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AGGIORNAMENTO AL 30.05.2013 |
ã |
Una rondine non fa
primavera!! O sì?? |
Ci sembra
assai interessante (e più che mai condivisibile)
quanto affermato dal TAR e, tra l'altro, confermato
dal Consiglio di Stato. Anche perché, per quanto ci
consti, è l'unico pronunciamento noto e reso in
siffatta maniera.
La faccenda è questa: come deve operare correttamente
l'U.T.C. circa la verifica degli spazi a parcheggio
(minimi di legge) da reperire nell'ambito di una
nuova edificazione. Ovviamente in quei comuni
laddove la regione nulla dispone nello specifico
rimandano alla norma nazionale ovverosia all'art.
41-sexies della l. n. 1150/1942.
Lasciando a Voi il piacere di leggere nel dettaglio le
argomentazioni esposte dal TAR, quest'ultimo, in
primis, perviene ad ordinare una
verificazione tecnica onde
accertare la superficie effettivamente utilizzabile
a parcheggio e secondo i seguenti criteri:
►
detrazione degli gli spazi
di accesso e di manovra;
►
detrazione delle porzioni
non utilizzabili per forma o per ridotte dimensioni.
Ora, pare assolutamente condivisibile -senza ombra di
dubbio- il 2° criterio indicato dal TAR, mentre il
1° sarebbe anch'esso condivisibile se non esistesse
la circolare esplicativa dell’allora Ministero dei
Lavori Pubblici 28.10.1967 n. 3210 la quale all'art.
9 così recita: "9. Norme
relative all'attività costruttiva, stabilite per le
esigenze del traffico e della circolazione (articoli
18 e 19).
L'art. 18 stabilisce che ogni edificio deve essere
provvisto di spazi per il parcheggio in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni 20 metri
cubi di costruzione, mentre l'art. 19 dispone che, a
protezione delle strade al di fuori del perimetro
dei centri urbani, l'edificazione non può avvenire a
distanza inferiore a quella stabilita con decreto
del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con
quelli dei trasporti e dell'interno.
La disposizione dell'art. 18 trova immediata
applicazione e pertanto dal momento dell'entrata in
vigore della legge non possono essere rilasciate
nuove licenze edilizie per edifici sprovvisti di
spazi per parcheggio nella misura stabilita da detto
articolo.
In merito a tale disposizione sembrano necessarie le
seguenti precisazioni, anche in relazione a
specifici quesiti formulati dalle amministrazioni
comunali:
- la norma ha portata generale e si applica a tutti
gli edifici, in presenza od in assenza di qualsiasi
momento urbanistico, e perciò anche nell'ambito dei
piani di zona;
- la norma stessa non si applica, ovviamente, alle
licenze concesse prima dell'entrata in vigore della
legge 765, come pure alle volture, alle proroghe ed
alle varianti riguardanti dette licenze;
- nella dizione "nuove costruzioni" sono comprese le
ricostruzioni, ma non gli ampliamenti, le
sopraelevazioni e le modifiche: ciò in riferimento
anche alla espressione usata nel primo comma
dell'articolo 18, ai fini del rilascio della licenza
edilizia;
- "spazi
per parcheggi" debbono intendersi gli spazi
necessari tanto alla sosta quanto alla manovra ed
all'accesso dei veicoli;
- i parcheggi possono essere ricavati nella stessa
costruzione ovvero in aree esterne oppure
promiscuamente; ed anche in aree che non formino
parte del lotto, purché siano asservite all'edificio
con vincolo permanente di destinazione a parcheggio,
a mezzo di atto da trascriversi a cura del
proprietario;
- la cubatura, in rapporto alla quale va determinata
la superficie da destina re a parcheggi, è
costituita dalla sola cubatura destinata ad
abitazione, uffici o negozi, con esclusione perciò
delle altre parti dell'edificio: scantinati, servizi
e cosiddetti "volumi tecnici".
Alle disposizioni suddette (art. 18 e 19) non è
possibile, ovviamente, derogare neanche in sede di
formazione degli strumenti urbanistici, nel senso
che tali strumenti possono stabilire misure
maggiori, ma non inferiori a quelle definite con il
suddetto decreto interministeriale."
Dunque, la circolare de qua spiega la
ratio della legge n. 765/1967 che ha introdotto
nell'ordinamento l'obbligo di reperimento degli
spazi di sosta nella quantità minima di 1 mq/20 mc
(ora 1 mq/10 mc), laddove chiarisce che per
"spazi
per parcheggi" debbono intendersi gli spazi
necessari tanto alla sosta quanto alla manovra ed
all'accesso dei veicoli".
Ma è pur vero che stiamo parlando di norma di ben 46
anni fa dove, nella migliore delle ipotesi, in quei
tempi c'era una sola autovettura per famiglia mentre
oggi se ne contano mediamente 2 o 3. Quindi, il
fresco fresco ragionamento cui perviene il
Consiglio di Stato, confermando il pensiero del TAR,
non ci sembra poi tanto fuori posto, anche se -come
già detto in premessa- ci consta essere l'unico in
tal senso.
Comunque, siccome già richiesto in altri aggiornamenti
del Portale,
se
qualche nostro lettore è a conoscenza di altre
sentenze che confermino ovvero sconfessino la tesi
sostenuta dal TAR e confermata dal Consiglio di
Stato (qui si seguito riportate)
è pregato,
gentilmente, di darcene notizia inviandoci una mail
cliccando esclusivamente qui:
info.ptpl@tiscali.it ...
e lo ringraziamo già sin d'ora.
Se avremo riscontri positivi ne daremo
prontamente notizia "su questi schermi" a
vantaggio di tutti e potremo così dire, maggiormente
convinti, che
"una forse no ... ma due,
tre, quattro rondini fanno primavera!!"
30.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA:
In merito alla corretta quantificazione dei
parcheggi minimi di legge ex art. 41-sexies l.
1150/1942. Il Consiglio di Stato conferma l'operato
del TAR Umbria.
L’unico elemento di valore
normativo è quello contenuto nella legge
urbanistica, che tuttavia al citato art. 41-sexies
prevede unicamente il quantum e la finalità di tali
spazi, senza precisare il modus del calcolo delle
aree.
Si legge, infatti, nel citato articolo, come
aggiunto dall’articolo 18 della legge 06.08.1967, n.
765 e successivamente sostituito dall’articolo 2
della legge 24.03.1989, n. 122: “Nelle nuove
costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle
costruzioni stesse, debbono essere riservati
appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore
ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di
costruzione”.
Se quindi non si rinviene nell’ordinamento un
elemento cogente che possa permettere la scelta in
favore di un’interpretazione piuttosto che di
un'altra, esistono invero più decisioni di questo
Consiglio che hanno sottolineato l’esistenza di uno
stretto collegamento tra, da un lato, gli
obblighi normativi che impongono la predisposizione
di aree a servizio dei manufatti realizzati e,
dall’altro, la concreta possibilità di fruizione
di tali spazi. Si è così delineata una lettura
orientata in senso teleologico delle disposizioni di
tutela, specialmente in materia di standard
urbanistici.
È pertanto sulla scorta di questa interpretazione
della disciplina vigente che deve ritenersi fondata
la decisione del giudice di prime cure, giusta la
stretta connessione della sentenza con la ratio
della legge, ratio che risulterebbe invece violata
qualora la norma fosse intesa in senso meramente
quantitativo, come voluto dalle parti appellanti.
Infatti, qualora si potessero individuare gli
standard costruttivi in ragione del solo dato
dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in
ombra il dato funzionale, ossia la destinazione
concreta dell’area, come voluta dal legislatore.
Soddisfacendo gli standard con la messa a
disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia utilizzando “le porzioni che non sono
utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni,
ovvero perché eccedenti un posto macchina standard
ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero
infine per il difficile accesso”), la norma di
garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato
art. 41-sexsies della legge urbanistica non
contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato
mirato ad uno scopo esplicito, atteso che essa
impone dapprima la riserva di “appositi spazi per
parcheggi”, provvedendo poi a quantificarla “in
misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni
10 metri cubi di costruzione”.
L’unico
elemento di valore normativo è quindi quello
contenuto nella legge urbanistica, che tuttavia al
citato art. 41-sexies prevede unicamente il
quantum e la finalità di tali spazi, senza
precisare il modus del calcolo delle aree. Si
legge, infatti, nel citato articolo, come aggiunto
dall’articolo 18 della legge 06.08.1967, n. 765 e
successivamente sostituito dall’articolo 2 della
legge 24.03.1989, n. 122: “Nelle nuove
costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle
costruzioni stesse, debbono essere riservati
appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore
ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di
costruzione”.
Se quindi non si rinviene nell’ordinamento un
elemento cogente che possa permettere la scelta in
favore di un’interpretazione piuttosto che di
un'altra, esistono invero più decisioni di questo
Consiglio che hanno sottolineato l’esistenza di uno
stretto collegamento tra, da un lato, gli
obblighi normativi che impongono la predisposizione
di aree a servizio dei manufatti realizzati e,
dall’altro, la concreta possibilità di fruizione
di tali spazi. Si è così delineata una lettura
orientata in senso teleologico delle disposizioni di
tutela, specialmente in materia di standard
urbanistici.
In tale ratio, si collocano decisioni che
hanno negato la sufficienza di un parcheggio
collocato in area non fruibile (e dove la fruibilità
era collegata non a valutazioni normative ma
fattuali, poiché il “terreno pertinenziale
destinato a parcheggio deve ragionevolmente
intendersi come condizione necessaria per la
migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte
di tutti coloro che intendono comodamente accedervi
con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con
i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o
pesanti da collocare su tali mezzi”, Consiglio
di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure
decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati
alla smaterializzazione degli standard (evidenziando
come “la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area”, Consiglio di Stato, sez. IV,
04.02.2013 n. 644).
È pertanto sulla scorta di questa interpretazione
della disciplina vigente che deve ritenersi fondata
la decisione del giudice di prime cure, e quindi non
per un’improbabile compatibilità con la circolare
dell’allora Ministero dei Lavori Pubblici
28.10.1967, n. 3210, come evidenziato dal TAR,
quanto per la stretta connessione della sentenza con
la ratio della legge, ratio che
risulterebbe invece violata qualora la norma fosse
intesa in senso meramente quantitativo, come voluto
dalle parti appellanti.
Infatti, qualora si potessero individuare gli
standard costruttivi in ragione del solo dato
dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in
ombra il dato funzionale, ossia la destinazione
concreta dell’area, come voluta dal legislatore.
Soddisfacendo gli standard con la messa a
disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
“le porzioni che non sono utilizzabili, per forma
o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso”), la norma di garanzia verrebbe
frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies
della legge urbanistica non contempla un nudo dato
quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo
esplicito, atteso che essa impone dapprima la
riserva di “appositi spazi per parcheggi”,
provvedendo poi a quantificarla “in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri
cubi di costruzione”.
Il motivo di appello deve quindi essere respinto,
stante la correttezza dell’iter motivazionale
seguito dal giudice di prime cure (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2013 n. 2916 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego di un permesso di costruire
(per la costruzione di un fabbricato plurifamigliare)
laddove gli spazi di parcheggio -ex art.
41-sexies della l. 1150/1942- sono reperiti in
quantità inferiore al minimo di legge e, comunque,
reperiti in maniera inadeguata circa la forma e
l'effettiva usufruibilità.
E questo Tribunale conferma la bontà delle
argomentazioni svolte dal Comune a supporto
dell'impugnato diniego avendo disposto una
verificazione tecnica onde accertare la superficie
effettivamente utilizzabile a parcheggio e secondo i
seguenti criteri:
► detrazione degli gli spazi di accesso e di
manovra;
► detrazione delle porzioni non utilizzabili per
forma o per ridotte dimensioni.
Essenziale
ai fini di valutare l’”ineluttabilità” del
diniego è dunque lo scrutinio del secondo motivo,
con cui si censurano i tre motivi che sorreggono il
provvedimento impugnato.
Con riferimento al primo e più significativo motivo
di diniego, concernente l’inadeguatezza dei posti
auto progettati rispetto al carico urbanistico, a
fronte della divergenza di posizioni tra le parti
(secondo la prospettazione dei ricorrenti, lo spazio
destinato a posti auto ammonterebbe a mq. 807,00, di
cui mq. 522,00 all’interno del fabbricato, e mq.
285,00 all’esterno dello stesso, mentre, secondo la
prospettazione dell’Amministrazione resistente, lo
spazio pertinenziale a ciò effettivamente destinato
sarebbe di mq. 263,64, prendendo a parametro un
fabbisogno minimo, rispetto al complessivo sviluppo
volumetrico del fabbricato, di mq. 563,45), il
Tribunale ha disposto una verificazione tecnica onde
accertare la superficie effettivamente utilizzabile
a parcheggio.
Facendo applicazione dei criteri indicati
nell’ordinanza per determinare le dimensioni
standard di un posto-macchina, la relazione tecnica
ha concluso affermando che il totale dei posti
macchina ammonta a mq. 237,50, inferiore ai mq.
563,45 occorrenti in aderenza alla normativa di cui
all’art. 41-sexies della legge urbanistica
fondamentale, nel testo novellato dalla legge
24.03.1989, n. 122, trovando dunque conferma
l’assunto motivazionale del diniego, riposante
sull’inadeguatezza degli standard minimi di
parcheggio.
Parte ricorrente contesta l’elaborato tecnico, ed,
ancor prima, i criteri fissati nell’ordinanza del
Tribunale. Quest’ultimo, al fine di determinare la
superficie effettivamente utilizzabile a parcheggio,
ha stabilito che dovessero essere detratti gli spazi
di accesso e di manovra, nonché le porzioni non
utilizzabili per forma o per ridotte dimensioni. La
ricorrente invece assume, nella propria memoria
difensiva del 14.01.2010, che, ai fini del rilascio
del permesso di costruire, rileva unicamente la
destinazione d’uso, e non anche le modalità
d’accesso al (e dunque anche la comodità o meno del)
singolo posto auto.
Osserva, al riguardo, il Collegio come, a bene
considerare, non sia ravvisabile il dedotto
contrasto con la circolare dell’allora Ministero dei
Lavori Pubblici 28.10.1967, n. 3210 (recante “Istruzioni
per l’applicazione della legge 06.08.1967, n. 765”),
la quale, a prescindere da ogni considerazione in
ordine al suo valore normativo ed alla sua attuale
vigenza, indica, all’art. 9, che per «”spazi per
parcheggi” debbono intendersi gli spazi necessari
tanto alla sosta quanto alla manovra ed all’accesso
dei veicoli», in quanto l’ordinanza ha disposto
comunque che la verifica dei posti macchina standard
realizzabili nell’intera superficie disponibile sia
effettuata tenendo conto delle dimensioni e
dell’accessibilità.
Né si può obiettare che la relazione tecnica non
abbia valutato, in astratto, il numero dei posti
auto realizzabili sull’intera superficie
disponibile, atteso che la verificazione riguardava
lo specifico progetto presentato unitamente
all’istanza di titolo edilizio respinta, e non
poteva tradursi dunque in un differente elaborato
progettuale; ne consegue che va anche disattesa
l’istanza di rinnovazione dell’accertamento
istruttorio.
Ovviamente, non è precluso ai ricorrenti proporre un
nuovo progetto all’Amministrazione connotato da un
diverso utilizzo delle zone destinate a parcheggio,
e che soddisfi il rapporto pubblicistico di
pertinenzialità stabilito fra immobile e posti auto.
