprintendenza è richiesto indipendentemente dalla presenza formale del vincolo. Qualora, però, un tale vincolo sussista, tanto per l’intervento di una dichiarazione di notevole interesse pubblico, riferita a un bene determinato, quanto per effetto della tutela ex lege dei contesti ambientali, è necessaria una vera e propria autorizzazione paesistica (v. TAR Brescia Sez. I 09.04.2010 n. 1531).
32. La mancata acquisizione dell’autorizzazione paesistica non provoca tuttavia l’illegittimità del piano attuativo, in quanto non impedisce alla Soprintendenza di esercitare le proprie funzioni, ma semplicemente le concentra sui provvedimenti a valle, ovvero sui singoli permessi di costruire. Il rilascio dell’autorizzazione paesistica sul piano attuativo esaurisce, infatti, il potere della Soprintendenza di contestare in seguito, nella procedura di rilascio del permesso di costruire, i progetti delle singole edificazioni con riferimento a scelte urbanistiche o costruttive già esposte nel piano attuativo. Se però la Soprintendenza non è stata coinvolta in precedenza, può svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le valutazioni di carattere urbanistico che avrebbe potuto formulare nei confronti del piano attuativo. In altri termini, il mancato coinvolgimento della Soprintendenza rende inopponibile alla stessa il piano attuativo, e il conseguente rischio è a carico dei lottizzanti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Gare, giovani uniti. Se associati in Rti hanno i requisiti. Il Tar Calabria sui requisiti nelle gare per i progettisti.
Nelle gare di progettazione il giovane professionista, se associato in raggruppamento, non è tenuto a documentare requisiti di qualificazione, ma deve essere abilitato da meno di cinque, anni, iscritto all'albo e avere un preciso ruolo come progettista che gli consenta di acquisire un'utile esperienza formativa.

È quanto afferma il TAR Calabria-Reggio Calabria, con la sentenza 08.05.2013 n. 268, che ha avuto anche modo di precisare che nei raggruppamenti di progettisti il limite minimo per la mandataria vale soltanto in caso di raggruppamenti orizzontali e nell'ambito dei sub raggruppamenti orizzontali.
I giudici hanno preso in esame una gara di progettazione in cui il raggruppamento aggiudicatario, costituito in forma mista, aveva associato un giovane professionista che però non dichiarava né requisiti di qualificazioni, né quote di partecipazione al raggruppamento. Accertata la finalità «promozionale» della norma sul giovane professionista (art. 253, comma 5, del dpr 207/2010) e il fatto che la «presenza» nel raggruppamento può anche non essere assicurata anche soltanto indicando un collaboratore di uno degli associati, il tribunale ha precisato che se il giovane professionista viene associato nel raggruppamento, non risultano comunque operanti anche nei suoi confronti gli obblighi di qualificazione, né l'obbligo (allora vigente) di indicare la quota di partecipazione.
Per il collegio giudicante quel che conta (ed è questa la ratio della legge) è che il giovane professionista, senza assumere responsabilità sproporzionate rispetto alla sua limitata formazione professionale, possa partecipare al servizio di progettazione oggetto dell'appalto maturando esperienze professionali e lavorative. Devono però essere rispettati i paletti posti dal regolamento del Codice (non più di cinque anni dal superamento dell'esame di stato; iscrizione all'albo e coinvolgimento come progettista nella compagine che si candida.
Il fatto che sia stato qualificato come «mandante», in assenza di una specifica previsione di quota partecipativa, «non può assurgere a causa di esclusione del raggruppamento, vista la finalità della previsione normativa e considerato che i requisiti di partecipazione previsti dal bando erano interamente assolti dagli altri professionisti». Un secondo aspetto trattato nella sentenza attiene alla norma del requisito minimo che può essere richiesto dalle Amministrazioni la mandataria di un raggruppamento di progettisti.
A tale riguardo il Tar precisa che l'articolo 261, comma 7, del dpr 207/2010 opera solo nell'ambito dei raggruppamenti orizzontali e che, quindi, nel caso specifico il limite fissato (al 40%) doveva essere verificato non in rapporto all'intero ammontare dell'appalto, ma rispetto alla classe e categoria per la quale era stato costituito il sub raggruppamento orizzontale (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013).

APPALTI: L’informativa antimafia non deve provare l’intervenuta infiltrazione o condizionamento essendo questi un quid pluris non richiesto, ma deve solo dimostrare sufficientemente la sussistenza di elementi dai quali è deducibile il tentativo o il rischio di ingerenza ancor prima del suo concreto realizzarsi, elementi connessi dunque a situazioni anche solo potenzialmente pericolose per la vicinanza tra l’impresa sottoposta alla valutazione del Prefetto e soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità organizzata, nella prospettiva di massima anticipazione della tutela antimafia propria della normativa di riferimento.
Si ricorda al riguardo che l’informativa antimafia non deve provare l’intervenuta infiltrazione o condizionamento essendo questi un quid pluris non richiesto, ma deve solo dimostrare sufficientemente la sussistenza di elementi dai quali è deducibile il tentativo o il rischio di ingerenza ancor prima del suo concreto realizzarsi (Cons. Stato, VI 08.06.2009 n. 349), elementi connessi dunque a situazioni anche solo potenzialmente pericolose per la vicinanza tra l’impresa sottoposta alla valutazione del Prefetto e soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità organizzata, nella prospettiva di massima anticipazione della tutela antimafia propria della normativa di riferimento (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.05.2013 n. 2478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Premesso che il contributo di costruzione è posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, la deroga alla onerosità della concessione ricorre nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge e, per quanto attiene in particolare la lettera f) dell’art. 9, l. citata, se ricorrano due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente e l'altro di carattere oggettivo per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
Nella fattispecie difettano entrambi i requisiti. Invero, il titolare della concessione edilizia non riveste lo status di soggetto pubblico o equiparato, essendo invece una società privata che svolge un’attività commerciale, e l'intervento realizzato non costituisce espletamento di un'attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo le opere edilizie in questione (un complesso ricettivo per anziani) palesemente finalizzate ad assecondare le finalità di lucro proprie del soggetto di diritto privato.
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Deve escludersi la configurazione dell’intervento edilizio quale attrezzatura socio–sanitaria e, quindi, quale opera di urbanizzazione secondaria.
Infatti, trattasi di un complesso immobiliare di circa 16.000 metri cubi da destinare a “residenze e servizi per anziani”, della superficie di metri quadrati 22.710, articolata in 36 mono-alloggi e 36 camere multiple dotate di bagni e servizio autonomo di cucina.
Dal punto di vista strutturale va, quindi, evidenziata una prevalente configurazione di tipo ricettivo o residenziale, piuttosto che quella di una struttura sanitaria, essendo quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza di spazi destinati alla prestazione di servizi propriamente sanitari, mentre, nel caso i servizi ambulatoriali raggiungono complessivamente i 300 metri quadri, a fronte dei servizi residenziali che coprono in tutto una superficie pari a 6.700 metri quadrati.
Non sussistono, quindi, le caratteristiche che consentano di annoverare la struttura tra quelle sanitarie in senso proprio, mancando la prevalenza di spazi destinati alla prestazione di servizi propriamente sanitari.
Ne consegue che l’intervento edilizio non è assolutamente assimilabile ad una struttura sanitaria e non costituisce di conseguenza opera di urbanizzazione.
Peraltro, le opere di urbanizzazione secondaria sono caratterizzate dalla destinazione prioritaria all’uso della generalità degli utenti o, comunque, ad essere messe a disposizione dell'intera collettività, anche se dietro pagamento di un corrispettivo fissato dal Comune in misura tale che consenta il godimento da parte della collettività indifferenziata degli utenti.
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L'art. 10 della legge 28.01.1977 n. 10 distingue, ai fini della determinazione del contributo del costo di costruzione, gli edifici o gli impianti destinati ad attività industriale e artigianale dirette alla trasformazione dei beni e alla prestazione di servizi, dalle costruzioni od impianti destinati ad attività turistiche, commerciali o direzionali, prevedendo per i primi manufatti le agevolazioni contributive ed escludendole per i secondi.
La concessione edilizia qui in questione non rientra tra gli impianti destinati ad attività produttive.
Ad escludere la configurazione di un complesso alberghiero come un'attività produttiva è proprio il dettato normativo sopra indicato che menziona espressamente gli impianti turistici tra i manufatti per i quali il legislatore in base ad una scelta insindacabile ha ritenuto non possa farsi luogo alla concessione del beneficio de quo e non v'è dubbio che l'esistenza di un siffatto dato normativo è di per sé preclusivo di quale che sia interpretazione estensiva.
E questo a prescindere dall'utilizzo dei normali canoni ermeneutici per cui riesce veramente difficile equiparare un complesso di immobili destinati ad un'attività ricettizia ad un'attività industriale di produzione di beni e servizi.

Il Comune di Firenze rilasciava alla società “La Fontenuova s.r.l.” concessione edilizia per la realizzazione di un complesso immobiliare da destinare a “residenza e servizi per anziani” (concessione edilizia n. 163 del 2000), determinando gli oneri ed i contributi di cui alla l. 28.01.1977, n. 10 in lire 517.886.416 per urbanizzazioni primarie; lire 222.628.002 per urbanizzazioni secondarie; lire 1.156.335.850 per contributo sul costo di costruzione.
La società Fontenuova con ricorso al TAR Toscana gravava la suddetta concessione edilizia, assumendone la gratuità ai sensi dell’art. 9, lett. f), della l. n. 10 del 1977 e, in subordine, la parziale gratuità, con esenzione dal solo costo di costruzione ai sensi dell’art. 10, della medesima legge n. 10 del 1977.
Con sentenza n. 1819 del 06.12.2001, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana respingeva il ricorso, non ravvisando nella concessione edilizia di cui trattasi le caratteristiche previste dalla legge per le ipotesi di gratuità totale o parziale.
La società La Fontenuova ha proposto appello avverso la suddetta sentenza di cui chiede l’annullamento o la riforma perché erronea alla stregua dei seguenti motivi:
- violazione dell’articolo 9, lettera f), della l. n. 10 del 1977, che prevede l’esenzione del contributo per le concessioni rilasciate per la realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale da parte degli enti istituzionalmente competenti, ovvero nel caso di opere di urbanizzazioni eseguite anche da privati in attuazione di strumenti urbanistici generali;
- violazione dell’art. 10, comma 1, della l. n. 10 del 1977, che esenta dal pagamento del costo di costruzione le concessioni edilizie volte alla realizzazione di strutture destinate ad un’attività di tipo industriale.
...
L’art. 9, lettera f), della l. 28.01.1977, n. 10 -richiamata dalla società appellante a sostegno del gravame- stabilisce che “Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto (…) f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Premesso che il contributo di costruzione è posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr., Cons. Stato Sez. V, 21.04.2006 n. 2258), la deroga alla onerosità della concessione ricorre nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge e, per quanto attiene in particolare la lettera f) dell’art. 9, l. citata, se ricorrano due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente e l'altro di carattere oggettivo per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale (cfr. Sez. V, 20.10.2004 n. 6818; Sez. VI, 05.06.2007 n.2981; Cons. Stato Sez. IV, 02.03.2011, n. 1332).
Nella fattispecie difettano entrambi i requisiti.
Il titolare della concessione edilizia non riveste lo status di soggetto pubblico o equiparato, essendo invece una società privata che svolge un’attività commerciale, e l'intervento realizzato non costituisce espletamento di un'attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo le opere edilizie in questione (un complesso ricettivo per anziani) palesemente finalizzate ad assecondare le finalità di lucro proprie del soggetto di diritto privato.
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Sotto altro profilo deve escludersi la configurazione dell’intervento quale attrezzatura socio–sanitaria e, quindi, quale opera di urbanizzazione secondaria.
L’intervento edilizio di cui trattasi consiste, infatti, in un complesso immobiliare di circa 16.000 metri cubi da destinare a “residenze e servizi per anziani” realizzato su un’area di particolare pregio paesaggistico sita in Firenze, della superficie di metri quadrati 22.710, articolata in 36 mono-alloggi e 36 camere multiple dotate di bagni e servizio autonomo di cucina.
Dal punto di vista strutturale va, quindi, evidenziata una prevalente configurazione di tipo ricettivo o residenziale, piuttosto che quella di una struttura sanitaria, essendo quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza di spazi destinati alla prestazione di servizi propriamente sanitari, mentre, nel caso i servizi ambulatoriali raggiungono complessivamente i 300 metri quadri, a fronte dei servizi residenziali che coprono in tutto una superficie pari a 6.700 metri quadrati.
Non sussistono, quindi, le caratteristiche che consentano di annoverare la struttura tra quelle sanitarie in senso proprio, mancando la prevalenza di spazi destinati alla prestazione di servizi propriamente sanitari.
Ne consegue che l’intervento edilizio non è assolutamente assimilabile ad una struttura sanitaria e non costituisce di conseguenza opera di urbanizzazione.
Peraltro, le opere di urbanizzazione secondaria sono caratterizzate dalla destinazione prioritaria all’uso della generalità degli utenti o, comunque, ad essere messe a disposizione dell'intera collettività, anche se dietro pagamento di un corrispettivo fissato dal Comune in misura tale che consenta il godimento da parte della collettività indifferenziata degli utenti.
Caratteristiche che non ricorrono nel caso della struttura realizzata dalla società appellante.
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L'art. 10 della legge 28.01.1977 n. 10 distingue, ai fini della determinazione del contributo del costo di costruzione, gli edifici o gli impianti destinati ad attività industriale e artigianale dirette alla trasformazione dei beni e alla prestazione di servizi, dalle costruzioni od impianti destinati ad attività turistiche, commerciali o direzionali, prevedendo per i primi manufatti le agevolazioni contributive ed escludendole per i secondi.
La concessione edilizia qui in questione non rientra tra gli impianti destinati ad attività produttive.
Ad escludere la configurazione di un complesso alberghiero come un'attività produttiva è proprio il dettato normativo sopra indicato che menziona espressamente gli impianti turistici tra i manufatti per i quali il legislatore in base ad una scelta insindacabile ha ritenuto non possa farsi luogo alla concessione del beneficio de quo e non v'è dubbio che l'esistenza di un siffatto dato normativo è di per sé preclusivo di quale che sia interpretazione estensiva.
E questo a prescindere dall'utilizzo dei normali canoni ermeneutici per cui riesce veramente difficile equiparare un complesso di immobili destinati ad un'attività ricettizia ad un'attività industriale di produzione di beni e servizi (cfr., Cons. Stato, sez. IV, n. 4488 del 12.07.2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.05.2013 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mera partecipazione alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso. La situazione legittimante costituita dall'intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità della ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto, la definitiva esclusione o l'accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva.
Tale esito rimane fermo in tutti i casi in cui l'illegittimità della partecipazione alla gara è definitivamente accertata, sia per inoppugnabilità dell'atto di esclusione, sia per annullamento dell'atto di ammissione.

Ed invero, come chiarito dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione n. 4/2011, la mera partecipazione alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso. La situazione legittimante costituita dall'intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità della ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto, la definitiva esclusione o l'accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva.
Tale esito rimane fermo in tutti i casi in cui l'illegittimità della partecipazione alla gara è definitivamente accertata, sia per inoppugnabilità dell'atto di esclusione, sia per annullamento dell'atto di ammissione.
Ne consegue l'inammissibilità del ricorso per non essere AVR legittimata alla relativa proposizione, attesa la acclarata illegittimità della sua ammissione e conseguente partecipazione alla gara per cui e causa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.05.2013 n. 2460 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIChiese vicine? No alle slot-machine. Il Tar Liguria pone limiti ai tabaccai
Dal tabaccaio posizionato vicino alla chiesa si potrà anche acquistare un gratta e vinci ma non si gioca con le slot machine, almeno in Liguria e nelle altre regioni in cui il legislatore è intervenuto.

Lo ha stabilito il TAR Liguria, Sez, II, con la sentenza 07.05.2013 n. 753 che ha respinto il ricorso presentato avverso il diniego opposto dal Comune di Genova.
Secondo il Collegio, in pratica, non è incostituzionale la scelta della Regione di regolamentare la distribuzione delle apparecchiature per il gioco lecito sul territorio, nell'ambito delle competenze spettanti alla Regione in ordine alla tutela della salute e delle politiche sociali, al fine di prevenire il vizio del gioco anche se lecito. Condizioni, queste, cui è del tutto razionalmente preordinata una disciplina uniforme che non avrebbe senso limitare esclusivamente alle sale giochi solo perché le rivendite dei tabacchi hanno già, nel proprio patrimonio, la possibilità di rivendere altri generi di giuochi e scommesse, considerate le differenze strutturali anche in termini di impatto psicologico individuale sull'utenza.
L'impresa ricorrente, peraltro, aveva cercato di sostenere la tesi della competenza esclusiva dello Stato in materia di gioco lecito e che, peraltro, non c'è corrispondenza tra la disciplina delle distanze fissata dalla Regione e le finalità di prevenzione sociale che la legge esplicitamente raffigura. Ma secondo la Sezione, diversi sono i profili di interesse statale e regionale. Nel senso che la legge regionale persegue la tutela sociale e della salute, mentre quella statale assolve a criteri di ordine pubblico.
Del resto, già la Corte costituzionale, con la sentenza 300 del 10.11.2011, aveva rilevato la legittimità della scelta del legislatore (in quel caso la Provincia autonoma di Bolzano) di fissare un limite di distanza tra i luoghi dove è possibile praticare il gioco ed i luoghi cosiddetti sensibili, quali scuole e chiese (articolo ItaliaOggi del 17.05.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti. Inottemperanza all'ordinanza di rimozione e reato permanente.
Il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale di rimozione dei rifiuti, di cui all'art. 255, comma terzo, D.Lgs. n. 152 del 2006, ha natura di reato permanente, nel quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio della fase di consumazione che si protrae sino al momento dell'ottemperanza all'ordine ricevuto (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2013 n. 19461 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica amministrazione non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria la prova del danno subito e la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa.
Si deve quindi verificare se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.

In particolare, si deve ricordare che, per giurisprudenza pacifica, ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica amministrazione non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria la prova del danno subito e la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa.
Si deve quindi verificare se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (fra le più recenti: Consiglio di Stato, sez. IV, 07.01.2013 n. 23; Consiglio di Stato sez. V, 31.07.2012 n. 4337) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.05.2013 n. 2452 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La scelta dei criteri più adeguati dell’offerta economicamente più vantaggiosa costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, impingendo nel merito dell’azione amministrativa è sottratta al sindacato dio legittimità del giudice amministrativo, tranne che in relazione alla natura ed oggetto dell’appalto non sia manifestamente illogica, arbitraria, irragionevole o macroscopicamente viziata da travisamento dei fatti.
Nel criterio di aggiudicazione dell’appalto secondo l’offerta economicamente più vantaggiosa si tiene conto di una pluralità di elementi, quali il prezzo e la qualità, spettando all’amministrazione dare il peso a tali elementi fermo restando che la scelta di siffatti criteri di valutazione pur connotata da ampia discrezionalità, deve avvenire nel rispetto della proporzionalità, ragionevolezza e non discriminazione e sempre con riferimento all’oggetto dell’appalto.
Ebbene, l’inserimento tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica dell’elemento costituito dal costo della futura manutenzione delle opere di ristrutturazione si muove nell’ambito dei parametri di giudizio fissati da una copiosa giurisprudenza di questo Consesso, non appalesandosi la scelta della stazione appaltante illogica, né irragionevole e neppure non pertinente con l’oggetto dell’appalto.
Invero, ancorché si tratti di appalto di esecuzione di opere, non può negarsi o comunque escludersi una stretta connessione logica tra la realizzazione di opere di ristrutturazione e la successiva attività di manutenzione delle stesse, in un rapporto di “variabile dipendente” nel senso che ai fini di una migliore esecuzione delle opere a farsi ben può la stazione appaltante (se non deve) tener conto della proiezione in futuro della “tenuta” nel tempo di tali opere e quindi anche della maggiore o minore spesa che l’Amministrazione sarà “costretta” a sopportare per la connessa, sia pure successiva attività manutentiva ha la sua incidenza sulla qualità delle opere a farsi di guisa che non si vede alcunché di macroscopica (ma neppure minima) illogicità nella scelta di valutare un progetto migliorativo di opere di ristrutturazione alla luce anche della economicità derivante dalla futura manutenzione.

Va opportunamente qui richiamati alcuni principi giurisprudenziali intervenuti in subjecta materia e che debbono fungere da linee-guida per la comprensione e soluzione della problematica qui in rilievo.
Occorre allora premettere che la scelta dei criteri più adeguati dell’offerta economicamente più vantaggiosa costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, impingendo nel merito dell’azione amministrativa è sottratta al sindacato dio legittimità del giudice amministrativo, tranne che in relazione alla natura ed oggetto dell’appalto non sia manifestamente illogica, arbitraria, irragionevole o macroscopicamente viziata da travisamento dei fatti (Cons. Stato Sez. IV 08.06.2007 n. 3103; sez. V 16.02.2009 n. 837).
Così sempre sul punto è stato evidenziato che nel criterio di aggiudicazione dell’appalto secondo l’offerta economicamente più vantaggiosa si tiene conto di una pluralità di elementi, quali il prezzo e la qualità, spettando all’amministrazione dare il peso a tali elementi fermo restando che la scelta di siffatti criteri di valutazione pur connotata da ampia discrezionalità, deve avvenire nel rispetto della proporzionalità, ragionevolezza e non discriminazione e sempre con riferimento all’oggetto dell’appalto (Cons. Stato Sez. V 11.01.2006 n. 28; Sez. V 21.11.2007 n. 5911).
Ebbene, l’inserimento tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica dell’elemento costituito dal costo della futura manutenzione delle opere di ristrutturazione si muove nell’ambito dei parametri di giudizio fissati da una copiosa giurisprudenza di questo Consesso, non appalesandosi la scelta della stazione appaltante illogica, né irragionevole e neppure non pertinente con l’oggetto dell’appalto.
Invero, ancorché si tratti di appalto di esecuzione di opere, non può negarsi o comunque escludersi una stretta connessione logica tra la realizzazione di opere di ristrutturazione e la successiva attività di manutenzione delle stesse, in un rapporto di “variabile dipendente” nel senso che ai fini di una migliore esecuzione delle opere a farsi ben può la stazione appaltante (se non deve) tener conto della proiezione in futuro della “tenuta” nel tempo di tali opere e quindi anche della maggiore o minore spesa che l’Amministrazione sarà “costretta” a sopportare per la connessa, sia pure successiva attività manutentiva ha la sua incidenza sulla qualità delle opere a farsi di guisa che non si vede alcunché di macroscopica (ma neppure minima) illogicità nella scelta di valutare un progetto migliorativo di opere di ristrutturazione alla luce anche della economicità derivante dalla futura manutenzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La Conferenza di servizi –sia c.d. “istruttoria”, sia “decisoria” e, quindi, anche quella propria del modello procedimentale condiviso dagli artt. 4 e 5 del D.P.R. 447 del 1998- non costituisce un organo collegiale ma soltanto un modulo procedimentale (organizzativo) suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti.
Tale istituto di carattere generale, disciplinato dalla L. 241 del 1990 e attuato poi con specifiche variante nelle diverse discipline di settore, è precipuamente finalizzato all’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri, nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale specificatamente conformato dalla legge ed è uno strumento che non comporta pertanto modificazione o sottrazione delle competenze, né modificazione della natura o tipo d’espressione volitiva o di scienza che le amministrazioni sono tenute ad esprimere secondo la disciplina di più “procedimenti amministrativi connessi” o di un solo procedimento nel quale siano coinvolti “vari interessi pubblici”.
Discende quindi da ciò che in sede di conferenza di servizi è ben ammissibile esprimere valutazioni anche attraverso la trasmissione di note scritte, considerato, da un lato, che scopo della conferenza è –come detto innanzi- la massima semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo e che, pertanto, le forme della conferenza stessa vanno osservate nei limiti in cui siano strumentali all’obiettivo perseguito, non potendo far discendere automaticamente dalla inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato della conferenza se lo scopo è comunque raggiunto, e, dall’altro, che la conferenza di servizi non è –per l’appunto- un organo collegiale, a presenza necessaria, ma –come dianzi evidenziato- un modello di semplificazione amministrativa.

Orbene, per quanto attiene al primo profilo di asserita illegittimità, va tenuto presente che ormai da tempo, e comunque già all’epoca dei fatti per cui è ora causa, la giurisprudenza si è consolidata nel senso di ritenere che la Conferenza di servizi –sia c.d. “istruttoria”, sia “decisoria” e, quindi, anche quella propria del modello procedimentale condiviso dagli artt. 4 e 5 del D.P.R. 447 del 1998- non costituisce un organo collegiale ma soltanto un modulo procedimentale (organizzativo) suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 08.05.2007 n. 2107); tale istituto di carattere generale, disciplinato dalla L. 241 del 1990 e attuato poi con specifiche variante nelle diverse discipline di settore, è precipuamente finalizzato all’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri, nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale specificatamente conformato dalla legge ed è uno strumento che non comporta pertanto modificazione o sottrazione delle competenze, né modificazione della natura o tipo d’espressione volitiva o di scienza che le amministrazioni sono tenute ad esprimere secondo la disciplina di più “procedimenti amministrativi connessi” o di un solo procedimento nel quale siano coinvolti “vari interessi pubblici” (cfr. ibidem).
Discende quindi da ciò che in sede di conferenza di servizi è ben ammissibile esprimere valutazioni anche attraverso la trasmissione di note scritte, considerato, da un lato, che scopo della conferenza è –come detto innanzi- la massima semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo e che, pertanto, le forme della conferenza stessa vanno osservate nei limiti in cui siano strumentali all’obiettivo perseguito, non potendo far discendere automaticamente dalla inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato della conferenza se lo scopo è comunque raggiunto, e, dall’altro, che la conferenza di servizi non è –per l’appunto- un organo collegiale, a presenza necessaria, ma –come dianzi evidenziato- un modello di semplificazione amministrativa (cfr. sullo specifico punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 04.01.2002 n. 34 e 11.07.2002 n. 3917) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nelle perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni.
Più specificatamente, si è precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l’intera estensione interessata con l’effetto che anche l’area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti.
La verifica della esistenza o meno di sufficiente capacità edificatoria dell’area sulla quale si chiede il rilascio del titolo ad aedificandum va fatta sulla base del nuovo strumento urbanistico vigente al momento della richiesta dell’assenso a costruire, non potendosi far valere situazioni di “favore” sulla scorta della normativa edilizia esistente all’epoca dell’edificazione di preesistenti edifici.

Questo Consiglio di Stato ha avuto già modo di affermare che un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nelle perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni (Cons. Stato Sez. V 10.02.2000 n. 749).
Più specificatamente, si è precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l’intera estensione interessata (nella specie il comparto edificatorio unitariamente considerato) con l’effetto che anche l’area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti ( Cons. Stato Sez. V 07.11.2002 n. 6128; idem 10.02.2000 n. 749 già citata; Sez. IV 06.08.2012 n. 4482).
Parte ricorrente fonda la legittimità della sua pretesa edificatoria con riferimento alla disciplina urbanistica esistente negli anni “60, ma la verifica della esistenza o meno di sufficiente capacità edificatoria dell’area sulla quale si chiede il rilascio del titolo ad aedificandum va fatta sulla base del nuovo strumento urbanistico vigente al momento della richiesta dell’assenso a costruire, non potendosi far valere situazioni di “favore” sulla scorta della normativa edilizia esistente all’epoca dell’edificazione di preesistenti edifici (Cons. Stato Sez. V 07.11.2002 n. 6128) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quando un provvedimento amministrativo negativo è fondato su una pluralità di motivi, è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento giurisdizionale.
Il Collegio rileva che l’esame della censura risulta sovrabbondante ai fini decisori, in quanto secondo la consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 17.07.2008, n. 3609; V, 06.06.2011, n. 3382; V, 21.10.2011, n. 5683; IV, 06.07.2012, n. 3970), quando un provvedimento amministrativo negativo è fondato su una pluralità di motivi, è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2013 n. 2409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”, così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione.
Una volta che l’amministrazione ha in via generale espresso la propria volontà di riportare talune previsioni del piano particolareggiato ad una esatta corrispondenza con quanto previsto dal PRG, l’obbligo di motivazione è stato già in tal modo assolto, salvo che non si dimostri che il nuovo deliberato, lungi dal ricostituire tale coerenza, abbia un contenuto diverso e/o difforme dal piano regolatore.
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Il termine decadenziale previsto dall’art. 2 l. n. 1187/1968 riguarda solo le “indicazioni del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione (che) incidono su beni determinati e assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione o a vincoli che comportano l’inedificabilità”. Al contrario, ogni altra previsione del Piano regolatore, che costituisce espressione del potere di pianificazione, non può che essere ritenuta vigente e ad essa devono essere coerentemente riportati gli strumenti urbanistici attuativi.

In linea generale, occorre ricordare che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione (si veda anche, Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Tanto premesso –ed a prescindere dalla natura perentoria o meno del termine per la presentazione di dette osservazioni– il Collegio ritiene che, una volta che l’amministrazione abbia in via generale espresso la propria volontà di riportare talune previsioni del piano particolareggiato ad una esatta corrispondenza con quanto previsto dal PRG, l’obbligo di motivazione sia stato già in tal modo assolto, salvo che non si dimostri (ma ciò non accade nel caso di specie) che il nuovo deliberato, lungi dal ricostituire tale coerenza, abbia un contenuto diverso e/o difforme dal piano regolatore.
Quanto al motivo sub c) dell’esposizione in fatto, il Collegio, condividendo quanto affermato dalla sentenza appellata, rileva come il termine decadenziale previsto dall’art. 2 l. n. 1187/1968 riguardi solo le “indicazioni del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione (che) incidono su beni determinati e assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione o a vincoli che comportano l’inedificabilità”. Al contrario, ogni altra previsione del Piano regolatore, che costituisce espressione del potere di pianificazione, non può che essere ritenuta vigente e ad essa devono essere coerentemente riportati gli strumenti urbanistici attuativi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.05.2013 n. 2428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'amministrazione appaltante può esercitare il potere di annullare un procedimento di gara, allorquando non sia intervenuto l'atto conclusivo (aggiudicazione definitiva).
E' legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario.
Inoltre, è stato ripetutamente ribadito che fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche nell'organizzazione del servizio attinenti le concrete modalità di esecuzione, il riassetto societario, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di personale in un quadro di attività concertate in sede sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno, sono tutti profili attinenti al merito dell'azione amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di irragionevolezza; anche il riferimento al risparmio economico derivante dalla revoca è stato ritenuto legittimo motivo della stessa.
Conseguentemente, nel caso di specie, la mera adozione dell'atto di revoca dell'approvazione del progetto posto a base di gara, non costituisce di per sé elusione del giudicato, atteso che, l'amministrazione appaltante può esercitare il potere di annullare un procedimento di gara, allorquando non sia intervenuto l'atto conclusivo (aggiudicazione definitiva) oppure quando, a seguito dell'annullamento giurisdizionale, l'aggiudicazione definitiva sia stata annullata ed il procedimento di gara sia regredito alla fase di valutazione delle offerte presentate, sempre che ne sussistano i presupposti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2400 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: L'affidamento dell'uso e della gestione degli impianti sportivi comunali deve essere qualificato come concessione di pubblico servizio.
Deve essere qualificato come concessione di pubblico servizio l'affidamento dell'uso e della gestione dell'impianto sportivo comunale, in quanto il bene affidato in uso rientra, nella previsione dell'ultimo capoverso dell'art. 826 cod. civ., ossia in quella relativa ai beni di proprietà dei comuni destinati ad un pubblico servizio e perciò assoggettati al regime dei beni patrimoniali indisponibili, i quali, giusto il disposto dell'art. 828, non possono essere sottratti alla loro destinazione.
Su tali beni insiste dunque un vincolo funzionale, coerente con la loro vocazione naturale ad essere impiegati in favore della collettività, per attività di interesse generale; la conduzione di impianti sportivi sottende a tale tipologia di attività, l'ordinamento sportivo è, infatti, connotato da un'organizzazione di stampo pubblicistico, con al vertice il CONI, ente pubblico, e quindi le federazioni sportive, qualificate dalla legge istitutiva di detto ente come organi dello stesso, soggetti incaricate di funzioni di interesse generale, consistenti nella promozione ed organizzazione dello sport (artt. 2, 3 e 5 l. n. 426/1942, istitutiva del CONI) ed invero, oggetto di concessione non è solo il loro uso, ma anche la relativa gestione, trattandosi, di attività rivolta a finalità di pubblico interesse, consistenti nel caso di specie nella fruizione di campi sportivi. Pertanto, nel caso di specie, ricorrono tutti gli indici che la giurisprudenza richiede per qualificare un'attività come servizio pubblico, e cioè:
a) l'imputabilità e la titolarità in capo all'ente pubblico;
b) la sua destinazione a soddisfare interesse di carattere generale della collettività;
c) la predisposizione di un programma di gestione, vincolante per il privato incaricato della gestione, con la previsione obblighi di condotta e l'imposizione di standards qualitativi;
d) il mantenimento in capo all'amministrazione concedente di poteri di indirizzo, vigilanza ed intervento, affinché il programma sia rispettato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2385 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAttenzione al decoro degli edifici, il manufatto che non lo rispetta va abbattuto!
Il manufatto realizzato sopra l’ultimo piano di un condominio che non rispetti il “decoro architettonico” va demolito, anche se compatibile con l’aspetto architettonico complessivo dell’edificio.

È il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.04.2013 n. 10048.
Nel caso in esame, i giudici della Corte d’Appello avevano deciso che il manufatto costruito su una terrazza di un edificio condominiale anche se indecoroso non andava abbattuto poiché rispettava lo stile architettonico del palazzo.
Di avviso contrario la Suprema Corte, secondo la quale la nozione di decoro architettonico (art. 1120 del Codice Civile) è più restrittiva e non coincide con quella di aspetto architettonico (art. 1127 del Codice Civile).
Pertanto, il corpo di fabbrica aggiunto alla preesistente costruzione, pur rispettando in linea di massima l’aspetto architettonico, va abbattuto se arreca un pregiudizio al decoro complessivo dell’edificio, tanto più se si tratta di un manufatto di significativa volumetria, ben visibile all'esterno e tale da alterare le linee originarie dell'intero stabile (16.05.2013 - tratto da www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATARealizzazione autorimesse pertinenziali.
Come si evince in modo univoco dall'esame dell'art. 9, comma 5, L. 122/1989, come modificato dall’art. 10 d.l. 5/2012 la disciplina legislativa consente esclusivamente di trasferire –in epoca successiva alla realizzazione dell'autorimessa- la proprietà del parcheggio con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune; il tutto in deroga alla originaria destinazione del parcheggio ad unità immobiliare già individuata nel titolo edilizio che aveva legittimato la costruzione.
Detta norma, tuttavia, non consente sin dall'inizio la realizzazione del parcheggio senza preventiva individuazione nel titolo edilizio del fabbricato cui l'autorimessa è asservita (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.04.2013 n. 16495 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di strade o piste in zona vincolata.
La realizzazione di strade e piste è soggetta a permesso di costruire, senza alcuna distinzione riguardo alle caratteristiche costruttive, dimensioni e finalità, ritenendosi sempre necessario il titolo abilitativo anche per l’esecuzione di strade o piste sterrate o realizzate su un preesistente tracciato e ciò in quanto trattasi di opere che consentono ed incrementano il traffico veicolare, determinando una trasformazione urbanistica del territorio.
Nel caso di interventi del genere realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico è necessaria l'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2013 n. 16205 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori in zona sismica ed elemento soggettivo del reato.
In materia di costruzioni in zona sismica la colpa dei committenti si può sostanziare nella inosservanza di obblighi imposti dalla legge dei quali essi erano destinatari diretti, attraverso comportamenti negligenti ed imprudenti concretantesi nell'avere omesso di acquisire -assumendo le dovute informazioni presso le autorità amministrative competenti- doverosa cognizione di tutti gli adempimenti necessari per la legittima esecuzione dei lavori edilizi da realizzare (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2013 n. 16182 - tratto da www.lexambiente.it).
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MASSIMA
2. Per completezza espositiva -tenuto conto delle peculiarità costruttive del manufatto oggetto della vicenda in esame- appare opportuno evidenziare che
le disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 del d.P.R. n. 380/2001 si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, stante l'esigenza di massimo rigore nelle zone dichiarate sismiche, che rende necessari i controlli e le cautele prescritte anche quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura ed al cemento armato (vedi Cass., Sez. III: 17.02.2012, n. 6591; 25.01.2011, n. 15412; 03.09.2007, n. 33767; 24.10.2001, n. 38142).
3. In ordine alla eccepita estraneità di Vi.Cr. agli illeciti contestati, deve rilevarsi che, a norma dell'art. 93 del T.U. n. 380/2001 "chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni", in zona sismica, deve farne denuncia all'organo competente con comunicazione alla quale deve essere allegato il progetto firmato da un tecnico autorizzato e dal direttore dei lavori. Le relative opere edilizie, poi, a norma del successivo art. 94, non possono essere iniziate senza preventiva autorizzazione.
L' art. 95 del T.U. n. 380/2001, infine, commina la sanzione penale della sola ammenda, da infliggersi a "chiunque" violi le prescrizioni già contenute nella legge antisismica ed ora nel CAPO IV del citato T.U. (Procedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche) e nei decreti interministeriali di attuazione.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema,
la responsabilità penale per costruzione abusiva può essere affermata quando sussistano elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che l'agente abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con li committente o l'esecutore del lavori abusivi.
Occorre considerare, in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l'attività incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest" bensì pure: dei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; dell'eventuale presenza "in loco" durante l'effettuazione dei lavori; dello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; della richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa) [vedi Cass., Sez. III: 27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi, 10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizauto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone].
Grava sull'interessato, inoltre, l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (vedi Cass., Sez. feriale, 16.09.2003, n. 35537, Vitale).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, il giudice del merito -con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici- ha ricondotto anche all'imputata Cr. l'attività di edificazione in oggetto sui rilievi che essa: era comproprietaria dell'edificio sul cui terrazzo è stata realizzata la nuova struttura; ne aveva la disponibilità giuridica e di fatto; aveva sicuro interesse all'esecuzione delle opere.
Trattasi di elementi indiziari univoci e gravi -non smentiti da elementi di segno diverso- sulla base dei quali correttamente è stato ritenuto il concorso nei reati quanto meno sotto il profilo del rafforzamento morale del disegno criminoso del marito.

EDILIZIA PRIVATA: Impianti fotovoltaici e lottizzazione abusiva.
Anche con riferimento agli impianti fotovoltaici, realizzati in assenza della prescritta autorizzazione, e ipotizzabile il reato di lottizzazione abusiva allorché per le dimensioni dell’impianto, in relazione alla superficie residua del territorio, non risulti salvaguardata la sua utilizzazione agricola e si determini, quindi, lo stravolgimento dell'assetto ad esso attribuito dagli strumenti urbanistici (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.04.2013 n. 15988 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acque pubbliche: la presunzione di demanialità si estende all'intero corso.
Con sentenza 08.04.2013 n. 57, il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha definitivamente ribadito, confermando la decisione n. 1390/2010 del Tribunale delle Acque Pubbliche presso la Corte d’Appello di Milano, che
la mera attitudine di un valletto a ricevere, anche in misura significativa, acque pubbliche ne determina ex lege la demanialità per l'intero suo corso.
Nella fattispecie, i ricorrenti -invocando la riforma della sentenza di primo grado- avevano chiesto che venisse accertata l'assenza di demanialità di un tratto di un valletto, non inserito nell'elenco delle acque pubbliche, senza tuttavia provare la destinazione dello stesso a mero convogliamento delle acque nelle fognature.
E' la mera attitudine del corso d'acqua ad usi di pubblico generale interesse (art. 1 R.D. n. 1755/1933) -intesa come l'"idoneità alla soddisfazione di un interesse pubblico, come la salvaguardia del territorio e dell'ambiente, ovvero riconducibile ad attività ed opera dell'uomo, quali la produzione, l'irrigazione, l'energia, la bonifica, la pesca, desumibile dalla portata delle acque, dall'ampiezza del bacino imbrifero o del sistema idrografico al quale appartengono"-, a determinarne ex lege la demanialità.
Circostanze acclarate nella fattispecie, in ragione dell'ampiezza del bacino e delle opere realizzate a monte del tratto in contestazione, ed irrilevante la mancata inclusione negli elenchi pubblici ex R.D. 523/1904.
Né, d'altra parte, sottolinea il TSAP, si potrebbe giungere alla paradossale conclusione di ritenere sottratto al regime di demanialità esclusivamente un tratto del valletto, dovendosi considerare lo stesso "nella sua interezza" (tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità ordinanza demolizione di prefabbricato metallico, tende a cappottina, pedana in legno e deposito per acqua, in zona paesaggisticamente vincolata.
E’ illegittima l’ordinanza di demolizione per demolizione di prefabbricato metallico, tende a cappottina, pedana in legno e deposito per acqua che insistono sul territorio del Comune di Monte Argentario, in zona paesaggisticamente vincolata, intervenuta a distanza di lungo tempo dall’epoca del posizionamento del manufatto, e per il quale si sono succeduti provvedimenti e comunicazioni, (rilascio di concessione demaniale ed autorizzazione al subingresso, autorizzazione all’installazione dell’insegna, parere favorevole all’ampliamento della concessione demaniale) che hanno generato negli interessati un ragionevole affidamento.
Pur condividendo il principio giurisprudenziale assolutamente consolidato, che assume gli abusi edilizi come illeciti permanenti, e, quindi, l’imprescrittibilità del relativo potere sanzionatorio, le evidenziate particolarità avrebbero imposto all’amministrazione uno specifico onere di motivare le ragioni, diverse dal mero ripristino della legalità e prevalenti rispetto al contrapposto interesse privato, che avrebbero militato in favore della demolizione dei manufatti.

Nella fattispecie in esame la reazione dell’amministrazione è intervenuta a distanza di lungo tempo dall’epoca del posizionamento del manufatto (epoca attestata dalla stessa relazione della Polizia municipale del 17.02.2010); inoltre, nel corso del tempo si sono succeduti provvedimenti e comunicazioni, cui si è fatto sopra cenno (rilascio di concessione demaniale ed autorizzazione al subingresso, autorizzazione all’installazione dell’insegna, parere favorevole all’ampliamento della concessione demaniale) e che, indubbiamente, hanno generato negli interessati un ragionevole affidamento.
Pur condividendo il principio giurisprudenziale assolutamente consolidato, che assume gli abusi edilizi come illeciti permanenti, e, quindi, l’imprescrittibilità del relativo potere sanzionatorio, il collegio non può non rilevare che le evidenziate particolarità avrebbero imposto all’amministrazione uno specifico onere di motivare le ragioni, diverse dal mero ripristino della legalità e prevalenti rispetto al contrapposto interesse privato, che avrebbero militato in favore della demolizione dei manufatti.
Di tali valutazioni non vi è traccia nel provvedimento oggetto del giudizio di primo grado: la sentenza impugnata, che ha respinto il ricorso, non valorizzando il particolare onere motivazionale, in relazione alla specificità della fattispecie, merita quindi la riforma richiesta con l’appello, che deve, in conclusione, essere accolto, con contestuale riforma della gravata pronuncia, correlativo accoglimento del ricorso di prima istanza e conseguente annullamento degli atti ivi impugnati, fatti salvi quelli ulteriori della p.a., che li emanerà nel pieno rispetto dei princìpi di diritto qui enunciati (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2013 n. 1849 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego sanatoria per un impianto di frantumazione di inerti provvisorio.
E’ legittimo il diniego di concessione in sanatoria della messa in opera di un impianto di frantumazione di inerti, già oggetto di autorizzazione provvisoria, poi non rinnovata, di carattere assolutamente accessorio ad opere funzionali alla attività svolta.
Non può formare oggetto di condono edilizio (ai sensi dell’art. 31 della l. n. 47/1985) una costruzione meramente precaria, ossia l’opera destinata ad essere rimossa non appena soddisfatto lo scopo per cui è stata realizzata, anche se costruzione industriale. Del resto l'eventuale applicazione del condono edilizio a tale fattispecie avrebbe l'effetto di rendere durevole un'installazione di natura meramente provvisoria, così da snaturare la funzione dell'art. 31 della l. n. 47/1985. Non si può definire abusiva e non è, quindi, condonabile, l'opera edilizia realizzata in base ad un'autorizzazione "in precario", a nulla rilevandone neppure l'eventuale illegittimità.
Quindi, ai sensi dell'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, non può formare oggetto di condono edilizio una costruzione meramente precaria, ossia l'opera edilizia destinata ad essere rimossa non appena soddisfatto lo scopo per cui essa è stata realizzata.

Va premesso che gli abusi edilizi condonabili vengono individuati di volta in volta dalla legge istitutiva, che può allargare oppure restringere le ipotesi a sua insindacabile discrezione, -ovviamente nel rispetto dei principi costituzionali- sulla base delle mutevoli esigenze fiscali, che normalmente costituiscono la ragione della scelta del legislatore.
L'esame nell'ammissibilità della domanda di condono edilizio, nonché l'individuazione della sanzione da infliggere per l'abuso edilizio commesso, costituiscono valutazioni di natura tecnico-discrezionale di competenza esclusiva dell'autorità amministrativa (Consiglio Stato, sez. V, 27.04.1990, n. 397) che attengono anche alla qualificazione degli interventi posti in essere.
In ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi: 1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo; 2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea.
La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia e che possono essere oggetto di domanda di condono in caso di realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura "precaria" di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Nel caso di specie le opere di cui trattasi erano individuate nell’istanza di condono edilizio depositata in data 28.02.1995, prot. n. 1506, dalla soc. Meraviglia, come “Installazione temporanea di impianto di frantumazione in assenza di proroga”; la stessa società, in data 16.11.1995, in sede di integrazione documentale richiesta dall’Amministrazione, ha precisato che tale impianto di frantumazione era una “unità tecnologica mobile, non … soggetta ad accatastamento”.
Correttamente quindi il TAR ha ritenuto che non potesse formare oggetto di condono edilizio (ai sensi dell’art. 31 della l. n. 47/1985) una costruzione meramente precaria, ossia l’opera destinata ad essere rimossa non appena soddisfatto lo scopo per cui è stata realizzata, anche se costruzione industriale.
Del resto l'eventuale applicazione del condono edilizio a tale fattispecie avrebbe l'effetto di rendere durevole un'installazione di natura meramente provvisoria, così da snaturare la funzione dell'art. 31 della l. n. 47/1985 (cfr., Cons. St., sez. V, 03.10.1995, n. 1372)
Le norme del condono edilizio, di cui al citato articolo, nel definire le opere sanabili, si riferiscono alla realizzazione di fabbricati in assenza di un qualunque provvedimento astrattamente abilitativo all'edificazione, e non già a vicende in cui quest'ultima è stata effettuata in forza di un atto autorizzativo formalmente rilasciato dal Comune, ancorché reputato non appropriato alla tipologia delle opere realizzate. Pertanto, non si può definire abusiva (e non è, quindi, condonabile) l'opera edilizia realizzata in base ad un'autorizzazione "in precario", a nulla rilevandone neppure l'eventuale illegittimità (cfr., Cons. St., sez. V, 03.10.1995, n. 1372).
Quindi, ai sensi dell'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, non può formare oggetto di condono edilizio una costruzione meramente precaria, ossia l'opera edilizia destinata ad essere rimossa non appena soddisfatto lo scopo per cui essa è stata realizzata (cfr., Cons. St. sez. V 04.02.1998, n. 131).
Né appare fuori di logica o manifestamente ingiusto che un'opera precaria non possa essere condonata, dal momento che l'interessato in qualsiasi momento può chiedere alla Amministrazione comunale, ove sussista la compatibilità con le norme urbanistiche vigenti, il rilascio di un titolo edilizio definitivo (
massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTITassati i ruderi recuperabili. La potenzialità edificatoria rende l'area soggetta a Imu. La Cassazione sull'edificabilità di terreni con fabbricati rurali destinati alla demolizione.
Sono edificabili, e di conseguenza tassabili, i terreni sui quali insistono fabbricati rurali destinati alla demolizione, in relazione ai quali è consentito il recupero a uso civile.
È quanto stabilito nella sentenza 01.03.2013 n. 5166 resa dalla V Sez. della Corte di Cassazione.
La fattispecie. Il processo scaturisce da un ricorso proposto dal ricorrente avverso la sentenza resa da una Commissione tributaria regionale che, in accoglimento della tesi dell'amministrazione finanziaria, aveva qualificato come edificabile un terreno pervenuto in successione e successivamente ceduto. Tale terreno costituiva un corpo unico sul quale a suo tempo erano stati eretti fabbricati rurali destinati però a essere demoliti per poi erigere nuovi fabbricati, ma a uso di civile abitazione.
Peraltro, solo su una parte del terreno potevano essere costruiti i nuovi fabbricati; il che ha indotto il contribuente a prospettare due distinti e graduati motivi di ricorso, il primo attinente alla tassabilità della fattispecie, il secondo volto a eventualmente ridimensionare la quota di plusvalenza tassabile in proporzione alla quota-parte di terreno sul quale, appunto, venivano eretti i detti fabbricati civili.
La sentenza. La sentenza, confermando la pronuncia di secondo grado, ritiene che il terreno oggetto di compravendita sia da qualificare come edificabile, da qui la ritenuta tassabilità dello stesso. Ma precisa che nemmeno la domanda subordinata può essere accolta, in quanto il giudice, avendo qualificato la complessiva operazione come «unitaria», ha individuato un criterio che, a monte, non consente di frazionare la vendita in due operazioni autonome (cessione di terreno agricolo; cessione di terreno edificabile).
La Corte in motivazione fa riferimento a precedenti pronunce che, seppur relative al medesimo tema, affrontavano la questione con un diverso angolo visuale. Vediamo perché.
Si legge nella sentenza che ai fini della determinazione della base imponibile, evidentemente agli effetti delle imposte dirette, e dunque, per quanto qui interessa, con riguardo all'art. 67 Tuir, che disciplina i redditi diversi, la nozione di area edificabile racchiude le due sub-specie di:
- Area edificabile di diritto.
- Area edificabile di fatto.
La prima è evidentemente quella così qualificata in un piano urbanistico, mentre la seconda è quella edificabile nel senso che, pur non essendo urbanisticamente qualificata come edificabile, lo è di fatto in quanto potenzialmente tale anche al di fuori di una previsione programmatica. Sul punto la sentenza parla espressamente di edificabilità non programmata, o fatturale, o potenziale.
Ma in concreto? La sentenza individua alcuni elementi che sono sintomatici di tale edificabilità «fattuale»:
- vicinanza al centro abitato;
- sviluppo edilizio raggiunto dalle zone adiacenti;
- esistenza di servizi pubblici essenziali;
- presenza di opere di urbanizzazione primaria;
- collegamento con i centri urbani già organizzati;
- in via residuale, esistenza di «qualsiasi altro elemento, obiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica».
La sentenza poi prosegue richiamando la nozione di edificabilità racchiusa nella disciplina dell'Ici e dell'indennità di espropriazione: anche tali provvedimenti richiamano una nozione di edificabilità di fatto: elemento che finisce per divenire situazione giuridica oggettiva nella quale può venirsi a trovare un bene immobile e che influisce sul suo valore (articolo ItaliaOggi Sette del 13.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: L’autorità che rilascia l’autorizzazione paesaggistica deve manifestare la piena consapevolezza delle conseguenze derivanti dalla realizzazione delle opere in relazione alle specifiche caratteristiche dei luoghi e verificare se l’intervento edilizio comporti una compromissione dell’area protetta, di guisa che la mancata valutazione di tali interessi e delle circostanze di fatto ovvero una motivazione non adeguata comportano l’illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica per eccesso di potere.
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Quanto alle disposizioni di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, queste non sono applicabili al procedimento statale di verifica della legittimità dell’autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che la relativa comunicazione ha ad oggetto “i motivi che ostano all’accoglimento della domanda”, laddove la funzione del potere di cui costituisce espressione il decreto di annullamento di un’autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è quella di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità dell’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione comunale.

La giurisprudenza di questo Tribunale ha affermato più volte il principio per cui il potere di annullamento ministeriale del nulla osta paesaggistico non deve comportare un riesame delle valutazioni tecnico-discrezionali già compiute dall’ente locale. Nella fattispecie, ciò non si è verificato, atteso che l’organo statale ha riscontrato tipici vizi di legittimità dell’autorizzazione paesaggistica comunale quali il difetto di istruttoria e di motivazione.
Come ha avuto modo di stabilire l’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 9/2001, l’autorità che rilascia l’autorizzazione paesaggistica deve manifestare la piena consapevolezza delle conseguenze derivanti dalla realizzazione delle opere in relazione alle specifiche caratteristiche dei luoghi e verificare se l’intervento edilizio comporti una compromissione dell’area protetta, di guisa che la mancata valutazione di tali interessi e delle circostanze di fatto ovvero una motivazione non adeguata comportano l’illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica per eccesso di potere (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 03.06.2009, n. 946).
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Sono infondati anche il primo e l’ultimo motivo di ricorso con i quali si lamenta la violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 per omessa comunicazione di avvio del procedimento da parte della Soprintendenza e dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Valga in proposito richiamare quanto già sostenuto da questa sezione (TAR Campania, Napoli, sez. III 30.06.2010, n. 16494). La disciplina contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42) e in particolare l'art. 159, comma 1 (applicabile rationae temporis alla presente controversia), consente alla Soprintendenza di omettere la comunicazione di avvio del procedimento relativo all'annullamento dell'autorizzazione comunale, posto che la comunicazione anche agli interessati (avvenuta nella specie con la nota del 30.06.2009), da parte dell'amministrazione Comunale, dell'invio alla Soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata costituisce avviso di inizio del procedimento, ai sensi e per gli effetti della l. n. 241 del 1990. Detta specifica disciplina ha superato quella precedente e, quindi, anche quella di cui al d.m. n. 165 del 2002, la quale escludeva del tutto la necessità dell'invio della comunicazione di' avvio per i procedimenti del genere in commento (TAR Campania Napoli, sez. VII, 13.10.2009, n. 5407).
In particolare, l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, previsto in relazione alla generalità degli atti amministrativi dall'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, espressamente ribadito per i procedimenti di annullamento ministeriale dall'art. 4 comma 1, d.m. 13.06.1994 n. 495, recante regolamento per l'attuazione degli artt. 2 e 4 della l. n. 241 del 1990, ed eliminato dal d.m. 19.06.2002 n. 165, è stato ripristinato dal d.lgs. 22.01.2004 n. 42, il quale (agli artt. 146 e 159) ribadisce l'obbligo di comunicare all'interessato l'avvio del procedimento di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica, anche se attraverso la speciale forma della comunicazione agli interessati della trasmissione dell'autorizzazione rilasciata da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (TAR Lazio Roma, sez. II, 01.02.2008, n. 888).
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza, l'obbligo dell'Amministrazione statale di dare notizia dell'avvio del procedimento volto all'eventuale annullamento dell'autorizzazione paesaggistica può essere validamente ottemperato con qualsiasi meccanismo che assicuri il raggiungimento dello scopo di consentire all'interessato la chiara percezione dell'avvio della nuova fase procedimentale, preordinata al controllo dell'autorizzazione già rilasciata; in particolare è stato ritenuto che l'avviso della trasmissione degli atti al Ministero (in calce all'atto autorizzatorio), o anche l'indicazione del Ministero tra i destinatari dell'atto medesimo, soddisfi adeguatamente le esigenze che sono alla base della comunicazione dell'avvio del procedimento, dovendosi pertanto considerare equipollenti alla comunicazione di cui all'art. 7 L. n. 241 (C.d.S sez. VI, 22.06.2007, n. 3440; Consiglio Stato, sez. VI, 09.02.2007, n. 533; Consiglio Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3220).
Con riferimento al caso in esame, rileva che, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, la fattispecie è disciplinata dall’art. 159 il quale dispone: “la comunicazione è inviata contestualmente agli interessati, per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241”. Deve, pertanto, ritenersi superata la giurisprudenza (anche di questa Sezione) secondo cui sussisteva l'obbligo dell'autorità statale di dare notizia all'interessato dell'avvio del procedimento preordinato all'eventuale annullamento del nulla-osta paesaggistico, tesi che può legittimamente sostenersi solo per i procedimenti integralmente svolti prima della modifica regolamentare introdotta con il D.M. n. 165 del 19.06.2002 (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 01.02.2010, n. 392).
In ogni caso, anche con riferimento al diverso indirizzo giurisprudenziale precedentemente seguito da questa Sezione, vale, anche nel caso in esame, il pacifico insegnamento della giurisprudenza secondo cui l’obbligo di cui all’art. 7 non può essere applicato meccanicamente e formalisticamente, essendo volto non solo ad assolvere ad una funzione difensiva a favore del destinatario dell’atto conclusivo, ma anche a formare nell’Amministrazione procedente una più completa e meditata volontà, e pertanto si deve ritenere che il vizio derivante dall’omissione di comunicazione (di avvio del procedimento) non sussiste nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia stato comunque raggiunto o manchi l’utilità della comunicazione all’azione amministrativa(Cons. St., VI Sez., n. 1844/2008; V, n. 6641/2004 e n. 343/2002). Ciò si verifica allorquando il soggetto inciso sfavorevolmente da un provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto dell’avvio del procedimento, sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far determinare in modo diverso le scelte dell’Amministrazione procedente (cfr. in termini, Cons. St, IV Sez., nn. 1844 e 343 cit.; Sez. II, n. 1359/1999).
...
Quanto alle disposizioni di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, queste non sono applicabili al procedimento statale di verifica della legittimità dell’autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che la relativa comunicazione ha ad oggetto “i motivi che ostano all’accoglimento della domanda”, laddove la funzione del potere di cui costituisce espressione il decreto di annullamento di un’autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è quella di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità dell’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione comunale (TAR Campania Napoli, sez. IV, 18.05.2009, n. 2667)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 25.02.2013 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALILe slot-machine lontane da giovani, vecchi, malati.
Sono legittimi i regolamenti comunali che vietano l'installazione di apparecchi con vincita in denaro nelle zone adiacenti a luoghi di aggregazione frequentati, se non esclusivamente, almeno prevalentemente dalle fasce deboli e influenzabili della popolazione, quali giovani, anziani e persone svantaggiate o malate.
Insomma, tutti coloro i quali sono potenzialmente non in grado, per immaturità, solitudine, condizioni personali e/o sociali in genere, di gestire prudentemente e con temperanza l'accesso a tale pericolosa ed insidiosa forma di intrattenimento.

Lo ha chiarito il TAR Trentino Alto Adige-Trento decidendo, con le sentenze 21.02.2013 n. 63 e 21.02.2013 n. 64, su due ricorsi presentati avverso altrettante delibere comunali che, in attuazione della legge della Provincia di Trento, avevano fissato una distanza minima dai luoghi cosiddetti sensibili, per l'installazione degli apparecchi in bar, ristoranti o sale giochi.
Secondo il Tar, che ha fatto riferimento anche alla recente disciplina contenuta nel cosiddetto decreto Balduzzi (decreto legge 158/2012 conversione legge 189/2012), con la quale la ludopatia è stata riconosciuta ufficialmente nei livelli essenziali di assistenza (l.e.a.), non può essere trascurato il fatto che lo stato si sta orientando «non tanto verso l'enfatizzazione del disvalore morale del gioco d'azzardo» ma piuttosto incentivando la maggiore diffusione possibile del gioco controllato dallo stesso ritenendo, in tal modo, che la ludopatia riguarda solo il gioco illecito. «Se si dovesse condividere tale singolare sillogismo, infatti, ha precisato il Collegio, si potrebbe anche sostenere, con uguale ratio, che le dipendenze da alcol o da fumo colpiscono solo i consumatori di alcolici o di sigarette acquistati di contrabbando».
Ed è per questo motivo che la Corte costituzionale con la sentenza 300/2011 ha ritenuto che, accanto a un'indiscutibile strategia di «controllo» sulle attività e sull'esercizio dei giochi, riservata allo stato, è contestualmente necessaria anche una strategia di «contenimento mirato» della diffusione di tali giochi e che, per queste ultime finalità, la disciplina nazionale non è né sufficiente né competente in via esclusiva (articolo ItaliaOggi del 18.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

URBANISTICA: Poiché la mera adozione del piano, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione, si deve ritenere che la delibera, avente ad oggetto prescrizioni urbanistiche, soltanto adottata, non determini, in pendenza del procedimento di approvazione, la "novazione" della fonte procedimentale del rapporto, non rendendo, pertanto, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso contro la variante al pendente piano regolatore.
La mancata impugnazione della delibera di approvazione della variante al piano regolatore non determina improcedibilità del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
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Le scelte effettuate dall'amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale".

Ritiene in proposito il Collegio di doversi limitare a richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato –dal quale non si ravvisa alcuna ragione per discostarsi- a tenore del quale, da un canto, “Poiché la mera adozione del piano, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione, si deve ritenere che la delibera, avente ad oggetto prescrizioni urbanistiche, soltanto adottata, non determini, in pendenza del procedimento di approvazione, la "novazione" della fonte procedimentale del rapporto, non rendendo, pertanto, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso contro la variante al pendente piano regolatore“ (Cons. Stato Sez. IV, 09.09.2009, n. 5402 ).
In coerenza con detto orientamento, e con più stretta aderenza alla odierna materia del contendere, è stato rilevato da pacifica giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 08.03.2010, n. 1361, e 23.07.2009, n. 4662) che “la mancata impugnazione della delibera di approvazione della variante al piano regolatore non determina improcedibilità del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa” (si veda anche, per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, ex multis: TAR Marche Ancona Sez. I, 25-07-2012, n. 493, ma anche TAR Abruzzo Pescara Sez. I, 11.01.2011, n. 22, TAR Lombardia Milano Sez. II, 30.01.2007, n. 119).
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Ritiene il Collegio di rimarcare sul punto che per pacifica giurisprudenza della Sezione, -la cui perdurante con divisibilità si intende ribadire in questa sede- “le scelte effettuate dall'amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità” (Cons. Stato Sez. IV, 03.08.2010, n. 5157).
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale” (Cons. Stato Sez. IV Sent., 03.11.2008, n. 5478)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La decisione del giudice di merito in materia di spese processuali è censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione di legge, soltanto quando le spese siano state poste, totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa; non è invece sindacabile, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito sull'opportunità di compensare, in tutto o in parte le spese medesime. Tali principi trovano applicazione non soltanto quando il giudice abbia emesso una pronuncia di merito, ma anche quando egli si sia limitato a dichiarare l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'atto introduttivo del giudizio.
Infatti, pure in tali ultimi casi sussiste pur sempre una soccombenza, sia pure virtuale, di colui che ha agito con un atto dichiarato inammissibile o improcedibile che consente al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese, esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto di condanna della parte vittoriosa e che si traduce in un provvedimento che rimane incensurabile in cassazione purché non illogicamente motivato.
Detto principio è stato più volte predicato dalla giurisprudenza amministrativa, che ha avuto modo di affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate.

Alla stregua del condivisibile orientamento secondo cui “la decisione del giudice di merito in materia di spese processuali è censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione di legge, soltanto quando le spese siano state poste, totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa; non è invece sindacabile, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito sull'opportunità di compensare, in tutto o in parte le spese medesime. Tali principi trovano applicazione non soltanto quando il giudice abbia emesso una pronuncia di merito, ma anche quando egli si sia limitato a dichiarare l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'atto introduttivo del giudizio. Infatti, pure in tali ultimi casi sussiste pur sempre una soccombenza, sia pure virtuale, di colui che ha agito con un atto dichiarato inammissibile o improcedibile che consente al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese, esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto di condanna della parte vittoriosa e che si traduce in un provvedimento che rimane incensurabile in cassazione purché non illogicamente motivato" (Cassazione civile, sez. lav., 27.12.1999, n. 14576).
"Detto principio è stato più volte predicato dalla giurisprudenza amministrativa, che ha avuto modo di affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate” (Cons. Stato, sez. VI, 30.12.2005, n. 7581)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in questione non può essere derogato neppure nelle ipotesi in cui fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine limitata in altezza (nella fattispecie, si tratta dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto, laddove il nuovo edificio superi in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione si determina.

Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett. c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la questione debba essere risolta facendo applicazione del consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto, laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione si determina
(Cons. Stato Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non ritiene di revocare in dubbio il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in linea di principio, il provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con un'adeguata ponderazione comparativa, che tenga anche conto dell’interesse dei destinatari di un atto discrezionale al mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall'Amministrazione.
Neppure si ritiene di revocare in dubbio l’altrettanto consolidato orientamento (peraltro trasfuso in puntuale disposizione normativa ad opera dell’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 11) secondo cui la legittimità dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un atto discrezionale, in via di principio, postula che esso sia realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione dell’atto oggetto di autotutela.
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In sede di vaglio circa la legittimità del provvedimento di annullamento di titoli edilizi, deve riconoscersi adeguato rilievo al comportamento (negligente o in malafede) del privato il quale abbia indotto in errore l’amministrazione attraverso una rappresentazione falsa o incompleta dello stato dei luoghi, tale da alterare la corretta formazione del convincimento degli organi decisionali.
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Non viola il principio del contrarius actus l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia illegittima, emanato senza la previa acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo cui è soggetta l'area di intervento, qualora tale rimozione avvenga esclusivamente o essenzialmente per ragioni urbanistico-edilizie, indipendenti da altre questioni connesse al predetto vincolo.

Al riguardo il Collegio non ritiene di revocare in dubbio il consolidato orientamento giurisprudenziale (puntualmente richiamato dall’appellante) secondo cui, in linea di principio, il provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con un'adeguata ponderazione comparativa, che tenga anche conto dell’interesse dei destinatari di un atto discrezionale al mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall'Amministrazione (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, III, 20.06.2012, n. 3628; id., IV, 28.05.2012, n. 3154; id., VI, 15.05.2012, n. 2774).
Neppure si ritiene di revocare in dubbio l’altrettanto consolidato orientamento (peraltro trasfuso in puntuale disposizione normativa ad opera dell’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 11) secondo cui la legittimità dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un atto discrezionale, in via di principio, postula che esso sia realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione dell’atto oggetto di autotutela (in tale senso –ex plurimis -: Cons. Stato, V, 07.04.2010, n. 1946; id., IV, 14.02.2006, n. 564).
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Al riguardo si ritiene che nel caso in esame debba trovare puntuale conferma l’orientamento secondo cui, in sede di vaglio circa la legittimità del provvedimento di annullamento di titoli edilizi, deve riconoscersi adeguato rilievo al comportamento (negligente o in malafede) del privato il quale abbia indotto in errore l’amministrazione attraverso una rappresentazione falsa o incompleta dello stato dei luoghi, tale da alterare la corretta formazione del convincimento degli organi decisionali (in tal senso: Cons. Stato, IV, 27.11.2010, n. 8291).
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In terzo luogo il Collegio ritiene infondato il motivo di appello con cui si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui non ha rilevato l’illegittimità del provvedimento di annullamento d’ufficio in considerazione della mancata, previa acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale (parere che, invece, è richiesto nella fase –per così dire:- ‘fisiologica’ di rilascio del titolo).
Al riguardo il Collegio osserva che, anche a voler riguardare gli aspetti procedimentali connessi all’adozione dei provvedimenti di autotutela sulla base del principio del c.d. ‘contrarius actus’, la carenza formale di uno degli atti che avevano caratterizzato l’adozione dell’atto oggetto di annullamento può rilevare ai fini di rendere illegittimo l’esercizio del potere di autotutela solo laddove l’atto omesso incida sul medesimo tratto procedimentale –e sul medesimo valore tutelato– sul quale risulta fondato l’esercizio di autotutela.
Questo Giudice di appello ha, ad esempio, affermato che non viola il principio del contrarius actus l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia illegittima, emanato senza la previa acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo cui è soggetta l'area di intervento, qualora tale rimozione avvenga esclusivamente o essenzialmente per ragioni urbanistico-edilizie, indipendenti da altre questioni connesse al predetto vincolo (Cons. Stato, V, 07.09.2000, n. 4741).
Ebbene, riconducendo il principio appena richiamato alle peculiarità del caso di specie, si osserva che la mancata acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale nel corso del procedimento finalizzato all’annullamento d’ufficio del titolo edilizio non sortisce valenza viziante dal momento che:
- il provvedimento di annullamento si fondava sul dato oggettivo e non suscettibile di apprezzamento discrezionale alcuno relativo al mancato rispetto della pertinente normativa (nazionale e locale) in tema di distanze;
- l’acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale è prodromico e strumentale all’acquisizione di elementi di valutazione d carattere tecnico-discrezionale circa le caratteristiche delle opere progettate
(Cons. Stato Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.05.2013

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Per costruire una edicola funeraria, all'interno del cimitero comunale, non occorre alcun titolo edilizio (ex dpr 380/2001) ma un semplice atto amministrativo (autorizzatorio) in conformità al vigente regolamento comunale di polizia mortuaria!!

EDILIZIA PRIVATAPer lo svolgimento di attività edilizia all'interno dei cimiteri anche da parte dei privati non occorre il rilascio di alcuna concessione edilizia, essendo sufficiente il giudizio da parte del Sindaco di conformità del progetto alle prescrizioni edilizie contenute nel piano regolatore cimiteriale e non dalle norme comuni in tema di edilizia ed urbanistica.
L’attività edilizia all’interno dei cimiteri è regolata, in via primaria, non dalla normazione urbanistica, ma dalle norme del regolamento di polizia mortuaria (D.P.R. 10.09.1990 n. 285 e successive modificazioni), e, in via secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali, ma dal piano regolatore cimiteriale che ogni Comune è tenuto ad adottare (cfr. ex multis Cass. Sez. III 02.06.1983 n. 451, TAR Sicilia-Catania 18.02.1981 n. 86, TAR Abruzzo-Pescara 04.12.1989 n. 534, TAR Toscana 03.05.1994 n. 176, TAR Calabria-Reggio Calabria 06.04.2000 n. 304).
Pertanto, per lo svolgimento di attività edilizia all'interno dei cimiteri anche da parte dei privati non occorre il rilascio di alcuna concessione edilizia, essendo sufficiente il giudizio da parte del Sindaco di conformità del progetto alle prescrizioni edilizie contenute nel piano regolatore cimiteriale e non dalle norme comuni in tema di edilizia ed urbanistica (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.06.2004 n. 9187 - link a ww
w.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività edilizia all'interno dei cimiteri è disciplinata compiutamente dal regolamento di polizia mortuaria (D.P.R. n. 285 del 1990 e successiva modificazioni) e non dalle norme comuni in tema di edilizia ed urbanistica.
Ne consegue che, come è stato puntualmente denunciato dalla parte ricorrente, i provvedimenti impugnati risultano illegittimi in quanto, viceversa, applicano la comune normativa in tema di edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) in relazione alla costruzioni di alcuni loculi all'interno di una cappella cimiteriale.

Come e' stato rappresentato alle parti nel corso della camera di consiglio, il ricorso può essere definito immediatamente nel merito con sentenza redatta in forma semplificata.
Tanto perché sia il ricorso principale che i motivi aggiunti sono manifestamente fondati.
L'attività edilizia all'interno dei cimiteri è disciplinata compiutamente dal regolamento di polizia mortuaria (D.P.R. n. 285 del 1990 e successiva modificazioni) e non dalle norme comuni in tema di edilizia ed urbanistica.
Ne consegue che, come e' stato puntualmente denunciato dalla parte ricorrente, i provvedimenti impugnati risultano illegittimi in quanto, viceversa, applicano la comune normativa in tema di edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) in relazione alla costruzioni di alcuni loculi all'interno di una cappella cimiteriale.
Tanto basta per l'accoglimento con la conseguenza che ogni altra censura può essere dichiarata assorbita.
Ricorrono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese di giudizio (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.05.2004 n. 8749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl regolamento di polizia mortuaria (v. d.p.r. n. 803/1975), che espressamente disciplina le costruzioni edilizie nei cimiteri, a differenza di quanto disposto dalle leggi urbanistiche, non prevede affatto l'obbligo della concessione edilizia per tali costruzioni.
In particolare, per quanto riguarda la costruzione di sepoltura privata, l'art. 91 del suddetto regolamento richiede la concessione per l'uso dell'area demaniale del cimitero, concessione che è atto ben diverso dalla concessione edilizia, mentre a norma dell'art. 95 dello stesso regolamento, i singoli progetti di costruzione di sepolture private debbono essere approvati dal Sindaco su conforme parere dell'ufficiale sanitario e sentita la commissione edilizia.
La costruzione senza la concessione per l'uso dell'area del cimitero e senza l'approvazione del relativo progetto da parte del Sindaco, lungi dal realizzare il reato urbanistico, integra soltanto la contravvenzione prevista dall'art. 108 del regolamento di polizia mortuaria; contravvenzione ormai depenalizzata L. n. 689 del 1981, ex art. 32, essendo punibile soltanto con l'ammenda stabilita dal T.U. Leggi Sanitarie, R.D. 27.07.1934, n. 1265, art. 358 e successive modifiche.
E' vero che l'art. 108 del citato regolamento sanziona le violazioni, salvo che esse non costituiscano reato più grave. Ma, contrariamente a quanto il giudice di appello sostiene, l'attività edilizia all'interno dei cimiteri, essendo regolata in via primaria dal regolamento di polizia mortuaria e, in via secondaria, dal piano regolatore cimiteriale, non è compresa nell'ambito di applicazione della normativa di cui alla L. n. 10 del 1977 e successive modificazioni, che concerne la trasformazione urbanistica del territorio, escluse le zone ed aree a regolamentazione edilizia speciale, come quella in esame.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 07.07.1989 la Corte di Appello di Catania confermò la sentenza in data 23.11.1987 del Pretore di Paternò, che aveva dichiarato G.F. colpevole del reato previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. b) per aver sopraelevato una cappella funeraria nel cimitero di (OMISSIS) senza concessione edilizia (OMISSIS).
Avverso tale sentenza il G. propone ricorso per cassazione, deducendo che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed, in subordine, invocando i benefici di legge.
Motivi della decisione
Come questa Corte Suprema ha affermato in analoga fattispecie (Cassazione 3^ n. 5148 del 02.06.1983 - udienza 02.03.1983 imputato Patimo), alle cui argomentazioni questo Collegio si richiama in mancanza di nuove e più decisive ragioni di segno contrario, il regolamento di polizia mortuaria (v. d.p.r. n. 803/1975), che espressamente disciplina le costruzioni edilizie nei cimiteri, a differenza di quanto disposto dalle leggi urbanistiche, non prevede affatto l'obbligo della concessione edilizia per tali costruzioni.
In particolare, per quanto riguarda la costruzione di sepoltura privata, l'art. 91 del suddetto regolamento richiede la concessione per l'uso dell'area demaniale del cimitero, concessione che è atto ben diverso dalla concessione edilizia, mentre a norma dell'art. 95 dello stesso regolamento, i singoli progetti di costruzione di sepolture private debbono essere approvati dal Sindaco su conforme parere dell'ufficiale sanitario e sentita la commissione edilizia.
La costruzione senza la concessione per l'uso dell'area del cimitero e senza l'approvazione del relativo progetto da parte del Sindaco, lungi dal realizzare il reato urbanistico, avrebbe potuto integrare soltanto la contravvenzione prevista dall'art. 108 del regolamento di polizia mortuaria; contravvenzione ormai depenalizzata L. n. 689 del 1981, ex art. 32, essendo punibile soltanto con l'ammenda stabilita dal T.U. Leggi Sanitarie, R.D. 27.07.1934, n. 1265, art. 358 e successive modifiche.
E' vero che l'art. 108 del citato regolamento sanziona le violazioni, salvo che esse non costituiscano reato più grave. Ma, contrariamente a quanto il giudice di appello sostiene, l'attività edilizia all'interno dei cimiteri, essendo regolata in via primaria dal regolamento di polizia mortuaria e, in via secondaria, dal piano regolatore cimiteriale, non è compresa nell'ambito di applicazione della normativa di cui alla L. n. 10 del 1977 e successive modificazioni, che concerne la trasformazione urbanistica del territorio, escluse le zone ed aree a regolamentazione edilizia speciale, come quella in esame.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata in ordine al reato previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. b), perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato.
E poiché il reato in questione fu considerato più grave rispetto a quelli concorrenti ai fini della continuazione, la stessa sentenza impugnata va annullata con rinvio in ordine alla misura della pena per i residui reati di cui alla L. n. 64 del 1974 e L. n. 1086 del 1977, da rideterminarsi nel giudizio di rinvio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.1990 n. 3489).

EDILIZIA PRIVATA: L'attività edilizia all'interno dei cimiteri è regolata, in via primaria, non dalla normazione urbanistica ma dalle norme contemplate sotto i titoli 10 e 18 del regolamento di polizia mortuaria approvato con d.p.r. 21.10.1975 n. 803 e, in via secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali ma dal piano regolatore cimiteriale che ai sensi dell'art. 53 del citato d.p.r. 803/1975 ogni comune è tenuto ad adottare.
Pertanto, per lo svolgimento di attività edilizia all'interno dei cimiteri anche da parte di privati non occorre il rilascio della concessione edilizia, essendo sufficiente il giudizio da parte del sindaco di conformità del progetto alle prescrizioni edilizie contenute nel piano regolatore cimiteriale ai sensi dell'art. 95 d.p.r. 803 cit..

L'attività edilizia all'interno dei cimiteri è regolata, in via primaria, non dalla normazione urbanistica ma dalle norme contemplate sotto i titoli 10 e 18 del regolamento di polizia mortuaria approvato con d.p.r. 21.10.1975 n. 803 e, in via secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali ma dal piano regolatore cimiteriale che ai sensi dell'art. 53 del citato d.p.r. 803/1975 ogni comune è tenuto ad adottare; pertanto, per lo svolgimento di attività edilizia all'interno dei cimiteri anche da parte di privati non occorre il rilascio della concessione edilizia, essendo sufficiente il giudizio da parte del sindaco di conformità del progetto alle prescrizioni edilizie contenute nel piano regolatore cimiteriale ai sensi dell'art. 95 d.p.r. 803 cit. (
TAR Sicilia-Catania, sentenza 18.02.1981 n. 86).

     Le pronunce di cui sopra, ancorché datate, sono condivisibili. Tuttavia, recentemente sono intervenute altre pronunce le quali sostengono quanto segue: "Nell’ambito del cimitero l’edificazione è regolata, in via primaria, dalle disposizioni di cui al T.U.L.S. (RD 27.07.1934, nr. 1265) e dalla l. 10.09.1990, nr. 285, che i Comuni possono solo integrare, mediante il proprio regolamento, con rinvio alle disposizioni di cui al DPR 380/2001 e che dunque, in assenza di una specifica previsione regolamentare locale, necessita di un provvedimento espresso in coerenza con il particolare regime, a natura concessoria, che l’Ordinamento disciplina.".
Ed ancora:
"E' legittima la previsione regolamentare locale (di polizia mortuaria) che assoggetta l’edificazione nel suolo cimiteriale alle più garantite procedure di autorizzazione proprie della disciplina edilizia generale di cui al DPR 380/2001 ed alla conseguente disciplina (oneri concessori, termini di inizio e fine lavori e così via)".

EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi di costruzione (cappella funeraria) all’interno di un cimitero, ed in mancanza di una specifica disposizione regolamentare dell’Ente, non opera il silenzio-assenso di cui all’art. 20 del DPR 380/2001.
Invero, nell’ambito del cimitero l’edificazione è regolata, in via primaria, dalle disposizioni di cui al T.U.L.S. (RD 27.07.1934, nr. 1265) e dalla l. 10.09.1990, nr. 285, che i Comuni possono solo integrare, mediante il proprio regolamento, con rinvio alle disposizioni di cui al DPR 380/2001 e che dunque, in assenza di una specifica previsione regolamentare locale, necessita di un provvedimento espresso in coerenza con il particolare regime, a natura concessoria, che l’Ordinamento disciplina.

- Ritenuto che, nell’odierno giudizio, parte ricorrente si duole dell’illegittimità dell’inerzia che l’Ente intimato ha serbato sulla istanza presentata il 10.05.2011, prot. n. 4339 tesa ad ottenere il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una cappella funeraria da n. 10 loculi, più urne, da erigersi nel cimitero comunale al lotto nr. 21;
- Ritenuto che l’Ente, ritualmente costituitosi, oppone alla domanda del ricorrente che il richiesto permesso di costruire non può essere rilasciato in quanto il Piano Regolatore Cimiteriale approvato con delibera di CC n. 28 del 30.12.2009, art. 6 delle NTA stabilisce che il titolo richiesto non viene rilasciato in aree sprovviste delle opere di urbanizzazione primaria (i cui lavori, nella specie, sono approvati ed in corso di “verifica finanziaria del bilancio comunale”);
- Ritenuto che, trattandosi di costruzione all’interno di un cimitero, ed in mancanza di una specifica disposizione regolamentare dell’Ente, non opera il silenzio-assenso di cui all’art. 20 del DPR 380/2001;
- Ritenuto infatti che nell’ambito del cimitero l’edificazione è regolata, in via primaria, dalle disposizioni di cui al T.U.L.S. (RD 27.07.1934, nr. 1265) e dalla l. 10.09.1990, nr. 285, che i Comuni possono solo integrare, mediante il proprio regolamento, con rinvio alle disposizioni di cui al DPR 380/2001 (TAR Reggio Calabria, 26.01.2010, nr. 26) e che dunque, in assenza di una specifica previsione regolamentare locale, necessita di un provvedimento espresso in coerenza con il particolare regime, a natura concessoria, che l’Ordinamento disciplina;
- Ritenuto che la dichiarazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza è stata resa solamente in giudizio, da parte del difensore dell’Ente, e non con un provvedimento espresso dell’Autorità indirizzato personalmente al richiedente, con la conseguenza che non si può dichiarare cessata la materia del contendere;
- Ritenuto che, pertanto, il Comune di Bovalino va condannato all’adozione di un provvedimento espresso nei confronti del ricorrente, da emanarsi all’esito del necessario procedimento amministrativo, nel quale assicurare la piena partecipazione del ricorrente medesimo, allo scopo di verificare, in contraddittorio, i presupposti dell’azione amministrativa, entro il termine di giorni trenta dalla comunicazione della presente sentenza -o sua notifica a cura di parte- e con l’espresso avviso che, in mancanza, in luogo del Comune e con oneri a suo carico provvederà un commissario ad acta appositamente nominato dal TAR su istanza di parte, debitamente notificata alla controparte (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 14.06.2012 n. 431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla luce dell’attuale assetto della disciplina in materia di edilizia (DPR 380/2001) e nel riparto delle funzioni derivante dalla riforma del Titolo V della Costituzione, di cui alla L.Cost. 1/2003, il Comune può legittimamente disciplinare forme e condizioni della trasmissibilità tra vivi dei diritti suoi suoli cimiteriali, integrando la disciplina civilistica ordinaria, e può sottoporre l’autorizzazione alla edificazione dei manufatti del servizio votivo alle generali regole dettate dal DPR 380/2001 per l’edificazione ordinaria.
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E'
legittima la previsione regolamentare locale (di polizia mortuaria) che assoggetta l’edificazione nel suolo cimiteriale alle più garantite procedure di autorizzazione proprie della disciplina edilizia generale di cui al DPR 380/2001 ed alla conseguente disciplina (oneri concessori, termini di inizio e fine lavori e così via).
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Quanto al secondo aspetto, parte ricorrente afferma che, avendo fatto istanza per la realizzazione della cappella, sul suolo in questione, ed avendo altresì depositato il relativo progetto presso il Settore tecnico decentrato di Reggio Calabria, ai fini del rispetto della normativa antisismica, sulla istanza relativa al predetto progetto, si sarebbe formato il silenzio assenso ex art. 19 l. 241/1990; in questo senso sarebbe illegittimo il diniego del Comune all’allaccio dell’energia elettrica per il servizio votivo, impugnato con il ricorso introduttivo; inoltre, sarebbe illegittimo il diniego opposto alla istanza in sanatoria, presentata in subordine ex art. 13 della l. 47/1985, nelle more realizzato, ed i consequenziali atti repressivi, che il Comune ha adottato.
Nel merito delle opposte ragioni, si osserva dunque che la tesi di parte ricorrente si fonda sul principio secondo il quale la materia è esclusa dalla potestà di regolamentazione comunale: la cessione del diritto di superficie sull’area cimiteriale, secondo tale impostazione, sarebbe soggetta alle sole norme civilistiche ordinarie, mentre l’edificazione di manufatti del servizio votivo nell’area cimiteriale resterebbe esclusivamente soggetta all’apposita disciplina nazionale di cui al Regolamento approvato con DPR 285/1990 e non a quella ordinaria in tema di edificazione (già l. 10/1977, oggi DPR 380/2001). In questo senso, pertanto, il regolamento comunale sarebbe illegittimo e da disapplicarsi o annullarsi in parte qua.
Ad attento esame, nelle specifiche questioni oggetto dell’odierno giudizio, la tesi del ricorrente è infondata, dovendosi ritenere che, alla luce dell’attuale assetto della disciplina in materia di edilizia (DPR 380/2001) e nel riparto delle funzioni derivante dalla riforma del Titolo V della Costituzione, di cui alla L.Cost. 1/2003, il Comune può legittimamente disciplinare forme e condizioni della trasmissibilità tra vivi dei diritti suoi suoli cimiteriali, integrando la disciplina civilistica ordinaria, e può sottoporre l’autorizzazione alla edificazione dei manufatti del servizio votivo alle generali regole dettate dal DPR 380/2001 per l’edificazione ordinaria.
Si deve premettere che, ai sensi dell’art. 118 Cost. e dell’art. 3, comma 5, del Dlgs 267/2000, il Comune è titolare sia di funzioni proprie, che di funzioni attribuite con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio di sussidiarietà.
Tra le funzioni amministrative proprie del Comune rientrano quelle afferenti l’assetto e l’utilizzazione del territorio (art. 13 del Dlgs 267/2000) che, pacificamente, comprende anche la materia della disciplina delle costruzioni di manufatti cimiteriali, all’interno delle apposite aree.
In questo senso, il principio di sussidiarietà impone di orientare l’interpretazione della disciplina vigente nel senso di assicurare la massima latitudine possibile all’autonomia decisionale comunale, che rappresenta il livello di governo più vicino ai cittadini.
Tale principio implica che la disciplina di cui al DPR 285/1990 costituisce un quadro normativo unitario e mantiene un proprio valore di orientamento uniforme a livello nazionale della regolamentazione delle aree cimiteriali per quanto concerne l’igiene e la sanità collettiva, ma che, per quanto non espressamente disciplinato, o per quanto risulti essere relativo alla specifica incidenza della materia sull’assetto del territorio, può essere integrato dal regolamento comunale.
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Quanto alla necessità del titolo edilizio in ordine al progetto della cappella funeraria, la legittimità del regolamento comunale discende sia dal principio di sussidiarietà, che si è illustrato prima, sia da evidenti considerazioni sistematiche.
Infatti, il tenore della disciplina del DPR 380/01 è tale da attrarre nella sua sfera di applicazione ogni genere di trasformazione edilizia dei suoli e dunque non si vede quale tipo di ragione, in diritto o anche di esigenza di interesse pubblico, dovrebbe comportare una eccezione per gli edifici funerari, peraltro soggetti alla disciplina delle norme tecniche dell’edilizia, in funzione antisismica, che sono disciplinate pur sempre dal medesimo DPR 380/2001 (art. 52 e ss. ed in particolare artt. da 83 in poi).
A ben vedere, l’unica sostanziale ragione secondo la quale parte ricorrente sostiene la estraneità della disciplina in materia rispetto a quella generale, starebbe in una sostanziale specialità del DPR 285/1990, che esaurirebbe in sé la disciplina applicabile, con la conseguenza che l’autorizzazione del sindaco in esso prevista costituirebbe l’unico titolo esigibile per la costruzione del manufatto a servizio votivo dei defunti.
Si deve dare atto che tale argomentazione è fondata sulle conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza più risalente (TAR Sicilia Catania, 18.02.1981, n. 88; Cassazione Penale, sez. III, 02.03.1983) e che, peraltro, anche pronunce recenti hanno mantenuto (TAR Campania, Napoli, 9187/2004).
Tuttavia, il Collegio deve sottoporre a revisione critica l’orientamento appena richiamato: invero, la “specialità” del regolamento di igiene di cui al DPR 285/1990, che trae il proprio vigore dalle norme di cui al testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265, artt. da 337 a seguire, non esclude la necessità del titolo edilizio, quando il regolamento locale lo richiede.
Invero, l’art. 94 del DPR 285/1990, che prevede che i singoli progetti di costruzioni di sepolture private debbono essere approvati dal sindaco su conforme parere della commissione edilizia e del coordinatore sanitario della unità sanitaria locale competente, ha ad oggetto l’esercizio del potere di controllo della corrispondenza del progetto con le previsioni del piano regolatore del cimitero di cui agli artt. 54 e ss. del medesimo decreto, e quindi richiama, nella disciplina territoriale, all’esercizio dei poteri di controllo delle attività di trasformazione del territorio che, come si è visto, sono da ritenersi strutturalmente propri delle competenze comunali ai sensi del Dlgs 267/2000, collocandoli all’interno di un quadro generale costituito dalla regolamentazione del piano regolatore cimiteriale.
Ne consegue che l’art. 94 cit. va interpretato nel senso che non istituisce un procedimento tipico o nominato: il Comune, pertanto, ben può riservare, in via regolamentare, l’esercizio del summenzionato potere di controllo alla disciplina procedimentale propria del DPR 380/2001, assicurando uniformità di presupposti, procedimenti e condizioni all’esercizio del potere di controllo delle trasformazioni edilizie del territorio, sia in area cimiteriale che all’esterno di essa, con la conseguenza che è legittima la previsione regolamentare locale che assoggetta l’edificazione nel suolo cimiteriale alle più garantite procedure di autorizzazione proprie della disciplina edilizia generale di cui al DPR 380/2001 ed alla conseguente disciplina (oneri concessori, termini di inizio e fine lavori e così via) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 26.01.2010 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ma allora, vuoi vedere che se il comune ha disposto, nel proprio regolamento di polizia mortuaria, l'assoggettamento a titolo edilizio (ex dpr n. 380/2001) della costruzione di una edicola funeraria bisogna pure versare gli oneri di urbanizzazione ?? Parrebbe di sì ...

EDILIZIA PRIVATA: La costruzione di una cappella cimiteriale non è esente dal pagamento degli oneri di urbanizzazione.
L'eventuale esenzione necessita della concomitanza di due requisiti: per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo le opere debbono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente
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L’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione richiede l’esistenza di due presupposti che debbono entrambi concorrere, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo le opere debbono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio di tale norma è, infatti, quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici (Consiglio di Stato, Sezione V, 11.01.2006, n. 51).
La Cappella realizzata dall’interessata non può rientrare tra le previsioni di cui alla detta lettera f) tanto dal punto di vista soggettivo quanto da quello oggettivo.
La Cappella, se fosse stata costruita direttamente dal Comune, sarebbe certamente rientrata tra le opere pubbliche realizzate da ente istituzionalmente competente per il soddisfacimento dell’interesse dell’intera collettività.
Alla stessa conclusione si sarebbe pervenuti se il Comune avesse istituito apposito ente per assicurare a tutti i cittadini la possibilità di essere seppelliti e se questo avesse realizzato l’opera.
In conclusione l’opera, se destinata al soddisfacimento del bisogno di tutta la collettività, indistintamente considerata, realizzata direttamente dalla pubblica amministrazione o da un organismo all’uopo creato, ha i requisiti per beneficiare dell’esenzione. Ciò nella considerazione che, se così non fosse, si assisterebbe ad un notevole appesantimento dell’operato dell’amministrazione che attraverso una partita di giro finirebbe col recuperare apparentemente la quota di spese sostenute per l’urbanizzazione della zona interessata dall’edificazione. E chiaramente non avrebbe senso che un settore dell’amministrazione che realizza un’opera pubblica in una zona urbanizzata da altro suo settore rimborsi a quest’ultimo la quota parte delle spese sostenute per la ripetuta urbanizzazione.
Altro discorso va fatto quando un soggetto diverso da quello che la lettera f) definisce istituzionalmente competente realizzi un’opera destinata ad essere utilizzata solo ed esclusivamente dai suoi associati. Detto soggetto, costituito per realizzare l’interesse di una categoria ben definita di persone persegue un interesse apprezzabile non generale ma particolare, e può agire o meno per finalità di lucro. Tale ultima finalità non rileva assolutamente, essendo preponderante la prima, consistente nel perseguimento dell’interesse di un gruppo di persone definibili sulla scorta delle previsioni del suo statuto.
Il perseguimento di un interesse particolare comporta che la Confraternita, che voglia realizzare un immobile nell’interesse degli associati utilizzando un’area cimiteriale, debba corrispondere un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione sostenute dalla collettività. Sarebbe ingiustificato, infatti, che il gruppo di soggetti rappresentati dalla Confraternita utilizzassero gratuitamente le opere di urbanizzazione realizzate dalla collettività, non essendo condivisibile la deduzione della ricorrente secondo la quale nulla sarebbe dovuto in presenza di aree già urbanizzate.
Non esiste nemmeno il presupposto oggettivo considerato che l’opera eseguita dall’interessata non è qualificabile in alcun modo tra le opere di urbanizzazione che l’ultima parte di detta lettera f) individua tra quelle che i privati eseguono in attuazione di strumenti urbanistici (strade previste da un piano di lottizzazione ad esempio) (
CGARS, sentenza 10.06.2009 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa costruzione di una cappella privata, all'interno del cimitero comunale, sconta il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
I due ricorsi si fondano sul postulato che in virtù dell’art. 9, lettera f, della L. n. 10/1977, per la costruzione di una Cappella Cimiteriale non sarebbe dovuto il pagamento dei predetti oneri atteso che le Confraternite è un Ente Ecclesiale non avente scopo di lucro, ma caratteristiche mutualistiche ed assistenziali.
Le Cappelle, secondo l’assunto di parte ricorrente, anche se non destinate a scopi propri dell’Amministrazione, soddisfano bisogni della collettività, anche se la gestione del manufatto Cimiteriale è svolta da privati.
L’iter logico giuridico seguito dalla ricorrente non è condivisibile.
Invero, l’art. 9 della L. n. 10/1977, alla lettera f), disposizione invocata dalla ricorrente per postulare l’esonero dai contributi e pretendere la restituzione del asseritamene indebito, statuisce che non sono dovuti gli oneri di urbanizzazione per: gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici.
Nel caso all’esame del Collegio la Cappella non è sussumibile in nessuna delle fattispecie elencate nella norma surriportata.
Infatti, essa non può essere considerata opera pubblica realizzata da un Ente pubblico istituzionalmente competente, né opera di urbanizzazione realizzata da un privato in attuazione di uno strumento urbanistico, atteso che non risulta che il manufatto de quo sia previsto da alcun strumento urbanistico e neppure che la Confraternita lo abbia realizzato nel quadro di interventi, sia pure a cura di privati, di attuazione delle previsioni di uno strumento urbanistico.
Né dai ricorso o dalle allegazioni processuali è dato dedurre che la Cappella sia stata costruita dalla Confraternita in attuazione di un accordo ex L. n. 241/1990.
Né, ad avviso del Collegio, hanno pregio le considerazioni della ricorrente relative ad una rilevanza della natura non profit della Confraternita, né il presunto fine di interesse generale perseguito dal sodalizio nella realizzazione della Cappella.
Infatti il testo della lettera f) dell’art. 9 della L. n. 10/1977 esclude, per la sua stessa natura di norma di privilegio comportante un esenzione dall’obbligo di versare somme dovute ad un ente pubblico, qualunque interpretazione estensiva od analogica.
Né pur ricorrendo alle predette tipologie interpretative si potrebbe comunque pervenire all’esito interpretativo indicato dalla ricorrente, atteso che la Confraternita pur essendo un sodalizio che non persegue fini di lucro non realizza interessi generali, come ritiene la ricorrente, ma soddisfa un interesse dei confrati (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 03.05.2005 n. 788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Beh, non ce che dire: in questo tempo di crisi socio-economica profonda, di stagnazione del mercato immobiliare, di casse comunali in rosso non è male l'idea di rimpinguare i capitoli di bilancio coi defunti !! Del resto, il mercato dell'oblio non conosce recessione di sorta ... Ma se qualche comune ci fa (o ci ha già fatto) un pensierino al riguardo, ci dice che tipo di oneri urbanizzazione applica ?? Di quale tabella ?? Zona "A", zona "B" ?? Ci verrebbe da pensare alla tabella della zona "C - E ed altre" laddove col termine "altre" sono da ricomprendere (per esclusione) le zone cimiteriali ... Poi, cortesemente, ci vorrà anche spiegare che razza di carico urbanistico comporta l'edificazione di una cappella cimiteriale tale da legittimare la pretesa di versamento degli oo.uu. ...
     Comunque, la questione che più ci sta a cuore è quella della necessità -o meno- del titolo edilizio per l'edificazione di una edicola funeraria all'interno del cimitero comunale. Quindi, se qualche nostro lettore è a conoscenza di altre sentenze che confermino ovvero sconfessino la tesi (da ultimo) del TAR Campania-Napoli citata in premessa
è pregato, gentilmente, di darcene notizia inviandoci una mail cliccando esclusivamente qui: info.ptpl@tiscali.it ... e lo ringraziamo già sin d'ora.
     Se avremo riscontri positivi ne daremo prontamente notizia "su questi schermi" a vantaggio di tutti.
13.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

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Inserito il nuovo bottone: dossier EDICOLA FUNERARIA

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, Tutela del Paesaggio: in Campania “Liberi Tutti ? (12.05.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, Mobilità volontaria ex art. 30 D.Lgs. n. 165/2001: quale giurisdizione sulle controversie sorte sulle relative procedure? Nella ricerca della soluzione del quesito sta il COME ed il PERCHE’ l’ordinamento del Pubblico Impiego deve essere cambiato in fretta dal Legislatore! (07.05.2013).