La condivisibilità dell’esaminato motivo di diniego
del permesso di costruire è sufficiente di per sé a
sorreggere il provvedimento, il quale è fondato su
di una pluralità di cause giustificatrici, ciascuna
delle quali autonoma dalle altre; e ciò esime il
Collegio dalla disamina delle ulteriori sub-censure
relative agli altri due (secondari) motivi del
provvedimento impugnato.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve
essere respinto, in quanto infondato
(TAR
Umbria,
sentenza 08.04.2010 n. 236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stante la
divergenza di posizioni in ordine ad un elemento
fattuale, quale è quello della dimensione della
effettiva superficie destinata a parcheggio (ex art.
41-sexies legge 17.08.1942, n. 1150 e s.m.i.),
occorre, ai fini del decidere, integrare
l’istruttoria, disponendo una verificazione in
contraddittorio tra le parti, al fine di accertare
quale sia la superficie effettivamente utilizzabile
come parcheggio, detratti gli spazi di accesso e
manovra e detratte le porzioni che non sono
utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni,
ovvero perché eccedenti un posto macchina standard
ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero
infine per il difficile accesso.
A tali fini si dovrà procedere nel seguente modo:
- si dovranno innanzi tutto stabilire le dimensioni
convenzionali standard di un posto-macchina;
- si dovrà quindi verificare quanti posti macchina
standard possano essere realizzati nell’intera
superficie disponibile, tenuto conto delle
dimensioni e dell’accessibilità;
- la superficie complessiva dei posti macchina
standard così individuati costituirà la superficie
destinata a parcheggio, ai fini di cui si discute.
- CONSIDERATO che oggetto del presente ricorso è il
diniego del permesso di costruire (per la
realizzazione, previa demolizione del preesistente
fabbricato, di un edificio residenziale) di cui al
provvedimento prot. n. 0028102 in data 20.10.2008
adottato dal Comune di Magione sull’istanza
presentata dai ricorrenti, in qualità di
comproprietari di un fabbricato ubicato in via del
Pozzino, e catastalmente identificato al foglio 28,
mapp. 514;
- Considerato che il primo motivo di diniego
consiste nell’affermata inadeguatezza dei «posti
auto rispetto al carico urbanistico (16
appartamenti) dell’edificio in progetto, in quanto
risultano disponibili n. 5 posti auto interni e n.
11 posti auto esterni»;
- Considerato, a questo riguardo, che, ad avviso dei
ricorrenti, è pienamente rispettata dal progetto la
prescrizione dell’art. 41-sexies della legge
urbanistica fondamentale (legge 17.08.1942, n. 1150
e s.m.i.), a mente della quale «nelle nuove
costruzioni … debbono essere riservati appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un
metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione»,
in quanto il fabbisogno di aree a standard, in
relazione al complessivo sviluppo volumetrico del
fabbricato, sarebbe pari a mq. 563,45 (mc. 5643,50
diviso 10), mentre nel caso di specie ammonta a mq.
807,00, localizzati per mq. 522,00 all’interno del
fabbricato, e per mq. 285,00 all’esterno dello
stesso;
- Considerato che, al contrario, secondo la
prospettazione dell’Amministrazione resistente, lo
spazio effettivamente destinato a posti auto sarebbe
di mq. 263,64 (5 posti auto interni ed 11 esterni),
a fronte del fabbisogno minimo di mq. 563,45,
risultato cui si perviene scomputando le porzioni di
superficie, pur nominalmente destinate a parcheggio,
non fruibili a causa delle scelte progettuali, ed,
in definitiva, a causa della struttura del
fabbricato;
- Ritenuto dunque che oggetto del contendere è la
contestazione di uno spazio auto inadeguato per mq.
299,81, rispetto alle esigenze edilizie ed
urbanistiche dell’insediamento, con conseguente
asserita non soddisfazione del rapporto
(pubblicistico) di pertinenzialità stabilito dalla
legge fra immobili e posti auto;
- Ritenuto che, stante tale divergenza di posizioni
in ordine ad un elemento fattuale, quale è quello
della dimensione della effettiva superficie
destinata a parcheggio, occorre, ai fini del
decidere, integrare l’istruttoria, disponendo una
verificazione in contraddittorio tra le parti, al
fine di accertare quale sia la superficie
effettivamente utilizzabile come parcheggio,
detratti gli spazi di accesso e manovra e detratte
le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso;
- Ritenuto che a tali fini si dovrà procedere nel
seguente modo: si dovranno innanzi tutto stabilire
le dimensioni convenzionali standard di un
posto-macchina; si dovrà quindi verificare quanti
posti macchina standard possano essere realizzati
nell’intera superficie disponibile, tenuto conto
delle dimensioni e dell’accessibilità; la superficie
complessiva dei posti macchina standard così
individuati costituirà la superficie destinata a
parcheggio, ai fini di cui si discute
(TAR Umbria,
ordinanza 20.08.2009 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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ENTI LOCALI:
On-line la piattaforma Anci per assistenza alle
gestioni associate.
Gli strumenti di supporto alle Gestioni associate sono
completati da una raccolta di FAQ e dalla possibilità di
richiedere un parere da parte dei Comuni interessati.
Per sostenere i Piccoli Comuni nel complesso percorso di
realizzazione delle gestioni associate obbligatorie delle 9
funzioni fondamentali, come sancito dall'art. 19 della legge
n. 135/2012, Anci mette a disposizione una rinnovata e più
completa
piattaforma tecnica informativa.
Un quadro generale sulle gestioni associate, uno scadenzario
con la tempistica degli adempimenti previsti, la principale
normativa di riferimento, i pareri della Corte dei conti,
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normativa per i Comuni con popolazione fino a 1000 abitanti,
sulle centrali uniche di committenza e sulla normativa
regionale di settore, costituiscono le voci consultabili nel
banner dedicato ai Piccoli Comuni ed alle Gestioni
Associate.
Gli strumenti di supporto alle Gestioni associate sono
completati, infine, da una raccolta di FAQ e dalla
possibilità di richiedere un parere da parte dei Comuni
interessati, specificando l'Ente e la qualifica del
richiedente (link a www.anci.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il complicato scioglimento del consorzio di
Polizia Locale dell'Isola
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 29.05.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
29.05.2013, suppl. ord. n. 42/L, "Regolamento recante la
disciplina dell’autorizzazione unica ambientale e la
semplificazione di adempimenti amministrativi in materia
ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli
impianti non soggetti ad autorizzazione integrata
ambientale, a norma dell’articolo 23 del decreto-legge
09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, della legge
04.04.2012, n. 35"
(D.P.R.
13.03.2013 n. 59). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
I. Meo e A. Pesce,
Fine della “selva” di antenne (Consulente
Immobiliare n. 930/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
A. Proietti Semproni,
Infortunio: la
responsabilità del delegato alla sicurezza - (commento a
Cassazione penale, Sez. III, 11.03.2013 n. 11442) (Pratica
Lavoro n. 17/2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI:
G. D'Angelo,
La documentazione
antimafia nel D.Lgs. 06.09.2011 n. 159: profili
critici (Urbanistica e appalti n. 3/2013 -
tratto da www.ipsoa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PATRIMONIO - VARI:
OGGETTO: La tassazione degli atti notarili - Guida
operativa - Testo unico dell’imposta di registro, approvato
con decreto del Presidente della Repubblica 26.04.1986, n.
131 (Agenzia delle Entrate,
circolare 29.05.2013 n. 18/E).
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In una circolare–vademecum, l’imposta di
registro a tuttotondo.
Una vera e propria guida pratica, che sarà periodicamente
aggiornata, per offrire a operatori del settore e
contribuenti uno strumento di lavoro utile e di facile
consultazione.
La tassazione degli atti notarili ha creato, nel corso degli
anni, diverse difficoltà interpretative. Spesso, infatti,
non soltanto i contribuenti, ma anche gli operatori del
settore, si trovano ad affrontare questioni controverse
nell’applicazione dell’imposta di registro, il tributo
-disciplinato dal Dpr 131/1986- che entra in gioco con la
registrazione di determinati documenti giuridici, indici
della capacità contributiva dei soggetti coinvolti.
A far chiarezza e ordine in una materia, che comprende anche
altri tipi di tassazione indiretta connessa agli atti
firmati davanti al notaio e non solo, arriva la circolare n.
18/E del 29.05.2013.
Con questo documento, l’Agenzia delle Entrate dà risposte
concrete sull’argomento, affrontando le diverse tematiche in
modo esauriente e sintetico al tempo stesso, lasciando largo
spazio a esempi pratici e a utili tabelle esplicative. Si
tratta, insomma, di una vera e propria guida operativa, di
facile consultazione, in grado di fornire soluzioni univoche
a problemi di carattere interpretativo.
E’ suddivisa in sei parti, le prime affrontano i principi
generali e di interesse più diffuso, come il trasferimento
di fabbricati e terreni, e le donazioni a titolo gratuito; a
seguire, l’attenzione si sposta sul regime impositivo degli
atti societari.
Lo scopo, in ogni caso, è uniformare l’applicazione delle
imposte trattate su tutto il territorio nazionale ed
eliminare ogni possibile margine di incertezza, in modo da
rendere più “fluido” sia il lavoro
dell’Amministrazione finanziaria sia quello degli operatori,
e facilitare i cittadini che si trovano di fronte allo “sportello”
del Registro.
Di riflesso, quindi, la circolare rappresenta uno strumento
che, se ben utilizzato, può far diminuire le “incomprensioni”
tra i notai e i contribuenti, da una parte, e il Fisco,
dall’altra, continuando ad accrescere l’efficienza,
l’efficacia e la trasparenza dell’attività degli uffici
finanziari.
La circolare-guida è aggiornata al 31.12.2012. Verrà rivista
e implementata periodicamente per tener conto delle novità
normative che interverranno in materia e delle soluzioni
interpretative adottate dall’Agenzia delle Entrate in
risposta, ad esempio, a istanze di interpello e consulenze
giuridiche (commento tratto da www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia, proroga PGT: 31.12.2013 per l'adozione e
30.06.2014 per l'approvazione definitiva.
Termine ultimo fissato al 31.12.2013 per l'adozione e al
30.06.2014 per l'approvazione definitiva dei Piani di
Governo del Territorio (PGT) nei Comuni che sono in ritardo
sul varo del provvedimento urbanistico. E’ quanto ha deciso
oggi il Consiglio regionale con 62 voti a favore e 9
contrari, approvando la legge che introduce anche sanzioni e
penalizzazioni per quei Comuni che alle scadenze indicate
dovessero risultare ancora inadempienti: a favore si sono
espressi i gruppi PdL, Lega Nord, Maroni Presidente,
Fratelli d’Italia, Pensionati, PD e Patto Civico Ambrosoli,
contrari i soli rappresentanti del Movimento 5 Stelle.
“La tempestività dimostrata in Commissione -ha commentato
il relatore del provvedimento e presidente della Commissione
Alessandro Sala (Maroni Presidente)- ci ha consentito oggi
di licenziare un provvedimento importante e necessario,
senza il quale i Comuni ancora inadempienti si troverebbero
in una situazione di blocco totale legata a qualsiasi
attività edilizia, con grave danno per i cittadini, per le
imprese, per tutto il settore edilizio e per il relativo
indotto, peraltro in un periodo di gravissima crisi
economica e occupazionale. La nostra gente –ha concluso
Alessandro Sala– vuole dalla politica tempi sempre più
stretti per risolvere i problemi. Possiamo ben dire che la
Commissione e questo Consiglio sono stati e sono oggi dalla
parte del cittadino, e hanno messo al bando le lungaggini”.
Nello specifico, in caso di mancata adozione del PGT entro
il 31.12.2013, i Comuni inadempienti saranno esclusi
dall’accesso al patto di stabilità territoriale per l’anno
2014 e il mancato rispetto di tale scadenza costituirà un
indicatore negativo nell’indice di virtuosità. In caso di
mancata approvazione del PGT entro il termine del
30.06.2014, la Giunta regionale, previa diffida ad adempiere
entro 60 giorni, nominerà un commissario ad acta il
quale disporrà degli uffici tecnici comunali e regionali di
supporto nonché dei poteri idonei a completare la procedura
di approvazione del piano.
Nei Comuni che entro il 30.06.2014 non avranno approvato il
PGT, dal 01.07.2014 e fino all’approvazione del PGT, sono
ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee A, B, C e D individuate dal
previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle
sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b)
c)
b) nelle zone omogenee E e F individuate dal previgente PRG,
gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro
strumento urbanistico;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati
e convenzionati entro il 30.06.2014, con convenzione non
scaduta.
Via libera a due emendamenti similari presentati
rispettivamente dal capogruppo del PdL Mauro Parolini e dal
capogruppo della Lega Nord Massimiliano Romeo che
consentono, ai soli Comuni che avevano già approvato il
documento di piano entro il 2009, di poter apportare
modifiche allo stesso documento di piano fino al 31.12.2014.
Un emendamento dell’assessore Viviana Beccalossi, approvato
all’unanimità, prevede speciali deroghe per i Comuni
terremotati. Pur preservando il regime di controlli e tutele
alle varianti urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per
l’autorizzazione delle opere, al fine di garantire la
partenza degli interventi di ricostruzione in modo più
rapido e snello.
I Comuni che alla data di entrata in vigore della legge non
hanno approvato il PGT non possono in ogni caso dar corso o
seguito a procedure di variante al vigente PRG. È sempre
ammessa l’approvazione di accordi di programma e dei
programmi integrati di intervento nonché dei progetti di
variante di cui allo sportello unico per le attività
produttive.
Via libera infine anche a un ordine del giorno presentato
dal capogruppo del Patto Civico Ambrosoli Lucia Castellano e
dal Consigliere del PD Jacopo Scandella che chiede alla
Giunta regionale di introdurre nuovi strumenti per
incentivare la pianificazione d’area vasta che interessi in
particolar modo i piccoli Comuni.
Apprezzamento e soddisfazione per l’approvazione del
provvedimento è stata espressa dai Consiglieri Mauro
Parolini del PdL, Roberto Anelli della Lega Nord, Riccardo
De Corato di Fratelli d’Italia, Alessandro Alfieri del PD e
Paolo Micheli del Patto Civico Ambrosoli, mentre il voto
contrario del Movimento 5 Stelle è stato annunciato da
Gianmarco Corbetta.
In Lombardia su 1544 Comuni sono 1007 quelli che hanno
approvato definitivamente il PGT: 213 hanno solo avviato il
piano e 324 lo hanno adottato. Mancano all'appello anche
città capoluogo di provincia come Lecco e Varese, dove il
PGT è stato solo avviato, e Como e Pavia, dove manca ancora
l'approvazione definitiva (28.05.2013 - link a
www.lombardiaquotidiano.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Pgt, sblocco 3000 cantieri, investimenti per 500 milioni.
"Con il Progetto di legge approvato oggi Regione
Lombardia dispone di uno strumento di pianificazione con
molti pregi: diamo tempo a tutti i Comuni di dotarsi entro
giugno 2014 del loro Piano di governo del territorio e,
fatto non irrilevante nel momento di crisi che stiamo
vivendo, facciamo ripartire un settore fondamentale come
quello edilizio, avviando 3.000 cantieri".
Questo il commento dell'assessore regionale al Territorio,
Urbanistica e Difesa del suolo dopo il via libera da parte
del Consiglio regionale al Progetto di legge 28, che
contiene le modifiche alla Legge 12 (Legge per il Governo
del Territorio), con lo scopo di regolare la situazione dei
circa 500 Comuni lombardi che ancora non hanno concluso
l'iter del proprio Pgt. Con le nuove norme, i Comuni
interessati dovranno approvarlo definitivamente entro il
30.06.2014.