UTILITA'

APPALTI: LE CENTRALI DI COMMITTENZA PER GLI APPALTI DEI PICCOLI COMUNI - Primo rapporto sull’attuazione dei nuovi obblighi: stato dell’arte e qualche strumento operativo (10.04.2013 - tratto da  www.itaca.org).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

TRIBUTI: OGGETTO: Risposte a quesiti riguardanti detrazioni, cedolare secca, redditi di lavoro dipendente e fondiari, IMU e IVIE (Agenzia delle Entrate, circolare 09.05.2013 n. 13/E).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'applicazione del D.Lgs. 165/2001 alle aziende speciali (CGIL-FP di Bergamo, nota 09.05.2013).

ENTI LOCALIGestioni associate e spesa del personale (CGIL-FP di Bergamo, nota 07.05.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 13.05.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.04.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 06.05.2013 n. 55).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2013, "Integrazioni del capitolato d’oneri generale e del capitolato d’oneri particolare per la vendita in piedi di lotti boschivi di proprietà pubblica approvato con d.d.g. n. 2481/2012 della D.g. Sistemi verdi e paesaggio" (decreto D.G. 30.04.2013 n. 3723).

APPALTI: G.U. 08.05.2013 n. 106 "Procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.02006, n. 163" (AVCP, provvedimento 24.04.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: E. Michetti, Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico (07.05.2013 - tratto da www.gazzettaamministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: P. M. Zerman, Elusione del patto di stabilità interno e responsabilità per danno erariale degli amministratori degli enti locali (link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Oggetto di commento, si legga anche Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte, sentenza 16.01.2013 n. 6 (link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: M. Sala, Sul diritto di coabitazione con l’animale domestico (Immobili & proprietà n. 4/2013 - tratto da www.ispoa.it).

APPALTI SERVIZI: R. Caranta, Accordi tra amministrazioni e contratti pubblici (Urbanistica e appalti n. 4/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Mafrica e M. Petrulli, Altri esempi di particolari interventi edilizi subordinati al rilascio del permesso di costruire (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

ESPROPRIAZIONE: E. I. Blasco, La (non agevole) applicazione della normativa sulla trasparenza ai procedimenti espropriativi - Il problema della pubblicità delle indennità d'esproprio (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

APPALTI: S. Usai, Il potere/dovere della stazione appaltante di non assegnare l'appalto in presenza di motivate ragioni di interesse pubblico (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: N. D'Angelo, Torri anemometriche e pali eolici: regimi abilitativi e violazioni penali (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: P. Sciscioli, Aspetti e profili organizzativi del SUAP alla luce del D.P.R. 160/2010 (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: R. Balasso, La qualificazione tecnico-giuridica degli interventi (parte prima) (L'ufficio tecnico n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, LE CASE MOBILI, I TITOLI ABILITATIVI EDILIZI E LE PREVISIONI URBANISTICHE - LA DISCIPLINA URBANISTICA VALE ANCHE PER LE CASE MOBILI - Non sempre le case mobili vengono installate per fare fronte ad esigenze temporanee (AL n. 6/2012).

CORTE DEI CONTI

APPALTI FORNITURE E SERVIZIPaletti agli approvvigionamenti. O il mercato elettronico o le centrali di committenza. Corte conti Lombardia: sfuggono alla regola solo i beni e servizi non disponibili.
Sfuggono al mercato elettronico o alle centrali di committenza solo le acquisizioni di beni e servizi che sia dimostrato non essere presenti sul alcun mercato elettronico. Tutte le altre acquisizioni debbono necessariamente passare dalle centrali di committenza o dai mercati elettronici.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Lombardia, col parere 23.04.2013 n. 165, chiarisce in termini definitivi la questione connessa agli obblighi incombenti sugli enti locali per le acquisizioni di beni e servizi e sulle centrali di committenza.
Comuni fino a 5 mila abitanti. I comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti sono soggetti a due obblighi alternativi. Il primo è fissato dall'articolo 33, comma 3-bis, del dlgs 165/2001 che impone come prima scelta quella di avvalersi delle centrali di committenza obbligatoriamente costituite mediante unioni di comuni o consorzi; la seconda opportunità è di effettuare gli acquisti «attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328 del dpr 05.10.2010, n. 207».
L'obbligo di avvalersi delle centrali di committenza o, in alternativa, dei mercati elettronici, precisa molto chiaramente la sezione Lombardia, vale tanto per gli appalti di importo superiore alla soglia comunitaria, quanto per gli importi inferiori alla soglia comunitaria. In ogni caso, l'alternativa tra centrali di committenza e mercati elettronici è piena.
Comuni con oltre 5 mila abitanti e province. Gli enti locali di maggiori dimensioni non sono soggetti alle disposizioni dell'articolo 33, comma 3-bis del codice dei contratti. Essi, sopra soglia, sono liberi di attivare procedure contrattuali autonome, a meno che non siano operative le convenzioni di cui all'articolo 26, comma 3 della legge 488/1999 stipulate dalla Consip o dalle centrali di committenza regionali costituite ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 296/2006.
Per gli acquisti sotto soglia, si applica l'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, che obbliga le amministrazioni locali ad effettuare gli acquisti di beni e servizi dai mercati elettronici indicati dall'articolo 328 del dpr 207/2010.
È opportuno precisare che l'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006 si applica anche agli enti fino a 5 mila abitanti, ma in questo caso, detta norma va coordinata con le già viste disposizioni di cui all'articolo 33, comma 3-bis, del codice dei contratti.
Acquisizioni in economia per piccoli comuni. Sfuggono all'obbligo di avvalersi della centrale di committenza valevole per i comuni fino a 5 mila abitanti solo le acquisizioni in economia in amministrazione diretta e quelle mediante cottimo fiduciario, per importi fino a 40 mila euro. Infatti, in questo caso, non essendovi propriamente gare, l'articolo 33, comma 3-bis, del dlgs 163/2006, secondo la Corte dei conti, non trova applicazione.
Tuttavia, proprio perché comunque resta operante l'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, le acquisizioni mediante cottimo fiduciario al di sotto dei 40 mila euro debbono essere effettuate attraverso il Me.Pa. o gli altri mercati elettronici contemplati dall'articolo 328 del dpr 207/2010. Il parere della Sezione afferma che lo stesso vale nel caso dell'amministrazione diretta: occorre aggiungere, però, qualora l'acquisizione occorrente per la resa della prestazione sia inferiore ai 40 mila euro.
Acquisizioni in economia per comuni con oltre 5 mila abitanti e province. Per gli enti di maggiori dimensioni, le acquisizioni in economia mediante cottimo fiduciario debbono sempre essere effettuate ricorrendo ai mercati elettronici. Sfuggono solo le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta, eseguibili con materiali e mezzi già nella disponibilità degli enti (ovviamente, questo vale anche per gli enti fino a 5 mila abitanti).
Acquisti al di fuori dei mercati elettronici. Il parere della sezione Lombardia spiega che la possibilità di ricorrere alla procedura ex art. 125 del dlgs 163/2006 al di fuori dei mercati elettronici residua solo qualora non sia possibile reperire i beni o i servizi necessitati.
A tale scopo, occorre darne atto nella determinazione a contrarre, che dovrà essere necessariamente preceduta dalla evidenziazione delle caratteristiche tecniche necessarie del bene e del servizio e dall'indagine sulla sussistenza nei mercati elettronici disponibili delle prestazioni richieste, avendo cura di specificare la motivazione che illustri la non equipollenza delle prestazioni da acquisire con altri beni o servizi presenti sui mercati elettronici (articolo ItaliaOggi del 10.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIIn conclusione, operando una lettura complessiva dell’articolo 33, comma 3-bis, del codice dei contratti, coordinato con il comma 450 della legge n. 296/2006, si deve affermare che il ricorso ad un’unica centrale di committenza è obbligatorio per tutte le procedure concorsuali relative ad appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria nonché per gli acquisti in economia di importo superiore ad € 40.000,00 mediante cottimo fiduciario e non invece per gli acquisti, mediante medesima procedura, di importo inferiore e per quelli mediante amministrazione diretta.
Conseguentemente, l’obbligo alternativo previsto dal secondo periodo del medesimo comma 33 (“In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 e ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”) dovrebbe trovare applicazione solo per i suddetti acquisti.
Tuttavia, anche per acquisti mediante cottimo fiduciario di importo inferiore ad € 40.000,00 o per acquisti mediante amministrazione diretta, non ricompresi nell’articolo 33, comma 3-bis, cod. contr., trova applicazione l’obbligo di ricorso alle forme di mercato elettronico previste dall’articolo 1, comma 450, della legge n. 296/2006 come modificata dalla legge n. 94/2012 (“al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure”).
Restano salve le specifiche eccezioni sopra riportate.

Quanto, infine, alla portata cogente della norma contenuta nell’articolo 33 cod. contr. (e dell’articolo 1, comma 450, legge n. 296/2006),
si ribadisce l’alternativa offerta ai comuni di popolazione inferiore a 5.000 abitanti (centrale di committenza o mercato elettronico), fermo restando che il mancato ricorso ad una delle due modalità ivi previste determinerà l’applicazione dell’impianto sanzionatorio previsto dall’articolo 1, comma 1, d.l. n. 95/2012.

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Il sindaco del comune di Castel Rozzone, con nota n. 1090 del 11.03.2013, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine all’obbligo delle centrali di committenza per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
In particolare, il comune di Castel Rozzano, richiamata la pertinente normativa (art. 33, comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006), formulava i seguenti quesiti:
a) se sia ipotizzabile che la competenza per la gestione degli affidamenti mediante cottimo fiduciario nonché per quelli disciplinati dall’articolo 125, commi 8 e 11, del codice degli appalti, inferiori ad € 40.000,00, resti in capo al Comune dato il riferimento normativo alla locuzione “gare bandite” contenuto nell’articolo 23, comma 5, legge n. 214/2011. In caso di risposta positiva, il comune precisa che sarà in ogni caso vincolato al ricorso al mercato elettronico stante le disposizioni vigenti per tutti gli enti locali;
b) la reale portata cogente dell’articolo 33, comma 3 bis, d.lgs. n. 163/2006, in ordine all’obbligo di ricorrere ad un’unica centrale ci committenza attesa comunque l’opzione consentita di ricorrere ad altri sistemi di approvvigionamento mediante mercato elettronico: si chiede, in particolare, quali siano le reali differenze, in termini di approvvigionamento di beni e servizi, fra le norme generali poste per i comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti e quelle per i comuni con popolazione inferiore, in relazione all’alternativa posta dalla norma evocata.
...
La questione in esame concerne l’interpretazione dell’articolo 33, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 a tenore del quale “I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici. In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 e ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”.
Tale normativa trova applicazione per le gare bandite successivamente al 31.03.2013 (vedi l’articolo 23, comma 5, legge n. 214/2011 e l’articolo 29, comma 11-ter, legge n. 14 del 2012).
In relazione a tale disposizione vanno esaminati separatamente i due quesiti posti dal Comune.
In ordine al primo quesito, l’Ente locale chiede se sia ipotizzabile che la competenza per la gestione degli affidamenti mediante cottimo fiduciario nonché per quelli disciplinati dall’articolo 125, commi 8 e 11, del codice degli appalti, inferiori ad € 40.000,00, resti in capo al Comune dato il riferimento normativo alla locuzione alle “gare bandite” contenuto nell’articolo 23, comma 5, legge n. 214/2011. In caso di risposta positiva, il comune precisa che sarà in ogni caso vincolato al ricorso al mercato elettronico stante le disposizioni vigenti per tutti gli enti locali.
Detto in altri termini, poiché l’articolo 23 della legge n. 214/2011, che ha introdotto il comma 3-bis all’interno dell’art. 33 codice contratti, nell’individuare la data di decorrenza dell’obbligo di ricorso alle centrali di committenza ha fatto espresso ricorso alle “gare bandite” successivamente ad un certo termine, l’Ente locale si interroga circa l’effettiva portata del menzionato articolo 33, in particolare con riguardo a procedure che non richiedono il previo esperimento di una gara tra potenziali aggiudicatori.
La questione proposta è già stata affrontata dalla magistratura contabile con la deliberazione della Sezione Regionale Piemonte n. 271/2012 le cui motivazioni sono ampiamente condivisibili.
In sostanza, la Sezione Piemonte, dopo aver messo in luce che l’articolo 33 in esame si colloca al titolo I, “contratti di rilevanza comunitaria”, della parte II “contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture nei settori ordinari” del codice dei contratti pubblici, e che per l’applicabilità della stessa anche ai contratti pubblici sotto soglia occorre fare riferimento all’art. 121 del successivo titolo II, ove si prescrive che a questi ultimi si applicano, oltre alle disposizioni della parte I, della parte IV e della parte V, anche le disposizioni della parte II “in quanto non derogate dalle norme del presente titolo”, evidenzia come “le previsioni di cui all’art. 33, comma 3-bis (al pari delle altre contenute nella parte II del Codice), si applicano anche ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alla soglia comunitaria, solo ove non risultino derogate dalle disposizioni di cui al titolo II, rubricato “contratti sotto soglia comunitaria”.
Non è possibile, in altri termini, concludere in termini generale ed assoluti che l’articolo 33, comma 3-bis, non si applichi per tutti gli acquisti/affidamenti sotto soglia comunitaria.
Tra questi, l’articolo 125 del codice contratti, nel disciplinare i lavori, servizi e forniture in economia, distingue tra acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta e acquisizioni in economia mediante procedura di cottimo fiduciario.
Nell'amministrazione diretta le acquisizioni sono effettuate con materiali e mezzi propri o appositamente acquistati o noleggiati e con personale proprio delle stazioni appaltanti, o eventualmente assunto per l'occasione, sotto la direzione del responsabile del procedimento.
Il cottimo fiduciario, invece, è una procedura negoziata in cui le acquisizioni avvengono mediante affidamento a terzi (l’articolo 3, comma 40, cod. contratti prevede espressamente che “le «procedure negoziate» sono le procedure in cui le stazioni appaltanti consultano gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell'appalto. Il cottimo fiduciario costituisce procedura negoziata”).
Per lavori, servizi o forniture di importo pari o superiore ad € 40.000,00, “l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante” (commi 8 e 11 dell’articolo 125 cit.).
Invece, per importi inferiori a tale soglia, per il cottimo fiduciario “è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento”, così come avviene normalmente per l’ipotesi dell’amministrazione diretta.
Dunque, da quanto esposto si può ricavarne la seguente indicazione: mentre l’amministrazione diretta non prevede alcun tipo di gara, per il cottimo fiduciario occorre distinguere a seconda dell’importo di lavori/servizi/forniture.
Se al di sotto dei 40.000,00 euro non occorre l’esperimento di una procedura comparativa, al di sopra di tale soglia è necessario il “rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento” e la “previa consultazione di almeno cinque operatori economici”.
Ciò posto, appare corretto affermare che per le procedure in economia di amministrazione diretta e di cottimo fiduciario inferiore ad € 40.000,00 non trova applicazione l’obbligo del ricorso alla centrale di committenza.
Nell’ipotesi di amministrazione diretta, le acquisizioni sono effettuate con strumenti propri o appositamente acquistati o noleggiati dall’amministrazione, e con personale proprio della stazioni appaltanti, o eventualmente assunto per l’occasione, sotto la direzione del responsabile del procedimento: come rilevato dalla deliberazione della Sezione Piemonte, “si tratta di fattispecie non pienamente compatibili con il ricorso a una centrale di committenza e comunque, in assenza di vere e proprie procedure concorrenziali non rispondenti alla ratio della norma che, come già più volte rilevato, è quella di ottenere risparmi di spesa riducendo i costi di gestione delle procedure negoziali attraverso la concentrazione delle stesse”.
Analoghe motivazioni sostengono l’esclusione dell’obbligo per le procedure di cottimo fiduciario “semplificato” (per importi inferiori ad € 40.000,00).
A sostegno di tali conclusioni milita anche l’argomento letterale: l’assenza, in entrambe le fattispecie, di una procedura concorrenziale non consente di ritenere integrato quel concetto di “gara” previsto dall’articolo 23 della legge n. 214/2011 per individuare la decorrenza cronologica dell’articolo 33, comma 3-bis, cod. contratti.
Diverso il discorso per quanto concerne la procedura di cottimo fiduciario per importi di lavori/servizi/forniture pari o superiore ad € 40.000,00.
In tal caso, infatti, seppure non sia prevista la previa pubblicazione di un bando (art. 31 del Regolamento di esecuzione cod. contr.), la procedura prevede comunque l’esperimento di una gara ufficiosa con la consultazione di almeno 5 operatori economici nel rispetto dei principi di trasparenza e parità di trattamento, così implicando una valutazione comparativa delle offerte ricevute.
Si tratta, quindi, di una procedura semplificata cui si applicano anche le disposizioni della parte II (tra cui l’articolo 33, comma 3-bis, in esame) che non risultano espressamente derogate da quelle previste dal Titolo II per i contratti sotto soglia.
D’altra parte, il ricorso alle centrali uniche di committenza risulta non solo compatibile con detta procedura, ma anche coerente con la ratio della previsione normativa: una gestione obbligatoria per i piccoli comuni da parte di centrali di committenza uniche, può e deve esplicare i vantaggi auspicati, in termini di razionalizzazione e risparmi di spesa, anche con riguardo alla procedura negoziata in esame (deliberaz. Sezione Piemonte cit.).
Si può quindi concludere che “l’applicazione dell’obbligo di ricorso a centrali uniche di committenza per i piccoli comuni, possa in via analogica applicarsi anche al cottimo fiduciario (per importi superiori ad € 40.000,00), valorizzando il momento di esplicazione della gara informale”.
*** *** ***
Con il secondo quesito, il Comune chiede di conoscere “la reale portata cogente dell’articolo 33, comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006, in ordine all’obbligo di ricorrere ad un’unica centrale di committenza attesa comunque l’opzione consentita di ricorrere ad altri sistemi di approvvigionamento mediante mercato elettronico”.
Com’è noto, l’articolo 33, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006, dopo aver introdotto l’obbligo di ricorso alle centrali di committenza, prevede che “in alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”.
Tale normativa, pertanto, si applica per tutti gli acquisti effettuati da comuni inferiori a 5.000 abitanti indipendentemente dalla soglia di rilevanza comunitaria dell’appalto.
Sul punto, va anche ricordato che ai sensi dell'art. 1 -comma 450- della L. 296/2006, come novellato dall'art. 7 -comma 2- del D.L. 52/2012 conv. in L. 94/2012 e dall'art. 1 -comma 149- della L. 228/2012, "fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti dì beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure".
Tale normativa, invece, trova applicazione per tutti i comuni ma con riguardo ai soli appalti di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria.
Nel corpo dell’istanza di parere, infine, il comune richiama l'art. 1, comma 1, del D.L. 95/2012 (cd. seconda "spending review"), convertito in legge 135/2012, che ha previsto che "successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, i contratti stipulati in violazione dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, ed i contratti stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A. sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa. Ai fini della determinazione del danno erariale si tiene anche conto della differenza tra il prezzo, ove indicato, dei detti strumenti di acquisto e quello indicato nel contratto”.
Per quanto concerne il ricorso ai mercati elettronici, occorre rammentare che, giusta l’obbligo sopra richiamato ai sensi dell’art. 1, comma 450, della l. 296/2006, per gli acquisti sotto la “soglia comunitaria” l’utilizzo dei mercati elettronici è stato reso obbligatorio:
• a decorrere dal 01.07.2007, per le amministrazioni statali, centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie;
• a decorrere dal 09.05.2012, per le tutte le amministrazioni come definite ai sensi dell’art. 1, d.lgs 30.03.2001, n. 165, ivi compresi, conseguentemente, gli enti locali. Quest’ultimo obbligo e la sua decorrenza, in realtà, sono il frutto della recente novellazione della norma citata, effettuata dal d.l. 07.05.2012, n. 52 (art. 7, comma 2) convertito con modificazioni dalla l. 06.07.2012, n. 94.
Dunque, dalle normative richiamate, effettivamente non perfettamente coordinate tra loro, emerge il seguente quadro: per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti sussiste un obbligo di ricorso ai mercati elettronici senza alcun rilievo per l’importo dell’appalto (il comma 450 riguarda gli importi sotto soglia, il nuovo art. 33, comma 3-bis, cod. contr. sia quelli sotto che quelli sopra).
Tuttavia, per tali comuni, a differenza di quelli con popolazione superiore, si configura un’alternativa tra il ricorso al mercato elettronico e quello alla centrale di committenza di cui all’articolo 33, comma 3-bis.
L’istituto del MEPA trova oggi una sua compiuta disciplina nell’art. 328 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei contratti pubblici).
La norma ribadisce che il MEPA gestito dalla CONSIP ovvero il mercato elettronico creato ad hoc dalla stazione appaltante o quello realizzato da centrali di committenza ai sensi dell’art. 33 del codice dei contratti pubblici, consentono alle pubbliche amministrazioni di effettuare l’acquisto di beni o servizi che hanno caratteristiche generalmente disponibili sul mercato.
Pertanto, attesa la lata previsione del citato comma 450 legge n. 296/2006 e del nuovo art. 33, comma 3-bis, la possibilità di ricorrere alla procedura ex art. 125 cod. contr. al di fuori di tali mercati residua solo nell’ipotesi di non reperibilità dei beni o servizi necessitati: nella fase amministrativa di determinazione a contrarre, l’ente dovrà evidenziare le caratteristiche tecniche necessarie del bene e della prestazione, di avere effettuato il previo accertamento della insussistenza degli stessi sui mercati elettronici disponibili e, ove necessario, la motivazione sulla non equipollenza con altri beni o servizi presenti sui mercati elettronici.
Peraltro, non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al MEPA Consip, essendo espressamente prevista la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328 del d.p.r. 207/2010: segnatamente, tra il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante e quello realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all’art. 33 cod. contr., potendo inoltre ricorrere alle convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 (le opzioni percorribili sono confermate dall’art. 33, comma 3-bis, cod. contr.)
Ne deriva che, così venendo al profilo della cogenza dell’articolo 33, comma 3-bis, mentre il MEPA gestito dalla CONSIP rientra appieno tra gli “strumenti di acquisto messi a disposizione” dalla stessa (art. 1, comma 1, d.l. n. 95/2012), analoga conclusione non può essere effettuata per i mercati elettronici curati da parte della singola stazione appaltante ovvero ad opera della centrale di committenza.
Tuttavia, a ben vedere, il ricorso a un MEPA diverso da quello gestito direttamente dalla CONSIP appare una modalità alternativa di adempimento rispetto a un obbligo primario direttamente comminato dalla legge, con la conseguenza che troverà applicazione per le operazioni in tal senso non concluse dagli enti locali la nullità c.d. testuale o espressa comminata dal legislatore ai sensi dell’art. 1418, comma 3, c.c. (in tal senso sez. contr. Marche, deliberazione 29.11.2012 n. 169; sez. contr. Lombardia, deliberazione n. 89/PAR/2013).
Trattasi, infatti, di interpretazione estensiva, e non già analogica, utilmente applicabile quindi anche con riguardo a fattispecie tendenzialmente tassative quali le norme comminatorie di nullità.
Tale conclusione non appare contraddetta dall’ultimo periodo del comma 1, art. 1, del d.l. n. 95/2012, che introduce una specifica “prova di resistenza” per le sole Amministrazioni dello Stato (“La disposizione del primo periodo del presente comma non si applica alle Amministrazioni dello Stato quando il contratto sia stato stipulato ad un prezzo più basso di quello derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A.”), determinando come conseguenza quella di impedire, per le sole amministrazioni locali (rispetto a cui l’obbligo di ricorso al MEPA gestito dalla CONSIP è indubbiamente più lasco) il beneficio della verifica del danno.
In effetti, come si ha avuto modo di cennare, per le Amministrazioni dello Stato detto beneficio compensa la circostanza che la disciplina degli obblighi di approvvigionamento sia maggiormente stringente. Per le amministrazioni locali, invece, stante la possibilità di ricorso a diverse forme di reperimento sui vari MEPA, il legislatore ha limitato la possibilità di deroga e di conseguente ricerca sul libero mercato.
Da quanto esposto deriva che, salvo i casi di non reperibilità dei beni e servizi necessitati, l’avvenuta acquisizione di beni e servizi secondo modalità diverse da quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, legge n. 296/2006 e dall’articolo 33, comma 3-bis, cod. contr., da parte di comuni di qualsivoglia dimensione demografica, nella ricorrenza dei presupposti per il ricorso al MEPA, inficerà il contratto stipulato ai sensi del disposto di cui all’art. 1, comma 1, L. 135/ 2012 comportando le connesse responsabilità.
*** *** ***
In conclusione, riassumendo quanto esposto per entrambi i quesiti formulati ed operando una lettura complessiva dell’articolo 33, comma 3-bis, del codice dei contratti, coordinato con il citato comma 450,
si deve affermare che il ricorso ad un’unica centrale di committenza è obbligatorio per tutte le procedure concorsuali relative ad appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria nonché per gli acquisti in economia di importo superiore ad € 40.000,00 mediante cottimo fiduciario e non invece per gli acquisti, mediante medesima procedura, di importo inferiore e per quelli mediante amministrazione diretta.
Conseguentemente, l’obbligo alternativo previsto dal secondo periodo del medesimo comma 33 (“In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 e ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”) dovrebbe trovare applicazione solo per i suddetti acquisti.
Tuttavia, anche per acquisti mediante cottimo fiduciario di importo inferiore ad € 40.000,00 o per acquisti mediante amministrazione diretta, non ricompresi nell’articolo 33, comma 3 bis, cod. contr., trova applicazione l’obbligo di ricorso alle forme di mercato elettronico previste dall’articolo 1, comma 450, della legge n. 296/2006 come modificata dalla legge n. 94/2012 (“al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure”).
Restano salve le specifiche eccezioni sopra riportate.
Quanto, infine, alla portata cogente della norma contenuta nell’articolo 33 cod. contr. (e dell’articolo 1, comma 450, legge n. 296/2006),
si ribadisce l’alternativa offerta ai comuni di popolazione inferiore a 5.000 abitanti (centrale di committenza o mercato elettronico), fermo restando che il mancato ricorso ad una delle due modalità ivi previste determinerà l’applicazione dell’impianto sanzionatorio previsto dall’articolo 1, comma 1, d.l. n. 95/2012 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 23.04.2013 n. 165).

LAVORI PUBBLICINello specifico, il comune di Brignano intende applicare l’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 a mente del quale, in caso di appalto di lavori pubblici, “in sostituzione totale o parziale delle somme di denaro costituenti il corrispettivo del contratto, il bando di gara può prevedere il trasferimento all'affidatario della proprietà di beni immobili appartenenti all'amministrazione aggiudicatrice, già indicati nel programma di cui all'articolo 128 per i lavori, o nell'avviso di preinformazione per i servizi e le forniture, e che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico”.
A parere della Sezione, l’operazione descritta dal Comune non trova alcun ostacolo nella normativa finanziaria che limita l’acquisto di beni immobili.
Con successiva integrazione (nota n. 2089/2013), il Sindaco del Comune di Brignano chiede di conoscere, in linea generale ed al di là del caso concreto prospettato, se il divieto di procedere ad acquisti immobiliari ricomprende anche la permuta immobiliare “alla pari”.
La risposta deve essere negativa. In conclusione, può ritenersi che l’espressione utilizzata dal legislatore nel caso di specie abbia carattere atecnico e che sia più correttamente applicabile ai contratti nei quali l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico.

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Il sindaco del comune di Brignano Gera d’Adda, con nota n. 2302 del 15.03.2013, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in ordine all’articolo 1, comma 138, legge 228/2012.
In particolare, l’Ente si interroga sulla possibilità di procedere alla realizzazione di un’opera pubblica (Polo per l’infanzia) avvalendosi dell’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 il quale stabilisce che, in sostituzione totale o parziale delle somme di denaro costituenti il corrispettivo del contratto, il bando di gara può prevedere il trasferimento all’affidatario della proprietà di beni immobili appartenenti all’amministrazione aggiudicatrice, già indicati nel programma di cui all’articolo 128 per i lavori e che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico.
Sulla base di tali premesse, il Sindaco dell’ente locale chiedeva se l’operazione di “permuta” dell’opera pubblica da realizzare con bene immobile di proprietà dell’amministrazione senza alcun esborso monetario sia compatibile con la legge di stabilità 2013.
Con successiva nota 2089/2013 chiedeva, in linea generale, se il divieto in esame comprendesse o meno le operazioni di permuta “alla pari.
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La questione in esame concerne la possibilità o meno, per il comune di Brignano, di procedere alla realizzazione di un’opera pubblica (Polo per l’infanzia) avvalendosi dell’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 il quale stabilisce che, in sostituzione totale o parziale delle somme di denaro costituenti il corrispettivo del contratto, il bando di gara può prevedere il trasferimento all’affidatario della proprietà di beni immobili appartenenti all’amministrazione aggiudicatrice, già indicati nel programma di cui all’articolo 128 per i lavori e che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico.
Il Sindaco del comune di Brignano chiede di sapere se l’operazione di permuta rientri o meno nel divieto di acquisto beni immobili introdotto dall’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 (comma inserito dall’articolo 1, comma 138, della legge n. 228/2012) ai sensi del quale “per l'anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, (…), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali pubblici e privati, per i quali restano ferme le disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell'articolo 8 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data antecedente a quella di entrata in vigore del presente decreto”.
Nello specifico, il comune di Brignano intende applicare l’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 a mente del quale, in caso di appalto di lavori pubblici, “in sostituzione totale o parziale delle somme di denaro costituenti il corrispettivo del contratto, il bando di gara può prevedere il trasferimento all'affidatario della proprietà di beni immobili appartenenti all'amministrazione aggiudicatrice, già indicati nel programma di cui all'articolo 128 per i lavori, o nell'avviso di preinformazione per i servizi e le forniture, e che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico”.
A parere della Sezione, l’operazione descritta dal Comune non trova alcun ostacolo nella normativa finanziaria che limita l’acquisto di beni immobili.
E’ vero, infatti, che l’Ente locale acquista un’opera pubblica –e quindi un bene immobile– ma è altrettanto vero che l’articolo 1, comma 138, legge n. 228/2012 vieta l’acquisto di immobili a titolo oneroso e non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differita nel tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
D’altra parte, lo stesso articolo 12 della legge n. 111/2011 (modificato dal citato comma 138), comma 1-ter, prevede che “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente:” è chiaro ed evidente il riferimento giuridico alla fattispecie civilistica della compravendita (laddove le parti sono l’alienante e l’acquirente) e non a quella dell’appalto.
Con successiva integrazione (nota n. 2089/2013), il Sindaco del Comune di Brignano chiede di conoscere, in linea generale ed al di là del caso concreto prospettato, se il divieto di procedere ad acquisti immobiliari ricomprende anche la permuta immobiliare “alla pari”.
La risposta deve essere negativa.
Pur consapevole che la permuta, anche ove non preveda movimenti finanziari, è un contratto commutativo e quindi a titolo oneroso, la Sezione ritiene di dare prevalenza ad argomentazioni di diverso tenore, che consentono di escludere che il contratto di permuta ricada all’interno della norma proibitiva degli acquisti.
Dal punto di vista teleologico, innanzitutto, occorre considerare che la disposizione in commento novella un decreto legge recante Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 ”contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari”.
Va poi ricordato che, se è vero che secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (ex plurimis sentenza 18.02.2010, n. 52) il legislatore statale, ai sensi dell’art. 117 Cost., può limitare la capacità negoziale degli enti locali in conformità alla propria spettanza della materia “ordinamento civile”, è altrettanto vero che tali limitazioni devono essere testualmente ed espressamente comminate.
Si impone, pertanto, un’interpretazione del divieto di acquisto costituzionalmente orientata: l’intervento dello Stato, infatti, si giustifica se ed in misura in cui risulta finalizzato al rispetto del principio di coordinamento della finanza pubblica e dell’obiettivo di contenimento della pesa.
Solo in questa prospettiva, dunque, si giustifica il divieto introdotto dall’articolo 1, comma 138, legge n. 228/2012.

Sotto questo profilo, allora, è del tutto evidente che, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali dell’ente afferenti a beni immobili, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata dal richiamato divieto.
A parere della Sezione,
l’ambito applicativo del divieto va allora circoscritto alle categorie giuridiche potenzialmente pregiudizievoli per le finanze pubbliche.
Sotto il profilo letterale, infine, si può osservare che il comma 1-ter dell’art. 12 sopra riportato prevede, tra gli altri, una serie di obblighi concernenti le operazioni di acquisto che prevedono l'indicazione “del soggetto alienante e del prezzo pattuito”.
Dal riferimento alla posizione dell’alienante può cogliersi un grave indizio semantico dell’inapplicabilità del divieto di acquisto ai casi di permuta “pura”, in quanto, come noto, nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirenti sono reciproche e predicabili con riferimenti a entrambi i contraenti.
In conclusione,
può ritenersi che l’espressione utilizzata dal legislatore nel caso di specie abbia carattere atecnico e che sia più correttamente applicabile ai contratti nei quali l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 23.04.2013 n. 164).

INCARICHI PROFESSIONALIIl dettato normativo non sembra, in considerazione dell’ampiezza della locuzione utilizzata, consentire alcuna limitazione al novero delle consulenze prese in esame ai fini della riduzione della spesa”.
Del resto, l’esclusione delle consulenze talmente specialistiche da essere comunque al di fuori delle professionalità interne all’Amministrazione “non appare coerente con la disciplina dettata in materia (articolo 7 del decreto legislativo 165/2001) che prevede, espressamente, tra i presupposti per il ricorso a collaborazioni, il preliminare accertamento dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili all’interno dell’Amministrazione e la natura temporanea e altamente qualificata della prestazione resa da esperti di particolare e comprovata specializzazione”.
Ne deriva che il Comune è tenuto a rispettare il limite di spesa ex art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010, nel vigente quadro legale ed ermeneutico della giurisprudenza costituzionale e contabile.

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Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) ha posto alla Sezione una richiesta di parere sulla corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010.
Più nel dettaglio, l’organo rappresentativo dell’ente osserva quanto segue.
Il Comune nel 2009 ha affidato un unico incarico di consulenza per l’esigua somma di Euro 2.856,00. Premesso ciò, il Sindaco chiede se sia possibile affidare nel 2013 un incarico per assistenza legale per problematiche di particolare difficoltà sorte per pratiche edilizie complesse, non rispettando il limite di cui all’art. 6, c.7, del D.L. 78/2010. In base a tale disposizione, le Pubbliche Amministrazioni possono, per l’anno in corso, conferire incarichi di consulenza nel limite del 20% della spesa effettivamente sostenuta nel 2009.
L’organo rappresentativo dell’ente precisa che tale consulenza legale risulta necessaria: infatti, nel settore tecnico non vi sono figure professionali in grado di formulare pareri su pratiche così complesse, ragion per cui si rivela indispensabile un legale specializzato.
Tale incarico verrebbe affidato di volta in volta specificandone la motivazione, per un importo complessivo non superiore, complessivamente nell’anno 2013, alla somma di euro 10.000,00.

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La tematica relativa all’esegesi dell’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 è stata affrontata dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti in sede nomofilattica, con specifico riferimento alla possibilità di escludere dall’applicazione dei limiti previsti dall’art. 6, comma 7, le spese per incarichi di consulenza “talmente specialistiche che siano comunque al di fuori delle professionalità interne all’amministrazione” (Corte dei Conti, Sezioni Riunite, n. 50/2011).
Il Supremo Consesso della Magistratura contabile, la cui esegesi riveste natura vincolante per tutte le sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti, ha ritenuto che
il dettato normativo non sembra, in considerazione dell’ampiezza della locuzione utilizzata, consentire alcuna limitazione al novero delle consulenze prese in esame ai fini della riduzione della spesa”. Del resto, l’esclusione delle consulenze talmente specialistiche da essere comunque al di fuori delle professionalità interne all’Amministrazione –proseguono le Sezioni Riunite– “non appare coerente con la disciplina dettata in materia (articolo 7 del decreto legislativo 165/2001) che prevede, espressamente, tra i presupposti per il ricorso a collaborazioni, il preliminare accertamento dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili all’interno dell’Amministrazione e la natura temporanea e altamente qualificata della prestazione resa da esperti di particolare e comprovata specializzazione”.
Ne deriva che il Comune di Cisano Bergamasco (BG) è tenuto a rispettare il limite di spesa ex art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010, nel vigente quadro legale ed ermeneutico della giurisprudenza costituzionale e contabile
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.04.2013 n. 157).

INCENTIVO PROGETTAZIONEProgetti, incentivi limitati. Sono strumentali alla realizzazione delle opere. Dalla Corte conti della Campania una lettura restrittiva dei bonus.
L'incentivazione ai dirigenti e dipendenti degli uffici tecnici per la progettazione di strumenti urbanistici spetta solamente se gli stessi sono strettamente connessi con la realizzazione di opere pubbliche.
È questa l'indicazione espressa col parere 10.04.2013 n. 141 dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Campania: siamo in presenza di una lettura assai restrittiva, che limita significativamente l'ambito di applicazione delle disposizioni dettate dall'articolo 92 del dlgs n. 163/2006, codice degli appalti.
Si perviene a questa conclusione non sulla base del dato letterale, ma della ratio della disposizione e del suo inserimento nell'ambito di disposizioni che sono dettate per l'incentivazione dell'apporto degli uffici tecnici alla realizzazione di opere pubbliche. I giudici contabili campani lasciano margini all'autonomia regolamentare delle singole amministrazioni locali, ma chiariscono che essa può essere esercitata esclusivamente su aspetti di dettaglio, quindi senza potere stravolgere questo principio.
In modo altrettanto netto essi chiariscono che si devono ritenere esclusi dal tetto al fondo per le risorse decentrate, cioè dal divieto di superare nel triennio 2011/2013 il suo ammontare del 2010, tutte le incentivazioni previste da questa disposizione, anche se i relativi oneri sono sostenuti direttamente dalle amministrazioni.
Il parere ci dice espressamente che «l'attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell'ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l'attività di progettazione di opere pubbliche». Si deve pervenire a questa conclusione non sulla base di un dato letterale, ma dell'inquadramento sistematico: «L'esclusivo riferimento ai lavori pubblici dell'art. 90 dlgs 163/2006 induce a ritenere che l'art. 92 presuppone l'attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica progettata».
Inoltre, viene evidenziato che «la citata latitudine ermeneutica riconduce l'attività di pianificazione nell'alveo di interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in relazione alle quali l'ente agirà in veste di stazione appaltante». E ancora «è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis siano ascrivibili solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura a evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un'opera di pubblico interesse».
Occorre parlare al riguardo di «tassatività della normativa». Il parere contiene un'apertura, anche se assai ridotta, alla autonomia normative delle singole amministrazioni locali: «Potrebbe comunque competere alla fonte regolamentare prevista dall'art. 92, commi 5 e 6, del dlgs n. 163/2006, definire l'esatta portata ermeneutica del concetto di atto di pianificazione comunque denominato, anche prevedendo un'elencazione delle fattispecie di riferimento, che comunque tengano conto dell'alveo interpretativo elaborato dalla giurisprudenza contabile» (articolo ItaliaOggi del 10.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PATRIMONIO: I proventi di una servitù di passaggio su un terreno di proprietà comunale sono obbligatoriamente ascrivibili al titolo III dell'entrata del bilancio (entrate extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e trasferimenti di capitale).
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Casaletto Spartano chiede a questa Sezione un parere in ordine alla possibilità di acquisizione di un fabbricato “da destinare alla collettività generale e da includere nel patrimonio degli usi civici posseduti dal comune”, utilizzando somme provenienti dal pagamento, da parte della Società Snam progetti, della servitù di passaggio di un gasdotto realizzato su terreni gravati da usi civici.
Il comune prosegue chiedendo se i proventi di cui alla citata servitù possano essere iscritti al titolo IV della parte entrate del bilancio di previsione, finanziando la spesa, prevista al titolo II della parte spesa dello stesso bilancio, per l’acquisizione dell’immobile predetto.

...
Premesso che la Sezione non può affrontare la complessa questione attinente all’immobile relativamente alla possibilità di essere o meno, lo stesso, incluso nel patrimonio degli usi civici del comune, in quanto non in possesso degli elementi utili alla sua risoluzione (essendo, la materia degli usi civici, dettagliatamente disciplinata da una specifica normativa di settore e da copiosa giurisprudenza che varia in relazione alle concrete situazioni specifiche e riguardando, in linea di massima, provvedimenti amministrativi di tipo ricognitivo e non costitutivo dell’uso), nel merito dei quesiti sottoposti –possibilità di acquisizione dell’immobile in oggetto utilizzando i proventi rimessi all’ente da una società, quale corrispettivo della servitù per il passaggio su terreni di sua proprietà, e iscrizione dei proventi stessi nel titolo IV delle entrate– la stessa Sezione si esprime nei seguenti termini.
Il d.leg. 18.08.2000, n. 267, T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, e precisamente l’articolo n. 199 del titolo IV –Investimenti-, prevede quanto segue: “Fonti di finanziamento. 1. Per l’attivazione degli investimenti gli enti locali possono utilizzare:
a) entrate correnti destinate per legge agli investimenti;
b) avanzi di bilancio, costituiti da eccedenze di entrate correnti rispetto alle spese correnti aumentate delle quote capitali di ammortamento dei prestiti;
c) entrate derivanti dall’alienazione di beni e diritti patrimoniali, riscossioni di crediti, proventi da concessioni edilizie e relative sanzioni;
d) entrate derivanti da trasferimenti in conto capitale dello stato, delle regioni, da altri interventi pubblici e privati finalizzati agli investimenti, da interventi finalizzati da parte di organismi comunitari e internazionali;
e) avanzo di amministrazione, nelle forme disciplinate dall’articolo 187;
f) altre forme di ricorso al mercato finanziario consentite dalla legge.
".
Considerato che le entrate che l’ente intende utilizzare –proventi di una servitù di passaggio su un terreno di sua proprietà– sono obbligatoriamente ascrivibili al titolo III dell’entrata del bilancio (entrate extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e trasferimenti di capitale), ed escluso il caso in cui l’ente stesso non sia a conoscenza di una specifica disciplina giuridica (correlata alla situazione di fatto dell’immobile che solo esso è in grado di conoscere e che sfugge invece a questa Corte, non avendo essa la disponibilità degli elementi fattuali della fattispecie concreta), che gli consenta di applicare la lettera a) della normativa succitata –utilizzo di entrate correnti destinate per legge agli investimenti-, questa Sezione esprime parere negativo all’utilizzo specifico dei proventi della servitù per l’acquisto dell’immobile, ritenendo che non sia consentito, alla luce di quanto esplicitamente espresso dalla normativa, l’utilizzo di entrate correnti per l’attivazione di qualsiasi investimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 28.02.2013 n. 25).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque reflue domestiche.
Domanda
Vorrei avere un'elencazione abbastanza esauriente delle acque reflue assimilate alle acque reflue domestiche.
Risposta
L'articolo 101, comma 7, del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006 -Testo unico ambientale (Tua)- dispone che, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate, ex lege, alle acque reflue domestiche le acque reflue:
a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura;
b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame;
c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente in misura prevalente dall'attività di coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità;
d) provenienti da impianti di acquacoltura e di piscicoltura che diano luogo a scarico e che si caratterizzino per una densità di allevamento pari o inferiore a 1 kg per metro quadrato di specchio d'acqua o in cui venga utilizzata una portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo;
e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale;
f) provenienti da attività termali, fatte salve le discipline regionali di settore.
Il dpr 19.10.2011, entrato in vigore il 18.02.2012, amplia sensibilmente il novero delle acque reflue assimilate ex lege a quelle domestiche. Dispone detta norma:
1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 101 e dall'allegato 5 alla Parte terza del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, sono assimilate alle acque reflue domestiche:
   a) le acque che prima di ogni trattamento depurativo presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di cui alla tabella 1 dell'allegato A;
   b) le acque reflue provenienti da insediamenti in cui si svolgono attività di produzione di beni e prestazione di servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente da servizi igienici, cucine e mense;
   c) le acque reflue provenienti dalle categorie di attività elencate nella tabella 2 dell'allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa tabella.
2. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 101, comma 7, lettera e), del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, in assenza di disciplina regionale si applicano i criteri di assimilazione di cui al comma 1. L'allegato A, al su riportato articolo 2, alla tabella 2 elenca le attività che generano acque reflue assimilate alle acque reflue domestiche. Esse sono:
1- Attività alberghiera, rifugi montani, villaggi turistici, residence, agriturismi, campeggi, locande e simili
2- Attività ristorazione (anche self-service), mense, trattorie, rosticcerie, friggitorie, pizzerie, osterie e birrerie con cucina
3- Attività ricreativa
4- Attività turistica non ricettiva
5- Attività sportiva
6- Attività culturale
7- Servizi di intermediazione monetaria, finanziaria, e immobiliare
8- Attività informatica
9- Laboratori di parrucchiera barbiere e istituti di bellezza con un consumo idrico giornaliero inferiore a 1 m3 al momento di massima attività
10- Lavanderie e stirerie con impiego di lavatrici ad acqua analoghe a quelle di uso domestico e che effettivamente trattino non più di 100 kg di biancheria al giorno
11- Attività di vendita al dettaglio di generi alimentari, bevande e tabacco o altro commercio al dettaglio
12- Laboratori artigianali per la produzione di dolciumi, gelati, pane. Biscotti e prodotti alimentari freschi, con un consumo idrico giornaliero inferiore a 5 mc nel periodo di massima attività.
13- Grandi magazzini, solamente se avviene la vendita di beni con esclusione di lavorazione di carni, pesce o di pasticceria, attività di lavanderia e in assenza di grandi aree di parcheggio (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Scheda Sistri.
Domanda
Il sistema di tracciabilità dei rifiuti (Sistri) comporta adempimenti con risvolti penali?
Risposta
Il sistema della tracciabilità dei rifiuti, più noto con il non propriamente acronimo Sistri, sarebbe dovuto entrare in vigore, a pieno regime, quasi in contemporanea con il decreto legislativo numero 205, del 2010. Il 25.12.2010 è entrato in vigore il citato decreto legislativo numero 205, del 2010, che ha riscritto la parte IV del decreto legislativo numero 152, del 2006.
Infatti, il testo dell'articolo 258, del suddetto decreto legislativo numero 152, del 2006, è stato sostituito da una normativa che prevede che la condotta tipica descritta è diversa da quella prevista dalla norma del 2006, per cui applicando in modo corretto le regole della successione di leggi penali nel tempo previste dal codice penale non può essere considerata come reato una condotta da essa difforme.
Ne consegue che il trasporto di rifiuti pericolosi non senza scheda Sistri, sarebbe stato punito dagli articoli 260-bis e ter del decreto legislativo numero 152, del 2006, mentre il nuovo comma 4 dell'articolo 258 del decreto legislativo numero 205, del 2010 sarebbe stato applicabile soltanto alla ristretta categoria di soggetti agenti (titolari o legali rappresentanti di imprese) non aderenti, per scelta, al succitato Sistri.
Nel caso, il sistema sanzionatorio aveva previsto la punizione, in sede penale, di qualsiasi trasporto di rifiuti pericolosi e non senza scheda Sistri o con scheda contenente false indicazioni, sia il trasporto di rifiuti non pericolosi propri da soggetti che avessero scelto di non aderire al Sistri senza formulario o con formulario contenente false indicazioni. Ma il Sistri non è entrato in vigore, tant'è che nel consiglio dei ministri del 15.06.2012, con il decreto legge «sviluppo», è stato previsto il termine di dodici mesi a far tempo dal 30.06.2012, data dalla quale doveva diventare operativo a pieno regime il sistema, per consentire i necessari accertamenti sul funzionamento del Sistri.
Ora la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 24.04.2012, numero 15732, ha affermato che la modifica normativa apportata dalla legge 03.12.2010, n. 205, all'articolo 258 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, ha determinato il venire meno della punibilità della condotta di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti, non più sanzionata penalmente in quanto non riconducibile né alle previsioni del nuovo testo dell'articolo 258 né alla fattispecie introdotta con l'articolo 260-bis, che opera in riferimento alla scheda Sistri e non ai precedenti formulari con la conseguenza che, in applicazione dei principi fissati dall'articolo 2 del codice penale, le condotte poste in essere devono essere ritenute non più riconducibili all'ipotesi di reato contemplate alla disciplina previgente (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione senza opere.
Domanda
Un gruppo di privati ha ottenuto l'approvazione di un piano di lottizzazione di un ampio terreno, su cui dovrà essere realizzato un villaggio turistico. Dovrà essere firmata la Convenzione di Lottizzazione, dopo di che intenderebbero cedere le rispettive quote a un'impresa di costruzioni che realizzerà il progetto, opere di urbanizzazione incluse. Si chiede un parere su come vada inquadrata in chiave tributaria la vendita.
Risposta
La cessione può essere considerata cessione di terreno lottizzato, ai sensi dell'art. 67, 1° comma, lettera a) del Tuir, anche se i cedenti non eseguiranno materialmente le opere di urbanizzazione. Il perfezionamento della lottizzazione sarà dato dalla firma della convenzione urbanistica, mentre il momento di inizio della lottizzazione si è avuto alla data di approvazione del piano (ris. n. 319/E/2008).
Per il calcolo della plusvalenza l'art. 68 del Tuir distingue a seconda che il terreno sia stato acquistato a titolo oneroso o gratuito (situazione che, ovviamente, può variare per ogni proprietario). Nel primo caso, il calcolo della plusvalenza è dato dal corrispettivo percepito meno il valore normale del terreno nel quinto anno anteriore all'inizio della lottizzazione o delle opere; nel secondo è più favorevole in quanto il valore normale del terreno va assunto alla data di inizio della lottizzazione o delle opere o della costruzione.
Da ciò consegue che, in questo secondo caso, se la cessione avviene a breve distanza di tempo dalla data di inizio della lottizzazione la plusvalenza sarà sostanzialmente pari a zero; nel primo caso, invece, al fine di azzerarla si può valutare l'opportunità di rivalutare il terreno in base a una perizia riferita alla data dell'1 gennaio 2013, da redigersi entro il 01.07.2013, pagando l'imposta sostituiva del 4%, rateizzabile, ai sensi dell'art. 1, comma 473, legge n. 218/2012 e dell'art. 7, 6° comma, legge n. 448/ 2001) (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2013).

VARI:  Conservazione del mod. 730.
Domanda
Per quanti anni si devono conservare i modelli 730 presentati?
Risposta
Il modello 730 deve essere conservato fino al quarto esercizio successivo all'anno di presentazione; quindi, ad es., il mod. 730 del 2012 va conservato - unitamente alla relativa documentazione (come ad es. il modello Cud, gli scontrini parlanti per i farmaci acquistati, le ricevute e le fatture delle spese mediche, le quietanze dei bonifici bancari o postali eseguiti per le detrazioni del 36% per le ristrutturazioni edilizie o per le detrazioni del 55% per interventi di riqualificazione energetica; i modelli F24 attestanti i versamenti delle imposte) - fino al 31 dicembre 2016 e così via. Detto termine di conservazione può però, in tutti quei casi in cui si ha diritto a quote di detrazione fiscale frazionabili in più annualità (detrazione del 36% per le ristrutturazioni e del 55% per le spese afferenti a interventi per risparmio energetico) anche andare oltre il quarto esercizio successivo all'anno di presentazione della dichiarazione dei redditi, quindi, per stare all'esempio, oltre il 2016. In questi casi la conservazione deve essere, infatti, estesa fino alla fine del quinto esercizio successivo a quello nel corso del quale è stata detratta l'ultima quota della detrazione Irpef (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L. n. 190/2012. Termine di approvazione del piano triennale di prevenzione della corruzione per gli enti locali.
L'art. 1, comma 60, L. n. 190/2012, prevede che entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della L. n. 190/2012 (28.11.2012), attraverso intese in sede di Conferenza unificata di cui all'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 281/1997, si definiscono gli adempimenti, con l'indicazione dei relativi termini, delle regioni, delle province autonome di Trento e di Bolzano e degli enti locali, nonché degli enti pubblici e dei soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo, volti alla piena e sollecita attuazione delle disposizioni della L. n. 190/2012, con particolare riguardo, tra l'altro, alla definizione del piano triennale di prevenzione della corruzione e alla sua trasmissione alla regione interessata e al Dipartimento della funzione pubblica.
Con nota del 21.03.2013, l'ANCI, nel rilevare, a tale data, che, scaduto il suddetto termine di 120 giorni per l'assunzione delle intese, in seno alla Conferenza unificata, queste non sono ancora intervenute, si è espresso per l'opportunità che gli enti territoriali definiscano, nell'attesa, prime misure in materia di prevenzione della corruzione, propedeutiche alla definizione del piano triennale di prevenzione della corruzione.
Anche la CIVIT, con nota del 27.03.2013, a fronte della mancata definizione delle intese e nell'attesa che queste intervengano, ha espresso il proprio avviso per l'adozione, da parte delle autonomie locali, se lo ritengono, del piano triennale di prevenzione della corruzione, fatte salve le successive integrazioni e modifiche.

Il Comune chiede un parere in ordine all'approvazione del piano triennale di prevenzione della corruzione, di cui alla L. n. 190/2012
[1], in particolare se per gli enti locali valga la scadenza del 31.03.2013 (art. 1, comma 8, L. n. 190/2012 e art. 34-bis, D.L. n. 179/2012 [2]) o se invece gli stessi debbano attendere che vengano definiti gli adempimenti per gli enti territoriali, attraverso le intese in sede di conferenza unificata di cui all'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 281/1997 [3] (art. 1, comma 60, L. n. 190/2012).
Ai sensi dell'art. 1, comma 8, L. n. 190/2012, l'organo di indirizzo politico, su proposta del responsabile della prevenzione della corruzione, entro il 31 gennaio di ogni anno, adotta il piano triennale di prevenzione della corruzione, curandone la trasmissione al Dipartimento della funzione pubblica.
L'art. 34-bis, D.L. n. 179/2012, ha stabilito che, in sede di prima applicazione, il termine di approvazione del piano triennale della prevenzione della corruzione e della sua trasmissione al Dipartimento della funzione pubblica è stato differito al 31.03.2013.
Venendo al quesito del Comune e, dunque, al termine di approvazione del piano triennale di prevenzione della corruzione per gli enti locali, il suddetto Dipartimento della funzione pubblica, con circolare n. 1/2013
[4], ha affermato che le prescrizioni di cui ai commi da 1 a 57 dell'art. 1 si rivolgono a tutte le pubbliche amministrazioni previste dall'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, come chiarito espressamente dal comma 59 dell'art. 1 della legge, il quale precisa che le disposizioni di prevenzione della corruzione sono attuazione diretta del principio di imparzialità di cui all'art. 97 della Costituzione. Pertanto, il campo di applicazione comprende anche le regioni e gli enti locali.
Tuttavia, per le autonomie territoriali -precisa il Dipartimento della funzione pubblica- rimane fermo quanto stabilito dal successivo comma 60, ai sensi del quale, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della L. n. 190/2012 (28.11.2012), attraverso intese in sede di Conferenza unificata di cui all'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 281/1997, si definiscono gli adempimenti, con l'indicazione dei relativi termini, delle regioni, delle province autonome di Trento e di Bolzano e degli enti locali, nonché degli enti pubblici e dei soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo, volti alla piena e sollecita attuazione delle disposizioni della L. n. 190/2012, con particolare riguardo, per quanto qui di interesse, alla definizione del piano triennale di prevenzione della corruzione e alla sua trasmissione alla regione interessata e al DPF.
Al riguardo, l'ANCI, con nota del 05.02.2013, inviata ai Sindaci
[5], evidenziando che gli adempimenti di interesse degli enti locali sono definiti attraverso apposite successive intese in Conferenza unificata, ha affermato che, pertanto, la scadenza del 31.03.2013 per l'adozione del piano triennale di prevenzione della corruzione non è riferita ai comuni. L'Associazione di categoria ha, comunque, sottolineato l'opportunità di procedere, nelle more dell'emanazione di tali provvedimenti, alla nomina del responsabile della prevenzione della corruzione.
Purtuttavia, scaduto, in data 27 marzo u.s., il termine di 120 giorni previsto per l'adozione di intese in sede di Conferenza unificata, si rileva che, ad oggi, queste ultime non sono state ancora assunte.
Con una nuova nota del 21.03.2013, l'ANCI, nel rilevare, a tale data, la mancata definizione delle intese e nel farsi cura di sollecitare i competenti Ministeri a procedere all'insediamento dei tavoli tecnici in Conferenza, si è espressa per l'opportunità che le Amministrazioni, nelle more dell'adozione delle intese, in via prudenziale, procedano a definire le prime misure in materia di prevenzione della corruzione, propedeutiche alla definizione del piano. A tal riguardo, l'ANCI ricorda il rilevante apparato sanzionatorio che ricade in capo al responsabile della prevenzione nel caso in cui all'interno dell'ente si verifichi un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, e il responsabile della prevenzione non possa dimostrare di aver predisposto, prima della commissione del fatto, il piano e di aver vigilato sulla sua applicazione ed osservanza (art. 1, comma 12, L. n. 190/2012
[6]).
L'ANCI, nella nota del 21 marzo, richiamata, dà, altresì, indicazioni in relazione all'iter procedurale per l'adozione del piano triennale di prevenzione della corruzione, che, per espressa previsione di legge, deve essere redatto secondo le indicazioni contenute nel Piano nazionale anticorruzione (che dovrà essere predisposto dal Dipartimento della Funzione Pubblica), secondo linee di indirizzo adottate dal Comitato interministeriale istituito e disciplinato con DPCM, e che verrà poi sottoposto all'approvazione della CIVIT, in qualità di Autorità nazionale per la corruzione [art. 1, comma 2, lett. b), comma 4, lett. c), comma 6)]. Specificamente, essendo ad oggi intervenute soltanto le linee di indirizzo del Comitato interministeriale
[7], l'ANCI invita le Amministrazioni a far riferimento alle previsioni di legge che definiscono le esigenze cui deve rispondere il piano (art. 1, comma 9, L. n. 190/2012), nonché ai contenuti minimi dei piani triennali di prevenzione della corruzione definiti nelle Linee di indirizzo del Comitato interministeriale, sottolineando che, come in esse specificato, le stesse non hanno un carattere stringente ed operativo per gli enti locali, ma dovranno da questi essere 'recepite e adattate nei propri Piani'.
Anche la CIVIT, con nota del 27 marzo u.s., nell'osservare che il Piano nazionale anticorruzione non è ancora stato adottato e che, nell'attesa, le amministrazioni centrali e gli enti nazionali, possono, se lo ritengono, adottare il Piano triennale di prevenzione della corruzione, fatte salve le successive integrazioni e modifiche per adeguarlo ai contenuti del Piano nazionale anticorruzione come approvato dalla Commissione, ha affermato che tali considerazioni possono valere anche per le Regioni e gli enti locali, specie dopo la scadenza del termine dei quattro mesi, di cui all'art. 1, comma 60, L. n. 190/2012, entro cui sarebbero dovute intervenire le intese in sede di Conferenza unificata per definire gli adempimenti per gli enti territoriali.
Avuto riguardo a quanto espresso dall'ANCI e dalla CIVIT, l'Ente potrà valutare, nella sua autonomia, l'opportunità di procedere, intanto, nell'attesa che vengano raggiunte le Intese di cui all'art. 1, comma 60, L. n. 190/2012, in seno alla Conferenza unificata, all'approvazione di un piano triennale di prevenzione della corruzione, che potrà poi essere aggiornato una volta che verranno espressi gli specifici indirizzi per gli enti territoriali.
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[1] L. 06.11.2012, n. 190, recante: 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione'.
[2] D.L. 18.10.2012, n. 179, recante: 'Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese', convertito con modificazioni dalla L. 17.12.2012, n. 221.
[3] Ai sensi dell'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 281/1997, la Conferenza Stato-città ed autonomie locali è unificata per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane, con la Conferenza Stato-regioni.
[4] Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funzione pubblica, Servizio studi e consulenza trattamento del personale, circolare 25.01.2013, n. 1, recante: 'legge n. 190 del 2012 - Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione'.
[5] Anci, prot. n. 11/SIP/AR/mcc-13, del 22.01.2013, Roma. A tale data, l'ANCI, nell'osservare che, ai sensi dell'art. 1, comma 6, L. n. 190/2012, ai fini della predisposizione del piano triennale di prevenzione della corruzione, il prefetto, su richiesta, fornisce il necessario supporto tecnico e informativo agli enti locali, anche al fine di assicurare che i piani siano formulati e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel Piano nazionale predisposto dalla Commissione interministeriale e approvato dalla CIVIT, ha rilevato che il Piano nazionale non era ancora stato elaborato.
[6] Ai sensi dell'art. 1, comma 12, in argomento, il responsabile della corruzione sarebbe chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 165/2001, nonché sul piano disciplinare, oltre che per il danno erariale e all'immagine della pubblica amministrazione.
[7] In attuazione dell'art. 1, comma 4, L. n. 190/2012, con DPCM del 16.01.2013, è stato istituito il Comitato interministeriale per la prevenzione e il contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, che nella seduta del 21 marzo ha approvato le linee di indirizzo per la definizione del Piano nazionale anticorruzione
(06.05.2013 - link a www.regione.fvg.it).

LAVORI PUBBLICI: Realizzazione opere pubbliche su beni patrimoniali indisponibili.
Per orientamento consolidato della giurisprudenza, la disponibilità dei beni demaniali (e similmente quella dei beni patrimoniali indisponibili) dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni, attesa la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuita ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene solo mediante concessione amministrativa, la cui struttura risulta dalla convergenza di un negozio unilaterale ed autoritativo della p.a. (provvedimento di concessione) e di una convenzione attuativa di diritto privato, che pone diritti ed obblighi in capo all'ente concedente ed al concessionario.
Qualora, nell'ambito della concessione, l'ente pubblica conceda l'uso dell'area demaniale, o patrimoniale indisponibile, con facoltà per il concessionario di procedere alla costruzione di un manufatto, il diritto del concessionario si atteggia quale diritto di superficie, per cui colui che costruisce acquista la proprietà della costruzione soprastante il suolo (art. 952, c.c.).
In particolare, il diritto di proprietà del soggetto che costruisce (superficiario) si configura diritto di consistenza reale ma temporaneo, in quanto ha la stessa (limitata) durata della concessione del bene demaniale (o patrimoniale indisponibile) e si estingue, a norma dell'art. 953, c.c., con la revoca della concessione o per la scadenza del termine di durata della stessa, con incremento per accessione della proprietà del 'domimus soli'. Gli effetti dell'accessione automatica non possono essere derogati dall'autonomia negoziale delle parti.
Ai sensi dell'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001, è possibile espropriare un bene appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato o di altri enti pubblici solo per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione.

Il Comune chiede alcuni chiarimenti in ordine alla procedura da seguire per la realizzazione di un'opera pubblica (pista ciclabile) su un argine di canale che risulta appartenere ad un ente pubblico economico, con specifico riguardo all'istituto giuridico utilizzabile, tenuto conto che la nuova costruzione non verrebbe ad inficiare l'utilizzo pubblico già in corso.
Si ritiene utile per la disamina del quesito posto dal Comune muovere da alcune considerazioni sulla natura dell'argine.
Nel nostro ordinamento, le acque pubbliche fanno parte del demanio necessario (idrico) dello Stato. L'art. 822, c.c., prevede, infatti, che 'appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico... i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia'
[1].
La giurisprudenza ha chiarito che la demanialità dei corsi d'acqua pubblici (nel caso esaminato dalla Corte si trattava di un fiume), prevista dalla disposizione codicistica, comporta la demanialità dell'alveo ('principio di inseparabilità tra acqua ed alveo')
[2] ed, altresì, che l'alveo è la parte di terreno coperta dal fiume con le piene ordinarie, affermando che 'fanno parte del demanio idrico, perché rientrano nel concetto di alveo, le sponde e le rive interne dei fiumi, cioè le zone soggette ad essere sommerse dalle piene ordinarie'. Per contra, invece, 'le sponde e le rive esterne, che possono essere invase dalle acque solo in caso di piene straordinarie, appartengono ai proprietari dei fondi rivieraschi' [3].
Per quanto concerne, specificamente, gli argini, la giurisprudenza ha chiarito che anch'essi sono una parte dell'alveo e, precisamente, quella porzione che vale a delimitarla, con la conseguenza che il terreno posto dal lato dove scorre il fiume e che resta coperto dalle piene ordinarie è soggetto al regime del demanio, mentre il resto è suscettibile di privata appartenenza
[4].
Nel caso di specie, viene in considerazione l'argine per la parte esterna, il quale risulta appartenere ad un ente pubblico economico non commerciale costituito da proprietari privati e attualmente interessato da un'opera pubblica diretta al soddisfacimento di un pubblico interesse.
Ai sensi dell'art. 830, comma secondo, c.c., ai beni appartenenti agli enti pubblici non territoriali che sono destinati a un pubblico servizio si applica la disposizione di cui all'art. 828, comma secondo, c.c., in base alla quale i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.
Da una lettura combinata degli artt. 830 e 828, comma secondo, c.c., risulta la riconducibilità dei beni appartenenti agli enti pubblici non territoriali al patrimonio indisponibile in quanto destinati a soddisfare un pubblico servizio
[5].
Venendo al caso di specie, posta l'appartenenza dell'argine ad un ente pubblico economico e il suo attuale utilizzo pubblico, si può affermarne la natura di bene patrimoniale indisponibile (artt. 830 e 828, comma secondo, c.c.).
Un tanto premesso, si passa ora ad esaminare la questione posta dal Comune circa la procedura da seguire per la realizzazione della nuova opera pubblica, tenuto conto di quanto lo stesso precisa sul fatto che questa non verrebbe a compromettere l'utilizzo pubblico in corso, che anzi potrebbe essere migliorato.
Ai sensi dell'art. 823, c.c., i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano: norma dalla quale si è tratto che la disponibilità dei beni demaniali (e similmente quella dei beni patrimoniali indisponibili) dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni, attesa la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuita ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene solo mediante concessione amministrativa
[6].
Circa la struttura del provvedimento in questione, questo risulta dalla convergenza di un negozio unilaterale ed autoritativo della p.a. (provvedimento di concessione) e di una convenzione attuativa di diritto privato, che pone diritti ed obblighi in capo all'ente concedente ed al concessionario
[7], ma la cui efficacia è subordinata al provvedimento amministrativo, unilateralmente revocabile da parte della p.a. per sopravvenuta incompatibilità con il pubblico interesse [8].
Nel caso in esame, l'ente pubblico economico, proprietario dell'argine, potrà utilizzare lo strumento della concessione per attribuire diritti al Comune istante in relazione all'utilizzo dell'argine. In ogni modo, gli aspetti relativi alla disciplina della concessione -onerosità, salvaguardia dell'interesse pubblico cui il bene è destinato (che l'Ente riferisce non verrebbe intaccato dalla nuova opera)- possono essere oggetto di regolamentazione da parte dell'ente pubblico del cui patrimonio indisponibile l'argine fa parte.
Nell'ambito della concessione, l'ente pubblico economico potrebbe concedere al Comune l'uso dell'argine per un determinato periodo di tempo, con riconoscimento al Comune medesimo del diritto di costruire un'opera al di sopra dell'argine. In tal caso, non vi è dubbio che il diritto del (Comune) concessionario avrebbe elementi identici al diritto di superficie
[9], per cui colui che costruisce acquista la proprietà della costruzione soprastante il suolo (proprietà superficiaria, art. 952, c.c.) [10].
Con riferimento a quest'ultimo aspetto, corre, tuttavia, l'obbligo di evidenziare le considerazioni della giurisprudenza relative al diritto di superficie su suolo demaniale (e che possono tornare utili anche con riferimento ai beni del patrimonio indisponibile). Per il Giudice di legittimità
[11], il diritto di proprietà del soggetto che costruisce (superficiario) si configura diritto di consistenza reale ma temporaneo, in quanto ha la stessa (limitata) durata della concessione del bene demaniale (nel caso di specie, patrimoniale indisponibile) e si estingue, a norma dell'art. 953, c.c., con la revoca della concessione o per la scadenza del termine di durata della stessa, con incremento per accessione della proprietà del 'domimus soli' [12]: pertanto, nel caso prospettato, la proprietà della nuova opera passerebbe all'ente pubblico economico proprietario dell'argine. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo cui non è consentito all'autonomia negoziale delle parti derogare agli effetti dell'accessione automatica in favore del proprietario del suolo (nel caso di specie, l'ente pubblico economico) che si determina all'atto di estinzione del diritto di superficie [13].
Il Comune pone un ulteriore quesito in ordine alla definizione di un interesse pubblico superiore ai sensi dell'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001.
L'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001
[14], tratta della possibile espropriazione dei beni pubblici in regime di patrimonio indisponibile. Secondo il codice civile, infatti, tali beni non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828, comma secondo, c.c.). Tuttavia, per l'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001, è possibile espropriare un bene appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato o di altri enti pubblici solo per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione.
Ricorrendo la condizione per cui l'interesse pubblico da perseguire è superiore a quello precedentemente soddisfatto, la destinazione ad un uso pubblico del bene patrimoniale indisponibile, osserva la dottrina, non solo non viene meno per effetto dell'ablazione, ma è addirittura rafforzata, ponendosi il bene al servizio di interessi superiori a quelli già soddisfatti con la precedente destinazione
[15].
Peraltro, osserva ancora la dottrina
[16], il testo unico non disciplina il procedimento attraverso cui valutare comparativamente l'interesse alla espropriazione del bene pubblico con quello al mantenimento della destinazione attuale. Dalla lettura della giurisprudenza rinvenuta risulta che l'avvio della procedura ablatoria, da parte dell'amministrazione interessata, avviene mediante approvazione del progetto dell'opera pubblica da realizzare e che compete al Giudice l'accertamento (su contenzioso instaurato dal soggetto espropriato) della prevalenza dell'interesse pubblico sotteso alla nuova opera rispetto alla precedente destinazione dei beni pubblici espropriati [17].
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[1] I beni del demanio idrico fanno parte del demanio naturale necessario dello Stato, sono cioè beni che non possono non appartenere allo Stato (cfr. A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 1985, p. 140).
[2] C. Cass., sez. un., 06.11.1998, n. 11211.
[3] C. Cass., sez. un., 18.12.1998, n. 12701. Nello stesso senso, Tribunale superiore delle acque, 20.03.1996, n. 32, il quale, con riferimento alla previsione codicistica di cui all'art. 822, c.c., afferma che fiumi, torrenti ed altri corsi d'acqua sono individuati dal loro alveo, intendendosi come tale lo spazio che le acque fluenti giungono a coprire nelle condizioni di piena ordinaria.
[4] Tribunale superiore delle acque, 20.03.1996, n. 32. Nello stesso senso, Trib. Sup. acque, 20.10.1992, n. 79, secondo cui ai sensi dell'art. 934, c.c., la proprietà dell'alveo del lago e cioè del terreno sotto l'acqua o ricoperto dall'acqua durante le piene ordinarie appartiene al proprietario dello stagno o del lago, nella specie il demanio. Mentre, il terreno circostante un lago, che si trovi sopra il livello dell'acqua nelle piene ordinarie, ricoperto solo dalle piene straordinarie, è di proprietà privata.
[5] C. Cass., sez. un., 14.11.2003, n. 17295; C. Cass., 09.04.1998, n. 3667; C. Cass., 28.08.2002, n. 12608.
[6] C. Cass., 26.04.2000, n. 5346; C. Cass., sez. un., 01.07.2009, n. 15378 e C. Cass. 02.03.1989, n. 1161, in relazione ai beni facenti parte del patrimonio indisponibile.
[7] C. Cass. 14.08.1998, n. 8045.
[8] C. Cass., 08.09.1983, n. 5527.
[9] Comm. trib. reg. Firenze, sez. XVI, 22.09.2011, n. 48.
[10] Cfr. C. Cass. n. 1718/2007 e n. 4402/1998, relative alla costituzione di un diritto di superficie nell'ambito di una concessione demaniale.
[11] C. Cass., sez. un., 13.02.1997, n. 1324.
[12] C. Cass., sez. un., 13.02.1997, n. 1324, che richiama, sul punto, C. Cass., 28.02.1969, n. 670.
[13] C. Cass., 27.02.1980, n. 1369, relativa alla concessione di area demaniale con facoltà per il concessionario di procedere alla costruzione di un manufatto.
[14] D.P.R. 08.06.2001 n. 327, recante: 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità'.
[15] Paolo Pirruccio, L'espropriazione per pubblica utilità. Procedimento amministrativo e contenzioso giurisdizionale, Cedam, 2011, p. 68.
[16] Cfr. Francesco Caringella e Giuseppe De Marzo, Il nuovo diritto amministrativo, L'espropriazione per pubblica utilità, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 49-50. Per gli autori, preso atto che non è chiaro chi e in che modo si stabilisce la prevalenza dell'interesse pubblico, si può ipotizzare una iniziativa del promotore della espropriazione volta ad attivare il procedimento in cui si valuti se sottrarre il bene alla destinazione attuale, in funzione del soddisfacimento del diverso interesse sotteso alla procedura ablatoria. Si può poi ipotizzare sia un atto autonomo, di sottrazione del bene alla attuale destinazione, sia la evidenziazione della prevalenza dell'interesse perseguito con la procedura di espropriazione in sede di dichiarazione di pubblica utilità (Cfr. Francesco Caringella e Giuseppe De Marzo, Il nuovo diritto amministrativo, L'espropriazione per pubblica utilità, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 49-50).
[17] Cfr. TAR Puglia, n. 2079/2008 e Cons. St., n. 2047/2010, in cui i Giudici amministrativi si pronunciano su un ricorso proposto da un Consorzio per l'annullamento delle deliberazioni del C.I.P.E. recanti approvazione del progetto definitivo e preliminare del raddoppio di una tratta ferroviaria, e di tutti i provvedimenti presupposti, connessi e conseguenti. Il Consorzio, nel caso di specie, contesta l'avvio della procedura ablatoria promossa per realizzare un'opera approvata da un'altra amministrazione, cui avrebbe fatto seguito l'espropriazione di alcuni immobili appartenenti al patrimonio indisponibile del Consorzio stesso, deducendo, tra le altre censure, la violazione dell'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001
(30.04.2013 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: La centrale unica di committenza si sostituisce al singolo comune.
Domanda
La centrale unica di committenza in vigore dal 01.04.2013 per i Comuni non superiori ai 5.000 abitanti, lascia inalterata la possibilità di ricorrere -per il singolo Comune- alle disposizioni di cui all'art. 125 del Codice dei Contratti in tema di lavori e forniture di beni e servizi in economia? Oppure, anche per i lavori, beni e servizi di importo inferiore ai 40.000 Euro è obbligatorio ricorrere alla centrale unica di committenza?
Risposta
L'art. 33, comma 3-bis, D.Lgs. 12-04-2006, n. 163 stabilisce che "I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'art. 32, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici. In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento...".
E' evidente che la centrale di committenza o il consorzio si sostituiscono al singolo comune nell'espletamento di tutte le gare e, quindi, anche di quelle informali relative alle procedure in economia di cui all'art. 125 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163. Infatti, non può ritenersi autorizzata una lettura limitativa della norma, là dove stabilisce che i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti "affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture", utilizzando l'espressione più ampia.
Inoltre, l'accentramento nelle mani della centrale di committenza o di un consorzio consente -in generale- un risparmio di spesa e la possibilità di ottenere prezzi più convenienti per la P.A., trattando la centrale per una pluralità di enti (26.04.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Applicazione dell'art. 26, comma 3, della L. 488/1999 ai comuni montani con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Le disposizioni previste dall'art. 26, comma 3, della L. 488/1999 -che stabiliscono, per i comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti e per i comuni montani con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, l'inapplicabilità dell'obbligo di ricorrere alle convenzioni Consip ovvero di utilizzarne i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisizione di beni e servizi- pur risultando tuttora vigenti, sembrano, tuttavia, essere state superate dalle norme successivamente approvate, caratterizzate da un sempre più vincolante obbligo di ricorso al sistema del mercato elettronico e delle convenzioni.
L'Ente istante chiede di sapere se le disposizioni previste dall'art. 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, siano tuttora applicabili ai comuni con popolazione al di sotto dei 1.000 abitanti e ai comuni montani con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e se ciò determini che, per gli stessi, non viga l'obbligo di ricorso alle convenzioni Consip o all'utilizzo dei parametri prezzo-qualità ricavabili da queste.
La normativa citata stabilisce che non si applica ai comuni sopra menzionati l'obbligo di ricorrere alle convenzioni Consip, ovvero di utilizzarne i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisizione di beni e servizi, anche con procedure telematiche di acquisto.
Tali disposizioni, oggetto di modifica nel 2003 e nel 2004
[1], pur risultando tuttora vigenti, appaiono essere tuttavia superate dalle norme successivamente approvate, caratterizzate da un sempre più vincolante obbligo di ricorso al sistema del mercato elettronico e delle convenzioni. Come rilevato dalla Corte dei conti [2], attesa l'evidente natura vincolistica dei recenti interventi che hanno profondamente innovato il quadro normativo relativo agli acquisti di beni e servizi della P.A., è necessario effettuare un'interpretazione rigorosa di dette disposizioni tale da non eludere i principi informatori alle stesse sottesi.
Si richiama l'attenzione, in particolare, su quanto previsto dai commi 449 e 450 dell'art. 1 della legge 27.07.2006, n. 296
[3], per gli acquisti sopra e sotto soglia compiuti dalle pubbliche amministrazioni, indipendentemente dalla dimensione demografica delle stesse.
Il comma 449, secondo periodo, richiede a tutte le amministrazioni pubbliche non statali e diverse dagli enti del Servizio sanitario nazionale, di ricorrere alle convenzioni-quadro ovvero di utilizzare i parametri qualità-prezzo, da queste desumibili, come limiti massimi per la stipulazione dei contratti.
Il comma 450, secondo periodo, stabilisce l'obbligo per le amministrazioni pubbliche non statali, fermo restando quanto previsto al comma 449, di ricorrere, per l'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria, al mercato elettronico della pubblica amministrazione (MEPA), ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi dell'art. 328 del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 o al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure.
Si rileva, inoltre, che l'art. 1, comma 7, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, stabilisce una disciplina speciale per l'approvigionamento di beni -quali energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento e telefonia- che non sembra ammettere deroghe o procedure particolari per i piccoli comuni. Tali modalità di acquisto si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche e alle società inserite nel conto economico della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istat ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196.
Si osserva, infine che, per i comuni con popolazione pari o inferiore a 3.000 abitanti, l'art. 4 della legge regionale 09.03.2012, n. 3, letto in combinazione con l'art. 33, comma 3-bis, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), prevede un regime particolare per gli acquisti, stabilendo che questi, dal 01.10.2013
[4], vadano compiuti attraverso un'unica centrale di committenza ovvero, in alternativa, per le sole acquisizioni di beni e servizi, tramite strumenti elettronici gestiti da altre centrali di committenza (ivi compresi le convenzioni-quadro ed il MEPA).
Pertanto, in Friuli Venezia Giulia, per tali comuni (a prescindere dalla loro natura montana) l'obbligo di avvalersi delle convenzioni Consip e di ricorrere al MEPA per le acquisizioni di beni e servizi trova applicazione quale possibile alternativa al ricorso ad un'unica centrale di committenza costituita nell'ambito delle forme associative di cui alla legge regionale 09.01.2006, n. 1
[5].
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[1] L'art. 26, comma 3, della L. 488/1999, è stato dapprima sostituito dall'art. 3, comma 166, della legge 24.12.2003, n. 350 e successivamente dall'art. 1 del decreto legge 12.07.2004, n. 168, convertito con modifiche dalla legge 30.07.2004, n. 191.
[2] Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, parere 21.03.2013, n. 89.
[3] Nel testo risultante dalle modifiche apportate prima dal decreto legge 07.05.2012, n. 52 (convertito con modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94) e successivamente dalla legge 24.12.2012, n. 228.
[4] Termine previsto dalla legge regionale 08.04.2013, n. 5 che posticipa quello del 1° aprile antecedentemente stabilito. Per ulteriori considerazioni sui cambiamenti apportati da tale legge all'art. 4 della legge regionale 09.03.2012, n. 3, si veda la nota prot. n. 11716/P dd. 11.04.2013 di questo Servizio inviata a tutti gli enti locali della Regione.
[5] Sull'applicazione in Friuli Venezia Giulia delle norme sulle centrali di committenza, si veda la nota prot. n. 8437 dd. 14.03.2013 di questo Servizio, inviata a tutti gli enti locali della Regione prima dell'approvazione della novella di cui alla precedente nota
(18.04.2013 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

APPALTIDECRETO PAGAMENTI/ Via libera al Durc retrodatato. Sarà rilasciato prima della compensazione effettiva. I principali emendamenti approvati e i nuovi presentati.
La retrodatazione del Documento unico di regolarità contributiva (Durc) diventa realtà. Le imprese che abbiano chiesto la compensazione del credito con la pubblica amministrazione potranno infatti il ottenere il Durc, nel momento in cui risultano idonee a poter richiedere la compensazione e non più nel momento in cui la compensazione diviene effettiva. Ciò consentirà loro di partecipare alle gare d'appalto (per le quali è necessario essere in possesso del Durc) immediatamente, senza dunque attendere l'effettiva compensazione. Prevista poi anche la creazione di una anagrafe della spesa per la pubblica amministrazione. Gli enti saranno infatti tenuti a comunicare al Ministero dell'economia e delle finanze l'elenco sia dei debiti sia dei crediti di cui sono titolari, esattamente come qualsiasi contribuente.

Questo il contenuto dei principali emendamenti al dl pagamenti (35/2013) approvati durante la seduta della Commissione bilancio alla Camera di giovedì 9 maggio.
Il Durc. In base a quanto previsto nella prima stesura dal dl 35, le imprese per poter ottenere il Durc non solo dovevano poter aver accesso alla compensazione, ma dovevano aspettare che essa diventasse effettiva. Con questo meccanismo, i tempi medi stimati per ottenere il Durc erano tra i 12 e i 18 mesi. Con la conseguenza che le imprese, in mancanza del Documento, sarebbero state costrette a sospendere l'attività.
L'emendamento all'art. 6, proposto dai relatori al decreto pagamenti, Maurizio Bernardo (Pdl) e Marco Causi (Pd), ribalta il meccanismo. In base alle modifiche apportate, le imprese potranno ottenere il Documento unico di regolarità contributiva dal momento in cui ricevono il via libera alla possibilità di compensare, ovvero nel momento in cui il rapporto di debito credito viene certificato.
Il fatto che poi, materialmente, la compensazione effettiva si completi in 12 o 18 mesi, non è più un fattore determinante per ottenere il Durc. Sempre per quel che riguarda la certificazione del credito, è stato approvato anche un emendamento all'art. 9, con il quale ha ottenuto il via libera l'apposito modulo di certificazione del credito previsto dal ministero dell'economia.
L'anagrafe della spesa. Via anche al regime di monitoraggio dei debiti scaduti delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei propri fornitori. Con un emendamento all'art. 7 è stato infatti previsto che ogni anno, a partire dal 01.01.2014, entro il 30 aprile, le p.a. dovranno comunicare attraverso l'apposita piattaforma telematica tutti i debiti scaduti e non ancora pagati alla data del 31 dicembre precedente. Ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni che risulteranno inadempienti o che adempiranno con ritardo, saranno applicate le relative sanzioni.
Soddisfatto del risultato ottenuto con l'approvazione dell'emendamento a sua firma è Enrico Zanetti (Scelta Civica), secondo il quale «con questo meccanismo avremo nel tempo un quadro certo e aggiornato dei debiti che le pubbliche amministrazioni non avranno onorato nei tempi previsti, assicurando così che futuri piani di pagamento degli arretrati possano avvenire con procedure immediate». A tal fine, è stato approvato un altro emendamento all'art. 6, in base al quale le associazioni di categoria potranno stipulare delle convenzioni con il ministero dell'economia, tramite le quali esse stesse potranno fornire al dicastero le informazioni circa la situazione debitoria in cui versa la pubblica amministrazione.
Termini per i controlli. Sono stati infine approvati due emendamenti aventi ad oggetto dei termini perentori. Il primo emendamento, previsto per l'art. 2, sposta dal 30 giugno al 31 luglio il termine ultimo entro il quale il ministero dell'economia potrà effettuare i controlli sui singoli enti circa l'effettivo utilizzo in compensazione delle risorse finanziarie elargite. Il secondo, presentato per l'art. 6, stabilisce in 30 giorni il termine per la p.a. per effettuare i pagamenti alle imprese o i professionisti.
Gli emendamenti dei relatori. L'iter del dl pagamenti non è però ancora giunto al termine. I relatori, dopo l'incontro avvenuto ieri con i rappresentanti del Governo e della Ragioneria dello Stato, hanno infatti presentato un fascicolo di 28 emendamenti, ai quali possono essere presentati sub emendamenti entro le 11 di oggi.
Tra i più importanti, quelli che vertono sulla questione dell'ampliamento del patto di stabilità ai comuni virtuosi, sull'ampliamento delle compensazioni (si veda altro articolo in pagina) e sulla partecipazione delle società in house al meccanismo delle compensazioni (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGOEnti locali. Le regole per le progressioni
IL CASO RISOLTO/ Contratti di lavoro. Nei Comuni no a promozioni automatiche.
Le progressioni orizzontali o economiche devono essere corrisposte in modo selettivo, così da premiare il merito; devono basarsi sulla valutazione, con riferimento di regola a quella dell'ultimo triennio, e possono essere erogate esclusivamente ad una quantità limitata di dipendenti.

Sono queste le principali indicazioni dettate dal Dlgs 150/2009 ed entrate in vigore l'01.01.2010. In precedenza l'Aran ha ritenuto che comunque le progressioni orizzontali dovessero in ogni caso essere erogate in modo selettivo e premiando il merito. Ed ancora che i destinatari non potessero comunque essere contemporaneamente tutti i dipendenti o la stragrande maggioranza di essi, anche se dal 2003 è stato abrogato il tetto numerico del codiddetto baricentro ed è rimasto solamente quello del finanziamento esclusivamente tramite la parte stabile del fondo.
Tale tesi è fatta propria dagli ispettori della Ragioneria Generale dello Stato ed è stata ripresa dalla Corte dei Conti della Basilicata. La stessa sezione giurisdizionale lucana ha inoltre censurato la scelta di un ente di prevedere il ricorso al criterio della anzianità come elemento essenziale di scelta. Si deve inoltre ricordare che il Ccnl limita la possibilità di partecipare alle progressioni ai dipendenti che hanno una anzianità minima di almeno 2 anni nella posizione economica.
Tali indicazioni -sulle quali ci chiede lumi Luigi Tortora, relativamente alle promozioni da lui definite «automatiche» al Comune di Casamarciano (Napoli)- vanno in direzione completamente diversa rispetto a quanto avvenuto nella stragrande, per lo meno, maggioranza degli enti locali e, più in generale, delle Pa. Generalmente, soprattutto nei primi anni 2000, si è infatti scelto di erogare la progressione orizzontale a tutti o quasi i dipendenti; il più delle volte si è approdato a tale esito stanziando risorse che finanziano in modo assai massiccio il ricorso a questo istituto e limitandosi a prevedere il superamento di un punteggio minimo.
Peraltro, nella stragrande maggioranza degli enti locali i criteri di valutazione sono stati oggetto di contrattazione, in quanto allegati al contratto collettivo decentrato integrativo. Tali scelte determinano la violazione delle previsioni dettate dal Ccnl 31.03.1999. Inoltre, molto spesso si assegna un punteggio sia alla anzianità che alla mera frequenza di corsi di formazione, introducendo in tal modo meccanismi di automaticità che cozzano con le previsioni contrattuali, le quali privilegiano comunque criteri selettivi. Non si deve inoltre dimenticare che la decorrenza retroattiva delle progressioni è da considerare illegittima, anche nel caso in cui la contrattazione decentrata arrivi tardivamente.
Sulla base di queste indicazioni si deve ritenere, in modo assai rafforzato dallo 01.01.2010, che le progressioni orizzontali riconosciute a tutti i dipendenti di una stessa categoria sollevino numerosi dubbi di legittimità e che comunque occorre garantire che solamente una quota limitata di personale possa ricevere il beneficio in oggetto. Sta alla contrattazione decentrata individuare cosa concretamente si debba intendere come quota limitata di possibili beneficiari, ovviamente senza stravolgere la chiara indicazione legislativa, per la quale questo strumento deve essere inteso come un premio per i dipendenti che hanno avuto le migliori performance e non come una sorta di scatto periodico del trattamento economico fondamentale (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIAppalti, la metà sarà verde. Dal 2014
Appalti pubblici da aggiudicare con criteri premianti per le offerte migliori sotto il profilo ambientale. Entro il 2014 qualificare come «verde» il 50% degli appalti cui si applicano i criteri ambientali minimi.

Sono queste alcune delle indicazioni contenute nel decreto 10.04.2013 siglato dall'ex ministro Corrado Clini che rivede, per l'anno 2013, il Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione (varato nel 2008), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 03.05.2013, n. 10.
La premessa dell'intervento risiede nella consapevolezza dell'importanza di un migliore uso degli appalti pubblici a sostegno di obiettivi politici e sociali dell'Unione europea, come risulta anche da diverse comunicazioni europee del 2010 e 2011. In quest'ottica assume particolare interesse il capitolo in materia di «appalti verdi e criteri ambientali minimi», che fornisce indicazioni per l'applicazione, negli appalti pubblici, degli elementi di valutazione ambientale all'interno del criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
I criteri ambientali minimi (Cam) consistono in indicazioni specifiche, applicabili per gli appalti sopra e sotto la soglia comunitaria in diversi settori (arredi, edilizia gestione dei rifiuti, servizi urbani, servizi energetici, elettronica, prodotti tessili, cancelleria, ristorazione, servizi di gestione degli edifici e trasporti). Per la fase di selezione, per esempio, si fa riferimento alla opportunità di «selezionare gli offerenti in base alla loro capacità tecnica di assicurare migliori prestazioni ambientali»; per la fase di aggiudicazione si ipotizzano criteri premianti con i quali valutare le offerte che offrono prestazioni o soluzioni tecniche più avanzate rispetto alle caratteristiche definite nel capitolato.
Il decreto sottolinea come le stazioni appaltanti per qualificare «verde» una procedura devono recepire almeno le prescrizioni tecniche, le clausole e le condizioni di esecuzione e selezione dei candidati previsti nei decreti attuativi del piano di azione (articolo ItaliaOggi del 10.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'art. 45 del Tuel non si estende alla sospensione del primo cittadino. Sindaci sostituiti dai vice. La surroga si applica solo ai consiglieri.
L'istituto della surroga provvisoria del consigliere comunale, disciplinato dall'art. 45 del dlgs n. 267/2000, è applicabile anche all'ipotesi della sospensione del sindaco, disposta ai sensi dell' art. 59 del dlgs citato?

L'art. 45 del dlgs n. 267/2000, al comma 2, dispone che «nel caso di sospensione di un consigliere ai sensi dell'art. 59, il consiglio procede alla temporanea sostituzione affidando la supplenza per l'esercizio delle funzioni di consigliere al candidato della stessa lista che ha riportato, dopo gli eletti, il maggior numero di voti».
Tuttavia, la fattispecie in questione, relativa alla sospensione del sindaco, non ricade nell'ambito applicativo dell'art. 45, ma in quello dell'art. 53, il quale inequivocabilmente prevede che il vicesindaco sostituisce il sindaco «in caso di assenza o impedimento temporaneo, nonché nel caso di sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi dell'art. 59
».
Pertanto, la disciplina dell'art. 45, che si riferisce unicamente ai consiglieri comunali, non può trovare applicazione in caso di sospensione dall'esercizio delle funzioni del sindaco, il quale è sicuramente componente del consiglio comunale, ma non consigliere comunale
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Decadenza del consigliere.
Può considerarsi decaduto un consigliere comunale per mancata partecipazione alle sedute del consiglio? È applicabile la disciplina statutaria -ai sensi della quale sono dichiarati decaduti i consiglieri che, senza giustificato motivo, siano assenti dal consiglio per tre sedute consecutive- in caso di autosospensione, da parte di consiglieri comunali di minoranza, effettuata allo scopo di evidenziare il proprio dissenso?