GESTIONE EQUILIBRATA E SOSTENIBILE
- "Le nuove regole -ha continuato l'assessore-
garantiscono al territorio lombardo una gestione equilibrata
e sostenibile. Allo stesso tempo, si torna a permettere di
investire a chi vuole farlo, dagli imprenditori edili ai
cittadini, che vogliono ristrutturare casa. Le stime parlano
di un valore di 500 milioni di euro pronti ad essere spesi
facendo ripartire i lavori".
ATTENZIONE A PICCOLI COMUNI
- Tra i provvedimenti previsti ha particolare rilevanza
quello pensato soprattutto per i Comuni più piccoli, in
difficoltà con la predisposizione del proprio Pgt per
carenza di strutture e competenze. A richiesta del sindaco,
infatti, Regione Lombardia metterà a disposizione i propri
tecnici, per supportare il Comune a chiudere la pratica.
EMENDAMENTO PER MANTOVA
- Un emendamento molto atteso in provincia di Mantova,
invece, prevede speciali deroghe ai Comuni terremotati. Pur
preservando il regime di controlli e tutele alle varianti
urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per l'autorizzazione
delle opere, al fine di garantire la partenza degli
interventi di ricostruzione in modo più rapido e snello.
I DATI PER PROVINCIA
- Di seguito la suddivisione per provincia dei Comuni
sprovvisti di Pgt, i cantieri bloccati e il relativo valore
economico (dati Ance - Associazione nazionale costruttori
edili aggiornati al 01.03.2013):
Milano: 38 - 278 - 50.726.410 euro
Bergamo: 82 - 351 - 51.597.930 euro
Brescia: 45 - 313 - 42.586.606 euro
Como: 77 - 497 - 72.541.488 euro
Cremona: 13 - 34 - 3.490.894 euro
Lecco: 35 - 240 - 33.235.379 euro
Lodi: 21 - 56 - 6.573.495 euro
Mantova:17 - 92 - 8.929.792 euro
Monza: 14 - 171 - 35.940.973 euro
Pavia: 62 - 177 - 19.738.969 euro
Sondrio:41 - 236 - 30.274.536 euro
Varese: 67 - 689 - 108.306.882 euro (28.05.2013 -
link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
QUESITI & PARERI |
TRIBUTI: Valore
venale.
Domanda
Un comune del
Lecchese vuole applicare l'Imu su un'area fabbricabile di
recente acquisto in base al prezzo di compravendita, più
alto del valore di mercato per ragioni di specifico
interesse dell'acquirente e anche dei valori parametrici
indicati dallo stesso comune per ridurre il rischio di
contenzioso con i propri contribuenti. Vorrei sapere se la
pretesa del comune è legittima.
Risposta
Per le aree
fabbricabili taluni comuni hanno inserito nel proprio
regolamento la regola secondo la quale se è rilevabile da un
atto ufficiale un dato prezzo esso deve essere assunto come
base imponibile Imu. Ciò anche nel caso in cui il comune
abbia approvato i valori parametrici per le aree
fabbricabili ubicate nelle varie zone del territorio
comunale ed essi risultino più bassi di quelli desumibili
dai predetti atti.
In realtà, tale pretesa incontra un limite nella normativa
in quanto l'art. 5, c. 5, del dlgs n. 504/92), applicabile
anche all'Imu, precisa che l'imponibile è dato dal valore «venale
in comune commercio al 1° gennaio dell'anno di imposizione,
avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione,
all'indice di edificabilità, alla destinazione d'uso
consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento
del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi
rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe
caratteristiche».
Inoltre, qualora il comune abbia approvato con delibera
consiliare i valori minimi rispettando i quali i
contribuenti non soggiacciono al rischio di accertamento,
appare contraddittorio e ben poco rispettoso del dovere di
imparzialità, derogare a tale regola per i soli possessori
di terreni per i quali siano intervenuti trasferimenti a
prezzi più elevati: lo stesso terreno, infatti, in un caso
sarebbe soggetto ad accertamento, nell'altro no, senza
ragione alcuna.
Peraltro, i contribuenti non hanno alcun obbligo di
attenersi ai valori parametrici comunali o all'indicazione
di dover dichiarare il prezzo di acquisizione dell'area
fabbricabile, dal momento che l'imponibile di tale tipologia
di immobile è dato dal suo valore venale. Valore venale che
può risultare inferiore al prezzo per varie ragioni, tutte
legittime, in quanto potrebbe essere stato pagato più del
suo valore in dipendenza proprio di specifici interessi del
contribuente, come segnalato nel quesito: per esempio,
completare una serie di lotti già posseduti con un ulteriore
appezzamento, evitare il rischio che l'appezzamento finisca
in mani altrui e possa essere edificato pregiudicando il
proprio interesse, per ragioni affettive; oppure perché si
può avere fatto un cattivo affare e si è pagato un'area più
del suo valore commerciale.
Il comune non dovrebbe quindi mai procedere meccanicamente
all'accertamento, ma esaminare con la dovuta attenzione
quale sia il reale valore venale in comune commercio del
bene, a prescindere dal prezzo a cui è avvenuta la
transazione, se del caso avviando anche un confronto con il
contribuente
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2013). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI: Corte
dei conti. Per la sezione Autonomie il patrimonio può
finanziare la spesa corrente. Nei Comuni in pre-dissesto
alienazioni a utilizzo «libero»
L'ALTRO CHIARIMENTO/ Gli enti che ottengono l'anticipazione
dalla Cdp devono iscrivere nei fondi vincolati una somma
pari a quella ricevuta.
Gli enti che ricorrono alla procedura anti-dissesto prevista
dal decreto legge 174/2012 possono destinare le entrate da
alienazioni al finanziamento dello squilibrio corrente,
derogando così al rigido principio secondo cui i proventi da
alienazione dei beni patrimoniali disponibili possono essere
utilizzati solo per finanziare gli squilibri di parte
capitale, imposto dalla legge di stabilità 2013 (articolo 1,
comma 443, della legge 228/2012 e articolo 193, comma 3, del
Dlgs 267/2000).
L'accesso al fondo di rotazione per il finanziamento del
piano di riequilibrio pluriennale (articolo 243-ter del Tuel),
insieme alla situazione degli enti in condizioni di dissesto
(articolo 255, comma 9 del Tuel), sono di conseguenza le
uniche due deroghe ammesse: solo in questi casi i proventi
da vendita del patrimonio concorrono a finanziare l'intera
massa passiva.
L'interpretazione, rilevante ai fini del coordinamento di
finanza pubblica, arriva dalla Sezione Autonomie della Corte
dei conti (delibera
20.05.2013 n. 14/2013) in risposta alle questioni
sollevate dalla Corte dei conti Lazio in relazione al caso
di un Comune in procedura anti-default.
L'apertura, per niente scontata, suonerà particolarmente
gradita agli enti costretti a entrare nelle maglie della
procedura a causa di pesanti sentenze di condanna al
pagamento di spese correnti, i quali ora potranno sfruttare
il patrimonio disponibile.
Non solo. La delibera interviene anche sulla controversa
questione della contabilizzazione in bilancio
dell'anticipazione ottenuta sul fondo di rotazione, sospesa
a metà fra punti chiari e dubbi. Partendo dalla circostanza
che l'entrata è iscritta fra le accensioni di prestiti
(codice Siope 5311) e la restituzione tra i rimborsi dei
prestiti (codice Siope 3311), i giudici contabili rispondono
alla questione dubbia se debba essere impegnata in uscita
per l'intero importo.
La soluzione trovata dai magistrati contabili chiede agli
enti di iscrivere, nei fondi vincolati dell'esercizio in cui
è accertata e riscossa l'anticipazione, una somma pari al
totale assegnato, come «Fondo destinato alla restituzione
dell'anticipazione ottenuta dal fondo di rotazione per
assicurare la stabilità finanziaria dell'ente» (immaginiamo
come il fondo svalutazione crediti).
Dall'anno successivo, con l'inizio del rimborso,il fondo
sarà progressivamente ridotto dell'importo pari alle somme
restituite saranno impegnate di anno in anno nel bilancio in
cui vanno in scadenza. Il ricorso al fondo vincolato –si
legge nella delibera– è autorizzato/necessitato per evitare
distorsioni sul risultato di amministrazione effettivo e il
rischio di autorizzazioni di nuove e maggiori spese. Esso
risponde anche al nuovo principio della competenza
finanziaria potenziata (Dlgs 118/2011 sull'armonizzazione),
secondo cui le obbligazioni attive e passive perfezionate
sono imputate all'esercizio nel quale vengono a scadenza.
Resta da confermare, infine, se questa impostazione dovrà
essere seguita anche per le anticipazioni concesse dalla
Cassa depositi e prestiti secondo il Dl 35/2013
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2013
- tratto da link a www.ecostampa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stipendi.
Corte dei conti Toscana. Nelle partecipate stop agli aumenti
dati dal contratto.
IL PRINCIPIO/ Il congelamento del trattamento economico
previsto per gli enti «supera» le indicazioni delle intese
nazionali.
Il blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici travolge
anche i lavoratori delle società partecipate e vieta il
riconoscimento degli aumenti stabiliti in sede di
contrattazione collettiva nazionale.
A questa conclusione è giunta la Corte dei Conti Toscana,
con il
parere 14.05.2013 n. 140.
Il dubbio è sorto al Comune di Montecatini Terme (in
provincia di Pistoia), il quale ha chiesto ai magistrati
contabili se, in sede di determinazione del trattamento
economico dei dipendenti delle società partecipate,
prevalesse il contratto nazionale di lavoro oppure la
disposizione contenuta nell'articolo 4, comma 11, del Dl
95/2012. In particolare, l'amministrazione comunale ha
interrogato la Corte dei Conti, evidenziando che il
contratto nazionale applicabile ai lavoratori della società
partecipata e vigente per il triennio 2011-2013, prevedeva
aumenti stipendiali nel corso di quest'anno.
La società è tipo strumentale e, pertanto, alla stessa si
applica l'articolo 4, comma 11, del Dl 95/2012, il quale
impone, per il biennio 2013-2014, il tetto alle retribuzioni
dei singoli dipendenti, che non può superare quello
ordinariamente spettante nel 2011. Destinatari di questa
norma sono le società controllate direttamente o
indirettamente dalle Pubbliche amministrazioni indicate dal
l'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001 e che, nel 2011,
abbiamo realizzato più del 90% del loro fatturato per
prestazioni di servizi nei confronti di Pubbliche
amministrazioni.
Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla portata della
disposizione, in quanto i dubbi applicativi sono molteplici.
Ma rispetto al quesito specifico posto dal Comune di
Montecatini, i magistrati contabili non hanno perplessità:
la norma si pone nel solco tracciato, per i dipendenti
pubblici, dall'articolo 9, comma 1, del Dl 78/2010. Per
questo motivo, le indicazioni fornite dalla stessa Corte in
ordine a quest'ultima disposizione possono essere estese
anche al comma 11 del l'articolo 4 del Dl 95/2012. La logica
alla base del quadro normativo in questione è rappresentata
dalla volontà di «cristallizzare la spesa di personale»
attraverso il blocco del trattamento economico
ordinariamente spettante al personale.
E non vi sono dubbi
che gli aumenti previsti in un contratto collettivo
nazionale di lavoro rientrino in quella nozione di
retribuzione prima accennata e che il legislatore ha voluto
bloccare in quanto vanno a incidere sul trattamento
fondamentale. La conseguenza è inevitabile: nel corso del
2013 non possono essere incrementati gli stipendi, anche se
questi aumenti sono stati definiti in un contratto nazionale
sottoscritto prima del l'entrata in vigore della norma che
ha imposto il tetto delle retribuzioni al 2011.
Come detto, la disposizione travolge le società strumentali
controllate dalla pubblica amministrazione. Ma questo non
significa che le altre tipologie di società e organismi
partecipati possano incrementare i trattamenti economici dei
dipendenti ad libitum. Non si può non ricordare la norma che
impone il consolidamento della spesa di personale di questi
soggetti con l'ente pubblico controllante
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’incentivo del 2% previsto in favore dei
dipendenti dell’Amministrazione per prestazioni
professionali di progettazione presuppone necessariamente la
presenza di lavori ed opere di manutenzione straordinaria e
non di semplice manutenzione ordinaria, né di lavori in
economia.
In presenza di lavori di manutenzione straordinaria spetta
al singolo regolamento comunale indicare se la
corresponsione dell’incentivo del 2% debba essere –o meno-
necessariamente condizionata alla sussistenza delle tre
diverse fasi di progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva.
... il Sindaco del
Comune di Rapallo ha inviato una richiesta di parere
inerente alla condivisibilità, da parte di questa Sezione,
delle argomentazioni con cui la Sezione Regionale di
Controllo della Toscana, con le deliberazioni 13.11.2012 n.
293 e 19.03.2013 n. 15, ha ritenuto di interpretare
restrittivamente l’art. 925 D.Lgs. 12.04.2006 n.
163, giudicandolo applicabile al solo ambito della <<attività
di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come
finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata>>.
In particolare il Comune chiede di sapere se l’incentivo
previsto dalla disposizione richiamata sia applicabile anche
in presenza di lavori di manutenzione ordinaria o di lavori
in economia e se, comunque, sia necessaria la compresenza
delle tre fasi di progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva dei lavori pubblici.
...
2. La questione di merito. La giurisprudenza di controllo
L’ art. 901,6 D.lgs. 12.04.2006 n. 163
dispone che <<1. Le prestazioni relative alla
progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori
… sono espletate: a) dagli uffici tecnici delle stazioni
appaltanti; … d) da liberi professionisti singoli ed
associati nelle forme di cui alla legge 23.11.1939 n. 1815
…; e) dalle società di professionisti; f) dalle società di
ingegneria … 6. Le amministrazioni aggiudicatrici possono
affidare la redazione del progetto preliminare, definitivo
ed esecutivo, nonché lo svolgimento di attività tecnico –
amministrative connesse alla progettazione, ai soggetti di
cui al comma 1, lettere d), e), f) … in caso di carenza in
organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di
rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di
svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso di lavori
di speciale complessità o di rilevanza architettonica o
ambientale o in caso di necessità di predisporre progetti
integrali che richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze, casi che debbono essere accertati e certificati
dal responsabile del procedimento>>.
L’ art. 925 D.lgs. 12.04.2006 n. 163 stabilisce
che <<una somma non superiore all’importo del due per
cento dell’importo posto a base di un’opera o di un lavoro,
comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell’amministrazione è ripartita tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori … limitatamente alle attività di
progettazione, l’incentivo corrisposto al singolo dipendente
non può superare l’importo del rispettivo trattamento
economico complessivo annuo lordo>>.
Il Comune di Rapallo chiede di sapere se l’incentivo del
2% possa essere corrisposto anche a seguito di semplici
lavori di manutenzione ordinaria o di lavori in economia.
L’interpretazione positiva era stata sostenuta dall’Autorità
di Vigilanza sui Lavori Pubblici che, con la determinazione
17.02.2000 n. 7 avente ad oggetto la precedente L. 109/1994,
aveva rilevato come il generico riferimento alla
manutenzione di opere ed impianti fosse tale da
ricomprendere anche la manutenzione ordinaria.
In senso opposto la Sezione regionale di controllo della
Toscana, con le deliberazioni 13.11.2012 n. 293, 12.12.2012
n. 459 e 19.03.2013 n. 15, ha costantemente ritenuto che <<l’art.