L'istituto della decadenza per mancata partecipazione alle sedute è previsto dall'art. 43, comma 4, del dlgs n. 267/2000 che demanda allo statuto comunale la relativa disciplina, «garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative».
La giurisprudenza ha chiarito che la decadenza dalla carica di consigliere appartiene alla categoria di quelle limitazioni all'esercizio di un diritto al munus publicum che devono essere interpretate restrittivamente.
Di conseguenza la decadenza non può riguardare il deliberato astensionismo di un gruppo politico che rientra nel novero delle facoltà ordinariamente a disposizione delle forze di opposizione, ma piuttosto sanziona comportamenti negligenti dei consiglieri dai quali possano derivare disagi all'attività dell'organo la cui valutazione, meramente discrezionale e di esclusiva competenza del solo consiglio comunale, costituisce il fondamento giuridico del provvedimento.
Al consigliere comunale deve essere riconosciuta la facoltà di far valere le cause giustificative delle assenze nonché fornire eventuali documenti probatori.
Il Tar Lombardia, Brescia sez. II, con la sentenza del 28.04.2011 n. 638, nell'accogliere un ricorso avverso una deliberazione di decadenza di un consigliere per mancata partecipazione alle sedute del consiglio, ha ribadito che l'astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del disinteresse e della negligenza che l'amministratore mostra nell'adempiere il proprio mandato e che rientra nel diritto del consigliere comunale l'impiego di tutti gli strumenti giuridici offerti dall'ordinamento per opporsi a decisioni non condivise (quali, ad esempio, l'espressione di voto contrario, l'astensione dal voto o l'omessa partecipazione alla seduta anche al fine di impedire il formarsi del quorum strutturale).
Pertanto, tali principi giurisprudenziali dovrebbero costituire paradigma di riferimento di un eventuale deliberazione del consiglio del comune ai sensi del proprio statuto comunale, pur rientrando nella discrezionalità del suddetto organo assembleare la valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti dalla citata fonte normativa.
Si soggiunge che l'art. 43 del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto dell'ente di stabilire i casi di decadenza per mancata partecipazione alle sedute, fermo restando «il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative» (ex multis Tar Sicilia sent. 14.03.2011, n. 464) (articolo ItaliaOggi del 10.05.2013).

APPALTIEnti locali, 30 giorni per pagare. Ok all'emendamento su termini perentori - Per le Regioni 2,1 miliardi aggiuntivi.
LE NOVITÀ/ Via libera dei governatori al riparto da 7,2 miliardi Passa la modifica «salva Durc»: varrà la data di emissione della fattura.
Sprint della commissione Bilancio della Camera sul decreto per i pagamenti della Pa: lunedì arriverà il via libera definitivo garantendo l'approdo del provvedimento in Aula martedì mattina. Si è lavorato ancora a tarda sera, con i relatori Marco Causi (Pd) e Maurizio Bernardo (Pdl) impegnati a predisporre nuovi emendamenti su temi chiave a partire dal vincolo di destinazione per le società in house che dovranno girare «prioritariamente» i pagamenti ricevuti dalle amministrazioni ai loro creditori. Altri temi aperti sono il silenzio-assenso per la certificazione dei crediti, un ruolo più rilevante della Cassa depositi e prestiti, l'estensione della compensazione crediti commerciali-debiti fiscali (forse solo tra Stato e Stato).
Disco verde
Tra gli emendamenti approvati nella giornata di ieri rientra quello (primo firmatario Raffaello Vignali del Pdl) che fissa in 30 giorni dall'erogazione degli anticipi di liquidità agli enti locali il tempo massimo per saldare le imprese o i professionisti (sia per il 2013 sia per il 2014). Ma, paradossalmente, non c'è il via libera all'emendamento che fissava lo stesso principio anche per i pagamenti delle Regioni. Passa l'emendamento "salva Durc": «l'accertamento della regolarità contributiva è effettuato con riferimento alla data di emissione della fattura o di richiesta equivalente di pagamento».
La commissione presieduta da Francesco Boccia (Pd) ha accolto anche un emendamento del Movimento 5 Stelle che limita la possibilità per le Regioni di aumentare la pressione fiscale per procedere al pagamento delle aziende che vantano crediti nella sanità. Per coprire le anticipazioni, le Regioni dovranno varare «prioritariamente» misure «di riduzione della spesa corrente». Il principio, però, non è passato per la parte di debiti regionali non relativi alla sanità. Approvato l'emendamento dei relatori che apre ai debiti "fuori bilancio". Stop alla norma che, nel caso di maggiori anticipazioni di tesoreria utilizzate dai Comuni, vincolava una corrispondente quota del gettito Imu. Ancora in bilico l'emendamento, contestato da associazioni di settore a partire da Assobirra, che estenderebbe lo sblocco del patto di stabilità interno agli Ato e alle unioni di Comuni attingendo all'aumento delle aliquote su birra e alcol.
Enti locali e Regioni
Giornata chiave anche per Regioni ed enti locali, con le prime scadenze rispettate, a dimostrazione che la macchina attuativa per ora funziona. La Conferenza dei governatori ha stabilito il riparto di 7,2 miliardi che arriveranno dal Fondo liquidità dell'Economia per saldare i debiti regionali non sanitari. Poco meno della metà va al Lazio (3 miliardi) davanti a Campania (1,7 miliardi) e Piemonte (poco meno di 1,5 miliardi). Seguono Sicilia, Calabria, Toscana, Liguria, Molise, Marche. Le altre Regioni –e questa è di per sé è una notizia– non hanno presentato richieste perché non avrebbero debiti arretrati o avrebbero comunque sufficiente liquidità. Al tempo stesso la Conferenza ha trovato un'intesa, che dovrebbe confluire in un emendamento, per ampliare di 2,1 miliardi il patto verticale: le risorse saranno trasferite dalle Regioni a Comuni e Province per pagare i debiti di parte capitale contratti da questi ultimi con le imprese.
Sempre ieri, in Conferenza Stato-città, è stato raggiunto l'accordo sul riparto dei 5 miliardi di allentamento del patto di stabilità concesso agli enti locali. Unica novità rispetto a quanto anticipato ieri su questo giornale è che lo sblocco potrà essere utilizzato per «sostenere pagamenti in conto capitale» anziché «gli stati avanzamento lavori trasmessi entro l'08.04.2013». In pratica le risorse andranno distribuite prima per i debiti non estinti alla data di approvazione del decreto e solo dopo per quelli che nel frattempo sono stati pagati. Senza più alcuna distinzione tra appalti di lavori e altre forniture (articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIBilanci. Termine al 30 giugno. Fino al 30 settembre spazio a rincari su tutto il fisco locale.
Nel caos che domina i conti locali, privi di qualsiasi certezza sulle entrate fiscali ma anche sulla distribuzione dai tagli disposti nel 2012 dalla spending review ancora da attuare, molti Comuni non hanno assunto nuove decisioni sulle aliquote di Imu e addizionale Irpef entro la scadenza di ieri. All'atto pratico, però, cambia poco: il 9 maggio è solo un primo termine e per ritoccare i conti c'è ancora molto tempo.
La prima scadenza generale è fissata (per ora) al 30 giugno, data entro la quale i Consigli comunali dovranno dare il via libera ai bilanci di previsione 2013. Per scrivere i preventivi, naturalmente, occorre aver deciso le aliquote e calcolato le entrate che ne derivano. Perciò le scadenze per conti e fiscalità locale coincidono. Non è escluso, però, che il termine del 30 giugno slitti: molte amministrazioni sono nell'impossibilità materiale di scrivere bilanci in grado di rispettare i criteri di correttezza e veridicità.
L'ultima legge di stabilità comunque, viste le tante incognite sui conti comunali, ha offerto i tempi supplementari: se c'è l'esigenza di salvaguardare gli equilibri ed evitare che i conti vadano fuori controllo, le amministrazioni potranno alzare addizionali o Imu anche dopo aver chiuso i bilanci preventivi, purché lo facciano entro il 30 settembre.
Il termine indicato dall'ultimo decreto sui pagamenti e scaduto ieri, insomma, serve solo a far incidere le nuove scelte già sul saldo Imu del 17 giugno (il 16 è domenica). L'unica conseguenza, quindi, è che gli aumenti decisi dopo si scaricheranno integralmente sul saldo di dicembre, mentre sulla prima rata i calcoli seguiranno le aliquote decise l'anno scorso (anche per i fabbricati di imprese, alberghi e centri commerciali, con tutte le complicazioni nei calcoli per il cambio di distribuzione del gettito fra Stato e Comuni; si veda l'articolo sotto).
Ma quanto è diffusa la possibilità di incappare in nuovi aumenti, dopo la corsa delle aliquote vista l'anno scorso soprattutto nell'Imu? Per l'imposta sul mattone, il rischio si concentra in particolare nei Comuni che nonostante tutto hanno mantenuto finora inalterati i parametri standard fissati dal decreto Salva-Italia del 2011. Si tratta del 49,5% dei municipi italiani, che quest'anno potrebbero essere costretti a ritoccare in alto le aliquote per far quadrare i conti. Lo stesso potrebbe accadere in un altro 20% abbondante di enti che hanno già rivisto le aliquote senza però toccarne i massimi.
Per le addizionali Irpef, invece, l'intensità del rischio è in una certa misura proporzionale al reddito dichiarato, perché cresce la tendenza a differenziare le richieste fiscali in base ai guadagni dei contribuenti: una tendenza corretta, ma solo se le dichiarazioni fossero sempre fedeli ai redditi reali dei contribuenti.
A moltiplicare il rischio, anche quest'anno è comunque il "costo fiscale" dell'incertezza che connota sempre di più le regole di finanza pubblica. Sembra un concetto astratto, ma diventa concretissimo se ci si mette nei panni di un sindaco (o, peggio, di un responsabile dei servizi finanziari). Oggi i Comuni ignorano l'entità delle entrate da Imu, la somma del fondo di solidarietà (gli ex-trasferimenti, oggi alimentati sempre dall'Imu) e, sulle uscite, la quota di tagli che dovranno subire quest'anno. È ovvio che, per evitare sorprese, la via d'uscita fiscale possa diventare trafficata (articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIImu, comuni scontenti. A rischiare di più saranno le seconde case. Le considerazioni del Cnai sull'annuncio di sospensione dell'imposta.
La scadenza dell'Imu viaggia sul filo dell'incertezza.
Siamo in attesa del decreto di sospensione dell'Imu, come dichiarato dal premier Enrico Letta, per la rata di giugno.
Il decreto di prossima emanazione dovrebbe riguardare la sospensione del pagamento Imu solo sulla prima casa, portando benefici alla maggior parte dei cittadini, in quanto proprietari di un unico immobile, appunto l'abitazione principale.
Malumori invece dai comuni che vedono sfumare milioni di euro già riportati in bilancio, senza stanziamento di risorse alternative.
Il Cnai è convinto della necessità di sospendere l'Imu fino ad arrivare all'abrogazione dell'imposta stessa, tuttavia non si può prescindere da alcuni ragionamenti. A causa della riduzione del gettito dovuta dalle prime case, i comuni potrebbero decidere di aumentare le aliquote sulle seconde case; chiaramente le ripercussioni non mancherebbero, per esempio un ulteriore crollo del mercato immobiliare e rischi di speculazioni finanziarie a scapito dei meno facoltosi. Alcuni comuni stanno anche lavorando per aumentare l'aliquota sulla prima casa, se venisse sospeso il pagamento di giugno e a questa prima iniziativa non si aggiungessero ulteriori interventi, il pagamento per intero ricadrebbe sulla rata di dicembre, con l'aggravio di una maggiore percentuale dell'imposta, così i comuni andrebbero a recuperare anche la perdita subita a giugno, e con l'aliquota maggiorata vedrebbero equiparato ampiamente il valore del denaro incassato a dicembre. Altri stanno pensando di non riconfermare le ulteriori quote di esenzione previste per le fasce di cittadini svantaggiati e più poveri, quindi anche in questo caso, il mancato incasso della rata di giugno peserebbe addirittura sulle persone più bisognose.
Altra perplessità riguarda sempre le seconde case, quelle in locazione. L'aumento dell'Imu porterebbe sicuramente un relativo aumento dei canoni di affitto, ma di conseguenza vi sarebbe una ripercussione sull'imposta di registro, un aumento tirerebbe l'altro; facilmente più di qualcuno penserà a incassare la maggiorazione del canone, o addirittura l'intero affitto in nero. Ovviamente anche in questa ipotesi i danni erariali sarebbe elevati.
Inoltre non dimentichiamo i tempi, Caf professionisti e consulenti, in questo periodo sono alle prese con infinite scadenze fiscali, hanno diritto a organizzare nella maniera più opportuna il loro lavoro, ma come fanno se a oggi non si sa se pagare oppure no; la scadenza Imu è prevista per il 17 giugno prossimo, al Caf Cnai e al Cnai, portavoce dei professionisti e delle aziende rappresentate, lamentiamo le lungaggini della burocrazia e la lentezza operativa, che non consente di agire con correttezza portando tutti ad attivarsi all'ultimo minuto, senza dimenticare la farraginosità del calcolo.
Senza parlare del principio di incostituzionalità su cui si fonda l'Imu. Gli italiani pagano e rischiano di pagare un'imposta ingiusta sulle abitazioni che nel nostro paese rappresentano la forma più comune di investimento. Queste le parole del presidente del Cnai, Orazio Di Renzo, che sintetizza dichiarando: «Chi riesce con sacrifici e impegno a pagare una casa e a possederla, per lo stato e le banche rappresenta sicuramente una forma di garanzia e di stabilità, anziché premiarlo al contrario viene pluripenalizzato, da quando decide di contrarre il mutuo per l'acquisto. Riprendendo un nostro concetto, è proprio vero che tutti i comportamenti messi in essere dalla nostra politica sembrano preferire una società liquida, dove tutto è incerto e senza struttura, senza garanzie né progetti. Se non fosse per i cittadini che oggi possiedono un'immobile, tutto l'apparato pubblico potrebbe lavorare sul nulla, perché nessuno avrebbe niente da rischiare; se molti sono ligi nei pagamenti e attenti a come agiscono è soprattutto per non perdere quello che hanno, appunto la casa, tutto il resto gira intorno al concetto di improvvisazione» (articolo ItaliaOggi del 09.05.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIAVVOCATI/ A breve al ministero della giustizia i nuovi parametri elaborati dal Cnf.
Tutti i compensi in 40 tabelle. Fino a 25 mila euro per l'intero giudizio in tribunale.

Tra i mille e i 25 mila euro. È il parametro per la determinazione, da parte del giudice, del compenso di un avvocato che segue il cliente dall'inizio alla fine in un giudizio ordinario innanzi al tribunale, che varia a seconda del valore della controversia: per una causa di un valore medio tra i 5.200 e i 26 mila euro il cliente, in mancanza di accordo, dovrà pagare l'avvocato che l'ha seguito in tutte le fasi di giudizio circa 7.500 euro.
Sono i nuovi parametri degli avvocati approvati dal Consiglio nazionale forense (si veda ItaliaOggi del 7 maggio scorso). In tutto 40 tabelle che, allegate alla parte normativa, saranno inviate a breve al ministro della giustizia, Anna Maria Cancellieri, per il via libera definitivo. Dal giudice di pace, alla Corte d'appello, all'arbitrato, si tratta di valori tabellari ad hoc per ogni tipo di procedimento, di cui dovrà tenere conto il giudice nel momento in cui liquida il compenso dell'avvocato, in mancanza di accordo tra il legale e il cliente. Da questi valori, si potrà discostare in aumento fino al 70% e in diminuzione fino al 30%, tenendo conto «delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata».
Entriamo nel dettaglio delle tabelle, considerando che riguardano il settore civile e corrispondono ciascuna al tipo di procedimento (comprese la materia stragiudiziale, la mediazione, le procedure concorsuali, quelle arbitrali, i processi amministrativi e tributari, i processi davanti alle giurisdizioni superiori). Mentre una tabella riguarda il settore penale.
Giudice di pace. Le tabelle elaborate dal Cnf sono suddivise in fasi e per valore della controversia. Per quanto riguarda i giudici di pace, le fasi sono cinque: studio della controversia, fase introduttiva del giudizio, istruttoria o trattazione, fase decisionale e compenso per prestazioni post decisione. Per una causa del valore fino ai 1.100 euro, il compenso dell'avvocato, considerando tutte le fasi di giudizio, sarà di 550 euro. Mentre per una controversia di valore tra i 5.200 e i 26 mila euro sarà di 3.250 euro.
Tribunale. I valori tabellari dei giudizi ordinari e sommari di cognizione innanzi al tribunale, invece, sono suddivisi sempre in cinque fasi ma in sei classi di valore. Si va di circa mille euro previsti per una controversia fino ai 1.100 euro ai 25 mila per una causa seguita dalla A alla Z dall'avvocato di valore tra i 260 mila e i 520 mila euro.
Giudizi di lavoro. Anche per i giudizi di lavoro le fasi processuali sono cinque, mentre gli scaglioni sono sei. Per un giudizio di valore medio, tra i 5.200 e i 26 mila euro, il parametro del compenso dell'avvocato di cui dovrà tenere conto il giudice, considerando tutte le fasi, è di otto mila euro.
Giudizi di previdenza. Stessa suddivisione di fasi e valore per i giudizi di previdenza, dove si va dai mille euro che il giudice dovrà considerare come riferimento per il compenso dell'avvocato che ha seguito tutte le fasi di una causa fino ai 1.100 euro, ai 27.500 per una controversia che invece va dai 260 mila ai 520 mila euro.
Corte d'appello. Per i giudizi innanzi alla Corte d'appello i parametri per la definizione del compenso dell'avvocato che dovrà pagare il cliente in caso di mancato accordo, oscilla tra i mille euro per lo scaglione base considerando tutte le fasi di giudizio, ai 29.500 euro per l'ultima classe di valore. Per una controversia che invece va dai 5.200 ai 26 mila euro il valore derivante dalla somma di tutte le fasi è pari a 8.700 euro.
Tar e Consiglio di stato. Per quanto riguarda il Tribunale amministrativo regionale, invece, le fasi previste sono sei, con in più la fase cautelare. Considerando anche in questo caso lo scaglione base, il valore tabellare che dovrà tenere in considerazione il giudice, sommando tutte le fasi, è pari a 1.400 euro. Una causa di valore medio può costare invece al cliente 8.900 euro. Stesso discorso per i giudizi innanzi al Consiglio di stato, dove il compenso dell'avvocato che segue la controversia in tutte le sue fasi di giudizio va dai 1.200 euro per una causa rientrante nel primo scaglione ai 24.600 euro per l'ultimo scaglione.
Arbitrato. Per il collegio arbitrale, invece, il compenso è unico ed è suddiviso in quattro scaglioni. Si va dai 6.400 euro per una causa di valore fino ai 26 mila euro, ai 54 mila previsti per l'ultimo scaglione che va dai 260 ai 520 mila euro (articolo ItaliaOggi del 09.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il Cnf ha approvato i parametri per la liquidazione delle spese legali. La parola al mingiustizia.
Nuovi compensi per gli avvocati. Sarà il valore della causa a determinare minimi e massimi.

Elaborati i nuovi parametri per i compensi degli avvocati. Per il giudice, in mancanza di accordo tra legale e cliente, saranno determinanti le caratteristiche, l'urgenza e il pregio dell'attività prestata. Con tabelle dettagliate per ogni tipo di giudizio, valore della controversia e fasi dell'attività processuale.
È la bozza di decreto ministeriale approvata dal Consiglio nazionale forense, in base alla delega conferita dalla riforma forense (legge n. 247/2012), e che sarà inviata a giorni al ministero della giustizia per il via libera definitivo, così da superare i vecchi parametri stabiliti dal dm n. 140/2012.
Il meccanismo per la determinazione del compenso si rifà a quello dei minimi e massimi tariffari: per un giudizio ordinario innanzi al tribunale si va, infatti, dai 190 euro previsti per la fase di studio di una causa (del valore massimo di 1100 euro) ai 5000 euro (per la stessa attività prestata però per una causa dal valore compreso fra i 260 e i 520 mila euro). Ma il giudice potrà discostarsi dai valori tabellari. Vediamo nel dettaglio la proposta del Cnf, presentata alla categoria nell'assemblea unitaria di sabato scorso, 4 maggio.
La determinazione del compenso. L'articolo 5 riporta i «criteri generali per la determinazione dei compensi». In pratica, in caso di liquidazione del compenso dell'avvocato da parte del giudice, in mancanza di accordo tra avvocato e cliente, il giudice dovrà tenere conto «delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata». Come l'importanza dell'opera, la natura e il valore della pratica, la quantità delle attività compiute in relazione alla posizione processuale e all'impulso dell'azione, le condizioni soggettive del cliente, i risultati conseguiti, il numero delle questioni trattate, i contrasti giurisprudenziali, la quantità e il contenuto della corrispondenza intrattenuta dall'avvocato con il cliente e con gli altri soggetti nel corso della pratica. Il giudice dovrà obbligatoriamente tenere conto dei parametri di cui alle tabelle e, ove ricorressero i presupposti, «nella liquidazione potrà motivatamente discostarsi in aumento fino al 70% ovvero in diminuzione fino al 30%».
Le tabelle dei parametri riguardano il settore civile e corrispondono ciascuna al tipo di procedimento (compresi la materia stragiudiziale, la mediazione, le procedure concorsuali, quelle arbitrali, i processi amministrativi e tributari, i processi davanti alle giurisdizioni superiori). Una tabella riguarda invece il penale.
La proposta del Consiglio nazionale forense «supera il decreto Parametri 140/2012», si legge in una nota diffusa dal Cnf, «in relazione non solo agli ingiustificati abbattimenti dei compensi che giungono fino alla metà per le attività di difesa previste dalla legge a carico dei legali, ma anche in relazione a gravi lacune, peraltro puntualmente segnalate in note inviate sin dalla predisposizione del decreto 140 al ministero della giustizia» (articolo ItaliaOggi del 07.05.2013).

TRIBUTI: La Ctr di Firenze sui valori Ici/Imu. Accertamenti standard ko.
La determinazione dei valori delle aree edificabili richiede anche il buon senso. L'accertamento Ici (e Imu) fondato sul valore di mercato deve essere fatto area per area e non per zone omogenee, applicando i valori indicati in una tabella. La definizione dei valori delle aree con regolamento, infatti, viola i limiti fissati dalla legge all'esercizio del potere regolamentare, in quanto i comuni non possono individuare e definire le fattispecie imponibili.

Lo ha affermato la commissione tributaria regionale di Firenze, Sez. XXIV, con la sentenza 15.02.2013 n. 8.
Per i giudici il comune così come non può stabilire un valore imponibile per i fabbricati diverso da quello calcolato sulla base della rendita catastale, «non può neanche -per le aree edificabili- mutare il criterio di calcolo basato -per legge- sul valore venale in comune commercio».
Secondo la Ctr, l'articolo 52 del dlgs 446/1997 pone dei limiti alla potestà regolamentare dei comuni sull'individuazione e la definizione delle fattispecie imponibili. Un'area edificabile è soggetta a Ici sulla base del suo valore di mercato e, si legge nella pronuncia, «tale valore, proprio perché individuale e, quindi, unico, difficilmente potrà essere riconducibile a una qualche tabella di valori fissata dall'ente, sia pur per zone omogenee».
Dunque, l'accertamento va fatto area per area «tenendo conto di una serie di elementi, in parte dettati dalla norma, in parte dal buon senso». In realtà, i criteri per determinare il valore di un'area edificabile sono fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Questa norma si applica sia all'Ici sia all'Imu. Occorre fare riferimento a zona territoriale di ubicazione dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche.
I valori possono essere deliberati dal consiglio comunale o dalla giunta. La differenza tra i due atti generali è data dal fatto che i valori medi fissati dal consiglio con regolamento sono vincolanti, mentre sono solo delle direttive interne se deliberati dalla giunta (articolo ItaliaOggi del 07.05.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: La trasparenza nella P.A..
Amministrazioni senza segreti. Da pubblicare i redditi dei politici, gli appalti e le liste d'attesa delle Asl.
ACCESSO GENERALIZZATO/ Non serve dimostrare di avere interesse: chiunque può richiedere la messa in rete dei documenti mancanti.

La pubblica amministrazione è chiamata a un grande sforzo di trasparenza. Dal 20 aprile –data di entrata in vigore del decreto legislativo 33, provvedimento indotto dalla legge anticorruzione 190 del 2012– gli enti devono, infatti, pensare alla pubblicazione online –su una sezione ad hoc dei loro siti istituzionali, spazio definito "Amministrazione trasparente"– di un lungo elenco di informazioni e dati (la Civit ne ha contati circa 200): dagli incarichi di consulenza e relativi compensi ai costi della politica (redditi, eventuali altri compiti con annesse retribuzioni, delibera di nomina, curriculum, durata del mandato) di chiunque rivesta una carica elettiva; dalle liste di attesa delle Asl alle notizie sulle gare pubbliche; dai bilanci delle società controllate o partecipate alle spese del personale con rapporto di lavoro indeterminato e determinato; dai bandi di concorso ai rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali.
L'elenco non è esaustivo dei gravosi compiti a cui la Pa è chiamata in questi giorni per rendere trasparente la propria attività. Non solo. Le informazioni da pubblicare online dovranno essere aggiornate, facilmente accessibili e consultabili e anche riutilizzabili. Si tratta, pertanto, di mettere in campo un ripensamento dell'organizzazione interna degli uffici –a cominciare dalla nomina del responsabile della trasparenza– che comporterà non poca fatica. Sforzo che, però, può anche essere non così imponente per quelle realtà che finora non hanno trascurato la trasparenza. Perché le regole sulla pubblicità degli atti non sono di oggi. Il decreto 33 da una parte ha riorganizzato gli adempimenti prima contenuti in varie normative (in questo senso si può parlare di testo unico sulla trasparenza) e dall'altra ne ha introdotti di nuovi. Dunque, per quelle amministrazioni per le quali l'accesso ai documenti non è finora stato un fastidio –non così tante, per la verità–, la strada si presenta in discesa.
Con l'obiettivo di fornire ai cittadini e alle imprese informazioni anche importanti: in campo sanitario, ad esempio, le Asl devono pubblicare per ogni prestazione non solo i tempi di attesa previsti, ma anche quelli effettivi; per gli appalti di lavori, servizi e forniture deve essere reso noto l'elenco delle gare, ma anche i casi di trattativa privata con le motivazioni.
In teoria, una volta messi a punto gli schemi da parte dell'Autorità dei contratti pubblici, devono essere resi noti tempi e costi delle opere pubbliche. E ancora: dal sito ogni impresa deve poter valutare i tempi medi di pagamento, nonché l'elenco di tutti i pagamenti a qualsiasi titolo versati a imprese e privati di importo superiore ai mille euro.
Le amministrazioni finora in ritardo sulla trasparenza devono, dunque, rimboccarsi le maniche. Tenuto conto che il sistema delle sanzioni è stato reso più penetrante ma che, soprattutto, è stato fornito ai cittadini uno strumento in grado di tenere le pubbliche amministrazioni sulla corda. Si tratta dell'accesso civico, ovvero della possibilità di chiedere (e ottenere entro trenta giorni) la pubblicazione online degli atti che l'amministrazione non rende conoscibili.
A differenza del diritto di accesso sancito dalla legge 241 del 1990, subordinato all'esistenza di un particolare interesse da parte di chi vi fa ricorso (per esempio: posso chiedere di conoscere gli elaborati di un concorso solo se sono un candidato), l'accesso civico è privo di vincoli, se non quello di potervi ricorrere solo quando l'amministrazione è inadempiente, ovvero non pubblica sul proprio sito le informazioni che dovrebbe. Per il resto, il nuovo diritto è aperto a tutti, non ha bisogno di motivazioni ed è gratuito. E ha l'ulteriore pregio di far «scattare» la segnalazione dell'inadempienza al responsabile della trasparenza, che a sua volta «segnalerà» il funzionario inadempiente all'ufficio disciplina interno (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIIl dl 35/13 ha rimesso in termini i contribuenti che non hanno ancora provveduto.
Imu, dichiarazioni senza fretta. Tempo fino al 30 giugno per acquisti effettuati nel 2012.

Si allungano i termini per la presentazione della dichiarazione Imu. Slitta al 30 giugno dell'anno successivo all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni.
Lo prevede l'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013) che, oltre a modificare il termine per la dichiarazione a regime, il cui obbligo prima dell'intervento normativo era soggetto al termine breve di 90 giorni, ha anche rimesso in termini i contribuenti che non hanno ancora provveduto all'adempimento per acquisti effettuati a partire dalla data di istituzione dell'imposta municipale (01.01.2012).
Tutti i soggetti interessati hanno la possibilità di assolvere all'obbligo entro il prossimo 30 giugno. Pertanto, anche chi non ha presentato la dichiarazione nei termini non è sanzionabile, purché provveda a regolarizzare la propria posizione.
La scadenza. Sul nuovo termine per le dichiarazioni Imu è intervenuto il ministero dell'economia e delle finanze, con la circolare 1/2013, che ha fornito dei chiarimenti sia ai comuni che ai contribuenti. Secondo il ministero, l'ampliamento del termine per la presentazione della dichiarazione «ha lo scopo di evitare un'eccessiva frammentazione dell'obbligo dichiarativo derivante dal precedente termine mobile dei 90 giorni e risolve i problemi sorti in ordine alla possibilità, da parte dei contribuenti, di ricorrere all'istituto del ravvedimento, disciplinato dall'articolo 13 del decreto legislativo 472/1997, che altrimenti non avrebbero trovato soluzione».
L'articolo 10, infatti, come indicato nella relazione di accompagnamento al decreto 35/2013, prevede due diversi termini «collegati alla natura periodica o non periodica della dichiarazione».
La circolare ministeriale pone in rilievo che la norma oltre a stabilire a regime il nuovo termine di presentazione delle dichiarazioni, «produce effetti anche su quelle dovute per l'anno 2012 che potranno, quindi, essere presentate entro il 30.06.2013». Pertanto, i contribuenti per i quali l'obbligo è sorto dal 01.01.2012, devono presentare la dichiarazione entro il prossimo 30 giugno e non più, come previsto prima della modifica normativa, entro il 04.02.2013.
Naturalmente, la nuova scadenza è fissata per tutti coloro che hanno acquistato nel corso del 2012 la proprietà di immobili o di altri diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione, superficie e così via). La dichiarazione ha effetto anche per gli anni successivi, a meno che non intervengano variazioni dei dati dai quali possa conseguire un diverso ammontare dell'imposta dovuta.
Soggetti obbligati. I contribuenti che hanno ceduto o acquistato immobili o la titolarità di altri diritti reali nel 2012 devono inoltrare la dichiarazione al comune, a meno che gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta non siano acquisibili attraverso la consultazione della banca dati catastale o gli enti non siano già in possesso delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria.
La dichiarazione deve essere presentata da coloro che vantino il diritto a fruire di riduzioni d'imposta. Quindi, sono tenuti all'adempimento coloro che possiedono immobili di interesse storico o artistico.
Inoltre, vanno denunciati tutti i casi in cui l'amministrazione comunale non possiede le notizie utili per verificare l'operato dei contribuenti.
Nello specifico, tra i casi più significativi, l'adempimento è richiesto quando: l'immobile ha formato oggetto di locazione finanziaria o di un atto di concessione amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato. Va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile.
Il valore dell'area, che è quello di mercato, deve sempre essere dichiarato dal contribuente, poiché questa informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco perché l'obbligo non sussiste quando viene alienata un'area fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza. L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti dalle imprese e distintamente contabilizzati, classificabili nel gruppo catastale D, che sono tenute a dichiarare il valore venale del bene sulla base delle scritture contabili, sia in aumento che in diminuzione, fino all'anno di attribuzione della rendita catastale. La dichiarazione, poi, deve essere presentata per gli immobili relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento.
Sono tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati inagibili o inabitabili solo se si perde il diritto al beneficio fiscale, poiché il comune non dispone delle informazioni necessarie per verificare il venir meno delle condizioni richieste dalla legge. Va ricordato che le istruzioni per adempiere all'obbligo dichiarativo sono contenute in un allegato al modello di dichiarazione approvato con decreto ministeriale del 30.10.2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
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Esonero per le prime case.
Esonerati dall'obbligo di presentare la dichiarazione Imu coloro hanno già assolto all'obbligo per l'Ici. Non sono tenuti neppure i possessori di immobili adibiti ad abitazione principale, con relative pertinenze. Nelle istruzioni ministeriali allegate al nuovo modello viene precisato che la conoscenza da parte del comune delle risultanze anagrafiche fa venire meno la necessità di presentazione della dichiarazione. L'esclusione si estende anche all'indicazione dei figli di età non superiore a 26 anni per i quali è possibile fruire della maggiorazione di 50 euro.
Tuttavia, anche per i titolari di immobili adibiti a prima casa le istruzioni prevedono un'eccezione all'esonero generalizzato dall'obbligo dichiarativo, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare possiedano più di un immobile nello stesso comune. La legge esclude il doppio beneficio per i coniugi non legalmente separati. L'agevolazione, infatti, è limitata a un solo immobile nel quale risiede e dimora uno dei coniugi, il quale è tenuto a presentare la dichiarazione. In questo caso il ministero ritiene che, al fine di evitare comportamenti elusivi in ordine all'applicazione delle agevolazioni, riemerge l'esigenza di porre l'obbligo dichiarativo a carico di uno dei due coniugi.
Altra eccezione è rappresentata dal coniuge assegnatario: lo stesso è obbligato a presentare la dichiarazione Imu solo se il comune in cui si trova l'ex casa coniugale non coincide né con il comune di in cui è stato celebrato il matrimonio, né con il comune di nascita. In seguito a separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, l'art. 4, comma 12-quinquies del dl 16/2012, convertito dalla legge 44/2012, ha stabilito che l'assegnazione della casa coniugale al coniuge si intende effettuata a titolo di diritto di abitazione.
In questo caso, però, il provvedimento del giudice viene comunicato solo al comune di celebrazione del matrimonio, che è tenuto a informare il comune d nascita degli ex coniugi dell'avvenuta modificazione dello stato civile. Ecco perché la dichiarazione va presentata solo se il comune nel cui territorio è ubicato l'immobile assegnato non coincide né con il comune dove è stato celebrato il matrimonio né con quello di nascita (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI Avvocati. Contro le Sezioni unite. Il compenso segue sempre i parametri.
I compensi degli avvocati, dopo l'abrogazione delle vecchie tariffe, devono essere sempre quantificati secondo i nuovi parametri.

Lo ha stabilito il Tribunale per i minori di Catania (ordinanza 10.04.2013) decidendo sull'opposizione proposta dal difensore di un imputato ammesso al gratuito patrocinio che chiedeva invece l'applicazione delle tariffe perché aveva esaurito la sua attività nel 2010, prima della loro abrogazione. Si levano dunque le prime voci di dissenso dei giudici di merito dopo la decisione delle Sezioni unite della Cassazione che, invece, lasciava spiragli all'applicazione delle vecchie norme.
Le tariffe sono state cancellate dal decreto legge 1/2012 ma, nei casi di liquidazione del compenso da parte del giudice, sono rimaste operanti fino a che il decreto 140/2012, emanato dal ministro della Giustizia, non ha stabilito i nuovi parametri. In particolare, l'articolo 41 del decreto dispone che dal 23.08.2012 tutte le liquidazioni dei compensi ai legali devono seguire le nuove regole; ma le Sezioni unite, con la sentenza 17406/2012, hanno escluso dagli effetti di questa norma i compensi per le prestazioni concluse entro quella data, anche se liquidate in seguito.
I giudici catanesi disattendono consapevolmente l'orientamento della Cassazione sostenendo che il decreto 140 ha ancorato l'operatività dei nuovi parametri al momento della «liquidazione», ossia alla decisione sulla determinazione del compenso, e non a quello dell'effettuazione della «prestazione». Inoltre, la conclusione del rapporto di prestazione d'opera avverrebbe solo con la precisazione del corrispettivo; fino alla liquidazione dell'onorario, il rapporto non esaurito subirebbe gli effetti dei mutamenti normativi.
Ma i nodi da sciogliere nel passaggio dalle tariffe ai parametri non si fermano qui. Come si deve comportare il giudice d'appello che riforma una sentenza pronunciata quando erano in vigore le tariffe professionali e che deve regolamentare di nuovo le spese di primo grado? Sulla risposta grava una non uniforme presa di posizione della Cassazione: con la sentenza 5426/2005 ha affermato che «la liquidazione degli onorari va riferita all'intera fase di merito», mentre con la sentenza 17059/2007 ha invece ritenuto che per la liquidazione degli onorari si deve avere riguardo «ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado».
Aderendo alla prima impostazione si dovrebbe tener conto, per entrambi i gradi del giudizio, delle sole disposizioni del decreto 140, mentre la sentenza del 2007 porterebbe a concludere che le spese processuali vanno determinate in base alla norme in vigore al momento della chiusura di ogni grado. A favore di quest'ultima impostazione sembra essere l'articolo 83, comma 2, del Dpr 115/2002, per il quale la liquidazione dell'onorario dell'ausiliario del magistrato è fatta al termine di ciascun grado del processo.
Appare ragionevole che il giudice proceda analogamente nel liquidare le spese di lite. E dunque: ricorso alle tariffe del 2004 per il primo grado, applicazione dei parametri del 2012 per l'appello (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARumore, Regioni indietro. Soltanto nove leggi chiedono di certificare i requisiti anti-decibel.
Sono pochi gli appigli che la normativa, nazionale e regionale, offre agli acquirenti di immobili per difendersi dal rumore. A fronte di qualche sporadico ma significativo passo in avanti, come nel caso della Regione Marche che, unica nel panorama nazionale, prevede che l'acquirente o il conduttore del l'immobile abbiano diritto a un risarcimento del danno in caso di mancato rispetto dei requisiti acustici minimi, sono ancora molte le autonomie che non hanno messo a punto leggi specifiche sull'inquinamento acustico e nelle quali l'unico punto di riferimento è costituito dal vecchio Dpcm del 05.12.1997.
Nessuna legge è vigente in: Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Molise, Piemonte, Sicilia, Toscana e Veneto. Mentre altrove la situazione è a macchia di leopardo. Soltanto il Friuli Venezia Giulia (Lr 16/2007) prevede contributi a fondo perduto fino al 50% della spesa sostenuta per l'incremento dei requisiti acustici passivi degli edifici. Una normativa avanzata è in vigore anche in Calabria: nella legge 34/2009 si specifica che i progetti dei requisiti acustici passivi degli edifici devono essere redatti da tecnici competenti in acustica, sia per le nuove costruzioni che per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Ma le modalità costruttive sono regolate da una delibera, che non è ancora stata emanata. Inoltre, i maggiori volumi del fabbricato conseguenti al rispetto dei requisiti acustici non sono computati nel calcolo delle cubature.
La Calabria prevede anche che i valori di isolamento raggiunti devono essere certificati mediante collaudo acustico, da presentare in caso di compravendita o di locazione dell'immobile. Il certificato acustico ha valore decennale.
Molto avanti appaiono anche le leggi delle Regioni Lombardia (legge 13/2001), Marche (28/2001), Puglia (legge 3/2002) e Umbria (da ultimo legge 8/2006) che prevedono, oltre al progetto redatto dal "tecnico competente", che i requisiti acustici siano rispettati anche in caso di interventi sul patrimonio edilizio esistente in modo da pareggiare, nel tempo, i requisiti acustici del patrimonio edilizio nazionale o meglio, da rendere più conveniente la ricostruzione ex novo del patrimonio edilizio del primo dopoguerra e privo di valore storico. La Regione Marche, però, dice ...
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In tribunale per i lavori riparatori.
La qualità acustica di un edificio può essere fonte di disagi e contenzioso nei confronti del costruttore che sia anche venditore e nei rapporti tra privati. Prima di iniziare una lite occorre verificare:
- se la propagazione del rumore dipende da difetti strutturali all'edificio;
- se il rumore sia causato dall'attività di terzi che superi la normale soglia di tollerabilità (articolo 844 del Codice civile).
Nel primo caso, i rimedi sono quelli posti a garanzia dei vizi degli immobili, con richieste finalizzate a ottenere, nell'ordine di gravità del difetto:
e l'eliminazione del vizio;
r il risarcimento del danno
t la risoluzione del contratto di vendita per inadempimento.
L'eliminazione del vizio (per pareti leggere, carenza di materiale fonoassorbente) si attua con lavori che dotino l'immobile di un sufficiente isolamento acustico a spese del costruttore (articolo 1668 del Codice civile). Se vi sono lavori da fare, la relativa durata, insieme al periodo durante il quale si è subito il rumore eccessivo, è fonte di risarcimento del danno da disagio abitativo ovvero da ridotto godimento del bene (Corte d'appello di Bologna, sezione III, sentenza n. 1281/2011).
Quando non è possibile rimuovere il difetto strutturale (per esempio per problemi di solai tra piani destinati alla residenza), il privato può chiedere la riduzione del prezzo, che in alcune pronunce arriva al 20% (Tribunale di Torino n. 2715/2007). Se poi il vizio rende il bene totalmente inadatto alla sua destinazione, si può chiedere la risoluzione del contratto, con restituzione degli importi e risarcimento del danno.
Alla scala dei danni subiti dal l'acquirente, corrisponde una scala di responsabilità del costruttore. Responsabilità cui il costruttore rimedia attraverso specifiche polizze di assicurazione decennale (obbligatorie per la legge 122/2005) che, appunto, coprono i gravi difetti costruttivi (uso di materiali o tecniche inadeguate). L'azione giudiziaria nei confronti del costruttore si prescrive in dieci anni, ma all'interno di questo periodo di tempo, la lite deve essere iniziata entro un anno da quando il vizio (l'eccessivo rumore) è stato rilevato o denunciato (articoli 4 della legge 122/2005 e 1669, Codice civile).
Il metodo di accertamento dell'errore di costruzione nella coibentazione acustica e quindi l'entità del danno subito dal l'acquirente, vive attualmente un periodo di incertezza. Infatti nei rapporti tra costruttore-venditore e privato acquirente non hanno rilievo diretto le norme previste dalla legge 447/1995 (legge quadro sull'inquinamento acustico) e dal Dpcm 05.12.1997 sui requisiti degli edifici. I parametri previsti in tali norme sono stati sospesi dall'articolo 11, comma 5, della legge 88/2009 e non sono applicabili nei rapporti tra privati, finché non sopravvengono specifici ulteriori decreti legislativi. Nel frattempo, spetta a tecnici abilitati asseverare la corretta esecuzione dei lavori a regola d'arte. In altri termini, i problemi di isolamento acustico sono affidati a generici principi di buona tecnica (che lasciano spazi di tolleranza). Al contrario, nei rapporti tra costruttore e pubblica amministrazione il Dpcm del 1997 è in vigore. L'amministrazione comunale deve vigilare sul rispetto dei parametri acustici, negando l'agibilità in caso di irregolarità.
Questa incongruenza è stata percepita da più tribunali ed è stata risolta applicando di fatto, come norma più prossima sia il Dpcm del 1997 sia le norme Uni, che diventano meri valori di riferimento, ricognitivi dello stato dell'arte. Il rumore può quindi essere misurato con i parametri del Dpcm e con gli strumenti indicati dalle norme tecniche dell'Uni.
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I rimedi di natura civile e penale. Il giudice ordina lo stop ai vicini.
Se il rumore è causato dal l'attività di terzi e supera la normale soglia di tollerabilità (articolo 844 del Codice civile), i rimedi utilizzabili sono di natura civile e penale.
Ad esempio, chi si esercita al pianoforte «costantemente» rischia provvedimenti del giudice civile che, anche in via di urgenza, può imporre orari e porre un confine alla «normale tollerabilità». Restando nel caso del pianoforte, per individuare la normale tollerabilità si possono utilizzare il limite di 40 decibel e il livello differenziale di 5 decibel tra il rumore ambientale e quello di fondo (Corte di cassazione, sentenza n. 9434/2012).
Se il rumore deriva da un'autoclave, chi ne fruisce rischia di pagare i danni al vicino (Corte di Cassazione, sentenza n. 7181/2012), e stesso rischio corre il condominio il cui ascensore rechi molestia al residente, anche se questi è ritenuto obiettivamente «particolarmente sensibile» (Cassazione n. 26898/2011). La tutela dal rumore può anche costringere un Comune a regolamentare l'uso di un parco giochi che disturbi i residenti (Cassazione n. 4848/2013) o a far eliminare le bande stradali rumorose (Corte d'Appello Torino 09.07.2012).
Infine nel conflitto infine tra esercizi commerciali (bar, pizzerie) e residenti ai piani superiori, questi ultimi partono avvantaggiati sia sui rumori che sulle molestie olfattive, (anche se sul punto non vi sono valori limite) (Cassazione penale n. 16670/2012). Il vantaggio deriva dalla circostanza che gli esercizi commerciali rumorosi disturbano un numero indeterminato di persone (tutela affidata all'articolo 659 del Codice penale), mentre tale reato non riguarda l'inquilino del piano di sopra che sposta i mobili con frequenza (Cassazione penale n. 6546/2013) (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa concertazione è «sparita» da gennaio. La riforma Brunetta in un'ordinanza del giudice del lavoro.
Gli obblighi di concertazione dallo scorso 31 dicembre sono stati sostituiti dall'informazione che, in alcune materie, deve essere preventiva, e -nei casi previsti dal legislatore- dall'esame congiunto.

Sono queste le conclusioni inedite contenute nell'ordinanza del 6 aprile scorso del giudice del lavoro di Lecce, provvedimento assunto in via d'urgenza nell'ambito di un ricorso per condotta antisindacale di un Comune. Queste indicazioni costituiscono una novità assoluta, per molti versi discutibile e, se confermate, produrrebbero effetti stravolgenti sul sistema delle relazioni sindacali.
Sicuramente, appare sempre più urgente arrivare ad un chiarimento sulle regole attualmente in vigore, chiarimento che dovrebbe arrivare con la definizione di un accordo per il quale sono in corso le trattative. Da sottolineare che la stessa ordinanza stabilisce che tra le materie oggetto di informazione preventiva occorre includere anche il programma esecutivo di gestione (Peg).
Nel caso concreto, un sindacato ha proposto ricorso contro i provvedimenti assunti da un Comune per il distacco temporaneo di un dipendente presso una partecipata, per l'approvazione della metodologia di valutazione delle performance, per l'adozione del piano delle azioni positive, del Peg, del fabbisogno del personale e dei criteri per l'istituzione delle posizioni organizzative. Il ricorso è per condotta antisindacale, ed è motivato dalla mancata attivazione della concertazione in tutte queste materie.
Nella parte più innovativa del provvedimento si legge che «dal 31.12.2012 (cioè dal termine per l'adeguamento dei contratti nazionali stipulati prima del Dlgs 150/2009, ndr) gli obblighi di concertazione un tempo previsti sono automaticamente sostituiti dagli obblighi di informazione preventiva». Per cui occorre verificare «se alla data di proposizione del ricorso sussisteva l'attualità della condotta antisindacale, considerato che dal 01.01.2013 l'amministrazione non è tenuta ad avviare la concertazione».
Sulla base di questo assunto, l'ordinanza non censura la delibera dell'ente sui criteri per la istituzione delle posizioni organizzative, avendo l'ente effettuato l'informazione preventiva. Invece, il mancato svolgimento di questa procedura determina l'illegittimità sia del provvedimento di definizione delle performance organizzative, sia del piano delle azioni positive, sia del Peg (incluso nelle materie per cui è necessario rispettare i vincoli delle relazioni sindacali, nonostante il suo carattere essenzialmente finanziario), sia della programmazione annuale e triennale del fabbisogno del personale.
Da sottolineare infine che il provvedimento ricorda che comunque la concertazione doveva limitarsi alle scelte di carattere generale e non ai singoli atti gestionali, per cui non vi è nessuna condotta antisindacale nel mancato avvio di tali procedure per uno specifico distacco (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIAnticorruzione. Sui rinnovi cortocircuito fra il Dlgs 39/2013 e la spending review.
Cda, no alle nomine obbligatorie
NELLE CONTROLLATE/ Il decreto di luglio impone di riservare due posti su tre ai dipendenti ma la nuova normativa li giudica incompatibili.

Una nuova dose di incertezza sulla normativa degli enti locali arriva dalle nuove regole sulle incompatibilità nelle nomine dei Cda delle società pubbliche. Il momento è caldo, perché in questi giorni si procede, con l'approvazione dei bilanci di esercizio, al rinnovo dei consigli in scadenza.
Fino a pochi giorni fa nel mondo degli enti locali si stava discutendo sulle modalità di prima applicazione dell'articolo 4 del Dl 95/2012, e del rispetto delle regole, anch'esse al debutto, di rappresentanza di genere previste dal DPR 251/2012. Su questo panorama, il 4 maggio è intervenuta l'entrata in vigore del Dlgs 39/2013, che cambia radicalmente le regole di nomina dei consiglieri.
Il decreto segue alla legge 190/2012, nata per impedire ai corrotti di restare in politica (ed oggi efficace per la candidatura di una sola persona, un ex sindaco condannato in Molise per un abuso di ufficio nel lontano 1982).
Va ricordato che l'articolo 4 del Dl 95/2012 prevedeva che almeno due consiglieri su tre, o tre su cinque, fossero, nelle società interamente pubbliche, dipendenti degli enti locali, con tutta una serie di declinazioni a seconda dei casi (disciplinate dai commi 4 e 5 del citato articolo). Il punto, comunque, era risparmiare sui compensi degli amministratori e assicurare un rapporto più stretto tra Comune e società partecipate. Si poteva essere d'accordo o no (e noi non lo siamo mai stati), ma si trattava di una scelta chiara, che però ha prodotto i suoi effetti per pochi giorni, visto che le prime assemblee societarie interessate dalla sua applicazione si sono tenute nell'ultima decade di aprile.
Il nuovo decreto, invece, interpreta la presenza dei dirigenti comunali nei Cda come elementi potenzialmente corruttivi. Probabilmente il tutto dipende solo dal fatto che il ministero proponente è diverso da quello che ha stilato la norma precedente, ma il problema è che ci sono in ballo i membri di centinaia di Cda e, con essi, i destini di altrettante società. All'articolo 9, comma 1, si precisa che «gli incarichi amministrativi di vertice e gli incarichi dirigenziali, comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, che comportano poteri di vigilanza o controllo sulle attività svolte dagli enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione che conferisce l'incarico, sono incompatibili con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione o ente pubblico che conferisce l'incarico
». Il tutto ribadito all'articolo 12, comma 4, lettera b), che spazza anche il dubbio che si possano nominare dirigenti che non svolgano funzioni di controllo.
Si noti che si parla anche di "mantenimento" della nomina, e che quindi di fatto si prevede l'obbligo alle dimissioni di coloro che siano stati nominati in applicazione all'articolo 4 del Dl 95/2012. Il coordinamento tra le norme, per altro, è impossibile, a meno che non si ritenga che nei consigli di amministrazione debbano essere indicati solo dipendenti che non siano dirigenti. Sarebbe difficile, però, comprenderne la ratio, e il tenore letterale dell'articolo 4 lascia intendere che si pensi, come è ovvio, proprio ai dirigenti, visto il riferimento all'onnicomprensività del trattamento economico che è proprio solo della dirigenza.
Per ridare ordine al sistema, il legislatore deve decidere chi deve entrare in un Cda e chi no, ma una volta fatta questa difficile scelta, si deve sforzare di non cambiare idea, e di tenere fermi i criteri almeno per qualche mese (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: Fisco locale. Abrogata la possibilità di alzare l'imposta e i diritti sulle affissioni.
Aumenti vietati per la pubblicità
LO STOP/ L'ultimo decreto Sviluppo ha cancellato la chance di elevare le tariffe e colpisce anche i ritocchi già decisi in passato.

A rischio il gettito derivante dall'imposta di pubblicità e dai diritti sulle pubbliche affissioni.
In un contesto particolarmente difficile per la finanza locale, le entrate provenienti dalle tariffe definite al Capo I del Dlgs 507/1993 non possono più essere aumentate rispetto alla misura standard.
L'articolo 11, comma 10, della legge 449/1997, integrato dall'articolo 30, comma 17, della Finanziaria 2000, elevava al 50% l'aumento massimo consentito per superfici superiori al metro quadrato, a decorrere dal 01.01.2000. Il punto 30 dell'Allegato 1 al Dl 83/2012 abroga questa norma, con decorrenza 26.06.2012. Nonostante lo sblocco della potestà tributaria e tariffaria degli enti locali, le tariffe dell'imposta di pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni non possono quindi superare le misure standard previste dal Dlgs 507/1993.
L'unica eccezione è rappresentata dalla possibilità di aumento, limitatamente alle affissioni di carattere commerciale, prevista per i Comuni delle prime tre classi, che possono suddividere le località del proprio territorio in due categorie in relazione alla loro importanza, applicando alla categoria speciale una maggiorazione fino al 150% della tariffa normale.
Il regolamento comunale deve comunque specificare le località comprese nella categoria speciale, la cui superficie complessiva non può superare il 35% di quella del centro abitato; in ogni caso, la superficie degli impianti per pubbliche affissioni installati in categoria speciale non potrà essere superiore alla metà di quella complessiva. In ossequio al principio generale secondo cui l'impianto tributario e tariffario deve essere definito in rifermento alle norme vigenti, è da ritenersi che eventuali aumenti deliberati in passato non possano essere confermati nel 2013.
Il nodo da sciogliere non è tuttavia di poco conto se si considera che la legge 296/2006 (articolo 1, comma 169) dispone che gli enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione e che, se l'ente non delibera alcuna variazione di aliquote e tariffe, le stesse si intendono prorogate di anno in anno.
La variazione delle tariffe determinerebbe inoltre l'obbligo di rimborso delle somme eventualmente corrisposte per l'anno in corso.
A poco tempo dalla scadenza per l'approvazione dei bilanci, molte sono ancora le incertezze in tema di entrate degli enti locali. Manca infatti la rideterminazione del Fondo sperimentale di riequilibrio 2012 (che avrebbe dovuto avvenire entro lo scorso 28 febbraio in funzione del gettito Imu definitivamente accertato a favore di Comuni) e, conseguentemente, la quota di gettito da versare allo Stato al fine di costituire il Fondo di Solidarietà, nonché le relative modalità di riparto.
Alle questioni sopra accennate si sommano inoltre le incertezze sul quadro ordinamentale della Tares e dell'Imu, che solo parzialmente hanno trovato definizione con il recente DL 35/2013.
È auspicabile che si arrivi quanto prima alla definizione di un quadro normativo certo, in riferimento al quale poter pianificare correttamente le risorse e le strategie per il raggiungimento degli obiettivi programmati (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: La Commissione giudicatrice di un concorso esprime, quanto alla sufficienza della preparazione del candidato, un giudizio tecnico-discrezionale caratterizzato da profili di puro merito…non sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti manifestamente viziato da illogicità, irragionevolezza , arbitrarietà o travisamento.
Il giudice deve valutare la coerenza logica del giudizio operato dalla Commissione, ma non può sostituire o giustapporre alla valutazione della Commissione un proprio , differente giudizio.

La Sezione deve qui richiamare quanto più volte Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare in subiecta materia e cioè che:
a) la Commissione giudicatrice di un concorso esprime, quanto alla sufficienza della preparazione del candidato, un giudizio tecnico-discrezionale caratterizzato da profili di puro merito…non sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti manifestamente viziato da illogicità, irragionevolezza , arbitrarietà o travisamento (Cons. Stato Sez. IV n. 1237/2008);
b) il giudice deve valutare la coerenza logica del giudizio operato dalla Commissione, ma non può sostituire o giustapporre alla valutazione della Commissione un proprio, differente giudizio (Cons. Stato Sez. IV n. 5581/2012) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2013 n. 2509 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROCantiere pericoloso. Tutti responsabili. Ne risponde pure il subappaltatore.
Se il cantiere dell'appaltatore è pericoloso la responsabilità si estende anche al subappaltatore. Gli obblighi di osservanza delle norme antinfortunistiche, con specifico riferimento all'esecuzione di lavori in subappalto all'interno di un unico cantiere edile predisposto dall'appaltatore, grava su tutti coloro che esercitano i lavori, quindi anche sul subappaltatore interessato all'esecuzione di un'opera parziale e specialistica,. Quest'ultimo, infatti, ha l'onere di riscontrare e accertare la sicurezza dei luoghi di lavoro, pur se la sua attività si svolga contestualmente ad altra, prestata da altri soggetti, e sebbene l'organizzazione del cantiere sia direttamente riconducibile all'appaltatore, che non cessa di essere mai titolare dei poteri direttivi generali.

Questo è il principio giuridico contenuto nella sentenza 07.05.2013 n. 19505, IV Sez. penale, della Corte di Cassazione.
Il fatto in sintesi: un subappaltatore veniva condannato alla pena di 550 euro per avere omesso di predisporre che una gru a rotazione bassa fosse munita di apposita recinzione. L'imputato lamentava, in primo luogo con riferimento alla violazione relativa alla assenza di recinzione della gru a rotazione bassa, che non è stato considerato che egli, operante nel cantiere impiantato ed organizzato da altri unicamente come subappaltatore, aveva espressamente vietato ai propri dipendenti di usare detta gru di cui egli non era, infatti, proprietario. Del resto lo stesso ispettore del lavoro intervenuto in loco non aveva verificato a chi appartenesse la gru.
I giudici di cassazione ricordano che le disposizioni normative riguardanti l'antinfortunistica, con specifico riguardo all'esecuzione di lavori in subappalto all'interno di un unico cantiere edile predisposto dall'appaltatore, grava su tutti coloro che esercitano i lavori, quindi anche sul subappaltatore (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: La comunicazione va considerata quale provvedimento conclusivo di un procedimento ad istanza di parte ma la comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti di tal guisa deve ritenersi assoggettata alle stesse regole valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente superamento del vizio formale in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria.
Infatti, al riguardo, l'obbligo in questione presuppone che l'interessato ignori l'esistenza del procedimento stesso.
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L'omessa indicazione del termine e dell'autorità cui è possibile ricorrere comporta una mera irregolarità che non incide né sulla validità né sull'efficacia del provvedimento stesso e, al più, può dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione in termini.

E’ stata in primo luogo dedotta violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 per avere il Comune respinto un’istanza della ricorrente senza preavviso delle ragioni di diniego.
La censura è ad avviso della Sezione incondivisibile, atteso che la comunicazione va considerata quale provvedimento conclusivo di un procedimento ad istanza di parte ma la comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti di tal guisa deve ritenersi assoggettata alle stesse regole valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente superamento del vizio formale in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria.
Infatti, al riguardo, l'obbligo in questione presuppone che l'interessato ignori l'esistenza del procedimento stesso (Consiglio di Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4421).
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E’ stata infine dedotta violazione dell’art. 3, u.c., della l. n. 241/1990 per non essere stati indicati il termine e l’autorità cui era possibile ricorrere.
La censura non può essere condivisa perché, in base a consolidata e condivisa giurisprudenza, l'omessa indicazione del termine e dell'autorità cui è possibile ricorrere comporta una mera irregolarità che non incide né sulla validità né sull'efficacia del provvedimento stesso e, al più, può dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione in termini (Consiglio di Stato, sez. VI, 29.05.2012, n. 3176)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2402 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di verifica possono essere rimodulate le quantificazioni dei costi e dell’utile purché non venga modificato l’importo complessivo della offerta formulata, atteso che (premesso che nell'interpretazione del dato normativo non può trascurarsi che la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala è pur sempre la piena affidabilità della proposta contrattuale, senza però che possa essere modificato l'importo complessivo dell'offerta presentata) è condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'impresa aggiudicataria può, nell'ambito del subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta presentata, rimodulare le quantificazioni dei costi e dell'utile, indicate nella relazione giustificativa dell'offerta economica.
Il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala deve prevedere la inammissibilità solo delle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella originariamente indicata.
Per le stesse ragioni non è consentita l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far quadrare i conti, al fine cioè di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di costo; ciò proprio perché, nel giudizio di congruità dell'offerta, esplicazione di valutazioni tecniche sindacabili solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale, non è in questione soltanto della generica capienza dell'offerta, ma anche la sua serietà.

Pure condivisibile è la tesi che in sede di verifica possono essere rimodulate le quantificazioni dei costi e dell’utile purché non venga modificato l’importo complessivo della offerta formulata, atteso che (premesso che nell'interpretazione del dato normativo non può trascurarsi che la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala è pur sempre la piena affidabilità della proposta contrattuale, senza però che possa essere modificato l'importo complessivo dell'offerta presentata) è condivisibile l'orientamento giurisprudenziale (Consiglio Stato, Sez. V, sent. n. 653 del 10.2.2010) secondo cui l'impresa aggiudicataria può, nell'ambito del subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta presentata, rimodulare le quantificazioni dei costi e dell'utile, indicate nella relazione giustificativa dell'offerta economica.
Il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala deve prevedere la inammissibilità solo delle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella originariamente indicata. Per le stesse ragioni non è consentita l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far quadrare i conti, al fine cioè di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di costo; ciò proprio perché, nel giudizio di congruità dell'offerta, esplicazione di valutazioni tecniche sindacabili solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale, non è in questione soltanto della generica capienza dell'offerta, ma anche la sua serietà (Consiglio di Stato, sez. V, 30.11.2012, n. 6117) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: L’amministrazione è notoriamente titolare del potere, riconosciuto dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, di revocare per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo.
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E' stato considerato legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
E' stato ripetutamente ribadito che fino a quando non sia intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio attinenti le concrete modalità di esecuzione, il riassetto societario, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di personale in un quadro di attività concertate in sede sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno, sono tutti profili attinenti al merito dell’azione amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di irragionevolezza.
Anche il riferimento al risparmio economico derivante dalla revoca è stato ritenuto legittimo motivo della stessa.

Con particolare riferimento alla specifica fattispecie in esame deve poi aggiungersi che l’amministrazione è notoriamente titolare del potere, riconosciuto dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, di revocare per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo (C.d.S., sez. V, 18.01.2011, n. 283).
Con riguardo alle procedure ad evidenza pubblica è stato considerato legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (C.d.S., sez. III, 15.11.2011, n. 6039; 13.04.2011, n. 2291); è stato ripetutamente ribadito che fino a quando non sia intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio attinenti le concrete modalità di esecuzione, il riassetto societario, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di personale in un quadro di attività concertate in sede sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno, sono tutti profili attinenti al merito dell’azione amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di irragionevolezza (C.d.S., sez. V, 09.04.2010, n. 1997); anche il riferimento al risparmio economico derivante dalla revoca è stato ritenuto legittimo motivo della stessa (C.d.S., sez. V, 08.09.2011, n. 5050) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel giudizio di ottemperanza il giudice è chiamato non solo alla puntuale verifica dell'esatto adempimento da parte dell'Amministrazione dell'obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all'interessato l'utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione, ma deve anche apprezzare le eventuali sopravvenienze di fatto e/o di diritto per stabilire in concreto se il ripristino della situazione soggettiva, sacrificata illegittimamente, come definitivamente accertato in sede di cognizione, sia compatibile con lo stato di fatto e/o diritto prodottosi medio tempore.
Nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato.
Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza, con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire.
La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo.

Occorre preliminarmente ricordare che nel giudizio di ottemperanza il giudice è chiamato non solo alla puntuale verifica dell'esatto adempimento da parte dell'Amministrazione dell'obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all'interessato l'utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione [C.d.S., sez. V, 03.10.1997, n. 1108; sez. IV, 15.04.1999, n. 626; 17.10.2000, n. 5512, verifica che, come’è noto, deve essere condotta nell'ambito dello stesso quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l'esecuzione (C.d.S., sez. V, 09.05.2001, n. 2607; sez. IV, 09.01.2001, n. 49; 28.12.1999, n. 1964) e che implica una delicata attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, attività da compiersi esclusivamente sulla base della sequenza "petitum - causa petendi - motivi - decisum", C.d.S., sez. IV, 09.01.2001, n. 49; 28.12.1999, n. 1963; sez. V, 28.02.2001, n. 1075], ma deve anche apprezzare le eventuali sopravvenienze di fatto e/o di diritto per stabilire in concreto se il ripristino della situazione soggettiva, sacrificata illegittimamente, come definitivamente accertato in sede di cognizione, sia compatibile con lo stato di fatto e/o diritto prodottosi medio tempore [C.d.S., sez. V, 04.10.2007, n. 5137; sez. VI, 05.07.2011, n. 4037; 27.12.2011, n. 6849, ferma in ogni caso l’irrilevanza delle sopravvenienze di fatto e di diritto successive alla notificazione della sentenza della cui ottemperanza si tratta, tra le tante, C.d.S., sez. VI, 05.07.2011, n. 4037; 03.11.2019, n. 7761; 22.10.2010, n. 5816; sez. IV, 03.12.2010, n. 8510].
Una simile ricostruzione dei poteri del giudice dell’ottemperanza non implica affatto un possibile inammissibile vulnus alla stessa effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e ai principi costituzionali sanciti dagli articoli 24, 111 e 113, rappresentando piuttosto il naturale e coerente contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi costituzionali che vengono in gioco nel procedimento giurisdizionale amministrativo, quali quello secondo cui la durata del processo non deve andare a danno della parte vittoriosa (che ha diritto, però, all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’atto lesivo, caducato in sede giurisdizionale) e quello della stessa dinamicità dell’azione amministrazione e dell’esercizio della relativa funzione da parte della pubblica amministrazione che ne è titolare (che non consente di poter ragionevolmente ipotizzare una sorta di “congelamento” o di “fermo” della stessa, tant’è che sia l’atto amministrativo che la sentenza di primo grado, ancorché impugnati, non perdono in linea di principio la loro efficacia e la loro idoneità a spiegare gli effetti loro propri, tranne che questi ultimi non siano ritenuti meritevoli di essere sospesi, su istanza degli interessati, da parte rispettivamente del giudice di primo grado o da quello di appello).
E’ anche da ricordare che la giurisprudenza ha sottolineato che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato (C.d.S., sez. VI, 12.12.2011, n. 6501).
Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza (C.d.S., sez. VI, 03.05.2011, n. 2602; sez. IV, 13.01.2010, n. 70; 04.10.2007, n. 5188), con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire (C.d.S., sez. IV, 21.05.2010, n. 3233; sez. VI, 07.06.2011, n. 3415; 05.12.2005, n. 6963).
La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo (C.d.S., sez. IV, 01.04.2011, n. 2070, 04.03.2011, n. 1415; 31.12.2009, n. 9296) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il riconoscimento del danno da perdita di chance non può intendersi subordinato all'offerta in giudizio da parte dell’interessato di una prova in termini di certezza, perché ciò è oggettivamente incompatibile con la natura di tale voce di danno, risultando quindi sufficiente che gli elementi addotti, in virtù del principio contenuto nell'art. 2697 c.c., consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa della condotta illecita altrui.
La censura è infondata.
Ed invero, nel giudizio di primo grado la Cooperativa ha agito per ottenere il ristoro del danno subito per l’inutile partecipazione ad una gara ab origine viziata e per la perdita della chance di vedersi aggiudicato l’appalto, laddove l’amministrazione avesse provveduto come di dovere a rinnovare la procedura concorsuale.
In particolare, la perdita di chance è stata causata dal permanere nella gestione del servizio dell’aggiudicataria e dalle proroghe a questa concesse dal Comune dell’Aquila, poi annullate dal Tar Abruzzo .
La mancata indizione di una nuova gara e le illegittime proroghe del servizio, infatti, hanno frustrato l’interesse della Cooperativa alla partecipazione ad una nuova procedura concorsuale che avrebbe dovuto essere indetta e che la stessa, anche in forza dell’esperienza maturata per aver nel passato svolto il servizio, avrebbe potuto aggiudicarsi.
Nella peculiare situazione di fatto testé delineata, quindi, la mera caducazione degli atti di gara non risulta oggettivamente sufficiente a ristorare il danno subito dalla Cooperativa, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante.
Le citate voci di danno, peraltro, conseguono direttamente agli atti impugnati ed annullati, senza che possa pretendersi dalla Cooperativa la prova che si sarebbe certamente aggiudicata il servizio all’esito della rinnovata gara.
Infatti, come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza anche di questa Sezione, il riconoscimento del danno da perdita di chance non può intendersi subordinato all'offerta in giudizio da parte dell’interessato di una prova in termini di certezza, perché ciò è oggettivamente incompatibile con la natura di tale voce di danno, risultando quindi sufficiente che gli elementi addotti, in virtù del principio contenuto nell'art. 2697 c.c., consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa della condotta illecita altrui (così Cons. Stato, Sez. V, 18.04.2012, n. 225).
E non v’è dubbio, come la mancata indizione della nuova gara e le illegittime proroghe di cui alla delibera della Giunta del Comune dell’Aquila in data 29.04.2003, abbiano oggettivamente compromesso la possibilità, per la Cooperativa, di ottenere futuri vantaggi.
Pertanto, attesa la peculiarità della fattispecie, del tutto correttamente il primo giudice ha liquidato il danno patito dalla Cooperativa in via equitativa, sulla base di obiettivi dati dalla stessa forniti, relativi al valore dell’appalto (assumendo a parametro l’offerta formulata dall’aggiudicataria) ed alla stima dell’utile conseguibile (in relazione alla prevista durata dello stesso, anche a seguito delle proroghe concesse) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2399 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Occupandosi delle disposizioni dei ricordati artt. 1 e 7 del r.d. n. 3267 del 1923 la giurisprudenza ha già avuto modo di sottolineare che, a causa della sua ratio ed in virtù della stessa genericità della sua formulazione, la autorizzazione in questione riguarda ogni attività sottoposta a vincolo idrogeologico ed immutazione totale o parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo idrogeologico, ivi compresa in particolare l’attività edificatoria, con la precisazione che detta normativa non esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici siano interessati dall’attività edificatoria, essendo invece consentito ai proprietari dei terreni vincolati di richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo l’autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura necessaria a consentire la realizzazione della costruzione.
Il regime autorizzatorio de qua implica in sostanza un controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e dell’equilibrio geologico o idraulico per evitare che eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione dell’ambiente, pregiudicandone l’equilibrio idrogeologico: è stato così ritenuto legittimo il divieto di rimozione di alberi per finalità idrogeologiche (ai sensi del ricordato art. 7) qualora la conservazione di colture boschive attiene alla stabilità dei terreni e al regime delle acque.

L’articolo 23 della legge regionale 07.05.1996, n. 11 (“Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 28.02.1987, n. 13, concernente la delega in materia di economia, bonifica montana e difesa del suolo”), stabilisce al primo comma che “Nei terreni e nei boschi di cui all’articolo 14, sottoposti a vincolo idrogeologico, i movimenti di terra nonché la soppressione di piante, arbusti e cespugli, finalizzati ad una diversa destinazione o uso dei medesimi, sono soggetti ad autorizzazione ai sensi dell’art. 7 del R.D. 03.12.1923, n. 3267”, aggiungendo, al secondo comma, che “L’autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata dal Presidente della Comunità Montana per il territorio di sua competenza e dei Comuni interclusi e dal Presidente dell’Amministrazione provinciale per il restante territorio, previa acquisizione del parere espresso dalla competente Area generale di coordinamento sviluppo attività settore primario – Settori tecnico amministrativi provinciali foreste”.
L’articolo 14 della predetta legge regionale reca la seguente definizione di bosco e di pascolo montano: “1. Sono da considerarsi boschi i terreni sui quali esista o venga comunque a costituirsi per via naturale o artificiale, un popolamento di specie legnose forestali arboree od arbustive a densità piena, a qualsiasi stadio di sviluppo si trovino, dalle quali si possono trarre, come principale utilità, prodotti comunemente ritenuti forestali, anche se non legnosi, nonché benefici di natura ambientale riferibili particolarmente alla protezione del suolo ed al miglioramento della qualità della vita e, inoltre, attività plurime di tipo zootecnico.
2. Sono da considerare altresì boschi gli appezzamenti di terreno pertinenti ad un complesso boscato che, per cause naturali o artificiali, siano rimasti temporaneamente privi di copertura forestale e nei quali il soprassuolo sia in attesa o in corso di rinnovazione o ricostituzione.
3. A causa dei caratteri parzialmente o prevalentemente forestali delle operazioni colturali, di allevamento, di utilizzazione e delle funzioni di equilibrio ambientale che possono esplicare, sono assimilabili ai boschi alcuni ecosistemi arborei artificiali, quali castagneti da frutto, le pinete di pino domestico, anche se associate ad altre colture, le vegetazioni dunali litoranee e quelle radicate nelle pertinenze idrauliche golenali dei corsi d’acqua.
4. Sono da considerarsi pascoli montani i terreni situati ad una altitudine non inferiore a 700 metri, rivestiti di cotico erboso permanente, anche se sottoposti a rottura ad intervalli superiori ai dieci anni ed anche se rivestiti da piante arboree od arbustive radicate mediamente ad altezza non inferiore ai 20 metri
”.
Il regio decreto 30.12.1923, n. 3267 (“Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”), dopo aver previsto all’art. 1 che “Sono sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7, 8 e 9 possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque”, dispone all’art. 7 che “Per i terreni vincolati la trasformazione dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione sono subordinate ad autorizzazione del Comitato forestale e alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo di prevenire i danni di cui all’art. 1”.
Occupandosi delle disposizioni dei ricordati artt. 1 e 7 del r.d. n. 3267 del 1923 la giurisprudenza ha già avuto modo di sottolineare che, a causa della sua ratio ed in virtù della stessa genericità della sua formulazione, la autorizzazione in questione riguarda ogni attività sottoposta a vincolo idrogeologico ed immutazione totale o parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo idrogeologico, ivi compresa in particolare l’attività edificatoria (C.d.S., sez. VI, 31.12.1988, n. 1347; 29.03.1983, n. 161; 25.05.1979, n. 395), con la precisazione che detta normativa non esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici siano interessati dall’attività edificatoria, essendo invece consentito ai proprietari dei terreni vincolati di richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo l’autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura necessaria a consentire la realizzazione della costruzione (C.d.S., sez. V, 14.04.1993, n. 480).
Il regime autorizzatorio de qua implica in sostanza un controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e dell’equilibrio geologico o idraulico per evitare che eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione dell’ambiente, pregiudicandone l’equilibrio idrogeologico (C.d.S., sez. V, 03.01.1992, n. 4; sez. VI, 02.03.1987, n. 94): è stato così ritenuto legittimo il divieto di rimozione di alberi per finalità idrogeologiche (ai sensi del ricordato art. 7) qualora la conservazione di colture boschive attiene alla stabilità dei terreni e al regime delle acque (C.d.S., sez. VI, 30.10.1985, n. 571) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.05.2013 n. 2389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Spetta al ricorrente, che assume di aver subito un danno dall’adozione di un provvedimento illegittimo o anche da un comportamento della pubblica amministrazione, l’onere della prova, secondo il principio generale fissato dall’art. 2697 c.c., non potendo a tanto supplire il soccorso istruttorio del giudice, trattandosi di prove che sono nella piena disponibilità della parte.
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E’ stato ripetutamente sottolineato, in tema di responsabilità della pubblica amministrazione:
- l’ingiustizia del danno non può considerarsi in re ipsa nella sola illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo in realtà il giudice procedere ad accertare che sussista un evento dannoso;
- che il danno sia qualificabile come ingiusto (in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento);
- che l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, ad una condotta della pubblica amministrazione;
- che l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della pubblica amministrazione anche sotto il profilo soggettivo del dolo o della colpa.

Anche nel giudizio amministrativo, invero, spetta al ricorrente, che assume di aver subito un danno dall’adozione di un provvedimento illegittimo o anche da un comportamento della pubblica amministrazione, l’onere della prova, secondo il principio generale fissato dall’art. 2697 c.c. (ex multis, C.d.S., sez. V, 13.06.2008, n. 2967; 18.01.2006, n. 112; sez. VI, 14.11.2012, n. 5747; 22.08.2006, n. 4932; 27.02.2006, n. 835), non potendo a tanto supplire il soccorso istruttorio del giudice, trattandosi di prove che sono nella piena disponibilità della parte.
E’ stato ripetutamente sottolineato, in tema di responsabilità della pubblica amministrazione:
- che l’ingiustizia del danno non può considerarsi in re ipsa nella sola illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo in realtà il giudice procedere ad accertare che sussista un evento dannoso;
- che il danno sia qualificabile come ingiusto (in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento);
- che l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, ad una condotta della pubblica amministrazione;
- che l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della pubblica amministrazione anche sotto il profilo soggettivo del dolo o della colpa (ex pluribus, Cass. Civ., sez. III, 28.10.2011, n. 22508; 23.02.2010, n. 4326) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.05.2013 n. 2388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire, come ogni altro atto della p.A. destinato ad incidere sulla proprietà privata, costituisce un provvedimento autoritativo, di natura vincolata e non discrezionale, con il quale si vuole attestare la conformità del progetto alla normativa urbanistica ed edilizia della zona interessata. A tal fine il Comune deve articolare l’istruttoria verificando l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 11 del d.p.r. n. 380/2001, secondo il quale “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Invero, la p.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento sull’area da assoggettare alla trasformazione urbanistica; è chiaro che il Comune, in sede di esame dei progetti edilizi, è chiamato a valutare se ricorrono le condizioni legali e fattuali per l’esercizio dello ius aedificandi, ovvero di una facoltà inerente al diritto di proprietà.
In ossequio, dunque, ai principi generali di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 1 l. 241/1990, è richiesto un controllo non solo formale ma anche sostanziale sui requisiti di ammissibilità della domanda di autorizzazione. Tuttavia, al di là di tale onere di accertamento, non incombe in capo alla PA l’ulteriore onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente. Il Comune deve limitarsi ad accertare l’astratta titolarità della proprietà in capo a costui, senza doverla accertare in concreto. La giurisprudenza maggioritaria è infatti concorde nell’affermare che “ai fini del rilascio del permesso di costruire l’amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio: cioè l’astratta proprietà desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali”.
Inoltre, con riferimento all’ipotesi in cui sussistano conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, la p.A. ha il dovere di verificare l’esistenza di un titolo di proprietà legittimante all’esercizio dello ius aedificandi, ma non può essere onerata dell’accertamento circa la reale titolarità del diritto di proprietà, che compete, se del caso, al giudice ordinario e non al giudice amministrativo, rientrando nella sfera dei diritti soggettivi a quest’ultimo generalmente preclusi. Ed invero, con riferimento ai diritti dei terzi si ritiene, concordemente, che sia estraneo al potere dell’amministrazione comunale l’accertamento di eventuali limiti al diritto di proprietà del richiedente nell’esercizio dell’attività edificatoria.

Invero, secondo giurisprudenza consolidata, il permesso di costruire, come ogni altro atto della p.A. destinato ad incidere sulla proprietà privata, costituisce un provvedimento autoritativo, di natura vincolata e non discrezionale, con il quale si vuole attestare la conformità del progetto alla normativa urbanistica ed edilizia della zona interessata. A tal fine il Comune deve articolare l’istruttoria verificando l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 11 del d.p.r. n. 380/2001, secondo il quale “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Da una corretta interpretazione della norma, si evince che la p.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento sull’area da assoggettare alla trasformazione urbanistica; è chiaro che il Comune, in sede di esame dei progetti edilizi, è chiamato a valutare se ricorrono le condizioni legali e fattuali per l’esercizio dello ius aedificandi, ovvero di una facoltà inerente al diritto di proprietà.
In ossequio, dunque, ai principi generali di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 1 l. 241/1990, è richiesto un controllo non solo formale ma anche sostanziale sui requisiti di ammissibilità della domanda di autorizzazione. Tuttavia, al di là di tale onere di accertamento, non incombe in capo alla PA l’ulteriore onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente. Il Comune deve limitarsi ad accertare l’astratta titolarità della proprietà in capo a costui, senza doverla accertare in concreto. La giurisprudenza maggioritaria è infatti concorde nell’affermare che “ai fini del rilascio del permesso di costruire l’amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio: cioè l’astratta proprietà desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali” (da ultimo Cons. Stato sez. IV n. 1990/2012).
Inoltre, con riferimento all’ipotesi in cui sussistano conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, la p.A. ha il dovere di verificare l’esistenza di un titolo di proprietà legittimante all’esercizio dello ius aedificandi, ma non può essere onerata dell’accertamento circa la reale titolarità del diritto di proprietà, che compete, se del caso, al giudice ordinario e non al giudice amministrativo, rientrando nella sfera dei diritti soggettivi a quest’ultimo generalmente preclusi. Ed invero, con riferimento ai diritti dei terzi si ritiene, concordemente, che sia estraneo al potere dell’amministrazione comunale l’accertamento di eventuali limiti al diritto di proprietà del richiedente nell’esercizio dell’attività edificatoria
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mancata comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis non comporta l’illegittimità dell’atto laddove la PA dimostri che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso da quello in concreto adottato, in relazione a quanto previsto dall’art. 21-octies.
Invero, l'art . 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, in materia di partecipazione procedimentale, non deve essere interpretato in senso formalistico, ma si deve avere riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio, nel senso che la violazione dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, imposto dal cit. art. 10-bis, è inidonea di per sé a giustificare l'annullamento di un atto, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei provvedimenti amministrativi, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

In ordine, infine, alla violazione e falsa applicazione di legge, eccesso di potere per contrasto con gli artt. 3, 10-bis e 21-octies l. n. 241/1990, si ritiene concordemente con la giurisprudenza maggioritaria che la mancata comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis non comporta l’illegittimità dell’atto laddove la PA dimostri che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso da quello in concreto adottato, in relazione a quanto previsto dall’art. 21-octies.
In tal senso si è infatti espresso di recente il Consiglio di Stato, affermando che “L'art . 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, in materia di partecipazione procedimentale, non deve essere interpretato in senso formalistico, ma si deve avere riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio, nel senso che la violazione dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, imposto dal cit. art. 10-bis, è inidonea di per sé a giustificare l'annullamento di un atto, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei provvedimenti amministrativi, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (cfr. sez. IV, 20.02.2013, n. 1056).
Ebbene nel caso di specie, in base alle anzidette ragioni, si può affermare che il contributo istruttorio che il ricorrente avrebbe offerto se avesse partecipato al procedimento non avrebbe potuto indurre l’Amministrazione ad assumere determinazioni di diverso segno, attesa la obiettiva incertezza circa la titolarità del bene oggetto del titolo richiesto
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: E' legittimo il diniego di compenso del lavoro straordinario che il pubblico dipendente afferma di aver svolto ma che non furono autorizzate dall'Amministrazione né in via preventiva né in via successiva e neppure in sanatoria, né l'autorizzazione può ritenersi implicitamente rilasciata per ragioni di necessità ed urgenza, solo allegate ma non documentate.
Invero, l'autorizzazione ad eseguire lavoro straordinario ha lo scopo di controllare, nel rispetto del principio di cui all'art. 97 Cost., l'esigenza di effettive ragioni di pubblico interesse e del servizio, per cui una volta individuata la reale esistenza delle suddette esigenze, con conseguente autorizzazione alla esecuzione delle ore di lavoro straordinario, sussiste il conseguente obbligo per l'ente di corrispondere il compenso per le suddette prestazioni.

Trova quindi applicazione il costante orientamento della giurisprudenza, confermato di recente dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa (Consiglio di Stato sez. III, 25.03.2013, n. 1650), secondo cui “E' legittimo il diniego di compenso del lavoro straordinario che il pubblico dipendente afferma di aver svolto ma che non furono autorizzate dall'Amministrazione né in via preventiva né in via successiva e neppure in sanatoria, né l'autorizzazione può ritenersi implicitamente rilasciata per ragioni di necessità ed urgenza, solo allegate ma non documentate”.
La giurisprudenza amministrativa in subiecta materia ha infatti reiteratamente precisato, come correttamente rilevato dai ricorrenti, che l'autorizzazione ad eseguire lavoro straordinario ha lo scopo di controllare, nel rispetto del principio di cui all'art. 97 Cost., l'esigenza di effettive ragioni di pubblico interesse e del servizio, per cui una volta individuata la reale esistenza delle suddette esigenze, con conseguente autorizzazione alla esecuzione delle ore di lavoro straordinario, sussiste il conseguente obbligo per l'ente di corrispondere il compenso per le suddette prestazioni (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un’istanza di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001, successivamente alla impugnazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall’istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
La presentazione di un’istanza di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 successivamente alla impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall’istanza di sanatoria, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa (TAR Campania Napoli,sez IV, 28.10.2011 n. 5052; TAR Lazio Roma sez. II, 14.11.2011 n. 8825) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato pur osservando che, secondo un suo precedente, non integra l’ipotesi di trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l’intervento materialmente consistente nella mera ripulitura di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato all’esposizione di autovetture a scopi commerciali, tuttavia ritiene di condividere l’orientamento più restrittivo, in base al quale lo spargimento di ghiaia su un’area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d’uso.
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers.
Il Consiglio di Stato, con la citata pronuncia, soggiunge che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia -D.P.R. n. 380/2001 atteso che l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e. 3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell'art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
Non è da trascurare, con specifico riferimento alle caratteristiche dell’intervento descritto in atti, non solo che all’area è stata impressa la nuova destinazione d’uso a parcheggio non mediante lo spargimento di ghiaia bensì attraverso la messa in opera di asfalto, ma anche che trattasi di area di rilevanti dimensioni, complessivamente trasformata anche mediante la realizzazione di una rampa di collegamento tra i due livelli nei quali si sviluppa e di un pergolato in ferro su parte di essa. Trattasi quindi di una vera e propria trasformazione del terreno al quale è stata impressa una destinazione d’uso diversa da quella originariamente agricola.

Con ricorso spedito per la notifica in data 04.06.2010 e ritualmente depositato il successivo 28 giugno, la sig.ra G.M. impugna il provvedimento di cui in epigrafe, col quale il Comune di Maiori, all’esito dell’esame della domanda di condono edilizio, avanzata in data 25.10.1994, per la realizzazione di un parcheggio pubblico scoperto, già oggetto dell’ordinanza sindacale di rimessione in pristino n. 82 del 30.09.1994, ha chiesto il pagamento della somma di € 86.354,87 a titolo di oblazione, della somma di € 57.444,67 a titolo di oneri concessori, nonché della somma di € 8.047,16 a titolo di indennità ex art. 15 L. 1497/39, e quindi dell’importo totale di € 151.847,16.
Avverso tale atto, parte ricorrente solleva, sotto distinti e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere, assumendo che l’abuso realizzato dalla ricorrente sarebbe riconducibile alla tipologia “4” della tabella allegata alla legge sul condono, per il quale si prevede l’importo fisso dell’oblazione pari a £ 5.000.000, invece che alla tipologia “1”, prevista in caso di “nuova costruzione”, nel caso di specie inconfigurabile, mentre non sarebbero dovuti gli oneri concessori perché non vi sarebbe alcuna incidenza sul carico urbanistico.
L’intervento, infatti, sarebbe privo di portata planovolumetrica ed avrebbe modificato la destinazione d’uso in conformità alla normativa urbanistica, che contempla la realizzazione di “Attrezzature di interesse pubblico”. Inoltre l’abuso risalirebbe ad una data anteriore al 1967 ed anche per tale motivo non sarebbe dovuto alcun contributo per gli oneri concessori e comunque non sarebbe specificato sulla base di quale calcolo si è pervenuti alla somma come sopra determinata.
Il Comune di Maiori si costituisce in giudizio al fine di resistere.
...
Parte ricorrente indirizza i propri strali, col primo mezzo, avverso la parte del provvedimento col quale l’Amministrazione comunale quantifica l’oblazione dovuta attraverso la qualificazione dell’abuso in tipologia 1 invece che 4, come si assume in ricorso.
La questione centrale agitata in ricorso attiene quindi alla quantificazione dell’importo dell'oblazione (€ 86.354,87) da corrispondere per l’abuso in questione. Secondo il ricorrente, l’importo richiesto dall'amministrazione resistente doveva essere inferiore e ciò in quanto per la pratica edilizia in questione andavano applicati i criteri di quantificazione di cui al punto 4 della tabella allegata alla L. 28.02.1985, n. 47, per il quale si prevede l’importo fisso di £ 5.000.000.
Ai fini del decidere si deve partire dal rilievo che la tabella allegata alla legge n. 47 del 1985 prevede, dal punto 1 al punto 7, diverse ipotesi, che sono state prese in considerazione dal legislatore a seconda della gravità dell'abuso, con la previsione di importi decrescenti in relazione alla tipologia dello stesso, la cui fattispecie più grave è descritta proprio dal punto 1. Questo prevede il pagamento dell’importo nella misura maggiore per le "opere realizzate in assenza o difformità dalla licenza edilizia o concessione e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici". Detto diversamente, ai fini della sussunzione dell'intervento da sanare nella tipologia 1 si richiede la cumulativa ricorrenza di assenza (o difformità) di titolo abilitativo e di non conformità alle previsioni urbanistiche.
Come precisato dal Consiglio di Stato, “Ai fini della determinazione della misura dell'oblazione da corrispondere per il conseguimento della concessione in sanatoria, se sono realizzate opere in assenza o in difformità dalla concessione e non conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, si applica il punto 1 tab. all. alla l. 28.02.1985 n. 47” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04/11/1994, n. 1247; per una recente applicazione cfr. Cons. Stato, Sez. V, 01.10.2003, n. 5652). La tipologia 4 prevede la disciplina da applicare alle <<Opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia o concessione che non comportino aumenti della superficie utile o del volume assentito; opere di ristrutturazione edilizia come definite dall'art. 31, lettera d), della legge n. 457 del 1978, realizzate senza licenza edilizia o concessione o in difformità da essa; opere che abbiano determinato mutamento di destinazione d'uso>>.
Alla luce delle disposizioni normative e della consolidata giurisprudenza formatasi su di esse, risulta, pertanto, erronea l’interpretazione patrocinata dalla ricorrente, secondo cui l’abuso in questione andava ricondotto nel punto 4 della tabella prefata, sì da far ritenere illegittimo l’operato dall'amministrazione comunale. Invero, come detto sopra, se sono state realizzate opere in assenza o in difformità dalla concessione e non conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, si applica il punto 1 di tale tabella. Proprio in tale tipologia, come di dirà, è da ricondurre l’abuso in esame, che è consistito nella realizzazione di un parcheggio su area di 2.606 mq di superficie complessiva, “distribuita su due livelli sfalsati collegati tra loro a mezzo rampa, si presenta asfaltata e coperta da un pergolato metallico su cui insistono tralci di viti da uva radicati alla coltre di terreno esistente al di sotto del manto di asfalto calpestabile” (cfr. relazione tecnica in atti).
Occorre in primo luogo chiedersi se per tale intervento sia o meno necessario il permesso di costruire.
Orbene, il Consiglio di Stato (sez. V, 11.11.2004, n. 7325), in un caso analogo a quello in esame, per giunta caratterizzato dall’adibizione di un’area a parcheggio mediante il semplice spargimento sul suolo di ghiaia, e quindi senza la messa in opera di asfalto, ha ritenuto la necessità del previo titolo concessorio, con conseguente riconduzione al punto 1 della tabella allegata alla l. n. 47 del 1985.
Il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa perviene a tali conclusioni sulla base, in primo luogo, della classificazione dell’intervento rispetto all’ambito applicativo della concessione edilizia (ora permesso di costruire) scolpito dalla normativa antecedente all’intervento del TUed (D.P.R. n. 380/2001), avuto riguardo all’epoca non recente di realizzazione dell’abuso. A tal riguardo si osserva, preliminarmente, che, secondo tale disciplina normativa (articolo 1 - Trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare - L. n. 10/1977; l'articolo in esame è stato abrogato dall'art. 136, comma 1 e 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185) <<Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.
Ebbene, l’interpretazione del dato normativo richiamato non è stata affatto pacifica, in quanto la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato due indirizzi ermeneutici: secondo il primo, andrebbero assoggettati a titolo abilitativo solo gli interventi aventi portata -simultaneamente- urbanistica ed edilizia. Invero, osservano i fautori della tesi in esame, l’uso congiunto delle due espressioni (urbanistica ed edilizia) nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento al previo rilascio del titolo degli interventi che, pur non mancando di impatto urbanistico, siano privi di consistenza materiale di opere edilizie. Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola della soggezione a concessione di ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti in una modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V, 01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988; Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez. VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di munirsi di concessione edilizia per ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l’esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l’alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo funzionale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26/09/2003, n. 5502). Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V, 06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez. V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n. 419).
Il Consiglio di Stato pur osservando che, secondo un suo precedente, non integra l’ipotesi di trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l’intervento materialmente consistente nella mera ripulitura di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato all’esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons. Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103), tuttavia ritiene di condividere l’orientamento più restrittivo, in base al quale lo spargimento di ghiaia su un’area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d’uso.
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989).
Il Consiglio di Stato, con la citata pronuncia, soggiunge che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia -D.P.R. n. 380/2001 atteso che l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e. 3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell'art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>. Non è da trascurare, con specifico riferimento alle caratteristiche dell’intervento descritto in atti, non solo che all’area è stata impressa la nuova destinazione d’uso a parcheggio non mediante lo spargimento di ghiaia bensì attraverso la messa in opera di asfalto, ma anche che trattasi di area di rilevanti dimensioni, complessivamente trasformata anche mediante la realizzazione di una rampa di collegamento tra i due livelli nei quali si sviluppa e di un pergolato in ferro su parte di essa.
Trattasi quindi di una vera e propria trasformazione del terreno al quale è stata impressa una destinazione d’uso diversa da quella originariamente agricola
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1035 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dall'art. 338 R.D. 1265/1934 (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale".
Tale vincolo osta al rilascio anche dei titoli edilizi in sanatoria, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo, come affermato dalla giurisprudenza con riferimento alle istanze di condono avanzate ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47.
Detto vincolo comporta, in definitiva, una limitazione legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che preclude il rilascio del titolo edilizio per opere incompatibili col vincolo medesimo.