92 presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi,
expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell’intera opera pubblica progettata. Quanto espresso pare
escludere dal novero delle attività retribuibili con
l’incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria,
peraltro finanziati con risorse di parte corrente del
bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori
in economia, siano essi connessi o meno ad eventi
imprevedibili>>.
3. La valutazione della Sezione sulla questione
sottoposta
Il Comune di Rapallo chiede di conoscere:
a) se l’incentivo del 2% previsto in favore dei
dipendenti dell’Amministrazione per prestazioni
professionali di progettazione possa essere corrisposto
anche in presenza di lavori di semplice manutenzione
ordinaria, se non addirittura in economia;
b) se, in presenza di lavori di manutenzione
straordinaria, la corresponsione del medesimo sia
condizionata alla sussistenza delle tre diverse fasi di
progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva.
La Sezione ritiene di condividere su entrambi i punti la
soluzione proposta dalla Sezione regionale di controllo
della Toscana per le ragioni che ora si espongono.
L’art. 906 D.lgs. 163/2006 prevede l’affidamento
dell’attività di progettazione a soggetti estranei
all’Amministrazione solo in presenza di caratteristiche di
speciale difficoltà oggettivamente riscontrabili ovvero in
carenza di personale tecnico in organico. In altre parole,
l’affidamento esterno è giustificato in quanto la
prestazione non è ordinariamente richiedibile ai dipendenti
dell’Ente, ravvisandosi in questo caso la necessità di una
prestazione temporanea ed altamente qualificata, ovvero
nella diversa ipotesi di impossibilità oggettiva di
rinvenire risorse umane all’interno dell’Ente.
Sotto questo profilo la norma costituisce specifica
applicazione del principio generale di contenimento della
spesa enucleato nell’art. 7 D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 che
consente di conferire incarichi professionali esterni solo
se non si disponga quantitativamente o qualitativamente di
professionalità adeguate in organico e tale carenza non sia
risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle
risorse umane. Proprio l’attuazione di tale principio impone
di ritenere che, in presenza di lavori di ordinaria
manutenzione o di importo assai contenuto –quali quelli in
economia– che assai difficilmente possono presentare
problematiche di particolare complessità, i dipendenti non
abbiano diritto all’incentivo del 2% trovandosi in presenza
di attività appunto ordinaria il cui espletamento è
ricompreso nei doveri di ufficio e che pertanto è già
remunerata dalla retribuzione omnicomprensivamente erogata.
Per quanto attiene al secondo quesito, occorre
rilevare come le disposizioni legislative nulla prevedono,
né in senso positivo né in senso negativo, sulla necessità
dell’affidamento esterno delle tre fasi di progettazione ai
fini della corresponsione dell’incentivo. Esiste cioè una
situazione di <<spazio vuoto primario>> che può
essere riempito, come avviene attualmente, dai regolamenti
dei singoli Comuni i quali possono discrezionalmente
valutare i presupposti per l’attribuzione dell’incentivo
medesimo.
Pertanto, in sintesi, si può affermare che:
a)
nel caso di specie, l’incentivo del 2%
previsto in favore dei dipendenti dell’Amministrazione per
prestazioni professionali di progettazione presuppone
necessariamente la presenza di lavori ed opere di
manutenzione straordinaria e non di semplice manutenzione
ordinaria, né di lavori in economia;
b) in presenza di lavori di manutenzione
straordinaria, spetta al singolo regolamento comunale
indicare se la corresponsione dell’incentivo del 2% debba
essere –o meno- necessariamente condizionata alla
sussistenza delle tre diverse fasi di progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondi
decentrati. Corte dei conti Lombardia. La Regione non può
gonfiare gli incentivi.
Per la Corte dei conti (sezione regionale di controllo per
la Lombardia -
parere 11.04.2013 n.
137), non rientra tra le prerogative regionali
l'incremento dei fondi per il trattamento accessorio del
personale con risorse diverse da quelle previste da leggi e
contratti collettivi nazionali.
Il Consiglio regionale lombardo ha chiesto se, nei limiti
dell'articolo 9, comma 2-bis del Dl 78/2010, sia lecito
integrare le risorse decentrate con i seguenti importi
aggiuntivi: incremento del fondo per il trattamento
accessorio con i risparmi derivanti dalla mancata copertura
dei posti di dotazione organica (articolo 44 della Legge
regionale 20/2008); incremento, oltre i limiti del contratto
nazionale, delle risorse per lo straordinario, giustificato
da esigenze degli organi istituzionali del Consiglio
(articolo 45 della Legge regionale 20/2008); incrementi
delle risorse per il finanziamento delle posizioni
organizzative con risorse di bilancio del Consiglio
(articolo 46 della Legge regionale 20/2008 e articolo 7,
comma 5, della Legge regionale 13/2010); incremento del
fondo per il trattamento accessorio con risorse dei bilanci
di Giunta e Consiglio (articolo 83, comma 6 della Legge
regionale 20/2008).
Inoltre è stato chiesto se le risorse aggiuntive debbano
essere necessariamente collegate a specifici obiettivi di
miglioramento in precedenza definiti, o possano
semplicemente aumentare il premio per gli obiettivi
finanziati con le risorse decentrate "ordinarie"; un altro
quesito riguardava l'obbligo di definizione preventiva di
specifici criteri di distribuzione selettiva delle risorse
aggiuntive e d'individuazione del personale coinvolto, o in
alternativa la possibilità di distribuire queste somme a
tutto il personale con le modalità previste per il premio
finanziato con gli stanziamenti "ordinari".
La Corte si è espressa in modo perentorio sul quesito
principale, affermando che le risorse che finanziano la
contrattazione decentrata (anche per le Regioni) sono
tipiche e debbono essere previste da leggi e contratti
nazionali. Facendo riferimento alla sentenza 339/2011 della
Corte Costituzionale, che afferma che il trattamento
economico dei dipendenti regionali rientra nella materia di
esclusiva competenza statale dell'ordinamento civile.
Infatti si è ritenuto che norme regionali che prevedano
risorse aggiuntive per la contrattazione decentrata vadano
interpretate nel senso che la loro applicabilità presuppone
un esplicito rinvio alla normativa regionale da parte della
legge statale.
Le Regioni, neanche con legge, possono integrare le risorse
dei fondi in modo discrezionale, al di fuori dei limiti e
delle regole stabiliti a livello nazionale. Questa facoltà
può esercitarsi, in via mediata, solo a fronte di puntuali
previsioni di legge statale che abilitino la Regione a
intervenire in materia.
Sui quesiti secondari, invece, viene ricordato che non
esiste una produttività «ordinaria» da erogare a tutto il
personale ed una selettiva «legata a specifici progetti», ma
che la parte variabile della retribuzione incentivante
rappresenta un compenso che può essere riconosciuto solo se
correlato al raggiungimento di specifici obiettivi connessi
all'attività svolta dal dipendente, fissati in via
preventiva dalla Pa
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it). |
NEWS |
TRIBUTI: Imu, decide il comune.
Niente acconto se il bonus non è stato revocato.
Spiragli
per anziani e disabili ricoverati e per i residenti
all'estero.
Anziani, disabili e residenti all'estero non devono pagare
l'acconto Imu entro il prossimo 17 giugno se i comuni non
hanno revocato per l'anno in corso il trattamento agevolato
riconosciuto nel 2012 per gli immobili da loro destinati a
abitazione principale.
Lo ha chiarito il dipartimento delle
finanze del ministero dell'economia, con la
circolare 23.05.2013 n. 2/DF.
Dunque chi fruisce del trattamento agevolato, anche
se a seguito dell'assimilazione degli immobili
all'abitazione principale operata dai comuni, non è tenuto a
pagare l'acconto Imu.
Per il dipartimento, considerata la
finalità del legislatore di assicurare un regime di favore
per l'abitazione principale e relative pertinenze, sia nel
caso che l'assimilazione venga disposta per il 2013 «sia in
quello in cui la stessa è stata effettuata nel 2012 e non è
stata modificata nel 2013, l'assimilazione in questione
determina l'applicazione delle agevolazioni». Compresa la
sospensione del pagamento della prima rata Imu. I comuni,
infatti, possono estendere o ampliare i benefici per la
prima casa. Non scontano l'Imu come seconda casa gli
immobili posseduti da anziani o disabili e residenti
all'estero se il comune li ha assimilati o li assimila
all'abitazione principale.
L'articolo 13 del dl 201/2011
prevede che il trattamento agevolato possa essere concesso
per le unità immobiliari possedute, a titolo di proprietà o
usufrutto, da anziani o disabili che spostano la residenza
in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero
permanente, nonché per quelle possedute, a titolo di
proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani non
residenti nel territorio dello stato, a condizione che non
risultino locate. Peraltro, nel 2012 la scelta di concedere
il beneficio fiscale era opportuna perché l'intero gettito
degli immobili utilizzati come «prima casa» era riservato ai
comuni. Allo stato non spettava la quota del 50%. E questa
regola valeva anche per gli immobili assimilati.
L'articolo 1 del dl 54/2013 ha sospeso il pagamento
dell'acconto Imu per gli immobili adibiti a abitazione
principale e relative pertinenze. Sono però esclusi dal
beneficio i fabbricati classificati nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9. La sospensione si estende anche
alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative
edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dei soci
assegnatari, nonché a quelli assegnati da Iacp, Ater o da
altri enti di edilizia residenziale pubblica. Sono esonerati
dal pagamento dell'acconto anche i titolari di fabbricati
rurali e terreni agricoli. La sospensione sembra finalizzata
a un successivo riconoscimento dell'esenzione.
Per abitazione principale s'intende l'immobile, iscritto o
iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità
immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e
risiede anagraficamente. Sono da considerare pertinenze
dell'abitazione principale esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella
misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle
suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto
unitamente all'immobile adibito ad abitazione. Attualmente
la legge prevede per questi fabbricati l'applicazione di una
aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono
aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una
detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro
per ogni figlio che risieda anagraficamente e dimori
abitualmente nell'immobile, fino a un massimo di 400 euro,
al netto della detrazione ordinaria.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni «prima
casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto
più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto. I
singoli fabbricati vanno assoggettati separatamente a
imposizione, ciascuno per la propria rendita. È il
contribuente a scegliere quale destinare a abitazione
principale (circolare 3/2012)
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2013
- tratto da link a www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'offerta senza utile è illegittima.
Anche se
presentata da una onlus.
In una gara di appalto l'offerta senza utile è sempre
illegittima anche se formulata da una Onlus; è irrilevante
l'assenza di scopo di lucro della organizzazione.
È quanto
afferma la sentenza del TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza
20.05.2013 n. 781, che ha preso in esame una vicenda
concernente un appalto per un servizio di «assistenza
domiciliare integrata» aggiudicato, con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, a una onlus.
Veniva eccepito il fatto che l'offerta risultata poi
vincente contemplava un margine lordo (utile) pari a zero.
Nel ricorso del secondo classificato si sosteneva che tale
circostanza avrebbe reso l'offerta stessa inaffidabile ed
inattendibile. Viceversa l'aggiudicatario replicava che
proprio in ragione della sua natura soggettiva una onlus,
priva, in quanto tale, di scopo di lucro, ben poteva
effettuare una offerta tale anche da non garantire alcun
margine di utile.
Veniva, a margine, anche eccepito che
l'aggiudicatario si sarebbe comunque discostato dalle
tabelle di cui al decreto ministeriale del 02.04.2012,
senza, tuttavia, addurre alcuna logica giustificazione, né
specificare le ragioni che consentirebbero di operare in
condizioni più favorevoli, ma si trattava comunque di una
ulteriori questione di carattere accessorio rispetto alla
questione principale posta dal secondo classificato. Nel
merito il Tar accoglie il ricorso e annulla il provvedimento
di aggiudicazione affermando che la formulazione di un
offerta con un margine lordo (utile) pari a zero la rende
inaffidabile ed inattendibile, anche nel caso in cui la
proposta provenga da una onlus priva, in quanto tale, di
scopo di lucro.
La sentenza richiama precedenti decisioni
del Consiglio di stato sulle verifiche di congruità delle
offerte anomale per sostenere che la stazione appaltante non
avrebbe dovuto in alcun modo ritenere congrua l'offerta
(anomala) presentata dalla onlus. In via generale, infatti,
il Consiglio di stato aveva già avuto modo di precisare che
la commissione giudicatrice deve sempre avere riguardo alla
serietà della proposta contrattuale e che, in tale ambito
risulta in sé ingiustificabile soltanto una offerta con
utile pari a zero.
In sostanza, se un utile apparentemente
modesto può comportare un vantaggio importante (si pensi
alle ricadute positive che possono discendere in termine di
qualificazione, pubblicità, curriculum discendenti per una
impresa dall'essersi aggiudicata e dall'avere poi portato a
termine un prestigioso appalto), viceversa un utile pari a
zero non è indice di serietà dell'offerta: «l'offerta seria
rimane, anche laddove l'utile d'impresa si riduca, purché
non risulti del tutto azzerato».
La «ratio» cui è
preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala
è infatti la piena affidabilità della proposta contrattuale.
Si tratta di un principio generale che, ad avviso del Tar
Puglia, non può essere intaccato neanche in assenza di scopo
di lucro. Da ciò il necessario annullamento
dell'aggiudicazione a favore della onlus
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2013
- tratto da link a www.ecostampa.it). |
VARI:
La firma elettronica avanzata? Stesso valore di quella su
carta.
La tipologia digitale diventa operativa grazie alle regole
tecniche pubblicate in G.U..
Dimenticarsi carta e penna tradizionali e usare la penna
elettronica e un tablet per firmare un documento è una
realtà a portata di mano.
È uno degli effetti della
pubblicazione delle regole tecniche, contenute nel Dpcm
22/02/13, nella Gazzetta Ufficiale del 21/05/13, che fissano
i criteri in base ai quali la firma elettronica può essere
considerata avanzata.
Che cos'è la firma biometrica.
Un qualsiasi tablet è in grado di acquisire la semplice
immagine di una firma apposta utilizzando come penna un
oggetto, meglio se appuntito. Questo strumento permette,
quindi, di confrontare visivamente quella firma, statica,
con quella apposta su un documento cartaceo.
Se però la
medesima operazione viene effettuata utilizzando una
particolare penna elettronica e un tablet in grado di
rilevare dei parametri dinamici propri del gesto della
sottoscrizione (velocità di scrittura; pressione esercitata;
angolo di inclinazione della penna; accelerazione del
movimento; numero di volte in cui la penna viene sollevata),
e se quei dati vengono elaborati da un software in grado di
trasformarli in calcoli suscettibili di un confronto (per
esempio, con uno «specimen» che potremo definire biometrico
precedentemente raccolto con lo stesso strumento), allora
saremo di fronte a una firma che potremo definire
indifferentemente biometrica e/o grafometrica.
Le firme elettroniche nel Cad.
L'attuale versione del Cad (Codice dell'amministrazione
digitale) contempla due macro-categorie: a) la firma
elettronica semplice, che consiste in dati elettronici
associati ad altri dati elettronici (per esempio, una
password associata a un file).
L'uso di questo strumento di base non è subordinato al
rispetto di nessuna regolamentazione tecnica specifica e il
suo valore probatorio e formale è rimesso alla valutazione
del giudice (art. 21 Cad); b) esiste poi un diverso insieme,
quello della firma elettronica avanzata (Fea), per
appartenere al quale una firma elettronica deve presentare
dei requisiti ulteriori previsti dall'art. 1 comma 1 lett.
q-bis del Cad, tutti centrati sui seguenti principi:
identificazione del firmatario; legame tra lo stesso, il
mezzo utilizzato per firmare, e il documento firmato;
inalterabilità. In linea con quanto previsto sul punto dalla
direttiva europea 1999/93/Ce, non sono quindi previste delle
caratteristiche tecniche pre-definite: qualunque strumento o
processo che soddisfi i richiamati requisiti, può esser
considerato una Fea.
L'inquadramento della firma biometrica.
Una firma apposta su tablet e caratterizzata dalla raccolta
dei dati biometrici è, di base, senza dubbio una firma
elettronica semplice, sostanziandosi in dati elettronici (i
parametri biometrici) associati ad altri dati elettronici
(il documento firmato). Se però il processo presenta le
caratteristiche ulteriori richieste dal Cad, e dalle regole
tecniche (e cioè a dire la identificazione del firmatario,
la connessione univoca al documento e la sua
inalterabilità), allora si potrà certamente annettergli la
valenza di una Fea. Le soluzioni che si stanno affacciando
sul mercato, soprattutto in ambito bancario, muovono proprio
in questa direzione.
Il motivo è semplice: se il documento
informatico è sottoscritto con una Fea, il suo valore legale
non è subordinato alla valutazione di un giudice ma, da un
lato, produce lo stesso effetto probatorio del documento cui
sia apposta una firma autografa (art. 21, comma 2 Cad);
dall'altro, alla luce delle ultimissime modifiche apportate
al Cad dal dl 179/2012, soddisfa comunque il requisito della
forma scritta richiesto da norme speciali come requisito di
validità dell'atto (art. 21, comma 2-bis, del Cad come
modificato dal dl 179/2012). Anche un contratto di conto
corrente, per esempio, può esser sottoscritto con una Fea,
ed è naturale, quindi, che i fornitori di soluzioni di firma
biometrica stiano investendo su processi che possano
rispondere ai relativi requisiti.
La firma biometrica come Fea, e non solo.
La pubblicazione delle regole tecniche si pone come un vero
e proprio spartiacque di grandissima importanza. Gli
operatori che stanno investendo sullo strumento sono quindi
liberi di vendere soluzioni di firma grafometrica
espressamente agganciando alle stesse la valenza di una Fea.
Attenzione, però: resta un'area grigia, quella delle firme
su tablet che difettino di qualcuno dei requisiti previsti
dal Cad, e che quindi, come espressamente previsto dall'art.
56 delle regole tecniche, non possono produrre gli effetti
probatori e formali di una Fea. Questi prodotti sono da
buttare via? Assolutamente no, atteso che gli stessi
integrano comunque gli estremi di una firma elettronica
semplice, in quanto tale certamente utilizzabile in
tantissimi ambiti (ferme le valutazioni poi operate in sede
giudiziale sulla base delle relative caratteristiche
oggettive di qualità, sicurezza, integrità e
immodificabilità): certo, per evitare gli strali
dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, non
sarà possibile collocare prodotti di questo tipo sul mercato
annettendogli gli effetti di una Fea, né gli stessi potranno
essere utilizzati, nell'esempio fatto, per sottoscrivere un
conto corrente bancario.
Ma ciò non impedisce affatto che
siano utilizzati per il compimento di una miriade di atti
(quali la sottoscrizione di una contabile di sportello) che
non rientrano nelle categorie previste dall'art. 1350 c.c.
(forma scritta a pena di nullità), e che dunque sono
suscettibili di affrontare il vaglio giudiziale proprio di
una firma elettronica semplice senza mettere a rischio la
validità dell'atto. Un'azione commerciale corretta, che dia
conto di questa efficacia limitata, non può quindi
considerarsi in nessun modo illegittima. Staremo a vedere
nel prossimo futuro, quale tra le due soluzioni (la firma
biometrica utilizzabile come Fea, o quella meno pregiata,
avente valore di firma elettronica semplice) si affermerà
come traino della rivoluzione digitale che abbiamo davanti
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.05.201). |
ENTI LOCALI: Bilancio.
Il piano esecutivo di gestione.
La programmazione diventa triennale.
Il comma 3-bis dell'articolo 169 Tuel, introdotto
dall'articolo 3 del Dl 174/1912 dispone che il Peg è
deliberato dagli enti locali in coerenza con il bilancio di
previsione e con la relazione previsionale e programmatica.
Inoltre si stabilisce che il piano dettagliato degli
obiettivi e il piano delle performance sono unificati nel
Peg. La legge 243/2012, attuativa dell'articolo 81 della
Costituzione, dispone che i documenti di programmazione e di
bilancio stabiliscono, per ogni annualità del periodo di
programmazione (triennale), obiettivi del saldo del conto
consolidato delle Pa.
Il bilancio preventivo degli enti locali ha valenza annuale,
ma a esso è obbligatoriamente allegato, tra l'altro, il
bilancio pluriennale, che ha durata non inferiore a tre anni
e carattere autorizzatorio. La relazione copre un periodo
pari a quello del bilancio pluriennale, e comprende una
valutazione generale sui mezzi finanziari disponibili e la
spesa corrente consolidata, quella di sviluppo e quella di
investimento. Il piano delle performance è un documento
programmatico triennale coerente con la programmazione
finanziaria.
È evidente allora che la programmazione ha, ora più che mai,
valenza pluriennale, e di conseguenza anche il Peg, che ne è
la parte applicativa, deve avere respiro triennale.
Peraltro la Civit (delibera 121/2010) ha affermato che il
processo di adattamento a piano delle performance dovrà
trasformare il Peg in un documento programmatico triennale
in cui, in coerenza con le risorse assegnate, vengono
esplicitati obiettivi, indicatori e relativi target.
Rimane da verificare la situazione degli enti locali con
popolazione inferiore ai 15mila abitanti.
L'articolo 169, comma 3, del Tuel dichiara infatti
facoltativa l'approvazione del Peg per questi enti e per le
comunità montane. L'articolo 165, comma 9, del Tuel dispone
che a ciascun servizio è affidato, col preventivo, un
complesso di mezzi finanziari del quale risponde il
responsabile del servizio. È chiaro quindi che la valenza
facoltativa del Peg, negli enti locali minori, comporta il
venir meno dell'obbligo di suddividere tra i vari
responsabili il personale e i beni (immobili e mobili), ma
non le risorse finanziarie.
Ne deriva che anche negli enti locali minori il Piano di
gestione, benché semplificato, deve essere coerente con il
bilancio pluriennale, con la Relazione previsionale e
programmatica e con il Piano delle performance e dunque deve
avere durata triennale
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.05.2013 - tratto da link a www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
circolari amministrative, in quanto atti di indirizzo
interpretativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei
all'amministrazione, mentre per gli organi destinatari esse
sono vincolanti solo se legittime, e ciò in quanto le
circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed
uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé
valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante
per i soggetti estranei all'amministrazione, ben potendo
quindi essere disapplicate anche d'ufficio dal giudice
investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa
applicazione.
E' pacifico in giurisprudenza che le circolari
amministrative, in quanto atti di indirizzo interpretativo,
non sono vincolanti per i soggetti estranei
all'amministrazione, mentre per gli organi destinatari esse
sono vincolanti solo se legittime, e ciò in quanto le
circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed
uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé
valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante
per i soggetti estranei all'amministrazione, ben potendo
quindi essere disapplicate anche d'ufficio dal giudice
investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione
(Consiglio di Stato, sez. V, 15.10.2010 n. 7521; id., sez.
IV, 21.06.2010, n. 3877) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2013 n. 2916 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza che l'immobile abusivamente
realizzato sia sottoposto a sequestro penale non osta
all'adozione dell'ordine di demolizione, dal momento che è
possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria
il dissequestro dell'immobile proprio al fine di ottemperare
al predetto ordine.
Pertanto è legittima l'ingiunzione a demolire emessa in
pendenza di sequestro penale sul manufatto abusivo, dal
momento che è onere del responsabile motivatamente domandare
all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile e,
pertanto, qualora il soggetto obbligato neppure dimostri di
aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di
demolirlo, non può successivamente far valere il fatto del
sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della
demolizione.
Sul punto, il Collegio osserva che <La circostanza che
l'immobile abusivamente realizzato sia sottoposto a
sequestro penale non osta all'adozione dell'ordine di
demolizione, dal momento che è possibile motivatamente
domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro
dell'immobile proprio al fine di ottemperare al predetto
ordine> (cfr., TAR Salerno Campania sez. II, 24.04.2012,
n. 802).
Pertanto è legittima l'ingiunzione a demolire emessa in
pendenza di sequestro penale sul manufatto abusivo, dal
momento che è onere del responsabile motivatamente domandare
all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile e,
pertanto, qualora il soggetto obbligato neppure dimostri di
aver richiesto il dissequestro del bene allo scopo di
demolirlo, non può successivamente far valere il fatto del
sequestro quale causa di forza maggiore impeditiva della
demolizione (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 27.05.2013 n. 5274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le circolari amministrative costituiscono atti
interni, diretti agli organi e agli uffici periferici, ai
fini di disciplinarne l'attività e, conseguentemente,
vincolano i comportamenti degli organi operativi
sottordinati, ma non i soggetti destinatari estranei
all'Amministrazione, che non hanno neppure l'onere
dell'impugnativa, potendo direttamente contestare la
legittimità dei provvedimenti applicativi.
Di conseguenza la Pubblica amministrazione non può negare al
privato il rilascio di un atto ampliativo trincerandosi
dietro l'esistenza e il contenuto di una circolare,
risultando quest'ultima, piuttosto, un atto interno di
autodisciplina di una generalità di fattispecie astratte, la
quale tuttavia deve trovare la giusta collocazione nel caso
concreto che l'Amministrazione deve valutare singolarmente.
È da rilevare anzitutto che “Le circolari
amministrative costituiscono atti interni, diretti agli
organi e agli uffici periferici, ai fini di disciplinarne
l'attività e, conseguentemente, vincolano i comportamenti
degli organi operativi sottordinati, ma non i soggetti
destinatari estranei all'Amministrazione, che non hanno
neppure l'onere dell'impugnativa, potendo direttamente
contestare la legittimità dei provvedimenti applicativi; di
conseguenza la Pubblica amministrazione non può negare al
privato il rilascio di un atto ampliativo trincerandosi
dietro l'esistenza e il contenuto di una circolare,
risultando quest'ultima, piuttosto, un atto interno di
autodisciplina di una generalità di fattispecie astratte, la
quale tuttavia deve trovare la giusta collocazione nel caso
concreto che l'Amministrazione deve valutare singolarmente"
(Tar Lecce, sez. I, 10.10.2012, n. 1653; nello stesso
senso Cons. St., sez. VI, 13.09.2012, n. 4859)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1215
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'ordinanza contingibile ed urgente prevista
dagli art. 50 e 54, d.lgs. n. 267 del 2000 è espressione di
un potere residuale e atipico; il presupposto per l’adozione
dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo per l’incolumità
pubblica, l’igiene o la sanità, dotato del carattere di
eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi
immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione
di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
L’ordinanza deve avere, come requisito di legittimità
formale, una motivazione che dia conto della sussistenza
concreta (necessità immediata e tempestiva tutela di
interessi pubblici, come la salute o l'incolumità, che in
ragione della situazione di emergenza non potrebbero essere
protetti in modo adeguato, ricorrendo alla via ordinaria) e
costituisce espressione di una elevata discrezionalità
diretta a soddisfare esigenze di pubblico interesse onde
porre rimedio a danni già verificatisi, ma anche e
soprattutto, tenuto conto dei valori espressi dall'art. 32
cost., per evitare che un danno si verifichi.
Pertanto, ai sensi degli art. 50 e 54, t.u.e.l., per
giustificare il ricorso allo strumento dell’ordinanza, il
collegamento con le esigenze di protezione dell’igiene,
della salute pubblica o dell’incolumità costituisce
presupposto necessario ma non sufficiente, qualora non
sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza.
L'ordinanza contingibile ed urgente
prevista dagli art. 50 e 54, d.lgs. n. 267 del 2000 è
espressione di un potere residuale e atipico; il presupposto
per l’adozione dell'ordinanza extra ordinem è il pericolo
per l’incolumità pubblica, l’igiene o la sanità, dotato del
carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile
interventi immediati ed indilazionabili, consistenti
nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico
del privato.
L’ordinanza deve avere, come requisito di
legittimità formale, una motivazione che dia conto della
sussistenza concreta (necessità immediata e tempestiva
tutela di interessi pubblici, come la salute o l'incolumità,
che in ragione della situazione di emergenza non potrebbero
essere protetti in modo adeguato, ricorrendo alla via
ordinaria) e costituisce espressione di una elevata
discrezionalità diretta a soddisfare esigenze di pubblico
interesse onde porre rimedio a danni già verificatisi, ma
anche e soprattutto, tenuto conto dei valori espressi
dall'art. 32 cost., per evitare che un danno si verifichi.
Pertanto, ai sensi degli art. 50 e 54, t.u.e.l., per
giustificare il ricorso allo strumento dell’ordinanza, il
collegamento con le esigenze di protezione dell’igiene,
della salute pubblica o dell’incolumità costituisce
presupposto necessario ma non sufficiente, qualora non
sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza
(Tar, Lazio, sez. II, 02.01.2012, n. 4).
La Corte costituzionale ha poi di recente escluso
l’esistenza di un generale potere sindacale di emettere tale
tipo di ordinanze, dichiarando costituzionalmente
illegittima la norma su cui lo stesso potere extra ordinem
si fonda (art. 54, comma 4, d.lgs. n. 267/2000 come
sostituito dall'art. 6 del D.L. n. 92/2008 conv. con legge
n. 125/2008) nella parte in cui comprendeva la locuzione
"anche" prima delle parole "contingibili ed urgenti" (cfr.
decisione n. 115 del 04.04.2011), determinando quindi
l’essenzialità dei requisiti della contingibilità ed
urgenza.
Posti questi principi, l’ordinanza in questione è
illegittima perché è stata adottata con la finalità di
dirimere questioni attinenti a rapporti privatistici e senza
dimostrare la ricorrenza effettiva di un pericolo per la
pubblica incolumità.
Infatti, risulta abbastanza chiaramente dagli atti di causa
che l’esercizio dei poteri d’urgenza è preordinato non già a
prevenire situazioni igienico-sanitarie o di ordine
pubblico, ma a dirimere questioni insorti nei rapporti
contrattuali tra la società ricorrente e i singoli utenti.
In sostanza, l’ordinanza è espressione di uno sviamento, che
vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale
gestore-utente, impedire al gestore medesimo di azionare i
rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di
acqua nei confronti di utenti non in regola col pagamento
della prevista tariffa
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’atto con cui la stazione appaltante, in
conseguenza dell’informativa prefettizia, recede dal
contratto è espressione di un potere di valutazione di
natura pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di
evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti
contrattuali con imprese nei cui confronti emergano sospetti
di legami con la criminalità organizzata.
Pertanto, trattandosi di atto estraneo alla sfera del
diritto privato, in quanto espressione di un potere
autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del
contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase
di esecuzione del contratto, la relativa controversia
appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo.