In punto di diritto, va ricordato che l'articolo 338 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265/1934 vieta l'edificazione nelle aree ricadenti in fasce di rispetto cimiteriale dei manufatti che possono qualificarsi come costruzione edilizie, come tali incompatibili con la natura dei luoghi e con l'eventuale espansione del cimitero.
Al riguardo, la giurisprudenza, ormai consolidata, ha affermato che in materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale" (ex multis C. Stato, V, 14.09.2010, n. 6671; C. Stato, IV 12.03.2007, n. 1185, C. Stato, V, 12.11.1999, n. 1871; C. Stato, II, parere 28.02.1996, n. 3031/1995; TAR Sicilia, Palermo, III, 18.01.2012, n. 77; TAR Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n. 15615; Tar Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253; Tar Toscana, I, 29.09.1994, n. 471).
Non sfugge al Collegio che una parte minoritaria della giurisprudenza (TAR Genova Liguria sez. I 20.06.2008, n. 1388) opta per la natura relativa della inedificabilità prodotta dal vincolo, ma alla tesi contraria, che si lascia preferire per la complessità delle esigenze di tutela alle quali il vincolo presiede, propende decisamente la recenziore giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. IV, 20.07.2011, n. 4403), secondo cui, peraltro, il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati sparsi (cfr. TAR Milano, II, 06.10.1993 n. 551).
Da ciò consegue l’infondatezza anche del profilo di censura che valorizza il carattere isolato del manufatto, che pertanto incorre nella preclusività del vincolo che per giunta osta al rilascio anche dei titoli edilizi in sanatoria, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo, come affermato dalla giurisprudenza con riferimento alle istanze di condono avanzate ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47 (cfr. C. Stato, se. V, 03.05.2007, n. 1933 e del 12.11.1999, n. 1871).
Detto vincolo, secondo consolidata giurisprudenza, comporta, in definitiva, una limitazione legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che preclude il rilascio del titolo edilizio per opere incompatibili col vincolo medesimo
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni; esso si pone, infatti, in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.
È, infine, infondato e va rigettato anche il terzo ed ultimo motivo di gravame, con cui il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e l'eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione e di istruttoria, perché l’Amministrazione non ha impartito prescrizioni, come l’arretramento del fabbricato rispetto alla fascia di rispetto cimiteriale, attesa la ridotta incidenza (mt. 1,00) rispetto alla stessa.
L’infondatezza della censura si deve alla natura stessa del titolo edilizio richiesto, che essendo da reputare “illegittimo il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni; esso si pone, infatti, in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni” (cfr. TAR Latina Lazio sez. I, 20.12.2012, n. 1004)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di sanatoria produce l'effetto di rendere inefficace l'ordinanza di demolizione atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla sanatoria edilizia o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Va accolto, invece, il gravame integrativo, proposto avverso l’atto che accerta l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione del capannone prot. n. 28748 del 02.04.2004, in quanto, come denunciato col primo mezzo, avente rilievo assorbente di ogni altra censura, la presentazione dell'istanza di sanatoria produce l'effetto di rendere inefficace l'ordinanza di demolizione atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla sanatoria edilizia o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (ex multis, Consiglio di Stato sez. I, 27.12.2012, n. 4921).
E’ appena il caso di osservare che parte ricorrente allega a tale gravame relazione tecnica dalla quale risulterebbe che il manufatto in oggetto non sarebbe più insistente nella fascia di rispetto cimiteriale dopo il suo ridimensionamento a metri 100,00 dalla data di approvazione del PRG adeguato al PUT, risalente al 27/12/2006. Tale sopravvenienza non è in grado di inficiare la legittimità del diniego impugnato in sede introduttiva, trattandosi di una disciplina urbanistica introdotta soltanto successivamente ai riferimenti temporali rispetto ai quali è richiesta la cosiddetta doppia conformità ai fini del rilascio del titolo sanante ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.05.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'obbligazione di corrispondere il contributo per il rilascio della concessione edilizia ha origine legale e rinviene il suo fatto costitutivo nell'attribuzione al richiedente, mediante il titolo concessorio, dello ius aedificandi avente ad oggetto il progetto assentito dall'Amministrazione.
Sicché, la disciplina regolatrice della suddetta obbligazione, anche nei suoi aspetti quantitativi, non può che essere individuata sulla scorta del principio di diritto intertemporale in base al quale tempus regit actum, ovvero con riferimento alle norme ed ai criteri di computo vigenti alla data di rilascio della concessione.
A tale conclusione interpretativa è del resto pervenuta la stessa pregressa giurisprudenza, avendo essa affermato che "ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell'obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il contributo ed è a tale momento che occorre riferirsi per la determinazione dell'entità del contributo stesso in base ai parametri normativi allora vigenti".

Come è noto, l'obbligazione di corrispondere il contributo per il rilascio della concessione edilizia ha origine legale e rinviene il suo fatto costitutivo nell'attribuzione al richiedente, mediante il titolo concessorio, dello ius aedificandi avente ad oggetto il progetto assentito dall'Amministrazione.
Consegue immediatamente, da tale rilievo, che la disciplina regolatrice della suddetta obbligazione, anche nei suoi aspetti quantitativi, non può che essere individuata sulla scorta del principio di diritto intertemporale in base al quale tempus regit actum, ovvero con riferimento alle norme ed ai criteri di computo vigenti alla data di rilascio della concessione.
A tale conclusione interpretativa è del resto pervenuta la stessa pregressa giurisprudenza, avendo essa affermato che "ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell'obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il contributo ed è a tale momento che occorre riferirsi per la determinazione dell'entità del contributo stesso in base ai parametri normativi allora vigenti" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1071 del 25.10.1993) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 02.05.2013 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione.
Quanto alla mancata impugnativa della circolare ministeriale, il Collegio deve confermare la giurisprudenza consolidata, da cui non vi è motivo di discostarsi per il caso di specie, per la quale le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione (Cons. Stato: sez. VI, 13.09.2012, n. 4859; sez. IV, 12.06.2010, n. 3877) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.04.2013 n. 2374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ambito del particolare sub-sistema delineato dall’articolo 159 del dlgs 22.01.2004 n. 42, la richiesta da parte dell’organo statale di elementi istruttori, formulata nei confronti del Comune, sortisce una valenza interruttiva e non meramente sospensiva.
Alla conclusione appena rassegnata può giungersi in primo luogo all’esito dell’esame della pertinente disciplina.
Ed infatti, il comma 3 dell’articolo 159 del decreto legislativo n. 42, cit. (nella formulazione ratione temporis rilevante), stabili(va) che “la Soprintendenza, se ritiene l’autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, dettate ai sensi del presente titolo, può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione. Si applicano le diposizioni di cui all’articolo 6, comma 6-bis, del regolamento di cui al decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali 13.06.1994, n. 495”.
A sua volta, il comma 6-bis dell’articolo 6, cit., stabilisce che “qualora, in sede di istruttoria, emerga la necessità di ottenere chiarimenti o di acquisire elementi integrativi di giudizio, ovvero di procedere ad accertamenti di natura tecnica, il responsabile del procedimento ne dà immediata comunicazione ai soggetti indicati nell’articolo 4, comma 1, nonché, ove opportuno, all’amministrazione che ha trasmesso la documentazione da integrare. In tal caso, il termine per la conclusione del procedimento è interrotto, per una sola volta e per un termine non inferiore a trenta giorni, dalla data di comunicazione e riprende a decorrere dal ricevimento della documentazione o dell’acquisizione delle risultanze degli accertamenti tecnici”.
Pertanto, già l’esame testuale delle pertinenti disposizioni rende palese che la richiesta di elementi integrativi da parte dell’organo statale produca effetti interruttivi e non meramente sospensivi.
A conclusioni in tutto analoghe è pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato relativa al decorso del termine di cui al comma 3 dell’articolo 159 del decreto legislativo 42 del 2004.
Al riguardo è stato chiarito che:
a) il termine di 60 giorni di cui alla richiamata disposizione ha carattere perentorio e decorre dalla ricezione, da parte della Soprintendenza, dell'autorizzazione rilasciata e della documentazione tecnicoamministrativa, sulla cui base l'autorizzazione è stata adottata;
b) nel caso in cui la detta documentazione sia incompleta, “il termine non decorre e la Soprintendenza legittimamente richiede gli atti mancanti. Quindi il termine decorre dal momento in cui la Soprintendenza riceva la documentazione completa”;
c) la Soprintendenza, oltre all'integrazione della documentazione appena richiamata, può chiedere integrazioni istruttorie, purché non si tratti di ingiustificati aggravamenti del procedimento dati da richieste pretestuose, dilatorie o tardive;
d) in questo caso, ai fini del decorso del termine di legge si applica quanto disposto dal sopra citato art. 6-bis del decreto ministeriale n. 495 del 1994, richiamato dal più volte richiamato comma 3 dell’articolo 159 del d.lgs. n. 42 del 2004.
In particolare, il Collegio ritiene che meriti puntuale conferma quanto affermato da Cons. Stato, VI, 10.01.2011, n. 43, secondo cui, a seguito di una richiesta di integrazione documentale e per effetto della interruzione prodotta da tale richiesta, l'originario termine di sessanta giorni si prolunga di ulteriori trenta giorni, con la conseguenza che –fermo restando il termine minimo di trenta giorni, decorrente dal ricevimento della documentazione integrativa- il tempo decorrente dall'originario ricevimento degli atti fino alla richiesta istruttoria sommato a quello successivo che va dal ricevimento della documentazione integrativa richiesta fino all'adozione del provvedimento di annullamento non deve complessivamente essere superiore a novanta giorni, non tenendosi ovviamente conto del periodo che va dalla comunicazione della richiesta di integrazione al ricevimento degli atti.

Il primo motivo di appello (con cui i ricorrenti hanno chiesto la riforma delle sentenze in epigrafe per non aver rilevato il superamento da parte della Soprintendenza del termine perentorio fissato per l’annullamento dell’autorizzazione rilasciata ai fini paesistici) è infondato.
In primo luogo il Collegio ritiene di confermare la tesi espressa nell’ambito delle sentenze in epigrafe secondo cui, nell’ambito del particolare sub-sistema delineato dall’articolo 159 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (nella formulazione che qui rileva), la richiesta da parte dell’organo statale di elementi istruttori, formulata nei confronti del Comune, sortisse una valenza interruttiva e non (come invece preteso dagli appellanti) meramente sospensiva.
Alla conclusione appena rassegnata può giungersi in primo luogo all’esito dell’esame della pertinente disciplina.
Ed infatti, il comma 3 dell’articolo 159 del decreto legislativo n. 42, cit. (nella formulazione ratione temporis rilevante), stabili(va) che “la Soprintendenza, se ritiene l’autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, dettate ai sensi del presente titolo, può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione. Si applicano le diposizioni di cui all’articolo 6, comma 6-bis, del regolamento di cui al decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali 13.06.1994, n. 495”.
A sua volta, il comma 6-bis dell’articolo 6, cit., stabilisce che “qualora, in sede di istruttoria, emerga la necessità di ottenere chiarimenti o di acquisire elementi integrativi di giudizio, ovvero di procedere ad accertamenti di natura tecnica, il responsabile del procedimento ne dà immediata comunicazione ai soggetti indicati nell’articolo 4, comma 1, nonché, ove opportuno, all’amministrazione che ha trasmesso la documentazione da integrare. In tal caso, il termine per la conclusione del procedimento è interrotto, per una sola volta e per un termine non inferiore a trenta giorni, dalla data di comunicazione e riprende a decorrere dal ricevimento della documentazione o dell’acquisizione delle risultanze degli accertamenti tecnici”.
Pertanto, già l’esame testuale delle pertinenti disposizioni rende palese che la richiesta di elementi integrativi da parte dell’organo statale produca effetti interruttivi e non meramente sospensivi (come invece ritenuto dagli odierni appellanti).
A conclusioni in tutto analoghe è pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato relativa al decorso del termine di cui al comma 3 dell’articolo 159 del decreto legislativo 42 del 2004.
Al riguardo è stato chiarito che:
a) il termine di sessanta giorni di cui alla richiamata disposizione ha carattere perentorio e decorre dalla ricezione, da parte della Soprintendenza, dell'autorizzazione rilasciata e della documentazione tecnicoamministrativa, sulla cui base l'autorizzazione è stata adottata;
b) nel caso in cui la detta documentazione sia incompleta, “il termine non decorre e la Soprintendenza legittimamente richiede gli atti mancanti. Quindi il termine decorre dal momento in cui la Soprintendenza riceva la documentazione completa” (Cons. Stato, Sez. II, n. 2449 del 2004);
c) la Soprintendenza, oltre all'integrazione della documentazione appena richiamata, può chiedere integrazioni istruttorie, purché non si tratti di ingiustificati aggravamenti del procedimento dati da richieste pretestuose, dilatorie o tardive;
d) in questo caso, ai fini del decorso del termine di legge si applica quanto disposto dal sopra citato art. 6-bis del decreto ministeriale n. 495 del 1994, richiamato dal più volte richiamato comma 3 dell’articolo 159 del d.lgs. n. 42 del 2004 (Cons. Stato, Sez. VI: 19.09.2008, n. 4311; id., Sez. VI, 10.09.2008, n. 4313; id., Sez. VI, 26.11.2007, n. 6032).
In particolare, il Collegio ritiene che meriti puntuale conferma quanto affermato da Cons. Stato, VI, 10.01.2011, n. 43, secondo cui, a seguito di una richiesta di integrazione documentale e per effetto della interruzione prodotta da tale richiesta, l'originario termine di sessanta giorni si prolunga di ulteriori trenta giorni, con la conseguenza che –fermo restando il termine minimo di trenta giorni, decorrente dal ricevimento della documentazione integrativa- il tempo decorrente dall'originario ricevimento degli atti fino alla richiesta istruttoria sommato a quello successivo che va dal ricevimento della documentazione integrativa richiesta fino all'adozione del provvedimento di annullamento non deve complessivamente essere superiore a novanta giorni, non tenendosi ovviamente conto del periodo che va dalla comunicazione della richiesta di integrazione al ricevimento degli atti
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.04.2013 n. 2359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: In via generale l'assunzione di una pratica al protocollo dell'amministrazione ha la funzione di certificare la certezza legale dell'avvenuta ricezione, ai fini sia di costituire un termine iniziale incontestabile per l'esplicazione dei poteri che a tale ricezione si connettono, sia di garantire la conoscenza effettiva da parte dell'organo procedente.
Di conseguenza, solo la data attestata dal protocollo va assunta a prova dell'avvenuta conoscenza e considerata quale termine iniziale per la decorrenza del termine, irrilevanti essendo i diversi, eventuali elementi dai quali possa desumersi la ricezione da parte dell'amministrazione, la cui considerazione renderebbe invece incerta ed eventuale l'individuazione di un momento che, viceversa, per la rilevanza che l'ordinamento gli connette, deve emergere come formalmente incontestabile. Nel caso di specie, pertanto, la decorrenza del termine previsto dall'art. 159 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 deve computarsi dal momento dell’acquisizione al protocollo della Soprintendenza dell’atto comunale di autorizzazione ai fini paesaggistici.
In altri termini, quando si debba attribuire rilievo al decorso del tempo (per la verifica della formazione di un silenzio della pubblica amministrazione o del mancato esercizio di un potere di riesame), tranne i casi espressamente tipizzati dalla legge, non rileva di per sé la rilevazione su un foglio dei dati di ‘ricezione di un fax’ o l’apposizione di un generico timbro: ha rilievo la data attestata dal protocollo, facente fede fino a querela di falso, soltanto dopo la quale comincia a decorrere il termine entro il quale il potere può essere esercitato.

Ebbene, al fine della risoluzione della questione, il Collegio ritiene di prestare puntuale adesione a quanto già affermato con la sentenza di questo Consiglio, Sezione VI, 06.06.2011, n. 3341.
Nell’occasione questo Consiglio (chiamato a pronunciarsi, appunto, su un’ipotesi di esercizio del potere statale di annullamento di cui all’articolo 159, cit.) ha chiarito che “in via generale l'assunzione di una pratica al protocollo dell'amministrazione ha la funzione di certificare la certezza legale dell'avvenuta ricezione, ai fini sia di costituire un termine iniziale incontestabile per l'esplicazione dei poteri che a tale ricezione si connettono, sia di garantire la conoscenza effettiva da parte dell'organo procedente.
Di conseguenza, solo la data attestata dal protocollo va assunta a prova dell'avvenuta conoscenza e considerata quale termine iniziale per la decorrenza del termine, irrilevanti essendo i diversi, eventuali elementi dai quali possa desumersi la ricezione da parte dell'amministrazione, la cui considerazione renderebbe invece incerta ed eventuale l'individuazione di un momento che, viceversa, per la rilevanza che l'ordinamento gli connette, deve emergere come formalmente incontestabile. Nel caso di specie, pertanto, la decorrenza del termine previsto dall'art. 159 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 deve computarsi dal momento dell’acquisizione al protocollo della Soprintendenza dell’atto comunale di autorizzazione ai fini paesaggistici
”.
In altri termini, quando si debba attribuire rilievo al decorso del tempo (per la verifica della formazione di un silenzio della pubblica amministrazione o del mancato esercizio di un potere di riesame), tranne i casi espressamente tipizzati dalla legge, non rileva di per sé la rilevazione su un foglio dei dati di ‘ricezione di un fax’ o l’apposizione di un generico timbro: ha rilievo la data attestata dal protocollo, facente fede fino a querela di falso, soltanto dopo la quale comincia a decorrere il termine entro il quale il potere può essere esercitato
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.04.2013 n. 2359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua, con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa, […] tutte le volte che la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende la comunicazione prevista dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Osserva il Collegio che, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui non ravvisa ragioni per discostarsi, “le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua, con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa, […] tutte le volte che la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende la comunicazione prevista dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990" (ex plurimis: Cons. di Stato, Sez. IV, 17.09.2012, n. 4925, e 18.04.2012, n. 2286) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.04.2013 n. 2350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’eccesso di “consultazione” (il fatto ciò che l’Amministrazione procedente chieda pareri non previsti o non imposti) non determina un vizio dell’istruttoria, ma, al contrario, ne arricchisce i contenuti.
Tale modus procedendi, pertanto, non è di per sé sufficiente ad inficiare la legittimità del provvedimento che risulti nel suo contenuto dispositivo sostanzialmente corretto.
Il fatto, invero, che un determinato parere non sia previsto (o non sia reso obbligatorio) non impedisce all’Amministrazione procedente, ove ritenga utili le valutazioni di una diversa Amministrazione o di un determinato organo, di acquisire, prima di decidere, il suo apporto valutativo.

Del resto, su un piano più generale, l’eccesso di “consultazione” (il fatto ciò che l’Amministrazione procedente chieda pareri non previsti o non imposti) non determina un vizio dell’istruttoria, ma, al contrario, ne arricchisce i contenuti. Tale modus procedendi, pertanto, non è di per sé sufficiente ad inficiare la legittimità del provvedimento che risulti nel suo contenuto dispositivo sostanzialmente corretto.
Il motivo di appello, quindi, solleva una questione meramente formale, ma non evidenzia in che modo, l’acquisizione dei due pareri contestati, abbia potuto tradursi in una diminuzione di garanzie procedimentali.
Il fatto, invero, che un determinato parere non sia previsto (o non sia reso obbligatorio) non impedisce all’Amministrazione procedente, ove ritenga utili le valutazioni di una diversa Amministrazione o di un determinato organo, di acquisire, prima di decidere, il suo apporto valutativo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.04.2013 n. 2343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il legislatore, nel disciplinare l’accertamento di compatibilità paesaggistica, non predetermina i parametri sulla cui base deve essere compiuta la valutazione, lasciando quindi alla più ampia discrezionalità dell’autorità competente qualsiasi tipo di scelta.
Ed invero, a sostegno del diniego l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica viene richiamata la mancanza dei “necessari presupposti di compatibilità delle opere abusivamente realizzate a causa, sia dei materiali estranei al contesto paesaggistico (fabbricato 3), sia delle modalità di aggregazione e composizione (tipologia edilizia degli altri fabbricati), che rendono i manufatti incongruenti con le preesistenze e il paesaggio tutelato caratterizzato dalle costruzioni di fattura tradizionale e dal disegno dei campi degradanti verso l’ambito lagunare” (parere della Soprintendenza del 06.10.2008).
Al di là della qualificazione giuridica del parere come obbligatorio e vincolante, non vi è dubbio che si tratta di motivazione congrua e sufficientemente dettagliata che sfugge, nel merito, alle contestazione formulate dal ricorrente.
Va rilevato, infatti, che il legislatore, nel disciplinare l’accertamento di compatibilità paesaggistica, non predetermina i parametri sulla cui base deve essere compiuta la valutazione, lasciando quindi alla più ampia discrezionalità dell’autorità competente qualsiasi tipo di scelta (Cass. pen. Sez. III, 03.02.2006, n. 4495)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.04.2013 n. 2343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti di fornitura e servizi pubblici affidati direttamente.
L’art. 5 della legge n. 381 del 1991, concede agli enti pubblici la possibilità di affidare direttamente, soltanto in presenza di determinati presupposti, la fornitura di beni e servizi.

Questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 29.04.2013 n. 2342.
Nel caso in esame, relativo all’affidamento della gestione di un campo sportivo comunale per lo svolgimento di attività fieristiche, una società operante nel settore aveva impugnato il provvedimento con il quale l’amministrazione aveva affidato direttamente l’attività, senza procedere al preventivo esperimento di una gara pubblica.
Accolto l’appello della società dal Tribunale amministrativo regionale di primo grado, la sentenza viene appellata dal Comune dinanzi ai Giudici di Palazzo Spada, secondo i quali: “Il predetto art. 5 prevede che «gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione», possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di servizi «per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell’IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate».
Da una corretta applicazione della norma discende pertanto che l’amministrazione può affidare direttamente alle cooperative sociali appalti di fornitura di beni e servizi pubblici, soltanto alle condizioni prestabilite, visto oltretutto che: “Tale tipologia di appalti presuppone, in coerenza con la causa del contratto, che la relativa prestazione sia rivolta all’amministrazione per soddisfare una sua specifica esigenza al fine di ottenere, quale corrispettivo, il pagamento di una determinata somma.”
In conclusione, l’appello dell’amministrazione comunale è rigettato perché nel caso in esame si è in presenza di una concessione di bene pubblico, rispetto alla quale devono essere seguite rigorosamente le procedure di garanzia per la scelta del concessionario dettate dal Codice dei contratti, mentre gli appalti di fornitura e servizi pubblici possono essere affidati direttamente esclusivamente in presenza dei presupposti di cui all’art. 5 della legge n. 381/1991 (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, agricoltori risarciti per mancata concessione.
Comune obbligato a risarcire con circa 40 mila euro un imprenditore agricolo per avergli negato una concessione edilizia sulla base di un parere negativo, peraltro non vincolante, della Asl competente territorialmente.

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 18.04.2013 n. 2164, ha riconosciuto al ricorrente il diritto di ottenere dall'ente locale l'importo del contributo che avrebbe potuto ottenere se avesse ottenuto la concessione edilizia, finalizzata alla realizzazione di una stalla su un suolo in sua proprietà, e per la cui realizzazione, aveva chiesto finanziamenti comunitari e interni.
Il parere negativo dell'Asl si era basato su particolari «linee di indirizzo» elaborate dai responsabili dei servizi di prevenzione della provincia di Brescia, in ragione delle quali la distanza di 100 metri sarebbe stata determinata, sulla base dell'esperienza, come quella minima ammissibile per un tollerabile impatto igienico-sanitario delle stalle con le zone residenziali (articolo ItaliaOggi del 07.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATACds: per il cambio di destinazione serve l'ok del comune
Non basta la Scia. Da magazzino a bar? Se permesso.
Il carico urbanistico che grava su di un bar è certamente superiore a quello che può interessare un magazzino. Di conseguenza la modifica della destinazione d'uso tra le due diverse categorie deve essere formalmente autorizzata dal Comune e non è sufficiente la presentazione di una denuncia di inizio attività (ora Scia); e ciò, anche se non sono state apportate modifiche all'immobile.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 18.04.2013 n. 2153 ha chiarito che il cambio di destinazione non può essere riportato alla medesima classe del magazzino originariamente autorizzato dal Comune, posto che, come è evidente, ben diverse sono le caratteristiche proprie dell'uno e dell'altro utilizzo e, di conseguenza, diversi sono i parametri ai quali deve essere conformata l'opera edilizia all'uno o all'altro dedicata.
Senza contare che la diversa tipologia del carico urbanistico proprio della destinazione a sala ristorante e bar rispetto a quello proprio del magazzino non consentono l'assenso mediante semplice procedura di Dia, che l'art. 57, comma 14, della legge regionale della Calabria 19/2002, consente per il mutamento della destinazione d'uso, alla specifica condizione che dalla stessa non derivi la necessità di dotazioni aggiuntive di standard e servizi pubblici e privati. Nel caso specifico, è stato ritenuto illegittimo il comportamento dell'Ente nel non aver accertato se dal mutamento realizzato derivasse la necessità di dotazioni aggiuntive, ovvero se risultasse il rispetto degli standard urbanistici.
Nonostante tale circostanza, tuttavia, non è stata accolta la richiesta di risarcimento del danno presentata dalla ricorrente originaria, posto che la relativa domanda era sfornita di prova circa la sussistenza del dolo o della colpa dell'Amministrazione. Ciò in quanto il danno non è rilevabile dal mero atto illegittimo, che comporterebbe l'identificazione della illegittimità con il danno, mentre la domanda di risarcimento è, anche nel processo amministrativo, regolata dal principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ., in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve indicare e provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013).

COMPETENZE PROGETTUALITar Lombardia. Edifici piccoli Progettazione per i geometri.
Anche i geometri possono occuparsi della progettazione e della direzione dei lavori di costruzioni civili di modesta entità. Se lo scorporo delle attività professionali riguardanti il cemento armato è effettivo e non simulato, e ciascun professionista (geometra da un lato, architetto o ingegnere dall'altro) riceve dal committente un incarico rientrante nel rispettivo ambito professionale assumendosi una responsabilità piena circa il contenuto della propria prestazione, con il solo vincolo di coordinarsi con gli altri professionisti dato il carattere unitario dell'edificazione.
In una simile prospettiva è infatti possibile trovare un punto di equilibrio tra la parte della norma che esclude il cemento armato dalla competenza professionale dei geometri in relazione alle costruzioni civili e quella che estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori con riferimento alle costruzioni civili di modesta importanza.

È quanto afferma il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la sentenza 18.04.2013 n. 361
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimità la previsione regolamentare del pagamento di un canone annuo a fronte del rilascio di una concessione edilizia per l’installazione di antenne ricetrasmittenti per telefonia mobile, impianti similari e pertinenze tecnologiche.
Con il ricorso in esame è proposta azione impugnatoria avverso la nota, meglio descritta in epigrafe nei suoi estremi, con cui l’intimata Amministrazione Comunale ha richiesto alla società ricorrente il versamento del canone annuo di lire 20.000.000 a fronte del rilascio della concessione edilizia per l’installazione di una stazione radio base per la prestazione del servizio radiomobile, nonché avverso l’art. 3, punto 4, del Regolamento comunale per l’installazione degli impianti di trasmissione radiotelevisiva, della rete di telefonia mobile e per gli apparecchi di ricezione nei centri urbani, approvato con delibera C.C. n. 4 del 26.01.2001, che prevede il pagamento di tale canone annuo a fronte della concessione edilizia per l’installazione di antenne ricetrasmittenti per telefonia mobile.
Chiede, altresì, parte ricorrente l’accertamento del proprio diritto alla restituzione di quanto versato a titolo di canone annuo.
Il ricorso è fondato e va accolto per le seguenti considerazioni.
La gravata nota regolamentare ricollega il pagamento del canone annuo al rilascio della concessione edilizia cui sono soggette le installazioni di antenne ricetrasmittenti per telefonia mobile, impianti similari e relative pertinenze tecnologiche.
In relazione a tale previsto nesso tra il rilascio della concessione edilizia ed il pagamento di un canone annuo, viene in rilievo, quale parametro sulla cui scorta positivamente delibare in ordine all’illegittimità della gravata disposizione, l’art. 3 della legge n. 10 del 1977, il quale subordina la concessione edilizia al pagamento di un contributo commisurato all’incidenza delle opere di urbanizzazione e al costo di costruzione, dovendo quindi escludersi che, ai sensi della normativa statale applicabile, il rilascio della concessione edilizia possa essere subordinato o comunque ricollegato al pagamento di un canone annuo che risulta estraneo rispetto alla natura di corrispettivo di diritto pubblico commisurato all'aumento del carico urbanistico di zona ed ai costi di costruzione.
E’, pertanto, evidente il carattere arbitrario del previsto canone annuo, avente carattere periodico e continuativo, il quale non trova alcun fondamento nella normativa statale e prescinde peraltro, nella sua quantificazione, dal calcolo dell’incidenza dell’opera sui costi di urbanizzazione e di costruzione.
Né è possibile evincere una qualche causa giustificatrice della pretesa, non essendovi alcuna controprestazione gravante sull’Amministrazione Comunale che possa legittimare la corresponsione di un canone annuo, tenuto altresì conto che il terreno sul quale insiste l’impianto risulta essere di proprietà di privati, e non del Comune.
L’assenza di una causa giustificatrice del previsto canone annuo che possa allo stesso conferire carattere di corrispettivo nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, conduce ad ascrivere tale canone nel novero delle prestazioni patrimoniali la cui previsione, a fini impositivi, è tuttavia riservata alla legge, precluso essendo quindi all’intimata Amministrazione Comunale la possibilità di introdurre prestazioni patrimoniali, quale il contestato canone annuo, in assenza di una previsione di legge.
La contestata previsione, unilateralmente adottata dal Comune per via di un atto regolamentare, nel tradursi in una prestazione imposta, risulta inoltre illegittima per difetto della copertura legislativa richiesta dall’art. 23 della Carta fondamentale.
Prevede tale norma che “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” istituendo così una riserva di legge, qualificata di tipo relativo, essendo sufficiente che la legge determini la c.d. base legislativa indicante i presupposti, i soggetti passivi e il nucleo della prestazione patrimoniale da porre a carco dei privati, correlativamente potendo demandare alla potestà regolamentare la definizione dei profili di dettaglio e delle modalità di attuazione del prelievo.
La riserva di legge in parola deve, dunque, ritenersi rispettata anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a delimitare l'ambito di discrezionalità dell'amministrazione purché la concreta entità della prestazione imposta sia chiaramente desumibile dagli interventi legislativi che riguardano l'attività dell'amministrazione (Corte Costituzionale, 14.06.2007, n. 190).
Nell’alveo della garanzia apprestata dalla predetta norma costituzionale la dottrina e la giurisprudenza della Corte pacificamente riconducono non solo le prestazioni patrimoniali di natura tributaria ma anche quelle di diversa natura come i contributi (Corte Costituzionale, 14.06.2007 n. 190; 26.02.1998, n. 26) e, in genere, tutte le prestazioni patrimoniali determinate con atto unilaterale autoritativo, alla cui adozione non concorra la volontà del privato (Corte costituzionale, 14.06.2007, n. 190; 31.05.1996, n. 180), qualificando la giurisprudenza della Corte costituzionale come prestazione imposta anche un canone per un'utilizzazione di beni demaniali che, pur avendo a base un negozio fra la p.a. ed il privato, sia imposto autoritativamente per la fruizione di un bene pubblico (Corte Costituzionale, 10.06.1994, n. 236).
Poste le brevi coordinate interpretative appena tratteggiate, ritiene il Collegio che non possa essere esclusa la natura di prestazione patrimoniale imposta, ai sensi e per gli effetti della copertura e della riserva di legge scolpita all’art. 23 della Costituzione, al previsto canone annuo cui è sottoposta la concessione edilizia per l’installazione degli impianti di che trattasi.
Invero, richiamandosi quanto testé ricordato, ovverosia che il Giudice delle leggi annette natura di prestazione patrimoniale imposta ex art. 23 Cost., in genere, a tutte le prestazioni patrimoniali determinate con unilaterale atto autoritativo alla cui adozione non concorra la volontà del privato (Corte costituzionale, 14.06.2007, n. 190; 31.05.1996, n. 180), il carattere di prestazione imposta deve essere alla censurata norma regolamentare conferito se non altro in considerazione della fonte che lo contiene, che è un atto generale, ossia un Regolamento locale approvato con deliberazione di Consiglio comunale.
Richiedendo l’art. 23 della Costituzione che ogni prestazione patrimoniale imposta sia legittimata da una fonte normativa avente valore di legge, nella specie insussistente, la censurata disposizione regolamentare risulta illegittima anche sotto tale profilo.
Ritiene, dunque, il Collegio che la riserva relativa di legge recata dall’art. 23 Cost. richiede per il contestato canone annuo cui è soggetta la concessione edilizia per l’installazione di impianti di telefonia, di cui alla gravata norma regolamentare, una copertura legislativa, in difetto della quale detta norma è illegittima.
In ragione delle superiori considerazioni il ricorso va, quindi, accolto, stante la rilevata illegittimità della gravata previsione regolamentare del pagamento di un canone annuo a fronte del rilascio di una concessione edilizia per l’installazione di antenne ricetrasmittenti per telefonia mobile, impianti similari e pertinenze tecnologiche, il che conduce all’annullamento della relativa norma.
Va parimenti disposto l’annullamento della gravata nota con la quale è stato richiesto alla società ricorrente il versamento del canone annuo, riverberandosi sulla stessa in via derivata i medesimi vizi che affligono la norma regolamentare (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 09.04.2013 n. 3579 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il verbale di sopralluogo con cui tecnici comunali od agenti di polizia municipale accertano abusi edilizi sono atti dotati di fede privilegiata nel senso che fanno fede dei fatti accertati fino a querela di falso.
Migliore sorte non può essere riservata al secondo mezzo a mente del quale, in violazione dell’art. 5 della l. 241 del 1990, in alcun modo sarebbero state individuate le “discordanze” rilevate, ovvero evidenziate le concrete e specifiche ragioni poste a base dell’atto.
Ed invero, l’espresso richiamo nel provvedimento all’evincersi tali “discordanze” dalla documentazione allegata al permesso di costruire e dal “verbale di ispezione operato dal Comando dei vigili urbani unitamente ai tecnici comunali il 04.05.2012”, costituisce presupposto sufficiente a dar conto del percorso (salvo, si intende, l’onere di ostensione del verbale), posto che “il verbale di sopralluogo con cui tecnici comunali od agenti di polizia municipale accertano abusi edilizi sono atti dotati di fede privilegiata nel senso che fanno fede dei fatti accertati fino a querela di falso” (cfr., in tali sensi, Cons. Stato, sez. quinta, sentenza 03.11.2010, n. 7770; 28.01.1998, n. 103; sezione prima, 08.01.2010, n. 250 e cfr. anche, per il principio, Tar Campania, questa sesta sezione, n. 760 del 06.02.2013; 11.12.2012, n. 5084, 21.06.2012, n. 2944; 02.05.2012, n. 2006, 05.06.2012, n. 2635 e n. 2644; 30.03.2011, n. 1856; sezione terza, 20.11.2012, n. 4638; sezione quarta, 03.01.2013, n. 59).
Il che non significa che non possano essere contestate senza necessità di querela le valutazioni nel caso operate in ordine ai fatti accertati (cfr. per tutte, Cons. Stato, sezione quinta, 28.04.2011, n. 2541), ma significa certamente che l’atto dirigenziale qui contestato ed assunto in presenza del detto verbale, come si concluderà in avanti, si regge sufficientemente sul richiamo all’accertamento ispettivo compiuto posto a confronto con gli atti in possesso dell’amministrazione (nonché, questi ultimi, dello stesso ricorrente)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 20.03.2013 n. 1546 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve ritenersi pacifico che la collocazione dei manufatti di cui trattasi  (ndr: gazebo di 200 mq., adibito a punto vendita per arredi da giardino e ad altri tre gazebi per deposito di materiali) debba definirsi “nuova costruzione”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
La norma in questione, infatti, specifica dettagliatamente le caratteristiche dell’intervento, qualificabile nei termini sopra indicati, anche con riferimento –al punto e.5)– alla “installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”. Appare evidente pertanto che i manufatti, oggetto del provvedimento impugnato, fossero qualificabili come nuove costruzioni, indipendentemente dalle caratteristiche di amovibilità e di visibilità degli stessi, in quanto comunque destinati ad uso stabile, connesso all’attività commerciale svolta sull’area.
Detti manufatti erano quindi soggetti –a norma dell’art. 10, comma 1, lettera a), del medesimo d.P.R. n. 380/2001– a permesso di costruire e, in assenza di tale titolo abilitativo, alla sanzione demolitoria, di cui al successivo art. 31, anche indipendentemente dal carattere vincolato, o meno, della porzione di territorio interessata. L’accertamento dell’abuso edilizio, la qualificazione dello stesso e l’applicazione delle misure conseguenti costituivano, pertanto, atti per i quali nessuna discrezionalità era riconosciuta all’Amministrazione, tenuta a reprimere l’abuso stesso nei modi previsti dalla legge. Non può non trovare applicazione, in tale contesto, l’art. 21-octies della legge n. 241/1990, in base al quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora l’amministrazione non dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Deve ritenersi pacifico, in primo luogo, che la collocazione dei manufatti di cui trattasi debba definirsi “nuova costruzione”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
La norma in questione, infatti, specifica dettagliatamente le caratteristiche dell’intervento, qualificabile nei termini sopra indicati, anche con riferimento –al punto e.5)– alla “installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”. Appare evidente pertanto che i manufatti, oggetto del provvedimento impugnato, fossero qualificabili come nuove costruzioni, indipendentemente dalle caratteristiche di amovibilità e di visibilità degli stessi, in quanto comunque destinati ad uso stabile, connesso all’attività commerciale svolta sull’area.
Detti manufatti erano quindi soggetti –a norma dell’art. 10, comma 1, lettera a), del medesimo d.P.R. n. 380/2001– a permesso di costruire e, in assenza di tale titolo abilitativo, alla sanzione demolitoria, di cui al successivo art. 31, anche indipendentemente dal carattere vincolato, o meno, della porzione di territorio interessata. L’accertamento dell’abuso edilizio, la qualificazione dello stesso e l’applicazione delle misure conseguenti costituivano, pertanto, atti per i quali nessuna discrezionalità era riconosciuta all’Amministrazione, tenuta a reprimere l’abuso stesso nei modi previsti dalla legge. Non può non trovare applicazione, in tale contesto, l’art. 21-octies della legge n. 241/1990, in base al quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora l’amministrazione non dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tra i vizi procedurali e formali di cui sopra sono da annoverare –per giurisprudenza ormai pacifica– l’eventuale violazione delle disposizioni, prescrittive di forme di partecipazione al procedimento, ovvero mere carenze motivazionali che, anche ove dichiarate, non risulterebbero satisfattive dell’interesse dedotto in giudizio, in quanto non idonee ad incidere sul contenuto del provvedimento, ove quest’ultimo risulti non modificabile (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.03.2013 n. 1569 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' abusiva la costruzione di una serie di edicole funerarie, cappelle gentilizie e tumuli non contemplata dalla concessione comunale alla società ..., soggetto promotore ex art. 37-bis l. n. 109 del 1994, per la “progettazione della costruzione, ampliamento e gestione del cimitero”.
Invero, le opere edilizie realizzate dalla ricorrente esorbitano dai contenuti della convenzione stipulata con il Comune e non hanno i caratteri delle opere pubbliche comunali, e, pertanto, non possono dalla prima essere realizzate al di fuori di un ordinario procedimento edilizio e in assenza del prescritto titolo abilitativo.
E, difatti, solo le opere oggetto della concessione sono destinate al soddisfacimento dei bisogni di tutta la collettività, indistintamente considerata, e risultano perciò connotate non soltanto da un rilievo di ordine generale, proprio di ogni opera cimiteriale, ma da una oggettiva natura di opera pubblica.
Cappelle, edicole e tumuli, invece, come già scritto autonomamente realizzabili dagli assegnatari dei suoli, eventualmente riuniti in confraternite, risultano privi di siffatta connotazione in quanto primariamente destinati al soddisfacimento di specifici, ‘individuati’ interessi singolari (quelli degli assegnatari cui la loro realizzazione era affidata), pur avendo, in una prospettiva complessiva e finale, un apprezzabile rilievo sociale: non si tratta, dunque, di opere ‘stricto sensu’ pubbliche, come tali esonerate dalla necessità di uno specifico titolo edilizio in applicazione dell’art. 7, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001 (a norma del quale <<Non si applicano le disposizioni del presente titolo per: […] c) opere pubbliche dei comuni deliberate dal consiglio comunale, ovvero dalla giunta comunale, assistite dalla validazione del progetto, ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554>>).

Nel ricorso si espone che:
- con determinazione dirigenziale n. 12 del 05.09.2003 il Comune di Taranto affidava in concessione alla società Bozzetto Fondazioni s.r.l., soggetto promotore ex art. 37-bis l. n. 109 del 1994, la “progettazione della costruzione, ampliamento e gestione del cimitero di Talsano”;
- in data 26.01.2004 Società e Comune stipulavano la relativa convenzione;
- alla Bozzetto Fondazioni subentrava poi nel rapporto concessorio, ai sensi dell’art. 37-quinques l. n. 109 citata, la società di progetto Erregiesse s.r.l.;
- con deliberazione n. 61 del 21.04.2004 il Consiglio Comunale adottava la necessaria variante al p.r.g. (ai fini della destinazione urbanistica ‘cimiteriale’ dell’area interessata dall’ampliamento, nella disponibilità del soggetto promotore);
- con delibera di Giunta n. 542 del 25.08.2004 veniva approvato il progetto definitivo dell’intervento;
- con deliberazione n. 37 del 16.02.2005 il Consiglio Comunale approvava la citata variante di piano;
- con d.d. n. 53 del 15.03.2005, all’esito del procedimento di validazione ex art. 47 d.p.r. n. 554 del 1999, veniva approvato il progetto esecutivo;
- con atto rep. n. 46249 del 10.10.2007 la Erregiesse cedeva l’area interessata dal progetto al Comune di Taranto, che per l’effetto riconosceva alla prima il diritto di gestire il complesso cimiteriale durante il periodo della concessione;
- in data 19.02.2010 le parti stipulavano un “Atto aggiuntivo al contratto avente n. 7941 del 26.01.2004. Revisione della concessione”;
-
in data 20.10.2011 il RUP, a seguito di apposito sopralluogo, redigeva la nota protocollo n. 1145, nella quale si dava atto della realizzazione, da parte di Erregiesse, di una serie di edicole funerarie, cappelle gentilizie e tumuli privi di titolo edilizio: di tali opere abusive, infine, si ordinava la demolizione con alcune ordinanze dirigenziali, la cui n. 5 del 31.01.2012, relativa alle edicole, veniva impugnata con il ricorso in esame.
...
Tanto premesso in fatto, deve rilevarsi che il ricorso è infondato e va, quindi, respinto: in particolare, come subito si esporrà, il Collegio ritiene che le opere edilizie realizzate dalla ricorrente esorbitassero dai contenuti della convenzione stipulata con il Comune di Taranto e non avessero i caratteri delle opere pubbliche comunali, e, pertanto, non potessero dalla prima essere realizzate al di fuori di un ordinario procedimento edilizio e in assenza del prescritto titolo abilitativo.
Correttamente, dunque, l’Amministrazione ne riteneva l’abusività e ne ordinava la demolizione.
Esaminando, appunto, i contenuti della richiamata Convenzione, può osservarsi come la stessa prevedesse da un lato la diretta realizzazione da parte della concessionaria di una serie di opere cimiteriali (loculi, cellette per ossari, campi di inumazione, aree servizi e uffici, parcheggio, ecc.), e, dall’altro, la “cessione in concessione ai soggetti privati di una parte del suolo per la realizzazione di cappelle private, cappelle per confraternite e per la realizzazione di edicole” (pag. 6).
Rispetto a tali porzioni di suolo, dunque, la ricorrente doveva soltanto provvedere alla necessaria “infrastrutturazione” (v. art. 6 della Convenzione), ottenendo poi un corrispettivo dalla loro “concessione” ai privati (pagg. 6/7).
L’accordo fra Amministrazione e Concessionaria, dunque, non contemplava in alcun modo la diretta realizzazione da parte di quest’ultima delle edicole private, delle cappelle e dei tumuli, ma, soltanto, la predisposizione dei suoli a siffatte opere destinati.
Il ‘concetto’ veniva quindi ribadito all’art. 6-bis dell’atto aggiuntivo (oltre che alla sua pag. 4), denominato “Oggetto Convenzione”, nel quale, in linea con le disposizione della originaria Convenzione, si prevedeva per Erregiesse la costruzione di 2208 loculi, di 192 loculi a fronte lungo, di 2400 cellette ossario (oltre che di uffici, servizi cimiteriali, box per fiorai e un parcheggio), e, soltanto, l’infrastrutturazione delle aree destinate alle 22 cappelle per confraternite, alle 370 cappelle famigliari, alle 112 edicole private e ai 264 tumuli privati.
Coerentemente, d’altronde, il medesimo atto aggiuntivo ricollegava i ricavi in questa parte spettanti alla Erregiesse alla “concessione dei suoli” per l’edificazione di edicole funerarie, tumuli e cappelle e non alla vendita di tali manufatti (v. pag. 5).
Del medesimo tenore, ancora, risultavano gli atti con i quali il Comune provvedeva a fissare, revisionandoli, i contenuti della concessione, nei quali, sul punto, esclusivamente si faceva riferimento alla infrastrutturazione delle “aree per la costruzione di n. 22 Cappelle Confraternite, n. 100 Cappelle private e n. 80 Edicole private”, invece disponendo la diretta costruzione da parte del Promotore dei ‘Colombari’ contenenti i loculi e le cellette, dei campi di inumazione, di un edificio per il culto e di un edificio da destinare ai servizi cimiteriali (v. delibere di Giunta Comunale n. 292 dell’08.07.2005 e n. 73 dell’11.06.2009).
E’ dunque da questi atti, amministrativi e convenzionali, che potevano e dovevano ricavarsi i contenuti dell’intervento in progetto e, per quello che qui più interessa, distinguerne le parti direttamente riferibili all’immediata iniziativa della ricorrente, in quanto oggetto della concessione, da quelle invece rimesse alla futura ed eventuale volontà dei privati assegnatari dei suoli (ove realizzare, autonomamente, cappelle, edicole e tumuli): distinzione, questa, non soltanto rilevante quanto alla valutazione della condotta di Erregiesse sul piano contrattuale, ma, anche, ai nostri fini, incidendo la stessa sulla natura delle opere in parola.
In questa prospettiva, difatti, solo le opere oggetto della concessione erano destinate al soddisfacimento dei bisogni di tutta la collettività, indistintamente considerata, e risultavano perciò connotate non soltanto da un rilievo di ordine generale, proprio di ogni opera cimiteriale, ma da una oggettiva natura di opera pubblica (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 10.06.2009, n. 534): non a caso, d’altronde, la Convenzione e l’Atto aggiuntivo ne affidavano la realizzazione in via diretta e immediata al soggetto promotore.
Cappelle, edicole e tumuli, invece, come già scritto autonomamente realizzabili dagli assegnatari dei suoli, eventualmente riuniti in confraternite, risultavano privi di siffatta connotazione in quanto primariamente destinati al soddisfacimento di specifici, ‘individuati’ interessi singolari (quelli degli assegnatari cui la loro realizzazione era affidata), pur avendo, in una prospettiva complessiva e finale, un apprezzabile rilievo sociale: non si trattava, dunque, di opere ‘stricto sensu’ pubbliche, come tali esonerate dalla necessità di uno specifico titolo edilizio in applicazione dell’art. 7, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001 (a norma del quale <<Non si applicano le disposizioni del presente titolo per: […] c) opere pubbliche dei comuni deliberate dal consiglio comunale, ovvero dalla giunta comunale, assistite dalla validazione del progetto, ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554>>).
Legittima, per conseguenza, la valutazione della loro abusività effettuata dal Comune (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 13.03.2013 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti demolitori di abusi edilizi costituiscono atti doverosi e vincolati nel contenuto, la cui adozione non richiede di essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Ai rilievi fin qui articolati, infine, debbono soltanto aggiungersi alcune considerazioni finali, e in particolare:
- i provvedimenti demolitori di abusi edilizi costituiscono atti doverosi e vincolati nel contenuto, la cui adozione non richiede di essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento (fra le ultime, Tar Campania Napoli, VII, 11.01.2013, n. 255).
- non si ravvisa nel procedimento alcun deficit istruttorio, avendo l’Amministrazione svolto articolate verifiche, delle quali si dava formalmente atto, insieme ai relativi esiti, nell’ordinanza impugnata, nella nota prot. n. 1145 del 20.10.2011 e nella nota prot. n. 1096 del 06.10.2011 (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 13.03.2013 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad. es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali) non rappresentano vincoli espropriativi.
In questa prospettiva, le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, verde pubblico attrezzato, parco giochi, e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo -con le connesse garanzie costituzionali (indennizzo o durata predefinita)- e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato) quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del bene.
Le suesposte osservazioni si conformano, come già accennato, ad un consolidato orientamento della giurisprudenza sulla natura giuridica e la portata dei vincoli conformativi e di quelli ad effetto espropriativo, la quale -al riguardo- afferma che:
   a) per vincolo preordinato all'esproprio può intendersi solamente quello che sia immediatamente e direttamente finalizzato all'espropriazione del bene;
   b) vincoli preordinati all'esproprio sono solamente quelli che discendono dalle specifiche prescrizioni (cfr. art. 2 della L. n. 1187 del 1968) riguardanti singoli immobili interessati alla realizzazione di opere pubbliche previste nel piano o da particolari disposizioni di legge (ovvero precisate in appositi provvedimenti amministrativi) da effettuare nell'interesse della collettività, che, nell'ambito della programmazione e pianificazione urbanistica, intervengono in un momento logicamente successivo a quello della zonizzazione del territorio, perché corrispondente ad ulteriori vicende collegate all'emersione di nuovi e specifici interessi pubblici, variamente accertati con appositi provvedimenti amministrativi;
   c) -ciò che qui maggiormente interessa per l'attinenza con la questione dedotta in giudizio dalla società cooperativa ricorrente- la mera zonizzazione pur comportando l'imposizione di prescrizioni relative alla tipologia ed alla volumetria dei singoli edifici, non implica il sorgere di alcun vincolo preordinato all'espropriazione;
   d) se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è doverosa non solo per i vincoli preordinati all'ablazione del suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente espropriativi" (secondo la definizione di cui all'art. 39, comma 1, del D.P.R. 08.06.2001, n. 327), è anche vero che non possono essere annoverati in quest'ultima categoria di vincoli quelli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato;
   e) come è noto, la sussistenza di vincoli preordinati all'espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici, dopo i fondamentali interventi della Corte Costituzionale, che riconobbe l'illegittimità della disciplina dell'indeterminatezza temporale dei vincoli preordinati all'espropriazione contenuta nella legge urbanistica e la modifica normativa di cui alla L. 19.11.1968, n. 1187, con la previsione di una durata quinquennale del periodo di vigenza di tali previsioni, è valutata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in senso strettamente contenutistico.
Si afferma infatti, con principio non contestato, che costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
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In definitiva, la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a parchi pubblici, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale non soggette ai limiti temporali richiamati da parte ricorrente, trattandosi di vincoli non ablatori, ma derivanti da destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di economia di mercato.

All’uopo, va rammentato come, secondo la giurisprudenza -costituzionale e di legittimità- intervenuta in materia, i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad. es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali) non rappresentano vincoli espropriativi (cfr. Corte cost. n. 179/1999; Cons. Stato, Sez. IV, n. 4340 del 2002 e n. 3524 del 2005; da ultimo: TAR Lazio, Roma, Sez. II, 27.01.2012, n. 929; TAR Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., 12.01.2009, n. 35).
In questa prospettiva, le destinazioni a parco urbano, a verde urbano, a verde pubblico, verde pubblico attrezzato, parco giochi, e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo -con le connesse garanzie costituzionali (indennizzo o durata predefinita)- e costituiscono espressione di potestà conformativa (avente validità a tempo indeterminato) quando lo strumento urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del bene (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2718 del 2005, n. 5490 del 2004, nonché Cons. giust. Reg. Sic. n. 1113 del 2008 e n. 1017 del 2007).
Le suesposte osservazioni si conformano, come già accennato, ad un consolidato orientamento della giurisprudenza sulla natura giuridica e la portata dei vincoli conformativi e di quelli ad effetto espropriativo, la quale -al riguardo- afferma che:
   a) per vincolo preordinato all'esproprio può intendersi solamente quello che sia immediatamente e direttamente finalizzato all'espropriazione del bene (cfr. Cass., Sez. I, 21.03.2000 n. 3307);
   b) vincoli preordinati all'esproprio sono solamente quelli che discendono dalle specifiche prescrizioni (cfr. art. 2 della L. n. 1187 del 1968) riguardanti singoli immobili interessati alla realizzazione di opere pubbliche previste nel piano o da particolari disposizioni di legge (ovvero precisate in appositi provvedimenti amministrativi) da effettuare nell'interesse della collettività, che, nell'ambito della programmazione e pianificazione urbanistica, intervengono in un momento logicamente successivo a quello della zonizzazione del territorio, perché corrispondente ad ulteriori vicende collegate all'emersione di nuovi e specifici interessi pubblici, variamente accertati con appositi provvedimenti amministrativi (cfr. Cass., Sez. I, 26.02.2004 n. 3838);
   c) -ciò che qui maggiormente interessa per l'attinenza con la questione dedotta in giudizio dalla società cooperativa ricorrente- la mera zonizzazione pur comportando l'imposizione di prescrizioni relative alla tipologia ed alla volumetria dei singoli edifici, non implica il sorgere di alcun vincolo preordinato all'espropriazione (Cass., Sez. I, 21.03.2000 n. 3307, 28.11.1996 n. 10575 e 27.06.1997 n. 5758);
   d) se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è doverosa non solo per i vincoli preordinati all'ablazione del suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente espropriativi" (secondo la definizione di cui all'art. 39, comma 1, del D.P.R. 08.06.2001, n. 327), è anche vero che non possono essere annoverati in quest'ultima categoria di vincoli quelli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato (come espressamente e puntualmente sancito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 12.05.1999 n. 179, per come ribadito dalla giurisprudenza, cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 14.05.2000 n. 2934);
   e) come è noto, la sussistenza di vincoli preordinati all'espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici, dopo i fondamentali interventi della Corte Costituzionale, che riconobbe l'illegittimità della disciplina dell'indeterminatezza temporale dei vincoli preordinati all'espropriazione contenuta nella legge urbanistica (cfr. Corte Cost., 29.05.1968 n. 55) e la modifica normativa di cui alla L. 19.11.1968, n. 1187, con la previsione di una durata quinquennale del periodo di vigenza di tali previsioni, è valutata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in senso strettamente contenutistico.
Si afferma infatti, con principio non contestato, che costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.01.2001 n. 3, Sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e 22.06.2004 n. 4426).
Nel caso di specie, i contenuti del PRG del Comune di Carbonate, per come sono stati sopra indicati con riferimento all'area di proprietà del ricorrente (e, in particolare, laddove è espressamente previsto che la realizzazione da parte del privato delle attrezzature private di uso pubblico impedisce l’ablazione del diritto di proprietà da parte del Comune) escludono l'esistenza delle condizioni normative necessarie per ritenere esistente sull'area stessa un vincolo di carattere espropriativo.
In altri termini e conclusivamente, la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a parchi pubblici, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale non soggette ai limiti temporali richiamati da parte ricorrente, trattandosi di vincoli non ablatori, ma derivanti da destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di economia di mercato (cfr., ancora, Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2007 n. 870; TAR Lazio Roma Sez. II, Sent., 27.01.2012, n. 929) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.03.2013 n. 632 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una canna fumaria (nella fattispecie, in lamiera d’acciaio inox del diametro di circa 30 cm. e di altezza di circa 10 ml. fuoriuscente sulla parete esterna che si affaccia sul cortile) deve ritenersi riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, e, dunque, soggetta al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce.
Peraltro, il preventivo rilascio del permesso di costruire può configurarsi anche in presenza di opere alle quali consegua una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.
Poi, nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 146 dell’11.09.2012, con la quale sono state ingiunte la sospensione lavori e la rimessione in pristino dell'originale stato dei luoghi.
...
- che con ordinanza del 22.11.2012, n. 9704/2012 sono stati disposti incombenti istruttori a carico del Comune, eseguiti mediante deposito in atti di apposita relazione da cui emerge l’avvenuto sopralluogo da parte dei tecnici comunali volto a “verificare la consistenza e le caratteristiche di una canna fumaria…. realizzata in lamiera d’acciaio inox di diametro di circa 30 cm. e di altezza di circa 10 ml.; fuoriesce sulla parete esterna che si affaccia sul cortile e dal piano del calpestio dello stesso dopo alcune curve termina sul terrazzo posto al 3° piano….“E’ da considerarsi un intervento di nuova costruzione in quanto totalmente diversa per materiale dimensione e posizionamento da quella rimossa con modifica dell’aspetto esteriore e pertanto necessita di autorizzazione paesaggistica ex d.lvo n. 42/2004”;
- che il ricorso deve ritenersi infondato e, pertanto, va respinto;
- che, al fine del decidere, il Collegio non può che rilevare che l'intervento in esame deve ritenersi riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, e, dunque, soggetto al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui inerisce, peraltro riscontrabile dalle riproduzioni fotografiche in atti;
- che il preventivo rilascio del permesso di costruire può configurarsi anche in presenza di opere alle quali consegua una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore;
- che nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di costruire, qualora esse non presentino piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile;
- che dalle riproduzioni fotografiche depositate in atti, la canna fumaria installata sull'edificio in esame per dimensioni, l'altezza, la relativa conformazione, risulta incidere notevolmente sul prospetto e la sagoma della costruzione su cui è installata, non potendosi, perciò, considerarsi, contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile;
- che, pertanto, per le considerazioni che precedono, il ricorso deve essere respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 25.02.2013 n. 2015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'istituto della conferenza di servizi.
La legge n. 241/1990 prevede, come noto, tre diversi tipi di conferenza di servizi:
a) quella istruttoria (art. 14, commi 1 e 3), nella quale vi è una sola amministrazione competente a decidere in relazione agli interessi pubblici coinvolti in uno solo (comma 1) o in più procedimenti (comma 3), sicché mediante la conferenza viene acquisita la posizione di altri soggetti pubblici portatori di interessi coinvolti dall’esercizio del potere amministrativo, ma la competenza a decidere permane in capo all’amministrazione che indetto la conferenza (c.d. decisione monostrutturata);
b) quella decisoria (art. 14, comma 2), che serve ad assumere decisioni concordate tra più amministrazioni, in sostituzione dei previsti pareri, concerti, intese, nulla osta o atti di assenso comunque denominati (c.d. decisone pluristrutturata);
c) quella che la dottrina definisce predecisoria o preliminare, prevista dall’art. 14-bis al fine specifico di agevolare l’approvazione di progetti di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi.
Con particolare riferimento alla conferenza istruttoria, dall’esame del primo comma dell’art. 14 della legge n. 241/1990 (il quale attualmente dispone che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi”) si desume che l’indizione della conferenza è facoltativa e spetta all’amministrazione cui compete l’adozione del provvedimento finale.
Inoltre, prima delle modifiche apportate alla disposizione in esame dall’art. 49 del decreto legge n. 78 del 31.05.2010 sussistevano dubbi in ordine alla facoltatività o all’obbligatorietà dell’indizione della conferenza istruttoria. Infatti il primo comma dell’art. 14 disponeva che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indìce di regola una conferenza di servizi”, e l’inciso “di regola” induceva a qualificare la conferenza istruttoria come uno strumento ordinario di esercizio della funzione amministrativa, la cui deroga avrebbe richiesto una specifica motivazione.
Il problema risulta oggi superato per effetto del decreto legge n. 78/2010, perché nella relazione relativa al disegno di legge A.S. 2228 si legge che, per effetto delle modifiche apportate al primo comma, è rimessa «alla discrezionalità della pubblica amministrazione la decisione di convocare la conferenza di servizi istruttoria, evitando che la mancata adozione di tale modulo procedurale possa formare oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo»
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 20.02.2013 n. 1899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa in materia edilizia e la normativa in materia di pubbliche affissioni (di cui al decreto legislativo n. 507/1993), giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Infatti la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Pertanto laddove la sistemazione di una insegna o di una tabella pubblicitaria o di ogni altro genere dovesse comportare, per le sue consistenti dimensioni, un rilevante mutamento territoriale, non v’è dubbio che l’interessato dovrebbe munirsi anche del prescritto titolo edilizio.

Ciò posto –fermo restando che appare senz’altro condivisibile la tesi della ricorrente secondo la quale le insegne di cui trattasi non assumono autonomo rilievo anche ai fini urbanistici ed edilizi– occorre tuttavia rammentare che, secondo la giurisprudenza (TAR Calabria Catanzaro, Sez. I, 05.01.2012, n. 2), non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa in materia edilizia e la normativa in materia di pubbliche affissioni (di cui al decreto legislativo n. 507/1993), giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Infatti la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Pertanto laddove la sistemazione di una insegna o di una tabella pubblicitaria o di ogni altro genere dovesse comportare, per le sue consistenti dimensioni, un rilevante mutamento territoriale, non v’è dubbio che l’interessato dovrebbe munirsi anche del prescritto titolo edilizio.
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In particolare, quanto alle insegne luminose, il Collegio osserva che dalla scarna motivazione del provvedimento impugnato si può comunque desumere che l’Amministrazione ha ritenuto applicabile nel caso in esame la disposizione dell’art. 6 della delibera di C.C. n. 260 del 1997, nella parte in cui prevede che “nel caso di installazione di insegne su immobili antichi di rilevanza storico-architettonica” non è consentito l’utilizzo di “materiali plastici”.
Ciò posto risulta evidente che il provvedimento impugnato è palesemente viziato per difetto di motivazione. Infatti –pur volendo ammettere che, come correttamente ricordato dalla difesa di Roma Capitale, la discrezionalità tecnica può essere sindacata in sede giurisdizionale solo per difetto di motivazione o in presenza di profili di incongruità ed illogicità tali da far emergere l’inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta dall’Amministrazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 30.06.2011, n. 3894)– nel caso in esame non può farsi a meno di evidenziare che:
a) l’Amministrazione non ha affatto indicato in motivazione le ragioni per cui l’immobile di cui trattasi rientra tra gli “immobili antichi di rilevanza storico-architettonica” ai quali si riferisce l’art. 6 della delibera di C.C. n. 260 del 1997;
b) tale motivazione si rendeva tanto più necessaria se si considera che il predetto immobile non risulta sottoposto a tutela ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004 (si veda la riguardo il parere favorevole espresso dalla Soprintendenza Statale su richiesta della società ricorrente) e che dall’esame della documentazione fotografica relativa a tale immobile (all. 33 al ricorso) non emergono ictu oculi aspetti di interesse storico-architettonica
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 20.02.2013 n. 1899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’interesse all’accesso ai documenti amministrativi, così come è disegnato dall’art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, anche successivamente alle modifiche intervenute nel 2005 (per effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009 (per effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio.
Con l’introduzione dell’azione a tutela dell’accesso, il legislatore ha, infatti, inteso assicurare all’amministrato la trasparenza della Pubblica amministrazione, indipendentemente dalla lesione, in concreto, di una determinata posizione di diritto o di interesse legittimo; l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l’attività amministrativa, eventualmente in modo lesivo.
Ove poi il diritto di accesso sia strumentale alla tutela della propria situazione giuridica o finalizzato a far valere in sede amministrativa i propri interessi attraverso la partecipazione al procedimento, l’amministrazione cui è richiesto l’accesso documentale non ha alcuna facoltà di scrutinio sulla fondatezza o meno dell’eventuale giudizio già intrapreso o da intraprendersi ad iniziativa della parte richiedente l’accesso.
Come pure è irrilevante che la richiesta sia preordinata all'utilizzazione degli atti in un giudizio nel quale sussistono comunque i poteri istruttori del giudice.
E’ stato infatti da tempo osservato che poiché il diritto di accesso gode di un sistema autonomo di protezione giurisdizionale, rispetto ad esso, la pendenza di un altro giudizio, avente ad oggetto principale la “situazione legittimante”, lungi dall’essere fattore preclusivo, è piuttosto indice sintomatico della correttezza dell’interesse ad agire, dovendo ritenersi conclamata la sussistenza di una posizione qualificata ai fini dell’accesso alla documentazione richiesta.
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Non solo l’attività puramente autoritativa, ma tutta l’attività funzionale alla cura di interessi pubblici è sottoposta all’obbligo di trasparenza e di conoscibilità da parte degli interessati, inclusi gli atti disciplinati dal diritto privato.
Tuttavia, per quanto concerne gli atti provenienti (anche) dai privati, l’accesso in tanto è consentito in quanto si tratti di atti utilizzati ed in qualche modo rilevanti nell’iter del procedimento e non già di atti solo occasionalmente detenuti dall’amministrazione.
Peraltro, nell’ambito degli atti privati utilizzati ai fini dell’attività amministrativa occorre distinguere quelli che sono gli atti di soggetti terzi, da quelli che sono atti propri del soggetto richiedente l’accesso.
Per questi ultimi, Consiglio di Stato ha affermato il principio secondo cui il diniego di accesso risulta “inutilmente penalizzante per la parte e contrario ai doveri di collaborazione che comunque devono sussistere fra i diversi soggetti coinvolti nell’esercizio della funzione pubblica. E ciò anche quando la richiesta di accesso (o di copia degli atti), evidentemente ritenuta dalla parte necessaria, risulti dovuta ad eventuale negligenza nella conservazione di copia degli atti presentati”.
Il Consiglio ha soggiunto che, in tale evenienza, l’amministrazione può comunque richiedere al privato i costi sostenuti per l’attività ostensiva, la quale -pur non essendo stata la parte pienamente diligente- risulta comunque necessaria per la cura degli interessi di quest’ultima.

Nel merito, giova ricordare che l’interesse all’accesso ai documenti amministrativi, così come è disegnato dall’art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, anche successivamente alle modifiche intervenute nel 2005 (per effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009 (per effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio (Cons. Stato, Sez. VI, 27.10.2006 n. 6440).
Con l’introduzione dell’azione a tutela dell’accesso, il legislatore ha, infatti, inteso assicurare all’amministrato la trasparenza della Pubblica amministrazione, indipendentemente dalla lesione, in concreto, di una determinata posizione di diritto o di interesse legittimo; l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l’attività amministrativa, eventualmente in modo lesivo.
Ove poi il diritto di accesso sia strumentale alla tutela della propria situazione giuridica o finalizzato a far valere in sede amministrativa i propri interessi attraverso la partecipazione al procedimento (cfr., al riguardo, Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2009 n. 3147), l’amministrazione cui è richiesto l’accesso documentale non ha alcuna facoltà di scrutinio sulla fondatezza o meno dell’eventuale giudizio già intrapreso o da intraprendersi ad iniziativa della parte richiedente l’accesso (cfr. TAR Lazio, Sez. III-quater, 12.08.2009 n. 8176).
Come pure è irrilevante che la richiesta sia preordinata all'utilizzazione degli atti in un giudizio nel quale sussistono comunque i poteri istruttori del giudice (Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5752).
E’ stato infatti da tempo osservato che poiché il diritto di accesso gode di un sistema autonomo di protezione giurisdizionale, rispetto ad esso, la pendenza di un altro giudizio, avente ad oggetto principale la “situazione legittimante”, lungi dall’essere fattore preclusivo, è piuttosto indice sintomatico della correttezza dell’interesse ad agire (Cass., SS.UU., 28.05.1998, n. 5292), dovendo ritenersi conclamata la sussistenza di una posizione qualificata ai fini dell’accesso alla documentazione richiesta.
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Come noto, non solo l’attività puramente autoritativa, ma tutta l’attività funzionale alla cura di interessi pubblici è sottoposta all’obbligo di trasparenza e di conoscibilità da parte degli interessati, inclusi gli atti disciplinati dal diritto privato (Cons. St., A.P., 22.04.1999, n. 4).
Tuttavia, per quanto concerne gli atti provenienti (anche) dai privati, l’accesso in tanto è consentito in quanto si tratti di atti utilizzati ed in qualche modo rilevanti nell’iter del procedimento e non già di atti solo occasionalmente detenuti dall’amministrazione (Cons. St, sez. V, 11.03.2002, n. 1443, nonché sez. VI, sentenza n. 191 del 22.01.2001).
Peraltro, nell’ambito degli atti privati utilizzati ai fini dell’attività amministrativa occorre distinguere quelli che sono gli atti di soggetti terzi, da quelli che sono atti propri del soggetto richiedente l’accesso.
Per questi ultimi, dopo un iniziale orientamento propenso a negare l’accesso (cfr. la sentenza n. 1443/2002, cit.), il Consiglio di Stato ha affermato il diverso principio secondo cui il diniego di accesso risulta “inutilmente penalizzante per la parte e contrario ai doveri di collaborazione che comunque devono sussistere fra i diversi soggetti coinvolti nell’esercizio della funzione pubblica. E ciò anche quando la richiesta di accesso (o di copia degli atti), evidentemente ritenuta dalla parte necessaria, risulti dovuta ad eventuale negligenza nella conservazione di copia degli atti presentati”.
Il Consiglio ha soggiunto che, in tale evenienza, l’amministrazione può comunque richiedere al privato i costi sostenuti per l’attività ostensiva, la quale -pur non essendo stata la parte pienamente diligente- risulta comunque necessaria per la cura degli interessi di quest’ultima (Cons. St., sez. IV, sentenza 07.02.2011, n. 810)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 20.02.2013 n. 1896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace.
Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico.

L’articolo 3, comma 87, della legge 24.12.2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), ha aggiunto, all’articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, il comma 5-ter, in forza del quale “Le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le amministrazioni pubbliche rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali”.
L’articolo 1, comma 4, del decreto legge n. 216 del 09.12.2011, convertito dalla legge 24.02.2012, n. 14, dispone che “L’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, relative alle amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni, approvate successivamente al 30.09.2003, è prorogata fino al 31.12.2012, compresa la Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
Da ultimo, l’art. 1, comma 388, della l. 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), ha ulteriormente prorogato, sino al 30.06.2013, il termine stabilito nel 2011.
Pertanto, non sussistono dubbi in merito alla perdurante vigenza delle graduatorie sulle quali si fondano le pretese di parte ricorrente.
Al riguardo si osserva che risulta destituito di fondamento quanto eccepito nelle difese della resistente, circa l’esclusione di Roma Capitale dal novero delle amministrazioni soggette a limitazione delle assunzioni.
Infatti, nella delibera n. 194 del 01.06.2011 (recante l’approvazione del nuovo sistema di classificazione della dirigenza e l’approvazione del piano assunzionale 2011–2013), si dà espressamente atto che anche l’amministrazione capitolina è obbligata ad adottare misure di contenimento della spesa di personale ed è assoggettata alle limitazioni per le assunzioni di personale a tempo indeterminato previste, in particolare, dall’art. 76, comma 7, d.l. n. 112/2008, conv., con modificazioni, in l. 133/2008, sostituito dall’art. 14 d.l. 31.05.2010, n. 78 e da ultimo modificato dall’art. 1, comma 118, l. 13.12.2010, n. 220.
Relativamente alle disposizioni introdotte con la legge finanziaria per il 2008, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza 28.07.2011, n. 14, ha posto in rilievo che siffatto intervento normativo «abbandona la struttura formale della disciplina di mera proroga, a carattere contingente, e si caratterizza per alcuni elementi di novità: - è definitivamente confermato che la vigenza delle graduatorie, ora determinata in tre anni, decorrenti dalla pubblicazione, è un istituto ordinario (“a regime”) delle procedure di reclutamento del personale pubblico, disciplinato da una fonte di rango legislativo e non più dal solo regolamento generale dei concorsi (d.P.R. n. 487/1994); - l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto generale dello “scorrimento” è riferito, indistintamente, a tutte le amministrazioni, senza limitazioni di carattere soggettivo od oggettivo. Fermi restando questi importanti profili innovativi, tuttavia, la disciplina, per la sua ratio e per la sua formulazione letterale, va estesa anche alle procedure concorsuali svolte in epoca precedente alla sua entrata in vigore» (punto 16 della motivazione).
Il Consiglio di Stato, ha quindi analiticamente affrontato i rapporti tra la scelta di indire un nuovo concorso e quella di attingere ad una graduatoria ancora efficace, evidenziando quanto segue: «a) Va superata la tesi tradizionale, secondo cui la determinazione di indizione di un nuovo concorso non richiede alcuna motivazione. A maggiore ragione, è da respingersi la tesi “estrema”, secondo cui si tratterebbe di una decisione insindacabile dal giudice amministrativo.
b) Simmetricamente, però, non è condivisibile l’idea opposta, in forza della quale, la disciplina in materia di scorrimento assegnerebbe agli idonei un diritto soggettivo pieno all’assunzione, mediante lo scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in organico. Infatti, in tali circostanze l’amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla loro copertura, ma deve comunque assumere una decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
c) Ferma restando, quindi, la discrezionalità in ordine alla decisione sul “se” della copertura del posto vacante, l’amministrazione, una volta stabilito di procedere alla provvista del posto, deve sempre motivare in ordine alle modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci al momento dell’indizione del nuovo concorso.
d) Nel motivare l’opzione preferita, l’amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la circostanza che l’ordinamento attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso
» (punto 31 della motivazione).
Ne consegue che «sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace. Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico» (punto 50 della motivazione).
Peraltro, nei successivi passaggi della motivazione, è stato posto in rilievo che «la riconosciuta prevalenza delle procedure di scorrimento non è comunque assoluta e incondizionata. Sono tuttora individuabili casi in cui la determinazione di procedere al reclutamento del personale, mediante nuove procedure concorsuali, anziché attraverso lo scorrimento delle preesistenti graduatorie, risulta pienamente giustificabile, con il conseguente ridimensionamento dell’obbligo di motivazione. In tale contesto si situano, in primo luogo, le ipotesi in cui speciali disposizioni legislative impongano una precisa cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari meccanismi di progressioni nelle carriere, tipiche di determinati settori del personale pubblico. In tali eventualità emerge il dovere primario dell’amministrazione di bandire una nuova procedura selettiva, in assenza di particolari ragioni di opportunità per l’assunzione degli idonei collocati nelle preesistenti graduatorie» (punto 51 della motivazione).
In aggiunta a tali casi vengono poi segnalate alcune ipotesi di fatto, in cui si manifesta l’opportunità, se non la necessità, di procedere all’indizione di un nuovo concorso, pur in presenza di graduatorie ancora efficaci, con la conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione.
In particolare, secondo la Plenaria, «può assumere rilievo l’esigenza preminente di determinare, attraverso le nuove procedure concorsuali, la stabilizzazione del personale precario, in attuazione delle apposite regole speciali in materia. Tale finalità, tuttavia, non esime l’amministrazione dall’obbligo di valutare, comparativamente, in ogni caso, anche le posizioni giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati nella graduatoria come idonei. La normativa speciale in materia, infatti, non risulta formulata in modo da imporre la indiscriminata prevalenza delle procedure di stabilizzazione, ma lascia all’amministrazione un rilevante potere di valutazione discrezionale in ordine ai contrapposti interessi coinvolti» (punto 53 della motivazione).
Inoltre «può acquistare rilievo l’intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e ai requisiti di partecipazione» (punto 54 della motivazione).
Infine «deve attribuirsi risalto determinante anche all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla preesistente graduatoria» (punto 55 della motivazione) (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 20.02.2013 n. 1889 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Nella giunta comunale deve essere garantita la presenza di entrambi i generi.
Il Tar Sardegna ha annullato il provvedimento di nomina della Giunta comunale, che esclude completamente dal suo seno la rappresentanza femminile.

La giurisprudenza amministrativa, confortata anche dalla conforme interpretazione del principio fornita dalla Corte Costituzionale, ha in più occasioni riconosciuto all'art. 51 Cost. (che sancisce "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini".) valore di norma cogente e immediatamente vincolante, come tale idonea a conformare ed indirizzare lo svolgimento della discrezionalità amministrativa, ponendosi rispetto ad essa quale parametro di legittimità sostanziale (ex multis Corte Cost. n. 4/2010; Tar Campania-Napoli, sez. I, n. 12668 del 2010 e nn. 1427 e 1985 del 2011).
Il principio in questione è stato inteso in primo luogo come immediato svolgimento del principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 Cost., non solo nella sua accezione negativa (come divieto di azioni discriminatorie fondate sul sesso), ma anche positiva, impegnando le Istituzioni alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la piena partecipazione di uomini e donne alla vita sociale, istituzionale e politica del Paese.
Ma la pregnanza del principio nel tessuto ordinamentale, come in parte già rilevato più sopra, si svolge anche su un ulteriore piano dei valori costituzionali, giungendosi ad una più consapevole individuazione della sua valenza trasversale nella misura in cui lo si ricollega, in chiave strumentale, al principio di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa: la rappresentanza di entrambi i generi nella compagine degli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, "garantisce l'acquisizione al modus operandi dell'ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere" (Tar del Lazio sent. n 6673/2011).
Il principio costituzionale così inteso, quindi, illumina ulteriori disposizione poste dal legislatore ordinario a tutela della effettiva realizzazione della parità tra uomini e donne: il codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 11.04.2006, n. 198), all'art. 1, comma 4, precisa che "l'obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività", mentre l'art. 6 TUEL (d.lgs. 267/2000) al comma 3 prevede "Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10.04.1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da esso dipendenti".
Inteso nei termini sopra specificati il principio di parità si pone come vincolo per l'azione dei pubblici poteri nello svolgimento della discrezionalità loro consegnata dall'ordinamento e come direttiva in ordine al risultato da perseguire (promozione delle pari opportunità tra i generi, in funzione della parità sostanziale e del buon andamento dell'azione amministrativa), con possibilità per gli attori istituzionali di individuare le modalità per la realizzazione più appropriata dei principi in questione, purché nel rispetto delle basilari esigenze di ragionevolezza, coerenza e adeguatezza motivazionale.
Nell'ottica del pieno perseguimento dell'obiettivo della pari opportunità tra uomini e donne lo Statuto comunale di Castiadas, all'art. 2, lettera p), impegna l'azione degli organi comunali ad adottare misure concrete, funzionali alla prospettiva di valorizzazione della parità di genere.
In tali termini la stessa disposizione statutaria si pone come norma cogente che rinvia inevitabilmente a coerenti successive determinazioni amministrative, di applicazione e di dettaglio, ponendosi come vincolo conformativo all'azione amministrativa in generale, compresa la determinazione sindacale di scelta della compagine assessorile.
Occorre dunque verificare se, nel caso di specie, il potere sindacale di nomina della Giunta comunale di cui all'atto sindacale impugnato, che esclude completamente dal suo seno la rappresentanza femminile, sia stato esercitato entro le guide della legittimità formale e sostanziale: occorre cioè scrutinare le ragioni e le modalità con cui il potere è stato speso con riferimento al paradigma normativo che impone il rispetto delle pari opportunità tra uomo e donna, prestandosi l'atto oggetto dell'odierna impugnativa al sindacato giurisdizionale di legittimità sotto i profili di razionalità, logicità e ragionevolezza.
Al riguardo le ricorrenti contestano l'adeguatezza e veridicità degli stessi presupposti motivazionali, asserendo che gli stessi sono inidonei a superare i denunciati profili di violazione del principio di pari opportunità, attesa la composizione monogenere della Giunta comunale di Castiadas, in spregio ai sopra precisati principi normativi.
Il Collegio ritiene che non sia possibile affermare, sulla base degli ordinari canoni di logicità e ragionevolezza, che l'azione del Sindaco sia stata improntata alla promozione del principio di pari opportunità, posto, come detto, a più livelli, quale limite conformativo all'esercizio del potere, né che siano state garantite le sottese esigenze valoriali di imparzialità e buon andamento.
Infatti, esigenze di logica e ragionevolezza imponevano, nel caso di specie, che la scelta di non rendere presenti in seno alla Giunta comunale componenti di sesso femminile, pur se, in assoluto non illegittima, fosse motivata in maniera puntuale, illustrando i confini dell'apprezzamento operato e del giudizio conseguente (TAR Sardegna, Sez. II, 02.08.2011, n. 864).
All'uopo non può certo ritenersi esaustiva una motivazione, come quella addotta dalla difesa comunale che, in termini negativi, si è sostanzialmente limitata a dar conto della sussistenza di ragioni politiche e di adeguata professionalità ostative all'equilibrata presenza di entrambi i generi nella Giunta, giacché esso costituisce argomento ulteriormente confermativo di un atteggiamento potenzialmente discriminatorio nei confronti delle appartenenti al genere femminile, quasi come se il requisito in questione fosse prerogativa dei soli appartenenti al genere maschile.
Né, attesa la necessità di dar conto in termini puntuali e positivi dell'attività istruttoria svolta al fine di rimuovere gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione delle pari opportunità, si è rivelata idonea l’istruttoria esperita dal Tribunale, all’esito della quale sono state prodotte lettere di invito inviate solo successivamente alla proposizione del ricorso e risposte negative all’invito anch’esse rese soltanto nei giorni scorsi (dicembre 2012/gennaio 2013).
Ed invero, solamente lo svolgimento di un'attività istruttoria indirizzata in via preventiva all’acquisizione in seno al nominando consesso di specifiche professionalità appartenenti al genere femminile, (anche al di fuori dei componenti del Consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere ai sensi dell'art. 47 TUEL) in grado di conciliare le esigenze di carattere strettamente politico con quelle del necessario rispetto dei vincoli legali e statutari in tema di parità di genere nella rappresentanza democratica, avrebbe potuto giustificare, in caso di comprovato esito fallimentare della stessa attività, ove fosse stata obiettivamente acclarata l’impossibilità di procedere altrimenti, la mancanza della componente femminile in seno alla Giunta.
Di tale attività preventiva e promozionale non vi è traccia nella motivazione dell'atto gravato dalle ricorrenti, non essendo sufficiente addurre, a giustificazione dell'atto di nomina della Giunta priva di rappresentanti del sesso femminile, la necessità di acquisire tra i suoi componenti persone aventi pregressa esperienza politica e/o amministrativa al fine di ottimizzare attività, funzioni e risultati.
Per tutte queste ragioni il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente pronuncia di annullamento di tutti gli atti impugnati (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 04.02.2013 n. 84 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla motivazione che deve assistere l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza ha ripetutamente osservato come, anche in caso di provvedimento positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad esplicitare le ragioni della ritenuta effettiva compatibilità dell’intervento con gli specifici valori paesaggistici dei luoghi, e debba per questo fornire tutti gli elementi utili al riscontro dell’idoneità dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle varie circostanze di fatto rilevanti nel singolo caso e della non manifesta irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione, costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale investita della verifica in sede di controllo.
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio di motivazione dell’atto annullato senza necessità di vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del consolidato principio per cui, quando il provvedimento amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga legittimo.
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Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Va premesso che, quanto alla motivazione che deve assistere l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza ha ripetutamente osservato come, anche in caso di provvedimento positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad esplicitare le ragioni della ritenuta effettiva compatibilità dell’intervento con gli specifici valori paesaggistici dei luoghi, e debba per questo fornire tutti gli elementi utili al riscontro dell’idoneità dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle varie circostanze di fatto rilevanti nel singolo caso e della non manifesta irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione, costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale investita della verifica in sede di controllo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 22.03.2007 n. 1362).
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio di motivazione dell’atto annullato senza necessità di vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del consolidato principio per cui, quando il provvedimento amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga legittimo (v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 29.07.2008 n. 2195).
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Quanto, poi, alla dedotta carenza di comunicazione di avvio del procedimento, non ignora il Collegio l’orientamento giurisprudenziale che, nel regime giuridico anteriore al regolamento approvato con d.m. n. 165 del 19.06.2002, considera necessario l’avviso ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 da parte dell’Autorità statale investita del controllo sull’autorizzazione paesaggistica, avviso ritenuto indispensabile anche quando detta autorizzazione rechi nel dispositivo l’annuncio della sua trasmissione alla locale soprintendenza per il compimento delle relative funzioni (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 20.07.2011 n. 4382); sennonché, a fronte di un vizio –carenza di motivazione in sede di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica– che per le sue caratteristiche si sottrae ad apporti del privato suscettibili di colmare la lacuna, in alcun modo la partecipazione delle ricorrenti avrebbe potuto nella fattispecie dare luogo ad un differente esito dell’attività di riscontro della Soprintendenza per i Beni architettonici e per il Paesaggio di Ravenna, sicché è legittimo invocare il disposto di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (“Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 10.01.2013 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato il terreno.
Occorre invece il permesso di costruire, ai sensi dall’articolo 3, comma 1, lettera e), del DPR. n. 380/2001, quando le opere di pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati determinino una significativa trasformazione dello stato dei luoghi.
In tutta evidenza, la costruzione di una piattaforma in cemento costituisce una trasformazione dello stato dei luoghi e rientra nelle nuove costruzioni, per il quali è previsto il rilascio del permesso di costruire, pacificamente assente nel caso in esame.

Non è contestata in maniera convincente la natura di nuova costruzione, realizzata senza alcun permesso di costruire, di una piattaforma in cemento sporgente al di fuori del piano di campagna per circa 25 cm.
Come ha rilevato la giurisprudenza, non è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato il terreno (TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, 26.08.2009 n. 299).
Occorre invece il permesso di costruire, ai sensi dall’articolo 3, comma 1, lettera e), del DPR. n. 380/2001, quando le opere di pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati determinino una significativa trasformazione dello stato dei luoghi (TAR Campania Napoli 21.04.2009, n. 2084, TAR Piemonte Torino, 02.02.2005 n. 20, TAR Lombardia Milano 20.11.2002 n. 4514, TAR Campania-Napoli 10.12.2009 n. 8606).
In tutta evidenza, la costruzione di una piattaforma in cemento costituisce una trasformazione dello stato dei luoghi e rientra nelle nuove costruzioni, per il quali è previsto il rilascio del permesso di costruire, pacificamente assente nel caso in esame (TAR Marche, sentenza 24.02.2012 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è applicabile alla presentata DIA il preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, ciò sul presupposto che la DIA c.d. “edilizia” non dà inizio ad un procedimento ad istanza di parte in quanto, anche con le innovazioni da ultimo apportate alla citata legge n. 241/1990 (in particolare, art. 19), tale denuncia rimane ancora un atto del privato non soggetto alle regole tipiche del procedimento amministrativo.
Ciò risulta confermato dal fatto che l’esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione è soggetto ad un termine di decadenza fissato dalla legge (nel caso di specie, 30 gg. ex art. 23 del DPR n. 380/2001) tanto che l’applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 alla fattispecie di che trattasi finirebbe per vanificare l’intento di accelerazione e semplificazione delle attività soggette a denuncia di inizio attività.

Il Collegio ritiene di aderire alla giurisprudenza amministrativa che considera non applicabile alla fattispecie in argomento (presentazione della denuncia di inizio attività) il preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, ciò sul presupposto che la DIA c.d. “edilizia” non dà inizio ad un procedimento ad istanza di parte in quanto, anche con le innovazioni da ultimo apportate alla citata legge n. 241/1990 (in particolare, art. 19), tale denuncia rimane ancora un atto del privato non soggetto alle regole tipiche del procedimento amministrativo.
Ciò risulta confermato dal fatto che l’esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione è soggetto ad un termine di decadenza fissato dalla legge (nel caso di specie, 30 gg. ex art. 23 del DPR n. 380/2001) tanto che l’applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 alla fattispecie di che trattasi finirebbe per vanificare l’intento di accelerazione e semplificazione delle attività soggette a denuncia di inizio attività
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2007 n. 1775 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'(illegittimo) artificioso frazionamento di un intervento edilizio in più interventi (susseguentesi nel tempo) per non versare il contributo di costrizione.
Con successiva censura, contenuta nell’unico motivo di cui al ricorso introduttivo e riproposta con i motivi aggiunti depositati il 23.06.2006, la ricorrente, con riferimento alla DIA del 14.12.2005 (P.E. n. 85/05), si duole del fatto che gli interventi siano stati qualificati dal Comune resistente di ristrutturazione edilizia e soggetti, quindi, al pagamento dei relativi contributi determinati in euro 112.076,65.
La doglianza non è fondata.
Al riguardo, è necessario precisare quanto segue:
- il complesso produttivo di che trattasi (ex Fantic Motor) era, a suo tempo, costituito da un’unica unità immobiliare che la ricorrente ha sottoposto, nel tempo, a vari interventi di natura edilizia;
- nel maggio 2004, la società deducente ha chiesto il rilascio del permesso di costruire (P.E. n. 40/2004) –negato dal Comune- per la ristrutturazione e l’ampliamento del complesso industriale di che trattasi con l’intenzione di dividerlo in due unità immobiliare;
- successivamente, nel luglio 2005, la ricorrente ha presentato una nuova denuncia di inizio attività (P.E. n. 46/2005), sempre relativamente all’intero complesso industriale, qualificando le relative opere, in parte, di ristrutturazione e, per il resto, di manutenzione straordinaria e ha, di conseguenza, determinato i relativi contributi da corrispondere al Comune resistente. In ragione di ciò, la deducente ha stipulato, con il Comune interessato ai sensi dell’art. 35 delle NTA, una convenzione con la quale si è obbligata, tra l’altro, a realizzare opere di urbanizzazione primaria (lavori di collegamento dell’intero quartiere produttivo con la strada provinciale Briantea 342 Como–Bergamo) per un importo di euro 45.094,84;
- il Comune resistente, tuttavia, con nota n. 6068 del 22.07.2005, ha sospeso l’esecuzione degli interventi cui alla predetta DIA (P.E. n. 46/2005) sul presupposto che le opere, considerate nel loro insieme, avrebbero dovuto essere qualificate di ristrutturazione edilizia e non di manutenzione straordinaria;
- in ragione di ciò, la ricorrente ha presentato una nuova DIA qualificando le opere in argomento di ristrutturazione edilizia e di ampliamento eliminando, quindi, il riferimento alla “manutenzione straordinaria”;
- le opere di che trattasi non sono state completate dalla ricorrente la quale, nel dicembre 2005, ha depositato due nuove DIA (P.E. n. 84/2005 e n. 85/2005), sostitutive della precedente P.E. n. 46/2005, consistente la prima (n. 84/2005) in opere di ristrutturazione edilizia e di ampliamento del c.d. lotto B e la seconda (n. 85/2005) di manutenzione straordinaria del lotto A;
- le opere relative alla P.E. n. 85/2005, consistenti nella chiusura di un terrapieno e nella demolizione di tavolati per la formazione di un servizio igienico, sono le stesse di cui alla precedente pratica n. 46/2005 (comprendente anche le opere di ristrutturazione ed ampliamento ora confluite nella P.E. n. 84/2005) che, come detto, non è stata portata a compimento dalla ricorrente.
Ciò premesso in fatto, il Collegio è dell’avviso che la qualificazione effettuata dal Comune resistente secondo cui le opere di che trattasi vanno ricomprese nella nozione di “ristrutturazione edilizia” sia corretta in quanto non risulta smentito che la ricorrente, con la presentazione in data 14.12.2005 della DIA in variante, ha inteso “frammentare” i singoli interventi che, con la P.E. n. 46/2005, erano stati previsti e presentati in maniera unitaria.
Ciò che, infatti, non è revocabile in dubbio, nel caso in esame, è che la ricorrente, attraverso una serie di interventi (da considerare nella loro unitarietà visto anche l’effetto che hanno determinato sul complesso industriale di che trattasi), ha suddiviso in due corpi distinti l’unità immobiliare “ex Fantic Motor” portando ad un organismo edilizio diverso da quello originario, anche se destinato alla stessa funzione produttiva.
La ricorrente, se l’analisi delle opere in argomento non viene limitata ai soli interventi di cui alla P.E. n. 85/2005, intende invero realizzare interventi che interessano l’intero immobile attraverso l’abbattimento dei muri perimetrali esterni, di quelli divisori interni, delle porte e delle finestre ivi esistenti che, insieme, alle opere di minore impatto sul complesso immobiliare (quelle cioè di cui alla P.E. n. 85/2005, ovvero chiusura di un terrapieno e demolizione di tavolati per la formazione di un servizio igienico), non possono che rientrare nella nozione di “ristrutturazione edilizia”.
L’eventuale scorporo degli interventi su una parte di immobile da quelli riguardanti altre parti dello stesso complesso produttivo e facenti parte di un progetto unico non può comportare la diversa qualificazione delle opere di che trattasi; tali interventi devono essere, infatti, visti in una prospettiva unitaria in quanto l’artificiosa frammentazione delle opere da realizzare sul complesso di che trattasi comporterebbe l’elusione della normativa che qualifica gli interventi edilizia e giustifica il conseguente assoggettamento a contribuzione in favore del Comune interessato.
Ciò posto, le opere realizzate dalla ricorrente vanno annoverate negli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 27, comma 1, lett. d), della L.R. 12/2005, rivolti cioè a trasformare l’immobile di che trattasi mediante un insieme di opere che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e del quale non rispettano gli elementi tipologici, formali e strutturali come nel caso di opere annoverabili nella nozione della manutenzione straordinaria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2007 n. 1775 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.05.2013

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NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

INCARICHI PROGETTUALI - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito relativo ai requisiti professionali del coordinatore per la progettazione e per l'esecuzione dei lavori - definizione di "attività lavorativa nel settore delle costruzioni" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Commissione per gli Interpelli, interpello 02.05.2013 n. 2/2013).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'incerto futuro delle province (CGIL-FP di Bergamo, nota 02.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, aprile 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "MODIFICHE ALLA L.R. 12/2005 - 'LEGGE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO'" (deliberazione di G.R. 16.04.2013 n. 34 - tratto da www.anci.lombardia.it).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 10.04.2013 n. 84 "Criteri per la comunicazione di informazioni relative al partenariato pubblico-privato ai sensi dell’articolo 44, comma 1-bis del decreto-legge 31.12.2007, n. 248 convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1 della legge 28.02.2008, n. 31" (circolare P.C.M. 27.03.2013).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICILa pratica guida geotecnica sui muri a secco e non solo.
Gran parte del territorio italiano è soggetto ad alto rischio idrogeologico. Salvaguardare i versanti e prevenire il degrado di pendii e terreni terrazzati è un aspetto di fondamentale importanza.
In questo articolo proponiamo ai nostri lettori le “Linee guida per la manutenzione dei terrazzamenti delle Cinque Terre” pubblicate dal Parco Nazionale delle Cinque Terre.
La guida, frutto di un accurato studio geotecnico, rappresenta un utile compendio di definizioni, tipologie di materiali e tecnologie, con particolare riferimento alla costruzione e manutenzione di muri a secco.
Corredati da numerose illustrazioni di realizzazioni pratiche, didascalie e schemi grafici, gli argomenti trattati costituiscono un interessante riferimento in materia di geotecnica, utile a operatori del settore, imprese e progettisti.
Questi alcuni tra gli argomenti trattati:
le sistemazioni artificiali dei pendii
il terrazzamento con muri in pietra a secco
la tecnica costruttiva
le regole costruttive per la realizzazione dei muri a secco
la natura delle pietre
le forme e le cause del degrado
le sollecitazioni sui muri a secco
la ricostruzione dei muri a secco (02.05.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAAmianto nelle abitazioni: dove si nasconde, quali sono i rischi e come eliminarlo. Dal SUVA tour interattivo, opuscolo e video esplicativo.
Anche se bandito da anni, l'amianto continua a rappresentare un pericolo per la salute dei lavoratori.
Infatti, durante lavori di ristrutturazione, manutenzione o risanamento di edifici costruiti prima del 1992 (anno di entrata in vigore della Legge 27.03.1992, n. 257) capita spesso di entrare in contatto con prodotti e materiali realizzati in parte o del tutto con fibre di amianto.
In particolare, la presenza di amianto negli edifici può essere classificata secondo i seguenti criteri: ... (02.05.2013 - link a www.acca.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Ai raggi X gli affidamenti sopra i 40 mila euro
Le amministrazioni devono trasmettere all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici i dati di tutti gli affidamenti di importo superiore a 40.000 euro banditi dopo il 01.01.2013.

È quanto precisa l'organismo di vigilanza presieduto da Sergio Santoro con il comunicato 29.04.2013 pubblicato sul sito dell'Autorità (www.avcp.it).
L'intervento nasce dalla esigenza di fondo di tenere conto sia delle finalità di rilevazione dei dati connesse alle attività sia di vigilanza, sia di quelle di spending review.
La materia oggetto del Comunicato è quella della trasmissione dei dati all'Osservatorio dell'Autorità prevista dall'articolo 7, comma 8, del Codice dei contratti il quale prescrive che le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori sono tenuti a comunicare all'Osservatorio, per contratti di importo superiore a 50.000 euro: entro trenta giorni dalla data dell'aggiudicazione definitiva o di definizione della procedura negoziata, i dati concernenti il contenuto dei bandi, dei verbali di gara, i soggetti invitati, l'importo di aggiudicazione, il nominativo dell'affidatario e del progettista; limitatamente ai settori ordinari, entro sessanta giorni dalla data del loro compimento ed effettuazione, l'inizio, gli stati di avanzamento e l'ultimazione dei lavori, servizi, forniture, l'effettuazione del collaudo, l'importo finale.
La norma precisa anche che il soggetto che ometta, senza giustificato motivo, di fornire i dati richiesti è sottoposto, con provvedimento dell'Autorità, alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma fino a euro 25.822, elevabile fino a euro 51.545 se sono forniti dati non veritieri. Il comunicato precisa che per gli appalti pubblicati a far data dal primo gennaio 2013, la soglia dei 150.000 euro è aggiornata al valore di 40.000 euro.
In particolare per i contratti di lavori, servizi e forniture, di importo superiore a 40.000, le pubbliche amministrazioni, laddove si tratti di appalti nei cosiddetti «settori ordinari» (diversi dai settori dell'acqua, energia e trasporti), dovranno trasmettere all'Autorità i dati relativi all'intero ciclo di vita dell'appalto; per i settori speciali fino all'aggiudicazione compresa, i dati dovranno essere trasmessi secondo le specifiche indicate nel richiamato Comunicato del 04.04.2008 (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

NEWS

TRIBUTIMaggiorazioni Tares, le agevolazioni restano.
Il gettito Tares relativo alla maggiorazione standard, nella misura di 0,30 euro al metro quadrato, spetta allo stato. I comuni, inoltre, non hanno più il potere di aumentarla. Tuttavia le agevolazioni stabilite dalla legge o deliberate dalle amministrazioni locali si applicano anche alla maggiorazione.

Lo ha precisato il ministero dell'economia con la circolare 29.04.2013 n. 1/DF.
L'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013), infatti, ha stabilito che il gettito della maggiorazione standard è riservato allo stato. Questa addizionale alla tassa rifiuti è dovuta in misura pari a 0,30 euro per metro quadrato e non è più consentito ai comuni di aumentarla fino a 0,10 euro, come previsto prima dell'intervento normativo. Secondo il ministero, però, l'articolo 10 dispone la deroga rispetto alla disciplina Tares, contenuta nell'articolo 14 del dl 201/2011, solo per quanto concerne «la destinazione del gettito della maggiorazione allo stato».
Invece, continuano ad applicarsi «alla suddetta maggiorazione le agevolazioni di cui ai commi da 15 a 20 dello stesso art. 14» (per esempio, per mancata raccolta, mancato svolgimento del servizio, rifiuti assimilati). In effetti i comuni hanno il potere di concedere, con regolamento, riduzioni tariffarie per particolari situazioni espressamente individuate dalla legge.
Anche i benefici fiscali concessi dal comune si applicano non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione standard. L'articolo 14 riconosce al comune la facoltà di stabilire riduzioni del tributo dovuto in presenza di determinate situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti. A queste riduzioni viene fissato dalla norma un tetto massimo.
La riduzione della tariffa non può superare il limite del 30%. In particolare, questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero.
Le riduzioni tariffarie, anche per le utenze domestiche, si applicano sia sulla parte fissa che sulla parte variabile della tariffa. Per le utenze non domestiche la natura stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla licenza (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013).

SICUREZZA LAVORO: Il chiarimento della commissione sulla sicurezza. Stress senza delega. La valutazione rischi al datore.
La valutazione dello stress lavoro correlato non è delegabile. Infatti, in quanto parte integrante della valutazione del rischio, è un adempimento che il Tu sicurezza prescrive tra quelli non delegabili da parte del datore di lavoro, il quale ne resta l'unico responsabile anche qualora decida di avvalersi di soggetti in possesso di specifiche competenze in materia.

Lo spiega l'interpello 02.05.2013 n. 5/2013 (prot. n. 7883/2013) con cui la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro risponde alle richieste di chiarimento della Federazione italiana metalmeccanici.
La valutazione dello stress. L'articolo 28, comma 1, del Tu sicurezza (dlgs n. 81/2008) stabilisce che la valutazione dei rischi, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori, compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato.
Il successivo comma 1-bis dello stesso articolo 28, estrapolando il rischio stress lavoro correlato, stabilisce che la sua valutazione deve essere effettuata nel rispetto delle indicazioni della commissione consultiva approvate il 17 novembre 2010. La Federazione dei metalmeccanici ha chiesto se il datore di lavoro può delegare a terzi l'attività della valutazione del rischio stress lavoro-correlato.
I chiarimenti. Il Tu sicurezza, spiega il ministero, contempla il principio di generale delegabilità delle funzioni in materia di sicurezza sul lavoro. L'articolo 16, infatti, stabilisce che la delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni: che risulti da atto scritto recante data certa; che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; che attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; che attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate; che sia accettata dal delegato per iscritto. La delega, dunque, è sempre possibile tranne che nei casi in cui sia «espressamente esclusa».
L'articolo 17 del Tu stabilisce che il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del relativo documento; designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Poiché la valutazione dello stress lavoro-correlato è parte integrante della valutazione del rischio, il ministero spiega che ad essa si applica integralmente la relativa disciplina inclusa l'individuazione tra i compiti non delegabili da parte del datore di lavoro (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013).

SICUREZZA LAVORO: I requisiti dei luoghi di lavoro. Il bagno pubblico esonera dai servizi.
Il vespasiano esonera l'azienda dall'obbligo di dotare il luogo di lavoro dei servizi igienici. Infatti, se i servizi pubblici sono fruibili dai lavoratori liberamente, facilmente e senza aggravio di costi, il luogo di lavoro è conforme alle prescrizioni dettate dal Tu sicurezza (il dlgs n. 81/2008) e, dunque, il datore di lavoro non ha alcun obbligo di adeguamento.

È quanto precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello 02.05.2013 n. 4/2013 (prot. n. 7882/2013) della commissione per gli interpelli in materia di sicurezza.
Luoghi di lavoro. L'allegato IV del Tu elenca i requisiti dei luoghi di lavoro, prescrivendo, tra l'altro, che in essi o nelle loro immediate vicinanze deve essere messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente, tanto per uso potabile quanto per lavarsi (punto 1.13.1.1) e che i lavoratori devono disporre, in prossimità dei loro posti di lavoro, dei locali di riposo, degli spogliatoi e delle docce, di gabinetti e di lavabi con acqua corrente calda, se necessario, e dotati di mezzi detergenti e per asciugarsi (punto 1.13.3.1).
Sui due punti, i consulenti del lavoro hanno chiesto parere al ministero in merito alla corretta interpretazione dell'articolo 63, comma 1, del Tu sicurezza il quale, appunto, prescrive che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV.
I chiarimenti. Il ministero spiega che, nei casi in cui un luogo di lavoro è posto all'interno di un ambiente ben definito e circoscritto, considerato che la norma impone al datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore i servizi igienico-assistenziali nel «luogo di lavoro o nelle sue immediate vicinanze», è da ritenersi che il datore di lavoro assolva al suo obbligo purché questi servizi, anche se non in uso esclusivo, siano fruibili dai lavoratori liberamente, facilmente e senza aggravio di costo per loro e nel rispetto delle norme igieniche (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013).

SICUREZZA LAVOROCantieri mobili, idoneità libera. La richiesta è facoltà del committente.
La formazione specifica e l'idoneità sanitaria non sono requisiti di legge per la verifica dell'idoneità tecnico professionale dei lavoratori autonomi destinati a operare nei cantieri mobili. Ciò non vieta, tuttavia, che possano essere previsti dal committente in aggiunta ai requisiti minimi individuati dalla legge.
Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello 02.05.2013 n. 7/2013 (prot. n. 7885/2013), in risposta al quesito dell'Ance sulle norme dell'allegato XVII del Tu sicurezza approvato dal dlgs n. 81/2008.
Cantieri mobili. La sorveglianza sanitaria e la partecipazione a corsi di formazione, spiega il ministero, sono due vie attraverso cui i lavoratori autonomi possono dimostrare la propria idoneità tecnico professionale. Si tratta di possibilità e la non obbligatorietà è stata chiarita dalle modifiche al Tu introdotte dal dlgs n. 106/2009. In una prima versione del Tu, infatti, pur disciplinate come benefici aggiuntivi a favore dei lavoratori autonomi, sia la formazione che la sorveglianza sanitaria erano richieste all'atto di operare in un cantiere temporaneo o mobile (occorreva esibire i relativi attestati).
Facoltà non obbligo. Successivamente alle modifiche del dlgs n. 106/2009 invece, committenti e imprese affidataria sono tenuti a verificare il possesso da parte del lavoratore autonomo di tutta la documentazione prescritta all'allegato XVII, ma non anche degli attestati inerenti la formazione e l'idoneità sanitaria. In altre parole, precisa il ministero, «risulta legittimo sia l'affidamento di lavori al lavoratore autonomo in possesso di documentazione inerente la formazione e l'idoneità sanitaria sia l'affidamento di lavori al lavoratore autonomo privo dei predetti requisiti».
In ogni caso, conclude il ministero, resta fermo per il committente la facoltà di richiedere al lavoratore autonomo ulteriori requisiti rispetto a quelli minimi individuati dall'allegato XVII e che, dunque, possono anche consistere proprio nel possesso della documentazione (gli attestati) inerente la formazione e l'idoneità sanitaria (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013).

CONDOMINIOIn condominio videosorveglianza «segnalata».
Le riprese video degli spazi comuni raggiungono finalmente certezza normativa all'interno di una grande confusione giurisprudenziale. Con un articolo dedicato, ossia il nuovo articolo 1122 ter del Codice civile il legislatore della riforma ha introdotto, nel sistema della disciplina condominiale, la videosorveglianza.
Per le aree comuni condominiali vi era una lacuna e la giurisprudenza che si è occupata della questione oscillava tra il fatto che occorresse l'unanimità dei consensi oppure una maggioranza qualificata per deliberare l'installazione di questi impianti.
Ora, la legge di riforma del condominio affronta direttamente la questione. Anche in tema di videosorveglianza la normativa tende alla semplicità, ovvero prevede che l'assemblea, con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno la metà dei millesimi (articolo 1136, comma 2 del Codice civile), può deliberare l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti di videosorveglianza.
È di tutta evidenza che la nuova norma, limitandosi a prevedere l'ammissibilità di una delibera di installazione dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza, si colloca all'interno dell'ambito di vigenza delle prescrizioni del Codice della privacy (decreto legislativo 196/2003).
Le regole previste non risultano in alcun modo derogate e/o superate, ma anzi integrate dai successivi provvedimenti del Garante del 29.04.2004 e 08.04.2010 (quest'ultimo di mera integrazione al primo), finalizzati a regolamentare la specifica fattispecie della videosorveglianza in condominio. In particolare, come ci chiede un lettore, andranno osservate queste precauzioni: le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate dovranno essere informate con appositi cartelli delle presenza delle telecamere; i cartelli, qualora il sistema di videosorveglianza fosse attivo anche in orario notturno, dovranno essere visibili anche di notte; nel caso in cui gli impianti di videosorveglianza fossero collegati alle forze dell'ordine, sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi; le immagini registrate potranno essere conservate per un periodo limitato, ovvero sino a un massimo di 24 ore, fatte salve specifiche esigenze di ulteriore conservazione in relazione a indagini della polizia o comunque di natura giudiziaria.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, comporterà: l'inutilizzabilità dei dati personali trattati (articolo 11, comma 2, del codice); l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti dal Garante (articolo 143, comma 1, lettera c del codice) ed, infine, l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali ed esse collegate (articoli 161 e seguenti del codice), oltre ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati (articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2013).

TRIBUTINON PROFIT/ La Suprema corte sull'ambito delle agevolazioni. Ici e Imu, pochi esclusi. Solo l'uso diretto del bene assicura esenzioni.
L'esenzione Ici (e Imu) spetta agli enti non commerciali solo se gli immobili vengono utilizzati direttamente per le attività di assistenza. L'agevolazione, dunque, non spetta nel caso di uso dell'immobile da parte di un altro ente, anche se l'attività svolta è assistita da finalità di pubblico interesse.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza 15.02.2013 n. 3843.
Per i giudici di Piazza Cavour, lo svolgimento di attività assistenziali «esige la duplice condizione dell'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente possessore, e dell'esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito. Pertanto l'esenzione non spetta nel caso di utilizzazione indiretta, come nella specie, ancorché eventualmente assistita da finalità di pubblico interesse».
Questa pronuncia è interessante perché, correttamente, la Cassazione smentisce la tesi sostenuta di recente dal ministero delle finanze (risoluzione 4/2013), secondo il quale il beneficio fiscale deve essere riconosciuto anche nel caso in cui l'immobile venga dato in uso a un altro ente non commerciale. La presa di posizione ministeriale non è neppure in linea con le pronunce della Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che per fruire dell'esenzione Ici (ma la stessa regola vale per l'Imu) l'ente non commerciale deve non solo possedere, ma anche utilizzare direttamente l'immobile. Per il ministero, invece, un ente non commerciale che concede in comodato un immobile a un altro ente non profit, che vi svolga un'attività con modalità non commerciali, ha diritto all'esenzione Imu anche se non lo utilizza direttamente.
Nella risoluzione 4/2013, infatti, viene data una lettura a dir poco elastica delle tesi giurisprudenziali, in quanto viene ritenuto fruibile il beneficio fiscale anche nei casi in cui l'immobile posseduto da un ente non commerciale venga concesso in comodato a un altro ente, che svolga le attività elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 (ricreative, culturali, didattiche, sportive, assistenziali, sanitarie e così via). A maggior ragione, si legge nella risoluzione, se l'immobile venga dato in comodato a un altro ente appartenente alla stessa struttura del concedente, purché l'utilizzatore fornisca all'ente non profit «tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale sia sostanziale».
Va ricordato che la disciplina Imu ha confermato l'esenzione per gli immobili posseduti e utilizzati dagli enti non commerciali, fissando però regole diverse rispetto all'Ici. L'articolo 7, comma 1), lettera i) riconosce l'esenzione alle attività elencate dalla norma purché non abbiano natura commerciale. In effetti, l'articolo 91-bis del dl liberalizzazioni (1/2012), in sede di conversione in legge (27/2012), ha ribadito che gli enti ecclesiastici e non profit pagano l'Imu se sugli immobili posseduti vengono svolte attività commerciali. Tuttavia, ha apportato delle modifiche alla disciplina delle agevolazioni riconoscendo, in presenza di determinate condizioni, un'esenzione parziale (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIPrivacy dei lavoratori, i chiarimenti del Garante.
Il Garante della privacy attraverso la newsletter 14.02.2013 n. 369 e la newsletter 01.03.2013 n. 370 è intervenuto su alcuni aspetti fondamentali in materia di controllo e privacy dei lavoratori.
I temi trattati sono stati i seguenti:
1) Controllo del computer del lavoratore
Il datore di lavoro non può controllare il contenuto del computer assegnato al dipendente senza averlo informato prima di tale possibilità e senza il pieno rispetto della libertà e della dignità del lavoratore. Il Garante della privacy ribadisce il diritto del datore di lavoro di effettuare controlli al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro ma, nello stesso tempo, ricorda che è indispensabile rispettare la libertà, la dignità dei lavoratore e il codice della privacy. Il datore di lavoro deve pertanto preventivamente informare i lavoratori attraverso un apposito regolamento aziendale e con una apposita informativa della possibilità di un possibile controllo.
2) La comunicazione al sindacato dei nominativi dei lavoratori che effettuano straordinari
In mancanza di una specifica regolamentazione da parte del Ccnl il Garante ha stabilito che non possono essere comunicate le ore di straordinario svolte da un dipendente indicando anche il nome e il cognome dello stesso e che le stesse devono essere effettuate in forma anonima o aggregata.
3) La videosorveglianza dei lavoratori
Il garante ha chiarito che la videosorveglianza non deve consentire forme di controllo a distanza dei lavoratori e che il datore di lavoro deve segnalare in modo adeguato la presenza di telecamere e affidare la gestione del servizio a guardie giurate. La videosorveglianza deve essere usata per ragioni di sicurezza e non per sorvegliare i dipendenti come previsto dallo Statuto dei Lavoratori.
Chiarimenti anche in merito alle persone che effettuano il controllo delle immagini: «Tali soggetti devono essere in possesso della licenza prefettizia di “guardia particolare giurata” utile per poter svolgere funzioni anti-rapina e inoltre deve essere designato l'incaricato del trattamento dei dati personali» (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013).

TRIBUTIRegolamenti da inviare alle Finanze solo online. La circolare n. 1/df chiarisce che l'efficacia decorre dalla data di pubblicazione.
Dal 2013 non solo le deliberazioni di approvazione delle aliquote e della detrazione, ma anche i regolamenti dell'Imu devono essere inviati esclusivamente per via telematica per la pubblicazione nel sito informatico www.finanze.it. Dalla data di pubblicazione decorre la loro efficacia.
La circolare 29.04.2013 n. 1/DF delle Finanze precisa che detti provvedimenti devono essere inviati esclusivamente per via telematica, mediante inserimento del loro testo nell'apposita sezione del Portale del federalismo fiscale. Questo comporta che non potranno essere prese in considerazione le deliberazioni inviate con modalità diverse (posta elettronica, pec, fax o spedizione dell'atto in forma cartacea).
Tutto ciò non impatta in alcun modo sui termini di adozione di tali atti che devono essere, comunque, approvati entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione, come stabilisce il comma 169 dell'art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per le aliquote e l'art. 53, comma 16, della legge 23.12.2000, n. 388 per i regolamenti. La circolare ricorda anche che il comma 3 dell'art. 193 del Tuel -modificato dall'art. 1, comma 444 della legge n. 228 del 2012- stabilisce che «per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga all'articolo 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296, l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la data di cui al comma 2» e cioè entro il 30 settembre di ciascun anno. È bene rimarcare che detta norma non opera per tutti gli enti, ma solo per i comuni che devono ripristinare gli equilibri di bilancio.
Il nuovo comma 13-bis dell'art. 13 del dl n. 201 del 2011, introduce, poi, nel sistema una tempistica dei versamenti precisando che:
• la prima rata dell'Imu va versata in base agli atti pubblicati alla data del 16 maggio di ciascun anno di imposta. Pertanto l'invio degli atti da parte dei comuni deve avvenire entro il 9 maggio;
• la seconda rata va pagata in base agli atti pubblicati data del 16 novembre, che devono essere inviati dai comuni entro il 9 novembre.
Cosa accade se i comuni non osservano le date stabilite? La risposta è offerta dalla legge che stabilisce, riguardo al pagamento:
• della prima rata, che i soggetti passivi calcolano l'imposta nella misura pari al 50% di quella dovuta sulla base dell'aliquota e della detrazione dei dodici mesi dell'anno precedente;
• del saldo, che se non risultano pubblicate nuove delibere alla data del 16 novembre, i contribuenti devono prendere in considerazione gli atti pubblicati entro il 16 maggio dell'anno di riferimento oppure, in mancanza, quelli adottati per l'anno precedente.
Nella circolare si richiama, infatti, quanto precisato nella risoluzione n. 5/Df del 28.03.2013, e cioè che, se alla data del 16.05.2013 non risulti pubblicata alcuna deliberazione per il 2013, il contribuente dovrà verificare se è stata pubblicata la deliberazione relativa al 2012. Se manca anche questa applicherà le aliquote fissate dalla legge.
Se poi il comune intende confermare per il 2013 le aliquote dell'anno 2012 -poiché non è necessario adottare un'apposita deliberazione- deve accertarsi che la deliberazione relativa all'anno 2012 sia stata pubblicata sul sito e, in caso contrario, inviarla in via telematica per il suo inserimento nella parte relativa all'anno 2012.
Riguardo poi all'adempimento posto a carico dei comuni di compilare una griglia riassuntiva delle aliquote e dei regimi agevolativi determinati con le delibere, la circolare precisa che esso non incide sull'efficacia costitutiva dei regolamenti e delle deliberazioni Imu che è determinata unicamente dalla pubblicazione nel sito informatico del ministero dell'economia e delle finanze. Si ricorda che nella relazione alla norma è precisato che detta griglia è necessaria per disporre, nel momento in cui occorre effettuare le necessarie elaborazioni che affiancano le proposte normative, di un quadro definito e di immediata percezione delle manovre adottate dai comuni. Il tutto è però rimandato a data da destinarsi (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità ad hoc. Nel silenzio della regione vale la legge statale. Spetta ai governatori disciplinare le cause di conflitto nelle cariche.
Esiste una causa di incompatibilità nel caso in cui il presidente di una provincia sia stato eletto consigliere regionale? Quale norma si applica qualora la regione non abbia legiferato in merito alle cause di incompatibilità alle cariche elettive regionali?

A seguito della modifica del Titolo V della Costituzione con legge costituzionale n. 3/2001, spetta alle regioni disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche elettive regionali. Fino all'entrata in vigore delle discipline regionali continuano ad applicarsi le disposizioni statali in materia, in forza del principio di cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 131/2003.
Nel caso in esame, pertanto, non avendo la regione legiferato diversamente da quanto dispone la disciplina statale in ordine alla sussistenza di un causa ostativa all'assunzione, per un presidente di provincia, della carica di consigliere regionale, si è venuto a concretizzare il cumulo delle cariche nella stessa persona. Sotto il profilo della ricorrenza dell'incompatibilità rispetto alla carica locale, si prospettano due soluzioni praticabili per il capo dell'amministrazione che intenda accettare la carica regionale: può dimettersi dalla carica locale o essere dichiarato decaduto dal consiglio provinciale a conclusione del procedimento amministrativo previsto dall'art. 69 del dlgs n. 267/2000.
Ai fini della determinazione del momento in cui si concretizza l'incompatibilità, rileva la data di proclamazione degli eletti e non quella di convalida degli eletti. Quanto alle ricadute sulle gestione della provincia è importante segnalare che l'art. 1, comma 115, della legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità) ha previsto la nomina di un commissario straordinario ai sensi dell'art. 141, del dlgs 18.08.2000, n. 267, laddove si sia verificata una delle ipotesi di cessazione anticipata del mandato degli organi provinciali, tra cui rientra anche la decadenza.
Nel corso dei lavori parlamentari per l'emanazione della legge di stabilità, sono stati presentati alcuni ordini del giorno di analogo tenore, accolti dalla camera e dal governo, relativi alla necessità di assicurare la continuità nella gestione delle amministrazioni interessate, fino al 31.12.2013, attraverso la nomina come commissari dei presidenti di provincia o dei componenti della giunta uscente.
Qualora il presidente della provincia opti per la carica regionale con correlata decadenza, si procederà allo scioglimento di quella rappresentanza con nomina del commissario straordinario per la provvisoria gestione di quella provincia individuato nella persona del vicepresidente della provincia. Qualora, invece, l'opzione per la nuova carica sia esercitata attraverso un atto di dimissioni, si procederà allo scioglimento dell'ente con nomina di un commissario nella persona di un dirigente della carriere prefettizia (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sospensione dalla carica.
Incorre nella sospensione dalle cariche regionali, ai sensi del dlgs 31/12/2012, n. 235, un ex presidente regionale, eletto consigliere nelle ultime consultazioni, nei cui confronti è stata emessa dal Tribunale penale una sentenza penale di condanna per abuso d'ufficio?
Le cause ostative all'esercizio delle cariche elettive, di cui agli artt. 8 e 9 del dlgs 31/12/2012, n. 235, non hanno natura sanzionatoria penale, come già sostenuto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonché dalla recente giurisprudenza del Consiglio di stato. Infatti tali cause ostative «non rappresentano un aspetto del trattamento sanzionatorio penale derivante dalla commissione del reato e nemmeno una autonoma sanzione collegata al reato medesimo, ma piuttosto l'espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l'accesso alle cariche considerate».
Non sembra che l'applicazione della fattispecie in esame si ponga in contrasto con il principio, ricavabile dall'art. 25 Cost. e dall'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, dell'irretroattività delle norme penali e, più in generale, delle disposizioni sanzionatorie ed afflittive.
Pertanto, si ritiene che nell'ipotesi in argomento ricorrano i presupposti per procedersi alla emanazione del dpcm di sospensione dell'interessato dalla carica di consigliere regionale, conseguita a seguito delle recenti elezioni. Può ritenersi superata, di contro, la problematica relativa all'applicazione della medesima normativa in esame alla carica di presidente della giunta regionale, precedentemente ricoperta dall'interessato, a seguito della sopravvenuta costituzione del nuovo consiglio regionale (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTISu rate e scadenze della Tares decide il Consiglio comunale.
La delibera che fissa per il 2013 il numero delle rate e le scadenze di pagamento della Tares va adottata dal Consiglio comunale.

Lo chiarisce il ministero dell'Economia con la circolare 29.04.2013 n. 1/DF (si veda anche Il Sole 24 Ore del 1° maggio), illustrando le novità introdotte dal Dl 35/2013 sul nuovo tributo comunale su rifiuti e servizi.
La posizione ministeriale è condivisibile e in linea con il dettato normativo, considerato che l'articolo 14, comma 22 del Dl 201/2011 attribuisce alla potestà regolamentare la disciplina sui termini di versamento del tributo: quindi è chiara la competenza del consiglio comunale. Viene così smentita la tesi a sostegno della giunta comunale, che si ricaverebbe dalla formulazione letterale dell'articolo 10 del Dl 35/2013 nella parte in cui consente ai comuni di deliberare «anche nelle more della regolamentazione comunale del nuovo tributo».
In realtà, l'inciso non introduce alcuna deroga al regime delle competenze ma è finalizzato a legittimare la riscossione della Tares in assenza degli atti fondamentali del tributo (regolamento, piano finanziario e tariffe). Senza un regolamento applicativo e senza le tariffe il prelievo non troverebbe attuazione, non essendovi una disciplina di legge di supplenza. La precisazione contenuta nel Dl 35/2013 consente quindi ai comuni di riscuotere la Tares, ancorché in acconto, pur in assenza del titolo che legittima la pretesa di una somma per il finanziamento del servizio rifiuti.
Occorre, quindi, portare quanto prima in consiglio comunale la proposta di delibera, visto l'obbligo di pubblicare il provvedimento almeno 30 giorni prima della data di versamento: ad esempio, in caso di delibera adottata e resa esecutiva il 10 maggio la prima rata non può avere una scadenza anteriore al 10 giugno.
Il Mef precisa che se il comune non interviene con propria delibera a modificare la scadenza delle rate della Tares, il termine per il versamento resta fissato a luglio e a ottobre 2013. Il Dl 35/2013 consente, inoltre, ai comuni di far pagare un acconto del nuovo tributo secondo gli importi stabiliti nel 2012 ai fini Tarsu, Tia1 e Tia2, ma l'ultima rata dovrà essere determinata sulla base dei nuovi criteri Tares e versata contestualmente alla maggiorazione standard. Dal pagamento in acconto va esclusa anche l'Iva, non compatibile con la natura tributaria della Tares, ma sul punto il ministero tace.
In ordine alla riscossione delle prime rate i comuni possono utilizzare le modalità di versamento già in uso nel corso del 2012 (per esempio Mav, Rid e bollettini di conto corrente) ma il Mef avverte che non è possibile aprire un apposito conto corrente postale intestato alla Tares oppure modificare l'intestazione di quelli già esistenti (articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Gli architetti e i geometri. Cosa dice la sentenza del TAR (commento a TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.04.2013 n. 361) (articolo L'Eco di Bergamo del 27.04.2013 - tratto da www.architettibergamo.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Deve dichiararsi improcedibile il ricorso avverso l’ordine di demolizione, allorquando risulti presentata una domanda di sanatoria per le opere oggetto di ingiunzione. E ciò in quanto l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato rende inefficace l’ordine di demolizione e determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria.
Il provvedimento repressivo, infatti, deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, al completo riesame della fattispecie, con conseguente traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva ricorso va pertanto dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.

I ricorrenti impugnano il provvedimento in epigrafe gravato, datato 26.6.1996, con il quale il Comune ha ordinato la demolizione di una serie di opere realizzate su mappali n. 60/b, 68, 57/b, 70, 72/b 349, 71/b, Fg. n. 5 di loro proprietà.
I ricorrenti hanno tuttavia successivamente presentato una domanda in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47/1985, di cui non riferiscono l’esito.
Secondo un diffuso orientamento, cui la sezione intende dare continuità, deve dichiararsi improcedibile il ricorso avverso l’ordine di demolizione, allorquando risulti presentata una domanda di sanatoria per le opere oggetto di ingiunzione. E ciò in quanto l'esercizio della facoltà di regolarizzare la propria posizione da parte del privato rende inefficace l’ordine di demolizione e determina, sotto l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria.
Il provvedimento repressivo, infatti, deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, al completo riesame della fattispecie, con conseguente traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva (C.S., Sez. VI, 07.05.2009 n. 2833) ricorso va pertanto dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.05.2013 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'errore materiale nella redazione di un provvedimento amministrativo si ha allorché il pensiero dell'estensore sia stato tradito ed alterato al momento della sua traduzione in forma scritta, a causa di un fattore deviante che abbia operato esclusivamente nella fase della sua esternazione, sempreché tale divario emerga direttamente dall'esame del contesto stesso in cui l'errore si trova in cui il provvedimento impugnato si fonda un una norma che rinvia ad una data diversa da quella concretamente richiamata, peraltro coincidente quanto a giorno e mese.
Il detto errore materiale non costituisce tuttavia vizio idoneo a dare luogo all’annullamento del provvedimento, atteso che il medesimo sarebbe suscettibile di rettifica, ex art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nonché della sanatoria prevista dalla prima parte del comma secondo di detta disposizione, secondo la quale il provvedimento non è annullabile quando ricorrano congiuntamente la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, la natura vincolata del provvedimento e la inevitabilità del contenuto dispositivo, che palesemente non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Preliminarmente, il Collegio dà atto che il provvedimento impugnato contiene un errore materiale, laddove nell’affermare che “dalla documentazione prodotta si evince che il cambio di destinazione d’uso non risulta effettivamente eseguito né completato in modo da rendere idoneo a fini abitativi l’immobile oggetto di condono”, considera non realizzata la trasformazione dei sottotetti “alla data del 31.12.1995”, anziché del 31.12.1993, come invece previsto dalla precitata norma, espressamente menzionata nell’oggetto e nelle premesse dello stesso provvedimento.
L'errore materiale nella redazione di un provvedimento amministrativo si ha infatti allorché il pensiero dell'estensore sia stato tradito ed alterato al momento della sua traduzione in forma scritta, a causa di un fattore deviante che abbia operato esclusivamente nella fase della sua esternazione, sempreché tale divario emerga direttamente dall'esame del contesto stesso in cui l'errore si trova (TAR Umbria, Sez. I, 17.03.2010 n. 190), come appunto avvenuto nel caso di specie, in cui il provvedimento impugnato si fonda un una norma che rinvia ad una data diversa da quella concretamente richiamata, peraltro coincidente quanto a giorno e mese.
Il detto errore materiale non costituisce tuttavia vizio idoneo a dare luogo all’annullamento del provvedimento, atteso che il medesimo sarebbe suscettibile di rettifica, ex art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nonché della sanatoria prevista dalla prima parte del comma secondo di detta disposizione, secondo la quale il provvedimento non è annullabile quando ricorrano congiuntamente la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, la natura vincolata del provvedimento e la inevitabilità del contenuto dispositivo, che palesemente non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 16.03.2011 n. 658)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.05.2013 n. 1144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dal punto di vista giuridico, per ottenere il condono edilizio in caso di mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato è sufficiente, in base al combinato disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.2.1985 n. 47, che quest'ultimo venga funzionalmente completato, ossia che, pur se le attività costruttive siano ancora in corso, il fabbricato sia comunque già fornito delle opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso e invece necessarie per rendere i locali idonei all’uso abitativo, e ciò per l'evidente ragione di non incorrere nell'eventuale disparità di trattamento, che potrebbe scaturire tra le ipotesi di nuova costruzione totalmente abusiva, per la cui sanabilità bastano l'esecuzione del rustico ed il completamento della copertura, ed i casi di opere interne con mutamento di destinazione d'uso, per le quali è appunto sufficiente il completamento funzionale.
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Nelle controversie in materia edilizia ricade sul privato richiedente l'onere della prova in ordine all'ultimazione delle opere abusive in data utile per fruire del condono.

Venendo al merito, il Collegio è chiamato a decidere se alla predetta data del 31.12.1993, avesse o meno già avuto luogo la trasformazione dei sottotetti in superficie residenziale, e pertanto se i medesimi fossero divenuti, da semplicemente “agibili”, anche “abitabili”.
In via di fatto, la documentazione fotografica allegata dalla ricorrente a corredo delle domande di sanatoria conferma le affermazioni della resistente, secondo cui le opere erano prive di ripartizione interna, pavimentazione, e servizi igienici.
Dal punto di vista giuridico, per ottenere il condono edilizio in caso di mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato è sufficiente, in base al combinato disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5, l. 28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.2.1985 n. 47, che quest'ultimo venga funzionalmente completato, ossia che, pur se le attività costruttive siano ancora in corso, il fabbricato sia comunque già fornito delle opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso e invece necessarie per rendere i locali idonei all’uso abitativo, e ciò per l'evidente ragione di non incorrere nell'eventuale disparità di trattamento, che potrebbe scaturire tra le ipotesi di nuova costruzione totalmente abusiva, per la cui sanabilità bastano l'esecuzione del rustico ed il completamento della copertura, ed i casi di opere interne con mutamento di destinazione d'uso, per le quali è appunto sufficiente il completamento funzionale (C.S., Sez. V, 14.07.1995 n. 1071).
Nel caso di specie, la ricorrente si limita tuttavia a documentare che le predette trasformazioni erano in essere alla data di presentazione delle domande di sanatoria, e pertanto al 01.03.1995, ben oltre il termine del 31.12.1993 previsto dalla legge, laddove, in base a giurisprudenza costante, nelle controversie in materia edilizia ricade sul privato richiedente l'onere della prova in ordine all'ultimazione delle opere abusive in data utile per fruire del condono (C.S., Sez. IV, 27.12.2011 n. 6861).
Ciò che risulta agli atti del procedimento è invece solo la mera esistenza dei sottotetti, agibili ma non abitabili, all’08.06.1993, data di rilascio del certificato di abitabilità (riferito all’edificio, ma con esclusione dei sottotetti), senza che i medesimi fossero anche dotati delle predette opere indispensabili a renderne effettivamente possibile l’uso abitativo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.05.2013 n. 1144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'esclusione da una gara di appalto, pur essendo un atto infraprocedimentale, determina per l'impresa esclusa un arresto procedimentale, idoneo a ledere, con immediatezza ed attualità, la sua sfera giuridica, da qui la necessità di sua impugnazione immediata, e non invece unitamente alla pubblicazione della graduatoria finale.
Tuttavia, qualora siano impugnate clausole del bando o della lettera di invito che prescrivano requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, la cui carenza determina immediatamente l'effetto escludente, il successivo atto di esclusione si configura come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta. Conseguentemente, in tali casi, l'impugnazione dell'atto finale non è necessaria, poiché fra i due atti vi è un rapporto di conseguenzialità immediata, diretta e necessaria, ponendosi l'atto successivo come inevitabile conseguenza di quello precedente, non essendovi pertanto da compiere nuove ed ulteriori valutazioni di interessi.

In base alla giurisprudenza consolidata, l'esclusione da una gara di appalto, pur essendo un atto infraprocedimentale, determina per l'impresa esclusa un arresto procedimentale, idoneo a ledere, con immediatezza ed attualità, la sua sfera giuridica (TAR Campania, Salerno, Sez. I 04.07.2011 n. 1240), da qui la necessità di sua impugnazione immediata, e non invece unitamente alla pubblicazione della graduatoria finale (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II 13.03.2012 n. 517).
Tuttavia, qualora siano impugnate clausole del bando o della lettera di invito che prescrivano requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, la cui carenza determina immediatamente l'effetto escludente, il successivo atto di esclusione si configura come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 06.07.2012 n. 6163). Conseguentemente, in tali casi, l'impugnazione dell'atto finale non è necessaria, poiché fra i due atti vi è un rapporto di conseguenzialità immediata, diretta e necessaria, ponendosi l'atto successivo come inevitabile conseguenza di quello precedente, non essendovi pertanto da compiere nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (C.S., Sez. V, 08.03.2011 n. 1463)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.05.2013 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento eseguito su un’opera abusiva non può qualificarsi come manutenzione o ristrutturazione perché questi ultimi interventi, come si desume chiaramente dalle definizioni offerte dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001, presuppongono la preesistenza di un organismo edilizio regolare.
Invece, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (anche nelle ipotesi in cui siano riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione, del restauro e/ del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché l’ordinamento non può ammettere la prosecuzione di lavori abusivi.

In proposito, il Collegio osserva che l’intervento eseguito su un’opera abusiva non può qualificarsi come manutenzione o ristrutturazione perché questi ultimi interventi, come si desume chiaramente dalle definizioni offerte dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001, presuppongono la preesistenza di un organismo edilizio regolare.
Invece, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (anche nelle ipotesi in cui siano riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione, del restauro e/ del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché l’ordinamento non può ammettere la prosecuzione di lavori abusivi (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 11.12.2012 n. 1320)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.05.2013 n. 1138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: L'amministratore pubblico deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi suoi o di parenti o affini fino al quarto grado; tale obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l'amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interessi, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a..
Inoltre, l’obbligo dei pubblici amministratori di astenersi dal votare delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado, non attiene al contenuto intrinseco degli atti impugnati, ma alla sussistenza di un vizio procedurale che, coinvolgendo il funzionamento del consiglio (la sua composizione), interferisce inevitabilmente con la regolarità della dialettica interna all'organo e, di conseguenza, sulla corretta esplicazione delle prerogative dei consiglieri legittimati a partecipare alla discussione e al voto; e se il vizio del subprocedimento deliberativo discende di per sé dalla sola presenza in assemblea dei consiglieri in conflitto di interesse (in quanto potenzialmente idonea ad influire sulla altrui libera manifestazione di volontà), a maggior ragione il pregiudizio del munus degli altri consiglieri si verifica in concreto ogniqualvolta i membri incompatibili non soltanto siano stati presenti, ma abbiano altresì espresso voto favorevole alla delibera dalla quale si sarebbero invece dovuti astenere, che, dunque, è illegittima.
Inoltre, sul consigliere in conflitto di interessi grava, oltre all'obbligo di astenersi dal votare, anche quello di allontanarsi dall'aula perché la sola presenza dello stesso può potenzialmente influire sulla libera manifestazione di volontà degli altri membri.

Costituisce, infatti, orientamento granitico della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui, anche in applicazione delle previsioni di cui all’art. 78 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, l'amministratore pubblico deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi suoi o di parenti o affini fino al quarto grado; tale obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l'amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interessi, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 693).
Inoltre, l’obbligo dei pubblici amministratori di astenersi dal votare delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado, non attiene al contenuto intrinseco degli atti impugnati, ma alla sussistenza di un vizio procedurale che, coinvolgendo il funzionamento del consiglio (la sua composizione), interferisce inevitabilmente con la regolarità della dialettica interna all'organo e, di conseguenza, sulla corretta esplicazione delle prerogative dei consiglieri legittimati a partecipare alla discussione e al voto; e se il vizio del subprocedimento deliberativo discende di per sé dalla sola presenza in assemblea dei consiglieri in conflitto di interesse (in quanto potenzialmente idonea ad influire sulla altrui libera manifestazione di volontà), a maggior ragione il pregiudizio del munus degli altri consiglieri si verifica in concreto ogniqualvolta i membri incompatibili non soltanto siano stati presenti, ma abbiano altresì espresso voto favorevole alla delibera dalla quale si sarebbero invece dovuti astenere, che, dunque, è illegittima.
Inoltre, sul consigliere in conflitto di interessi grava, oltre all'obbligo di astenersi dal votare, anche quello di allontanarsi dall'aula perché la sola presenza dello stesso può potenzialmente influire sulla libera manifestazione di volontà degli altri membri (cfr. TAR Liguria, sez. I, 26.05.2004, n. 818) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.05.2013 n. 1137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mancata presentazione di garanzie e coperture assicurative costituisce giusto motivo di esclusione o di revoca dell’aggiudicazione; inoltre, a seguito della novella del 2011, la giurisprudenza ha chiarito che la disposizione dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici impone una diversa interpretazione dell’art. 75, e rende evidente l’intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l’impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica l’esclusione dalla gara.
Alla luce dell’art. 4.3 del disciplinare di gara, il primo sollecito testuale dei documenti risale al 15/09/2009, e l’amministrazione ha accordato un termine ben superiore ai 20 giorni prescritti, dilazionandolo fino al 23/10/2009.
E’ stato affermato al riguardo che “l'escussione della cauzione provvisoria nel caso specifico si fonda legittimamente sull'omessa produzione documentale … e, in particolare, in base alla previsione contenuta nel capitolato speciale d'appalto (c.s.a.), che al punto … imponeva all'aggiudicataria provvisoria l'obbligo di costituire la cauzione definitiva ex articolo 113 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 entro il termine massimo di 15 giorni dalla comunicazione dell'aggiudicazione provvisoria, statuendo inoltre che la mancata costituzione della cauzione definitiva determina la revoca dell’aggiudicazione e l'incameramento della cauzione provvisoria di cui all'articolo 75 del decreto legislativo 163 del 2006 …”.
Dunque, le statuizioni in questa sede censurate hanno costituito la puntuale applicazione degli atti di gara, ai quali l’amministrazione si è accostata con un’interpretazione non severa, concedendo invero (ma inutilmente) un arco temporale assolutamente congruo.

Per giurisprudenza costante, la mancata presentazione di garanzie e coperture assicurative costituisce giusto motivo di esclusione o di revoca dell’aggiudicazione (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/04/2010 n. 2199); inoltre, a seguito della novella del 2011, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. III – 01/02/2012 n. 493, richiamata da TAR Lazio Roma, sez. II – 03/01/2013 n. 16) ha chiarito che la disposizione dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici impone una diversa interpretazione dell’art. 75, e rende evidente l’intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l’impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica l’esclusione dalla gara.
Alla luce dell’art. 4.3 del disciplinare di gara, il primo sollecito testuale dei documenti risale al 15/09/2009, e l’amministrazione ha accordato un termine ben superiore ai 20 giorni prescritti, dilazionandolo fino al 23/10/2009. E’ stato affermato al riguardo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 16/09/2011 n. 5213) che “l'escussione della cauzione provvisoria nel caso specifico si fonda legittimamente sull'omessa produzione documentale … e, in particolare, in base alla previsione contenuta nel capitolato speciale d'appalto (c.s.a.), che al punto … imponeva all'aggiudicataria provvisoria l'obbligo di costituire la cauzione definitiva ex articolo 113 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 entro il termine massimo di 15 giorni dalla comunicazione dell'aggiudicazione provvisoria, statuendo inoltre che la mancata costituzione della cauzione definitiva determina la revoca dell’aggiudicazione e l'incameramento della cauzione provvisoria di cui all'articolo 75 del decreto legislativo 163 del 2006 …”.
Dunque, le statuizioni in questa sede censurate hanno costituito la puntuale applicazione degli atti di gara, ai quali l’amministrazione si è accostata con un’interpretazione non severa, concedendo invero (ma inutilmente) un arco temporale assolutamente congruo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.05.2013 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La norma invocata (art. 11, comma 9, del Codice dei contratti) attribuisce al soggetto affidatario una facoltà di recesso laddove vi sia un'inerzia della stazione appaltante nella fase di stipulazione del contratto ossia quando, ad esempio, la stessa non inviti la Società vincitrice a tale adempimento entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione della gara (o, comunque, entro il diverso termine previsto nella lex specialis).
Invero, la norma in argomento mira a introdurre una clausola di garanzia in favore dell'operatore economico aggiudicatario che autorizza quest'ultimo a non rimanere sine die vincolato all'offerta che ha presentato in sede di gara, senza che nei termini previsti dalla citata previsione si concluda l'iter procedimentale e si addivenga alla stipula del contratto. Dal chiaro tenore dell'enunciato si evince che la finalità della norma è quella di evitare che la stazione appaltante possa procrastinare indefinitamente gli adempimenti prescritti dalla legge per il perfezionamento del vincolo negoziale, in violazione del principio di affidamento nonché dei canoni di imparzialità e buon andamento che ne sono esplicazione: qualora, tuttavia, sia l'aggiudicatario ad assumere un atteggiamento ingiustificatamente dilatorio verso gli adempimenti prescritti dalla legge a suo carico, non sorgono in capo allo stesso affidamenti di sorta meritevoli di tutela, con conseguente inefficacia dell'atto di scioglimento dal vincolo eventualmente notificato.
In altre parole, la facoltà prevista dall'articolo 11, comma 9, non può essere esercitata dall'aggiudicataria in piena libertà (o comunque assumendo atteggiamenti dilatori idonei a far decorrere il termine ivi previsto), bensì è subordinata alle condizioni appena esposte.

La doglianza è priva di pregio, poiché la norma invocata (art. 11, comma 9, del Codice dei contratti) attribuisce al soggetto affidatario una facoltà di recesso laddove vi sia un'inerzia della stazione appaltante nella fase di stipulazione del contratto ossia quando, ad esempio, la stessa non inviti la Società vincitrice a tale adempimento entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione della gara (o, comunque, entro il diverso termine previsto nella lex specialis).
Come ha messo in evidenza la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, sez. III – 29/03/2013 n. 3227), la norma in argomento mira a introdurre una clausola di garanzia in favore dell'operatore economico aggiudicatario che autorizza quest'ultimo a non rimanere sine die vincolato all'offerta che ha presentato in sede di gara, senza che nei termini previsti dalla citata previsione si concluda l'iter procedimentale e si addivenga alla stipula del contratto. Dal chiaro tenore dell'enunciato si evince che la finalità della norma è quella di evitare che la stazione appaltante possa procrastinare indefinitamente gli adempimenti prescritti dalla legge per il perfezionamento del vincolo negoziale, in violazione del principio di affidamento nonché dei canoni di imparzialità e buon andamento che ne sono esplicazione: qualora, tuttavia, sia l'aggiudicatario ad assumere un atteggiamento ingiustificatamente dilatorio verso gli adempimenti prescritti dalla legge a suo carico, non sorgono in capo allo stesso affidamenti di sorta meritevoli di tutela, con conseguente inefficacia dell'atto di scioglimento dal vincolo eventualmente notificato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. I – 06/03/2013 n. 1236).
In altre parole, la facoltà prevista dall'articolo 11, comma 9, non può essere esercitata dall'aggiudicataria in piena libertà (o comunque assumendo atteggiamenti dilatori idonei a far decorrere il termine ivi previsto), bensì è subordinata alle condizioni appena esposte che, nel caso di specie, non sussistono: infatti, nessuna inerzia è addebitabile alla stazione appaltante nella fase susseguente all'aggiudicazione definitiva, in quanto quest'ultima ha tempestivamente richiesto alla ricorrente la documentazione comprovante il possesso dei requisiti dichiarati in sede di gara, così manifestando la chiara intenzione di giungere alla stipulazione del contratto.
L'inerzia o comunque l'atteggiamento dilatorio è invece ascrivibile alla ricorrente, che non ha inviato alla stazione appaltante la documentazione reiteratamente richiesta e che, in seguito, con nota del 22/10/2009 ha manifestato (sia pure in via subordinata) la volontà di non voler procedere alla sottoscrizione del contratto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.05.2013 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Scatta il peculato d'uso per le chiamate private. Cassazione sulle telefonate no limits del dipendente p.a..
Scatta il peculato d'uso a carico del dipendente pubblico per le chiamate private «no limits» dal cellulare di servizio: il reato, insomma, si configura soltanto quando la condotta scorretta del lavoratore che approfitta del telefonino affidatogli dall'amministrazione si risolve in un danno per il patrimonio dell'ente datore o per la funzionalità dell'ufficio.

Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione con la sentenza 02.05.2013 n. 19054 che mette fine a un contrasto di giurisprudenza.
Scatti illimitati
L'uso del telefono d'ufficio per motivi personali non è di per sé reato da parte dell'impiegato pubblico. A patto che quantità e qualità delle chiamate risultino non significative dal punto di vista economico e funzionale. È dunque escluso che il travet possa usare il cellulare di servizio soltanto per motivi di emergenza per evitare di essere penalmente perseguibile.
Affinché si configuri l'ipotesi criminosa di cui al secondo comma dell'articolo 314 Cp, infatti, è pur sempre richiesta l'offensività del fatto: ecco spiegato perché ai fini della rilevanza penale si richiede un danno alle finanze pubbliche o all'organizzazione del lavoro, laddove quest'ultima eventualità può assumere un autonomo e determinante rilievo nei casi in cui l'utenza è legata a un contratto «tutto incluso» con il gestore telefonico.
Valutazione complessiva
Resta da capire perché, nella specie, non si possano configurare le altre e diverse fattispecie criminose ipotizzate dalla giurisprudenza di legittimità, che oggi torna all'antico nell'indicare la soluzione nel peculato d'uso. Il peculato ordinario, per esempio, va escluso perché risulta tecnicamente impossibile «l'appropriazione» delle onde elettromagnetiche che consentono la comunicazione. Ancora: il costo delle chiamate, anche nei contratti a consumo, è il frutto di una complessiva valutazione del budget del sistema di comunicazione.
La truffa, poi, va esclusa perché l'indebito vantaggio del pubblico funzionario che abusa del cellulare d'ufficio risulta immediato e non subordinato all'induzione in errore di nessuno. Estinto per prescrizione, nella specie, il reato di un alto dirigente della diplomazia italiana (ma resta il reato di falso per un conguaglio truccato) (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013).

PUBBLICO IMPIEGOTelefonate private dall'ufficio: scatta il peculato d'uso.
LA DECISIONE/ La chiamata non urgente è penalmente irrilevante se è «economicamente e funzionalmente non significativa».
Peculato d'uso per chi fa telefonate private dal telefono dell'ufficio.

Le Sezz. unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 02.05.2013 n. 19054, dirimono l'annoso contrasto che ha diviso giurisprudenza e dottrina, tra chi vedeva nella condotta gli estremi del peculato ordinario, chi quella del peculato d'uso. Tra i due principali schieramenti c'erano anche correnti, minoritarie, che teorizzavano i reati di abuso d'ufficio e truffa. Le sezioni unite si immergono nei corsi e ricorsi del passato e finiscono per tornare al punto di partenza aderendo al principio che afferma il peculato d'uso e prendendo le distanze dall'orientamento del peculato ordinario.
La distinzione tra le due fattispecie è disegnata dall'articolo 314 del Codice penale: a far la differenza è la possibilità di restituire o meno, immediatamente la cosa di cui si è fatto un uso momentaneo.
Proprio sull'impossibilità di rendere subito il maltolto si reggeva l'orientamento fino a ieri dominante. Oggetto dell'appropriazione definitiva non sarebbe, infatti, il telefono, ma l'energia costituita dagli impulsi elettronici entrati a far parte del patrimonio della pubblica amministrazione. "Scatti" di cui il pubblico impiegato si appropria per sempre, meritando la condanna per peculato ordinario, sempre che il valore delle telefonate fatte a scopi privati sia "apprezzabile". Dalla lettura che spiana la strada alla punizione più severa prevista dal codice penale, si allontana la Cassazione. Per le sezioni unite l'abuso del possesso, che avviene quando si usa il telefono fisso o il cellulare d'ufficio, non può in alcun modo tradursi nella stabile "inversione del dominio" che connota il peculato ordinario.
I giudici delle sezioni unite, tracciano i confini della rilevanza penale del peculato d'uso chiarendo che l'utilizzo del telefono per fini personali, «quando sia economicamente e funzionalmente non significativo» è penalmente irrilevante, anche se le telefonate private non sono urgenti ma di carattere "ricreativo".
Esagerare però non si può, perché una rilevanza penale esiste, e il datore di lavoro la può trovare analizzando le due angolazioni del pregiudizio subito: il tempo perso al telefono e il danno economico dovuto al costo delle chiamate. Quest'ultimo però dipende dal tipo di contratto stipulato dall'ente. Sarà più pesante se c'è una tariffa a consumo più lieve nel caso di un "forfait".
«Il raggiungimento della soglia della rilevanza penale -scrive la Cassazione- si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della Pa o con una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio:eventualità quest'ultima che che potrà ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazione regolate dal contratto cosiddetto "tutto incluso"».
Il valore economico è poi "apprezzabile" anche quando le telefonate sono così vicine nel tempo da essere considerate «un'unica condotta» (articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2013).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo lamentare la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e del principio del giusto procedimento laddove il provvedimento di revoca in autotutela del parere favorevole di compatibilità ambientale ex art. 146, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004, espresso dalla Soprintendenza sul progetto di demolizione e ricostruzione del fabbricato, non è stato fatto precedere dalla comunicazione di avvio del procedimento.
In effetti, in materia di autotutela decisoria, stante la pacifica natura discrezionale dell'atto di annullamento d'ufficio, occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di attività di secondo grado incidente su situazioni giuridiche medio tempore consolidatesi, viepiù se l’annullamento incide su di un atto amministrativo favorevole, qual è certamente il parere -obbligatorio e vincolante- della Soprintendenza ex art. 146, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004.
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Il codice dei beni culturali e del paesaggio D.Lgs. n. 42/2004, mentre definisce senz’altro “beni culturali” –come tali soggetti ex lege a tutela- quelli appartenenti ad enti pubblici o privati senza fini di lucro “che presentano interesse artistico” (art. 10, comma 1), con riguardo ai beni appartenenti a soggetti privati diversi (persone fisiche e/o società commerciali) richiede invece un’apposita dichiarazione dell’interesse culturale (art. 13), che accerti, nel bene che ne forma oggetto, la sussistenza di un interesse artistico “particolarmente importante” (art. 10, comma 3, lettera a).
Dunque, nel caso di beni appartenenti a privati, ai fini dell’assoggettamento a tutela il codice dei beni culturali postula –all’evidente fine del contemperamento con il sacrificio imposto al privato- un grado più elevato (“particolarmente importante”) dell’interesse artistico, della cui prevalenza in concreto la dichiarazione ex art. 13 deve dare conto con specifica motivazione.

Il ricorso introduttivo è fondato, sotto l’assorbente profilo, dedotto con il secondo motivo di ricorso -che riveste priorità logica- con il quale si lamenta la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e del principio del giusto procedimento, in quanto il provvedimento di revoca in autotutela del parere favorevole di compatibilità ambientale ex art. 146, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004, espresso in data 21.04.2011 dalla Soprintendenza sul progetto di demolizione e ricostruzione del fabbricato, non è stato fatto precedere dalla comunicazione di avvio del procedimento.
In effetti, in materia di autotutela decisoria, stante la pacifica natura discrezionale dell'atto di annullamento d'ufficio, occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di attività di secondo grado incidente su situazioni giuridiche medio tempore consolidatesi, viepiù se l’annullamento incide su di un atto amministrativo favorevole, qual è certamente il parere -obbligatorio e vincolante- della Soprintendenza ex art. 146, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004.
In proposito, possono richiamarsi le illuminanti considerazioni contenute nella sentenza Cons. di St., VI, 19.01.2010, n. 187, resa su di una fattispecie per molti versi analoga a quella per cui è causa.
Non ricorreva del resto nessuna particolare urgenza qualificata –peraltro neppure invocata– tale da non consentire che fosse inviata all'interessato la suddetta comunicazione, senza che risultasse compromesso il soddisfacimento dell'interesse pubblico cui il provvedimento di autotutela era rivolto.
E poiché il potere di revoca ha natura eminentemente discrezionale (viepiù nel caso di specie, che involge una differente valutazione tecnica sulla compatibilità del progetto con il vincolo paesaggistico), non vi è alcuno spazio per la sanatoria giurisprudenziale di cui all’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990.
Parimenti fondato è il ricorso per motivi aggiunti, proposto per l’annullamento del decreto del Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Liguria 02.08.2012, di dichiarazione dell’interesse culturale del fabbricato.
In particolare, risultano fondati i motivi con i quali è dedotta la violazione degli artt. 13 D.Lgs. n. 42/2004 e 3 L. n. 241/1990, nonché eccesso di potere sotto i profili del difetto di motivazione, della violazione del principio di proporzionalità e dello sviamento dalla causa tipica del potere esercitato.
Giova premettere che il codice dei beni culturali e del paesaggio D.Lgs. n. 42/2004, mentre definisce senz’altro “beni culturali” –come tali soggetti ex lege a tutela- quelli appartenenti ad enti pubblici o privati senza fini di lucro “che presentano interesse artistico” (art. 10, comma 1), con riguardo ai beni appartenenti a soggetti privati diversi (persone fisiche e/o società commerciali) richiede invece un’apposita dichiarazione dell’interesse culturale (art. 13), che accerti, nel bene che ne forma oggetto, la sussistenza di un interesse artistico “particolarmente importante” (art. 10, comma 3, lettera a).
Dunque, nel caso di beni appartenenti a privati, ai fini dell’assoggettamento a tutela il codice dei beni culturali postula –all’evidente fine del contemperamento con il sacrificio imposto al privato- un grado più elevato (“particolarmente importante”) dell’interesse artistico, della cui prevalenza in concreto la dichiarazione ex art. 13 deve dare conto con specifica motivazione (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va ribadito il consolidato principio, in tema di vincoli paesaggistici, ambientali ed idrogeologici apposti all'edificazione, a mente del quale l’obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo corrispondendo tale valutazione alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente, ferma perciò la necessità del parere favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo per la sanabilità dell'opera.
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Lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di proprietà dei suoli, rappresenta un interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e della Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici interessi pubblici e privati, diversi da quelli del proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e tale conformazione discende non solo dalla normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative settoriali.
Di conseguenza l'Amministrazione, nel nuovo esercizio del proprio potere, dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso stretto che, in quanto siano applicabili anche se sopravvenuti (quali, in linea di massima, le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse storico e artistico), devono essere valutati al momento in cui la domanda viene esaminata.

In tale contesto, va quindi ribadito il consolidato principio, in tema di vincoli paesaggistici, ambientali ed idrogeologici apposti all'edificazione, a mente del quale l’obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo corrispondendo tale valutazione alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente, ferma perciò la necessità del parere favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo per la sanabilità dell'opera (cfr. ad es. in tema proprio di vincolo idrogeologico CdS n. 6662/2012).
Più in generale, assumono rilievo dirimente il carattere primario di numerosi interessi posti a tutela del territorio, tra cui quello di ambito idrogeologico -specie per un contesto soggetto a rischi noti quale quello regionale ligure-, nonché l’epoca di esercizio di un potere autoritativo di valutazione di quello che, in ogni caso, resta un abuso.
In proposito, con la migliore giurisprudenza va quindi ricordato che lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di proprietà dei suoli, rappresenta un interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e della Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici interessi pubblici e privati, diversi da quelli del proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e tale conformazione discende non solo dalla normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative settoriali; di conseguenza l'Amministrazione, nel nuovo esercizio del proprio potere, dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso stretto che, in quanto siano applicabili anche se sopravvenuti (quali, in linea di massima, le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse storico e artistico), devono essere valutati al momento in cui la domanda viene esaminata (cfr. ad es. CdS n. 1007/2013) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come per l’ordine di demolizione in materia edilizia, così anche per l’ordine di rimessione in pristino sanzionatoria degli abusi in materia paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è predicabile il principio secondo il quale, in ragione del contenuto vincolato dell'atto, non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, né è prospettabile il difetto di motivazione, essendo sufficiente a tal fine l’indicazione che l’intervento risulta realizzato, in assenza del pertinente titolo abilitativo, in area sottoposta a vincolo paesistico.
Del resto, in mancanza della specifica contestazione circa il fatto che l’intervento ricade in area vincolata dal punto di vista paesaggistico, i relativi vizi non potrebbero comunque condurre all’annullamento del provvedimento impugnato, essendo palese –ex art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990- che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
L'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela del paesaggio non è soggetto a prescrizione o decadenza, per cui l'accertamento dell'illecito e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche ad una significativa distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, in considerazione della prevalenza -alla luce del rilievo costituzionale del bene tutelato (art. 9, comma 2 Cost.)- dell'interesse pubblico sull'affidamento del privato.
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La valutazione sulla compatibilità paesaggistica dell’opera non dev’essere affatto compiuta d’ufficio dall’amministrazione, ma segue la presentazione di “apposita domanda” da presentarsi a cura del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi (art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004).

Premesso che l’autorizzazione ministeriale per l’impianto di stazione di radioamatore non sostituisce affatto quella paesaggistica, si osserva che, come per l’ordine di demolizione in materia edilizia, così anche per l’ordine di rimessione in pristino sanzionatoria degli abusi in materia paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è predicabile il principio secondo il quale, in ragione del contenuto vincolato dell'atto, non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, né è prospettabile il difetto di motivazione, essendo sufficiente a tal fine l’indicazione che l’intervento risulta realizzato, in assenza del pertinente titolo abilitativo, in area sottoposta a vincolo paesistico (così TAR Campania-Napoli, III, 14.12.2009, n. 8699).
Del resto, in mancanza della specifica contestazione circa il fatto che l’intervento ricade in area vincolata dal punto di vista paesaggistico, i relativi vizi non potrebbero comunque condurre all’annullamento del provvedimento impugnato, essendo palese –ex art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990- che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Secondo la giurisprudenza che il collegio condivide, l'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela del paesaggio non è soggetto a prescrizione o decadenza, per cui l'accertamento dell'illecito e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche ad una significativa distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, in considerazione della prevalenza -alla luce del rilievo costituzionale del bene tutelato (art. 9, comma 2 Cost.)- dell'interesse pubblico sull'affidamento del privato (TAR Campania-Napoli, IV, 16.12.2011, n. 5912).
Premesso –in punto di fatto- che non è seriamente contestabile che l’intervento in questione abbia alterato lo stato dei luoghi (cfr. la documentazione fotografica di cui al doc. 7 delle produzioni 16.04.2012 di parte comunale), si osserva che la valutazione sulla compatibilità paesaggistica dell’opera non dev’essere affatto compiuta d’ufficio dall’amministrazione, ma segue la presentazione di “apposita domanda” da presentarsi a cura del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi (art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004).
Dunque tale valutazione, attendendo al distinto ed eventuale procedimento di compatibilità paesaggistica (in vista dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria o pecuniaria), non integra affatto la motivazione dell’ordine di rimessione in pristino, che viceversa è atto vincolato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di legittimazione a richiedere titoli edilizi, l'amministrazione comunale deve necessariamente verificare che il richiedente abbia titolo per intervenire sull'immobile interessato dall'intervento, anche se deve nel contempo escludersi un obbligo del comune di effettuare al riguardo accertamenti laboriosi e complessi, diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile.
Il titolo edilizio, essendo rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei terzi, è invero un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata dall’autorità giudiziaria ordinaria alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune.
Tali principi debbono valere –a più forte ragione– rispetto al procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica, posto che la legittimazione a richiedere il relativo titolo (art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004) spetta non soltanto al proprietario dell’immobile (art. 11, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ma anche al possessore o detentore “a qualsiasi titolo” dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi.

Giova premettere come, per costante giurisprudenza, in materia di legittimazione a richiedere titoli edilizi, l'amministrazione comunale deve necessariamente verificare che il richiedente abbia titolo per intervenire sull'immobile interessato dall'intervento, anche se deve nel contempo escludersi un obbligo del comune di effettuare al riguardo accertamenti laboriosi e complessi, diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile.
Il titolo edilizio, essendo rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei terzi, è invero un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata dall’autorità giudiziaria ordinaria alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune.
Tali principi debbono valere –a più forte ragione– rispetto al procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica, posto che la legittimazione a richiedere il relativo titolo (art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004) spetta non soltanto al proprietario dell’immobile (art. 11, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ma anche al possessore o detentore “a qualsiasi titolo” dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi.
Nel caso di specie, è pacifico che, all’atto della presentazione dell’istanza di compatibilità paesaggistica (24.05.2011), parte ricorrente fosse certamente nel possesso dell’area sulla quale è stata realizzata la staccionata in questione, secondo quanto accertato dalla sentenza del Tribunale civile di Genova, Sez. III, 27.01.2010, n. 364 (doc. 10 delle produzioni 20.01.2012 di parte ricorrente) -esecutiva per legge- emessa anche nei confronti dell’amministrazione comunale.
Di più, tale circostanza risultava essere stata confermata dalla stessa amministrazione comunale, in esito ad un apposito sopralluogo in data 29.04.2009 (doc. 7 delle produzioni 20.01.2012 di parte ricorrente).
A fronte di un tale quadro istruttorio e della circostanza che l’accertamento della compatibilità paesaggistica è comunque rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, non vi era dunque alcuna necessità di disporre -viepiù nella pendenza del giudizio civile di appello tra le parti- ulteriori laboriosi e complicati accertamenti in ordine alla proprietà dell’area di sedime della staccionata, derivando la legittimazione dei ricorrenti a richiedere l’accertamento della compatibilità paesaggistica dalla semplice, comprovata situazione di possesso e/o detenzione -ex art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004- dell’area interessata dall’intervento (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 732 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le norme sulla lottizzazione abusiva (da ultimo, art. 30 D.P.R. 06.06.2001, n. 380) mirano a prevenire e reprimere le condotte materiali e giuridiche intese ad infittire la trama dell’edificato sul territorio, senza che sussista una previa pianificazione capace di tener conto delle conseguenze dell’edificazione in termini di esigenza di nuovi servizi ed opere di urbanizzazione, che il costruttore non ha (e non può avere) adeguatamente riscontrato.
Dunque, la fattispecie di lottizzazione abusiva si riferisce alla mancanza dell'autorizzazione specifica alla lottizzazione, inizialmente prevista dall'art. 28 della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata da tutta la legislazione statale e regionale in tema di pianificazione attuativa, sicché alcun rilievo sanante sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione edilizia.
Secondo quanto già più volte affermato in ambito giurisprudenziale, la stessa formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere dunque interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Da quanto detto consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.

Giova premettere che, secondo il provvedimento impugnato, le opere in questione configurerebbero una lottizzazione abusiva ex art. 30 D.P.R. n. 380/2001, avendo trasformato una zona agricola in residenziale in contrasto con le previsioni del P.T.C.P., che fissa un regime di mantenimento per l’intera zona.
Orbene, la tesi del ricorrente si sostanzia nell’affermazione per cui, poiché l’intervento è stato realizzato nel rispetto dello strumento urbanistico a seguito di regolare concessione edilizia rilasciata dal comune di Dolcedo, non sussisterebbe la affermata lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio.
In realtà, le norme sulla lottizzazione abusiva (da ultimo, art. 30 D.P.R. 06.06.2001, n. 380) mirano a prevenire e reprimere le condotte materiali e giuridiche intese ad infittire la trama dell’edificato sul territorio, senza che sussista una previa pianificazione capace di tener conto delle conseguenze dell’edificazione in termini di esigenza di nuovi servizi ed opere di urbanizzazione, che il costruttore non ha (e non può avere) adeguatamente riscontrato.
Dunque, la fattispecie di lottizzazione abusiva si riferisce alla mancanza dell'autorizzazione specifica alla lottizzazione, inizialmente prevista dall'art. 28 della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata da tutta la legislazione statale e regionale in tema di pianificazione attuativa, sicché alcun rilievo sanante sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione edilizia (in tal senso cfr. TAR Campania, IV, 10.11.2006, n. 9458, che richiama Cons. di St., V, 26.03.1996 n. 301).
Secondo quanto già più volte affermato in ambito giurisprudenziale (cfr. TAR Lazio, I, 9.10.2009, nn. 9859 e 9860; TAR Puglia-Bari, III, 24.04.2008, n. 1017), la stessa formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere dunque interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Da quanto detto consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire (così TAR Bari, III, n. 1017/2008 cit.) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione medesima va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, sì da non esservi dubbi in ordine alla reale portata dell'intervento edilizio assentito, fermo restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce.
In generale, occorre ribadire i consolidati principi a mente dei quali, ai fini della tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione medesima va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, sì da non esservi dubbi in ordine alla reale portata dell'intervento edilizio assentito, fermo restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce (cfr. ex multis CdS 5657/2012 2 5612/2012)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sopraelevazione e la connessa realizzazione di nuovi volumi integra una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto incompatibile con la qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova costruzione o comunque un ampliamento della costruzione esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire.
A titolo esemplificativo, la sezione ha già ribadito che l'intervento di recupero del sottotetto non può qualificarsi come ristrutturazione, in specie laddove importi sopralevazione e modifica della sagoma dell'edificio preesistente da demolire. L’alterazione dei i volumi e della sagoma dell'edificio preesistente è infatti incompatibile con la disposizione di principio di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, a mente del quale gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione sono ricompresi nell'ambito della ristrutturazione edilizia soltanto ove sia assicurato il rispetto della stessa volumetria e sagoma dell'edificio preesistente.
Analogamente, anche in sede penale è stato ribadito che integra il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) l'esecuzione di un intervento di ampliamento in sopraelevazione di un fabbricato preesistente, non potendo il medesimo ricondursi agli interventi di manutenzione straordinaria.

Al riguardo, costituisce principio generale e consolidato quello a mente del quale la sopraelevazione e la connessa realizzazione di nuovi volumi integra una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto incompatibile con la qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova costruzione o comunque un ampliamento della costruzione esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire.
A titolo esemplificativo, la sezione ha già ribadito che l'intervento di recupero del sottotetto non può qualificarsi come ristrutturazione, in specie laddove importi sopralevazione e modifica della sagoma dell'edificio preesistente da demolire. L’alterazione dei i volumi e della sagoma dell'edificio preesistente, nella specie consentita dalla norma di piano e resa evidente dalle tavole progettuali, è infatti incompatibile con la disposizione di principio di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, a mente del quale gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione sono ricompresi nell'ambito della ristrutturazione edilizia soltanto ove sia assicurato il rispetto della stessa volumetria e sagoma dell'edificio preesistente (cfr. ad es. sent. n. 1658/2012).
Analogamente, anche in sede penale è stato ribadito che integra il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) l'esecuzione di un intervento di ampliamento in sopraelevazione di un fabbricato preesistente, non potendo il medesimo ricondursi agli interventi di manutenzione straordinaria (cfr. ad es. Cass. pen. 25017/2011)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' carente di motivazione il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all'interessato, da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione e al mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
In questa direzione, il provvedimento di diniego di sanatoria, quando si limita ad una apodittica affermazione di principio di contrarietà alla normativa urbanistica e paesaggistica, risulta viziato da difetto di motivazione, atteso che l'obbligo di motivazione, imposto dal principio fondamentale di cui all’invocato art. 3 della l. n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la non compatibilità dell'opera con le esigenze di tutela nel contesto ambientale ed urbanistico.

In linea di diritto, va ribadito il principio a mente del quale è carente di motivazione il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all'interessato, da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione e al mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
In questa direzione, il provvedimento di diniego di sanatoria, quando si limita ad una apodittica affermazione di principio di contrarietà alla normativa urbanistica e paesaggistica, risulta viziato da difetto di motivazione, atteso che l'obbligo di motivazione, imposto dal principio fondamentale di cui all’invocato art. 3 della l. n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la non compatibilità dell'opera con le esigenze di tutela nel contesto ambientale ed urbanistico (cfr. ex multis Tar Campania n. 4531/2012, Tar Liguria n. 1086/2011, Tar Toscana n. 605/2009) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.04.2013 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In ordine alle modalità di conservazione e di custodia delle buste contenenti le offerte (e circa la consistenza del relativo onere di verbalizzazione) si sono manifestati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali; un primo, più rigoroso, secondo cui l’omessa menzione nei verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte determinerebbe di per sé l’illegittimità delle operazioni di gara, indipendentemente dalla dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del loro contenuto, ed un secondo, secondo cui sarebbe invece necessario addurre elementi concreti e specifici tali da far ritenere probabile, o quanto meno possibile, la sostituzione delle buste, la manomissione delle offerte o eventuali altri fatti rilevanti ai fini della regolarità della procedura.
Tale contrasto giurisprudenziale, pur macroscopicamente e suggestivamente apprezzabile in modo diretto sul piano della ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle relative pronunce, si presenta tuttavia più attenuato allorquando si procede ad un esame accurato delle concrete situazioni che ne hanno costituito il substrato materiale, emergendo aspetti peculiari tali da destare quanto meno un ragionevole sospetto circa un’avvenuta effettiva manomissione dei documenti di gara o anche il solo rischio concreto che tale manomissione potesse verificarsi.
Peraltro, nella questione in esame non può prescindersi dal considerare che nelle gare di appalto l’amministrazione ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, del D.lgs. n. 163 del 2006, e che spetta quindi alla stessa, ma solo a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che devono quindi essere quantomeno allegate per dimostrare un interesse non emulativo alla custodia dei plichi possono ragionevolmente ricondursi all’eccessiva durata delle operazioni di gara, all’inversione dell’ordine di valutazione tra offerta tecnica ed economica, alla sottrazione di un documento di gara ad opera di ignoti ovvero alla presenza di effettivi, puntuali e circostanziati elementi di fatto, idonei a poter essere apprezzati come ragionevoli o non illogici e arbitrari indizi o sintomi di una possibile manomissione dei documenti di gara.
In definitiva, in presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi, così che la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto, quali anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte a far ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fine della regolarità della procedura.
A tale ragionevole e condivisibile impostazione si è attenuta questa stessa Sezione anche con la recentissima sentenza n. 978 del 18.02.2013, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, con la quale è stato significativamente ribadito che: “a) la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione;
b) la mancanza delle citate cautele assume solo un ruolo indiziario rispetto alla dimostrazione di concreti elementi che facciano dubitare della corretta conservazione, occorrendo comunque provare che vi sia stata una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi;
c) se il verbale indica che i plichi sono conservati in luogo chiuso, senza ulteriori specificazioni, e se in ciascun verbale si dichiara che i plichi pervenuti risultano tutti integri e debitamente sigillati e firmati sui lembi di chiusura, facendo il verbale prova fino a querela di falso, si deve escludere sia avvenuta una manomissione e che le operazioni di gara siano illegittime;
d) una esegesi integrativa dell’art. 78 del Codice dei contratti pubblici consente di definire una più precisa distribuzione dell’onere della prova tra i due soggetti del rapporto procedimentale, tanto affinché tale integrazione non si risolva nella distorsione dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non addirittura, in un controllo meramente formale della verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti…”.

La Sezione non ignora che in ordine alle modalità di conservazione e di custodia delle buste contenenti le offerte (e circa la consistenza del relativo onere di verbalizzazione) si sono manifestati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali; un primo, più rigoroso (di cui la sentenza impugnata ha fatto applicazione), secondo cui l’omessa menzione nei verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte determinerebbe di per sé l’illegittimità delle operazioni di gara, indipendentemente dalla dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del loro contenuto (cfr., ad es., C.d.S., Sez. V, 28.03.2012, n. 1862), ed un secondo, secondo cui sarebbe invece necessario addurre elementi concreti e specifici tali da far ritenere probabile, o quanto meno possibile, la sostituzione delle buste, la manomissione delle offerte o eventuali altri fatti rilevanti ai fini della regolarità della procedura (ex multis, C.d.S., Sez. V, 18.10.2011, n. 5579 e, più di recente, Sez. III, 14.01.2013, n. 145).
Tale contrasto giurisprudenziale, pur macroscopicamente e suggestivamente apprezzabile in modo diretto sul piano della ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle relative pronunce, si presenta tuttavia più attenuato allorquando si procede ad un esame accurato delle concrete situazioni che ne hanno costituito il substrato materiale, emergendo aspetti peculiari tali da destare quanto meno un ragionevole sospetto circa un’avvenuta effettiva manomissione dei documenti di gara o anche il solo rischio concreto che tale manomissione potesse verificarsi.
Peraltro, com’è stato recentemente osservato (C.d.S., sez. III, 05.02.2013, n. 688), nella questione in esame non può prescindersi dal considerare che nelle gare di appalto l’amministrazione ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, del D.lgs. n. 163 del 2006, e che spetta quindi alla stessa, ma solo a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che devono quindi essere quantomeno allegate per dimostrare un interesse non emulativo alla custodia dei plichi possono ragionevolmente ricondursi all’eccessiva durata delle operazioni di gara, all’inversione dell’ordine di valutazione tra offerta tecnica ed economica (Consiglio di Stato, Sez. V, 28.03.2012, n. 1862), alla sottrazione di un documento di gara ad opera di ignoti ovvero alla presenza di effettivi, puntuali e circostanziati elementi di fatto, idonei a poter essere apprezzati come ragionevoli o non illogici e arbitrari indizi o sintomi di una possibile manomissione dei documenti di gara (Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.07.2011, n. 4487).
In definitiva, in presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi, così che la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto, quali anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte a far ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fine della regolarità della procedura.
A tale ragionevole e condivisibile impostazione si è attenuta questa stessa Sezione anche con la recentissima sentenza n. 978 del 18.02.2013, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, con la quale è stato significativamente ribadito che: “a) la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione;
b) la mancanza delle citate cautele assume solo un ruolo indiziario rispetto alla dimostrazione di concreti elementi che facciano dubitare della corretta conservazione, occorrendo comunque provare che vi sia stata una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi;
c) se il verbale indica che i plichi sono conservati in luogo chiuso, senza ulteriori specificazioni, e se in ciascun verbale si dichiara che i plichi pervenuti risultano tutti integri e debitamente sigillati e firmati sui lembi di chiusura, facendo il verbale prova fino a querela di falso, si deve escludere sia avvenuta una manomissione e che le operazioni di gara siano illegittime;
d) una esegesi integrativa dell’art. 78 del Codice dei contratti pubblici consente di definire una più precisa distribuzione dell’onere della prova tra i due soggetti del rapporto procedimentale, tanto affinché tale integrazione non si risolva nella distorsione dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non addirittura, in un controllo meramente formale della verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti…
” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sebbene, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa, postulano che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità e che, conseguentemente, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione stessa, è stato tuttavia anche sottolineato che tale principio è soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta, dovendo in questo caso essere minimo l’intervallo tra una seduta e predisporre adeguate garanzie di conservazione dei plichi.
Quanto al secondo profilo la Sezione osserva che sebbene, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa, postulano che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità e che, conseguentemente, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione stessa, è stato tuttavia anche sottolineato che tale principio è soltanto tendenziale (C.d.S., sez. V, 25.07.2006, n. 4657; sez. IV, 05.10.2005, n. 5360) ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta (C.d.S., sez. V, 23.11.2010, n. 8155; 03.01.2002, n. 5; 16.11.2000, n. 6388), dovendo in questo caso essere minimo l’intervallo tra una seduta e predisporre adeguate garanzie di conservazione dei plichi (C.d.S., sez. III, 31.12.2012, n. 6714).
Nel caso in esame l’attività di valutazione delle offerte tecniche presentate dalle imprese partecipanti alla gara è durata meno di due mesi, in particolare dal 30.11.2011 (verbale n. 1) al 27.01.2012 (verbale n. 13, laddove nella seduta del 24.02.2012, verbale n. 14, si è proceduto all’apertura delle buste contenente l’offerta economica), periodo che, anche con riferimento alla complessità delle operazioni svolte (di cui i singoli verbali delle sedute danno ampiamente atto), non può essere considerato eccessivo, arbitrario o illogico (anche in ragione dell’intervenuta necessità di sostituire due componenti della commissione), a nulla rilevando che i singoli verbali non contengano alcuna menzione circa la necessità di aggiornare di volta in volta l’attività della commissione, fissando una nuova riunione; né d’altra parte è logico e ragionevole ritenere che le complesse e articolate operazioni di valutazione delle offerte (indicate nei verbali della commissione) potessero effettivamente esaurirsi in un’unica riunione.
Non sussiste pertanto la dedotta violazione del principio di concentrazione e continuità delle operazioni di valutazione, tanto più che, come è già stato evidenziato, dal solo numero delle sedute della commissione di gara non possono farsi discendere sospetti circa la regolarità delle operazioni di valutazione (C.d.S., sez. III, 26.09.2012, n. 5105)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Se non può dubitarsi dell’esistenza di un generale principio regolatore delle gare pubbliche che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi di valutazione delle offerte, principio la cui ratio deve essere rintracciata nell’esigenza di assicurare la più ampia possibilità di partecipazione delle imprese alle gare attraverso la rigida separazione tra requisiti di partecipazione e requisiti dell’offerta e dell’aggiudicazione, tale principio non può tuttavia ritenersi eluso o violato allorché gli aspetti organizzativi non sono destinati ad essere apprezzati in quanto tali, in modo avulso dall’offerta, come dato relativo alla mera affidabilità soggettiva, ma piuttosto quale garanzia della prestazione del servizio secondo le modalità prospettate nell’offerta, come elemento cioè incidente sulle modalità esecutive dello specifico servizio e quindi come parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta.
In realtà, se non può dubitarsi dell’esistenza di un generale principio regolatore delle gare pubbliche che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi di valutazione delle offerte, principio la cui ratio deve essere rintracciata nell’esigenza di assicurare la più ampia possibilità di partecipazione delle imprese alle gare attraverso la rigida separazione tra requisiti di partecipazione e requisiti dell’offerta e dell’aggiudicazione (ex multis, C.d.S., sez. III, 18.06.2012, n. 3550; sez. VI, 04.10.2011, n. 5434; sez. V, 08.09.2010, n. 6490), tale principio non può tuttavia ritenersi eluso o violato allorché gli aspetti organizzativi non sono destinati ad essere apprezzati in quanto tali, in modo avulso dall’offerta, come dato relativo alla mera affidabilità soggettiva, ma piuttosto quale garanzia della prestazione del servizio secondo le modalità prospettate nell’offerta, come elemento cioè incidente sulle modalità esecutive dello specifico servizio e quindi come parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta (C.d.S., sez. V, 23.01.2012, n. 266) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando viene presentata domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), nel presupposto, così come affermato da ricorrente giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi”.
Deve rilevarsi, infatti che, quando viene presentata domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), nel presupposto, così come affermato da ricorrente giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi” (Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012, n. 5553) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: L'art. 13 del codice dei contratti pubblici esclude dal diritto di accesso alcuni specifici atti, tra i quali appunto “i pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all’applicazione del presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici”.
Interpretando detto art. 13, il giudice amministrativo ha innanzi tutto precisato che la non ostensibilità di detti pareri è stata prevista sicuramente perché essi, se riferiti ad un contenzioso potenziale o attuale con l’appaltatore, sono investiti dalle stesse esigenze di riservatezza che tutelano le ragioni di ordine patrimoniale della stazione appaltante; detta giurisprudenza ha, inoltre, anche precisato che tale disposizione, fissando una regola che appare sostanzialmente ricognitiva dei principi applicabili in questa materia, deve essere interpretata in modo restrittivo, rappresentando una norma eccezionale, in quanto derogatoria rispetto alle ordinarie regole in materia di accesso, con la conseguenza che tale normativa deve intendersi riferibile alla sola fase di stipulazione dei contratti pubblici di cui all'art. 12 del d.lgs. 163/2006 e non a tutta quella anteriore, per cui risultano accessibili quei pareri legali che, anche per l’effetto di un richiamo esplicito nel provvedimento finale, rappresentano un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo in corso e che, una volta acquisiti dall’Amministrazione, vengono ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali e, quindi, costituenti uno degli elementi che condizionano la scelta dell’Amministrazione medesima.
In estrema sintesi, in materia di accesso ai pareri legali forniti alla P.A., occorre distinguere due diverse ipotesi:
a) l’ipotesi in cui la consulenza legale esterna si inserisce nell’ambito di un’apposita istruttoria procedimentale, nel senso che il parere è richiesto al professionista con l’espressa indicazione della sua funzione endoprocedimentale ed è poi richiamato nella motivazione dell’atto finale; ed in tale ipotesi la consulenza legale, pur traendo origine da un rapporto privatistico normalmente caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra professionista e cliente, è soggetta all’accesso perché oggettivamente correlata ad un procedimento amministrativo;
b) l’ipotesi in cui la consulenza sia richiesta dopo l’avvio di un procedimento contenzioso, o dopo l’inizio di tipiche attività precontenziose al fini di stabilire la strategia difensiva dell’Amministrazione, per cui il parere del legale non è affatto destinato a sfociare in una determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire all’ente pubblico tutti gli elementi tecnico-giuridici utili per tutelare i propri interessi; in questa ipotesi, tali consulenze restano caratterizzate dalla riservatezza, che mira a tutelare non solo l’opera intellettuale del legale, ma anche la stessa posizione della P.A., la quale, esercitando il proprio diritto di difesa protetto costituzionalmente, deve poter fruire di una tutela non inferiore a quella di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento.

Relativamente, invece, alla richiesta di accesso al predetto parere legale, va subito precisato che il ricorso è fondato.
L’Amministrazione comunale -come sopra esposto- ha respinto l’istanza di accesso a tale parere legale in quanto tale atto doveva intendersi “sottratto all’accesso, in virtù dell’art. 13, comma 5, lett. c), del D.Lgs. 163/2006”; negli scritti difensivi ha meglio precisato che con tale parere era stata suggerita la linea di condotta dell’Ente in una fase precontenziosa, per cui tale parere non costituiva -così come ipotizzato nel gravame- un “passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo in corso”, ma che atteneva “strettamente” ai rapporti tra l’Amministrazione ed il proprio legale, per cui, in base alla norma in questione era di certo sottratto all’accesso.
Tale art. 13 del codice dei contratti pubblici esclude, invero, dal diritto di accesso alcuni specifici atti, tra i quali appunto “i pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all’applicazione del presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici”.
Ora va al riguardo ricordato che, interpretando detto art. 13, il giudice amministrativo ha innanzi tutto precisato che la non ostensibilità di detti pareri è stata prevista sicuramente perché essi, se riferiti ad un contenzioso potenziale o attuale con l’appaltatore, sono investiti dalle stesse esigenze di riservatezza che tutelano le ragioni di ordine patrimoniale della stazione appaltante; detta giurisprudenza ha, inoltre, anche precisato che tale disposizione, fissando una regola che appare sostanzialmente ricognitiva dei principi applicabili in questa materia, deve essere interpretata in modo restrittivo, rappresentando una norma eccezionale, in quanto derogatoria rispetto alle ordinarie regole in materia di accesso, con la conseguenza che tale normativa deve intendersi riferibile alla sola fase di stipulazione dei contratti pubblici di cui all'art. 12 del d.lgs. 163/2006 e non a tutta quella anteriore, per cui risultano accessibili quei pareri legali che, anche per l’effetto di un richiamo esplicito nel provvedimento finale, rappresentano un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo in corso e che, una volta acquisiti dall’Amministrazione, vengono ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali e, quindi, costituenti uno degli elementi che condizionano la scelta dell’Amministrazione medesima (Cons. St., sez. V, 23.06.2011, n. 3812 e sez. VI, 30.09.2010, n. 7237).
E va al riguardo anche ricordato che tale ultima decisione è stata resa proprio in ordine ad una fattispecie per molti versi analoga a quella ora all’esame, nella quale il parere legale richiesto era stato richiamato in un atto di autotutela.
In estrema sintesi, in materia di accesso ai pareri legali forniti alla P.A., occorre distinguere due diverse ipotesi:
a) l’ipotesi in cui la consulenza legale esterna si inserisce nell’ambito di un’apposita istruttoria procedimentale, nel senso che il parere è richiesto al professionista con l’espressa indicazione della sua funzione endoprocedimentale ed è poi richiamato nella motivazione dell’atto finale; ed in tale ipotesi la consulenza legale, pur traendo origine da un rapporto privatistico normalmente caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra professionista e cliente, è soggetta all’accesso perché oggettivamente correlata ad un procedimento amministrativo;
b) l’ipotesi in cui la consulenza sia richiesta dopo l’avvio di un procedimento contenzioso, o dopo l’inizio di tipiche attività precontenziose al fini di stabilire la strategia difensiva dell’Amministrazione, per cui il parere del legale non è affatto destinato a sfociare in una determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire all’ente pubblico tutti gli elementi tecnico-giuridici utili per tutelare i propri interessi; in questa ipotesi, tali consulenze restano caratterizzate dalla riservatezza, che mira a tutelare non solo l’opera intellettuale del legale, ma anche la stessa posizione della P.A., la quale, esercitando il proprio diritto di difesa protetto costituzionalmente, deve poter fruire di una tutela non inferiore a quella di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento.
Ciò premesso, va evidenziato che nel caso ora esame ricorre la prima delle ipotesi sopra indicate, in quanto il parere legale richiesto all’avv. De Carolis, di natura endoprocedimentale, è oggettivamente correlato ad un procedimento amministrativo ed è stato poi espressamente richiamato nella motivazione dell’atto di revoca dell’aggiudicazione. In tale atto, invero, si fa espresso riferimento a tale parere legale, che -come si legge nella parte motiva del provvedimento- è stato reso proprio “in ordine all’esistenza dei presupposti di legge per esercitare il potere di autotutela mediante revoca per ragioni economiche sopravvenute” della determinazione di aggiudicazione della gara; per cui tale consulenza legale, pur traendo origine da un rapporto privatistico normalmente caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra professionista e cliente, deve ritenersi soggetta all’accesso perché oggettivamente correlata al procedimento amministrativo in questione, conclusosi con l’atto di revoca dell’aggiudicazione della gara.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso proposto deve, pertanto, essere accolto e, per l’effetto, deve ordinarsi al Comune di consentire alla ricorrente l’accesso a tale parere legale (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.04.2013 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALITar veneto. Sale giochi, niente limiti dai comuni.
Nessuna possibilità per i comuni di porre limiti all'apertura delle sale giochi, nemmeno di carattere urbanistico. Ciò in quanto la competenza statale legislativamente stabilita, esclude che pari competenza possa essere esercitata dal comune.

È quanto ha sancito il TAR Veneto, Sez. III, con le sentenze 22.04.2013 n. 609 e 22.04.2013 n. 610 disponendo l'annullamento dei provvedimenti adottati dal comune di Vicenza.
Tale ente, attraverso uno specifico regolamento per le sale giochi e le norme tecniche di Prg aveva cercato di porre un freno all'apertura di nuove sale giochi, prevedendo un limite di distanza tra le stesse con i luoghi cosiddetti sensibili. Tutto ciò, al fine di contenere il preoccupante aumento della ludopatia.
Ma, secondo il tribunale lagunare, dalle più recenti disposizioni statali si ricava il principio che gli strumenti pianificatori di contrasto alla ludopatia devono essere stabiliti a livello nazionale o comunque essere inseriti nel sistema della pianificazione nazionale (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: L’atto di convalida ha effetto retroattivo, con la conseguenza che opera positivamente anche sugli atti connessi rispetto all’atto convalidato i quali, in conseguenza del vizio di incompetenza, potevano risultare inficiati per illegittimità derivata.
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Nell’ordinamento non vi è una assoluta separazione tra organi di indirizzo ed organi di gestione, come è attestato dall’esistenza di molteplici fattispecie in cui sono ravvisabili delle forme di “interferenza funzionale”, delle quali è un indice la stessa possibilità di attivare in casi predeterminati l’esercizio di poteri sostitutivi prevista proprio dall’art. 14, comma 3, del Dlgs. n. 165 del 2001, e deve pertanto ammettersi anche la possibilità di ratificare, da parte degli organi di gestione, gli atti viziati da incompetenza relativa di tipo infrasoggettivo, nonostante siano stati adottati da organi di indirizzo.
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La ratifica di un atto amministrativo non richiede una specifica motivazione sull'interesse pubblico in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare.
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La facoltà di ratificare gli atti viziati da incompetenza in pendenza di giudizio sanandone l’illegittimità ex tunc è espressamente prevista dal legislatore con l’art. 6 della legge n. 249 del 1986, ed è giustificata dalla necessità di coniugare il doveroso ripristino della legalità dell’azione amministrativa, con i principi di economicità, di efficacia, di imparzialità e buon andamento, nonché di economicità dei mezzi giuridici e processuali.