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Con riferimento alla cd. interdittiva antimafia "tipica" la
giurisprudenza amministrativa ha affermato:
- che l'interdittiva prefettizia antimafia costituisce una
misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità
organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con
la pubblica amministrazione;
- che, trattandosi di una misura a carattere preventivo, l'interdittiva
prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali
nei confronti dei soggetti che, nell'esercizio di attività
imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica
amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai
diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza,
dal Prefetto territorialmente competente;
- che tale valutazione costituisce espressione di ampia
discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del
giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua
logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- che, essendo il potere esercitato espressione della logica
di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata
ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto
alle attività della criminalità organizzata, la misura
interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad
accertamenti in sede penale di carattere definitivo
sull'esistenza della contiguità dell'impresa con
organizzazioni malavitose e quindi del condizionamento in
atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da
elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti
elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di
ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità
organizzata;
- che, anche se occorre che siano individuati idonei e
specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e
rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti
con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano
l'instaurazione di un rapporto dell'impresa con la pubblica
amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione
probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare
l'appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso, potendo l'interdittiva fondarsi su
fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e
con l'ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo;
- che di per sé non basta a dare conto del tentativo di
infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti
risultati appartenenti alla criminalità organizzata (non
potendosi presumere in modo automatico il condizionamento
dell'impresa), ma occorre che l'informativa antimafia
indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori
elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre
possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto
l'autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e
l'impresa esercitata da loro congiunti;
- che, infine, gli elementi raccolti non vanno considerati
separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia
configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale
possa ritenersi attendibile l'esistenza di un
condizionamento da parte della criminalità organizzata.
Con riferimento al contratto di appalto, si è
rilevato che l’atto con cui la stazione appaltante, in
conseguenza dell’informativa prefettizia, recede dal
contratto è espressione di un potere di valutazione di
natura pubblicistica, diretto a soddisfare l'esigenza di
evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti
contrattuali con imprese nei cui confronti emergano sospetti
di legami con la criminalità organizzata.
Pertanto,
trattandosi di atto estraneo alla sfera del diritto privato,
in quanto espressione di un potere autoritativo di
valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui
esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del
contratto, la relativa controversia appartiene alla
giurisdizione del giudice amministrativo (Cass. Civ., Sez..
Un,. 29.08.2008, n. 21928).
--------------
Si deve al
riguardo ricordare che, con riferimento alla cd. interdittiva antimafia "tipica", prevista dall'art. 4 del D.Lgs. n. 490 del 1994 e dall'art. 10 del D.P.R.
03.06.1998, n. 252 (ed oggi dagli articoli 91 e segg. del D.Lgs.
06.09.2011, n. 159, recante il Codice delle leggi
antimafia e delle misure di prevenzione) la giurisprudenza
amministrativa (Cons. St., sez. III, 19.01.2012) ha
affermato:
- che l'interdittiva prefettizia antimafia costituisce una
misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità
organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con
la pubblica amministrazione;
- che, trattandosi di una misura a carattere preventivo, l'interdittiva
prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali
nei confronti dei soggetti che, nell'esercizio di attività
imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica
amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai
diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza,
dal Prefetto territorialmente competente;
- che tale valutazione costituisce espressione di ampia
discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del
giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua
logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- che, essendo il potere esercitato espressione della logica
di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata
ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto
alle attività della criminalità organizzata, la misura
interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad
accertamenti in sede penale di carattere definitivo
sull'esistenza della contiguità dell'impresa con
organizzazioni malavitose e quindi del condizionamento in
atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da
elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti
elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di
ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità
organizzata;
- che, anche se occorre che siano individuati idonei e
specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e
rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti
con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano
l'instaurazione di un rapporto dell'impresa con la pubblica
amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione
probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare
l'appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso, potendo l'interdittiva fondarsi su
fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e
con l'ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo;
- che di per sé non basta a dare conto del tentativo di
infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti
risultati appartenenti alla criminalità organizzata (non
potendosi presumere in modo automatico il condizionamento
dell'impresa), ma occorre che l'informativa antimafia
indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori
elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre
possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto
l'autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e
l'impresa esercitata da loro congiunti;
- che, infine, gli elementi raccolti non vanno considerati
separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia
configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale
possa ritenersi attendibile l'esistenza di un
condizionamento da parte della criminalità organizzata (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
All'azione di
risarcimento danni spiegata dinanzi al giudice
amministrativo si applica il principio dell'onere della
prova previsto nell'art. 2697 c.c., in virtù del quale
spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti
gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e
segnatamente del danno di cui si invoca il ristoro per
equivalente monetario.
Conseguentemente, laddove la domanda di risarcimento danni
si presenti genericamente formulata, e non sia corredata
dalla prova del danno da risarcire, essa deve essere
respinta
Per
giurisprudenza consolidata, dalla quale il Collegio non ha
motivo nella specie di discostarsi, all'azione di
risarcimento danni spiegata dinanzi al giudice
amministrativo si applica il principio dell'onere della
prova previsto nell'art. 2697 c.c., in virtù del quale
spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti
gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e
segnatamente del danno di cui si invoca il ristoro per
equivalente monetario (ex multis, C.G.A.R.S. 12.05.2010,
n. 640; TAR Lombardia, sez. IV, 10.06.2010, n. 1787;
TAR Cagliari, sez. II, 05.02.2010, n. 126).
Conseguentemente, laddove la domanda di risarcimento danni
si presenti genericamente formulata, e non sia corredata
dalla prova del danno da risarcire, essa deve essere
respinta (C.d.S., sez. VI, 17.07.2008, n. 3592).
Nel caso in esame, i ricorrenti non hanno fornito alcun
elemento idoneo a dimostrare nell’an e nel quantum il
pregiudizio del quale si invoca il ristoro
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le prescrizioni contenute nel bando gara
costituiscono la lex specialis della gara stessa, che
vincolano non solo i concorrenti ma anche la stessa
amministrazione, la quale non dispone di alcun margine di
discrezionalità nella loro concreta attuazione né può
disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse
risultino inopportune, salva la possibilità di far luogo,
nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento
d'ufficio del bando.
Invero, in sede di gara indetta per l'aggiudicazione di un
contratto, la p.a. è tenuta ad applicare le regole fissate
nel bando, atteso che questo, unitamente alla lettera
d'invito, costituisce la lex specialis della gara, che non
può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure
nel caso in cui talune delle regole in essa contenute
risultino non conformi allo ius superveniens, salvo
naturalmente l'esercizio del potere di autotutela; tale
soluzione è giustificata dal rilievo che il bando è atto
amministrativo a carattere normativo e lex specialis della
procedura, rispetto al quale l'eventuale ius superveniens di
abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti
innovatori.
È da rilevare anzitutto che le
prescrizioni contenute nel bando gara costituiscono la lex
specialis della gara stessa, che vincolano non solo i
concorrenti ma anche la stessa amministrazione, la quale non
dispone di alcun margine di discrezionalità nella loro
concreta attuazione né può disapplicarle neppure nel caso in
cui talune di esse risultino inopportune, salva la
possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di
autotutela, all'annullamento d'ufficio del bando.
La giurisprudenza ha infatti precisato che “In sede di gara
indetta per l'aggiudicazione di un contratto, la p.a. è
tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che
questo, unitamente alla lettera d'invito, costituisce la lex
specialis della gara, che non può essere disapplicata nel
corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle
regole in essa contenute risultino non conformi allo ius
superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di
autotutela; tale soluzione è giustificata dal rilievo che il
bando è atto amministrativo a carattere normativo e lex
specialis della procedura, rispetto al quale l'eventuale ius
superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha
effetti innovatori” (Cons. St., sez. IV 29.01.2008, n.
263)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 23.05.2013 n. 1205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La realizzazione di
un'opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero
legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di
legge, non è di per sé in grado di determinare il
trasferimento della proprietà del bene a favore della
Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato
l'orientamento che riconnetteva alla costruzione dell'opera
pubblica e alla irreversibile trasformazione del fondo che a
essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela
in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi
che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente
occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a
titolo d'acquisto.
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio
giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R.
327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa
che in assenza di un tale atto è obbligo primario della
Amministrazione quello di restituire il fondo
illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di
questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un
risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del
fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e
per il risarcimento del danno conseguente al mancato
godimento del bene durante il periodo di occupazione
illegittima.
Secondo la
meno recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra
le ultime di quell’orientamento: Sez. Un. Civili, 23.05.2008, n. 13358) "si ha occupazione acquisitiva o appropriativa quando il fondo occupato nell'ambito di una
procedura espropriativa ha subito una irreversibile
trasformazione in esecuzione di un'opera di pubblica utilità
senza che sia intervenuto il decreto di esproprio o altro
atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà.
In tale ipotesi il trasferimento del diritto di proprietà in
capo alla mano pubblica si realizza con l'irreversibile
trasformazione del fondo -con destinazione ad opera
pubblica o di uso pubblico- ed il proprietario di esso può
chiedere unicamente la tutela per equivalente, cioè il
risarcimento del danno. Infatti è dal momento
dell'irreversibile trasformazione del bene e della sua
destinazione ad opera pubblica che si verifica l'estinzione
del diritto di proprietà in capo al titolare ed il
contestuale acquisto dello stesso diritto, a titolo
originario, da parte dell'ente pubblico."
Tale orientamento è stato messo in discussione dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo, che lo ha ritenuto non
aderente alla Convenzione europea (sent. 30.05.2000, rich. n. 24638/94, Carbonara e Ventura, e 30.05.2000, rich. n. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera) in quanto
un comportamento illecito o illegittimo non può essere posto
a base dell'acquisto di un diritto, per cui l'accessione
invertita contrasta con il principio di legalità, inteso
come preminenza del diritto sul fatto; ne consegue che la
realizzazione dell'opera pubblica non costituisce di per se
impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente
occupata.
Successivamente l'articolo 43 del d.p.r. n. 327 del 2001 ha
stabilito al primo comma che: "valutati gli interessi in
conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per
scopi di interesse pubblico, in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano
risarciti i danni."
Tale articolo è stato poi dichiarato incostituzionale con
sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010 e
successivamente è entrato in vigore l'art. 34, comma 1, del
decreto legge 06.07.2011, n. 98, convertito nella legge
15.07.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto normativo
formatosi a seguito della richiamata sentenza della Corte
Costituzionale, inserendo nel testo unico sugli espropri
l'art. 42-bis, il quale ha previsto al comma 1 che, in caso
di occupazione senza titolo del bene privato per scopi di
pubblica utilità, l'Amministrazione "valutati gli interessi
in conflitto" può disporre, con formale provvedimento,
l'acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile, con
la corresponsione al privato di un indennizzo per il
pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale, e al
comma 8 che le sue disposizioni "trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori".
Quanto all’orientamento giurisprudenziale formatosi di
recente sul punto, è ormai consolidato in giurisprudenza il
principio per cui la realizzazione di un'opera pubblica su
fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente
occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di
per sé in grado di determinare il trasferimento della
proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve
infatti ritenersi ormai superato l'orientamento che
riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e alla
irreversibile trasformazione del fondo che a essa conseguiva
effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma
specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la
suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato
integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo
d'acquisto (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008; TAR
Puglia-Bari sez. I n. 3402/2010, confermata da C.d.S. sez. IV n. 4590/2011; C.d.S. sez. IV n. 4970/2011; C.d.S. sez. IV
n. 3331/2011).
Il diritto di proprietà, d'altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi (TAR Puglia-Bari sez. III n.
2131/08, par. 6.1.2), e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata a ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell'opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall'opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile a un negozio
giuridico, ovvero al provvedimento ex art. 42-bis D.P.R.
327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che
in assenza di un tale atto è obbligo primario della
Amministrazione quello di restituire il fondo
illegittimamente appreso (C.d.S. n. 4970/2011).
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di
questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un
risarcimento commisurato alla perdita della proprietà del
fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e
per il risarcimento del danno conseguente al mancato
godimento del bene durante il periodo di occupazione
illegittima (TAR Puglia-Bari sez. II n. 2131/2008)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Vanno attribuiste alla giurisdizione
amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che
abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima,
e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei
termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio; ciò
in quanto in questi casi trattasi non già di meri
comportamenti materiali, ma di condotte costituenti
espressione di un'azione originariamente riconducibile
all'esercizio del potere autoritativo della p.a.
Altresì, rientra nella giurisdizione del giudice
amministrativo l'azione con la quale i proprietari di
un'area hanno chiesto la restituzione del fondo o, in
subordine il risarcimento dei danni, o viceversa, deducendo
la sopravvenuta illegittimità degli atti di occupazione,
ancorché originariamente avvenuti a seguito di una corretta
dichiarazione di pubblica utilità; rientra, invece, nella
giurisdizione del giudice ordinario la domanda relativa alla
richiesta dell'indennità di occupazione legittima, senza che
l'eventuale connessione tra tale domanda e quella di
risarcimento del danno possa giustificare l'attribuzione di
entrambe le domande allo stesso giudice, essendo indiscusso
in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità
della giurisdizione anche in presenza di motivi di
connessione.
---------------
Il danno da occupazione illegittima si ricollega a una
condotta antigiuridica con carattere permanente, in quanto
si protrae nel tempo e dà luogo ad una serie di fatti
illeciti, a partire dall'iniziale apprensione del bene, con
riferimento a ciascun periodo in relazione al quale si
determina la perdita di detti frutti, con la conseguenza che
in ogni momento sorge per il proprietario il diritto al
risarcimento del danno già verificatosi e nello stesso
momento decorre il relativo termine di prescrizione
quinquennale; pertanto, il diritto al risarcimento dei danni
rimane colpito dalla prescrizione per il periodo anteriore
al quinquennio precedente la proposizione della domanda,
anche qualora i frutti vengano richiesti secondo il criterio
dell'attribuzione degli interessi compensativi sulla somma
corrispondente al valore venale dell'immobile.
Difatti, muovendosi dal rilievo che neanche il protrarsi
dell’occupazione può costituire fattore impeditivo
all’esercizio del diritto al risarcimento, deve concludersi
nel senso che la prescrizione ricomincia a decorrere da ogni
momento dell’illecito permanente (de die in diem); il
risultato è che, in assenza di validi atti interruttivi, il
diritto al risarcimento deve essere riconosciuto unicamente
per i cinque anni di occupazione anteriori alla proposizione
dell’azione risarcitoria.
---------------
Quanto al dedotto intervento dell’istituto della c.d.
dicatio ad patriam, questo presuppone storicamente una
manifestazione di volontà del privato proprietario nel senso
dell'asservimento all'uso pubblico (dicatio ad patriam), che
sussiste (ad esempio) quando vi sia stata una convenzione di
lottizzazione o analogo atto d'obbligo, relativo alla
realizzazione dei c.d. standards, seguita dalla
trasformazione del suolo mediante la realizzazione
dell'opera e dall'effettiva utilizzazione di quest'ultima in
conformità al progetto, ancorché sia rimasta inadempiuta
l'obbligazione di trasferire all'ente pubblico la proprietà.
Inoltre, costituisce strada pubblica quel tratto viario
avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o
sbocco su pubbliche vie nonché la destinazione al transito
di un numero indifferenziato di persone.
Sotto quest'ultimo aspetto, un'area privata può ritenersi
assoggettata a uso pubblico di passaggio quando l'uso
avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un
pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli
ossia quali soggetti che si trovano in una posizione
qualificata rispetto al bene gravato.
In sintesi, l'adibizione a uso pubblico di un'area può
avvenire, mediante la c.d. dicatio ad patriam , con il
comportamento del proprietario che mette il bene a
disposizione della collettività indeterminata di cittadini,
oppure con l'uso del bene da parte della collettività
indifferenziata protratto nel tempo, di talché il bene
stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle
di un bene demaniale.