L’affermazione secondo la quale gli atti di convalida hanno avuto ad oggetto l’intera procedura e non solo l’eliminazione di vizi formali, ovvero fatti storici non rimediabili se non mediante la rinnovazione degli atti, è priva di riscontri.
Infatti il decreto n. 40 del 02.02.2012 e il decreto n. 95 del 28.03.2012, hanno ad oggetto la convalida di singoli provvedimenti.
In particolare il primo si limita a convalidare la nomina della commissione giudicatrice, il secondo l’aggiudicazione definitiva (oltre all’affidamento della rappresentanza in giudizio ad un patrocinatore), e non corrisponde pertanto al vero l’assunto secondo il quale sarebbero stati indirettamente convalidati atti non ripetibili posti in essere da organi incompetenti.
Infatti l’atto di convalida ha effetto retroattivo, con la conseguenza che opera positivamente anche sugli atti connessi rispetto all’atto convalidato i quali, in conseguenza del vizio di incompetenza, potevano risultare inficiati per illegittimità derivata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.09.2009, n. 3371).
1.9 Con il ventiseiesimo motivo la parte ricorrente sostiene che dal principio di non avocabilità degli atti dirigenziali da parte degli organi politici sancito negli artt. 4 e 14, comma 3, del Dlgs. n. 165 del 2001, e dall’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2000, dovrebbe ricavarsi implicitamente la conclusione che gli atti posti in essere dagli organi di indirizzo non sono ratificabili dagli organi di gestione.
Con il ventottesimo motivo, analogamente, lamenta che gli atti non sarebbero convalidabili perché posti in essere da organi di indirizzo.
Le censure sono infondate perché nell’ordinamento non vi è una assoluta separazione tra organi di indirizzo ed organi di gestione, come è attestato dall’esistenza di molteplici fattispecie in cui sono ravvisabili delle forme di “interferenza funzionale”, delle quali è un indice la stessa possibilità di attivare in casi predeterminati l’esercizio di poteri sostitutivi prevista proprio dall’art. 14, comma 3, del Dlgs. n. 165 del 2001, e deve pertanto ammettersi anche la possibilità di ratificare, da parte degli organi di gestione, gli atti viziati da incompetenza relativa di tipo infrasoggettivo, nonostante siano stati adottati da organi di indirizzo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2009, n. 2840; Tar Liguria, Sez. I, 07.04.2006, n. 353; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.07.1992, n. 647, Tar Puglia, Lecce, 18.10.2003, n. 6946).
1.10 Con il ventinovesimo motivo, la ricorrente lamenta che gli atti di convalida non sono sorretti da una motivazione circa le ragioni di interesse pubblico che li giustificano e non compiono alcuna comparazione con il suo interesse.
La doglianza va disattesa in primo luogo perché tali atti sono espressamente motivati con riferimento all’interesse dell’ente all’esecuzione del contratto con il soggetto che ha presentato l’offerta risultata più vantaggiosa al termine della procedura di gara, e tale motivazione appare sufficiente in considerazione degli oneri che derivano, sul piano organizzativo e del successivo possibile contenzioso che di solito consegue, da una ripetizione della gara determinata solo da un vizio formale, quale è quello di incompetenza.
In secondo luogo perché comunque, come chiarito dalla giurisprudenza, la ratifica di un atto amministrativo non richiede una specifica motivazione sull'interesse pubblico (cfr. Consiglio Stato Sez. V, 30.08.2005, n. 4419) in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 07.09.2001, n. 771; Consiglio di Stato , Sez. VI, 24.09.1983, n. 683).
1.11 Con il trentesimo motivo la parte ricorrente sostiene che gli atti di ratifica sono illegittimi perché la convalida non è ammessa in corso di causa.
L’assunto è privo di fondamento in quanto la facoltà di ratificare gli atti viziati da incompetenza in pendenza di giudizio sanandone l’illegittimità ex tunc è espressamente prevista dal legislatore con l’art. 6 della legge n. 249 del 1986, ed è giustificata dalla necessità di coniugare il doveroso ripristino della legalità dell’azione amministrativa, con i principi di economicità, di efficacia, di imparzialità e buon andamento, nonché di economicità dei mezzi giuridici e processuali (cfr. Tar. Campania, Napoli, Sez. I, 11.07.2012, n. 3350).
1.12 La tesi secondo la quale la ratifica di cui all’art. 6 della legge n. 249 del 1968 non è applicabile ad amministrazioni diverse da quelle statali, enunciata nell’ambito del venticinquesimo motivo, va invece respinta perché, come chiarito dalla giurisprudenza, tale norma ha portata generale (cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, 12.02.1986, n. 83).
Quanto sopra delineato circa l’infondatezza delle censure proposte avverso gli atti di ratifica comporta che questi, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 349 del 1968, esplichino l’effetto di sanare ex tunc il dedotto vizio di incompetenza, determinando l’improcedibilità delle censure sopra esaminate.
...
3. Con il ventiquattresimo e trentunesimo motivo la parte ricorrente sostiene che la convalida è di per sé sintomatica dello sviamento dell’azione amministrativa e della mancanza di imparzialità, perché in tal modo viene avvantaggiata la controinteressata, e in tal senso si duole in particolare dell’operato del direttore dell’ente.
L’assunto non può essere condiviso.
Infatti dalla documentazione versata in atti non emerge alcuna prova circa l’esistenza di una volontà di voler favorire la controinteressata, e in tal senso non può fondatamente essere invocato l’esercizio del potere di convalida, in quanto, come è stato osservato, è del tutto naturale e fisiologico che l'opera di rimozione dei vizi originariamente posseduti dall'atto da sanarsi conduca ad una conferma di quanto in precedenza disposto, e che ciò abbia come conseguenza il consolidarsi della posizione del destinatario dell’atto convalidato, ma da ciò non è logico ricavare l’esistenza di un’univoca e distorta finalità di avvantaggiare tale soggetto, né è sostenibile che l’esercizio di tale potere discrezionale previsto dalla legge possa essere paralizzato in ragione dell’esistenza di soggetti controinteressati (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.10.2011, n. 5538; Tar Lazio, Roma, 23.07.1986, n. 1212) .
E’ invece inammissibile l’autonoma e diversa censura dedotta per la prima volta a pag. 4 della memoria del 04.05.2012, con la quale la parte ricorrente lamenta il mancato rispetto della disposizione di cui all’art. 13 dello statuto dell’ente, secondo la quale se il direttore dell’ente è competente ad adottare l’aggiudicazione definitiva, la presidenza della commissione deve essere attribuita al dirigente del settore interessato, perché non contenuta in un atto notificato alle controparti.
Per completezza va tuttavia soggiunto che la censura appare anche infondata, perché la sua operatività presuppone la presenza in organico del direttore e di entrambi i dirigenti dei due settori.
Quando, come nel caso di specie, allo stesso soggetto sia attribuito il doppio incarico di direttore e di dirigente del settore competente per la gara, è plausibile l’interpretazione, non contrastante con alcuna norma di rango primario, secondo la quale la presidenza della commissione e la competenza all’approvazione degli atti di gara possono essere attribuiti alla medesima persona (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 22.04.2013 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 84, comma 4, del Dlgs. n. 163 del 2006, sancisce l’incompatibilità tra componente della commissione giudicatrice e lo svolgimento di funzioni relativamente al contratto, solo per i commissari diversi dal presidente, e il cumulo delle funzioni nella stessa persona non comporta una violazione dei principi di imparzialità e buona amministrazione, in quanto è conforme alla normativa applicabile all’ente (cfr. il Dlgs. n. 207 del 2001 e l’art. 13 dello statuto) la quale, mutuata da quella degli enti locali (cfr. l’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2000 per il quale al dirigente è attribuita la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la responsabilità delle procedure d'appalto e di concorso e la stipulazione dei contratti) e del codice degli appalti (cfr. art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006), demanda al dirigente la presidenza della commissione e l’esercizio delle funzioni inerenti al procedimento, con l’ulteriore precisazione che l’assegnazione della responsabilità delle singole fasi procedimentali e dell’unitario procedimento di gara in capo al dirigente non confligge con il principio di separazione delle funzioni tra controllato e controllore perché l’approvazione degli atti di gara non è tecnicamente riconducibile alla nozione di controllo.
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La previsione dello statuto dell’ente che individua nel direttore colui che presiede la commissione di gara è conforme a quanto prescritto dall’art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2001, che individuano in via preventiva ex lege nel dirigente il presidente della commissione.
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Tenuto conto del contenuto del contratto che non presuppone la conoscenza di complesse e specifiche cognizioni tecniche, e della circostanza che non sono stati nominati soggetti estranei alla pubblica amministrazione scelti tra liberi professionisti, si può presumere, in assenza di una puntuale contestazione, che tali soggetti (ndr: i membri della commissione di gara) siano in possesso di un’adeguata esperienza, ed è da escludere fosse necessaria al riguardo un’estesa motivazione nell’atto di nomina.

2. Le restanti censure contenute negli ulteriori motivi di ricorso sono infondate e devono essere respinte.
Con il diciassettesimo e diciottesimo motivo la ricorrente sostiene che a seguito delle ratifiche, in capo al direttore sono venute a concentrarsi le figure di colui che indice la gara, nomina e preside la commissione, ed infine approva gli atti di gara, generando una sorta di “confusione” procedimentale derivante dalla sovrapposizione di ruoli, e di indebita concentrazione delle funzioni di controllato e di controllore.
Tali censure devono essere respinte perché l’art. 84, comma 4, del Dlgs. n. 163 del 2006, sancisce l’incompatibilità tra componente della commissione giudicatrice e lo svolgimento di funzioni relativamente al contratto, solo per i commissari diversi dal presidente, e il cumulo delle funzioni nella stessa persona non comporta una violazione dei principi di imparzialità e buona amministrazione, in quanto è conforme alla normativa applicabile all’ente (cfr. il Dlgs. n. 207 del 2001 e l’art. 13 dello statuto) la quale, mutuata da quella degli enti locali (cfr. l’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2000 per il quale al dirigente è attribuita la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la responsabilità delle procedure d'appalto e di concorso e la stipulazione dei contratti) e del codice degli appalti (cfr. art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006), demanda al dirigente la presidenza della commissione e l’esercizio delle funzioni inerenti al procedimento (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12.11.2012, n. 5703; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 14.06.2012, n. 1183; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2445; Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2011 n. 5406; Consiglio di Stato, Sez. V, 22.06.2010, n. 3890), con l’ulteriore precisazione che l’assegnazione della responsabilità delle singole fasi procedimentali e dell’unitario procedimento di gara in capo al dirigente non confligge con il principio di separazione delle funzioni tra controllato e controllore perché l’approvazione degli atti di gara non è tecnicamente riconducibile alla nozione di controllo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12.06.2009, n. 3716; id. 18.09.2003, n. 5322).
...
5. Con il terzo e il ventiduesimo motivo la parte ricorrente lamenta la violazione del principio della posteriorità della nomina della commissione rispetto alla presentazione delle offerte, perché lo statuto individua nel direttore, nella qualità di presidente, un componente fisso della commissione.
La doglianza va respinta perché la commissione è stata nominata con atto n. 26 del 26.09.2011, dopo la scadenza del termine del 23.09.2011 per la presentazione delle offerte, e la previsione dello statuto dell’ente che individua nel direttore colui che presiede la commissione, è conforme a quanto prescritto dall’art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2001, che individuano in via preventiva ex lege nel dirigente il presidente della commissione (cfr. per un identica censura Tar Puglia, Lecce, 14 agosto 2007, n. 3077, punto 3.1. in diritto).
...
7. Con il quinto e il ventiduesimo motivo la ricorrente lamenta genericamente la mancanza di professionalità dei componenti della commissione.
La censura va disattesa in quanto, oltre al presidente della commissione, che è il direttore per statuto dell’ente, sono stati nominati componenti soggetti legati da un rapporto di servizio con la stessa amministrazione (il dott. Zanutto responsabile dell’ufficio qualità e già direttore di enti simili all’I.S.R.A.A.), o con altre amministrazioni (la dott.ssa Santin direttrice di altra struttura per anziani).
Pertanto, tenuto conto del contenuto del contratto che non presuppone la conoscenza di complesse e specifiche cognizioni tecniche, e della circostanza che non sono stati nominati soggetti estranei alla pubblica amministrazione scelti tra liberi professionisti, si può presumere, in assenza di una puntuale contestazione, che tali soggetti siano in possesso di un’adeguata esperienza, ed è da escludere fosse necessaria al riguardo un’estesa motivazione nell’atto di nomina (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 07.12.2011, n. 6434; Consiglio di Stato, Sez. V, 28.03.2008, n. 1332; Tar Lazio, Roma, Sez. III Ter, 04.02.2008, n. 905) (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 22.04.2013 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché la servitù di uso pubblico possa dirsi sorta occorre che il bene privato sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato.
Anche la Cassazione ha da ultimo ribadito che la servitù di uso pubblico è caratterizzata dall'utilizzazione da parte di una collettività indeterminata di persone del bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della stessa.
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali “ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano necessariamente interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918, “Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza.

Oggetto del presente giudizio è l’ordinanza sindacale n. 45 del 14.09.1995 con la quale il Comune di Trevignano ha ingiunto a U.T. di demolire la recinzione in muratura posta a delimitazione del fabbricato di civile abitazione, con annesso terreno, di sua proprietà, censito al foglio 20, mappale n. 123, di detto comune.
Il provvedimento in questione si fonda sullo sconfinamento di tale recinzione su “un tratto di strada pubblica e la sede di corso d’acqua demaniale”, e cioè, rispettivamente, sulla strada vicinale “della Brentella”, qualificata nel provvedimento come strada vicinale gravata da servitù d’uso pubblico e “catastalmente” pubblica, nonché su un canale consorziale.
...
L’elemento di fatto valorizzato dal TAR non è infatti sufficiente a costituire una servitù di uso pubblico.
Nel supplemento di istruttoria richiamato nell’ordine di demolizione si afferma che, in base alle mappe catastali e a non meglio precisate “informazioni assunte sul posto” la strada risulta essere utilizzata “dai proprietari dei fondi latistanti”, nonché dal personale dei consorzi di gestione dei canali irrigui (Solagna e della Vittoria) per la normale manutenzione.
Tuttavia, per giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, ancora di recente riaffermata, e dalla quale non vi è motivo di discostarsi, affinché il diritto reale in questione possa dirsi sorto occorre che il bene privato sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato (Sez. V, 14.02. 2012 n. 728; in senso conforme: Sez. IV, 15.05.2012, n. 2760; Sez. V, 05.12.2012, n. 6242, quest’ultima citata dall’appellante).
L’indirizzo ora citato è perfettamente conforme a quello della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la servitù di uso pubblico è caratterizzata dall'utilizzazione da parte di una collettività indeterminata di persone del bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della stessa (Sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 333).
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali “ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste debbano necessariamente interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918, “Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza.
Non è dunque sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale.
Del resto, l’amministrazione resistente, che della prova dell’uso generale è onerata, non ha in alcun modo riferito di segnalazioni o esposti della cittadinanza tendenti a denunciare un diminuito godimento del diritto transito per effetto della (pur risalente) opera muraria oggetto dell’ordine di demolizione.
Va infine dato atto che nel supplemento di istruttoria si desume l’uso pubblico dall’inserimento della strada vicinale nello “strumento urbanistico vigente che individua un “percorso ambientale” che collega la strada comunale Via alloro con la strada provinciale Via Villette”.
Ma anche questo elemento è all’evidenza del tutto inidoneo a provare l’asservimento effettivo all’uso della collettività.
Pertanto, il provvedimento qui impugnato è effettivamente contrastante con l’art. 825 cod. civ. e carente di istruttoria e motivazione sullo specifico punto dell’asservimento all’uso pubblico della strada vicinale.
Tale vizio risulta ancora una volta inficiante in modo decisivo l’ordine di demolizione impugnato, perché lo priva di un fondamentale presupposto fattuale. Esso fa infatti emergere, al di là della sintomatica contraddittorietà in ordine alla natura di tale strada quale incontestabilmente emergente nella vicenda qui in decisione, l’assenza di un abuso sanzionabile con l’ordine di demolizione, visto che per quanto concerne l’altra situazione di illegalità in detto provvedimento enucleata, consistente nello sconfinamento sul canale consorziale, è stata rimossa in seguito all’ottenimento della concessione idraulica in sanatoria, come debitamente comprovato in via documentale dall’appellante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARISentenza cds. Locali, il nulla osta non serve.
La qualificazione del locale come circolo privato o locale pubblico, è attualmente irrilevante ai fini del legittimo esercizio dell'attività di somministrazione essendo sufficiente, per il loro avvio, la comunicazione di inizio attività.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.04.2013 n. 2207.
L'art. 64 del dlgs n. 59/2010, che disciplinava al tempo la materia della somministrazione e che richiedeva l'autorizzazione per l'apertura degli esercizi pubblici, ha precisato la sezione, è stato sostituito dall'art. 2, comma 2, lett. a), del dlgs 147/2012, che ne consente l'avvio a seguito di mera comunicazione di inizio attività. Ne consegue che la qualificazione del locale come circolo privato o locale pubblico, è irrilevante (articolo ItaliaOggi del 04.05.2013).

APPALTI: La partecipante ad una gara che sia stata legittimamente esclusa, non ha legittimazione a censurare l’ammissione alla gara dell’aggiudicataria e gli atti di gara, assumendo la posizione del quisquis de populo, non potendo trarre alcun vantaggio dall’eventuale fondatezza delle censure.
Nel caso in cui l’amministrazione abbia escluso dalla gara il concorrente, questi non ha la legittimazione ad impugnare l’aggiudicazione al controinteressato, a meno che non ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità dell’esclusione. Infatti, la determinazione di esclusione, non impugnata o non annullata, cristallizza definitivamente la posizione sostanziale del concorrente, ponendolo nelle stesse condizioni di colui che sia rimasto estraneo alla gara, non avendo un’aspettativa diversa e maggiormente qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla gara.
Ne deriva, pertanto, che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui impugnazione sia stata respinta.

Il disciplinare di gara, alla sezione XII “Esclusione dalla gara” prevedeva espressamente che “sono escluse altresì le offerte la cui offerta tecnica contenga proposte di variante che…4) rendano palese, direttamente o indirettamente, l’offerta economica o temporale”.
La testuale previsione della lex di gara riferita a qualsiasi valorizzazione economica della proposta di variante, toglie pregio alla censura, essendo del tutto irrilevante che i prezzi indicati fossero quelli del prezziario regionale e che non fossero scontati, essendo comunque idonei a consentire la ricostruzione del prezzo indicato nell’offerta economica.
A tal punto va confermata la sentenza di primo grado, dovendosi ritenere illegittimamente ammessa alla gara l’a.t.i. Rearco, cui consegue l’inammissibilità delle censure dedotte con il ricorso incidentale di primo grado e riproposte in appello, atteso che la partecipante ad una gara che sia stata legittimamente esclusa, non ha legittimazione a censurare l’ammissione alla gara dell’aggiudicataria e gli atti di gara, assumendo la posizione del quisquis de populo, non potendo trarre alcun vantaggio dall’eventuale fondatezza delle censure (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria n. 11 del 2010).
A termini della citata sentenza dell’Adunanza plenaria, nel caso in cui l’amministrazione abbia escluso dalla gara il concorrente, questi non ha la legittimazione ad impugnare l’aggiudicazione al controinteressato, a meno che non ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità dell’esclusione. Infatti, la determinazione di esclusione, non impugnata o non annullata, cristallizza definitivamente la posizione sostanziale del concorrente, ponendolo nelle stesse condizioni di colui che sia rimasto estraneo alla gara, non avendo un’aspettativa diversa e maggiormente qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla gara.
Ne deriva, pertanto, che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui impugnazione sia stata respinta (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La giurisprudenza ha riconosciuto il criterio della vicinitas come idoneo a legittimare l'impugnazione di singoli titoli edilizi, ma tale arresto deve ritenersi recessivo allorché oggetto di contestazione giudiziale sia la disciplina urbanistica -contenuta in uno strumento attuativo- di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente.
In questo caso il criterio della vicinitas non è sufficiente a fornire le condizioni dell'azione, dal momento che non esaurisce gli ulteriori profili di interesse all'impugnazione. Soccorre, in tali evenienze, il principio per cui per proporre impugnativa è necessario che la nuova destinazione urbanistica che concerne un'area non appartenente al ricorrente incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente, dovendo di tanto l'interessato fornire se non una rigorosa dimostrazione, almeno idonei principi di prova.

A tal proposito, nel richiamare i condivisibili principi (già fatti propri dal Tar, per il vero) contenuti in ultimo nella sentenza della Sezione 28.05.2012 n. 3137 in punto di requisiti legittimanti la impugnazione degli strumenti urbanistici attuativi (si veda anche, in proposito: “la giurisprudenza ha riconosciuto il criterio della vicinitas come idoneo a legittimare l'impugnazione di singoli titoli edilizi, ma tale arresto deve ritenersi recessivo allorché oggetto di contestazione giudiziale sia la disciplina urbanistica -contenuta in uno strumento attuativo- di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente. In questo caso il criterio della vicinitas non è sufficiente a fornire le condizioni dell'azione, dal momento che non esaurisce gli ulteriori profili di interesse all'impugnazione. Soccorre, in tali evenienze, il principio per cui per proporre impugnativa è necessario che la nuova destinazione urbanistica che concerne un'area non appartenente al ricorrente incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente, dovendo di tanto l'interessato fornire se non una rigorosa dimostrazione, almeno idonei principi di prova” Cons. Stato Sez. IV, 15.11.2011, n. 6016) evidenzia il Collegio che nel ricorso di primo grado non era stata punto approfondita -e neppure accennata, per il vero- la problematica concernente il pregiudizio arrecato all’appellante dalla avversata variante (e men che meno con riguardo alle aree di propria pertinenza ulteriori rispetto a quelle oggetto della domanda di retrocessione) .
Costituisce jus receptum quello per cui la allegazione dell’interesse tutelato (o del bene della vita che si intende perseguire ovvero difendere) è connotato essenziale del ricorso di primo grado, in carenza del quale esso va dichiarato inammissibile (ex multis: “colui che invoca l'inadempimento di una norma di azione da parte della pubblica amministrazione deve dedurre innanzi al Giudice elementi idonei a rappresentare, quale conseguenza della regola che si assume violata, la lesione di un bene della vita ovvero di un interesse anche solo strumentale alla sua realizzazione, in mancanza della cui allegazione deve ritenersi azionata non una posizione soggettiva di interesse legittimo, quanto una mera pretesa alla legalità della azione amministrativa” -TAR Lombardia Milano Sez. III Sent., 24.07.2008, n. 2979-) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2013 n. 2173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIE' legittima l'esclusione dalla gara d'appalto per i "lavori di ristrutturazione e riconversione" di un immobile vincolato poiché appare perfettamente logico e conforme alla legge che incida gravemente sulla moralità professionale di chi intende, fra l’altro, gestire un bene vincolato dalla Soprintendenza dopo essere stato condannato con sentenza per aver distrutto un immobile in zona vincolata.
... per l'annullamento:
Quanto al ricorso introduttivo, della nota dell'Autorità Portuale di Trieste dd. 13.11.2009, con cui la ricorrente è stata esclusa dalla procedura di affidamento dei "lavori di ristrutturazione e riconversione in Stazione Marittima del capannone n. 42 sul Molo Bersaglieri di Trieste"; della lex specialis di gara; nonché del provvedimento di aggiudicazione della procedura.
Quanto ai motivi aggiunti depositati in data 16.3.2010, con i quali si impugnano il verbale interno della commissione nominata con decreto del Pres. dell'Autorità Portuale di Trieste dd. 06.10.2009 e per la declaratoria di nullità, l'annullamento e/o la dichiarazione di intervenuta caducazione del contratto d'appalto o in subordine, per la reintegrazione "per equivalente" con risarcimento del danno subito dal ricorrente.
...
La ricorrente, che ha chiesto di partecipare alla procedura in oggetto in costituendo RTI con Elettroindustriale srl ed Ediltre spa, si è vista comunicare l’esclusione con l’impugnata e del tutto immotivata nota dell’Autorità Portuale, oggetto del ricorso originario.
Di essa ha dedotto l’illegittimità per violazione dell’art. 38, 1° comma, lett. c) del D.Lgs. n. 163/2006, in quanto l’intimata Autorità non avrebbe svolto alcuna valutazione sugli eventuali reati a carico degli amministratori e degli altri soggetti a ciò tenuti, tenendo conto dell’inerenza delle funzioni svolte alle obbligazioni dedotte in contratto, incidenti sulla moralità professionale.
Invero graverebbe sulla stazione appaltante l’accertamento di tale gravità ed incidenza (ed al riguardo si cita CDS V Sez. n. 1736 del 23.03.2009) ma non se ne rinverrebbe traccia nella comunicazione impugnata.
Ha dedotto altresì difetto di motivazione e di istruttoria in quanto non sarebbero riportati, nemmeno per relationem, le ragioni per cui, in ordine ai reati individuati dalla stazione appaltante, questi sono ritenuti gravi.
...
Il Collegio condivide la contestata decisione della Commissione di gara e pertanto anche i provvedimenti, compresi quelli di esclusione della ricorrente e di aggiudicazione alla controinteressata, in quanto appare perfettamente logico e conforme alla legge che incida gravemente sulla moralità professionale di chi intende, fra l’altro, gestire un bene vincolato dalla Soprintendenza dopo essere stato condannato con sentenza per aver distrutto un immobile in zona vincolata (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 18.04.2013 n. 237  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell’Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.
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Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l’annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione atteso che l’esistenza della suddetta posizione legittimante abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli potrebbero arrecare.

Vige allora il principio, espresso nella seguente massima (la quale del resto, nella sua seconda parte, vale anche a respingere l’eccezione di difetto d’interesse ad agire, del pari sollevata dalle parti resistenti): “La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell’Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia” (Consiglio di Stato – Sez. IV – 05.01.2011, n. 18).
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Neppure potrebbe ritenersi, stavolta con la difesa della controinteessata, che il ricorrente, ai fini della propria legittimazione ad agire, dovesse provare di aver subito un concreto pregiudizio alla sua sfera giuridica, posto che il Collegio ritiene preferibile l’orientamento giurisprudenziale, ripetutamente affermato, che al contrario sostiene: “Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l’annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione atteso che l’esistenza della suddetta posizione legittimante abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli potrebbero arrecare” (TAR Campania–Napoli, Sez. II, 16.01.2013, n. 326; conforme: Consiglio di Stato – Sez. IV – 22.01.2013, n. 361) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.04.2013 n. 890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’inedificabilità dell’area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta utilizzazione a fini edificatori, costituisce una qualità obiettiva del fondo, come tale opponibile ai terzi acquirenti, e produce l’effetto di impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando che la proprietà dell’area sia stata trasferita ad altri, che l’edificazione sia direttamente ascrivibile a questi ultimi, che manchino specifici negozi giuridici privati diretti all’asservimento o che l’edificio insista su una parte del lotto catastalmente divisa.
Diversamente opinando, gli indici (di densità territoriale, di fabbricabilità territoriale e di fondiaria) del piano urbanistico sopravvenuto, che conformano il diritto di edificare, si rivelerebbero vani e privi di significato, in quanto le aree sulle quali sono stati operati frazionamenti verrebbero ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita alla stregua delle sopravvenute previsioni, in relazione a tutta la loro estensione considerata dal nuovo piano, con la conseguenza di pregiudicare la stessa finalità della strumentazione, di permettere un ordinato sviluppo del territorio.
Se quindi, in linea generale, l’asservimento di una particella non può essere considerata un dato irrilevante, per il solo fatto che sia mutata la disciplina urbanistica di riferimento, dovendosi tenere conto della stessa, in sede di calcolo della volumetria realizzabile, ciò deve valere tanto più qualora, come nella specie, le disposizioni introdotte dal nuovo strumento urbanistico si pongano addirittura come meno favorevoli, nel fissare i parametri di calcolo della suddetta volumetria.
Soccorre, al riguardo, la precipua massima secondo la quale: “Se il proprietario di un immobile non ha realizzato tutta la volumetria consentita dagli indici edificatori e questi cambiano in pejus nel corso del tempo, il medesimo deve subirne le conseguenze, che consistono nel fatto che la quantità di asservimento del terreno rimasto libero verrà calcolata sulla base dei nuovi indici. Ciò in quanto i limiti entro cui un’area può essere edificata si riferiscono non all’edificazione ulteriore rispetto a quella esistente al momento dell’approvazione (dello strumento urbanistico), ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area. Se così non fosse, si verificherebbe l’effetto perverso di consentire l’edificabilità di aree già impegnate da preesistenze, in contrasto con gli indici di piano in vigore".
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La semplice modifica della pianificazione urbanistica vigente non è ex se in grado di cancellare gli asservimenti pregressi, in specie in assenza di espressa diversa previsione.
La situazione di “asservimento” si presenta come una caratteristica oggettiva dell’area da ricollegare alla sua utilizzazione edificatoria il cui contenuto consiste in un vincolo automatico dell’area stessa in relazione alla volumetria da essa espressa; detto vincolo, pertanto, si traduce in una servitù (di non edificabilità non in senso assoluto bensì relativo in quanto limitata e correlata alla volumetria consentita con la conseguenza che la modifica dell’indice edificabile, in senso migliorativo, consente al proprietario dell’area vincolata una maggiore utilizzazione indipendentemente dall’esplicita riserva dichiarata in atti, in ragione del principio di elasticità del diritto di proprietà, che riespande la propria area riappropriandosi “in toto” di ogni utilità riveniente e dell’ampiezza primitiva).
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In tema di diniego di una concessione edilizia, nel caso di asservimento di un fondo ad un altro, non rileva la circostanza che l’area in esame sia qualificata come edificabile dal piano regolatore, come attestato dal certificato di destinazione edilizia, in quanto la conformazione giuridica astratta impressa alla medesima in sede di pianificazione generale lascia impregiudicata l’esigenza di procedere ad una valutazione concreta delle potenzialità edificatorie ancora esprimibili dall’area in forza del computo della superficie e della cubatura dei fabbricati preesistenti.

Essa si scontra con l’indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di aderire, espresso, da ultimo, nella massima che segue: “L’inedificabilità dell’area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta utilizzazione a fini edificatori, costituisce una qualità obiettiva del fondo, come tale opponibile ai terzi acquirenti, e produce l’effetto di impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando che la proprietà dell’area sia stata trasferita ad altri, che l’edificazione sia direttamente ascrivibile a questi ultimi, che manchino specifici negozi giuridici privati diretti all’asservimento o che l’edificio insista su una parte del lotto catastalmente divisa. Diversamente opinando, gli indici (di densità territoriale, di fabbricabilità territoriale e di fondiaria) del piano urbanistico sopravvenuto, che conformano il diritto di edificare, si rivelerebbero vani e privi di significato, in quanto le aree sulle quali sono stati operati frazionamenti verrebbero ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita alla stregua delle sopravvenute previsioni, in relazione a tutta la loro estensione considerata dal nuovo piano, con la conseguenza di pregiudicare la stessa finalità della strumentazione, di permettere un ordinato sviluppo del territorio” (TAR Puglia–Bari – Sez. III, 09.01.2013, n. 11).
Se quindi in linea generale –conformemente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza citata– l’asservimento di una particella non può essere considerata un dato irrilevante, per il solo fatto che sia mutata la disciplina urbanistica di riferimento, dovendosi tenere conto della stessa, in sede di calcolo della volumetria realizzabile, ciò deve valere tanto più qualora, come nella specie, le disposizioni introdotte dal nuovo strumento urbanistico si pongano addirittura come meno favorevoli, nel fissare i parametri di calcolo della suddetta volumetria.
Soccorre, al riguardo, la precipua massima, citata nell’ordinanza cautelare della Sezione, secondo la quale: “Se il proprietario di un immobile non ha realizzato tutta la volumetria consentita dagli indici edificatori e questi cambiano in pejus nel corso del tempo, il medesimo deve subirne le conseguenze, che consistono nel fatto che la quantità di asservimento del terreno rimasto libero verrà calcolata sulla base dei nuovi indici. Ciò in quanto i limiti entro cui un’area può essere edificata si riferiscono non all’edificazione ulteriore rispetto a quella esistente al momento dell’approvazione (dello strumento urbanistico), ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area. Se così non fosse, si verificherebbe l’effetto perverso di consentire l’edificabilità di aree già impegnate da preesistenze, in contrasto con gli indici di piano in vigore” (TAR Veneto – Sez. I – 10.09.2004, n. 3263).
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La contraria tesi, espressa dal Comune nella memoria difensiva in atti, vale a dire che l’asservimento resterebbe efficace, “solo in costanza della strumentazione urbanistica vigente”, ovvero che il variare della strumentazione urbanistica comporterebbe automaticamente il travolgimento degli asservimenti, operati nel vigore della precedente, equivarrebbe in pratica a negare qualsivoglia efficacia, ad atti di tale specie, destinati ad essere spazzati via ad ogni mutamento della disciplina urbanistica di zona, con immaginabili gravissime conseguenze sulla possibilità per gli stessi di conseguire la loro specifica finalità, che è quella, evidentemente, di consentire un ordinato sviluppo del territorio.
Probabilmente, la tesi di cui sopra origina dal fraintendimento dell’indirizzo giurisprudenziale, espresso in massime come la seguente: “L’atto di asservimento di un lotto, che costituisce una qualità oggettiva dello stesso (una sorta di obbligazione “propter rem”) e realizza una specie particolare di relazione pertinenziale, non comporta un divieto assoluto di edificazione, pur costituendo un vincolo che rimane cristallizzato nel tempo, ma non può costituire limite rispetto alle determinazioni del pianificatore generale, che resta libero di dettare una nuova disciplina sulla volumetria e sulla capacità edificatoria. In tal senso, quindi, l’asservimento di un terreno per realizzare una costruzione non rende lo stesso definitivamente inedificabile anche per il futuro; la destinazione ed utilizzazione delle aree rappresenta, infatti, un dato dinamico ed evolutivo, potendo mutare nel tempo l’indice fondiario, nonché la stessa previsione dei lotti minimi, per cui la potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla stregua della modificazione della pianificazione urbanistica e della normativa sopravvenuta” (TAR Lazio–Roma – Sez. II, 10.09.2010, n. 32217).
Orbene, nella specie non si tratta per nulla di negare il principio, del tutto condivisibile, secondo il quale “la potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla stregua della modificazione della pianificazione urbanistica e della normativa sopravvenuta”; si tratta piuttosto di sottolineare, come fa anche la decisione appena citata, che l’atto di asservimento costituisce, in ogni caso, “un vincolo che rimane cristallizzato nel tempo”, una “qualità oggettiva” del lotto, onde la potenzialità edificatoria del medesimo, valutata secondo gli indici sopravvenuti, non può assolutamente prescinderne (come vorrebbe invece la difesa del Comune).
Sicché quando –come nella specie– proprio applicando i nuovi indici, detta potenzialità edificatoria risulta definitivamente esaurita, non si può certo superare a piè pari l’ostacolo e affermare che l’asservimento precedente non ha più alcun rilievo.
In pratica, si tratta di prendere atto che i principi, vigenti in materia, non possono essere altri che quelli, secondo cui: “La semplice modifica della pianificazione urbanistica vigente non è ex se in grado di cancellare gli asservimenti pregressi, in specie in assenza di espressa diversa previsione” (TAR Liguria – Sez. I, 22.05.2006, n. 475); e: “La situazione di “asservimento” si presenta come una caratteristica oggettiva dell’area da ricollegare alla sua utilizzazione edificatoria il cui contenuto consiste in un vincolo automatico dell’area stessa in relazione alla volumetria da essa espressa; detto vincolo, pertanto, si traduce in una servitù (di non edificabilità non in senso assoluto bensì relativo in quanto limitata e correlata alla volumetria consentita con la conseguenza che la modifica dell’indice edificabile, in senso migliorativo, consente al proprietario dell’area vincolata una maggiore utilizzazione indipendentemente dall’esplicita riserva dichiarata in atti, in ragione del principio di elasticità del diritto di proprietà, che riespande la propria area riappropriandosi “in toto” di ogni utilità riveniente e dell’ampiezza primitiva)” (TAR Puglia–Bari – Sez. II, 16.06.1990, n. 279).
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Il secondo introduce, invece, la questione della diversa destinazione urbanistica dell’area, sulla quale insiste la particella in oggetto, per effetto dell’approvazione del P.R.G. di Baronissi, modificazione di disciplina urbanistica che avrebbe “di fatto superato tutti i vincoli sulla stessa gravanti, ivi compreso, in particolare, quello derivante dal predetto atto di asservimento, sottoscritto sotto la vigenza della precedente strumentazione urbanistica (P. di F.)”.
Quindi, secondo questa tesi, la modifica della strumentazione urbanistica comporterebbe, ipso iure, il travolgimento degli asservimenti, stipulati sotto la vigenza della precedente, riacquistando il lotto tutta intera la capacità edificatoria esprimibile secondo i nuovi indici, senza neppure la necessità di scomputare la volumetria già impegnata al momento della stipula dell’atto di asservimento in questione.
Essa, che si riduce in pratica a null’altro che ad una variante di quella, già esaminata sopra, non è accettabile, posto che altrimenti, come pure rilevato in precedenza, ogni modifica dell’assetto urbanistico sarebbe idonea a comportare una ridefinizione, in aumento, del carico edilizio gravante su una determinata area, con buona pace dell’ordinato governo del territorio, ed è, in ogni caso, sconfessata espressamente dalla massima che segue: “In tema di diniego di una concessione edilizia, nel caso di asservimento di un fondo ad un altro, non rileva la circostanza che l’area in esame sia qualificata come edificabile dal piano regolatore, come attestato dal certificato di destinazione edilizia, in quanto la conformazione giuridica astratta impressa alla medesima in sede di pianificazione generale lascia impregiudicata l’esigenza di procedere ad una valutazione concreta delle potenzialità edificatorie ancora esprimibili dall’area in forza del computo della superficie e della cubatura dei fabbricati preesistenti” (Consiglio di Stato – Sez. V – 27.06.2011, n. 3823)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.04.2013 n. 890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl manufatto di cui è causa, ancorché diruto, non poteva essere considerato un rudere al momento della presentazione della DIA, in quanto era possibile identificare con chiarezza le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio originario.
Dalla predetta relazione, infatti, emerge che:
- la muratura perimetrale dell’immobile era su tutti i lati esistente, anche se presentava in alcuni lati parti franate;
- il colmo del tetto era esistente, con le lastre d’ardesia e i coppi di finitura ancora parzialmente in opera, mentre solo un tratto era franato;
- la striscia del tetto a valle -in corrispondenza della gronda- era esistente, con lastre d’ardesia in opera.
La presenza di tali elementi architettonici consentiva, dunque, al fabbricato di essere individuato come organismo edilizio avente una ben determinata sagoma e un ben determinato volume e, quindi, di poter essere considerato oggetto di opere di ristrutturazione.
In particolare, dalla relazione e dalla richiamata documentazione fotografica risultano non solo le dimensioni dell’originario fabbricato, ma anche le altezze con la relativa copertura del tetto, nonché le aperture, caratterizzate dalla presenza di finestre (o comunque di apertura) a diversa altezza l’una dall’altra.

Osserva al riguardo il Collegio che, come si evince dalla relazione dell’architetto Gianluca Mosto del 12.06.2009 e dalla documentazione fotografica versata in atti nel processo di primo grado, il manufatto di cui è causa, ancorché diruto, non poteva essere considerato un rudere al momento della presentazione della DIA, in quanto era possibile identificare con chiarezza le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio originario.
Dalla predetta relazione (la cui attendibilità è con evidenza corroborata dalla documentazione fotografica depositata nel corso del giudizio), infatti, emerge, in relazione alla DIA n. 437 del 2006, che:
- la muratura perimetrale dell’immobile era su tutti i lati esistente, anche se presentava in alcuni lati parti franate;
- il colmo del tetto era esistente, con le lastre d’ardesia e i coppi di finitura ancora parzialmente in opera, mentre solo un tratto era franato;
- la striscia del tetto a valle -in corrispondenza della gronda- era esistente, con lastre d’ardesia in opera.
La presenza di tali elementi architettonici consentiva, dunque, al fabbricato di essere individuato come organismo edilizio avente una ben determinata sagoma e un ben determinato volume e, quindi, di poter essere considerato oggetto di opere di ristrutturazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.04.2000, n. 1906).
In particolare, dalla relazione e dalla richiamata documentazione fotografica risultano non solo le dimensioni dell’originario fabbricato, ma anche le altezze con la relativa copertura del tetto, nonché le aperture, caratterizzate dalla presenza di finestre (o comunque di apertura) a diversa altezza l’una dall’altra
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere edilizie di cui è causa hanno comportato un obiettivo aggravio del carico urbanistico, attesa la ristrutturazione subita dall’immobile originariamente disabitato e inagibile.
Da ciò deriva l’equiparabilità, ai soli fini della riserva di spazio da destinare a parcheggio pertinenziale, di tali opere a quelle di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942.
Ritiene il Collegio che il medesimo art. 41-sexies, come modificato dalla legge n. 122 del 1989, trova applicazione ogni volta che sia realizzato un ‘edificio diverso’ da quello preesistente e, in particolare, quando –con un atto comunque denominato– sia demolito un edificio e al suo posto ne sia realizzato un altro.
Infatti, il legislatore ha previsto che i relativi standard vadano comunque soddisfatti, non solo quando in un centro storico sia prevista la demolizione di un fabbricato fatiscente con la successiva ricostruzione (ciò che costituisce una occasione irripetibile per dotare finalmente l’edificio di parcheggi), ma anche quando si tratti di un edificio isolato o comunque circondato dal verde: anche per questo secondo caso rileva una essenziale regola del diritto urbanistico, per la quale va identificato già nel titolo edilizio lo spazio riservato al parcheggio, per evitare che vi siano alternative e incerte soluzioni empiriche, che possano comportare l’alterazione di aree destinate invece a restare immodificate.
Ciò comporta che i titoli edilizi impugnati in primo grado risultano illegittimi e vanno annullati, con salvezza degli ulteriori provvedimenti.
Nell’esercizio dei propri poteri conformativi, la Sezione ritiene che, in presenza del relativo progetto presentato dagli interessati e trattandosi di una questione che non riguarda la realizzabilità in sé dell’edificio, il Comune possa assentire le opere nel loro complesso, qualora vi sia una integrazione progettuale concernente la riserva di spazi da destinare a parcheggi, poiché il richiamato art. 41-sexies dispone “misure quantitative degli spazi aventi tale destinazione, senza statuire alcuna formalità in ordine alla localizzazione delle aree da asservire, onde i parcheggi possono essere realizzati sia in luoghi esterni all’edificio sia al suo piano terreno e perfino in aree esterne, anche se non strettamente adiacenti al fabbricato”.

Con il terzo motivo, l’appellante rileva che -trattandosi di un opera sottoposta a permesso di costruire- si sarebbero dovuti riservare appositi spazi per parcheggi, così come previsto dalla vigente normativa.
Il motivo è fondato.
Osserva il Collegio che le opere edilizie di cui è causa, pur non necessitando per quanto detto al precedente n. 5.2. del permesso di costruire, hanno comportato un obiettivo aggravio del carico urbanistico, attesa la ristrutturazione subita dall’immobile originariamente disabitato e inagibile.
Da ciò deriva l’equiparabilità, ai soli fini della riserva di spazio da destinare a parcheggio pertinenziale, di tali opere a quelle di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942.
Ritiene il Collegio che il medesimo art. 41-sexies, come modificato dalla legge n. 122 del 1989, trova applicazione ogni volta che sia realizzato un ‘edificio diverso’ da quello preesistente e, in particolare, quando –con un atto comunque denominato– sia demolito un edificio e al suo posto ne sia realizzato un altro (in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 27.09.2007, n. 4842).
Infatti, il legislatore ha previsto che i relativi standard vadano comunque soddisfatti, non solo quando in un centro storico sia prevista la demolizione di un fabbricato fatiscente con la successiva ricostruzione (ciò che costituisce una occasione irripetibile per dotare finalmente l’edificio di parcheggi), ma anche quando si tratti di un edificio isolato o comunque circondato dal verde: anche per questo secondo caso rileva una essenziale regola del diritto urbanistico, per la quale va identificato già nel titolo edilizio lo spazio riservato al parcheggio, per evitare che vi siano alternative e incerte soluzioni empiriche, che possano comportare l’alterazione di aree destinate invece a restare immodificate.
Ciò comporta che i titoli edilizi impugnati in primo grado (e non anche i contestati atti della Soprintendenza) risultano illegittimi e vanno annullati, con salvezza degli ulteriori provvedimenti.
Nell’esercizio dei propri poteri conformativi, la Sezione ritiene che, in presenza del relativo progetto presentato dagli interessati e trattandosi di una questione che non riguarda la realizzabilità in sé dell’edificio, il Comune possa assentire le opere nel loro complesso, qualora vi sia una integrazione progettuale concernente la riserva di spazi da destinare a parcheggi, poiché il richiamato art. 41-sexies dispone “misure quantitative degli spazi aventi tale destinazione, senza statuire alcuna formalità in ordine alla localizzazione delle aree da asservire, onde i parcheggi possono essere realizzati sia in luoghi esterni all’edificio sia al suo piano terreno e perfino in aree esterne, anche se non strettamente adiacenti al fabbricato” (Cons. di Stato, Sez. V, 18.02.2003, n. 871)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In generale, il potere di revoca degli atti di gara (già previsto dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico ex art. 113 del R.D. 23.05.1924 n. 827) trova il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela della pubblica amministrazione (espressamente previsto, nel settore degli appalti pubblici, dall’art. 11, nono comma, del D.Lgs. 163/2006), che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica.
Infatti, l'art. 21-quinquies L. 07.08.1990 n. 241 consente un ripensamento da parte dell’amministrazione, laddove questa ritenga di operare motivatamente una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. La possibilità che in materia di appalti pubblici la stazione appaltante possa mutare avviso, in funzione del pubblico interesse, deve essere ricondotta all'ordinarietà dell'esercizio stesso del potere esperibile anche dopo l'avvio della procedura di scelta del contraente per ragioni di pubblico interesse preesistenti o sopravvenute o per vizi di merito e di legittimità.
La revoca della gara pubblica può dunque ritenersi legittimamente disposta dalla stazione appaltante in presenza di documentate e obiettive esigenze di interesse pubblico, che siano opportunamente e debitamente esplicitate, che rendano evidente l'inopportunità o comunque l'inutilità della prosecuzione della gara stessa, oppure quando, anche in assenza di ragioni sopravvenute, la revoca sia la risultante di una rinnovata e differente successiva valutazione dei medesimi presupposti.
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Nelle determinazioni di revoca la valutazione dell'interesse pubblico consiste in un apprezzamento discrezionale non sindacabile nel merito dal giudice amministrativo, salvo che non risulti viziato sul piano della legittimità per manifesta ingiustizia ed irragionevolezza.
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In presenza di un legittimo atto di autotutela, costituisce ius receptum, il principio secondo cui la legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara di appalto non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell'amministrazione, con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, nell'ambito del procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara può ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche dalla revoca legittima degli atti di gara può scaturire l'obbligo di risarcire il danno, nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti.
Gli atti che compongono la fase procedimentale dell'evidenza pubblica in quanto prodromici alla stipula del contratto sono configurabili anche quali atti di trattativa e formazione negoziale rilevanti ai sensi dell'art. 1337 cod. civ.. Ben può configurarsi una “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione qualora tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione di un accordo giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l'affidamento nella conclusione del contratto e che una delle parti abbia interrotto le trattative in violazione delle regole di correttezza e di buona fede di cui all'art. 1337 cod. civ. eludendo così le ragionevoli aspettative dell'altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli.
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Non è configurabile la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante che si sia motivatamente e tempestivamente avvalsa della facoltà, prevista nel bando di gara, di non procedere all’aggiudicazione definitiva dell’appalto per ragioni di pubblico interesse comportanti variazioni agli obiettivi perseguiti; in tal caso, infatti, all’amministrazione appaltante non è contestabile alcun comportamento lesivo dell’affidamento dei partecipanti.
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L'art. 21-quinquies, comma 1, della L. n. 241 del 1990, come modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, nel sancire l'obbligo dell'amministrazione di provvedere all'indennizzo dei soggetti direttamente interessati, quale ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca, ha riguardo ai provvedimenti amministrativi “ad efficacia durevole”, tra i quali, pacificamente, non rientra l’aggiudicazione provvisoria .
La revoca di un’aggiudicazione provvisoria, pur dando avvio ad un procedimento complesso che non si risolve uno actu, non può essere qualificato quale atto avente durevole efficacia, con la conseguenza che rispetto ad esso non trova applicazione l'art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, come modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, che sancisce l'obbligo dell'amministrazione di provvedere all'indennizzo dei soggetti direttamente interessati, quale ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca, precisando, peraltro, la stessa disposizione, che l'ambito applicativo ha riguardo ai provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole.
Nemmeno possono trovare applicazione nella fattispecie i successivi commi 1-bis e 1-ter del medesimo articolo, i quali -pur considerando anche gli atti amministrativi a efficacia istantanea- circoscrivono il sorgere del diritto all’indennizzo all’incidenza su rapporti negoziali (da intendersi ovviamente come rapporti già costituiti).

In generale, il potere di revoca degli atti di gara (già previsto dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico ex art. 113 del R.D. 23.05.1924 n. 827) trova il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela della pubblica amministrazione (espressamente previsto, nel settore degli appalti pubblici, dall’art. 11, nono comma, del D.Lgs. 163/2006), che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2010 n. 1997; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.05.2010 n. 2263).
Infatti, l'art. 21-quinquies L. 07.08.1990 n. 241 consente un ripensamento da parte dell’amministrazione, laddove questa ritenga di operare motivatamente una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. La possibilità che in materia di appalti pubblici la stazione appaltante possa mutare avviso, in funzione del pubblico interesse, deve essere ricondotta all'ordinarietà dell'esercizio stesso del potere esperibile anche dopo l'avvio della procedura di scelta del contraente per ragioni di pubblico interesse preesistenti o sopravvenute o per vizi di merito e di legittimità.
La revoca della gara pubblica può dunque ritenersi legittimamente disposta dalla stazione appaltante in presenza di documentate e obiettive esigenze di interesse pubblico (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2009 n. 2882), che siano opportunamente e debitamente esplicitate, che rendano evidente l'inopportunità o comunque l'inutilità della prosecuzione della gara stessa, oppure quando, anche in assenza di ragioni sopravvenute, la revoca sia la risultante di una rinnovata e differente successiva valutazione dei medesimi presupposti (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 30.07.2009 n. 228).
Alla luce di tali considerazioni deve concludersi per la legittimità dell’azione amministrativa, posto che la determinazione contestata risulta adeguatamente motivata dalla stazione appaltante con valutazioni che non si possono censurare per palese ingiustizia o illogicità.
L’atto di revoca emesso dalla stazione appaltante in applicazione dei predetti criteri generali in tema di atti di secondo grado, costituisce inoltre esercizio di un potere che l’amministrazione si era riservata sin dalla predisposizione del bando le cui clausole non sono state né impugnate in parte qua né contestate da parte ricorrente.
In ogni caso nel rispetto dei principi di economicità e buon andamento della pubblica amministrazione, deve ritenersi che la prosecuzione dell’appalto in presenza di condizioni come quelle esplicate, si sarebbe comunque posta in contrasto con l’esigenza di una gestione razionale ed efficiente delle risorse pubbliche.
Peraltro nelle determinazioni di revoca la valutazione dell'interesse pubblico consiste in un apprezzamento discrezionale non sindacabile nel merito dal giudice amministrativo, salvo che non risulti viziato sul piano della legittimità per manifesta ingiustizia ed irragionevolezza (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12.04.2010 n. 1897), circostanze che non è dato ravvisare nella fattispecie per cui è causa.
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La domanda di risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale da atto legittimo ha ad oggetto il ristoro della lesione della posizione soggettiva inerente l'affidamento ingenerato nel privato circa l'osservanza da parte della pubblica amministrazione del dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza durante le trattative.
La questione rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett.e) sub 1), c.p.a., con esplicito riferimento alle controversie “relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie…”. A sua volta l’art. 30 del c.p.a. al comma 2 stabilisce che nei casi di giurisdizione esclusiva può essere altresì chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi.
Quanto alla tutelabilità della pretesa ai fini risarcitori, la Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646) ha in precedenza rilevato che, in presenza di un legittimo atto di autotutela, costituisce ius receptum, il principio secondo cui la legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara di appalto non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell'amministrazione, con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, nell'ambito del procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara può ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche dalla revoca legittima degli atti di gara può scaturire l'obbligo di risarcire il danno, nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti (cfr. anche TAR Campania, Napoli, Sez. I, 08.02.2006 n. 1794; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.09.2010 n. 3459 e 12.01.2011 n. 20). Gli atti che compongono la fase procedimentale dell'evidenza pubblica in quanto prodromici alla stipula del contratto sono configurabili anche quali atti di trattativa e formazione negoziale rilevanti ai sensi dell'art. 1337 cod. civ.. Ben può configurarsi una “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione qualora tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione di un accordo giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l'affidamento nella conclusione del contratto e che una delle parti abbia interrotto le trattative in violazione delle regole di correttezza e di buona fede di cui all'art. 1337 cod. civ. eludendo così le ragionevoli aspettative dell'altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli.
Nella fattispecie, il Collegio ritiene che tali condizioni non sussistano.
Si è visto che la legittimità del provvedimento di revoca è stata ritenuta in funzione della condivisibilità delle ragioni poste dall'amministrazione a fondamento dell'atto di autotutela, adottato proprio a salvaguardia delle sopravvenute esigenze dell’ente e del razionale utilizzo delle risorse pubbliche.
In questa sede deve escludersi un comportamento dell’amministrazione in contrasto con il dovere di lealtà e correttezza nonché lesivo dell’affidamento riposto dalla controparte nella conclusione del contratto.
A tale fine è utile il richiamo a quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui non è configurabile la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante che si sia motivatamente e tempestivamente avvalsa della facoltà, prevista nel bando di gara, di non procedere all’aggiudicazione definitiva dell’appalto per ragioni di pubblico interesse comportanti variazioni agli obiettivi perseguiti; in tal caso, infatti, all’amministrazione appaltante non è contestabile alcun comportamento lesivo dell’affidamento dei partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.09.2009 n. 5245; 13.11.2002 n. 6291; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.05.2010 n. 2263).
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Del pari infondata è l’ultima richiesta subordinata di riconoscimento del diritto alla corresponsione di una somma a titolo di indennizzo ai sensi dell’art. 21-quinquies della l. n. 241/1990.
Al riguardo va infatti osservato che l'art. 21-quinquies, comma 1, della L. n. 241 del 1990, come modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, nel sancire l'obbligo dell'amministrazione di provvedere all'indennizzo dei soggetti direttamente interessati, quale ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca, ha riguardo ai provvedimenti amministrativi “ad efficacia durevole”, tra i quali, pacificamente, non rientra l’aggiudicazione provvisoria .
La revoca di un’aggiudicazione provvisoria, pur dando avvio ad un procedimento complesso che non si risolve uno actu, non può essere qualificato quale atto avente durevole efficacia, con la conseguenza che rispetto ad esso non trova applicazione l'art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, come modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, che sancisce l'obbligo dell'amministrazione di provvedere all'indennizzo dei soggetti direttamente interessati, quale ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca, precisando, peraltro, la stessa disposizione, che l'ambito applicativo ha riguardo ai provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole (Tar Lazio, Roma, sez. I, 11.07.2006, n. 5766).
Nemmeno possono trovare applicazione nella fattispecie i successivi commi 1-bis e 1-ter del medesimo articolo, i quali -pur considerando anche gli atti amministrativi a efficacia istantanea- circoscrivono il sorgere del diritto all’indennizzo all’incidenza su rapporti negoziali (da intendersi ovviamente come rapporti già costituiti)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.04.2013 n. 1916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di 60 giorni ex art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 comincia a decorrere solo dal momento in cui la documentazione perviene completa all'organo competente a decidere, ossia da quando l'intera documentazione rilasciata sia stata ricevuta e detto organo sia stato, quindi, posto nelle condizioni di pronunciarsi, non verificandosi, pertanto, alcuna interruzione o sospensione nel caso in cui sia necessaria un'integrazione della documentazione, bensì soltanto l'effetto della non decorrenza del termine.
Tuttavia, per altrettanto consolidata giurisprudenza, la documentazione tecnico-amministrativa di cui –ai fini del decorso del termine perentorio– si impone la completa ricezione, deve essere quella essenziale, sulla cui base l’autorizzazione paesaggistica è stata rilasciata, e non anche quella ulteriore ritenuta utile dalla Soprintendenza.
Ciò risulta in linea con la natura del potere di controllo demandato all'autorità statale, non già esteso ad un riesame nel merito, bensì circoscritto allo scrutinio di legittimità sull’operato dell’ente locale delegato: fermo restando che l’acclarata pretermissione, da parte di quest’ultimo, di documentazione essenziale, normativamente prescritta a supporto della verifica di compatibilità paesaggistica, giustificherebbe un puro e tempestivo intervento annullatorio dell’organo di controllo per rilevato vizio di legittimità (eccesso di potere per difetto di istruttoria), l'eventuale allargamento del quadro fattuale, cui condurrebbe l'acquisizione di documenti ulteriori rispetto a quelli considerati dal Comune, comporterebbe, infatti, la valutazione di nuovi elementi extraprocedimentali, e, quindi, l'assunzione di conclusioni proprie di un inammissibile apprezzamento di merito.
In questa prospettiva ermeneutica il Consiglio di Stato ha, appunto, precisato che, qualora la documentazione invocata dalla Soprintendenza sia ulteriore e diversa da quella valutata dal Comune in sede di autorizzazione paesaggistica, la sua mancata allegazione è insuscettibile di precludere ab origine il decorso del termine perentorio ex art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 o di interromperlo in conseguenza della richiesta di integrazione istruttoria.

Non vale, poi, eccepire che –come sostenuto dal resistente Ministero per i beni e le attività culturali– il termine di 60 giorni ex art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 sarebbe cominciato a decorrere non già dalla data (01.12.2009) di ricevimento della nota del Comune di Bucciano, prot. n. 7116, del 27.11.2009, bensì dalla data (23.02.2010) di ricevimento della nota del Comune di Bucciano, prot. n. 851, del 17.02.2010, con la quale è stata trasmessa la documentazione integrativa richiesta dalla della Soprintendenza di Caserta e Benevento con nota del 01.02.2010, prot. n. 1905.
Al riguardo, il Collegio non ignora che, per consolidata giurisprudenza, il termine in parola comincia a decorrere solo dal momento in cui la documentazione perviene completa all'organo competente a decidere, ossia da quando l'intera documentazione rilasciata sia stata ricevuta e detto organo sia stato, quindi, posto nelle condizioni di pronunciarsi, non verificandosi, pertanto, alcuna interruzione o sospensione nel caso in cui sia necessaria un'integrazione della documentazione, bensì soltanto l'effetto della non decorrenza del termine (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.01.2007, n. 24; 01.12.2010, n. 8379; 10.01.2011, n. 43; 24.02.2011, n. 1148; 15.11.2011, n. 6032; TAR Campania, Salerno, sez. II, 25.06.2009, n. 3311; 08.07.2010, n. 1016; 16.03.2011, n. 496; sez. I, 21.11.2012, n. 2093).
Tuttavia, per altrettanto consolidata giurisprudenza, la documentazione tecnico-amministrativa di cui –ai fini del decorso del termine perentorio– si impone la completa ricezione, deve essere quella essenziale, sulla cui base l’autorizzazione paesaggistica è stata rilasciata, e non anche quella ulteriore ritenuta utile dalla Soprintendenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2002, n. 4182; 04.09.2007, n. 4632; 24.02.2009, n. 1078; 01.12.2010, n. 8379; 03.05.2011, n. 2611; sez. II, 28.07.2011, n. 4776; sez. VI, 24.01.2012, n. 300; TAR Umbria, Perugia, 20.08.2009, n. 496; 31.05.2011, n. 154; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2010, n. 98; TAR Campania, Salerno, sez. II, 16.03.2011, n. 496; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 02.05.2012, n. 857).
Ciò risulta in linea con la natura del potere di controllo demandato all'autorità statale, non già esteso ad un riesame nel merito, bensì circoscritto allo scrutinio di legittimità sull’operato dell’ente locale delegato: fermo restando che l’acclarata pretermissione, da parte di quest’ultimo, di documentazione essenziale, normativamente prescritta a supporto della verifica di compatibilità paesaggistica (cfr. par. 3 dell’allegato al d.p.c.m. 12.12.2005), giustificherebbe un puro e tempestivo intervento annullatorio dell’organo di controllo per rilevato vizio di legittimità (eccesso di potere per difetto di istruttoria), l'eventuale allargamento del quadro fattuale, cui condurrebbe l'acquisizione di documenti ulteriori rispetto a quelli considerati dal Comune, comporterebbe, infatti, la valutazione di nuovi elementi extraprocedimentali, e, quindi, l'assunzione di conclusioni proprie di un inammissibile apprezzamento di merito.
In questa prospettiva ermeneutica, Cons. Stato, sez. VI, 24.02.2009, n. 1078 ha, appunto, precisato che, qualora la documentazione invocata dalla Soprintendenza sia ulteriore e diversa da quella valutata dal Comune in sede di autorizzazione paesaggistica, la sua mancata allegazione è insuscettibile di precludere ab origine il decorso del termine perentorio ex art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 o di interromperlo in conseguenza della richiesta di integrazione istruttoria (cfr., nello stesso senso, TAR Toscana, Firenze, sez. III, 02.05.2012, n. 857) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.04.2013 n. 1913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIL'appaltatore risarcisce l'Iva anche senza fattura.
L'appaltatore che non ha eseguito i lavori a opera d'arte deve risarcire il committente del danno patrimoniale, inclusa l'Iva, anche in assenza di fattura.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 04.04.2013 n. 8199.
In particolare la III Sez. civile ha respinto il ricorso di una piccola ditta che era stata condannata a risarcire il danno patrimoniale a un cliente perché, non avendo eseguito i lavori ad opera d'arte, aveva provocato delle infiltrazioni d'acqua.
Ma l'appaltatore si era difeso sostenendo di non dover rimborsare il costo dell'Iva in quanto non era stata emessa alcuna fattura. Una tesi, questa, respinta sia dai giudici di merito sia da quelli di legittimità.
Infatti ad avviso del Collegio di legittimità, poiché il risarcimento del danno patrimoniale si estende agli oneri accessori e consequenziali, se esso è liquidato sulla base di spese da affrontare, il risarcimento comprende anche l'Iva, pur se la riparazione non ancora avvenuta allorquando il prestatore d'opera sia come nella specie tenuto ex art. 18 dpr n. 633 del 1972 ad addebitarla, a titolo di rivalsa, al committente.
Infatti, trattandosi di onere futuro e certo al tempo liquidazione del danno, il pagamento dell'Iva concorre invero a determinare il complessivo esborso necessario alla reintegrazione patrimoniale conseguente al fatto illecito subito.
Bene, nel prevedere la corresponsione dell'Iva sull'ammontare liquidato a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali (al tasso previsto dalla legge vigente al riguardo), la Corte di merito ha ben applicato il principio ricordato in sede di legittimità.
Tutti gli altri motivi di ricorso presentati dall'appaltatore sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte di cassazione in quando il quesito di diritto non era stato ben formulato. Sul punto Piazza Cavour ricorda che il ricorso dell'appaltatore reca quesiti di diritto formulati in termini difformi dallo schema al riguardo delineato dalla stessa Cassazione, non contenendo la riassuntiva ma puntuale indicazione degli aspetti di fatto rilevanti, del modo in cui giudici del merito li hanno rispettivamente decisi. Quindi il quesito era troppo astratto e generico (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013).

EDILIZIA PRIVATAPresupposti per il corretto esercizio del potere di annullamento in autotutela sono:
- un atto affetto da un vizio di legittimità;
- l’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento, non identificabile con il mero ripristino della legalità violata;
- la prevalenza di tale interesse sugli interessi pubblici e privati alla conservazione dell’atto, specie se, per il tempo trascorso dall’adozione dell'atto viziato, si siano consolidate, in concreto, situazioni soggettive tutelabili.
Il provvedimento impugnato –adottato un anno dopo il perfezionamento di un titolo avente ad oggetto un intervento edilizio di modesta entità e in corso di avanzata costruzione- si limita a rilevare il contrasto della d.i.a. con l’art. 61 delle n.t.a., a contestare l’incompletezza del permesso rilasciato dall’a.n.a.s., allegato alla d.i.a., e a lamentare la mancata presentazione del d.u.r.c., invocando quindi esigenze di mero ripristino della legalità, senza indicare la ragione di interesse pubblico per la quale la d.i.a. dovesse essere annullata.
Né può valere quanto affermato dalla difesa dell’amministrazione resistente nelle memorie depositate in giudizio, circa l’esigenza di tutela della zona agricola sulla quale è stata realizzata la recinzione, essendo inammissibile l’integrazione postuma della motivazione contenuta in una memoria difensiva.

Con ordinanza del 02.12.2010, il Comune di Samolaco ha annullato in autotutela la denuncia di inizio attività presentata dalla sig.ra Vaninetti il 09.11.2009, avente ad oggetto la realizzazione di lavori di completamento della recinzione dell’immobile di sua proprietà.
Con ordinanza, adottata sempre in data 02.12.2010, il Comune ha ingiunto la demolizione dell’opera.
La censura con cui viene lamentata l’illegittimità dell’ordinanza di annullamento in autotutela, per violazione dell’art. 21-nonies, è fondata.
Presupposti per il corretto esercizio del potere di annullamento in autotutela sono:
- un atto affetto da un vizio di legittimità;
- l’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento, non identificabile con il mero ripristino della legalità violata;
- la prevalenza di tale interesse sugli interessi pubblici e privati alla conservazione dell’atto, specie se, per il tempo trascorso dall’adozione dell'atto viziato, si siano consolidate, in concreto, situazioni soggettive tutelabili.
Il provvedimento impugnato –adottato un anno dopo il perfezionamento di un titolo avente ad oggetto un intervento edilizio di modesta entità e in corso di avanzata costruzione- si limita a rilevare il contrasto della d.i.a. con l’art. 61 delle n.t.a., a contestare l’incompletezza del permesso rilasciato dall’a.n.a.s., allegato alla d.i.a., e a lamentare la mancata presentazione del d.u.r.c., invocando quindi esigenze di mero ripristino della legalità, senza indicare la ragione di interesse pubblico per la quale la d.i.a. dovesse essere annullata.
Né può valere quanto affermato dalla difesa dell’amministrazione resistente nelle memorie depositate in giudizio, circa l’esigenza di tutela della zona agricola sulla quale è stata realizzata la recinzione, essendo inammissibile l’integrazione postuma della motivazione contenuta in una memoria difensiva (cfr., fra le tante, TAR Veneto, sez. I, 11.03.2010, n. 768; Consiglio di Stato sez. IV, 16.09.2008, n. 4368).
Il ricorso è, dunque, fondato nella parte in cui fa valere l’illegittimità dell’ordinanza di annullamento in autotutela e l’illegittimità, in via derivata, dell’ordinanza di demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.03.2013 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’interesse all’accesso ai documenti amministrativi, così come è disegnato dall’art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, anche successivamente alle modifiche intervenute nel 2005 (per effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009 (per effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio.
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Pur non potendosi –per evidenti motivi di ragionevolezza– imporre l’ostensione di atti di cui l’amministrazione dimostri (sulla base di circostanze oggettive e circostanziate) di non essere più in possesso (tanto alla luce del principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’), nondimeno non può essere sufficiente –al fine di dimostrare l’oggettiva impossibilità di consentire il diritto di accesso e quindi di sottrarsi agli obblighi tipicamente incombenti sull’amministrazione in base alla normativa primaria in tema di accesso– la mera e indimostrata affermazione in ordine all’indisponibilità degli atti quale mera conseguenza del tempo trascorso e delle modifiche organizzative medio tempore succedutesi.
Invero, alla luce del richiamato principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’, anche nei procedimenti d’accesso ai documenti amministrativi l’esercizio del relativo diritto o l’ordine d’esibizione impartito dal giudice non può riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, che i documenti esistenti e non anche quelli non più esistenti o mai formati, spettando alla p.a. destinataria dell’accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che non è in grado d’esibire.
Resta inteso, peraltro, che laddove l’Amministrazione confermasse l’oggettiva impossibilità di reperire gli atti richiesti (sostanzialmente di natura organizzativa e relativi a rapporti di durata pluriennale), dovrà darne pienamente conto esplicitando in modo dettagliato le ragioni concrete di tale impossibilità.

In primo luogo, va rilevato come “l’interesse all’accesso ai documenti amministrativi, così come è disegnato dall’art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, anche successivamente alle modifiche intervenute nel 2005 (per effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009 (per effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio
” (TAR Lazio, Roma, II, 20.02.2013, n. 1896; Cons. Stato, Sez. VI, 27.10.2006 n. 6440).
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Quanto all’asserita impossibilità di rinvenire la documentazione richiesta negli archivi degli Enti resistenti, va ribadito un condivisibile insegnamento giurisprudenziale secondo il quale, “pur non potendosi –per evidenti motivi di ragionevolezza– imporre l’ostensione di atti di cui l’amministrazione dimostri (sulla base di circostanze oggettive e circostanziate) di non essere più in possesso (tanto alla luce del principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’), nondimeno non può essere sufficiente –al fine di dimostrare l’oggettiva impossibilità di consentire il diritto di accesso e quindi di sottrarsi agli obblighi tipicamente incombenti sull’amministrazione in base alla normativa primaria in tema di accesso– la mera e indimostrata affermazione in ordine all’indisponibilità degli atti quale mera conseguenza del tempo trascorso e delle modifiche organizzative medio tempore succedutesi.
Al riguardo, la giurisprudenza [del] Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che, alla luce del richiamato principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’, anche nei procedimenti d’accesso ai documenti amministrativi l’esercizio del relativo diritto o l’ordine d’esibizione impartito dal giudice non può riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, che i documenti esistenti e non anche quelli non più esistenti o mai formati, spettando alla p.a. destinataria dell’accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che non è in grado d’esibire (in tal senso: Cons. Stato, VI, 08.01.2002, n. 67).
Resta inteso, peraltro, che laddove l’Amministrazione confermasse l’oggettiva impossibilità di reperire gli atti richiesti [dall’odierna ricorrente] (sostanzialmente di natura organizzativa e relativi a rapporti di durata pluriennale), dovrà darne pienamente conto esplicitando in modo dettagliato le ragioni concrete di tale impossibilità
” (Consiglio di Stato, VI, 13.02.2013, n. 892).
Di conseguenza il rifiuto di accesso e il suo differimento, genericamente argomentati, si appalesano illegittimi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 22.03.2013 n. 758 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOpere a scomputo, per realizzarle serve una prova scritta. Perché gli oneri di urbanizzazione siano sostituiti da lavori non è sufficiente l'accordo verbale con la PA.
La prova che una Amministrazione accetta la realizzazione di opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione deve risultare da atti scritti e non solo da accordi verbali.
Si è espresso in questi termini il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 22.03.2013 n. 356.
Il caso esaminato dal Tribunale Amministrativo riguarda una società che aveva ottenuto la concessione edilizia per la realizzazione di alcuni fabbricati e pagato la prima rata degli oneri di urbanizzazione.
Dopo il pagamento, la società aveva presentato un progetto di riqualificazione di un immobile comunale che avrebbe dovuto sostituire il pagamento della seconda e della terza rata degli oneri di urbanizzazione.
Il Comune, che in un primo momento si era mostrato interessato, aveva in seguito preteso il versamento delle rate e delle sanzioni per il ritardo nel pagamento.
A questo punto la società aveva obiettato che i termini di pagamento erano stati sospesi dato che l’Amministrazione in un primo momento aveva accolto la proposta delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione con una nota assessorile.
Il Tar ha però precisato che nella nota c’era solo l’invito a prendere accordi con l’ufficio competente per la redazione del progetto. Dagli atti non risultava che la società avesse agito in tal senso né che l’Amministrazione avesse autorizzato la realizzazione delle opere.
Il ricorso è stato quindi respinto perché gli accordi verbali non sono sufficienti a provare le intenzioni della Pubblica Amministrazione (commento tratto da www.edilportale.com - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
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L'acquisizione gratuita non costituisce sanzione accessoria alla demolizione, volta a colpire l'esecutore delle opere abusive, ma si configura quale sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
L'inottemperanza integra, infatti, un illecito diverso ed autonomo dalla commissione dell'abuso edilizio, del quale può rendersi responsabile anche il proprietario, qualora risulti che abbia acquistato o riacquisito la disponibilità del bene e non si sia attivato per dare esecuzione all'ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione all'ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto.

È orientamento consolidato di questa Sezione che la vetustà dell'opera non escluda il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. fra le tante Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045);
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (Consiglio di Stato sez. IV, 28.12.2012, n. 6702; TAR Lombardia Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318);
Né sussiste una violazione del principio di proporzionalità.
Tale principio è invocabile laddove l'amministrazione possa modulare la propria azione in base a scelte discrezionali; mentre nell’esercizio del potere sanzionatorio degli abusi edilizi, l'agire dell'amministrazione è vincolato dalle scelte consacrate nella legislazione e negli atti di programmazione urbanistica, queste effettivamente ampiamente discrezionali, la cui attuazione costituisce atto dovuto (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 20.12.2011, n. 6756).
Parimenti non assume rilievo quanto prospettato dal ricorrente circa la possibilità che l’amministrazione riduca la fascia di rispetto cimiteriale attualmente vigente: tale riduzione al momento dell’adozione del provvedimento impugnato non era stata approvata.
Inoltre, l’eventuale futura esclusione dei fabbricati dalla fascia di rispetto non inciderebbe comunque sull’assenza del requisito della doppia conformità richiesto dalla legge per il rilascio di un provvedimento di sanatoria. Né potrebbe invocarsi la c.d. sanatoria giurisprudenziale, stante il contrasto di tale istituto con il principio di legalità (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961; TAR Milano Lombardia sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
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Come affermato da questo Tribunale con la sentenza sez. II, 29.04.2009, n. 3597, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 345 del 1991, ha statuito che l'acquisizione gratuita non costituisce sanzione accessoria alla demolizione, volta a colpire l'esecutore delle opere abusive, ma si configura quale sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
L'inottemperanza integra, infatti, un illecito diverso ed autonomo dalla commissione dell'abuso edilizio, del quale può rendersi responsabile anche il proprietario, qualora risulti che abbia acquistato o riacquisito la disponibilità del bene e non si sia attivato per dare esecuzione all'ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione all'ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto (cfr. TAR Milano 2^, 14.10.1999 n. 3417)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.03.2013 n. 722 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme sulle distanze dai fabbricati hanno carattere pubblicistico e inderogabile, a differenza di quelle sulle distanze dai confini, che sono derogabili mediante convenzione tra privati.
A tale proposito, questo Tribunale, nella sentenza n. 327/2005 del 12.10.2005, confermata dalla Sezione VI del Consiglio di stato con la decisione n. 6475 del 18.12.2012, con riferimento alle distanze in materia di costruzioni, ha già esposto che “è ben noto al Collegio l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale le norme sulle distanze dai fabbricati hanno carattere pubblicistico e inderogabile, a differenza di quelle sulle distanze dai confini, che sono derogabili mediante convenzione tra privati (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.07.2002, n. 3929 e TAR Lazio, Sez. II, 11.10.2004, n. 10705) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 20.03.2013 n. 95 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto amministrativo fondato su più ordini di motivi deve considerarsi legittimo quando ne esista almeno uno esente da vizi e idoneo a sostenere congruamente l’atto stesso.
Secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio aderisce, l’atto amministrativo fondato su più ordini di motivi deve considerarsi legittimo, quando ne esista almeno uno esente da vizi e idoneo a sostenere congruamente l’atto stesso (c.d. “principio della ragione sufficiente” - cfr., ex multis, CGA, 08.08.1998, n. 458 e TRGA Bolzano, 12.10.2005 n. 327 e 24.05.2005, n. 191, 28.09.2004, n. 417, 28.06.2002, n. 320 e 15.02.2002, n. 82) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 20.03.2013 n. 95 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione alle opere realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di rispetto stradale, si è in presenza di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di “edificazione” sancito dall’art. 4, D.M. 01.04.1968 (recante norme in materia di "distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, legge 06.08.1967, n. 765"), non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
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Il vincolo urbanistico sulle distanze minime a protezione del nastro stradale, previsto dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985, a differenza di quello di inedificabilità relativa previsto dall’art. 32 –che può essere rimosso a discrezione dell’Autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato–, contiene un divieto di edificazione di carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell’opera abusiva realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto.
Ed in effetti, in tema di sanatoria di abusi edilizi in applicazione della legge n. 47 del 1985, la natura del vincolo riveniente da una fascia di rispetto stradale differisce a seconda che le opere edilizie abusive siano state realizzate prima o dopo l’imposizione del vincolo, dovendosi ammettere solo nel primo caso la possibilità di sanatoria (previa acquisizione del parere previsto dall’art. 32), che resta invece esclusa nella seconda ipotesi, ai sensi del successivo art. 33, comma 1, lett. d); ciò in quanto l’art. 32, comma 4 –nella versione vigente ratione temporis- consente la sanatoria –tra le altre ipotesi– per le opere abusive “in contrasto con le norme del D.M. 01.04.1968 ... sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico” (lett. c), quando esse siano “... insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione ...”, sicché soltanto in tale caso, attesa la natura «relativa» del vincolo (ai fini della sanatoria), l’Amministrazione deve darsi carico di verificare che le opere “... non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”, mentre per gli interventi realizzati dopo l’imposizione del vincolo opera la preclusione assoluta di cui all’art. 33, comma 1.

In relazione alle opere realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di rispetto stradale, si è in presenza di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di “edificazione” sancito dall’art. 4, D.M. 01.04.1968 (recante norme in materia di "distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, legge 06.08.1967, n. 765"), non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni (cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 14.04.2010, n. 2076).
Quanto, poi, all’asserita sanabilità dell’abuso, va ricordato che esso, risalente al 1973, è stato realizzato dopo l’imposizione del vincolo di assoluta inedificabilità previsto dal D.M. n. 1404 del 1968, onde ricade nell’ipotesi di cui all’art. 33, comma 1, della legge n. 47 del 1985 (“Le opere di cui all’articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: a) …; b) …; c) …; d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree”).
E’ stato in proposito rilevato che il vincolo urbanistico sulle distanze minime a protezione del nastro stradale, previsto dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985, a differenza di quello di inedificabilità relativa previsto dall’art. 32 –che può essere rimosso a discrezione dell’Autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato–, contiene un divieto di edificazione di carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell’opera abusiva realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto (v. Cons. Stato, Sez. IV, 05.07.2000 n. 3731).
Ed in effetti, in tema di sanatoria di abusi edilizi in applicazione della legge n. 47 del 1985, la natura del vincolo riveniente da una fascia di rispetto stradale differisce a seconda che le opere edilizie abusive siano state realizzate prima o dopo l’imposizione del vincolo, dovendosi ammettere solo nel primo caso la possibilità di sanatoria (previa acquisizione del parere previsto dall’art. 32), che resta invece esclusa nella seconda ipotesi, ai sensi del successivo art. 33, comma 1, lett. d); ciò in quanto l’art. 32, comma 4 –nella versione vigente ratione temporis- consente la sanatoria –tra le altre ipotesi– per le opere abusive “in contrasto con le norme del D.M. 01.04.1968 ... sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico” (lett. c), quando esse siano “... insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione ...”, sicché soltanto in tale caso, attesa la natura «relativa» del vincolo (ai fini della sanatoria), l’Amministrazione deve darsi carico di verificare che le opere “... non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”, mentre per gli interventi realizzati dopo l’imposizione del vincolo opera la preclusione assoluta di cui all’art. 33, comma 1 (cfr., TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 26.01.2006, n. 22)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2013 n. 405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessaria la concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno.
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius excludendi alios”, e non comporta di norma trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di elementi non strettamente necessari alla sua primaria funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in calcestruzzo lungo tutto il perimetro.
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella recinzione non costituita da una semplice rete, dà luogo a trasformazione urbanistica tale da richiedere la concessione edilizia (oggi permesso di costruire), con conseguente legittima irrogazione della sanzione ripristinatoria di cui all’art. 7 della legge n. 47/1985, ove tale concessione non sia stata rilasciata.

Privo di pregio è anche l'ulteriore motivo, con cui il ricorrente sostiene che “la recinzione in rete metallica di un fondo con cancello di ingresso incorporato”, non raggiungendo la soglia di rilevanza urbanistica, non necessiterebbe di titolo concessorio e, conseguentemente, l’abusiva realizzazione della stessa non sarebbe suscettibile di sanzione ripristinatoria, ex art. 7 della legge n. 47/1985, ma solo di sanzione pecuniaria; la questione, peraltro, sarebbe stata definitivamente risolta dal D.L. 22.07.1996, n. 388, vigente al momento dell’adozione dell’impugnato diniego, che avrebbe sottoposto le recinzioni, muri di cinta e cancellate a semplice denuncia di inizio di attività, prevedendo, in assenza della DIA, l’irrogazione della sola sanzione pecuniaria.
Va, innanzitutto, rilevato a riguardo che la recinzione per cui è causa, secondo la descrizione fattane nella dichiarazione allegata alla domanda di condono e nella diffida a demolire, è in muratura (“costruzione dei muri di recinzione del lotto con cancello su strada”), e che, la sussistenza del vincolo di inedificabilità assoluta -per sua natura incompatibile con ogni manufatto, che alteri lo stato dei luoghi e sia destinato a soddisfare esigenze costanti nel tempo, a prescindere dai materiali usati e dalle tecniche costruttive– è di per sé sufficiente a giustificarne la demolizione, unitamente al cancello nella stessa incorporato.
Va, comunque, precisato, che, secondo la prevalente giurisprudenza, condivisa dal Collegio, non è necessaria la concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno (cfr., ex multis, TAR Veneto, sez. II, 07.03.2006, n. 533; TAR Campania, sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Emilia Romagna, sez. II, 26.01.2007, n. 82).
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius excludendi alios”, e non comporta di norma trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di elementi non strettamente necessari alla sua primaria funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in calcestruzzo lungo tutto il perimetro (cfr., ex multis, TAR Basilicata, 19.09.2003, n. 897; TAR Liguria, I, 11.09.2002, n. 961; TAR Toscana, I, 26.03.2009, n. 521; TAR Toscana, II, 13.10.2009, n. 1532).
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella recinzione non costituita da una semplice rete, dà luogo a trasformazione urbanistica tale da richiedere la concessione edilizia (oggi permesso di costruire) (cfr., TAR Lombardia, Brescia, n. 574/2011; TAR Campania, VII, n. 1222/2009; TAR Lazio, II, n. 8777/2008), con conseguente legittima irrogazione della sanzione ripristinatoria di cui all’art. 7 della legge n. 47/1985, ove tale concessione non sia stata rilasciata.
Né può fondatamente invocarsi l’applicazione del D.L. n. 388/1996, essendo l’ambito di operatività dello stesso circoscritto alle nuove costruzioni e non a quelle già realizzate oggetto di istanza di condono
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2013 n. 405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa procedura del project financing –disciplinata prima dagli articoli 37 e seguenti della legge n. 109/1994 e successivamente dagli articoli 153 e seguenti del d.lgs. n. 163/2006– risulta articolata in due fasi, distinte ma strettamente connesse: la scelta del promotore, caratterizzata da ampia discrezionalità amministrativa per l’accoglimento della proposta, proveniente talvolta del promotore stesso, alla stregua della già effettuata programmazione delle opere pubbliche, con gara preliminare per la valutazione comparativa delle diverse offerte, seguita da eventuali modifiche progettuali e da rilascio della concessione, ovvero da una ulteriore fase selettiva ad evidenza pubblica (secondo le regole nazionali e comunitarie) fra più aspiranti alla concessione in base al progetto prescelto, con risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti. Quanto sopra, con fattispecie a formazione progressiva, il cui scopo finale (aggiudicazione della concessione, in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa) è interdipendente dalla fase prodromica di individuazione del promotore.
Nella peculiare procedura, sopra sommariamente descritta, così come in generale per ogni procedimento –selettivo o meno– possono verificarsi interruzioni anche definitive, connesse a provvedimenti assunti dall’Amministrazione in via di autotutela, rapportati a vizi di legittimità, o a revoche motivate da ragioni di interesse pubblico: queste ultime –disciplinate in via generale dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, nel testo aggiunto dall’art. 14 della legge 11.2.2005, come successivamente modificato ed integrato– possono corrispondere a sopravvenuti motivi di pubblico interesse, a mutamento della situazione di fatto o a nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Per il project financing, una disciplina peculiare in materia di revoca è contenuta nell’art. 158 del citato d.lgs. n. 163/2006, da considerare –sussistendone i presupposti– lex specialis rispetto al predetto art. 21-quinquies L. n. 241/1990 (che parte della giurisprudenza riteneva inapplicabile all’approvazione di un progetto preliminare di project financing o alla fase di aggiudicazione provvisoria, poiché riguardante –prima dell’inserimento, con d.l. n. 7/2007, del comma 1-bis– i soli provvedimenti ad efficacia durevole).

La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne una procedura di project financing, avviata per la ricerca di offerenti, disponibili a realizzare un’attrazione storico-scenografica sulla distruzione di Pompei, da effettuare all’interno del noto sito archeologico.
Detta procedura –disciplinata prima dagli articoli 37 e seguenti della legge n. 109/1994 e successivamente dagli articoli 153 e seguenti del d.lgs. n. 163/2006– risulta articolata in due fasi, distinte ma strettamente connesse: la scelta del promotore, caratterizzata da ampia discrezionalità amministrativa per l’accoglimento della proposta, proveniente talvolta del promotore stesso, alla stregua della già effettuata programmazione delle opere pubbliche, con gara preliminare per la valutazione comparativa delle diverse offerte, seguita da eventuali modifiche progettuali e da rilascio della concessione, ovvero da una ulteriore fase selettiva ad evidenza pubblica (secondo le regole nazionali e comunitarie) fra più aspiranti alla concessione in base al progetto prescelto, con risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti. Quanto sopra, con fattispecie a formazione progressiva, il cui scopo finale (aggiudicazione della concessione, in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa) è interdipendente dalla fase prodromica di individuazione del promotore (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 28.01.2012, n. 1; Cons. St., sez. V, 06.10.2010, n. 7334, 08.02.2011, n. 843, 07.04.2011, n. 2154; Cons. St., sez. IV, 26.01.2009, n. 391).
Nella peculiare procedura, sopra sommariamente descritta, così come in generale per ogni procedimento –selettivo o meno– possono verificarsi interruzioni anche definitive, connesse a provvedimenti assunti dall’Amministrazione in via di autotutela, rapportati a vizi di legittimità, o a revoche motivate da ragioni di interesse pubblico: queste ultime –disciplinate in via generale dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, nel testo aggiunto dall’art. 14 della legge 11.2.2005, come successivamente modificato ed integrato– possono corrispondere a sopravvenuti motivi di pubblico interesse, a mutamento della situazione di fatto o a nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. VI, 17.03.2010, n. 1554; Cons. St., sez. V, 06.10.2010, n. 7334 e 06.12.2010, n. 8554).
Per il project financing, una disciplina peculiare in materia di revoca è contenuta nell’art. 158 del citato d.lgs. n. 163/2006, da considerare –sussistendone i presupposti– lex specialis rispetto al predetto art. 21-quinquies L. n. 241/1990 (che parte della giurisprudenza riteneva inapplicabile all’approvazione di un progetto preliminare di project financing o alla fase di aggiudicazione provvisoria, poiché riguardante –prima dell’inserimento, con d.l. n. 7/2007, del comma 1-bis– i soli provvedimenti ad efficacia durevole: cfr. Cons. St., sez. VI, 17.03.2010, n. 1554) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2013 n. 1315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 167, comma 5, d.lgs. 42/2004 prevede, rispetto alla definizione dell’istanza di compatibilità paesaggistica, la previa adozione di un parere vincolante da parte della Soprintendenza.
In proposito, l’art. 10-bis va qualificato quale norma di principio, cosicché l’obbligo di valutare le osservazioni presentate deve essere oggetto di coerente conseguente inquadramento; quindi, è evidente che l’organo chiamato in via sostanziale a decidere in merito alla discussa compatibilità, cioè colui che esprime il parere vincolante da cui l’amministrazione finale procedente non può discostarsi, deve essere messo in condizione di valutare tutti gli aspetti emersi nel procedimento e rilevanti ai fini di definizione della pratica, tra i quali non possono non essere inseriti gli apporti conseguenti all’esercizio di obblighi (di comunicazione e di valutazione da parte della p.a.) e prerogative (di osservazioni del privato) procedimentali aventi il predetto carattere di principio.
Al riguardo, se in linea generale tale opzione ermeneutica appare l’unica conforme alla natura di principio delle regole invocate, le quali altrimenti opinando si troverebbero ad essere frustrate nei rispettivi fini, in linea particolare, a conferma di ciò, nell’ambito della disciplina del codice dei beni culturali anche nel parallelo meccanismo ordinario ex art. 146, la fase ex art. 10-bis è collegata direttamente al ruolo della soprintendenza.
In assenza di tale doveroso passaggio, gli elementi acquisiti nel merito in sede procedimentale finiscono con l’essere valutati non dall’organo titolare del potere decisorio sostanziale ma solo dall’amministrazione titolare del potere formale di chiusura del procedimento, la quale assume un ruolo di supplenza e sostituzione non previsto dalla norma, così come correttamente intesa anche nel riparto di competenza derivante dallo stesso riparto costituzionale, che attribuisce allo Stato la competenza primaria ed esclusiva in tema di tutela dei beni culturali e paesaggistici.
In definitiva, la natura sostanzialmente decisoria del parere vincolante assume connotati tali da imporre l’analisi, in capo allo stesso organo chiamato a dare l’indicazione da cui non ci si può discostare, di tutti gli elementi rilevanti nella specie.

Come noto, la norma applicata (art. 167, comma 5) prevede, rispetto alla definizione dell’istanza di compatibilità paesaggistica, la previa adozione di un parere vincolante da parte della Soprintendenza.
In proposito, costituisce jus receptum quello per cui l’art. 10-bis (al pari delle indicazioni ivi contenute e dei relativi doveri), va qualificato quale norma di principio (cfr. ad es. Tar Liguria n. 286/2012), cosicché l’obbligo di valutare le osservazioni presentate deve essere oggetto di coerente conseguente inquadramento; quindi, è evidente che l’organo chiamato in via sostanziale a decidere in merito alla discussa compatibilità, cioè colui che esprime il parere vincolante da cui l’amministrazione finale procedente non può discostarsi, deve essere messo in condizione di valutare tutti gli aspetti (anche di dettaglio, come le altezze richiamate in sede di osservazioni) emersi nel procedimento e rilevanti ai fini di definizione della pratica, tra i quali non possono non essere inseriti gli apporti conseguenti all’esercizio di obblighi (di comunicazione e di valutazione da parte della p.a.) e prerogative (di osservazioni del privato) procedimentali aventi il predetto carattere di principio.
Al riguardo, se in linea generale tale opzione ermeneutica appare l’unica conforme alla natura di principio delle regole invocate, le quali altrimenti opinando si troverebbero ad essere frustrate nei rispettivi fini, in linea particolare, a conferma di ciò, nell’ambito della disciplina del codice dei beni culturali anche nel parallelo meccanismo ordinario ex art. 146, la fase ex art. 10-bis è collegata direttamente al ruolo della soprintendenza.
In assenza di tale doveroso passaggio, gli elementi acquisiti nel merito in sede procedimentale finiscono con l’essere valutati non dall’organo titolare del potere decisorio sostanziale ma solo dall’amministrazione titolare del potere formale di chiusura del procedimento, la quale assume un ruolo (come nella specie) di supplenza e sostituzione non previsto dalla norma, così come correttamente intesa anche nel riparto di competenza derivante dallo stesso riparto costituzionale, che attribuisce allo Stato la competenza primaria ed esclusiva in tema di tutela dei beni culturali e paesaggistici.
In definitiva, la natura sostanzialmente decisoria del parere vincolante assume connotati tali da imporre l’analisi, in capo allo stesso organo chiamato a dare l’indicazione da cui non ci si può discostare, di tutti gli elementi rilevanti nella specie. Al riguardo, seppur resa in diversa fattispecie, va ribadita l’indicazione di principio già fornita dal Tribunale (cfr. sentenza n. 1922/2011 correttamente richiamata da parte ricorrente) .
Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso appare fondato nei limiti indicati, con conseguente necessità di acquisire l’avviso della Soprintendenza in ordine alle osservazioni proposte in sede di replica alla comunicazione dei motivi ostativi (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 04.03.2013 n. 402 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nel ricorso proposto per l’annullamento di un piano attuativo in variante di piano regolatore, approvato dal Comune ma predisposto ad iniziativa di parte, i soggetti promotori dell’intervento edificatorio assumono la veste di controinteressati agevolmente identificabili dagli atti del procedimento in quanto presentatori del progetto, con la conseguenza che il ricorso è inammissibile ove non sia stato ad essi tempestivamente notificato.
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Questo Consesso ha sottolineato la distinzione tra la fattispecie dei piani ad esclusiva iniziativa e formazione della p.a. –aventi natura di atti amministrativi autoritativi– e quella in cui l’iniziativa è assunta invece dai privati, per affermare che in tale ultima ipotesi si è in presenza di atti avente natura negoziale con assunzione di obbligazioni reciproche ed espressione di scelte concordate: in questi casi, la posizione del privato promotore è anche quella del soggetto che ha dato avvio al procedimento, il quale assume quindi la qualità di parte necessaria del procedimento stesso cui deve essere notificata l’iniziativa giurisdizionale.

Ed invero, sul punto giova richiamare il più recente orientamento secondo cui, nel ricorso proposto per l’annullamento di un piano attuativo in variante di piano regolatore, approvato dal Comune ma predisposto ad iniziativa di parte, i soggetti promotori dell’intervento edificatorio assumono la veste di controinteressati agevolmente identificabili dagli atti del procedimento in quanto presentatori del progetto, con la conseguenza che il ricorso è inammissibile ove non sia stato ad essi tempestivamente notificato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2012, nr. 2839; id., 17.07.2009, nr. 4473).
Ciò premesso, appare evidente che gli arresti richiamati nella sentenza impugnata sono certamente validi nell’ipotesi di approvazione di piani regolatori generali, in cui l’agire pubblico è esclusivamente inteso a predisporre un ordinato assetto del territorio comunale prescindendo dalle posizioni dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione; a questa ipotesi non è però sovrapponibile quella di un piano esecutivo predisposto a iniziativa di parte, nella quale si configurano dei titolari di posizioni specifiche direttamente incise dall’operato dell’Amministrazione, individuabili nei soggetti promotori del progetto confluito nello strumento approvato, che dalla eventuale caducazione di quest’ultimo riceverebbero una diretta e immediata lesione degli interessi qualificati di cui sono portatori.
Questo Consesso in sede consultiva ha poi sottolineato la distinzione tra la fattispecie dei piani ad esclusiva iniziativa e formazione della p.a. –aventi natura di atti amministrativi autoritativi– e quella in cui l’iniziativa è assunta invece dai privati, per affermare che in tale ultima ipotesi si è in presenza di atti avente natura negoziale con assunzione di obbligazioni reciproche ed espressione di scelte concordate: in questi casi, la posizione del privato promotore è anche quella del soggetto che ha dato avvio al procedimento, il quale assume quindi la qualità di parte necessaria del procedimento stesso cui deve essere notificata l’iniziativa giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, Ad. Gen., 21.11.1991, nr. 141) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.02.2013 n. 1097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Qualora gli accordi di programma comportino varianti urbanistiche, l’accordo di programma sottoscritto dal Sindaco non acquista efficacia se non è approvato dal competente Consiglio Comunale nel termine di decadenza di trenta giorni ex art. 34, d.lgs. nr. 267 del 2000; con la conseguenza che, essendo nelle more dell’approvazione l’accordo di programma inefficace e non esecutivo, il termine per la sua impugnazione decorre, ove non sia necessaria la notifica individuale, dalla pubblicazione della delibera consiliare, ferma restando la necessità di impugnare contestualmente anche l’accordo.
Al riguardo, giova richiamare l’indirizzo giurisprudenziale in materia di accordi di programma, dal quale questa Sezione non ravvisa ragione per discostarsi, secondo cui, qualora questi comportino varianti urbanistiche, l’accordo di programma sottoscritto dal Sindaco non acquista efficacia se non è approvato dal competente Consiglio Comunale nel termine di decadenza di trenta giorni ex art. 34, d.lgs. nr. 267 del 2000; con la conseguenza che, essendo nelle more dell’approvazione l’accordo di programma inefficace e non esecutivo, il termine per la sua impugnazione decorre, ove non sia necessaria la notifica individuale, dalla pubblicazione della delibera consiliare, ferma restando la necessità di impugnare contestualmente anche l’accordo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.11.2005, nr. 6467; id., 09.10.2002, nr. 5365).
Da questi principi ben potrebbe desumersi, come fanno le parti odierne appellanti, la carenza di autonoma lesività nel mero verbale di una Conferenza di servizi istruttoria, dovendo le relative determinazioni essere recepite nell’accordo di programma e nei successivi atti amministrativi di approvazione di esso.
E, difatti, l’orientamento largamente prevalente –anche in relazione all’assetto normativo anteriore alle modifiche intervenute dal 2005 in poi sugli artt. 14 e segg. della legge 07.08.1990, nr. 241 (non applicabili ratione temporis alla fattispecie che qui occupa)– attribuisce alle determinazioni della Conferenza natura meramente endoprocedimentale, desumendone che esse vanno impugnate unitamente al provvedimento conclusivo del procedimento in cui si inseriscono (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09.11.2011, nr. 5921; id., 31.01.2011, nr. 712; id., 09.11.2010, nr. 7981; id., 03.12.2009, nr. 7570; id., 11.11.2008, nr. 5620).
Parte appellata contesta siffatte conclusioni, appellandosi a un pur esistente (ancorché minoritario) indirizzo che riconosce il carattere autonomamente lesivo, e quindi l’autonoma impugnabilità, del verbale conclusivo della Conferenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, nr. 3361); e tuttavia, anche a voler seguire questa impostazione le conclusioni non mutano se non sul piano nominalistico, dovendo addivenirsi a declaratoria di improcedibilità del ricorso, piuttosto che di sua inammissibilità.
E difatti, anche a convenire sull’autonoma lesività delle determinazioni della Conferenza di servizi, non v’ha dubbio, per quanto si è fin qui osservato, che la loro definitività è condizionata dal loro recepimento negli atti conclusivi del procedimento (id est, nell’accordo di programma e nei relativi atti approvativi), ben potendo accadere che per qualsiasi motivo l’accordo non venga sottoscritto, o comunque che il deliberato della Conferenza non sia recepito in un formale ed efficace provvedimento conclusivo.
Ne discende, per converso, che laddove tale provvedimento vi sia esso va necessariamente a sua volta impugnato, comportando l’omissione di tale adempimento l’improcedibilità della precedente impugnativa (alla stessa stregua di quanto avviene, ad esempio, per l’impugnativa dell’aggiudicazione provvisoria di una gara d’appalto che non sia seguita da quella dell’aggiudicazione definitiva)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.02.2013 n. 1097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In via generale, per gli strumenti urbanistici il termine di impugnazione è ancorato alla data di loro pubblicazione, e non alla data in cui il ricorrente ne abbia avuto piena conoscenza.
Più specificamente, per i piani particolareggiati si applica l’art. 16 della legge 17.08.1942, nr. 1150, alla cui stregua la notificazione individuale è dovuta solo per i proprietari delle aree vincolate allo scopo di realizzare opere pubbliche, in relazione alle quali il comma 9 della citata norma prevede che l’approvazione del piano equivale a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste (costituendo quindi avvio della procedura espropriativa), mentre per gli altri casi, nei quali non trova applicazione il detto obbligo di notifica, il termine per impugnare decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione del provvedimento presso l’Albo pretorio del Comune, secondo i comuni principi.
Su quest’ultimo punto, per completezza espositiva va segnalata l’esistenza di altro orientamento che estende l’obbligo di notifica individuale a tutti i proprietari di suoli ricompresi nel perimetro del piano attuativo.

La Sezione non può condividere tale conclusione, la quale si pone in frontale contrasto col consolidato indirizzo giurisprudenziale, alla cui stregua:
- in via generale, per gli strumenti urbanistici il termine di impugnazione è ancorato alla data di loro pubblicazione, e non alla data in cui il ricorrente ne abbia avuto piena conoscenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, nr. 1868; id., 12.06.2009, nr. 3730);
- più specificamente, per i piani particolareggiati si applica l’art. 16 della legge 17.08.1942, nr. 1150, alla cui stregua la notificazione individuale è dovuta solo per i proprietari delle aree vincolate allo scopo di realizzare opere pubbliche, in relazione alle quali il comma 9 della citata norma prevede che l’approvazione del piano equivale a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste (costituendo quindi avvio della procedura espropriativa), mentre per gli altri casi, nei quali non trova applicazione il detto obbligo di notifica, il termine per impugnare decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione del provvedimento presso l’Albo pretorio del Comune, secondo i comuni principi (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, 06.07.2010, nr. 4289).
Su quest’ultimo punto, per completezza espositiva va segnalata l’esistenza di altro orientamento che estende l’obbligo di notifica individuale a tutti i proprietari di suoli ricompresi nel perimetro del piano attuativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.12.2005, nr. 7054)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.02.2013 n. 1097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’intervento per realizzare un sedime stradale non può certamente rappresentare operazione disciplinante una intera zona del territorio comunale che, in quanto conformativa in termini generali, permette di escludere la previsione di indennizzo.
Alla prima doglianza deve darsi soluzione negativa, avendo il TAR del tutto correttamente ripercorso l’evoluzione giurisprudenziale e normativa, sino ai principi dettati dalla Corte costituzionale (sent. n. 179/1999), sulla ribadita necessità di una previsione di indennizzo da parte dei provvedimenti che rinnovino motivatamente un vincolo preordinato all’espropriazione o anche “sostanzialmente espropriativo”. Per tale ragione il TAR ha validamente ritenuto illegittime le deliberazioni impugnate che, pur reiterando la previsione espropriativa e del vincolo, cionondimeno non hanno incluso la necessaria previsione giuridica dell’indennizzo (in questo senso v. fra le molte, Cass. civ., Sez. I, sent. n. 1754 del 26-01-2007).
Né a contrasto del consolidato orientamento seguito dal TAR, può argomentarsi che la citata sentenza della Corte è intervenuta successivamente al momento di adozione degli atti gravati e della proposizione del ricorso. Ed invero è principio consolidato che la sentenza della Corte che sopravvenga in corso di giudizio deve essere recepita dal giudice di merito, il quale è tenuto a farne applicazione regolando il caso secondo le indicazioni emergenti dalla pronunzia (per il principio v. tra le altre, Cons. di Stato, sez. IV, n. 1495/2000).
Neppure potrebbe in contrario obiettarsi che il procedimento espropriativo, in vista del quale il vincolo viene inserito, non ha poi avuto alcun corso, poiché tale circostanza non elimina il fatto oggettivo che, sino all’esito (anche negativo) del procedimento per il quale viene imposto, il vincolo esplica ugualmente i suoi effetti limitativi dell’attitudine e quindi del valore dell’area privata che lo subisce.
Parimenti non condivisibile è infine l’interpretazione (v.p. 5 memoria 06.11.2012) che pretende di configurare il vincolo in questione come urbanistico-conformativo per dedurre da tale natura la non indennizzabilità (cfr. Cons. di Stato, sez IV, n. 4606/2008 e n. 1765/2009); ed invero l’intervento per realizzare un sedime stradale non può certamente rappresentare operazione disciplinante una intera zona del territorio comunale che, in quanto conformativa in termini generali, permette di escludere la previsione di indennizzo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.02.2013 n. 1021 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 4 della legge 10 del 1977, vigente all’epoca, disponeva, infatti, al terzo comma che “nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”, nel mentre nel susseguente quarto comma disponeva che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno”, che “il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni”, e disciplinava quindi le ipotesi di proroga della concessione stessa.
Nel quinto comma disponeva –altresì– che “qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata”, nel mentre nel sesto comma, quale norma di chiusura del “sistema”, stabiliva che la concessione era “irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi della presente legge” e le sanzioni previste dall'articolo 15 della stessa.
Risulta ben evidente, pertanto, che in tale contesto, non ravvisandosi la presenza di una norma che imponesse l’emanazione di un provvedimento di decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori, la stessa si è verificata di diritto a seguito dell’infruttuoso decorso del termine prefissato.

Nel caso di specie, l’originaria concessione edilizia è, infatti, decaduta di diritto, non avendo la concessionaria iniziato ed ultimato il basso fabbricato nei termini stabiliti.
L’art. 4 della legge 10 del 1977, vigente all’epoca, disponeva, infatti, al terzo comma che “nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”, nel mentre nel susseguente quarto comma disponeva che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno”, che “il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni”, e disciplinava quindi le ipotesi di proroga della concessione stessa.
Nel quinto comma disponeva –altresì– che “qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata”, nel mentre nel sesto comma, quale norma di chiusura del “sistema”, stabiliva che la concessione era “irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi della presente legge” e le sanzioni previste dall'articolo 15 della stessa.
Risulta ben evidente, pertanto, che in tale contesto, non ravvisandosi la presenza di una norma che imponesse l’emanazione di un provvedimento di decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori, la stessa si è verificata di diritto a seguito dell’infruttuoso decorso del termine prefissato (in termini C.d.S., IV, 18.05.2012, n. 2915).
La concessionaria avrebbe dovuto, pertanto, munirsi di un nuovo titolo edilizio e non limitarsi a chiedere, nell’anno 2001, il nulla osta per la costruzione al Presidente della IV Circoscrizione ovvero ad un soggetto privo di specifiche competenze in materia.
Ne deriva, conseguentemente, che anche l’affidamento dalla medesima riposto sull’assentibilità delle opere realizzate e soprattutto sulla possibilità di mantenerle in essere deve ritenersi non meritevole di tutela.
L’affidamento tutelabile è, infatti, unicamente quello incolpevole e tale non può ritenersi quello di colui che ha realizzato un’opera edilizia in assenza dei prescritti titoli autorizzativi, viepiù quando, come nel caso di specie, l’Amministrazione, sin dalla fase dell’esecuzione, ha evidenziato al soggetto interessato la presunta violazione alle norme urbanistico-edilizie (vedi relazione Polizia Municipale in data 15.05.2003 – all. 3 fascicolo doc. Comune) e a soli tre anni di distanza lo ha diffidato a demolire le opere realizzate in assenza di concessione edilizia e a ripristinare lo stato dei luoghi (vedi provv. 14.06.2006 – all. 1 fascicolo ricorrente), previo diniego del permesso di costruire in sanatoria nel frattempo dallo stesso invocato (vedi provv. 19.12.2005 – all. 2 fascicolo cit.).
Non pare, dunque, condivisibile l’assunto della ricorrente, secondo il quale sarebbe stata la stessa Amministrazione ad indurla a confidare sulla legittimità del proprio operato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 18.01.2013 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’ordine di demolizione emesso “a distanza di tempo”.
Gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, caratterizzati dall’omissione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a, dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni in sanatoria, paesaggistiche o urbanistico-edilizie, oppure con il ripristino dello stato dei luoghi.
Ne deriva che l’Autorità, se emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente.
La giurisprudenza amministrativa è, invero, consolidata nel ritenere che “il potere repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell’esercizio del potere”.

Osserva, inoltre, il Collegio che gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, caratterizzati dall’omissione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a, dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni in sanatoria, paesaggistiche o urbanistico-edilizie, oppure con il ripristino dello stato dei luoghi (ex multis C.d.S., IV, n. 1464/2009; C.d.S., VI; n. 1255/2007; C.d.S., V, n. 4420/2006).
Ne deriva che l’Autorità, se emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente (C.d.S., VI, n. 528/2006; C.d.S., IV, n. 2529/2004).
La giurisprudenza amministrativa è, invero, consolidata nel ritenere che “il potere repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell’esercizio del potere” (C.d.S., IV, 16.04.2010, n. 2160; C.d.S., V, 13.07.2006, n. 4420; C.d.S., IV, 02.06.2000, n. 3184) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 18.01.2013 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l'adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi. In tal caso, la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte, non sarebbero state adeguatamente custodite è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto e specifico atto a far ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità della procedura.
Per altro verso, non nega il Collegio che sussista un preciso obbligo, per la stazione appaltante, di predisporre adeguate cautele a tutela dell'integrità dei predetti plichi. Questo, pur in mancanza di precise norme positive al riguardo, discende necessariamente dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara ad evidenza pubblica. Infatti, di per sé l'integrità dei plichi contenenti le offerte dei partecipanti all'incanto è uno degli elementi sintomatici della segretezza di queste e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità consacrati dall'art. 97 Cost..
È ben consapevole tuttavia il Collegio che la mera affermazione, senza indicazione a verbale d’una qualche misura acconcia a garantire la continuità della conservazione dei plichi, di manomissioni giammai avvenute potrebbe di fatto risolversi in una probatio diabolica, a carico dell'impresa interessata, in ordine alla non genuinità della documentazione esaminata. Invero, lasciare al seggio di gara il mero assunto della perfetta regolarità delle operazioni su documenti intatti, senza ulteriori precisazioni, appare altrettanto nocivo quanto l’astratta asserzione dell’omessa verbalizzazione della custodia, con conseguente ineluttabile declaratoria d’illegittimità dell’intera gara. Nell’un caso, per vero, sarebbe in pratica se non impossibile, certo molto complesso dimostrare in modo rigoroso tal manomissione e, quindi, ottenere la corrispondente tutela; nell’altro caso, la mera allegazione di un qualunque difetto di verbalizzazione, su rigide modalità di custodia dei plichi, ridondi sempre e senza rimedio in danno alla trasparenza dell’azione amministrativa, determinando l’annullamento della gara, al di là d’ogni diversa situazione di fatto.
Pare allora al Collegio che una più cauta e seria linea interpretativa o, meglio, integrativa dell’art. 78 del Dlgs 163/2006 serva ad offrire all’interessato non già una sorta d’inversione dell’onere della prova da questi alla stazione appaltante, bensì una più precisa distribuzione di tal onere tra i due soggetti del rapporto procedimentale. Tanto affinché tal integrazione non si risolva nella distorsione dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non, addirittura, in un controllo meramente formale della verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti.
In pratica, la stazione appaltante ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusta quanto stabilito dal’art. 13, c. 2, del Dlgs 163/2006. Sicché essa ha l’onere di dimostrare, a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa un effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova. Nella specie, l’appellante incidentale non ha dedotto fatti e circostanze suscettibili di generare un ragionevole dubbio sull’inidoneità della conservazione dei plichi da parte dell’ASL appellante principale, mentre questa ha fornito alcuni precisi principi di prova contraria.

La Sezione sul punto ha già chiarito (cfr. Cons. St., III, 02.08.2012 n. 4422; id., 21.09.2012 n. 5050) che, in presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l'adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi. In tal caso, la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte, non sarebbero state adeguatamente custodite è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto e specifico atto a far ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità della procedura.
Per altro verso, non nega il Collegio che sussista un preciso obbligo, per la stazione appaltante, di predisporre adeguate cautele a tutela dell'integrità dei predetti plichi. Questo, pur in mancanza di precise norme positive al riguardo, discende necessariamente dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara ad evidenza pubblica. Infatti, di per sé l'integrità dei plichi contenenti le offerte dei partecipanti all'incanto è uno degli elementi sintomatici della segretezza di queste e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità consacrati dall'art. 97 Cost.
Nondimeno, nella specie, dà atto il TAR che, come verbalizzato, il RUP ha disposto di «…custodire i plichi contenenti le offerte tecniche… fino alla individuazione della commissione giudicatrice che dovrà valutarle, ed alla conseguente trasmissione degli atti di gara alla stessa…». Inoltre, egli ha dichiarato a verbale di conservare tali offerte e le buste delle offerte economiche in un armadio chiuso, presso la sede dell’UOS Politiche approvvigionamenti dell’Azienda. Né basta: dai verbali delle operazioni s’evince, di volta in volta, l’apertura di plichi intonsi, nonché la firma apposta sulla prima pagina, da parte d’almeno un componente del seggio di gara, di tutti i documenti esaminati in seduta riservata. Reputa, dunque, il Collegio che siffatte operazioni dimostrino, al di là della minore o maggior solennità nell’indicazione in verbale di quali accorgimenti adoperati per preservare detti plichi, che di possibili manomissioni non sussistano indizi di sorta, donde la sufficienza in concreto delle cautele poste in essere.
È ben consapevole tuttavia il Collegio che la mera affermazione, senza indicazione a verbale d’una qualche misura acconcia a garantire la continuità della conservazione dei plichi, di manomissioni giammai avvenute potrebbe di fatto risolversi in una probatio diabolica, a carico dell'impresa interessata, in ordine alla non genuinità della documentazione esaminata. Invero, lasciare al seggio di gara il mero assunto della perfetta regolarità delle operazioni su documenti intatti, senza ulteriori precisazioni, appare altrettanto nocivo quanto l’astratta asserzione dell’omessa verbalizzazione della custodia, con conseguente ineluttabile declaratoria d’illegittimità dell’intera gara. Nell’un caso, per vero, sarebbe in pratica se non impossibile, certo molto complesso dimostrare in modo rigoroso tal manomissione e, quindi, ottenere la corrispondente tutela; nell’altro caso, la mera allegazione di un qualunque difetto di verbalizzazione, su rigide modalità di custodia dei plichi, ridondi sempre e senza rimedio in danno alla trasparenza dell’azione amministrativa, determinando l’annullamento della gara, al di là d’ogni diversa situazione di fatto.
Pare allora al Collegio che una più cauta e seria linea interpretativa o, meglio, integrativa dell’art. 78 del Dlgs 163/2006 serva ad offrire all’interessato non già una sorta d’inversione dell’onere della prova da questi alla stazione appaltante, bensì una più precisa distribuzione di tal onere tra i due soggetti del rapporto procedimentale. Tanto affinché tal integrazione non si risolva nella distorsione dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non, addirittura, in un controllo meramente formale della verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti. In pratica, la stazione appaltante ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara (arg. ex Cons. St., III, 03.03.2011 n. 1368), cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusta quanto stabilito dal’art. 13, c. 2, del Dlgs 163/2006. Sicché essa ha l’onere di dimostrare, a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa un effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova. Nella specie, l’appellante incidentale non ha dedotto fatti e circostanze suscettibili di generare un ragionevole dubbio sull’inidoneità della conservazione dei plichi da parte dell’ASL appellante principale, mentre questa ha fornito alcuni precisi principi di prova contraria (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.01.2013 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione di avvio del procedimento non si impone laddove il procedimento sia iniziato a seguito di istanza del medesimo interessato.
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L'omessa nomina del responsabile del procedimento non può ex se assumere valenza di vizio procedimentale tale da condurre all'illegittimità dell'atto, trattandosi di mera irregolarità cui è possibile supplire considerando responsabile il funzionario preposto alla competente unità organizzativa, secondo quanto previsto dall'art. 5, comma 2, l. n. 241 del 1990.

Il motivo è infondato, poiché la comunicazione di avvio del procedimento non si impone laddove il procedimento sia iniziato a seguito di istanza del medesimo interessato (TAR, Campania, Napoli, Sez. VIII 05.05.2011 n. 2497), cosicché i provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento (C.S. Sez. IV 06.07.2012 n. 3969)
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Il motivo è infondato, poiché, a livello generale, l'omessa nomina del responsabile del procedimento non può ex se assumere valenza di vizio procedimentale tale da condurre all'illegittimità dell'atto, trattandosi di mera irregolarità cui è possibile supplire considerando responsabile il funzionario preposto alla competente unità organizzativa, secondo quanto previsto dall'art. 5, comma 2, l. n. 241 del 1990 (TAR Campania, Napoli Sez. VII 09.07.2012 n. 3289).
In ogni caso, l'emanazione del provvedimento impugnato è in realtà stata preceduta da valutazioni istruttorie, formulate proprio dal "responsabile del servizio", il quale ha altresì adottato il provvedimento finale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.01.2013 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'onere della prova, circa la data di realizzazione dell'immobile abusivo da sanare, spetta a colui che ha commesso l'abuso, e solo la deduzione da parte sua di concreti elementi che non potrebbero peraltro limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all'Amministrazione la quale, di solito, non è invece materialmente in grado di accertare la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge.
Il privato che propone l'istanza di concessione edilizia in sanatoria è invece normalmente in grado di fornire idonea documentazione che comprovi l'ultimazione dell'abuso entro la data di riferimento del 31.12.1993, a lui spettando pertanto l'onere di fornire, quantomeno, un principio di prova su tale ultimazione, in caso contrario restando integro il potere dell'Amministrazione di non concedere il condono e di irrogare la sanzione prescritta.
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Non è necessaria l'acquisizione del parere della commissione edilizia comunale nell'ipotesi di diniego di condono edilizio, laddove non occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni normative.
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I presupposti del procedimento di condono edilizio e di quello di accertamento di conformità urbanistica sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (il condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale), l'altro (sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985, oggi art. 36, D.P.R. n. 380/2001), l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale).
Nell'ipotesi di rigetto dell'istanza di condono non potrà più sussistere alcun interesse alla riviviscenza della domanda di accertamento di conformità, essendosi la materia del contendere incentrata sulla condonabilità, ciò che implica la non conformità urbanistica dell'abuso.
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L'inammissibilità dell'impugnazione rivolta avverso il diniego di sanatoria comporta infatti il consolidarsi degli effetti di tale atto, rispetto al quale, la successiva ingiunzione di demolizione, costituisce atto dovuto e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario.
Conseguentemente, l'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria decade dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto.
Pur essendo infatti in astratto possibile che un ordine di demolizione, sia affetto da vizi propri, nella fattispecie per cui è causa la ricorrente si limita a contestare il detto provvedimento riproducendo i motivi di ricorso rivolti avverso il pregresso diniego di sanatoria, tra l'altro espressamente richiamato nella detta ingiunzione di demolizione.

Osserva tuttavia il Collegio come l'onere della prova, circa la data di realizzazione dell'immobile abusivo da sanare, spetta a colui che ha commesso l'abuso, e solo la deduzione da parte sua di concreti elementi che non potrebbero peraltro limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all'Amministrazione la quale, di solito, non è invece materialmente in grado di accertare la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge.
Il privato che propone l'istanza di concessione edilizia in sanatoria è invece normalmente in grado di fornire idonea documentazione che comprovi l'ultimazione dell'abuso entro la data di riferimento del 31.12.1993, a lui spettando pertanto l'onere di fornire, quantomeno, un principio di prova su tale ultimazione, in caso contrario restando integro il potere dell'Amministrazione di non concedere il condono e di irrogare la sanzione prescritta (C.S. Sez. IV 13.01.2010 n. 45).
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Con il terzo motivo si lamenta l'omessa acquisizione del parere della Commissione edilizia Comunale.
Anche tale motivo è infondato, non essendo necessaria l'acquisizione del parere della commissione edilizia comunale nell'ipotesi di diniego di condono edilizio, laddove, come nel caso di specie, non occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni normative (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 17.07.2012 n. 563).
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Con l'ultimo motivo la ricorrente sostiene che, anche ove la richiesta di condono non avesse potuto trovare accoglimento per difetto del requisito temporale, essa avrebbe comunque dovuto essere esaminata sotto il profilo della richiesta di concessione ex art. 13 L. n. 47/1985 "essendo comunque evidente la volontà del richiedente di ottenere, comunque, la sanatoria dell'opera".
Il motivo è infondato, poiché in realtà i presupposti del procedimento di condono edilizio e di quello di accertamento di conformità urbanistica sono non solo diversi, ma anche antitetici, atteso che l'uno (il condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale), l'altro (sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985, oggi art. 36, D.P.R. n. 380/2001), l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale). Nell'ipotesi di rigetto dell'istanza di condono non potrà più sussistere alcun interesse alla riviviscenza della domanda di accertamento di conformità, essendosi la materia del contendere incentrata sulla condonabilità, ciò che implica la non conformità urbanistica dell'abuso (TAR Campania, Napoli Sez. VI 03.09.2010 n. 17282).
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L'inammissibilità dell'impugnazione rivolta avverso il diniego di sanatoria comporta infatti il consolidarsi degli effetti di tale atto, rispetto al quale, la successiva ingiunzione di demolizione, costituisce atto dovuto e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario (TAR Lazio, Roma, Sez. II 05.09.2012 n. 7570). Conseguentemente, l'autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria decade dalla possibilità di rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto (C.S. Sez. V 17.09.2008 n. 4446).
Pur essendo infatti in astratto possibile che un ordine di demolizione, sia affetto da vizi propri (TAR Puglia, Bari, Sez. II 02.09.2010 n. 3447), nella fattispecie per cui è causa la ricorrente si limita a contestare il detto provvedimento riproducendo i motivi di ricorso rivolti avverso il pregresso diniego di sanatoria, tra l'altro espressamente richiamato nella detta ingiunzione di demolizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.01.2013 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’espressa disciplina di cui all'art. 35 della legge n. 47/1985, la presentazione della domanda di condono non comporta in linea di principio, un potere-obbligo del Comune di provvedervi, quando la domanda sia mancante delle produzioni e degli allegati necessari.
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Priva di fondamento è l’eccezione –sollevata dal ricorrente- della prescrizione decennale degli oneri di urbanizzazione, dovuti ai sensi della legge 1977 n. 10: il compimento del termine prescrizionale postulerebbe l’inerzia del Comune, talché esso non può decorrere nel periodo in cui l’ente abbia svolto attività istruttorie, ai fini della concessione della sanatoria.

E’ orientamento di un’autorevole giurisprudenza ritenere che, in base all’espressa disciplina di cui al citato art. 35 della legge n. 47/1985, la presentazione della domanda di condono non comporti, in linea di principio, un potere-obbligo del Comune di provvedervi, quando la domanda sia mancante, come nel caso di specie, delle produzioni e degli allegati necessari (cfr.: Cons. Stato IV, 20.11.2012 n. 5884; idem V, 25.06.2002 n. 3441; idem V, 14.10.1998 n. 1468).
Se è vero che la richiesta d’integrazione documentale datata 28.08.1997, a firma del dirigente dell’Ufficio tecnico comunale, è rimasta parzialmente inevasa, l’inutile decorso del tempo è attribuibile principalmente all’inerzia e alla negligenza del ricorrente. Non si può, per contro, assumere che il Comune abbia serbato sull’istanza di condono un colpevole silenzio protrattosi fino al febbraio 2004.
Vi è di più: lo stesso art. 35, comma 17, stabilisce che <<la domanda s’intende accolta, ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio e alla presentazione all’Ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento>>. Si può anche affermare che il diritto al conguaglio si prescriva nei 36 mesi successivi, come prevede la normativa in esame, sennonché il ricorrente non fornisce alcuna prova della presentazione all’U.t.e. della documentazione necessaria all’accatastamento, limitandosi invece ad esibire al Comune la ricevuta di accatastamento del fabbricato preesistente (assentito con la c.e. 6/82). Tale circostanza costituisce ulteriore ragione per il mancato decorso del termine di maturazione del silenzio assenso e per la sospensione della prescrizione del diritto al conguaglio delle somme dovute.
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Priva di fondamento è, altresì, l’eccezione –sollevata dal ricorrente- della prescrizione decennale degli oneri di urbanizzazione, dovuti ai sensi della legge 1977 n. 10: il compimento del termine prescrizionale postulerebbe l’inerzia del Comune, talché esso non può decorrere nel periodo in cui l’ente abbia svolto attività istruttorie, ai fini della concessione della sanatoria (cfr.: Cons. Stato IV, 03.10.2012 n. 5201; Tar Calabria I, 26.10.2012 n. 641).
Il primo periodo di nove anni è stato interrotto dall’attività istruttoria del 1997; anche il secondo periodo prescrizionale di sei anni è stato interrotto dall’attività del Comune, nel 2004
(TAR Molise, sentenza 27.12.2012 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINessuna disposizione né di legge né di regolamento pone un divieto assoluto di elementi di tipo economico nell’offerta tecnica.
Peraltro copiosa giurisprudenza ritiene vietata la commistione tra offerta tecnica ed economica, al fine di prevenire il suddetto pericolo che gli elementi economici influiscano sulla previa valutazione dell’offerta tecnica, in violazione del principio sotteso alle norme vigenti, di segretezza dell’offerta economica fino al completamento della valutazione delle offerte tecniche.
Ma anche la giurisprudenza (invocata dall’appellante) non si spinge ad affermare il divieto assoluto di indicare elementi economici all’interno dell’offerta tecnica, nel modo rigoroso preteso dall’appellante.

La giurisprudenza si è occupata di casi in cui in modo palese e vistoso risultava violato il principio di segretezza dell’offerta economica fino al completamento della fase di valutazione delle offerte tecniche:
- in alcuni casi l’offerta tecnica era corredata del computo estimativo contenente l’intera offerta economica;
- in alcuni casi l’offerta economica non era stata inserita in apposita busta sigillata;
- in un caso l’offerta economica era stata erroneamente inserita nella busta contenente la documentazione amministrativa, che è quella che viene aperta per prima, prima ancora della busta contenente l’offerta tecnica, sicché palesemente l’offerta economica era divenuta nota prima di quella tecnica;
- in alcuni la commissione aveva aperto la busta con l’offerta economica prima di quella con l’offerta tecnica;
- in alcuni era stata la lex specialis a prevedere, nell’ambito dell’offerta tecnica, elementi economici, talora incidenti in percentuale rilevante, pari o superiore al 10%, rispetto alla complessiva offerta economica.

Osserva il Collegio che lo stesso codice appalti, nell’indicare gli elementi che compongono l’offerta tecnica, indica voci che presentano elementi di tipo quantitativo-economico, quali il contenimento dei consumi energetici, il costo di utilizzazione e manutenzione, la redditività (art. 83, comma 1, lett. e), f), g), d.lgs. n. 163/2006).
A sua volta il regolamento attuativo del codice appalti prescrive che le offerte tecniche siano esaminate in seduta segreta e che solo successivamente, in seduta pubblica, siano esaminate le offerte economiche (art. 120 d.P.R. n. 207/2010).
Questo al precipuo fine di evitare che in sede di valutazione delle offerte tecniche la commissione possa essere influenzata da elementi di natura economica.
Come si vede, nessuna disposizione né di legge né di regolamento pone un divieto assoluto di elementi di tipo economico nell’offerta tecnica.
Peraltro copiosa giurisprudenza ritiene vietata la commistione tra offerta tecnica ed economica, al fine di prevenire il suddetto pericolo che gli elementi economici influiscano sulla previa valutazione dell’offerta tecnica, in violazione del principio sotteso alle norme vigenti, di segretezza dell’offerta economica fino al completamento della valutazione delle offerte tecniche.
Ma anche la giurisprudenza (invocata dall’appellante) non si spinge ad affermare il divieto assoluto di indicare elementi economici all’interno dell’offerta tecnica, nel modo rigoroso preteso dall’appellante.
La giurisprudenza si è occupata di casi in cui in modo palese e vistoso risultava violato il principio di segretezza dell’offerta economica fino al completamento della fase di valutazione delle offerte tecniche:
- in alcuni casi l’offerta tecnica era corredata del computo estimativo contenente l’intera offerta economica (Cons. St., sez. V, 09.06.2009 n. 2575) ovvero una percentuale di essa pari a circa il 10% (Cons. St., sez. V, 08.09.2010 n. 6509);
- in alcuni casi l’offerta economica non era stata inserita in apposita busta sigillata (Cons. St., sez. V, 23.01.2007 n. 196; Cons. St., sez. VI, 17.07.2001 n. 3962);
- in un caso l’offerta economica era stata erroneamente inserita nella busta contenente la documentazione amministrativa, che è quella che viene aperta per prima, prima ancora della busta contenente l’offerta tecnica, sicché palesemente l’offerta economica era divenuta nota prima di quella tecnica (Cons. St., sez. VI, 12.12.2002 n. 6795);
- in alcuni la commissione aveva aperto la busta con l’offerta economica prima di quella con l’offerta tecnica (Cons. St., sez. VI, 10.07.2002 n. 3848; Id., sez. V, 31.12.1998 n. 1996; Id., sez. VI, 03.06.1997 n. 839);
- in alcuni era stata la lex specialis a prevedere, nell’ambito dell’offerta tecnica, elementi economici (Cons. St., sez. V, 25.05.2009 n. 3217), talora incidenti in percentuale rilevante, pari o superiore al 10%, rispetto alla complessiva offerta economica (Cons. St., sez. V, 28.09.2012 n. 5121)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 5928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI piani di Recupero si configurano quali strumenti di pianificazione secondaria deputati a normare non solo interventi di ristrutturazione edilizia, ma anche interventi di ristrutturazione urbanistica, e possono pertanto riguardare anche aree inedificate.
Per quanto attiene alla prima di tali censure, ossia che l’edificazione dell’area acquisita da C.S.T. non poteva avvenire mediante Piano di Recupero non sussistendo sulla relativa area preesistenze edilizie, va evidenziato che -anche a prescindere dalla circostanza che la censura stessa andava semmai riferita non al Piano di Recupero ma al presupposto art. 8 delle N.T.A. del P.R.G., il quale per l’appunto prevedeva per l’area in questione tale specifica modalità di edificazione- i piani di Recupero si configurano quali strumenti di pianificazione secondaria deputati a normare non solo interventi di ristrutturazione edilizia, ma anche interventi di ristrutturazione urbanistica, e possono pertanto riguardare anche aree inedificate (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.1992 n. 223, segnatamente relativa alla L.R. 07.07.1986 n. 23, vigente all’epoca dell’approvazione del Piano di Recupero in questione, nonché , più in generale e con espresso riguardo alla sola disciplina contenuta negli artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978, Cons. Stato, Sez. IV, 28.05.1988 n. 468)
(Cons. Stato Sez. IV, sentenza 09.10.2012 n. 5253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva.
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Il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione: ipotesi che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di Recupero.

Il Collegio non sottace a tale riguardo che la giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 12.07.2007 n. 3094), posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva (cfr. ibidem).
Tuttavia, dall’esame del dato letterale dell’art. 9 risulta che per le zone di tipo A, in cui ricade l’ambito del Piano di Recupero contemplante la realizzazione dell’edificio da parte di C.S.T., “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”, nel mentre soltanto per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone …è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
A questo punto il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 27.01.2003 n. 419): ipotesi che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali -come, per l’appunto, nell’evenienza in esame- l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di Recupero, atteso che gli edifici preesistenti di cui si è già detto al § 5.2.2. erano addossati all’anzidetta parete non finestrata dell’edificio di proprietà dei Ferrario
(Cons. Stato Sez. IV, sentenza 09.10.2012 n. 5253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia (ed ora di un permesso di costruire) rilasciata a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto (dalla quale deve farsi decorrere il termine di sessanta giorni per l’impugnazione previsto dall’art. 21 della legge TAR, 06.12.1971, n. 1034) si ha normalmente quando la nuova costruzione rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, con la conseguenza che, in assenza di altri univoci elementi probatori, il termine per l’impugnazione inizia a decorrere non dall’inizio dei lavori ma dal loro completamento (di norma sotto il profilo strutturale), a meno che nell’impugnazione non si sostenga l’assoluta inedificabilità dell’area o si producano censure rilevabili sin dalla fase iniziale dei lavori, come sul mancato rispetto delle distanze fra fabbricati.
Al riguardo si deve ricordare che, per principio consolidato, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia (ed ora di un permesso di costruire) rilasciata a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto (dalla quale deve farsi decorrere il termine di sessanta giorni per l’impugnazione previsto dall’art. 21 della legge TAR, 06.12.1971, n. 1034) si ha normalmente quando la nuova costruzione rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, con la conseguenza che, in assenza di altri univoci elementi probatori, il termine per l’impugnazione inizia a decorrere non dall’inizio dei lavori ma dal loro completamento (di norma sotto il profilo strutturale), a meno che nell’impugnazione non si sostenga l’assoluta inedificabilità dell’area o si producano censure rilevabili sin dalla fase iniziale dei lavori, come sul mancato rispetto delle distanze fra fabbricati (fra le tante, TAR Lazio Latina, sez. I, 29.07.2008, n. 972; TAR Campania Salerno, Sez. II, 19.07.2007, n. 860; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 18.03.2003 n. 2637; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.04.2006, n. 2295)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per porticato deve intendersi una struttura edilizia costituita da un piano di copertura sostenuto da pilastri o altri sistemi di supporto, con apertura su almeno tre lati, che ha una funzione accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale e, quanto alla destinazione, assolve la funzione di protezione degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e stazionamento dei residenti.
Ai fini del computo o meno del relativo volume ai fini dell’osservanza degli indici di edificabilità, il porticato deve quindi avere una precisa configurazione strutturale, con l’apertura su almeno tre lati, e una chiara funzione accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale, mancando le quali si deve ritenere che la struttura edilizia debba considerasi alla stregua delle altre componenti dell’edificio, con la conseguenza che il volume relativo deve conteggiarsi nel volume complessivo del fabbricato.
Infatti la volumetria di un edificio deve essere calcolata con riferimento all’opera in ogni suo elemento costitutivo ancorché non suscettibile di utilizzazione abitativa. Pertanto, devono essere considerati organismi edilizi anche i porticati coperti, allorquando questi siano di natura o consistenza tali da ampliare in superficie o volume l’edificio stesso.

Al riguardo, si deve preliminarmente precisare in fatto che la struttura oggetto di contestazione, definita porticato e destinata a parcheggio nel progetto assentito, occupa l’intero piano terra dell’edificio in questione e risulta interamente aperto non su tre lati, come affermato dalle parti resistenti, ma solo sui lati nord e sud, mentre sul lato est è chiuso dal muro di confine della ricorrente e sul lato ovest è egualmente chiuso dal muro di cinta di un giardino di proprietà aliena (con altezza di mt. 2,31, come si rileva anche dalla citata Consulenza tecnica depositata dalla stessa signora F.).
Ciò precisato si deve ricordare che, come affermato dalla giurisprudenza anche di questo TAR, per porticato deve intendersi una struttura edilizia costituita da un piano di copertura sostenuto da pilastri o altri sistemi di supporto, con apertura su almeno tre lati, che ha una funzione accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale e, quanto alla destinazione, assolve la funzione di protezione degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e stazionamento dei residenti. Ai fini del computo o meno del relativo volume ai fini dell’osservanza degli indici di edificabilità, il porticato deve quindi avere una precisa configurazione strutturale, con l’apertura su almeno tre lati, e una chiara funzione accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale, mancando le quali si deve ritenere che la struttura edilizia debba considerasi alla stregua delle altre componenti dell’edificio, con la conseguenza che il volume relativo deve conteggiarsi nel volume complessivo del fabbricato (TAR Campania Napoli Sez. IV, n. 11048 del 2003; n. 10593 del 2005).
Infatti la volumetria di un edificio deve essere calcolata con riferimento all’opera in ogni suo elemento costitutivo ancorché non suscettibile di utilizzazione abitativa. Pertanto, devono essere considerati organismi edilizi anche i porticati coperti, allorquando questi siano di natura o consistenza tali da ampliare in superficie o volume l’edificio stesso (TAR Campania Napoli Sez. VI, n. 9988 del 2005; Consiglio di Stato, Sez. V, 14.10.1998, n. 1467).
Applicando tali principi al caso di specie, si deve rilevare che non solo la struttura in esame non può definirsi in senso tecnico un porticato perché non risulta, come si è già osservato, interamente aperta su tre lati ma solo su due lati, ma tale struttura non sembra nemmeno avere la funzione propria dei porticati in quanto, come si rileva dal progetto in atti, la stessa occupa l’intero piano terra della costruzione e non è in aderenza ad altra parte della struttura (posta sullo stesso livello) con funzione di elemento ad essa accessorio.
In conseguenza il relativo volume, come sostenuto dalla ricorrente, non poteva non essere considerato ai fini del computo del volume complessivo del fabbricato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra.
Ma si deve anche aggiungere che, come chiarito dalla giurisprudenza, la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (Consiglio Stato sez. IV 26.09.2008 n. 4645; sez. IV 11.11.2006, n. 6065; Sez. V, 29.03.2004, n. 1662).
Stabilisce, infatti, l'art. 9 della legge n. 122 del 1989 che "i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti". La norma continua disponendo che tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela delle risorse idriche.
In base a tali disposizioni i predetti parcheggi devono essere quindi realizzati nel rispetto delle disposizioni urbanistiche se non vengono a ciò adibiti i locali (preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se non vengano allocati nel sottosuolo dello stesso fabbricato ovvero nel sottosuolo di un'area pertinenziale esterna.
Del resto per gli edifici di nuova costruzione provvede il precedente art. 2, comma 2, della stessa legge n. 122 del 1989, che –nel sostituire l’art. 41-sexies della L.U. n. 1150 del 1942– ha stabilito l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'avvio del procedimento amministrativo deve essere comunicato solo ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e, per giurisprudenza pacifica, tra questi non figurano i proprietari di immobili confinanti con quello oggetto di un permesso di costruire i quali subiscono unicamente i riflessi dall'emanando provvedimento e, pur essendo legittimati ad impugnarlo, non sono da considerare destinatari della comunicazione di avvio del relativo procedimento che non è prevista dalla normativa e comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese violazione dei principi di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa.
Per quanto riguarda la prima doglianza si deve osservare che, a norma dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990, l'avvio del procedimento amministrativo deve essere comunicato solo ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e, per giurisprudenza pacifica, tra questi non figurano i proprietari di immobili confinanti con quello oggetto di un permesso di costruire i quali subiscono unicamente i riflessi dall'emanando provvedimento e, pur essendo legittimati ad impugnarlo, non sono da considerare destinatari della comunicazione di avvio del relativo procedimento che non è prevista dalla normativa e comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese violazione dei principi di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1773 del 18.04.2005; TARLiguria Genova, sez. II, n. 1046 del 07.06.2007) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pertinenza urbanistica ha caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile, comportando l'impossibilità di destinazioni ed utilizzazioni autonome e sostanziandosi nei requisiti della destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cassa principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico.
Ne deriva che il porticato non rientra nel novero delle pertinenze, poiché manca il requisito della individualità e della autonoma utilizzabilità, con la conseguenza che la sua realizzazione necessita di concessione edilizia e non è invece soggetta al regime autorizzatorio.

Giova rimarcare che la pertinenza urbanistica ha caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile, comportando l'impossibilità di destinazioni ed utilizzazioni autonome e sostanziandosi nei requisiti della destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile principale, risultante sotto il profilo funzionale da elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è complementare, dall'ubicazione, dal valore economico rispetto alla cassa principale e dall'assenza del cosiddetto carico urbanistico.
Ne deriva che il porticato non rientra nel novero delle pertinenze, poiché manca il requisito della individualità e della autonoma utilizzabilità (cfr. Cassazione penale sez. III, 21.03.1997, n. 4056), con la conseguenza che la sua realizzazione necessita di concessione edilizia e non è invece soggetta al regime autorizzatorio (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 19.07.2005 n. 9988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.05.2013

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2013, "Determinazioni in ordine ai criteri di gestione obbligatoria e delle buone condizioni agronomiche e ambientali ai sensi del reg. CE 73/09 - Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 4196/2007" (deliberazione G.R. 24.04.2013 n. 67).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Spallino, D.lgs. n. 33/2013: i soggetti obbligati (link a www.studiospallino.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

TRIBUTI: OGGETTO: Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES) - Imposta municipale propria (IMU) – Chiarimenti in ordine alle modifiche recate dall’art. 10 del D.L. 08.04.2013, n. 35 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 29.04.2013 n. 1/DF).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento affidato a terzi.
Domanda
L'affidamento a terzi dello smaltimento dei rifiuti, libera, penalmente, il produttore degli stessi?
Risposta
L'articolo 178 del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, Testo unico ambientale (Tua), rubricato «Principi», dispone che «la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto dei principi dell'ordinamento nazionale e comunitario «chi inquina paga». A tal fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità e trasparenza».
L'articolo 188, comma 1, del citato Testo unico ambientale (Tua), rubricato «Responsabilità della gestione dei rifiuti», nella seconda parte, sancisce, in modo espresso, che:
«(_) Fatto salvo quanto previsto ai successivi commi del presente articolo, il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l'intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque, sussiste».
Il ventiseiesimo «considerando» alla direttiva 2008/98/Ce prevede che il produttore e il consumatore dei rifiuti hanno l'obbligo di gestire gli stessi in modo da garantire un elevato livello di tutela e protezione della salute umana.
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 01.03.2012, numero 8018, ha affermato che, in tema di gestione dei rifiuti, il produttore degli stessi, che affida detta gestione a soggetti terzi, al fine del loro smaltimento, ha degli obblighi precisi di accertamento, quali la verifica dell'affidabilità del terzo, nonché l'accertamento in capo al medesimo delle necessarie autorizzazioni e competenze per l'espletamento dell'incarico. La violazione di detti obblighi di accertamento viene a giustificare, per i Supremi giudici della Corte di cassazione, l'affermazione della responsabilità penale per il mancato controllo. La responsabilità del produttore dei rifiuti, per i predetti giudici, è una responsabilità di «culpa in eligendo», per non avere selezionato, con la dovuta intelligenza, il terzo gestore del rifiuto.
Peraltro, la suddetta Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza del 19.02.2008, numero 2008, ebbe ad affermare, in tema, che: «Tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti rispondono solidalmente del corretto smaltimento». Pensiero già formalizzato dalla suddetta Corte, sezione terza penale, con la precedente sentenza numero 7746, del 2004, con la quale la predetta affermava che: «L'individuazione della responsabilità penale nella gestione dei rifiuti s'informa ai principi di responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, a qualsiasi titolo, nelle operazioni di recupero» (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Qualità dei reflui.
Domanda
Gli scarichi di un'attività di lavanderia a umido, che ha per macchinario una comune lavatrice domestica, possono essere equiparati a quelli provenienti dalle lavatrici in uso nelle civili abitazioni?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 03.04.2012, numero 12470, ha puntualizzato che l'articolo 74, lettera g), del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, Testo unico ambientale (Tua), ha definito acque domestiche anche quelle derivanti da servizi, purché esse provengano, in modo prevalente, dal metabolismo umano e da attività domestiche.
Ha ricordato, poi, la Suprema corte che da tempo la giurisprudenza di legittimità, in tema di reati relativi a violazione di norme per la tutela delle acque da inquinamento, ha sostenuto che l'assimibilità degli insediamenti a quelli produttivi o a quelli civili dipende dalla natura e dalla qualità dei reflui dei relativi scarichi. Al riguardo ha richiamato la sua precedente sentenza, sempre sezione terza penale, numero 9428, del 14.06.1988, depositata il 24.09.1988.
La Corte di cassazione, ha scritto, poi, nella citata sentenza del 03.04.2012, numero 12470, che: «L'attività produttiva di beni e servizi svolta in un determinato esercizio commerciale non comporta automaticamente l'attribuzione della qualifica “industriale” alle acque di scarico dallo stesso rivenienti».
Ha sottolineato, poi, che, nella fattispecie (tintoria che in assenza della prescritta autorizzazione effettuava in fognatura scarichi di acque reflue provenienti dalle attività di lavanderia in umido): «Secondo l'articolo 5, comma 4, del regolamento della regione l. del 24.03.2006, numero 3, recante norme relative alla “disciplina e regime autorizzatorio degli scarichi di acque reflue domestiche e di reti fognarie, in attuazione della lr 12.12.2003, numero 26, articolo 52, comma 1, lettera a)”, le acque reflue assimilabili a quelle domestiche necessitano di un'autocertificazione della ditta esercente l'attività di lavanderia, attestante un consumo medio giornaliero non superiore a metri cubi 20», e che: «le acque derivanti dallo scarico di una lavatrice non sono diverse da quelle provenienti dalle lavatrici in uso nelle civili abitazioni, e che pertanto possono essere assimilate a quelle delle attività domestiche».
Nel caso, lo svolgimento dell'attività di lavanderia a umido avveniva con una comune lavatrice domestica con un consumo medio giornaliero di acque non superiore a metri cubi 20 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Contributo unificato.
Domanda
La rinuncia a un ricorso già presentato esonera dal pagamento del contributo unificato?
Risposta
No. Come, infatti, precisato dal Consiglio di stato (sez. prima, parere n. 4380/2011) la rinuncia a portare avanti una causa non esonera, a prescindere dai motivi che portano il ricorrente a tale decisione, dal pagamento del contributo unificato; ciò in quanto, pur costituendo la rinuncia una causa di improcedibilità o di estinzione di un giudizio che ha comunque già avuto una, seppur breve, vita e durata e, quindi, la stessa non è idonea a eliminare il presupposto oggettivo della debenza del contributo, cioè quello dell'avvenuta proposizione del gravame (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Terreno inquinato da rifiuti e cambiamento di giurisprudenza. Ne risponde sempre anche il proprietario? (link a www.industrieambiente.it).

NEWS

TRIBUTI: Imu seconde case, acconto facile. A giugno si paga il 50% del totale dell'imposta 2012. Nota Mef. In attesa di sapere la sorte del tributo sull'abitazione principale, ecco come pagare.
I versamenti in acconto e saldo dell'Imu devono essere effettuati in base alle aliquote e detrazioni dell'anno precedente se delibere e regolamenti non vengono pubblicate sul sito del ministero delle finanze, rispettivamente, entro il 16 maggio o il 16 novembre. Nel caso in cui venga pagato l'acconto in base alle aliquote e detrazioni del 2012, il saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno dovrà essere versato a conguaglio della prima rata, in base agli atti pubblicati sul sito informatico entro il 16 novembre. Termini più ampi, poi, sono previsti per la presentazione della dichiarazione Imu. Slitta infatti al 30 giugno dell'anno successivo all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni. Vengono inoltre rimessi in termini i contribuenti che non hanno ancora provveduto all'adempimento per acquisti effettuati a partire dalla data di istituzione dell'imposta municipale (01.01.2012).
Sono alcuni chiarimenti che il ministero delle finanze ha fornito a comuni e contribuenti, con la circolare 29.04.2013 n. 1/Df diffusa ieri, sulle nuove disposizioni contenute nell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013), che ha modificato i termini per dichiarazioni e delibere Imu, le quali hanno incidenza anche sul calcolo dell'imposta in acconto e saldo.
Delibere comunali e versamenti. Nella circolare ministeriale viene precisato che dal 2013 ha effetto costitutivo la pubblicazione sul sito del ministero dell'economia e delle finanze delle delibere di approvazione di aliquote e detrazioni d'imposta, nonché dei regolamenti comunali. Questi atti devono essere inviati solo per via telematica e vanno inseriti nell'apposito Portale del federalismo fiscale. Delibere e regolamenti condizionano anche i versamenti del tributo.
Il quantum dovuto per l'imposta è legato all'avvenuta pubblicazione sul sito ministeriale dei provvedimenti comunali. Al riguardo il ministero ha chiarito che, qualora i comuni non inviino questi atti generali entro le scadenze fissate dalla legge, scatta «un meccanismo di salvaguardia per consentire, comunque, i versamenti dell'imposta nei termini dovuti». Se la pubblicazione non viene fatta entro il 16 maggio, i contribuenti sono legittimati a calcolare l'acconto, nella misura del 50%, sulla base delle aliquote e detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente.
Qualora dovesse essere confermata la sospensione della rata di giugno dell'Imu prima casa (promessa dal premier Enrico Letta), la procedura di cui sopra dovrà essere tenuta bene in mente dai contribuenti alle prese con il pagamento dell'Imu sulle seconde case. Per esempio, se un contribuente ha pagato 600 euro di Imu nel 2012 per una seconda casa, con aliquota del 7,6 per mille in acconto (dovuto 250 euro) e del 9 per mille a saldo, con conguaglio sulla prima rata (dovuto 350 euro), per l'acconto 2013 sarà tenuto a versare 300 euro, vale a dire la metà dell'importo pagato per l'intero anno.
Se gli atti generali non vengono pubblicati entro il 16 maggio, il versamento della seconda rata, a saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale conguaglio sulla prima rata, deve essere eseguito tenendo conto degli atti pubblicati sul sito ministeriale entro il 16 novembre. Altrimenti, i contribuenti possono calcolare l'imposta facendo riferimento a aliquote e detrazioni deliberate per l'anno precedente. Se la deliberazione non risulti pubblicata neanche per il 2012, il contribuente dovrà applicare le aliquote stabilite dalla legge.
Dichiarazioni. Secondo il ministero, l'ampliamento del termine per la presentazione della dichiarazione ha lo scopo di evitare un'eccessiva frammentazione dell'obbligo derivante dal precedente «termine mobile dei 90 giorni» e risolve i problemi sorti in ordine alla possibilità di ricorrere all'istituto del ravvedimento operoso «che altrimenti non avrebbero trovato soluzione» (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013).

TRIBUTITares, i comuni decidono numero e scadenze rate.
I comuni, con delibera del consiglio, possono scegliere per il 2013 il numero e la scadenza delle rate della Tares. Se il comune non lo fa, le rate restano fissate a luglio e a ottobre. Per il pagamento delle prime due rate i comuni possono consentire ai contribuenti di utilizzare i modelli di pagamento dello scorso anno relativi alla Tarsu, alla Tia 1 o alla Tia 2. L'ultima rata va pagata solo con il modello F24 o il bollettino di conto corrente postale. La maggiorazione di a 0,30 euro per metro quadrato è riservata allo Stato. Non può essere aumentata fino a 0,10 e va versata in unica soluzione con l'ultima rata. I comuni possono continuare ad avvalersi per la riscossione del tributo dei soggetti affidatari del servizio di gestione dei rifiuti urbani.

Sono questi i punti di maggiore interesse della circolare 29.04.2013 n. 1/Df della direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del Mef, sulle novità in materia di Tares contenute nell'art. 10, comma 2, del dl 35/2013, che operano limitatamente all'anno 2013, anche in deroga all'art. 14 del dl Salva Italia (dl n. 201/2011).
La norma Tares prevede che il versamento sia effettuato in 4 rate (gennaio, aprile, luglio e ottobre); per il 2013 la prima rata era addirittura slittata a luglio. La norma del dl n. 35 del 2013 rimette le cose a posto riconoscendo ai comuni, per il solo anno 2013, di stabilire con deliberazione consiliare sia il numero che la scadenza delle rate, ma occorre che detta delibera, ai fini della conoscibilità dei contribuenti, sia pubblicata anche sul sito web dell'ente locale almeno 30giorni prima della data di versamento. Se il comune rimane inerte il termine per il versamento della prima rata resta fissato a luglio e mentre l'ultima rata a ottobre 2013, come prescrive il comma 35 dell'art. 14 del dl n. 201 del 2011.
La circolare precisa che per il pagamento delle prime due rate gli enti locali possono inviare ai contribuenti i modelli di pagamento già predisposti e precompilati per il versamento dei precedenti prelievi e cioè per la Tarsu, per la Tia 1 e per la Tia 2. Gli stessi enti possono, inoltre, utilizzare le altre modalità di pagamento dei predetti tributi, già in uso durante l'anno 2012. Gli importi in tal modo versati dovranno essere tenuti in conto per determinare l'ultima rata a saldo che dovrà essere quantificata sulla base dei nuovi importi stabiliti per la Tares. Naturalmente se il comune ha già disciplinato il nuovo tributo, può utilizzare gli strumenti di pagamento precompilati con gli importi determinati sulla base delle tariffe approvate.
Per la seconda deve essere necessariamente utilizzato il modello F24 o il bollettino di conto corrente postale che è in via di predisposizione.
La maggiorazione Tares deve essere versata contestualmente all'ultima rata. La novità consiste nel fatto che il gettito è riservato allo stato. La circolare precisa che il suo importo è pari a 0,30 euro per metro quadrato, e che i comuni non possono aumentarla fino a 0,10 euro, ma continuano ad applicarsi ad essa le agevolazioni di cui ai commi da 15 a 20 dell'art. 14 del dl n. 201, come ad esempio quelle previste per le abitazioni con unico occupante o tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo.
I comuni per il 2013 possono continuare ad avvalersi per la riscossione del tributo dei soggetti affidatari del servizio di gestione dei rifiuti urbani. Il dl 35 deroga, quindi, alla disciplina generale di cui al comma 35, dell'art. 14 del dl 201, in base alla quale la Tares è versata esclusivamente al comune. È ovvio, però che il gettito derivante dalla maggiorazione è comunque riservato allo stato. L'ultima precisazione della circolare attiene alle modifiche apportate al comma 4, dell'art. 14 che nulla prevedeva in relazione alle aree scoperte pertinenziali e accessorie di locali diversi da quelli delle civili abitazioni, a differenza di quanto stabilito in vigenza della stessa Tarsu.
Con la nuova formulazione ci si riallinea alle previgenti disposizioni Tarsu, per cui sono escluse dalla tassazione, a eccezione delle aree scoperte operative, le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili e le aree comuni condominiali di cui all'art. 1117 c.c. che non siano detenute o occupate in via esclusiva (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: Super-Tares a ottobre senza delibera
Se i comuni non interverranno con una propria delibera a modificare le scadenze della Tares il termine di scadenza dell'ultima rata della muova tassa sui rifiuti e sui servizi e dunque anche della maggiorazione da 0,30 centesimi a metro scadrà scadrà a ottobre.

È quanto chiarisce il Dipartimento delle Finanze con la
circolare 29.04.2013 n. 1/Df.
La nota fornisce una serie di risposte sulla corretta applicazione delle modifiche introdotte sulla Tares e sull'Imu con il Dl sblocca-debiti della Pa (per maggiori dettagli si veda anche il servizio in Norme e Tributi a pagina 15).
Come spiegano le Finanze, salva diversa deliberazione dei comuni, gli appuntamenti con la tassa rifiuti scadono a gennaio, aprile, luglio e, come detto, a ottobre.
A tutela del contribuente è stato imposto ai Comuni di pubblicare, almeno trenta giorni prima della data di versamento, la deliberazione di modifica delle scadenze e del numero delle rate. E questo anche utilizzando la rete con la pubblicazione di modalità e termini di pagamento sul sito web istituzionale del comune stesso (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: White list appalti, fuori senza convenevoli.
Il rigetto della domanda di iscrizione negli elenchi degli appaltatori «puliti» ai fini antimafia non deve essere preceduto necessariamente da informazione interdittiva e può prescindere da essa; necessario il massimo coordinamento fra le prefetture.

È quanto precisa un comunicato dell'Interno, in G.U. 99 del 19.04.2013.
In particolare veniva posta all'attenzione la questione se il diniego di iscrizione di un operatore economico in una delle white list, istituite ai sensi dell'art. 5-bis del dl 74/2012 debba essere preceduto dall'emissione di un'informazione interdittiva ovvero possa essere adottato anche in assenza di tale provvedimento.
In realtà la questione si poneva in quanto spesso vengono chiamate in causa almeno due prefetture, qualora quella di presentazione della domanda di iscrizione non corrisponda a quella di esecuzione delle verifiche antimafia. La disciplina applicabile prevede, in sintesi che: le verifiche antimafia sono di competenza della prefettura dove ha sede l'impresa interessata all'iscrizione nelle white list; in caso di sede dell'impresa in provincia diversa da quella dove si chiede l'iscrizione occorre attivare il prefetto competente; in caso emergano situazioni di controindicazione è il prefetto a cui è proposta la domanda a rigettarla dando informazione al prefetto competente territorialmente.
Da questo quadro il comunicato deduce che «non vi è cenno nelle disposizioni richiamate all'adozione di un'informazione antimafia, né di tipo liberatorio, propedeutica, in ipotesi, all'iscrizione nelle white list, né di tipo interdittivo, preliminare, nell'ipotesi inversa, al diniego di iscrizione».
E ancora: per le persone giuridiche la nozione di sede deve ricavarsi da quella citata nell'atto costitutivo o nello statuto; il prefetto a cui è stata rivolta la domanda di iscrizione non deve pedissequamente attenersi solo agli elementi trasmessi dall'altro prefetto; il prefetto che ha negato l'iscrizione dovrà adeguatamente evidenziare gli elementi di valutazione; serve maggiore circolarità e raccordo informativo nell'attività di valutazione e di decisione delle istanze di iscrizione nelle white list fra le diverse prefetture (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013).

TRIBUTITIA/ Sentenza della Cassazione sulla tariffa rifiuti. Presunzioni lecite. Occupanti in base alla superficie.
È legittima la determinazione della quota variabile della Tia per le seconde case in base al numero degli occupanti desunto dalla superficie dell'immobile. Questa presunzione è ammessa qualora non sia possibile conoscere il numero dei soggetti che di fatto lo utilizzano. Dunque, non è irragionevole il ricorso al metodo proporzionale basato sulla superficie del bene. Spetta al contribuente fornire gli elementi di prova idonei a dimostrare l'infondatezza della presunzione contenuta nella norma regolamentare adottata dal comune.

Lo ha stabilito la Sez. tributaria dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 05.04.2013 n. 8383.
Per i giudici di piazza Cavour, non è irrazionale la norma del regolamento comunale che per le abitazioni occupate da non residenti determina induttivamente il numero dei componenti il nucleo familiare: più ampia è la superficie, maggiore è il numero di coloro che si presume occupano l'immobile, al fine di calcolare la quota variabile della tariffa.
A giudizio della Cassazione, la presunzione non comporta «alcuna indebita variazione del criterio impositivo tra le prime e le seconde case». Criterio che
«non va inteso nella sua assolutezza, ma in relazione alla implicita finalità di ancorare la quota variabile della tariffa al numero presunto di occupanti laddove questo non sia evincibile sulla base del criterio di residenza». Del resto, il contribuente non ha fornito «elementi di prova intesi a superare la presunzione involta dalla norma regolamentare».
La pronuncia della Cassazione contrasta con quanto sostenuto dal Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna (sentenza 551/2012) che, invece, ha ritenuto illegittimo il regolamento comunale che prevedeva per la determinazione della Tia dovuta dai soggetti non residenti criteri e coefficienti di calcolo basati sul numero dei componenti del nucleo familiare desunto dalla superficie degli immobili. Per i giudici amministrativi, non si può giustificare la presunzione solo perché il dato reale è difficile da accertare attraverso le risultanze anagrafiche. Il meccanismo presuntivo, infatti, è stato giudicato del tutto inattendibile, ben potendo accadere che un immobile di notevole ampiezza sia utilizzato da un numero ristretto di occupanti.
In realtà, si legge nella motivazione di quest'ultima sentenza, il quantum variabile della tariffa per i non residenti non può essere legato «a un unico dato presuntivo, di natura statica e aprioristica, come quello dell'ampiezza dell'immobile». In questo modo si crea una discriminazione tra residenti e non residenti. Per i primi, la tariffa è correttamente ancorata a un elemento concreto, quello cioè del numero degli occupanti desunto dalle risultanze anagrafiche.
Il presupposto della Tia era l'occupazione o conduzione di locali o aree scoperte a uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali, a qualsiasi uso adibiti, nel territorio comunale. I costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti giacenti su strade e aree pubbliche e soggette a uso pubblico dovevano essere coperti dai comuni fino al 2012 con l'istituzione di una tariffa, composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio e da una quota rapportata a quantità di rifiuti conferiti, servizio fornito e costi di gestione.
Il principio affermato dalla Cassazione è applicabile anche alla Tares. L'articolo 14 del dl salva-Italia (201/2011), in seguito alle modifiche apportate dalla legge di stabilità (228/2012), prevede che le disposizioni contenute nel dpr 158/1999, regolamento sul metodo normalizzato attuativo della Tia
«Ronchi», devono essere applicate a regime anche alla Tares e non più in via transitoria, come stabilito in un primo momento (articolo ItaliaOggi del 30.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIStop all'Imu se si perdono i diritti edificatori.
Se un terreno ha perso qualunque potenzialità edificatoria, in conseguenza della cessione di tutti i diritti di edificazione su di esso esercitabili, non può essere più considerato area fabbricabile ai fini dell'Imu. Vi è tuttavia un vuoto di imposizione laddove a fronte di tale cessione non si verifichi un contestuale potenziamento delle capacità edificatorie di un altro suolo.

Il caso sottoposto da Mario Ardenghi si è verificato, ad esempio, nel comune di Milano, che ha adottato strumenti urbanistici piuttosto innovativi, ma può ripresentarsi in situazioni simili. In primo luogo, è utile ricordare che, anche ai fini Imu, vale la definizione di area fabbricabile recata nella norma di cui all'articolo 36, Dl n. 223/2006 per il quale sono "edificabili" i suoli che rientrano negli strumenti urbanistici generali, anche in assenza di strumenti attuativi.
È dunque possibile che la qualifica formale di area fabbricabile non si accompagni ad effettive possibilità di sfruttamento edificatorio. Va comunque precisato che tali possibilità, seppure non incidono sulla qualifica del bene, devono essere apprezzate al momento della individuazione del valore del suolo. Deve in ogni caso essere ravvisabile una potenzialità edificatoria, poiché in difetto di questa non vi sarebbero neppure i requisiti minimali per integrare la nozione in esame.
Venendo al caso descritto nel quesito, si è in presenza di un suolo edificabile in relazione al quale si intende procedere alla vendita di tutti di diritti edificatori ("cubatura"). Una volta privato il bene di qualsiasi potenzialità di sfruttamento a fini costruttivi non sembra possibile continuare a considerarlo come area fabbricabile. La vicenda troverebbe uno sbocco eliquibrato se, in coincidenza con la suddetta cessione, un altro bene ubicato nel territorio del comune di Milano dovesse beneficiare di un incremento di potenzialità edificatoria in dipendenza dell'assegnazione dei medesimi diritti di cubatura. Così, infatti, si assisterebbe ad un corrispondente aumento di valore ai fini Imu a favore di un suolo diverso.
Ci si chiede invece cosa accade se i diritti ceduti dovessero restare per un tempo indefinito in una sorta di "limbo", in attesa che l'acquirente individui l'area sulla quale esercitare gli stessi. Il punto è che l'Imu è un'imposta reale che colpisce quindi i beni che vi sono soggetti. Per procedere all'attuazione dell'imposizione occorre individuare un fabbricato, un'area fabbricabile o un terreno agricolo. Nel caso in questione si tratterebbe, invece, di tassare un diritto. Sembra quindi impraticabile l'imposizione sui diritti sino a quando essi non si incorporano in un immobile. La questione deve essere ben valutata all'atto della adozione delle decisioni di programmazione urbanistica.
È evidente che se si ammette la possibilità di cedere i diritti di cubatura consentendone il "parcheggio" in uno spazio virtuale per un lasso temporale non breve gli effetti in termini di gettito Imu saranno rilevanti. Visto da un altro punto di vista, si potrebbe peraltro argomentare che con questo sistema si porrebbe fine ad una concezione di area edificabile troppo improntata alla ragion fiscale e piuttosto svincolata dalle effettive prospettive di costruzione. L'imposta sarebbe infatti applicata solo dopo l'individuazione del suolo beneficiario dei diritti edificatori, in prossimità dell'effettivo sfruttamento del bene (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Si rimette in moto il Sistri. Dal 30 aprile primi adempimenti per i rifiuti pericolosi. In G.U. il dm 20/03/2013 che sblocca l'operatività del sistema di tracciamento telematico.
Verifica e aggiornamento dei dati aziendali, regolarizzazione delle iscrizione e pagamento del contributo, avvio del vero e proprio monitoraggio telematico dei rifiuti gestiti.

Questa la scaletta degli obblighi che il nuovo dm ambiente 20.03.2013 (pubblicato sulla G.U. del 19.03.2013 n. 92) pone, secondo un calendario che va dal 30.04.2013 al 03.03.2014, a carico delle imprese tenute a aderire al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti meglio noto come «Sistri» (sistema che prevede l'invio telematico dei dati sui rifiuti gestiti al server dello stato, il controllo satellitare del loro trasporto, il videocontrollo del loro conferimento negli impianti di trattamento).
A essere chiamati per primi agli adempimenti dal nuovo decreto del Minambiente che sancisce (testualmente) il «riavvio progressivo del Sistri» sono i grandi produttori e gestori di rifiuti pericolosi, seguiti a breve distanza (4 mesi) da tutti gli altri soggetti obbligati (come individuati dlgs 152/2006, cosiddetto «Codice ambientale», e dal dm 52/2011, cosiddetto «Testo Unico Sistri», adottato in attuazione del primo).
Soggetti obbligati in due scaglioni. In particolare, il primo novero dei soggetti (impegnati già dal 30.04.2013 nella verifica dei dati eventualmente già trasmessi alla p.a., per poi avviare il monitoraggio telematico dei rifiuti dal successivo 1° ottobre) comprende, nel tenore del nuovo decreto, i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi con più di dieci dipendenti, gli enti e le imprese che gestiscono rifiuti speciali pericolosi individuati dall'articolo 3, comma 1, lettere c), d) e) f) g) h), del citato dm 52/2011.
Categoria, quest'ultima, alla quale appartengono raccoglitori, trasportatori a titolo professionale, recuperatori, smaltitori, commercianti e intermediari di rifiuti speciali pericolosi, consorzi per la gestione degli stessi. A seguire temporalmente tali soggetti negli adempimenti (allineamento dati dal 30.09.2013 al 28.02.2014, tracciamento rifiuti dal 03.03.2014) saranno, secondo il nuovo dm, tutti «gli altri enti o imprese obbligati all'iscrizione al Sistri», dunque i soggetti (diversi da quelli citati ma) previsti dall'articolo 3 del «T.u. Sistri», ossia: produttori di rifiuti speciali pericolosi con non più di dieci dipendenti; produttori (sempre con non più di dieci dipendenti) di rifiuti speciali non pericolosi derivanti da lavorazioni industriali, artigianali, recupero e smaltimento beni a fine vita o coincidenti con fanghi da potabilizzazione, trattamento acque o abbattimento dei fumi; raccoglitori, trasportatori a titolo professionale, recuperatori, smaltitori, commercianti e intermediari di rifiuti speciali non pericolosi; consorzi per la gestione dei citati rifiuti; enti pubblici della Regione Campania individuati dal dm 52/2011.
Verifica e aggiornamento dati. Come anticipato, preliminarmente al tracciamento telematico dei rifiuti gestiti il nuovo dm 20.03.2013 chiede ai soggetti già iscritti al Sistri il controllo dei propri dati trasmessi alla p.a. Gli enti e le imprese interessate dovranno in particolare verificare l'attualità dei dati comunicati (verosimilmente, nel silenzio del decreto, quelli indicati alle Camere di commercio e all'Albo gestori ambientali) ed eventualmente aggiornarli qualora obsoleti (cosiddetto «allineamento»).
Il tutto secondo il seguente e già accennato scadenzario, modellato sulle due macrocategorie di soggetti obbligati: grandi produttori e gestori di rifiuti pericolosi tra il 30 aprile e il 30.09.2013; tutti gli altri tra il 30.09.2013 ed il 28.02.2014.
Iscrizione al Sistri e contributo 2013. L'obbligo di iscrizione al Sistri (per coloro che ancora non vi hanno provveduto tra i numerosi «start and go» del sistema imposti della normativa) va assolto entro i termini iniziali di operatività della nuova macchina rispettivamente previsto, dunque: entro il 01.10.2013 da parte dei grandi produttori e gestori di rifiuti pericolosi; entro il 03.03.2014 da parte degli altri. Il nuovo dm 20.03.2013 prevede sì la sospensione del pagamento del contributo per l'anno 2013, ma esclusivamente a favore degli enti e delle imprese già iscritte al Sistri alla data del 30.04.2013.
Obblighi «operativi»: il tracciamento dei rifiuti. Gli adempimenti consistenti nella vera e propria nuova modalità di tracciamento dei rifiuti (quelli che il legislatore appare intendere con il termine «operatività del Sistri», termine del quale non si rintraccia né nel dlgs 152/2006 né nel dm 52/2011 una definizione legale) impegneranno a vario titolo gli appartenenti alle due citate macrocategorie a partire, rispettivamente, dal 01.10.2013 e dal 03.03.2014.
Tali adempimenti operativi coincidono, lo ricordiamo: con la comunicazione telematica (mediante computer e utilizzo della «chiave usb» rilasciata in fase di iscrizione) dei dati quali/quantitativi dei rifiuti gestiti al sistema informatico gestito dallo stato (e raggiungibile dal portale «sistri.it»); con il monitoraggio dei veicoli che trasportano rifiuti (tramite utilizzo dei dispositivi di tracking satellitare, meglio noti come «black box») e l'accompagnamento dei loro spostamenti con copia cartacea della «Scheda Sistri-Area movimentazione»; con la videosorveglianza tramite apparecchiature installate da personale «Sistri» di ingressi ed uscite dei mezzi di trasporto rifiuti dagli impianti di discarica e incenerimento.
Regime transitorio, scripta manent. Il passaggio dal classico sistema cartaceo (fondato sui tre storici documenti: registri carico/scarico, formulario di trasporto, dichiarazione annuale «Mud») a quello «semimmateriale» (in quanto la «Scheda Sistri-Area movimentazione» dovrà sempre essere prodotta fisicamente) non sarà tuttavia immediato per imprese ed enti che aderiranno al nuovo sistema.
Prescrive infatti il nuovo dm 20.03.2013 che fino alla scadenza del termine di 30 giorni dalla data di operatività del Sistri (dunque, rispettivamente, fino al 31.10.2013 e fino al 02.04.2014, in base alla categoria di appartenenza sopra citata) i soggetti interessati dovranno adempiere agli obblighi previsti dagli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006, ossia agli obblighi relativi alla tenuta dei citati registri e formulari.
Sanzioni ad hoc, non solo per persone fisiche. Con l'operatività del Sistri resusciteranno anche le norme contenute nell'articolo 260-bis del «Codice ambientale» (ivi introdotte dal dlgs 205/2010, ma dormienti fino alla reviviscenza del Sistri) che prevedono un sistema sanzionatorio di natura amministrativa ad hoc (con pene pecuniarie e interdittive) per le violazioni degli obblighi Sistri.
Alle redivive sanzioni poste dal dlgs 152/2006 a carico delle persone fisiche si aggiungeranno altresì, è il caso di ricordarlo, quelle previste dal dlgs 231/2001 (sulla responsabilità amministrativa delle organizzazioni, come riformulato dal dlgs 121/2011) direttamente a carico di enti e imprese che avranno tratto vantaggio da alcune violazioni alle regole Sistri commesse dai loro dipendenti (come la falsa certificazione di analisi rifiuti, il trasporto senza idonea copia cartacea della citata della scheda di movimentazione) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

CONDOMINIOLa Cassazione: in linea generale la manutenzione straordinaria spetta all'ex proprietario.
Spese extra, le paga chi vende. Possibile anche una diversa pattuizione con l'acquirente.
In caso di vendita di un appartamento situato in condominio le spese per i lavori di manutenzione straordinaria sulle parti comuni deliberate prima del trasferimento della proprietà restano a carico del condomino venditore, anche se l'esecuzione delle opere sia iniziata successivamente all'acquisto.
Tuttavia non è escluso che il venditore e il compratore, con apposito patto contenuto nel preliminare di vendita e poi ribadito nel rogito, stabiliscano che queste spese siano sostenute dall'acquirente e nuovo condomino che, di fatto, si gioverà dei miglioramenti deliberati dall'assemblea.

Sono i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella recente sentenza 10.04.2013 n. 8782.
La vicenda. Un condomino aveva deciso di vendere il proprio appartamento. L'acquirente, venuto a sapere che erano già stati deliberati lavori straordinari di manutenzione del caseggiato (probabilmente dietro riduzione del prezzo, come spesso accade), si impegna nel preliminare ad accollarsi le spese già deliberate.
Questo il testo della clausola del contratto preliminare poi riprodotta anche nel rogito: «Le parti convengono che tutte le spese condominiali, alla data di oggi eventualmente ancora dovute, gravino interamente sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti al rifacimento della terrazza condominiale, che restano a carico della parte acquirente». Dopo il preliminare, e fino alla data del rogito, il venditore provvede quindi ad anticipare le spese straordinarie di rifacimento dell'edificio nella convinzione che l'acquirente (che si era impegnato ad accollarsi le spese) provvedesse poi al rimborso delle stesse.
Ma l'impegno preso non viene rispettato e, conseguentemente, l'acquirente è citato davanti al giudice di pace, che lo condanna al pagamento dell'importo anticipato dal venditore e relativo ai lavori di manutenzione straordinaria. Il tribunale adito in secondo grado, però, ribalta la decisione e condanna il venditore al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio. Il tribunale osserva che, con la clausola contrattuale, le parti avevano espressamente convenuto che tutte le spese condominiali, a quella data ancora eventualmente dovute, dovessero gravare per intero sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti al rifacimento della terrazza condominiale, che restavano a carico della parte acquirente.
Secondo il tribunale, però, la clausola in questione comportava l'obbligo, da parte dell'acquirente, di provvedere, per la quota gravante sull'immobile acquistato, al pagamento delle sole spese di rifacimento della terrazza condominiale eventualmente ancora dovute alla data di stipula del rogito notarile e non anche al rimborso di quanto corrisposto, a tale titolo, dal venditore al condominio in epoca antecedente.
La decisione della Suprema corte. Tale decisione non è stata condivisa dalla Cassazione che, in via preliminare, ha precisato come in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era proprietario dell'immobile al momento della delibera dei detti interventi, avendo tale decisione assembleare valore costitutivo della relativa obbligazione.
Tuttavia, secondo i giudici supremi, è da ritenersi valida, nei rapporti tra venditore e compratore, una clausola da inserire nel contratto di compravendita che faccia ricadere l'onere per le spese condominiali relative a lavori di straordinaria manutenzione (deliberate e ancora da eseguire) sul compratore.
E, secondo la Cassazione, con la clausola sopra riportata, contrariamente a quanto ritenuto nel caso di specie dal tribunale adito dalle parti nel secondo grado di giudizio, le parti avevano proprio voluto ribadire la regola generale costituita dall'onere del venditore di accollarsi tutte le spese condominiali ordinarie eventualmente ancora dovute al momento del rogito ma, contestualmente, avevano previsto in modo evidente che le spese, già deliberate, per il rifacimento del terrazzo sarebbero dovute rimanere totalmente a carico della parte acquirente.
Quindi, in base alla clausola esaminata, avendo il venditore corrisposto al condominio le spese per il ripristino del terrazzo comune secondo le scadenze stabilite dal piano di riparto approntato dall'amministratore nelle more della stipula del contratto di vendita, quest'ultimo aveva acquisito, al momento del rogito, il diritto di chiedere, nei confronti dell'acquirente, il rimborso della somme anticipate per le spese dei lavori straordinari (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

CONDOMINIO: Passaggi di proprietà, chi vende avvisa l'amministratore.
Capita spesso che nel caso di vendita di un appartamento situato in condominio le parti si dimentichino di avvisare l'amministratore condominiale dell'intervenuto passaggio di proprietà. Eppure con detto trasferimento muta automaticamente la composizione della compagine condominiale, in quanto al vecchio condomino (proprietario) si sostituisce un nuovo proprietario (e dunque anche condomino).
Ciò comporta che, a partire dalla data del rogito sottoscritto dinanzi al notaio, l'amministratore sarebbe tenuto a inviare l'avviso di convocazione assembleare al nuovo condomino (e non più al vecchio proprietario) e sempre a quest'ultimo dovrebbe richiedere il pagamento delle spese condominiali maturate a partire da quella data (e non più anche al vecchio condomino).
Invero è sempre stato incerto quale delle parti della compravendita, al di là dei doveri di cortesia, avesse l'obbligo giuridico di avvisare l'amministratore condominiale dell'intervenuto trasferimento della proprietà (così come di altro diritto reale sul medesimo immobile). Da questo punto di vista importanti novità sono state apportate dal nuovo art. 63 disp. att. c.c. introdotto dalla legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli edifici e che entrerà vigore dalla metà del prossimo mese di giugno.
La nuova disposizione di legge prevede, infatti, che il condomino che venda un'unità immobiliare sita in condominio resti obbligato solidalmente con l'acquirente per i contributi maturati successivamente al trasferimento della proprietà e fino al momento in cui sia stata trasmessa all'amministratore condominiale copia autentica del relativo titolo. D'ora in avanti, quindi, chi vende, o comunque trasferisce la proprietà o altro diritto reale, non potrà disinteressarsi del tutto delle vicende condominiali successive alla cessione del diritto, essendo tenuto in via prudenziale a comunicare formalmente all'amministratore la vicenda del suo trasferimento e, quindi, il mutamento della compagine condominiale (anche perché l'amministratore possa più agevolmente provvedere al nuovo incombente dell'aggiornamento del registro dell'anagrafe dei condomini).
In caso contrario il condomino che cede il diritto rischierà di essere chiamato al pagamento degli oneri maturati successivamente al trasferimento del medesimo ed eventualmente non versati dall'avente causa, ovvero dal nuovo condomino.
Il nuovo art. 63 disp. att. c.c., infatti, ha introdotto una specifica ipotesi di solidarietà tra venditore e acquirente relativamente all'obbligazione di pagamento dei contributi condominiali, che può essere in qualche modo interrotta soltanto con l'invio all'amministratore della copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto sull'unità immobiliare.
Fino a quel momento, quindi, l'amministratore potrà chiedere il versamento delle spese comuni a entrambe le parti e, considerando che il più delle volte quest'ultimo non sarà al corrente della compravendita, sarà altamente probabile che ne chieda il pagamento a quello che ritiene essere il condomino, ovvero al venditore. Si tratta quindi sicuramente di un ottimo espediente per fare in modo che il vecchio condomino informi l'amministratore condominiale del passaggio di proprietà relativo all'unità immobiliare (articolo ItaliaOggi Sette del 29.04.2013).

TRIBUTI: Il perimetro normativo dell'area edificabile.
La sentenza 01.03.2013 n. 5166 della Corte di Cassazione riporta in auge il concetto di edificabilità «di fatto».
Il concetto era già stato definito, tra l'altro, dalla sentenza 9131/2006 della Suprema corte, secondo la quale si ha edificabilità «di fatto» quando il terreno –pur non essendo urbanisticamente pianificato– può avere una vocazione edificatoria, che «si identifica attraverso una serie di fatti indici quali, tra l'altro, la vicinanza al centro abitato, lo sviluppo edilizio assunto dalle zone adiacenti, l'esistenza di servizi pubblici essenziali, la presenza di opere di urbanizzazione primaria, il collegamento con centri urbani già organizzati».
La sentenza 5166/2013 ora aggiunge come altro indice «l'esistenza di qualsiasi altro elemento obbiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica, quale, ad esempio» in un'area agricola, l'ottenimento di «una concessione edilizia per il recupero di fabbricati civili con opera di demolizione nuova costruzione». In precedenza, alle stesse conclusioni era giunta la sentenza 7950/2003 e la pronuncia a Sezioni unite 172 del 23.04.2001.
Sul piano legislativo, l'articolo 37, comma 3, del Dpr 327/2001 (il Testo unico dell'espropriazione per pubblica utilità) aveva stabilito che ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio «si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione». Mentre l'articolo 2 del Dlgs 504/1992 (la legge istitutiva dell'Ici) aveva definito l'area edificabile come quella «utilizzabile a scopo edificatorio...in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità».
Per dirimere i contrasti interpretativi verificatisi a ogni livello, l'articolo 36, comma 2, del Dl 223/2006 ha definitivamente sancito che «un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo».
Insomma, poiché è stato finalmente definito cosa si intende per «area edificabile», ogni rilevanza dell'edificabilità «di fatto» dovrebbe essere sopita.
Almeno due dati contrastano, però, con questa conclusione: non solo la sentenza 5166/2013 della Cassazione, ma anche il fatto che la normativa introduttiva dell'Imu «propria» e dell'Imu «sperimentale» (l'articolo 13, commi 1 e 2, del Dl 201/2011) ha fatto testuale rimando, tra l'altro, all'articolo 2 del Dlgs 504/1992 in tema di Ici (e quindi anche al concetto di edificabilità «di fatto»), per definire il perimetro degli immobili cui appunto va applicata l'Imu.
Nonostante questo, si può fondatamente ritenere che, al di là del campo dell'indennità di espropriazione (dove non può non aver rilievo lo specifico stato di un dato immobile), e quindi nel campo tributario, dell'edificabilità «di fatto» ci si possa dimenticare, al cospetto della definizione di edificabilità sopravvenuta con il Dl 223/2006: quanto all'Ici/Imu, la norma del 2006 senz'altro abroga quella precedente; mentre la sentenza della Cassazione interviene nel 2013 ma con riferimento a una fattispecie di plusvalenza maturata nel 1999 e giudicata in primo grado nel 2005.
Anche perché, se il concetto di edificabilità «di fatto» fosse vigente, su questo spinoso tema regnerebbe l'incertezza invece della chiarezza portata dal legislatore del 2006: non si saprebbe se la vendita di queste aree sia soggetta a Iva o a imposta di registro, se la vendita generi plusvalenza tassabile in capo al venditore, e se –in sede di donazione e si successione– si possano utilizzare o meno i coefficienti di valutazione catastale (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIIncompatibilità. Il limite fissato a livello regionale. Niente politica locale per segretari e dirigenti.
I segretari comunali e provinciali e i dirigenti delle Pa non possono svolgere il ruolo di consiglieri, di sindaci e di assessori nei Comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti, nelle forme associative con questa soglia minima di popolazione e nelle Province della stessa regione in cui svolgono la propria attività lavorativa.
È questo uno degli effetti di maggiore rilievo (assai discutibile) del Dlgs 39/2013. L'entrata in vigore del provvedimento è prevista per il prossimo 4 maggio, per cui la disposizione comincerà a produrre i propri effetti già con il rinnovo degli organi elettivi di numerosi Comuni della fine del prossimo mese.
Va sottolineato che queste regole non si estendono ai responsabili che nei Comuni privi di dirigenti esercitano funzioni dirigenziali. La stessa incompatibilità è prevista tra lo svolgimento di ruoli dirigenziali in una Pa e gli incarichi di consigliere e/o di assessore regionale, e con l'essere componente dell'organo di indirizzo degli enti di diritto privato controllati dalla regione, da Province o da Comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti. In tutti questi casi matura l'incompatibilità, per cui i soggetti interessati devono effettuare una scelta entro i 15 giorni successivi alla contestazione; nel caso in cui ciò non avvenga il legislatore prevede la decadenza automatica.
Gli effetti di queste norme meritano una valutazione approfondita: nei fatti, con queste regole, lo svolgimento, nella stessa regione di compiti dirigenziali in una Pa o di segretario in un Comune condiziona il corpo elettorale di un altro municipio. Non è chiara, in questo quadro, la ragione dell'esclusione dei piccoli e medi Comuni dall'ambito di applicazione della disposizione.
Occorre inoltre sottolineare che i segretari comunali e provinciali, in quanto responsabili anticorruzione, sono espressamente indicati come i soggetti che devono vigilare sulla corretta applicazione di queste disposizioni. Essi devono contestare tanto le ragioni di inconferibilità quanto quelle di incompatibilità, e devono provvedere alla segnalazione all'Autorità anticorruzione, a quella Antitrust e alla procura regionale della Corte dei Conti delle violazioni che accertano. Tutti gli eletti devono, al momento dell'insediamento e con cadenza annuale, dichiarare l'insussistenza di cause di inconferibilità; questa è condizione per potere svolgere questo incarico.
La disposizione irroga la sanzione del divieto per i cinque anni successivi di attribuzione di qualunque tipo di incarico in una amministrazione pubblica nel caso in dichiarazione mendace, ferme restando le sanzioni penali previste dall'ordinamento in questi casi. Infine, il decreto legislativo espressamente prevede l'irrogazione della sanzione della nullità per tutti gli incarichi che vengono conferiti in violazione delle nuove regole sulle incompatibilità e sulle inconferibilità di incarichi amministrativi (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Coperture. Pre-dissesto e dissesto sono le uniche condizioni per l'utilizzo.
Alienazioni per spese correnti solo con i conti verso il crack.

Con le norme attuali, le alienazioni di patrimonio possono essere usate a copertura di disavanzi correnti o al finanziamento di debiti fuori bilancio solo da enti che abbiano deliberato il piano di riequilibrio pluriennale o il dissesto.
L'articolo 193 del Tuel prevedeva che per salvaguardare gli equilibri si potessero utilizzare i proventi da alienazioni di beni patrimoniali disponibili. La norma consentiva agli enti in difficoltà l'impiego, per far fronte a disavanzi, anche di tutte le entrate straordinarie da alienazioni di patrimonio disponibile. Due norme specifiche, invece, autorizzavano tutti gli enti all'impiego delle plusvalenze da alienazioni per finanziare spese correnti non ripetitive (articolo 3, comma 28, legge 350/2003) e le quote capitale di rimborso del debito (articolo 1, comma 66. legge 311/2003).
Questa facoltà ora è caduta con l'abrogazione delle due norme con l'articolo 1, commi 441 e 442, della legge 228/2012. Il comma 443 ha previsto che, in base all'articolo 162, comma 6, del Tuel, i proventi da alienazioni possano essere destinati solo a copertura di spese d'investimento o a riduzione del debito. Il comma 444, integrando l'articolo 193 del Tuel, ha stabilito che i proventi della cessione di patrimonio siano utilizzabili solo per finanziare squilibri di parte capitale. Per salvaguardare gli equilibri è invece possibile modificare tariffe e aliquote dei tributi. Un ente in condizioni "normali", dunque, non può usare le alienazioni per finanziare disavanzi correnti o debiti fuori bilancio, né delle plusvalenze per spese non ripetitive o per il rimborso del debito.
Se il piano di riequilibrio è approvato dalla Corte, invece, è possibile ricorrere a mutui per la copertura di debiti fuori bilancio riferiti a spese d'investimento (in deroga all'articolo 204, comma 1, del Tuel) e accedere al fondo di rotazione: a patto (articolo 242-bis, comma 8, lettera g) che l'ente abbia portato aliquote o tariffe al massimo, si sia impegnato ad alienare il patrimonio non indispensabile ai fini istituzionali e abbia rideterminato la dotazione organica. L'impegno alle alienazioni è un prerequisito, nel piano di riequilibrio, per ricorrere al debito e al fondo di rotazione. È quindi possibile vendere patrimonio per finanziare disavanzo corrente solo se l'ente ha intrapreso un percorso di risanamento "coatto".
Il dissesto è l'altra situazione che consente l'utilizzo del patrimonio per finanziare (anche) spese correnti, perché il commissario (articoli 252 e 255 del Tuel) può valersi delle alienazioni patrimoniali per reperire le risorse necessarie a liquidare i creditori (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIAnticorruzione. Nomina vietata a chi negli ultimi due anni è stato presidente o ad nella stessa regione.
Le società chiudono agli «ex». Gli effetti delle incompatibilità si estendono alle aziende controllate.
I PARAMETRI/ Aver svolto un ruolo di vertice impedisce di essere scelto come rappresentante di un'amministrazione con più di 15mila abitanti.

Si stringono le maglie per le nomine degli amministratori delle società e degli altri organismi partecipati dagli enti locali.
Il Dlgs 39/2013 determina condizioni più rigide per la designazione, da parte di Comuni, Province e Unioni di Comuni, di propri rappresentanti negli organi esecutivi dei soggetti di diritto privato sottoposti a controllo o nei quali sia detenuta una partecipazione, anche minoritaria.
Le nuove disposizioni, che entrano in vigore il 4 maggio, disciplinano sia l'inconferibilità di incarichi sia nuove fattispecie di incompatibilità, con un ambito oggettivo molto ampio, che impatta sia sulle nomine delle società interamente partecipate affidatarie in house sia sulle società miste, sulle fondazioni e sulle associazioni, mentre resterebbero escluse le istituzioni e le aziende speciali per la loro configurazione pubblicistica.
L'inconferibilità vieta agli enti locali di conferire incarichi a coloro che abbiano riportato condanne penali per i reati contro la Pa, ma anche a chi abbia svolto incarichi o ricoperto cariche in società partecipate o svolto attività professionali a favore di questi ultimi, oltre che a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico: la caratteristica della disciplina è la sottoposizione alla condizione limitativa delle nomine e delle assunzioni di cariche nelle due direttrici.
La disposizione-chiave è l'articolo 7, che al comma 2 vieta a Province, Comuni con più di 15.000 abitanti e Unioni con la stessa dimensione di attribuire incarichi di amministratore in società o organismi sottoposti al loro controllo a soggetti che siano stati nei due anni precedenti amministratori locali negli enti conferenti (senza limite dimensionale) o nell'anno prima amministratori locali in un comune o un'unione con più di 15.000 abitanti. Sono assoggettati alla condizione ostativa anche gli ex presidenti o ad di partecipate (in controllo pubblico) da enti locali della stessa regione.
Questo ultimo profilo impedisce che un ex amministratore di una società partecipata, esauriti i suoi mandati nella stessa, sia nominato in una società partecipata da un altro ente locale nella stessa regione.
Tali disposizioni impediscono inoltre al Segretario generale e ai dirigenti che svolgono su di esse funzioni di controllo di essere nominati nei cda delle società partecipate (e negli altri organismi di diritto privato) sottoposte a controllo.
La normativa non incide tuttavia sulle nomine effettuate da Comuni con popolazione inferiore ai 15mila abitanti se la società partecipata non ha come socio nessun Comune (o Unione) con dimensioni superiori.
Anche i piccoli enti, invece, devono attenersi alle norme sull'incompatibilità, stabilite negli articoli 9, 11 e 13 del Dlgs 39/2013, in base alle quali il soggetto cui viene conferito l'incarico deve scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 15 giorni, tra la permanenza nell'incarico e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche nella società controllata dall'ente che lo nomina, lo svolgimento di attività professionali o l'assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico.
Le disposizioni del decreto incidono pertanto sulle norme dell'articolo 4, comma 5, della legge 135/2012, inerenti l'obbligo di nomina di dipendenti dell'amministrazione controllante nei cda delle società partecipate e devono inoltre essere poste in combinazione con le previsioni del Dlgs 267/2000 su ineleggibilità (articolo 60) e di incompatibilità (articoli 63 e 67).
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Il meccanismo
01|LA CAUSA
L'inconferibilità si riferisce a chi sia stato negli ultimi due anni presidente o amministratore delegato di una società in controllo pubblico da parte di Province, Comuni e loro forme associative, a prescindere dalla dimensione demografica
02|LA CONSEGUENZA
A questi soggetti sono preclusi, all'interno della stessa regione, incarichi amministrativi di vertice in Province o Comuni o Unioni con più di 15mila abitanti o incarichi di amministratore di ente privato controllato, sempre nell'ambito degli enti con più di 15mila abitanti. Stop anche agli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2013).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Si ha violazione di giudicato quando il nuovo atto emanato dall’amministrazione riproduce i medesimi vizi già censurati ovvero si pone in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla precedente statuizione del giudice, mentre si configura la fattispecie dell’elusione del giudicato laddove l’amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione al giudicato, tende sostanzialmente a raggirarlo in modo da pervenire surrettiziamente allo stesso esito, oggetto del recedente annullamento.
L’atto emanato dall’amministrazione dopo l’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo può considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quanto da esso derivava un obbligo talmente puntuale che il suo contenuto era desumibile nei suoi tratti essenziali direttamente dalla sentenza.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, si ha violazione di giudicato quando il nuovo atto emanato dall’amministrazione riproduce i medesimi vizi già censurati ovvero si pone in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla precedente statuizione del giudice, mentre si configura la fattispecie dell’elusione del giudicato laddove l’amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione al giudicato, tende sostanzialmente a raggirarlo in modo da pervenire surrettiziamente allo stesso esito, oggetto del recedente annullamento (C.d.S., sez. IV, 04.03.2011, n. 1415; 01.04.2011, n. 2070; sez. V, 20.04.2012, n. 2348; sez. VI, 05.07.2011, n. 4037).
E’ stato anche precisato che l’atto emanato dall’amministrazione dopo l’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo può considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quanto da esso derivava un obbligo talmente puntuale che il suo contenuto era desumibile nei suoi tratti essenziali direttamente dalla sentenza (ex multis, C.d.S., sez. IV, 21.05.2010, n. 3223; sez. VI, 03.05.2011, n. 2601; 07.06.2011, n. 3415)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non solo, in via generale, l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, per quanto, proprio con riferimento alla disposizione contenuta nell’art. 6 della legge 18.03.1968, n. 249, è stato affermato che essa consente la convalida o la ratifica degli atti viziati da incompetenza anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell’ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato, fermo restando che essa è tuttora vigente e compatibile con le disposizioni contenute nella legge 07.08.1990, n. 241.
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione è dato rinvenire per effetto della convalida o della ratifica di un atto amministrativo, atteso che l’esercizio del potere di convalida (ratifica) comporta un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato, nuovo atto che non è affatto sottratto al sindacato giurisdizionale.