Insomma, perché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico è necessario oltreché l'intrinseca idoneità del
bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone per soddisfare un pubblico,
generale interesse.
Sostanzialmente, quanto alla dicatio ad patriam e
all’acquisto della proprietà o di una servitù di uso
pubblico, rilevano essenzialmente: 1) l’esistenza di una
manifestazione di liberalità da parte del proprietario
(nella specie inesistente) nel caso di dicatio ad patriam;
2) il decorso di venti anni per l’acquisto della servitù di
uso pubblico o della proprietà per usucapione.
E’ oramai consolidato l'orientamento che
attribuisce alla giurisdizione amministrativa le
controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi
divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il
sopravvenire di un valido decreto di esproprio; ciò in
quanto in questi casi trattasi non già di meri comportamenti
materiali, ma di condotte costituenti espressione di
un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del
potere autoritativo della p.a. (cfr. Cons. Stato, Ad. Pl.,
22.10.2007, nr. 12; id., 30.07.2007, nr. 9; id., 30.08.2005, nr. 4; C.g.a.r.s., 10.11.2010, nr. 1410;
Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2008, nr. 5498).
E’ stato anche affermato che rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo l'azione con la quale i proprietari
di un'area hanno chiesto la restituzione del fondo o, in
subordine il risarcimento dei danni, o viceversa, deducendo
la sopravvenuta illegittimità degli atti di occupazione,
ancorché originariamente avvenuti a seguito di una corretta
dichiarazione di pubblica utilità; rientra, invece, nella
giurisdizione del giudice ordinario la domanda relativa alla
richiesta dell'indennità di occupazione legittima, senza che
l'eventuale connessione tra tale domanda e quella di
risarcimento del danno possa giustificare l'attribuzione di
entrambe le domande allo stesso giudice, essendo indiscusso
in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità
della giurisdizione anche in presenza di motivi di
connessione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 04.02.2011, n. 804).
---------------
Devono
respingersi le eccezioni sollevate dalla difesa civica con
le quali si eccepisce oltre alla prescrizione del diritto
del ricorrente al risarcimento dei danni subiti, anche la
c.d. “dicatio ad patriam” ossia l’acquisto della natura
demaniale di una strada privata.
Escluso che la realizzazione dell’opera pubblica determini
l’acquisizione dell’area alla mano pubblica, secondo
l’indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di
aderire (Cfr. Cass. civ., sez. I, 07.03.2011, nr. 5381;
Cons. Stato, sez. IV, 02.08.2011, nr. 4590), il danno da
occupazione illegittima si ricollega a una condotta
antigiuridica con carattere permanente, in quanto si protrae
nel tempo e dà luogo ad una serie di fatti illeciti, a
partire dall'iniziale apprensione del bene, con riferimento
a ciascun periodo in relazione al quale si determina la
perdita di detti frutti, con la conseguenza che in ogni
momento sorge per il proprietario il diritto al risarcimento
del danno già verificatosi e nello stesso momento decorre il
relativo termine di prescrizione quinquennale; pertanto, il
diritto al risarcimento dei danni rimane colpito dalla
prescrizione per il periodo anteriore al quinquennio
precedente la proposizione della domanda, anche qualora i
frutti vengano richiesti secondo il criterio
dell'attribuzione degli interessi compensativi sulla somma
corrispondente al valore venale dell'immobile.
Difatti, muovendosi dal rilievo che neanche il protrarsi
dell’occupazione può costituire fattore impeditivo
all’esercizio del diritto al risarcimento, deve concludersi
nel senso che la prescrizione ricomincia a decorrere da ogni
momento dell’illecito permanente (de die in diem); il
risultato è che, in assenza di validi atti interruttivi, il
diritto al risarcimento deve essere riconosciuto unicamente
per i cinque anni di occupazione anteriori alla proposizione
dell’azione risarcitoria.
Nella specie, il ricorrente ha inviato una prima richiesta
con racc. del 22.09.1995, una successiva con nota del
25.03.1997 e un’altra in data 04.02.2002 sicché, essendo
intervenuti atti interruttivi della prescrizione, questa non
risulta maturata, con conseguente diritto al risarcimento a
far data dalla occupazione del bene, ossia dal 23.11.1992 ( come risulta dal processo verbale di consegna del 23.11.1992).
Quanto al secondo aspetto, ossia al dedotto intervento
dell’istituto della c.d. dicatio ad patriam, questo
presuppone storicamente una manifestazione di volontà del
privato proprietario nel senso dell'asservimento all'uso
pubblico (dicatio ad patriam), che sussiste (ad esempio)
quando vi sia stata una convenzione di lottizzazione o
analogo atto d'obbligo, relativo alla realizzazione dei c.d. standards, seguita dalla trasformazione del suolo mediante
la realizzazione dell'opera e dall'effettiva utilizzazione
di quest'ultima in conformità al progetto, ancorché sia
rimasta inadempiuta l'obbligazione di trasferire all'ente
pubblico la proprietà.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, inoltre,
costituisce strada pubblica quel tratto viario avente
finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco
su pubbliche vie (Cass. Civ., Sez. II, 07.04.2000 n. 4345;
idem, 28.11.1988 n. 6412) nonché la destinazione al
transito di un numero indifferenziato di persone (Cons.
Stato, Sez. V, 07.12.2010 n. 8624).
Sotto quest'ultimo aspetto, un'area privata può ritenersi
assoggettata a uso pubblico di passaggio quando l'uso
avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un
pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli
ossia quali soggetti che si trovano in una posizione
qualificata rispetto al bene gravato (Cons. Stato, Sez. V,
14.02.2012 n. 728).
In sintesi, l'adibizione a uso pubblico di un'area può
avvenire, mediante la c.d. dicatio ad patriam , con il
comportamento del proprietario che mette il bene a
disposizione della collettività indeterminata di cittadini,
oppure con l'uso del bene da parte della collettività
indifferenziata protratto nel tempo, di talché il bene
stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle
di un bene demaniale (Cass. Civ., Sez. II, 21.05.2001
n. 6924; idem, 13.02.2006 n. 3075).
Insomma, la giurisprudenza con gli enunciati sopra esposti
afferma che perché un'area possa ritenersi sottoposta ad un
uso pubblico è necessario oltreché l'intrinseca idoneità del
bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone per soddisfare un pubblico,
generale interesse.
Sostanzialmente, quanto alla dicatio ad patriam e
all’acquisto della proprietà o di una servitù di uso
pubblico, rilevano essenzialmente: 1) l’esistenza di una
manifestazione di liberalità da parte del proprietario (nella specie inesistente) nel caso di
dicatio ad patriam;
2) il decorso di venti anni per l’acquisto della servitù di
uso pubblico o della proprietà per usucapione.
Nella specie, non vi è stato alcun atto del privato idoneo a
dar luogo alla dicatio ad patriam e comunque
l’amministrazione comunale non ha in alcun modo provato la
sussistenza degli elementi costitutivi all’uopo necessari (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Se è vero che nel rapporto di pubblico impiego
non può essere liquidato legittimamente alcun compenso per
lavoro straordinario quando manchi una preventiva e formale
autorizzazione al relativo svolgimento da parte
dell'amministrazione, perché solo in questo modo è possibile
controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la reale
esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono
opportuno il ricorso a tali prestazioni, tuttavia, detta
autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso
di prestazioni di lavoro straordinario espletate per
improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione
stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il
dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il
normale orario d'ufficio".
Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve
essere pagato, sul presupposto che i competenti organi
dell'Amministrazione ne abbiano riconosciuto l’utilità, e
abbiano accertato la necessità e sostenibilità della
relativa spesa.
Laddove manchi l'autorizzazione preventiva espressa, spetta
a chi pretende il relativo pagamento dimostrare l'esistenza
dei presupposti per il pagamento, consistenti
nell'autorizzazione a sanatoria o nella dimostrazione del
verificarsi di una situazione di fatto che ha reso
imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni
straordinarie, in applicazione del principio di cui all'art.
2967 c.c..
E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è
attenuato, in quanto la documentazione necessaria è
normalmente nella disponibilità dell'Amministrazione, ma
solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo,
di un principio di prova, che legittimi l'esperimento di
incombenti istruttori.
Secondo orientamento giurisprudenziale
pacificamente seguito (C. di S. IV, 31.03.2005, n. 1445)
"se è vero che nel rapporto di pubblico impiego non può
essere liquidato legittimamente alcun compenso per lavoro
straordinario quando manchi una preventiva e formale
autorizzazione al relativo svolgimento da parte
dell'amministrazione, perché solo in questo modo è possibile
controllare, nel rispetto dell'art. 97 cost., la reale
esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono
opportuno il ricorso a tali prestazioni, tuttavia, detta
autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso
di prestazioni di lavoro straordinario espletate per
improcrastinabili esigenze di servizio e l'autorizzazione
stessa è implicita nello svolgimento dell'attività cui il
dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il
normale orario d'ufficio".
Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve
essere pagato, sul presupposto che i competenti organi
dell'Amministrazione ne abbiano riconosciuto l’utilità, e
abbiano accertato la necessità e sostenibilità della
relativa spesa.
Laddove manchi l'autorizzazione preventiva espressa, spetta
a chi pretende il relativo pagamento dimostrare l'esistenza
dei presupposti per il pagamento, consistenti
nell'autorizzazione a sanatoria o nella dimostrazione del
verificarsi di una situazione di fatto che ha reso
imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni
straordinarie, in applicazione del principio di cui all'art.
2967 c.c..
E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è
attenuato, in quanto la documentazione necessaria è
normalmente nella disponibilità dell'Amministrazione, ma
solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo,
di un principio di prova, che legittimi l'esperimento di
incombenti istruttori.
Nella specie manca alcun principio di prova, così come manca
la determinatezza della domanda (non esplicitandosi il monte
ore effettuato e i giorni interessati in concreto) tanto più
che l’Amministrazione previdenziale, a seguito di ordinanza
istruttoria adottata dalla sezione, ha prodotto i cedolini
relativi alla retribuzione percepita mensilmente dall’avv.
Licci nel periodo compreso tra novembre 1992 e luglio 1997
dai quali risultano le ore di straordinario effettuate e i
relativi emolumenti corrisposti.
Appare quindi evidente come la pretesa si evidenzi del tutto
infondata e priva di qualsivoglia supporto fattuale
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 1172 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora le preesistenti canne fumarie per le loro
caratteristiche di funzionamento, di combustione e di
diffusione di fumi, vengono comunque a determinare gravi
inconvenienti igienico-sanitari per gli abitanti delle
costruzioni vicine a causa della nocività dei fumi immessi
nell’atmosfera o della loro cattiva dispersione, la
competente Autorità è comunque facoltizzata a porre rimedio
a tale situazione di fastidio e di pericolo per la salute
pubblica, anche attraverso l’imposizione di obblighi di
adeguamento degli impianti di dispersione dei fumi alle
norme regolamentari sopravvenute, se in grado di eliminare o
di attenuare la preesistente situazione di rischio igienico
sanitario.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima l'ordinanza di
rimozione della canna fumaria senza convenientemente
procedere ad una doverosa ricerca di eventuali soluzioni
alternative, idonee ad eliminare il paventato rischio di
inquinamento.
Tale valutazione, ad avviso del collegio, sarebbe stata
nella fattispecie vieppiù necessaria in considerazione
proprio della preesistenza della canna fumaria ad un
regolamento intervenuto a distanza di decenni.
Infine, la evidenziata necessità di una scelta
amministrativa più ponderata (l’adeguamento non si
identifica con la rimozione) non può che giustificare
l’ulteriore doglianza espressa dalla ricorrente in ordine
alla omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art.
7 L. n. 241/1990.
Va da sé infatti che l’assenza di un vincolo puntuale
avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione a garantire la
partecipazione dell’interessato ai fini, evidentemente, di
una soluzione tecnico-amministrativa la più appropriata.
L’art 194 del Regolamento di igiene e sanità del
comune di Monteroni, entrato in vigore il 27/12/1974,
stabilisce che “le tubazioni di scarico di fumi, fuliggini,
polveri, gas, vapori, devono essere portate ad esalare fin
sopra del tetto e la bocca di scarico deve trovarsi ad una
distanza, misurata orizzontalmente, non inferiori a m. 3
dalla verticale innalzata dal ciglio stradale o dal limite
di altri spazi pubblici o di proprietà di terzi”.
In applicazione di tale disposizione, quindi, il
responsabile del Servizio urbanistica–edilizia pubblica e
privata ha ritenuto di dover ordinare alla ricorrente sig.ra Madaro la rimozione della canna fumaria insistente sul
fabbricato di sua proprietà, sito in via D’Arpe n. 12, in
quanto non conformi alla distanza e all’altezza previste.
Orbene, la ricorrente sostanzialmente sostiene che nessuna
violazione delle norme disciplinanti le distanze della
proprietà vicinale può essere a lei ascritta, posto che
l’immobile dotato di canna fumaria sarebbe stato costruito
alla fine del secolo XIX, senza che nel tempo fosse
intervenuto alcun intervento strutturale (la canna fumaria
sarebbe stata interessata soltanto da lavori di pulizia e
manutenzione).
Sicché la situazione contraria a regolamento sarebbe stata
semmai determinata dalla stessa sig.ra Cappello
(denunciante) la quale, soltanto negli anni successivi al
1977 (conc. edilizia n. 287/1977 e n. 111/1980), avrebbe
realizzato la sopraelevazione della propria abitazione a
piano terra, nonché la costruzione di un ripostiglio al
secondo piano.
Ciò stante non è dubbio, in base ai condivisibili
orientamenti giurisprudenziali richiamati dalla ricorrente,
che lo ius superveniens sulle distanze tra gli edifici non
può, di norma, esplicare efficacia retroattiva su situazioni
già consolidate.
Occorre tuttavia rilevare come l’ordinanza impugnata non è
stata adottata nell’esercizio del potere di controllo in
materia edilizia, bensì per rimediare agli inconvenienti
igienico-sanitari prodotti da una canna fumaria non conforme
al sopravvenuto Regolamento comunale in materia.
Nonostante quindi il su richiamato principio di
irretroattività, ritiene il Collegio di poter ribadire che
“qualora le preesistenti canne fumarie per le loro
caratteristiche di funzionamento, di combustione e di
diffusione di fumi, vengono comunque a determinare gravi
inconvenienti igienico-sanitari per gli abitanti delle
costruzioni vicine a causa della nocività dei fumi immessi
nell’atmosfera o della loro cattiva dispersione, la
competente Autorità sia comunque facoltizzata a porre
rimedio a tale situazione di fastidio e di pericolo per la
salute pubblica, anche attraverso l’imposizione di obblighi
di adeguamento degli impianti di dispersione dei fumi alle
norme regolamentari sopravvenute, se in grado di eliminare o
di attenuare la preesistente situazione di rischio igienico
sanitario” (TAR Marche sent. n. 960 del 06/08/2003).
Appare però evidente come, nel caso in esame, il comune di
Monteroni sia pervenuto alla determinazione di ordinare la
rimozione della canna fumaria senza convenientemente
procedere ad una doverosa ricerca di eventuali soluzioni
alternative, idonee ad eliminare il paventato rischio di
inquinamento.
Tale valutazione, ad avviso del collegio, sarebbe stata
nella fattispecie vieppiù necessaria in considerazione
proprio della preesistenza della canna fumaria ad un
regolamento intervenuto a distanza di decenni.