Al riguardo la Sezione osserva che, come emerge dalla sua lettura, con la delibera consiliare n. 187 del 21.12.1998 è stata convalidata (rectius, ratificata) la delibera di giunta municipale n. 838 del 24.09.1998, con cui era stata (ri)determinata, ora per allora, l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993, nella misura del 6 per mille, giacché per effetto delle sopravvenute modifiche al testo dell’articolo 6 del D.Lgs. n. 504 del 1992 competente ad adottare la delibera di fissazione dell’aliquota era l’organo consiliare.
Orbene, se non può minimamente dubitarsi dell’esistenza dell’interesse pubblico, concreto ed attuale, all’eliminazione del vizio formale di incompetenza, interesse insito nella natura pacificamente tributaria dell’I.C.I. e delle sue peculiari finalità, sopra accennate, d’altra parte deve ricordarsi che non solo, in via generale, l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 (C.d.S., sez. IV, 14.10.2011, n. 5538), per quanto, proprio con riferimento alla disposizione contenuta nell’art. 6 della legge 18.03.1968, n. 249, è stato affermato che essa consente la convalida o la ratifica degli atti viziati da incompetenza anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell’ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (C.d.S., sez. IV 29.05.2009, n. 3371; 31.05.2007, n. 2894; 28.02.2005, n. 739), fermo restando che essa è tuttora vigente e compatibile con le disposizioni contenute nella legge 07.08.1990, n. 241 (C.d.S., sez. VI, 07.05.2009, n. 2840).
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione è dato rinvenire per effetto della convalida o della ratifica di un atto amministrativo, atteso che l’esercizio del potere di convalida (ratifica) comporta, com’è avvenuto nel caso di specie, un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato, nuovo atto che non è affatto sottratto al sindacato giurisdizionale
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all'indicazione dei "vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico", legittima l'autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni. Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale.
Si è del pari ritenuto che “il piano regolatore generale, nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale”.
Per quanto sopra detto si ricava che la distinzione tra le forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato quantitativo relativo all’ambito, puntuale o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni limitative quanto nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che permea le rispettive statuizioni amministrative.
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Il piano regolatore generale può recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali “zone”, quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell’immobile ex se considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell’assetto territoriale.
In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di settore in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare l’adozione di un provvedimento impositivo di vincolo culturale o paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato come elemento particolare valore urbanistico e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria.
E tanto in coerenza con una nozione ampia della materia urbanistica, che valorizza la funzione di governo del territorio attraverso la disciplina, nella loro globalità, di tutti i possibili insediamenti e delle altre utilizzazioni del territorio.

L'art. 7, n. 5, della legge 17.08.1942 n.1150, sostituito dalla legge 19.11.1968 n. 1187, include tra i contenuti essenziali del piano regolatore generale, "i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico".
Detta norma si salda con la disciplina dettata dall’art. 36 della legge regionale 07.12.1978 n. 47 n. 47/1978, secondo cui il piano regolatore generale, può individuare gli edifici e i complessi edilizi di interesse culturale, storico-artistico ambientale, dettando la relativa disciplina particolareggiata secondo le categorie di intervento A1 (restauro scientifico) e A2 (restauro conservativo), delimitando le eventuali aree verdi di pertinenza o, comunque, gli spazi liberi circostanti di rispetto non edificabili e definendo le destinazioni d' uso.
L’articolo 27 della medesima legge regionale prevede interventi di recupero del patrimonio urbanistico ed edilizio in zone che possono comprendere anche singoli immobili, complessi edilizi nonché edifici isolati ed aree.
Tanto premesso quanto alla ricognizione del dato positivo, merita condivisione l’insegnamento giurisprudenziale alla stregua del quale “l’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all'indicazione dei "vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico", legittima l'autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni. Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale.” (Cons. Stato, sez. IV, 05.10.1995, n. 781).
Si è del pari ritenuto che “il piano regolatore generale, nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale” (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.1990, n. 78).
Dall’esame congiunto delle coordinate normative e giurisprudenziali passate in rassegna si ricava che la distinzione tra le forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato quantitativo relativo all’ambito, puntuale o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni limitative quanto nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che permea le rispettive statuizioni amministrative.
Non è quindi condivisibile l’assunto, che sorregge la sentenza appellata, secondo cui le scelte pianificatorie dovrebbero riguardare necessariamente un ambito territoriale non definibile a priori ma comunque non riducibile a specifici fabbricati.
Si deve al contrario ritenere, alla luce del tenore del dato positivo e della ratio che lo informa, che il piano regolatore generale possa recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali “zone”, quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell’immobile ex se considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell’assetto territoriale. In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di settore in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare l’adozione di un provvedimento impositivo di vincolo culturale o paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato come elemento particolare valore urbanistico e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria.
E tanto in coerenza con una nozione ampia della materia urbanistica, che valorizza la funzione di governo del territorio attraverso la disciplina, nella loro globalità, di tutti i possibili insediamenti e delle altre utilizzazioni del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.04.2013 n. 2265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: L’individuazione dell’area ove ubicare un’opera pubblica costituisce una scelta tecnico-discrezionale dell’amministrazione, che resta naturalmente sottratta al sindacato di legittimità, salvo evidenti profili di illogicità o abnormità.
In linea generale, va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale la Sezione non ravvisa motivo per discostarsi, secondo cui l’individuazione dell’area ove ubicare un’opera pubblica costituisce una scelta tecnico-discrezionale dell’amministrazione, che resta naturalmente sottratta al sindacato di legittimità, salvo evidenti profili di illogicità o abnormità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2008, nr. 2247; id., 31.07.2007, nr. 4051) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.04.2013 n. 2257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La destinazione a "verde pubblico attrezzato" ha di regola natura conformativa, dovendo però verificarsi caso per caso, alla stregua della concreta disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima ipotesi potendosene ritenere il carattere espropriativo.
Per una corretta ricostruzione della disciplina urbanistica dell’area, che costituisce la questione centrale del presente giudizio, conviene muovere dalla seconda delle doglianze richiamate nella narrativa in fatto: e, cioè, da quella con cui si lamenta la natura espropriativa della destinazione a “verde pubblico attrezzato” impressa dal P.P. del 1982, e quindi la sua decadenza –anche a volerla ritenere recepita dal successivo P.R.G.– per decorso del termine quinquennale di efficacia.
Al riguardo, la più recente giurisprudenza della Sezione è nel senso che la detta destinazione abbia di regola natura conformativa, dovendo però verificarsi caso per caso, alla stregua della concreta disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima ipotesi potendosene ritenere il carattere espropriativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2012, nr. 6094; id., 11.09.2012, nr. 4815; id., 16.09.2011, nr. 5216) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.04.2013 n. 2254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La insindacabilità nel merito di apprezzamenti discrezionali, come quelli sottesi alla perimetrazione di un Parco naturale, ha conosciuto nel corso del tempo una significativa evoluzione, in linea con i principi costituzionali e comunitari del “giusto processo” –inscindibile dalla effettività della tutela– e del “giusto procedimento amministrativo”, che vede la pubblica autorità chiamata a rendere conto in modo sempre più incisivo –e con accresciute modalità di partecipazione e di verifica dei diretti interessati– della razionalità delle proprie determinazioni.
Le vecchie formule, che limitavano il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali all’esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità dell’iter logico, seguito dall’Autorità emanante il provvedimento, debbono ormai ritenersi superate dai parametri di attendibilità della valutazione, che sia frutto di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità amministrativa.
Sotto il primo profilo, infatti, è, ormai, pacificamente censurabile la valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di esattezza o attendibilità, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata o di dottrina dominante in materia.
Un’evoluzione analoga non può non investire la discrezionalità cosiddetta amministrativa, sotto il profilo non tanto dell’an e del quid, ma del quomodo, soprattutto ove le scelte si proiettino su complessi bilanciamenti di interessi, legati ai parametri costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione.
Un criterio di scelta, formulato come discrezionale e pertanto insindacabile nel merito, può, infatti, ritenersi funzionalmente deviato –ed essere sindacabile sul piano della legittimità– “quando non renda esplicita e verificabile la logica interna che lo ispira, non consentendo di appurare l’effettivo perseguimento della scelta ottimale fra più soluzioni possibili, nell’interesse pubblico ed in comparazione con ogni altro possibile interesse –anche privato– coinvolto”.

Occorre anzitutto, in punto di diritto, premettere alcune necessarie considerazioni in merito alla sindacabilità delle scelte della p.a. in tema di perimetrazione dei parchi.
La insindacabilità nel merito di apprezzamenti discrezionali, come quelli sottesi alla perimetrazione di un Parco naturale, ha conosciuto nel corso del tempo una significativa evoluzione, in linea con i principi costituzionali e comunitari del “giusto processo” –inscindibile dalla effettività della tutela– e del “giusto procedimento amministrativo”, che vede la pubblica autorità chiamata a rendere conto in modo sempre più incisivo –e con accresciute modalità di partecipazione e di verifica dei diretti interessati– della razionalità delle proprie determinazioni.
Le vecchie formule, che limitavano il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali all’esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità dell’iter logico, seguito dall’Autorità emanante il provvedimento, debbono ormai ritenersi superate dai parametri di attendibilità della valutazione, che sia frutto di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità amministrativa.
Sotto il primo profilo, infatti, è, ormai, pacificamente censurabile la valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di esattezza o attendibilità, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata o di dottrina dominante in materia (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez IV, 13.10.2003, n. 6201; Cons. St., sez. VI, 06.02.2009, n. 694; Cons. St., sez. VI; 27.10.2009, n. 6559; Corte europea dei diritti dell’uomo, Albert et Le Compte c. Belgio, par. 29, 10.02.1983 e Obermeier c. Austria, par 70, 28.06.1990).
Un’evoluzione analoga non può non investire la discrezionalità cosiddetta amministrativa, sotto il profilo non tanto dell’an e del quid, ma del quomodo, soprattutto ove le scelte si proiettino su complessi bilanciamenti di interessi, legati ai parametri costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione.
Un criterio di scelta, formulato come discrezionale e pertanto insindacabile nel merito, può, infatti, ritenersi funzionalmente deviato –ed essere sindacabile sul piano della legittimità– “quando non renda esplicita e verificabile la logica interna che lo ispira, non consentendo di appurare l’effettivo perseguimento della scelta ottimale fra più soluzioni possibili, nell’interesse pubblico ed in comparazione con ogni altro possibile interesse –anche privato– coinvolto” (Cons. St., sez. V, 08.03.2012, n. 1330) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.04.2013 n. 2253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il piano quadro è uno strumento parallelo, nella sostanza, al piano particolareggiato e che è prevista, in alternativa all’uno e all’altro, la possibilità per i privati di presentare un piano di lottizzazione.
L’appello del Comune, per quanto attiene alla censura proposta contro la statuizione annullatoria della delibera n. 51/2004 che ha rigettato l’istanza di lottizzazione proposta dalla Cooperativa, deve essere respinto.
Il Comune di Crispiano deduce anzitutto l’erroneità della sentenza del TAR, nella parte in cui ha ritenuto che non sarebbe necessaria l’adozione di un piano quadro per l’accoglimento della proposta lottizzativa.
L’appellante assume che l’adozione di tale piano, diversamente da quanto ha ritenuto il primo giudice, sia necessaria.
Si tratta, tuttavia, di un assunto infondato.
Occorre invero osservare, in primo luogo, che il provvedimento impugnato, nel corpo della sua motivazione, in alcun punto e in alcun modo ha inteso far riferimento alla necessità del piano quadro per l’accoglimento dell’istanza.
Le diffuse argomentazioni esposte al riguardo dall’appellante, come anche le molteplici motivazioni sul punto spese dal TAR, appaiono ininfluenti, quindi, ai fini del decidere, ove si ci si attenga, propriamente e doverosamente, a quello che è l’oggetto proprio e specifico del provvedimento impugnato.
Ad ogni buon conto questa Sezione, per quanto rilevar possa, ha già avuto modo di chiarire, in una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio, che il piano quadro è uno strumento parallelo, nella sostanza, al piano particolareggiato e che è prevista, in alternativa all’uno e all’altro, la possibilità per i privati di presentare un piano di lottizzazione (Cons. St., sez. IV, 19.03.2003, n. 1456).
Peraltro, come correttamente rilevato dal TAR, l’alternatività del piano quadro rispetto al piano di lottizzazione si desume chiaramente dall’elaborato grafico (TAV. 3) del PdF nel quale si legge, in modo che non lascia spazio a dubbio alcuno, che “il rilascio delle licenze edilizie è subordinato alla redazione di un piano di lottizzazione convenzionata o di un piano quadro con l’obbligo dell’assunzione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
L’alternatività del piano quadro rispetto al piano di lottizzazione è stata anche riconosciuta, expressis verbis, dalla stessa amministrazione comunale, che il 24.04.1996 ha rilasciato alla Cooperativa un certificato di destinazione urbanistica, nel quale si legge che l’area rientra nella zona ES e che in tale zona l’edificazione sarebbe stata subordinata alla preventiva approvazione “di un piano di lottizzazione o alternativamente di un piano quadro” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.04.2013 n. 2252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione effettuate dall’Ente locale in sede di adozione dello strumento urbanistico, afferendo ad una prima fase del più ampio e complesso procedimento di pianificazione generale, culminante nell’approvazione del Piano regolatore, non possono ex se far sorgere aspettative in ordine ad una definitiva zonizzazione di immobili.
Invero, dalla mera adozione di un PRG “non possono discendere in capo agli interessati aspettative edificatorie qualificate rispetto alle successive scelte pianificatorie operate in via definitiva dal Comune con il concorso della Regione”.
A ciò occorre aggiungere che, in sede di adozione dello strumento urbanistico generale, il Comune non risulta “vincolato” dalle precedenti indicazioni urbanistiche, a maggior ragione laddove le stesse discendano da un mero programma di fabbricazione. Ed infatti, in caso contrario, ogni nuova scelta pianificatoria dell’Ente locale risulterebbe necessariamente “condizionata” (e quindi “depotenziata”) dalle scelte effettuate in passato, pervenendosi ad una cristallizzazione (come tale immodificabile) delle destinazioni (e potenzialità edificatorie) dei suoli.
A tali fini, appare sufficiente che, in sede di nuova pianificazione generale, l’Ente locale dia conto delle ragioni che sorreggono le scelte di pianificazione effettuate, senza necessità di dover specificamente motivare in ordine ad ogni singola variazione intervenuta.
Inoltre, proprio perché il procedimento di approvazione di un Piano regolatore generale si presenta particolarmente complesso e vede l’intervento, oltre che dei cittadini che intendano presentare osservazioni ed opposizioni, anche, con poteri differenti, della Regione, le indicazioni urbanistiche definitive ben possono risultare dalle indicazioni grafiche risultanti dalle planimetrie, purché le stesse si presentino coerenti (e siano dunque sorrette) dalle motivazioni generali che hanno determinato le scelte urbanistiche dell’Ente locale, ovvero l’intervento correttivo della Regione, in sede di approvazione.
Ed infine, ben può l’Ente locale, alla luce delle osservazioni, prescrizioni e/o condizioni espresse dalla Regione in sede di approvazione del Piano regolatore, riparametrare talune sue scelte, senza necessità –perché si possa intervenire su singole zonizzazioni– di una indicazione puntuale, cioè riferita specificamente ad una specifica area od immobile, della Regione medesima.
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L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.

Il Collegio deve innanzi tutto osservare –in ciò condividendo quanto affermato dal I giudice– che le scelte di pianificazione effettuate dall’Ente locale in sede di adozione dello strumento urbanistico, afferendo ad una prima fase del più ampio e complesso procedimento di pianificazione generale, culminante nell’approvazione del Piano regolatore, non possono ex se far sorgere aspettative in ordine ad una definitiva zonizzazione di immobili.
Così come affermato condivisibilmente dalla sentenza appellata, dalla mera adozione di un PRG “non possono discendere in capo agli interessati aspettative edificatorie qualificate rispetto alle successive scelte pianificatorie operate in via definitiva dal Comune con il concorso della Regione”.
A ciò occorre aggiungere che, in sede di adozione dello strumento urbanistico generale, il Comune non risulta “vincolato” dalle precedenti indicazioni urbanistiche, a maggior ragione laddove le stesse discendano da un mero programma di fabbricazione. Ed infatti, in caso contrario, ogni nuova scelta pianificatoria dell’Ente locale risulterebbe necessariamente “condizionata” (e quindi “depotenziata”) dalle scelte effettuate in passato, pervenendosi ad una cristallizzazione (come tale immodificabile) delle destinazioni (e potenzialità edificatorie) dei suoli.
A tali fini, appare sufficiente che, in sede di nuova pianificazione generale, l’Ente locale dia conto delle ragioni che sorreggono le scelte di pianificazione effettuate, senza necessità di dover specificamente motivare in ordine ad ogni singola variazione intervenuta.
Inoltre, proprio perché il procedimento di approvazione di un Piano regolatore generale si presenta particolarmente complesso e vede l’intervento, oltre che dei cittadini che intendano presentare osservazioni ed opposizioni, anche, con poteri differenti, della Regione, le indicazioni urbanistiche definitive ben possono risultare dalle indicazioni grafiche risultanti dalle planimetrie, purché le stesse si presentino coerenti (e siano dunque sorrette) dalle motivazioni generali che hanno determinato le scelte urbanistiche dell’Ente locale, ovvero l’intervento correttivo della Regione, in sede di approvazione.
Ed infine, ben può l’Ente locale, alla luce delle osservazioni, prescrizioni e/o condizioni espresse dalla Regione in sede di approvazione del Piano regolatore, riparametrare talune sue scelte, senza necessità –perché si possa intervenire su singole zonizzazioni– di una indicazione puntuale, cioè riferita specificamente ad una specifica area od immobile, della Regione medesima.
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E’, infine, il caso di ricordare che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.04.2013 n. 2250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che l'Amministrazione comunale, sulle aree gravate da una servitù di passaggio su un'area privata, debba esercitare il potere diretto a garantire ed a disciplinare l'uso generale del bene da parte della collettività, nell'ambito del pubblico interesse giustificativo della servitù medesima, concedendo l’uso particolare (cfr. l’art. 38, comma 3, del Dlgs. 15.11.1993, n. 507, che infatti assoggetta ad autorizzazione e al pagamento della relativa tassa l’occupazione di suolo privato ad uso pubblico).
Nel caso di specie tali poteri sussistono in quanto, quand’anche la striscia di terreno fosse da qualificare come privata, quell’area è sicuramente assoggettata all’uso pubblico, in quanto gravata da lunghissimo tempo da una servitù di pubblico passaggio pedonale costante ed indiscriminato a favore della generalità di persone.

Considerato:
- che con il provvedimento impugnato il Comune di Villa Estense ha ordinato la rimozione di fioriere, panchine e vasi che sono stati apposti alla ricorrente sulla via Cavour, nella parte esterna alla carreggiata non asfaltata prospiciente il muro di cinta del giardino pertinenziale dell’edificio di proprietà;
- che tale provvedimento è impugnato per le censure di violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, perché la precedente comunicazione del 15.06.2012 faceva riferimento a problematiche inerenti l’occupazione di suolo pubblico, mentre il provvedimento impugnato è motivato con la necessità di evitare che tali manufatti siano lasciati in stato di abbandono, divenendo ricettacolo di sporcizia e deposito rifiuti, causa di propagazione di vegetazione infestante con conseguenti problematiche igienico sanitarie, e per prevenire situazioni di intralcio alla circolazione veicolare e pedonale che siano causa di situazioni di pericolo;
- che con ulteriore censura si lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione, l’illogicità e la disparità di trattamento in quanto non è comprovata la sussistenza delle condizioni di degrado indicate nell’ordinanza, e in mancanza delle fioriere e delle panchine vi è il rischio che vengano parcheggiate delle automobili, mettendo a rischio lo stato di conservazione del muro di cinta, e comunque, come risulta dalla perizia allegata al ricorso, la striscia di terreno è di proprietà privata;
- che si è costituito in giudizio il Comune di Villa Estense eccependo l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse nonché per la mancata notifica del medesimo ai controinterssati, e concludendo per la sua reiezione;
- che per economicità di giudizio si può prescindere dall’esaminare le eccezioni di inammissibilità perché il ricorso è infondato nel merito;
- che infatti, contrariamente a quanto dedotto, il provvedimento impugnato non presuppone neppure l’accertamento della proprietà comunale della porzione di terreno sulla quale sono presenti le fioriere e le panchine, ma l’esistenza o meno di poteri del Comune a disciplinare l’uso generale di quel suolo da parte della collettività;
- che infatti è pacifico che l'Amministrazione comunale, sulle aree gravate da una servitù di passaggio su un'area privata, debba esercitare il potere diretto a garantire ed a disciplinare l'uso generale del bene da parte della collettività, nell'ambito del pubblico interesse giustificativo della servitù medesima, concedendo l’uso particolare (cfr. l’art. 38, comma 3, del Dlgs. 15.11.1993, n. 507, che infatti assoggetta ad autorizzazione e al pagamento della relativa tassa l’occupazione di suolo privato ad uso pubblico);
- che nel caso di specie tali poteri sussistono in quanto, quand’anche la striscia di terreno fosse da qualificare come privata, quell’area è sicuramente assoggettata all’uso pubblico, in quanto gravata da lunghissimo tempo da una servitù di pubblico passaggio pedonale costante ed indiscriminato a favore della generalità di persone;
- che pertanto va respinta la censura di cui al secondo motivo, in quanto l’abusività dell’installazione delle fioriere e delle panchine è sufficiente a sorreggere l’ordine di rimozione e, come dedotto dal Comune nelle proprie difese, la presenza di tali manufatti è oggettivamente idonea a costituire un intralcio alla manutenzione del ciglio della strada, con conseguente degrado della stessa, ed intralcio alla circolazione dei veicoli e dei pedoni (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 22.04.2013 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'asservimento della volumetria da un lotto a favore di un altro, onde realizzare una maggiore edificabilità, è consentita solo con riferimento ad aree aventi una medesima destinazione urbanistica, posto che diversamente si verificherebbe un'evidente alterazione delle caratteristiche tipologiche della zona tutelate dalle norme urbanistiche.
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Anche ove le aree tra le quali andrebbe operata la cessione di cubatura appartengano ad una stessa zona ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968, la loro riconducibilità a sottozone diverse, contrassegnate da una diversità di regolamentazione, potrebbe ostare ad una valutazione di omogeneità.
Invero, questa interpretazione prospettata dal Comune è da condividere, le quante volte le diversità di disciplina riscontrabili tra le sottozone in giuoco abbiano un’apprezzabile incidenza sostanziale sulla destinazione di indirizzo dei rispettivi fondi, e possa dunque profilarsi quale effetto dell'asservimento un'elusione dei limiti posti dallo strumento urbanistico, con un’alterazione delle caratteristiche tipologiche da questo tutelate.

Del resto, la giurisprudenza è consolidata sul principio per cui l'asservimento della volumetria da un lotto a favore di un altro, onde realizzare una maggiore edificabilità, è consentita solo con riferimento ad aree aventi una medesima destinazione urbanistica, posto che diversamente si verificherebbe un'evidente alterazione delle caratteristiche tipologiche della zona tutelate dalle norme urbanistiche (Consiglio Stato sez. V, 11.04.1991, n. 530; v. peraltro, in precedenza, sez. IV, 04.05.1979, n. 302, che, dopo avere avvertito che l'asservimento di aree rispetto ad una licenza edilizia ha la funzione di concentrare su un'area, oltre alla volumetria propria di essa, anche quella spettante ad aree diverse appartenenti allo stesso o ad altri proprietari, aveva già chiarito che una simile possibilità è data solo nel rispetto delle norme disciplinanti l'attività edilizia sull'area a favore della quale viene operato l'asservimento, che trova un limite insuperabile nell'omogeneità dell'area da asservire rispetto a quella destinata all'edificazione, onde prevenire l'elusione dei limiti posti dallo strumento urbanistico; sul requisito dell’omogeneità cfr. anche, più di recente, sez. V, 03.03.2003, n. 1172; 10.06.2005, n. 3052; 22.10.2007, n. 5496; sez. IV, 30.09.2008, n. 4708).
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La tesi di fondo di parte ricorrente è, infatti, quella che l’esistenza del requisito dell’omogeneità tra area ceduta ed area beneficiaria, vale a dire le due sottozone F2 ed F3, sarebbe assicurata già, una volta per tutte, dal fatto stesso della loro comune appartenenza alla zona agricola “F”.
Per contro, l’interpretazione seguita dall’Amministrazione, e convalidata dal primo Giudice, si ispira al più rigoroso ordine di idee per cui anche ove le aree tra le quali andrebbe operata la cessione di cubatura appartengano ad una stessa zona ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968, la loro riconducibilità a sottozone diverse, contrassegnate da una diversità di regolamentazione, potrebbe ostare ad una valutazione di omogeneità.
La Sezione ritiene che questa seconda interpretazione, da essa già condivisa (decisione 22.10.2007, n. 5496), sia preferibile, le quante volte le diversità di disciplina riscontrabili tra le sottozone in giuoco abbiano, come nella specie, un’apprezzabile incidenza sostanziale sulla destinazione di indirizzo dei rispettivi fondi, e possa dunque profilarsi quale effetto dell'asservimento un'elusione dei limiti posti dallo strumento urbanistico, con un’alterazione delle caratteristiche tipologiche da questo tutelate
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della tutela vincolistica su beni archeologici, «l’effettiva esistenza delle cose da tutelare può essere dimostrata anche per presunzione e che è ininfluente che i materiali oggetto di tutela siano stati portati alla luce o siano ancora interrati, essendo sufficiente che il complesso risulti adeguatamente definito e che il vincolo archeologico appaia adeguato alla finalità di pubblico interesse al quale è preordinato».
La stessa giurisprudenza ha specificato che «l’amministrazione dei beni culturali ed ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti: è necessario, però, in tal caso, che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l’imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinata».
Più recentemente la Sezione, in relazione ad una fattispecie analoga alla presente, ha affermato che «quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano».

Ritiene la Sezione che l’appello sia fondato.
Il decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 06.07.2002, n. 137), disciplina il procedimento amministrativo per la dichiarazione di interesse culturale di beni specificamente indicati, i poteri di vigilanza e controllo del Ministero competente, le modalità di protezione “diretta” dei beni stessi (si vedano, in particolare, gli articoli 10, 18, 19 e 20 e seguenti).
La giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento formatosi nella vigenza della legge 01.06.1939, n. 1089, ma con affermazioni estensibili al nuovo sistema, ha già avuto modo di rilevare che, ai fini della tutela vincolistica su beni archeologici, «l’effettiva esistenza delle cose da tutelare può essere dimostrata anche per presunzione e che è ininfluente che i materiali oggetto di tutela siano stati portati alla luce o siano ancora interrati, essendo sufficiente che il complesso risulti adeguatamente definito e che il vincolo archeologico appaia adeguato alla finalità di pubblico interesse al quale è preordinato» (Cons. Stato, VI, 01.03.2005, n. 805).
La stessa giurisprudenza ha specificato che «l’amministrazione dei beni culturali ed ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti: è necessario, però, in tal caso, che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l’imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinata» (Cons. Stato. VI, n. 5069 del 2005).
Più recentemente la Sezione, in relazione ad una fattispecie analoga alla presente, ha affermato che «quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano» (Cons. Stato, VI, 29.01.2013, n. 522) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.04.2013 n. 1906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALottizzazione abusiva e ruolo del notaio.
Nell’illecito lottizzatorio, non può ritenersi assiomaticamente sussistente la buona fede dell’acquirente per il solo fatto che quegli si sia rivolto ad un notaio quale pubblico ufficiale rogante. Le parti stipulanti infatti -proprio al fine specifico di non fare emergere elementi indiziari di uno scopo lottizzatorio dell'attività negoziale- potrebbero rendere dichiarazioni non veritiere, surrettiziamente Incomplete o nebulose, oppure produrre documentazione parziale e non corrispondente alla realtà.
Lo stesso notaio, infine, potrebbe concorrere alla lottizzazione abusiva, sia contribuendo con la propria condotta alla realizzazione dell’evento illecito (facendo proprio il fine degli autori del reato, magari anche con attiva induzione propiziatoria) sia per violazione del dovere della normale diligenza professionale media esigibile ai sensi del 2° comma dell’art. 1176 cod. civ.
L’intervento del notaio non garantisce una sorta di “ripulitura giuridica" della originaria illegalità dell’immobile abusivo, permettendo che esso resti definitivamente radicato sul territorio, né può consentire all'acquirente di godere di un acquisto dolosamente o colposamente attuato in ordine ad un bene di provenienza illecita ed al costruttore abusivo di conseguire comunque il suo illecito fine di lucro.
Argomentandosi in senso difforme (come efficacemente rilevato in dottrina) lo scempio territoriale, che è intollerabile perché perpetrato in violazione anche dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione, diventerebbe praticamente intoccabile e la cultura dell'illegalità diventerebbe diritto acquisito (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.04.2013 n. 15981).

EDILIZIA PRIVATABeni Ambientali. Uso di immobile realizzato in violazione di vincoli.
Non c'è dubbio che anche l'uso dell'immobile, realizzato in violazione di vincoli, si palesa idoneo ad aggravare le conseguenze dannose prodotte dall'opera abusiva sull'ecosistema protetto da vincolo paesaggistico o di altra natura e giustifica l'applicazione della misura cautelare diretta ad impedire la protrazione e l'aggravamento delle conseguenze dannose del reato ed è altresì indubitabile che la valutazione sul punto ha ad oggetto l'incidenza negativa della condotta su un più delicato equilibrio rispetto a quello riguardante genericamente il carico urbanistico sul territorio, sicché la esclusione della idoneità dell'uso della cosa a deteriorare ulteriormente l'ecosistema protetto dal vincolo deve formare oggetto di un esame particolarmente approfondito.
L'ulteriore lesione del bene protetto deve, però, essere esclusa ove si accerti la assoluta compatibilità di tale uso con gli interessi tutelati dal vincolo, tenendosi conto della natura di quest'ultima e della situazione preesistente alla realizzazione dell'opera (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2013 n. 15802).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti. Discarica materiali di matrice cementizia contenenti amianto.
L’art. 1, comma 184, lettera c), della legge n. 296 del 2006, come modificato dall’art. 1, comma 166, della legge n. 244 del 2007, il quale prevede che la proroga delle autorizzazioni fino al 31.12.2008 non si applichi alle discariche di II categoria, tipo A, in cui si conferiscono materiali di matrice cementizia contenenti amianto, deve essere interpretato nel senso che l'esclusione della proroga dipende dal contenuto dell’autorizzazione e, cioè, dalla tipologia di discarica e non dai materiali concretamente conferiti nella stessa. La circostanza se una discarica autorizzata a ricevere materiali di matrice cementizia contenenti amianto abbia effettivamente ricevuto tali materiali risulta, dunque, irrilevante.
Diversamente opinando, del resto, la proroga dell’autorizzazione verrebbe fatta dipendere da un fattore estraneo al contenuto dell’autorizzazione stessa e di difficile accertamento, in quanto dipendente esclusivamente dal comportamento in concreto tenuto dal gestore della discarica (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2013 n. 15782).

PATRIMONIO: Sì alla locazione "diretta" di un immobile comunale non utilizzato a fini economici.
La decisione 5 aprile 2013, n. 285 risolve la questione circa la possibilità per una civica P.A. di concedere “in via diretta” a un privato la locazione di un bene demaniale da utilizzarsi per un limitato periodo di tempo e senza scopo di lucro.
Il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 30 e 144, D.Lgs. n. 163/2006, ha gravato la determinazione con cui il competente dirigente, senza l’esperimento di una procedura a evidenza pubblica, ha concesso in locazione a un partito politico un immobile comunale da adibire a “luogo di propaganda politica”.
Il TAR di Ancona, però, ha escluso l’applicabilità dei principi sull’evidenza pubblica, atteso che il Comune non solo aveva a disposizione ulteriori immobili comunali idonei a soddisfare similari esigenze, ma era dotato di un regolamento per cui era possibile l’affidamento a trattativa privata delle concessioni di immobili, il cui canone annuo di locazione era di modesta entità.
IL CASO
Il deducente, candidato Sindaco alle scorse consultazioni elettorali, ha contestato la legittimità del provvedimento di (diretta) concessione in locazione di un immobile comunale a un partito politico, in quanto, a suo opinare, il Comune avrebbe dovuto concedere il predetto bene previo esperimento di una procedura a evidenza pubblica.
LE NORME VIOLATE
L’interessato, reputando che la concessione in locazione di un bene demaniale sia da equiparare, in termini di disciplina, alle concessioni di servizi o di lavori pubblici, ha eccepito la violazione degli artt. 30 e 144, D.Lgs. n. 163/2006.
Orbene, con riferimento alle concessioni di servizi, è appena il caso di rammentare come l’art. 30 cit. sancisce che: “1. Salvo quanto disposto nel presente articolo, le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di servizi.
2. Nella concessione di servizi la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio. Il soggetto concedente stabilisce in sede di gara anche un prezzo, qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell'ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare.
3. La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione e con predeterminazione dei criteri selettivi.
4. Sono fatte salve discipline specifiche che prevedono forme più ampie di tutela della concorrenza.
5. Restano ferme, purché conformi ai principi dell'ordinamento comunitario, le discipline specifiche che prevedono, in luogo delle concessione di servizi a terzi, l'affidamento di servizi a soggetti che sono a loro volta amministrazioni aggiudicatrici.
6. Se un'amministrazione aggiudicatrice concede a un soggetto che non è un'amministrazione aggiudicatrice diritti speciali o esclusivi di esercitare un'attività di servizio pubblico, l'atto di concessione prevede che, per gli appalti di forniture conclusi con terzi nell'ambito di tale attività, detto soggetto rispetti il principio di non discriminazione in base alla nazionalità.
7. Si applicano le disposizioni della parte IV. Si applica, inoltre, in quanto compatibile l'art. 143, comma 7
”.
Parallelamente, in materia di concessioni di lavori pubblici, il successivo art. 144 prevede che: “1. Le stazioni appaltanti affidano le concessioni di lavori pubblici con procedura aperta o ristretta, utilizzando il criterio selettivo dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
2. Quale che sia la procedura prescelta, le stazioni appaltanti pubblicano un bando in cui rendono nota l'intenzione di affidare la concessione.
3. I bandi relativi alle concessioni di lavori pubblici contengono gli elementi indicati nel presente codice, le informazioni di cui all'all. IX B e ogni altra informazione ritenuta utile, secondo il formato dei modelli di formulari adottati dalla Commissione in conformità alla procedura di cui all'art. 77, par. 2, direttiva 2004/18. 3-bis. I bandi e i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo schema di contratto e il piano economico finanziario, sono definiti in modo da assicurare adeguati livelli di bancabilità dell'opera.
4. Alla pubblicità dei bandi si applica l'art. 66 ovvero l'art. 122
”.
LA DECISIONE DEL TAR
Il G.A. marchigiano non ha ritenuto meritevoli di accoglimento le censure mosse dal deducente.
Sul proposito ha, infatti, precisato che mentre l’art. 30 del Codice riguarda unicamente le concessioni di servizi, l’art. 144 afferisce le sole modalità di affidamento delle concessioni di lavori relativi alla costruzione e gestione di opere pubbliche.
Inoltre, ha sottolineato che le concessioni sono costituite da veri e propri contratti che presentano le stesse caratteristiche di un appalto pubblico, a eccezione del corrispettivo dei servizi o dei lavori consistente nel diritto di gestire il servizio pubblico o l’opera, ovvero in tale diritto accompagnato da un prezzo.
Di conseguenza, l’adito Collegio ha ritenuto che l’essenza della concessione -di lavori o servizi pubblici– risiede nella circostanza per cui il concessionario si remunera per l’appunto erogando il servizio all’utenza, oppure sfruttando il bene demaniale a fini economici.
Al contempo, ha osservato che le concessioni amministrative sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa comunitaria sugli appalti pubblici in quanto, dal punto di vista della tutela della concorrenza, le stesse possiedono uguale incidenza sul mercato; non a caso, il concessionario di beni o servizi pubblici ricava un’utilità sfruttando economicamente beni pubblici che non sono disponibili in quantità illimitata.
Di tal ché, il giudicante ha rilevato che le suddette concessioni, poiché in grado di alterare le ordinarie dinamiche del mercato, devono essere assegnate mediante le procedure competitive di cui agli artt. 30 e 144 del D.Lgs. n. 163/2006.
Orbene, con riferimento al caso di specie, il TAR ha evidenziato l’inapplicabilità delle suddette disposizioni e principi, atteso che il partito politico non avrebbe svolto nel locale concesso in locazione alcuna attività economica.
Parallelamente, ha soggiunto la dirimente circostanza per cui il Comune aveva comunicato al ricorrente la disponibilità di altri locali aventi caratteristiche e ubicazione simili a quelle dell’immobile concesso in locazione all’avversario partito politico.
E ancora, ferma restando la regola per cui gli appalti aventi valore esiguo possono essere affidati senza gara, il Tribunale ha precisato che il regolamento comunale sulla gestione dei beni demaniali e patrimoniali stabiliva la possibilità di “… affidamento a trattativa privata delle concessioni allorquando il canone annuo di locazione è inferiore a €. 5.000,00”.
In considerazione di siffatte emergenze, il Collegio di Ancona ha ritenuto che la civica P.A. non aveva alcun onere di bandire un confronto concorrenziale per il rilascio della concessione dell’immobile in questione, anche avuto riguardo alla circostanza per cui lo stesso non era stato mai oggetto di interesse da parte di nessuna delle forze politiche più “tradizionali”.
I PRECEDENTI ED I POSSIBILI IMPATTI PRATICO-OPERATIVI
La pronuncia in esame cristallizza il fermo principio per cui le pubbliche Amministrazioni possono affidare, in via diretta, la locazione di un bene demaniale soltanto nelle ipotesi in cui il privato non intenda svolgere, all’interno dello stesso, qualsivoglia attività economica, in grado di determinare non solo alterazioni concorrenziali, ma anche entrate economiche in favore dell’Erario.
Sul punto il TAR di Pescara, con riferimento alla locazione di un locale demaniale in cui sarebbe stata svolta un’attività di commercio al pubblico, ha dichiarato l’illegittimità della delibera con cui la Giunta comunale, in spregio ai canoni di trasparenza, imparzialità e par condicio, aveva stabilito l’affidamento diretto in favore di un soggetto.
Invero, il Comune avrebbe dovuto procedere alla preliminare pubblicazione di un avviso, onde passare all’affidamento della locazione dell’immobile di sua proprietà solo mediante l’esperimento di idonea procedura concorrenziale che avrebbe consentito la partecipazione di tutti i potenziali aspiranti (TAR Abruzzo Pescara, Sez. I, 05.11.2008, n. 878 in www.giustizia-amministrativa.it).
E ancora, Palazzo Spada ha rimarcato la rilevanza dello svolgimento di una procedura a evidenza pubblica per la concessione di beni pubblici –nella specie di una cava di marmo– passibili di utilizzo economico, attesa l’esigenza di garantire una migliore gestione delle risorse dell’ente e, così, il miglior utilizzo di beni che fanno parte del patrimonio o del demanio e che vengono ceduti in godimento a terzi con ricavo di un corrispettivo a incremento delle entrate finanziarie (Cons. Stato, Sez. VI, 04.04.2007, n. 1523, in www.giustizia-amministrativa.it).
Eppertanto, alla stregua delle suindicate decisioni, può ragionevolmente ritenersi che l’indizione di una formale gara per l’affidamento in locazione di un immobile demaniale non è necessaria qualora il privato, per mezzo del medesimo bene, intenda esercitare un’attività che in alcuna guisa incide sul mercato, né tampoco sull’entrate erariali (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Marche, sentenza 05.04.2013 n. 285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’impugnazione di una violazione amministrativa o di un verbale di accertamento esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo, poiché la situazione giuridica di cui si chiede tutela ha la consistenza di diritto soggettivo e l’esercizio dell’attività sanzionatoria non è espressione di attività discrezionale ma vincolata dell’amministrazione, perché retta dal principio di legalità, sicché, ove l’amministrazione accerti che un comportamento integri gli estremi di un illecito previsto da una norma di legge, deve applicare la sanzione, senza alcun margine di scelta.
Tale conclusione riguarda tutti gli atti del procedimento sanzionatorio, compreso il verbale di accertamento e contestazione.
Né rileva in contrario, che esso non sia espressamente indicato tra gli atti impugnabili davanti al giudice ordinario, essendo espressione dello stesso potere che dà luogo alla irrogazione della sanzione, costituendone anzi il presupposto, sicché la giurisdizione non può che appartenere all’unico giudice, quello ordinario.
Peraltro, l’orientamento della Corte di Cassazione è nel senso di considerare il verbale di accertamento, atto privo di autonoma lesività, con la mera funzione di portare a conoscenza dell’interessato la contestazione, sicché questi possa apprestare le proprie difese, cui consegue l’irrilevanza e la svalutazione del ruolo del procedimento amministrativo sanzionatorio, anche perché il giudice ordinario può conoscere direttamente del rapporto sanzionatorio.
In ragione di quanto esposto, atteso che la sanzione della rimozione degli impianti pubblicitari prevista dal comma 13-quater dell’art. 23 del Codice della Strada, costituisce un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal precedente comma 11 dell’art. 23, per l’installazione di impianti pubblicitari su strade demaniali abusivamente installati, ne consegue il difetto di giurisdizione di questo giudice, appartenendo la materia de qua al giudice ordinario.

Con ricorso al TAR Lazio, la società PES s.r.l., chiedeva l’annullamento dei provvedimenti adottati dal Comune di Roma, in relazione ai quali era stata disposta la rimozione di numerosi impianti pubblicitari tutti collocati per effetto di specifico atto autorizzativo, con conseguente condanna al risarcimento in forma specifica, mediante il ripristino degli impianti già rimossi.
Il TAR, con sentenza n. 5400 del 2012, declinava la giurisdizione, affermando che:
a) dai verbali elevati dalla polizia municipale si ricava che la rimozione è stata disposta ai sensi dell’art. 23, comma 13-quater, del Codice della Strada “a seguito peraltro di un’operazione di controllo straordinaria sul territorio condotta dal…Corpo di polizia”;
b) dalla documentazione si rileverebbe la mancanza di provvedimenti amministrativi adottati in esercizio di un potere discrezionale, essendosi in presenza di verbali di accertamento della violazione di cui al citato art. 23, comma 13-quater.
La società appellante assume l’erroneità della sentenza di cui chiede l’annullamento, atteso che oggetto del ricorso sarebbero, non già i verbali di irrogazione della sanzione e di rimozione degli impianti, ma la normativa comunale sopravvenuta che ha fissato nuove distanze e altezze degli impianti dislocati sul territorio, concludendo che in ragione del petitum sostanziale, la giurisdizione apparterrebbe al giudice amministrativo.
Quanto al merito del ricorso, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 23, comma 13-quater, del Codice della strada; difetto di istruttoria, incompetenza, eccesso di potere.
Si è costituita in giudizio Roma Capitale che ha chiesto il rigetto dell’appello, perché infondato in fatto e diritto.
Alla camera di consiglio del 04.12.2012, il giudizio è stato assunto in decisione.
L’appello è infondato e va respinto.
Conformemente a giurisprudenza consolidata (cfr. Cons. Stato, sezione quinta, 27.06.2012, n. 3786 e 3787) l’impugnazione di una violazione amministrativa o di un verbale di accertamento esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo, poiché la situazione giuridica di cui si chiede tutela ha la consistenza di diritto soggettivo e l’esercizio dell’attività sanzionatoria non è espressione di attività discrezionale ma vincolata dell’amministrazione, perché retta dal principio di legalità, sicché, ove l’amministrazione accerti che un comportamento integri gli estremi di un illecito previsto da una norma di legge, deve applicare la sanzione, senza alcun margine di scelta.
Tale conclusione riguarda tutti gli atti del procedimento sanzionatorio, compreso il verbale di accertamento e contestazione.
Né rileva in contrario, che esso non sia espressamente indicato tra gli atti impugnabili davanti al giudice ordinario, essendo espressione dello stesso potere che dà luogo alla irrogazione della sanzione, costituendone anzi il presupposto, sicché la giurisdizione non può che appartenere all’unico giudice, quello ordinario (cfr. Cass. Civ., sez. II, 21.12.2011, n. 28045; 14.04.2009, n. 8890).
Peraltro, l’orientamento della Corte di Cassazione è nel senso di considerare il verbale di accertamento, atto privo di autonoma lesività, con la mera funzione di portare a conoscenza dell’interessato la contestazione, sicché questi possa apprestare le proprie difese, cui consegue l’irrilevanza e la svalutazione del ruolo del procedimento amministrativo sanzionatorio, anche perché il giudice ordinario può conoscere direttamente del rapporto sanzionatorio (cfr. Cass. Sez. unite, 28.01.2010, n. 1786; sezione prima, 15.01.2010, n. 532).
In ragione di quanto esposto, atteso che la sanzione della rimozione degli impianti pubblicitari prevista dal comma 13-quater dell’art. 23 del Codice della Strada, costituisce un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal precedente comma 11 dell’art. 23, per l’installazione di impianti pubblicitari su strade demaniali abusivamente installati, ne consegue il difetto di giurisdizione di questo giudice, appartenendo la materia de qua al giudice ordinario (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAbuso d'ufficio e dolo intenzionale.
Il dolo intenzionale, quale atteggiamento psicologico dell’agente, deve desumersi dai comportamenti tenuti prima, durante e dopo la condotta ed in particolare modo dall'evidenza delle violazioni, dalla competenza dell'agente, dalla reiterazione e gravità delle violazioni, dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato e, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi.
Intenzionalità non significa però esclusività del fine che deve animare l’agente. La legge del 1997 non richiede che le condotte abusive, quale ne sia la forma, vengano realizzate “al solo scopo" di conseguire questo o quell'evento tipico, perché una tale formula non è stata inserita nella fattispecie incriminatrice. Affermare infatti che l'agente deve agire “al solo scopo di" equivarrebbe ad abrogare il delitto in questione.
Invero, trattandosi di delitto che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio nell'esercizio di attività pubbliche, viene sempre esternata una finalità pubblica che serve per mascherare il vero fine.
Da ciò deriva che, allorché accanto all'esternazione del fine pubblico si affianca anche uno scopo privato, occorre accertare quale sia stata la finalità prevalente ed essenziale che ha mosso l'agente ed in quale misura un fine abbia avuto la prevalenza sull'altro, sì da escludere il reato allorché il fine pubblico ha avuto la prevalenza sull'altro, ravvisandolo invece qualora resti accertato che la finalità pubblica rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita.
La finalità pubblica, inoltre, non può essere esclusa per la semplice violazione di una norma posta a presidio di un interesse pubblico, giacché questo può realizzarsi anche mediante una violazione di legge o di regolamento specialmente quando si tratta di violazioni formali (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.03.2013 n. 13735).

APPALTI: Il contratto di avvalimento deve rispettare la disciplina civilistica in tema di contenuto contrattuale, con particolare riferimento all’esistenza ed alla determinatezza dell’oggetto: esso deve identificare in modo chiaro ed esauriente la volontà del soggetto ausiliario di impegnarsi, la natura dell’impegno assunto e la concreta portata delle risorse messe a disposizione per effetto dell’avvalimento.
Il contratto di avvalimento prodotto dall’aggiudicataria da un lato prevede l’impegno dell’impresa ausiliaria di mettere a disposizione i requisiti riguardanti il fatturato e l’esperienza in servizi analoghi, dall’altro lato prevede la messa a disposizione del know how aziendale e delle competenze di tipo gestionale e professionale.
Trattasi di dizioni generiche che non lasciano evincere quali siano in concreto le risorse ed i mezzi prestati dall’impresa ausiliaria ai fini dell’esecuzione del servizio de quo.
In tal modo l’oggetto del contratto di avvalimento si palesa indeterminato, in contrasto con l’art. 88, comma 1, lett. a, del d.p.r. n. 207/2010.
Invero, il suddetto negozio giuridico deve rispettare la disciplina civilistica in tema di contenuto contrattuale, con particolare riferimento all’esistenza ed alla determinatezza dell’oggetto: esso deve identificare in modo chiaro ed esauriente la volontà del soggetto ausiliario di impegnarsi, la natura dell’impegno assunto e la concreta portata delle risorse messe a disposizione per effetto dell’avvalimento (ex multis: Cons. Stato, V, 05.12.2012, n. 6233; TAR Lombardia, Milano, III, 29.12.2012, n. 3290; TAR Toscana, I, 21.05.2012, n. 986); nel caso di specie, al contrario, è incomprensibile quale sia la prestazione ausiliaria oggetto di avvalimento (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: L’accesso ai documenti amministrativi si configura come un diritto soggettivo perfetto, che può essere esercitato indipendentemente dal giudizio sull’ammissibilità o sulla fondatezza della domanda giudiziale eventualmente proponibile sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, con la conseguenza che la circostanza che gli atti oggetto dell’istanza di ostensione siano divenuti inoppugnabili non preclude l’esercizio del suddetto diritto, in quanto l’interesse presupposto dall’art. 22 della legge n. 241/1990 è nozione diversa e più ampia dell’interesse all’impugnazione.
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Chi ha partecipato ad una procedura concorsuale è portatore di un interesse differenziato da quello della generalità dei consociati ed è quindi legittimato a chiedere copia degli atti prodotti dagli altri concorrenti.

L’accesso ai documenti amministrativi si configura come un diritto soggettivo perfetto, che può essere esercitato indipendentemente dal giudizio sull’ammissibilità o sulla fondatezza della domanda giudiziale eventualmente proponibile sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, con la conseguenza che la circostanza che gli atti oggetto dell’istanza di ostensione siano divenuti inoppugnabili non preclude l’esercizio del suddetto diritto, in quanto l’interesse presupposto dall’art. 22 della legge n. 241/1990 è nozione diversa e più ampia dell’interesse all’impugnazione (Cons. Stato, VI, 24.11.2000, n. 6246).
Orbene, poiché il rilascio della documentazione in argomento è stato chiesto dalla ricorrente in dichiarata qualità di soggetto partecipante alla gara (documento n. 9 depositato in giudizio), il Collegio ritiene che non possa disconoscersi in capo alla stessa la titolarità del diritto di accesso, essendo pacifico che chi ha partecipato ad una procedura concorsuale è portatore di un interesse differenziato da quello della generalità dei consociati ed è quindi legittimato a chiedere copia degli atti prodotti dagli altri concorrenti (TAR Sicilia, Palermo, II, 11.02.2002, n. 430) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I profili dedotti in giudizio non dimostrano che l’offerta della seconda classificata sia nel suo insieme inattendibile, ma riguardano singole voci, la cui inattendibilità è stata peraltro argomentata in modo generico.
Al contrario, l’offerta deve essere considerata, ai fini della valutazione della sua congruità, nel suo insieme, in quanto l’eventuale sottostima di un singolo elemento potrebbe trovare compensazione nella sovrastima di altre voci economiche.
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Per potersi ravvisare l’interesse al ricorso occorre che l’utilità che la parte ricorrente vuole conseguire derivi in via immediata e secondo criteri di regolarità dall’accoglimento dell’impugnativa, e non in via mediata da eventi incerti o potenziali, cosicché è irrilevante che l’offerta della nuova e potenziale aggiudicataria sia o meno anomala, in quanto l’esito negativo del sub procedimento di verifica rappresenta una mera eventualità.

L’eccezione è fondata, nei sensi appresso indicati.
L’esponente, con la quarta censura, nel contestare l’offerta della seconda classificata, ha evidenziato alcuni elementi di incongruità della stessa, soffermandosi sulla proposta ivi contenuta di interventi strutturali costosi e sull’omessa considerazione dell’incremento fisiologico dei costi di utenze e personale.
I profili dedotti, tuttavia, non dimostrano che l’offerta della seconda classificata sia nel suo insieme inattendibile, ma riguardano singole voci, la cui inattendibilità è stata peraltro argomentata in modo generico; al contrario, l’offerta deve essere considerata, ai fini della valutazione della sua congruità, nel suo insieme, in quanto l’eventuale sottostima di un singolo elemento potrebbe trovare compensazione nella sovrastima di altre voci economiche (Cons. Stato, III, 08.12.2012, n. 5238; TAR Basilicata, I, 05.03.2010, n. 104).
Inoltre la seconda classificata, non essendo stata interessata da procedimento di verifica di anomalia, non ha avuto modo di produrre documenti giustificativi dell’offerta.
Né, comunque, l’esponente potrebbe far leva sulla circostanza che, una volta attivato il procedimento di verifica dell’anomalia della proposta della seconda graduata, sarebbe ipotizzabile l’esclusione di questa: in proposito, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che per potersi ravvisare l’interesse al ricorso occorre che l’utilità che la parte ricorrente vuole conseguire derivi in via immediata e secondo criteri di regolarità dall’accoglimento dell’impugnativa, e non in via mediata da eventi incerti o potenziali, cosicché è irrilevante che l’offerta della nuova e potenziale aggiudicataria sia o meno anomala, in quanto l’esito negativo del sub procedimento di verifica rappresenta una mera eventualità (Cons. Stato, VI, 02.04.2012, n. 1941; idem, IV, n. 587/2007; TAR Campania, Salerno, I, n. 2476/2007) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sui presupposti per l’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo.
L’annullamento d’ufficio è il risultato di un’attività discrezionale dell’Amministrazione e non deriva in via automatica dall’accertata originaria illegittimità dell’atto essendo altresì necessaria una congrua motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla reintegrazione del preesistente stato di legalità.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa è assolutamente granitica nel precisare che l’interesse alla reintegrazione dell’ordine pubblico deve essere specificato e dimensionato in relazione alle esigenze concrete ed attuali, avuto riguardo anche gli interessi privati che militano in senso opposto , senza peraltro ricorrere in sede di motivazione a clausole di stile.
Fondato, invece si appalesa il secondo mezzo di gravame con cui riprendendo il motivo già dedotto in primo grado e qui riprodotto, parte appellante deduce la sussistenza a carico dell’atto impugnato del vizio di violazione dei principi che regolano l’esercizio del potere di autotutela con riferimento alla insufficiente motivazione resa in ordine alla sussistenza dell’ interesse pubblico all’annullamento
Per costante orientamento giurisprudenziale, l’annullamento d’ufficio è il risultato di un’attività discrezionale dell’Amministrazione e non deriva in via automatica dall’accertata originaria illegittimità dell’atto essendo altresì necessaria una congrua motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla reintegrazione del preesistente stato di legalità.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa è assolutamente granitica nel precisare che l’interesse alla reintegrazione dell’ordine pubblico deve essere specificato e dimensionato in relazione alle esigenze concrete ed attuali, avuto riguardo anche gli interessi privati che militano in senso opposto , senza peraltro ricorrere in sede di motivazione a clausole di stile (ex multis, Cons. Stato VI 17.02.2006 n. 671 ).
Ebbene, non pare che il provvedimento di autotutela qui in discussione sia rispettoso dei parametri giurisprudenziali sopra ricordati, se è vero che nella parte narrativa dell’atto si fa lapidariamente accenno alla necessaria prevalenza, nella valutazione comparativa, dell’interesse pubblico alla conservazione dello stato dei luoghi, nel che è ravvisabile una semplicistica formula stereotipa.
Ora che nella specie a carico dell’amministrazione vi fosse un ben più pregnante onere di motivazione, non adeguatamente assolto dall’utilizzo di una clausola di stile apposta a sostegno della determinazione assunta, è un dato agevolmente rilevabile dalla circostanza per cui l’annullamento viene adottato a distanza di oltre otto anni dal rilascio dell’autorizzazione al restauro rilasciata in favore del sig. Viola senza che sia stata presa in considerazione la posizione del beneficiario del titolo ad aedificandum in questione.
L’assenza di una idonea motivazione conforme ai principi ripetutamente sanciti dalla giurisprudenza rende invalido l’atto di annullamento d’ufficio qui in contestazione fatta salva, s’intende, l’adozione da parte dell’intimato Comune di ogni ulteriore provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2013 n. 1605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATABeni Ambientali. Tolleranza misure progettuali e reato paesaggistico.
Ai sensi dell'art. 22, comma 6, del DPR n. 380/2001 qualsiasi tipo di intervento edilizio previsto dai commi 1, 2 e 3 dell'articolo, e quindi anche quelli di minore impatti, che riguardi immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientaie, è subordinato ai preventivo rilascio dei parere o della autorizzazione richiesti dalle corrispondenti previsioni normative.
Pertanto, il limite di tolleranza del 2% rispetto alle misure progettuali previsto dall'art. 34, comma 2-ter, del DPR n. 380/2001 è destinato ad operare solo con riferimento alla normativa edilizia, ma non esime l’interessato dall'obbligo di munirsi del prescritto nulla osta dell'autorità competente per la tutela dei vincolo con riferimento alle difformità che intende realizzare, configurandosi in mancanza il reato di cui all'art. 181 del D.Lgs n. 42/2004 (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2013 n. 11850).

EDILIZIA PRIVATAResponsabilità comproprietario per opere su area in comunione.
Il comproprietario ha il potere di porre il veto all'esecuzione di opere non assentite sull'area in comunione e se questi è il coniuge del comproprietario committente dell'opera non può non tenersi conto della stretta comunanza di interessi, che rendono il coniuge, di norma, naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare, a meno che l'interessato non provi, al contrario, che tali presupposti non ricorrano nel caso concreto, per una qualsiasi ragione (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2013 n. 11820).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Nozione di bosco e compatibilità paesistica.
La nozione di bosco deve essere riferita non soltanto ai terreni completamente coperti da boschi o foreste di alto fusto, ma anche (per identità di ratio) a tutte le aree parzialmente boscate, a condizione che siano concretamente inserite in un contesto con la preponderanza di vegetazione, anche di tipo arbustivo.
Pertanto, a prescindere dalla presenza o meno di alberi di alto fusto, non vi sono dubbi sulla sussistenza di un vincolo boschivo anche qualora l'area fosse coperta solo da vegetazione qualificabile come macchia.
E’ legittimo il provvedimento con il quale, a fronte dell'esistenza di un vincolo paesaggistico, l'Amministrazione, valutando la compatibilità dell'altezza degli edifici come da progetto con le esigenze di tutela del paesaggio, respinga, con adeguata ed esaustiva motivazione, i progetti attinenti le costruzioni private che, pur rientrando formalmente nei limiti previsti dal piano regolatore relativo alla zona interessata (e quindi astrattamente legittimi) risultino di notevole incidenza visiva quanto ad impatto paesistico.
Va anzitutto sgombrato il campo dalla doglianza contenuta alle pagg. 10-13 del ricorso in appello:la circostanza che gli atti sottesi ai gravati provvedimenti di diniego fossero carenti di una documentazione fotografica relativa al contesto boschivo in cui sorge l’immobile, e la doviziosa rassegna giurisprudenziale riportata nell’appello con riferimento al concetto di “bosco”, sono del tutto inconducenti: ciò in quanto, a tutto concedere, essi avrebbero potuto spiegare pratico rilievo in favore di parte appellante laddove fosse stato contestato che l’immobile sorgesse effettivamente in un bosco.
Ma neppure l’appellante si spinge ad una simile affermazione, di guisa che non è dato comprendere il motivo per cui dovesse essere specificata e documentata la “tipologia” di bosco, tanto più che la legge non distingue, in punto di sussistenza del vincolo, le caratteristiche “di pregio” che l’area boschiva dovrebbe possedere.
Ad abundantiam si rileva, comunque, che la censura appare anche infondata alla stregua della condivisibile giurisprudenza secondo la quale “la nozione di "bosco" deve essere riferita non soltanto ai terreni completamente coperti da boschi o foreste di alto fusto, ma anche (per identità di ratio) a tutte le aree parzialmente boscate, a condizione che siano concretamente inserite in un contesto con la preponderanza di vegetazione, anche di tipo arbustivo. Pertanto, a prescindere dalla presenza o meno di alberi di alto fusto, non vi sono dubbi sulla sussistenza di un vincolo boschivo anche qualora l'area fosse coperta solo da vegetazione qualificabile come macchia” (TAR Lombardia Milano Sez. IV, 11.07.2012, n. 1941) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2013 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADal combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma 1, della l. 28/02/1985 n. 47 si evince che, in caso di istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio-assenso per decorso del termine di 24 mesi dall'emissione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità.
Si è detto peraltro, ancora di recente, che “il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, di cui all'art. 32 l. n. 47 del 1985, è pregiudiziale ad ogni altra valutazione e, se sfavorevole, rende impossibile la sanatoria dell'opera. Conseguentemente, nel caso in cui l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben possibile che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al citato art. 32”.
Tale principio appare sovrapponibile a quello espresso dalla giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui “a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (conv., con mod. in l. 24.11.2003 n. 326) all'art. 32, comma 1, della l. 28.02.1985 n. 47, non opera più, anche per le istanze di sanatoria già presentate, la procedura del silenzio-assenso per gli interventi di ampliamento eseguiti su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico.
In ordine alla problematica relativa alla epoca di apposizione del vincolo, dopo qualche incertezza la giurisprudenza si è ormai stabilmente orientata verso l’affermazione della rilevanza di quest’ultimo, purché sussistente al momento della richiesta di sanatoria (o addirittura, seppur successivo a quest’ultima al momento dello scrutinio sulla domanda medesima), a nulla rilevando che esso non preesistesse al momento della esecuzione dell’intervento abusivo.
Si è quindi condivisibilmente affermato, che “ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria” e si è soprattutto, puntualizzato, che ”è irrilevante che il vincolo paesaggistico sia sopravvenuto rispetto alla commissione dell'abuso e alla data di presentazione della domanda di condono, perché secondo il consolidato orientamento della giustizia amministrativa sono rilevanti i vincoli paesaggistici sopravvenuti ed esistenti al momento dell'adozione del provvedimento sulla domanda di condono edilizio” ma anche “l'art. 32 l. n. 47 del 1985, laddove impone una congrua valutazione da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in merito alla compatibilità del mantenimento dell'"opus" con le ragioni poste a fondamento del regime vincolistico, si applica anche in caso di vincolo sopravvenuto rispetto all'esecuzione ma vigente al momento della domanda“.
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Si deve ritenere che ai fini della sanatoria edilizia, l'intervento abusivo debba essere sottoposto al parere preventivo dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo anche qualora le opere oggetto della domanda siano state realizzate prima dell'entrata in vigore della L. n. 431/1985, di estensione del vincolo ambientale; e ciò in quanto in sede di rilascio di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi della L. n. 47/1985, si deve tener conto del vincolo esistente al momento in cui viene esaminata la domanda di condono, a prescindere dall'epoca di introduzione del vincolo stesso, e quindi, dalla sua vigenza al momento della commissione dell'abuso.

Rammenta in proposito il Collegio che costituisce costante approdo della giurisprudenza amministrativa quello per cui dal combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma 1, della l. 28/02/1985 n. 47 si evince che, in caso di istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio-assenso per decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emissione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità.
Si è detto peraltro, ancora di recente, che “il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, di cui all'art. 32 l. n. 47 del 1985, è pregiudiziale ad ogni altra valutazione e, se sfavorevole, rende impossibile la sanatoria dell'opera. Conseguentemente, nel caso in cui l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben possibile che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al citato art. 32” (Consiglio Stato, sez. VI, 24.02.2011, n. 1156).
Tale principio appare sovrapponibile a quello espresso dalla giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui “a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (conv., con mod. in l. 24.11.2003 n. 326) all'art. 32, comma 1, della l. 28.02.1985 n. 47, non opera più, anche per le istanze di sanatoria già presentate, la procedura del silenzio-assenso per gli interventi di ampliamento eseguiti su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico. (In motivazione la Corte ha precisato che il rilascio della sanatoria è subordinato al parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo da rilasciarsi nel termine di 180 gg. dall'istanza conseguendo, in caso di inerzia, l'impugnabilità del silenzio-rifiuto)” (Cassazione penale, sez. III, 16.03.2010, n. 14312).
In ordine alla problematica relativa alla epoca di apposizione del vincolo, dopo qualche incertezza la giurisprudenza si è ormai stabilmente orientata verso l’affermazione della rilevanza di quest’ultimo, purché sussistente al momento della richiesta di sanatoria (o addirittura, seppur successivo a quest’ultima al momento dello scrutinio sulla domanda medesima), a nulla rilevando che esso non preesistesse al momento della esecuzione dell’intervento abusivo.
Si è quindi condivisibilmente affermato, che “ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria” (Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 2024) e si è soprattutto, puntualizzato, che ”è irrilevante che il vincolo paesaggistico sia sopravvenuto rispetto alla commissione dell'abuso e alla data di presentazione della domanda di condono, perché secondo il consolidato orientamento della giustizia amministrativa sono rilevanti i vincoli paesaggistici sopravvenuti ed esistenti al momento dell'adozione del provvedimento sulla domanda di condono edilizio -nel caso di specie, il provvedimento di condono non aveva valutato adeguatamente la compatibilità paesaggistica dell'opera e pertanto risultava affetto dal vizio del difetto di motivazione, rilevato dalla Soprintendenza-” (Consiglio Stato , sez. VI, 23.02.2011, n. 1127, ma anche “l'art. 32 l. n. 47 del 1985, laddove impone una congrua valutazione da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in merito alla compatibilità del mantenimento dell'"opus" con le ragioni poste a fondamento del regime vincolistico, si applica anche in caso di vincolo sopravvenuto rispetto all'esecuzione ma vigente al momento della domanda“ (Consiglio Stato, sez. VI, 22.01.2001, n. 181).
Posto che la domanda di sanatoria venne avanzata in data 11.01.1995, e che a detta data il vincolo insistente nell’area era certamente sussistente, armonicamente con i superiori insegnamenti prima elencati ne deve conseguire che tutte le censure (primo motivo di appello) volte ad ipotizzare che le opere realizzate non dovevano essere soggette al rilascio di autorizzazione paesaggistica devono essere respinte (“si deve ritenere che ai fini della sanatoria edilizia, l'intervento abusivo debba essere sottoposto al parere preventivo dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo anche qualora le opere oggetto della domanda siano state realizzate prima dell'entrata in vigore della L. n. 431/1985, di estensione del vincolo ambientale; e ciò in quanto in sede di rilascio di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi della L. n. 47/1985, si deve tener conto del vincolo esistente al momento in cui viene esaminata la domanda di condono, a prescindere dall'epoca di introduzione del vincolo stesso, e quindi, dalla sua vigenza al momento della commissione dell'abuso” (Cons. Stato Sez. VI, 15.06.2009, n. 3806)) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2013 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorimesse e parcheggi realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza.
La realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art. 9, 1° comma, della L. n. 122/1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei contributi concessori.
Per la esatta interpretazione della “ratio” della L. n. 122/1989, il riferimento ivi contenuto al “piano terreno” dei fabbricati erigendi si spiega agevolmente con la circostanza che neppure in detta ipotesi, come anche nel caso di parcheggio completamente interrato, vi è alcun aumento di volumetria.
Contrariamente a quanto sostenutosi nell’appello, infatti, il Collegio rammenta che per condivisibile quanto pacifica giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato “la realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art. 9, 1° comma, della L. n. 122/1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di campagna. Qualora invece non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei contributi concessori.” (Cons. Stato Sez. IV, 13.07.2011, n. 4234).
Tale approdo –dal quale non si ravvisano motivi per discostarsi- è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di merito (tra le tante TAR Umbria Perugia Sez. I, 14-06-2006, n. 316 TAR Piemonte, 27.11.2002, n. 1982) ed è appena il caso di precisare che non si pone -come inesattamente segnalato dall’appellante- alcuna problematica di interpretazione “restrittiva” della norma.
Semmai, l’approdo cui è giunta l’evoluzione giurisprudenziale si segnala per l’aderenza rispetto al testo di legge, e per la esatta interpretazione della “ratio” di quest’ultima, in quanto il riferimento ivi contenuto al “piano terreno” dei fabbricati erigendi si spiega agevolmente con la circostanza che neppure in detta ipotesi (come anche nel caso di parcheggio completamente interrato) vi è alcun aumento di volumetria
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2013 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione di un manufatto abusivo, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario.
Ciò in quanto trattasi di attività che comporta un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.

Eguale sorte merita l’ultima doglianza, attingente l’ordine di demolizione, del quale si assume la illegittimità per non essere stato preceduto dall’espletamento degli incombenti ex art. 7 della legge n. 241/1990.
La tesi dell’appellante collide con i più recenti approdi di avveduta giurisprudenza amministrativa secondo cui “l'ingiunzione di demolizione di un manufatto abusivo, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario” (ex multis, si veda TAR Sardegna Cagliari Sez. II, 11.07.2012, n. 694, TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 04.07.2012, n. 691).
Ciò in quanto -è stato condivisibilmente rimarcato dalla giurisprudenza- trattasi di attività che comporta un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario (TAR Campania, Napoli, sez. III, 06.12.2011, n. 5668; TAR Lazio, Roma, sez. I, 07.10.2011, n. 7815; TAR Campania, Napoli, sez. II, 03.10.2011, n. 4608; TAR Campania Salerno, sez. II, 27.06.2011, n. 1179; TAR Liguria, sez. I, 22.01.2011, n. 150; TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.11.2010, n. 2660; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23762) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2013 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Copertura in PVC intervento di nuova costruzione.
La copertura in PVC di aree destinate alla somministrazione può essere qualificata come intervento di nuova costruzione quando, sebbene stagionale, sia diretta a soddisfare esigenze non meramente temporanee come ad esempio quelle di somministrazione di cibo e bevande.
Ex art. 3, lett. e.5, TU edilizia sono stati qualificati gli interventi di nuova costruzione tra cui i “manufatti leggeri”.
Peraltro, la copertura in PVC di aree destinate alla somministrazione può essere qualificata come intervento di nuova costruzione quando, sebbene stagionale, sia diretta a soddisfare esigenze non meramente temporanee come ad esempio quelle di somministrazione di cibo e bevande (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 11.03.2013 n. 2518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Come noto, per consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 11.03.2013 n. 2518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti. Abbandono di rifiuti e non necessità di incidenza della condotta sull'integrità dell'ambiente.
Come emerge dal tenore letterale dell'art. 256, comma 2, d.lgs. 152/2006, per la configurabilità del reato di abbandono di rifiuti da parte dei titolari di imprese e responsabili di enti non è necessaria alcuna incidenza della condotta sulla integrità dell'ambiente, in quanto la condotta viene sanzionata perché posta in essere in violazione del divieto di cui all'art. 192, commi 1 e 2, d.lgs. 152/2006.
Detta disposizione prevede, infatti, un generale divieto di abbandono di rifiuti che può concretarsi attraverso l’abbandono sul suolo e nel suolo, il deposito incontrollato sul suolo e nel suolo e, come nel caso in esame, nell’immissione di rifiuti, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.2013 n. 10927).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Il concetto di acque reflue urbane comprende le acque reflue domestiche e le acque reflue industriali.
L’inderogabilità dei limiti della tabella 1 e della tabella 3 dell’All. 5, parte terza al D.Lgs. 152/2006 fanno riferimento alla tipologia delle acque in ingresso e non alla tipologia dell’impianto, risultando perciò a tal fine indifferente la natura biologica o meno del depuratore.
L’art. 74 del d.lvo n. 152/2006 distingue le acque reflue domestiche, provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche, le acque reflue industriali, scaricate da impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni, ed include nel concetto di acque reflue urbane il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali, ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, provenienti da agglomerato.

Va infatti condivisa la difesa della Provincia ove ribadisce l’inderogabilità dei limiti tabellari sopra indicati prescritti dalla normativa in materia fanno riferimento alla tipologia delle acque in ingresso e non alla tipologia dell’impianto, risultando perciò a tal fine indifferente la natura biologica o meno del depuratore.
L’art. 74 del d.lvo n. 152/2006 distingue le acque reflue domestiche, provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche, le acque reflue industriali, scaricate da impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni, ed include nel concetto di acque reflue urbane il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali, ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, provenienti da agglomerato.
Pertanto, secondo la Provincia, siccome nell’agglomerato di riferimento sono presenti insediamenti in cui si svolgono le attività commerciali e produttive sopraindicate (e quindi di negozi, ipermercati, lavanderie, autolavaggi) risulta incontestabile che nel depuratore in contestazione entrino anche acque reflue industriali secondo la nozione soprariportata.
Da ciò ne deriva che, siccome gli scarichi urbani immessi nel depuratore presentano natura mista, in quanto in essi confluiscono non soltanto i reflui domestici, ma anche quelli meteorici di dilavamento, e quelli derivanti da attività industriali, il gestore dell’impianto è soggetto all’obbligo del rispetto dei parametri di cui alla tab. 3.
Pertanto la Provincia afferma di aver legittimamente prescritto il rispetto dei limiti della tabella 1 e della tabella 3 dell’All. 5, parte terza al D.Lgs. 152/2006 in quanto è lo stesso legislatore ad aver previsto nel caso di reflui urbani – che per loro stessa natura possono contenere anche reflui industriali, essendo misti – l’assoggettamento al rispetto della tab. 3 nel caso in cui vi siano scarichi di acque reflue industriali; in cui evidenziandosi la ratio della disposizione, che è quella di evitare che vengano immessi nei corpi idrici superficiali reflui non adeguatamente trattati e dunque potenzialmente pericolosi per la salubrità dell’ambiente; pertanto, quando vi sia la presenza all’interno dei reflui urbani di acque reflue industriali, devono essere rispettati i più stringenti parametri di sicurezza previsti dalla tab. 3.
La ricostruzione della normativa in materia e della ratio operata dalla Provincia merita condivisione. L’obbligatorietà del rispetto di tali valori limite è espressamente sancita dall’art. 101 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, che nello stabilire i criteri generali della disciplina degli scarichi, dispone che “Tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono comunque rispettare i valori limite previsti nell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto”.
Detto allegato, recante i limiti di emissione degli scarichi idrici in corpi d'acqua superficiali, premesso che “gli scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane devono conformarsi, secondo le cadenze temporali indicate, ai valori limiti definiti dalle Regioni in funzione degli obiettivi di qualità e, nelle more della suddetta disciplina, alle leggi regionali vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto” e che “gli scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane devono essere conformi alle norme di emissione riportate nelle tabelle 1”, nonché tabella 2 in aree sensibili, dispone che “devono inoltre essere rispettati nel caso di fognature che convogliano anche scarichi di acque reflue industriali i valori limite di tabella 3” ovvero quelli stabiliti dalle Regioni” precisando, con riferimento a questi ultimi che: “L'autorità competente per il controllo deve altresì verificare, con la frequenza minima di seguito indicata, il rispetto dei limiti indicati nella tabella 3. I parametri di tabella 3 che devono essere controllati sono solo quelli che le attività presenti sul territorio possono scaricare in fognatura”.
Il successivo art. 105, nel disciplinare gli scarichi in acque superficiali, ribadisce che gli scarichi di acque reflue industriali in acque superficiali devono rispettare i valori-limite di emissione indicati nella tabella 3, e dispone che le acque reflue urbane devono essere sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente in conformità con le indicazioni dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, prescrivendo, anche per queste, il rispetto dei predetti valori-limite di emissione fissati in detta tabella.
Per quanto riguarda i primi, l’art. 107 stabilisce che “Ferma restando l'inderogabilità dei valori-limite di emissione di cui alla tabella 3/A dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto e, limitatamente ai parametri di cui alla nota 2 della Tabella 5 del medesimo Allegato 5, alla Tabella 3, gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano in reti fognarie sono sottoposti alle norme tecniche, alle prescrizioni regolamentari e ai valori-limite adottati dall'Autorità d'ambito competente in base alle caratteristiche dell'impianto, e in modo che sia assicurata la tutela del corpo idrico ricettore nonché il rispetto della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane definita ai sensi dell'articolo 101, commi 1 e 2”. Spetta pertanto all'Autorità d'ambito individuare norme tecniche, prescrizioni regolamentari e valori-limite in base alle caratteristiche dell'impianto volte ad assicurare la tutela del corpo idrico ricettore ed il rispetto della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane sopra ricordata.
L’allegato V del d.lgs. 152/2006 infatti prevede che gli scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane devono essere conformi alle norme di emissione riportate nelle tabelle 1 e 2 però al punto 1.1. dell’All. 5 al D.Lgs. 152/1999 stabilisce che devono essere rispettati i valori limite di tab. 3 nel caso di fognature che raccolgono anche scarichi di acque reflue industriali (“Devono inoltre essere rispettati nel caso di fognature che convogliano anche scarichi di acque reflue industriali i valori limite di tabella 3 ovvero quelli stabiliti dalle Regioni”.
Le finalità sopra rappresentate sono infatti tenute presenti già in sede di approvazione dei progetti degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane verificando che le modalità della gestione assicuri il rispetto dei valori limite degli scarichi. Non si tratta, peraltro, di un’irrazionale imposizione d’un onere impossibile, in quanto, come evidenziato dalla Provincia l’ente gestore del depuratore è coinvolto nel processo di regolazione e controllo dell’immissione dei reflui industriali, secondo le modalità indicate nel contratto di servizio con cui, ai sensi dell’art. 203, sono regolati i rapporti tra le Autorità d'ambito e i soggetti affidatari del servizio integrato.
Ed il risultato in termini di perseguimento del rispetto di tali valori viene raggiunto mediante l’attività sinergica dei vari enti pubblici interessati, nell’ambito delle specifiche competenze, sul controllo delle immissioni, come richiamato dalla ricorrente, e quindi anche mediante la partecipazione del gestore
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.03.2013 n. 2374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità ordinanza sindacale per limitare emissioni acustiche causate dall’attività di supermercato.
E’ legittima l’ordinanza sindacale con la quale era stato intimato alla società di provvedere entro 30 giorni, a far realizzare adeguate opere nel locale al fine di garantire che le emissioni acustiche causate dall’attività del supermercato fossero conformi ai valori limite previsti dal d.P.C.M. 14.11.1997.
Il potere di cui al richiamato art. 9 della l. n. 4471995 non va riduttivamente ricondotto al generale potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di una accertata situazione di inquinamento acustico rappresenta di per sé una minaccia per la salute pubblica, anche se in concreto è offeso un solo soggetto.
Mentre quella riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n. 447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi consentiti.
Osserva la Sezione che il TAR, richiamati al riguardo l’art. 15, comma 1, della l.r. n. 13/2001 e l'art. 9, comma 1, della L. n. 447/1995, ha ritenuto che questa norma non può essere riduttivamente intesa come una mera riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, che è stato ritenuto sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto (soltanto) dall'art. 9, comma 1, della citata l. n. 447/1995.
Ha quindi affermato che la tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività, ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola famiglia (o anche di una sola persona) e che non può essere certamente reputato ordinario strumento di intervento (sul piano amministrativo) la facoltà riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.
La Sezione condivide la tesi fatta propria dal primo Giudice, che il potere di cui al richiamato art. 9 della l. n. 4471995 non va riduttivamente ricondotto al generale potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di una accertata situazione di inquinamento acustico rappresenta di per sé una minaccia per la salute pubblica, anche se in concreto è offeso un solo soggetto..
Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n. 447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi consentiti.
Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla normativa in materia di attività produttive, laddove fissa le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico, dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A..
Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni dannose in questione
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.03.2013 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISe è vero che l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, con la quale è consentito fronteggiare le situazioni di emergenza anche al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente tutelate, non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti, questo non significa che i provvedimenti contingibili debbano considerarsi automaticamente illegittimi solo perché sprovvisti di un termine finale di durata o di efficacia.
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale possono essere reputate legittime, quando siano razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo accertata rapportata alla situazione di fatto.

Aggiungasi che se è vero che l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, con la quale è consentito fronteggiare le situazioni di emergenza anche al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente tutelate, non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti, questo non significa che i provvedimenti contingibili debbano considerarsi automaticamente illegittimi solo perché sprovvisti di un termine finale di durata o di efficacia (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3922 e 13.08.2007, n. 4448).
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale possono essere reputate legittime, quando, come nel caso che occupa, siano razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo accertata rapportata alla situazione di fatto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.03.2013 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego del Comune per autorizzazione all’installazione, nella sede di produzione, di un impianto di verniciatura a polveri.
E’ legittimo il diniego di autorizzazione all’esercizio di un’attività industriale, ritenuta insalubre ex art. 216 del T.U. n. 1265/1934. Infatti, l’art. 216 del T.U stabilisce due classi di attività industriali insalubri, l’inserimento nella prima, comporta l’obbligo di isolamento nella campagne l’insediamento lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di prescrivere le eventuali cautele.
Ciò premesso, la mera iscrizione nella prima classe, in quanto derivante da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità dell’amministrazione sul punto, comporta il dovere della stessa di rifiutare le autorizzazioni, consentendo inoltre al Comune di varare, con riferimento a determinati ambiti territoriali, norme di regolamentazione urbanistica in senso preclusivo di dette attività.

Nel merito l’appello, sostenuto dalle successive doglianze, è meritevole di accoglimento.
Nell’accogliere il ricorso, in particolare, il giudice di prime cure ha ritenuto che il divieto di attività rientranti nell’elenco di prima categoria di rischio di cui all’art. 216 del T.U. n. 1265/1934, nella zona “de qua” –, introdotto dalle fonti regolamentari applicate (art. 2/bis del Regolamento per l’assegnazione delle aree P.I.P. e nell’art. unico del Regolamento edilizio) per le industrie insalubri di prima classe non integra ex se una pericolosità sufficiente per bandirle in assoluto dal territorio. Ha aggiunto il primo giudice che:
- “detta pericolosità infatti deve essere valutata non già in astratto, bensì in concreto, avendo riguardo alle misure ed alle cautele suggerite dal progresso tecnico che possono essere tali da rendere innocua, grazie ad opportuni accorgimenti, una attività potenzialmente nociva”;
- “la normativa comunale può anche essere molto più rigorosa rispetto a quella statale, specie quando nello specifico territorio comunale la salute pubblica ed anche l’ambiente risultino particolarmente compromessi a causa di insediamenti pericolosi e/o nocivi già esistenti”;
- “tuttavia, tale rigore normativo (in ipotesi particolarmente giustificato da esigenze locali) non può spingersi al punto da bandire in assoluto una qualsiasi “lavorazione insalubre di 1^ classe” dall’intero territorio comunale”.
In contrario rileva tuttavia il Comune appellante, ed in effetti è sfuggito al giudice di prime cure, che l’art. 216 del citato t.u. stabilisce due classi di attività industriali insalubri; l’inserimento nella prima, comporta l’obbligo di isolamento nella campagne l’insediamento lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di prescrivere le eventuali cautele, elementi cui si è richiamato il primo giudice. Ciò premesso, Collegio, all’opposto di quanto ritenuto dal TAR, deve confermare che la mera iscrizione nella prima classe, in quanto derivante da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità dell’amministrazione sul punto, comporta il dovere della stessa di rifiutare le autorizzazioni, consentendo inoltre al Comune di varare, con riferimento a determinati ambiti territoriali, norme di regolamentazione urbanistica in senso preclusivo di dette attività.
Pertanto, non essendo contestato che l’attività dell’appellata rientrasse nella prima classe, sia l’introduzione del divieto di insediamento che il diniego di autorizzazione non costituiscono un’erronea applicazione della normativa statale sopra menzionata
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.03.2013 n. 1345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: E’ consolidato in giurisprudenza il principio che riconosce la risarcibilità del danno esistenziale -inteso come nozione descrittiva di un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva non accompagnato da riflessi di ordine economico, quindi riconducibile all’ampia categoria del danno non patrimoniale– provocato dall’illegittimo demansionamento o dequalificazione, ossia dal comportamento datoriale che violi il diritto del lavoratore all’esecuzione delle prestazioni lavorative per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
La violazione di tale obbligo datoriale è fonte di responsabilità risarcitoria, anche laddove non sussista uno specifico intento di svilire o punire il dipendente, poiché integra una violazione del diritto costituzionalmente garantito al lavoro, non nella dimensione di mera fonte di reddito, ma in quella di strumento di estrinsecazione della personalità individuale attraverso l’esercizio della professionalità lavorativa.
Fermo restando che, per consentire la tutela risarcitoria, il pregiudizio subito dal lavoratore deve essere serio, comportando l’effettiva perdita delle mansioni e dei compiti più qualificanti propri della qualifica, con conseguente depauperamento del patrimonio professionale e della dignità lavorativa.
Anche nell’ambito del pubblico impiego, peraltro, esistono puntuali precedenti giurisprudenziali che affermano la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione nei casi di demansionamento provocati dall’attribuzione di mansioni inferiori non rientranti nella qualifica di appartenenza.

E’ consolidato in giurisprudenza, infatti, il principio che riconosce la risarcibilità del danno esistenziale -inteso come nozione descrittiva di un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva non accompagnato da riflessi di ordine economico, quindi riconducibile all’ampia categoria del danno non patrimoniale (Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972)– provocato dall’illegittimo demansionamento o dequalificazione, ossia dal comportamento datoriale che violi il diritto del lavoratore all’esecuzione delle prestazioni lavorative per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte (cfr., ex multis, Cass., 14.07.2006, n. 14729).
La violazione di tale obbligo datoriale è fonte di responsabilità risarcitoria, anche laddove non sussista uno specifico intento di svilire o punire il dipendente, poiché integra una violazione del diritto costituzionalmente garantito al lavoro, non nella dimensione di mera fonte di reddito, ma in quella di strumento di estrinsecazione della personalità individuale attraverso l’esercizio della professionalità lavorativa.
Fermo restando che, per consentire la tutela risarcitoria, il pregiudizio subito dal lavoratore deve essere serio, comportando l’effettiva perdita delle mansioni e dei compiti più qualificanti propri della qualifica, con conseguente depauperamento del patrimonio professionale e della dignità lavorativa (Cass., 07.12.2010, n. 24794).
Anche nell’ambito del pubblico impiego, peraltro, esistono puntuali precedenti giurisprudenziali che affermano la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione nei casi di demansionamento provocati dall’attribuzione di mansioni inferiori non rientranti nella qualifica di appartenenza (cfr., ad es., TAR Lazio, Roma, sez. I, 05.04.2012, n. 3151) (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 24.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia poiché, pur potendo avere avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente.
La realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce.
La tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.

Al riguardo si richiama quella giurisprudenza secondo cui la realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione edilizia poiché, pur potendo avere avendo carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide sull'assetto edilizio preesistente (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 16.07.2002, n. 4107; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 08.07.2002, n. 1936; TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10059; TAR Campania Napoli, sez. VI, 04.08.2008, n. 9725; TAR Lombardia Brescia, sez. I, 25.05.2010).
In tal senso peraltro vengono in rilievo specifici precedenti di questa sezione secondo cui “la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 17.02.2010, n. 968; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9605) ed ancora “la tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n. 16493) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 12.12.2012 n. 5109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità non può essere rilasciato per fabbricati abusivi e non condonati, essendo presupposto indefettibile per detto rilascio la conformità dei manufatti alle norme urbanistico edilizie vigenti; consegue che il meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato allorché manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato di agibilità, costituito dal carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata presentata l'istanza tesa ad ottenere il certificato menzionato.
Il Collegio aderisce, infatti, all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “ai sensi degli art. 24, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 35, comma 20, l. 28.02.1985 n. 47, il certificato di agibilità non può essere rilasciato per fabbricati abusivi e non condonati, essendo presupposto indefettibile per detto rilascio la conformità dei manufatti alle norme urbanistico edilizie vigenti; consegue che il meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato allorché manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato di agibilità, costituito dal carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata presentata l'istanza tesa ad ottenere il certificato menzionato” (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 09.07.2011, n. 1009, Consiglio Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2760, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 24.09.2007 n. 8271 e 28.09.2007 n. 8582) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.12.2012 n. 5073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l’emanazione della ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo la ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso –che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato– ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Osserva il Collegio che presupposto per l’emanazione della ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo la ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso –che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato– ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.12.2012 n. 5073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere, ma che, al tempo stesso, non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia assoggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere.
Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio di un'attività commerciale quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio.

Il Tribunale ha in passato osservato, in linea con il proprio costante orientamento, che “non può revocarsi in dubbio che il legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007), ma che, al tempo stesso, non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia assoggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere. Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento dell'azione amministrativa- inibire per intero l'esercizio di un'attività commerciale quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio” (TAR, Campania, Napoli, sez. III, 08.06.2010, n. 13015).
La giurisprudenza da ultimo citata è, peraltro, applicabile solo laddove sia possibile distinguere la parte abusiva da quella legittima ma non nei casi in cui i lavori abusivi abbiano interessato l’intera struttura trasformandola in modo da non potersi più riconoscere e agevolmente separare la parte originariamente autorizzata da quella oggetto di modifica.
E’ evidente, comunque, che le determinazioni assunte in ordine alla cessazione dell’attività commerciale autorizzata debbano trovare nel provvedimento un’idonea motivazione, che nella fattispecie difetta
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.12.2012 n. 5072 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A termini dell’art. 32 della Legge n. 47/1985, il rilascio della concessione in sanatoria per le opere edilizie abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo, è subordinato al previo rilascio del parere favorevole dell’amministrazione o dell’organo preposto alla tutela del vincolo, parere non solo obbligatorio ma anche vincolante per le determinazioni del Comune.
Ad esso tuttavia non può attribuirsi natura provvedimentale o di atto conclusivo del procedimento attivato con l’istanza di permesso di costruire o di sanatoria edilizia presentate all’amministrazione comunale, trattandosi di atto di natura endoprocedimentale, dotato di effetti sulla determinazione conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità adita.
Pertanto il parere, quantunque vincolante, non è immediatamente lesivo, in quanto l’atto che incide sulla sfera giuridica del richiedente è il provvedimento concessorio o negatorio della sanatoria richiesta.
Conseguentemente esso non è, in quanto tale, suscettibile di impugnazione autonoma in via giurisdizionale, ma lo è unitamente al provvedimento finale concretamente lesivo della sfera giuridica del richiedente.
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In relazione a manufatti abusivi realizzati in ambiti soggetti a tutela paesaggistica, non è il diniego di sanatoria a dover essere rigorosamente motivato, ma semmai, l'eventuale provvedimento favorevole.

In via preliminare occorre osservare che, a termini dell’art. 32 della Legge n. 47/1985, il rilascio della concessione in sanatoria per le opere edilizie abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo, è subordinato al previo rilascio del parere favorevole dell’amministrazione o dell’organo preposto alla tutela del vincolo, parere non solo obbligatorio ma anche vincolante per le determinazioni del Comune.
Ad esso tuttavia non può attribuirsi natura provvedimentale o di atto conclusivo del procedimento attivato con l’istanza di permesso di costruire o di sanatoria edilizia presentate all’amministrazione comunale, trattandosi di atto di natura endoprocedimentale, dotato di effetti sulla determinazione conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità adita.
Pertanto il parere, quantunque vincolante, non è immediatamente lesivo, in quanto l’atto che incide sulla sfera giuridica del richiedente è il provvedimento concessorio o negatorio della sanatoria richiesta (Cons. St., sez. VI, 24.09.1996, n. 1248).
Conseguentemente esso non è, in quanto tale, suscettibile di impugnazione autonoma in via giurisdizionale (come quella attivata nel presente procedimento), ma lo è unitamente al provvedimento finale concretamente lesivo della sfera giuridica del richiedente (Cons. Stato, sez. V, 16.02.2012, n. 794).
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E’ infondato il primo motivo, dal momento che il parere impugnato è stato congruamente motivato con esplicito riferimento alla relazione istruttoria del competente Settore della Regione Piemonte, ente preposto alla tutela del vincolo; il quale, nell'affermare che "le opere realizzate appaiono tali da recare pregiudizio alle caratteristiche di pregio ambientale della località”, e che “si ritiene assolutamente inaccettabile la collocazione del manufatto all’interno di un lotto in sponda del lago, dove gli spazi a verde necessitano di una attenta salvaguardia”, giustifica in modo certamente adeguato, benché succinto, le ragioni sottostanti al diniego, ragioni da individuarsi nella evidente incompatibilità del manufatto con il pregevole contesto naturalistico e paesaggistico sottoposto a specifica tutela, tenuto altresì conto che, secondo condivisibili principi giurisprudenziali, in relazione a manufatti abusivi realizzati in ambiti soggetti a tutela paesaggistica, non è il diniego di sanatoria a dover essere rigorosamente motivato, ma semmai, l'eventuale provvedimento favorevole (TAR Torino Piemonte sez. I, 15.06.2012, n. 721; TAR Toscana, sez. III, 13.05.2011, n. 843; Cons. Stato, sez. VI, 11.10.2007, n. 5330).
Ad integrare il profilo di incompatibilità ambientale, sinteticamente espresso nella relazione richiamata, concorrono la significativa estensione del fabbricato, che occupa una superficie di 48 mq circa, l’irreversibile alterazione dello spazio verde che essa produce e la sua realizzazione con materiali di bassa qualità
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 11.12.2012 n. 1326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive.
Pertanto, l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima atteso che, in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.
Ciò, d’altra parte, non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35 della l. n. 47 del 1985.
In definitiva, in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell'assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a..

Negli stessi termini si è affermato che la mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive.
Pertanto, l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima atteso che, in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.
Ciò, d’altra parte, non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35 della l. n. 47 del 1985.
In definitiva, in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell'assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a. (cfr. ex multis TAR Napoli Campania sez. VI, 02.07.2012, n. 3109; 02.05.2012 n. 2006 e 11.05.2011, n. 2626; TAR Genova Liguria sez. I, 11.07.2011, n. 1084)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 11.12.2012 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di restauro e risanamento conservativo sono caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a conservare l'organismo edilizio preesistente nel rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, senza modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in particolare, si differenziano sostanzialmente dalla "demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono, come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che, all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi, in quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una parte dei precedenti elementi.
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio.

Gli interventi di restauro e risanamento conservativo (come definiti dall'art. 31, comma 1, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457) sono caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a conservare l'organismo edilizio preesistente nel rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, senza modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in particolare, si differenziano sostanzialmente dalla "demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono, come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che, all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi, in quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una parte dei precedenti elementi (cfr. TAR Trento Trentino Alto Adige sez. I, 09.06.2011, n. 172; TAR Napoli Campania sez. VI, 10.02.2010, n. 844).
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio (TAR Torino Piemonte sez. II, 11.04.2012, n. 440; TAR Napoli Campania sez. VIII 23.02.2011, n. 1048; TAR Genova Liguria sez. I, 30.06.2009, n. 1621; nello stesso senso Cassazione penale sez. III, 06.05.2010 n. 21351)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 11.12.2012 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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