D’altro canto la stessa sig.ra Cappello, dal cui esposto
muove il comune di Monteroni per assumere la contestata
determinazione, si limita soltanto a sollecitare un
adeguamento della canna fumaria in questione.
Infine, la evidenziata necessità di una scelta
amministrativa più ponderata (l’adeguamento non si
identifica con la rimozione) non può che giustificare
l’ulteriore doglianza espressa dalla ricorrente in ordine
alla omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7
L. n. 241/1990.
Va da sé infatti che l’assenza di un vincolo puntuale
avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione a garantire la
partecipazione dell’interessato ai fini, evidentemente, di
una soluzione tecnico-amministrativa la più appropriata.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso pertanto
deve essere accolto fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
che l’Amministrazione, previo contraddittorio, riterrà di
dover adottare
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 22.05.2013 n. 1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per emanare l'ordine di demolizione non è
necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex
art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati: il presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla
constatata esecuzione dell’opera in totale difformità o in
assenza del titolo abilitativo, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse
pubblico alla sua rimozione.
Ciò premesso il Collegio, con
riferimento ai motivi di ricorso che per la loro
correlazione possono essere trattati congiuntamente, deve
rilevare che l’ordinanza impugnata, emanata in esito al
sopralluogo compiuto nel gennaio 2011, costituisce atto
dovuto e vincolato e contiene il mero ordine di ripristino
dello stato dei luoghi e ha quindi natura di diffida a
demolire.
Per tale ordine di demolizione, quindi, non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. n. 241
del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati: il presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla
constatata esecuzione dell’opera in totale difformità o in
assenza del titolo abilitativo, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse
pubblico alla sua rimozione (Tar Lazio Roma, I, 13.06.2012, n. 5370; Consiglio di Stato, IV, 18.09.2012, n.
4945; Tar Puglia Lecce, III, 28.09.2012 n. 1621)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 20.05.2013 n. 1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il proprietario di un
immobile confinante con quello per il quale è stato
rilasciato il permesso di costruire ha sia la possibilità di
intervenire nel procedimento amministrativo volto al
rilascio del titolo medesimo ex art. 9 della legge n.
241/1990, sia la legittimazione a ricorrere avverso gli atti
adottati in tale sede che possano arrecargli pregiudizio.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che vi sia l’obbligo
dell’Amministrazione di comunicare al medesimo l’inizio
dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge
citata, atteso che ciò comporterebbe un aggravio dello
stesso procedimento, contrariamente ai principi di
economicità e di efficienza dell’azione amministrativa.
Il cointeressato non è un soggetto contemplato tra quelli a
cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento
per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7
della l. 07.08.1990, n. 241 poiché l'invocata estensione ad
essi -rectius “ad esso”- della predetta comunicazione
comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i
principi di economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa. Ciò anche quando si tratti di soggetti in
precedenza oppostisi all'attività edilizia del proprietario
confinante.
Non vi è dubbio, infatti, che il
proprietario di un immobile confinante con quello per il
quale è stato rilasciato il permesso di costruire ha sia la
possibilità di intervenire nel procedimento amministrativo
volto al rilascio del titolo medesimo ex art. 9 della legge
n. 241/1990, sia la legittimazione a ricorrere avverso gli
atti adottati in tale sede che possano arrecargli
pregiudizio; ciò non vuol dire, tuttavia, che vi sia
l’obbligo dell’Amministrazione di comunicare al medesimo
l’inizio dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della legge citata (cfr. Consiglio Stato, IV, 06.07.2009,
n. 4300), atteso che ciò comporterebbe un aggravio dello
stesso procedimento, contrariamente ai principi di
economicità e di efficienza dell’azione amministrativa
(cfr. per tutte Tar Lecce, II, 26.01.2011 n. 117 -confermata dal Consiglio di Stato, sezione V con sentenza
06.06.2012 n. 3343- che ha inoltre precisato: “In proposito
la giurisprudenza ha più volte ribadito che “il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a
cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento
per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7
della l. 07.08.1990, n. 241” (TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918), “poiché l'invocata
estensione ad essi -rectius “ad esso”- della predetta
comunicazione comporterebbe un aggravio procedimentale in
contrasto con i principi di economicità e di efficienza
dell'attività amministrativa. Ciò anche quando si tratti di
soggetti in precedenza oppostisi all'attività edilizia del
proprietario confinante” (TAR Liguria Genova, sez. I, 10.07.2009, n. 1736; conforme: Consiglio Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 20.05.2013 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il novero dei soggetti legittimati al rilascio
del titolo in sanatoria risulta più ampio rispetto a quanto
concerne il rilascio dell'ordinario titolo abilitativo
edilizio, laddove secondo il prevalente orientamento della
giurisprudenza, occorre la titolarità del diritto di
proprietà, ovvero di altro diritto reale o anche
obbligatorio a condizione del riconoscimento della
disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della
relativa potestà edificatoria.
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto
diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da
quello della sanatoria. L'affermazione è consapevolmente
recepita da parte della giurisprudenza in riferimento alla
sanatoria impropria di cui all'art. art. 13 della legge n.
47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità
disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi
disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la
norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4
della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in
presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro
titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo
ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da
colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto,
sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a
rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o
amministrativo.
Se quindi il collegamento con la proprietà o altro diritto
reale si attenua già in sede di legittimazione alla
sanatoria impropria oggi disciplinata dall'art. 36 t.u.
edilizia approvato con d.p.r. 06.06.2001 n. 380, ciò non può
non valere anche in riferimento alla sanatoria propria di
cui alla l. 724/1994 (II condono edilizio) la quale,
presupponendo un abuso di tipo sostanziale e non già
formale, ben può riferirsi -come è paradigmatico
dell'illecito- anche ad un collegamento non soggettivamente
qualificato. Anche la più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato ritiene che ai sensi dell'art. 31, l.
28.02.1985 n. 47 -secondo cui possono richiedere il condono
"i soggetti che abbiano interesse"- legittimato a richiedere
la concessione edilizia in sanatoria sia anche il
promissario acquirente di un terreno, avuto riguardo all'esperibilità
della tutela in forma specifica ex art. 2932, cod. civ.
Tale disciplina non risulta mutata nel regime introdotto con
l'art. 39 della l. 724/1994, non emergendo restrizioni
rispetto al criterio legittimante di cui al citato art. 31
l. 47/1985.
Va pertanto affermato che "legittimati all'istanza di
condono edilizio ex l. 724/1994 sono oltre coloro che hanno
titolo a richiedere la concessione edilizia/permesso di
costruire, anche il promissario acquirente o il conduttore e
più in generale tutti coloro che vi abbiano interesse, senza
il necessario consenso ed anche, al limite, contro la
volontà del proprietario del bene”.
---------------
Poiché “il rilascio del certificato di abitabilità di un
fabbricato, conseguente al condono edilizio può
legittimamente avvenire in deroga solo a norme
regolamentari, e non anche quando siano carenti condizioni
di salubrità richieste invece da fonti normative di livello
primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per
il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è
suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto,
tali da incidere sul fondamentale principio della tutela
della salute, con evidenti riflessi sul piano della
legittimità costituzionale, considerato anche che le
deficienze igienico sanitarie riscontrate dai competenti
uffici della U.s.l. integrano la violazione di prescrizioni
poste a tutela della salubrità degli ambienti adibiti ad
abitazione da fonti normative di carattere primario, quali
gli artt. 218 e 221, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n.
1265" spetterà quindi all’Autorità sanitaria competente in
sede di istruttoria per il rilascio dell’abitabilità
valutare se effettivamente nella specie le altezze dei
fabbricati siano tali da impedire l’utilizzazione del bene
come abitazione.
Invero la
giurisprudenza ha chiarito che: “Il novero dei soggetti
legittimati al rilascio del titolo in sanatoria risulta […]
più ampio rispetto a quanto concerne il rilascio
dell'ordinario titolo abilitativo edilizio, laddove secondo
il prevalente orientamento della giurisprudenza, occorre la
titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto
reale o anche obbligatorio a condizione del riconoscimento
della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché
della relativa potestà edificatoria" (Consiglio di Stato V 28.05.2001 n. 2881, TAR Emilia Romagna Bologna 21.02.2007 n. 53, TAR Lombardia Milano sez II 31.03.2010 n.
842) […].
Il regime, infatti, della concessione edilizia è del tutto
diversificato, quanto a presupposti ed elementi propri, da
quello della sanatoria. L'affermazione è consapevolmente
recepita da parte della giurisprudenza (TAR Campania
Napoli sez VIII 14.01.2011, n. 196) in riferimento alla
sanatoria impropria di cui all'art. art. 13 della legge n.
47/1985 secondo cui la dichiarazione di conformità
disciplinata dalla norma prevede che la sanatoria ivi
disciplinata sia accordata al "responsabile dell'abuso"; la
norma, quindi, a differenza di quanto previsto dall'art. 4
della legge n. 10 del 1977 non trova applicazione solo in
presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro
titolare di diritto reale in quanto l'abuso sia al medesimo
ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata da
colui che, dell'abuso, è comunque responsabile in quanto,
sanato l'abuso, non potrebbe essere più chiamato a
rispondere sul piano sanzionatorio penale e/o
amministrativo.
Se quindi il collegamento con la proprietà o altro diritto
reale si attenua già in sede di legittimazione alla
sanatoria impropria oggi disciplinata dall'art. 36 t.u.
edilizia approvato con d.p.r. 06.06.2001 n. 380, ciò non
può non valere anche in riferimento alla sanatoria propria
di cui alla l. 724/1994 (II condono edilizio) la quale,
presupponendo un abuso di tipo sostanziale e non già
formale, ben può riferirsi -come è paradigmatico
dell'illecito- anche ad un collegamento non soggettivamente
qualificato. Anche la più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato (sez. IV, 27.10.2009, n. 6545)
ritiene che ai sensi dell'art. 31, l. 28.02.1985 n. 47 -secondo cui possono richiedere il condono "i soggetti che
abbiano interesse"- legittimato a richiedere la concessione
edilizia in sanatoria sia anche il promissario acquirente di
un terreno, avuto riguardo all'esperibilità della tutela in
forma specifica ex art. 2932, cod. civ.
Tale disciplina non risulta mutata nel regime introdotto con
l'art. 39 della l. 724/1994, non emergendo restrizioni
rispetto al criterio legittimante di cui al citato art. 31
l. 47/1985.
Va pertanto affermato che "legittimati all'istanza di condono
edilizio ex l. 724/1994 sono oltre coloro che hanno titolo a
richiedere la concessione edilizia/permesso di costruire,
anche il promissario acquirente o il conduttore (Corte di
Appello Firenze sez II 04.05.2010 n. 594) e più in
generale tutti coloro che vi abbiano interesse, senza il
necessario consenso ed anche, al limite, contro la volontà
del proprietario del bene” (cfr. TAR Bari Puglia 09.07.2011 n. 1057).
---------------
In proposito
il Collegio deve rilevare che il condono edilizio è
finalizzato alla definizione degli illeciti edilizi che
nella specie sono relativi alle opere funzionali al cambio
di destinazione d’uso di due stenditoi in civili abitazioni.
Con il rilascio del permesso di costruire in sanatoria,
dunque, si sono sanate esclusivamente le opere edilizie,
mentre l’utilizzazione degli immobili come civili abitazioni
(come del resto risulta nelle condizioni generali in calce
al provvedimento impugnato) è soggetto al rilascio del
certificato di agibilità.
Poiché “il rilascio del certificato di abitabilità di un
fabbricato, conseguente al condono edilizio può
legittimamente avvenire in deroga solo a norme
regolamentari, e non anche quando siano carenti condizioni
di salubrità richieste invece da fonti normative di livello
primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per
il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è
suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto,
tali da incidere sul fondamentale principio della tutela
della salute, con evidenti riflessi sul piano della
legittimità costituzionale, considerato anche che le
deficienze igienico sanitarie riscontrate dai competenti
uffici della U.s.l. integrano la violazione di prescrizioni
poste a tutela della salubrità degli ambienti adibiti ad
abitazione da fonti normative di carattere primario, quali
gli artt. 218 e 221, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265"
(cfr. Consiglio di Stato 03.05.2011 n. 2620) spetterà quindi
all’Autorità sanitaria competente in sede di istruttoria per
il rilascio dell’abitabilità valutare se effettivamente
nella specie le altezze dei fabbricati siano tali da
impedire l’utilizzazione del bene come abitazione (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 20.05.2013 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aumenti
a pioggia bloccati dal giudice.
Gli aumenti generalizzati, finanziati con fondi per la
contrattazione integrativa cresciuti troppo rispetto ai
vincoli di legge, possono essere stoppati dai tribunali.
È questo il dato chiave che emerge dall'ordinanza
20.05.2013 n. 794
con cui il Tribunale del lavoro di Reggio Calabria ha
bloccato le progressioni "orizzontali" (cioè gli incrementi
di stipendio senza cambiare la qualifica degli interessati)
che il Comune di Reggio ha concesso ai propri dipendenti
negli anni 2000-2010. I prossimi cedolini saranno quindi
alleggeriti di questi aumenti, in attesa dell'udienza di
merito che potrebbe dichiararli definitivamente illegittimi
aprendo l'infinita battaglia delle restituzioni.
A leggere l'ordinanza, non sembrano molte le chance di
superare il problema con le udienze di merito. A far muovere
il commissario straordinario che guida Reggio Calabria sono
stati prima di tutto i risultati delle ispezioni condotte
dalla Ragioneria generale nel 2011, quando gli uomini del
Mef avevano concluso che il Comune non ha rispettato i
vincoli di spesa del personale e ha distribuito "premi" a
pioggia fra i dipendenti. In particolare, alcune "selezioni"
hanno visto vincenti il 100% degli interessati, in altri
casi la promozione ha oscillato intorno a tassi tra il 97,8%
e il 99,6%, assegnando progressioni anche a dipendenti che
non avevano totalizzato nemmeno 12 mesi di servizio.
La progressione economica determina aumenti stabili, e
quindi danni duraturi a un bilancio che nel caso di Reggio
Calabria è «in sostanziale dissesto». Le peculiarità del
quadro reggino non devono però far passare in secondo piano
il significato complessivo del l'ordinanza, con cui per la
prima volta un tribunale blocca aumenti indiscriminati già
attribuiti in sede di contrattazione integrativa: anche
perché le modalità di costituzione dei fondi integrativi
sono oggetto di indagine da parte della Ragioneria e della
Corte dei conti in molti Comuni, anche capoluogo di Regione.
---------------
Le tappe della vicenda
01|LE ISPEZIONI
La Ragioneria generale
dello Stato ha denunciato
il mancato rispetto
nel Comune di Reggio Calabria dei vincoli alla spesa di
personale, l'incremento illegittimo del fondo per la
contrattazione decentrata (parte stabile
e variabile) e l'erogazione
di bonus a pioggia
02|IL CONTENZIOSO
La battaglia legale nasce dalla decisione del commissario
straordinario di Reggio Calabria di agire d'urgenza (ex
articolo 700 del Codice di procedura penale) per bloccare
l'erogazione degli incrementi
03|L'ORDINANZA
L'ordinanza, con una decisione inedita, concede
al Comune la sospensiva, rimandando al merito il giudizio
sull'illegittimità che determinerebbe l'obbligo di
restituzione degli arretrati (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
v’è motivo per ammettere l’accessorietà delle tettoie
apposte a parti di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi ove la
loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono
evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro
o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) della parte dell’immobile cui accedono ed
escluderla, invece, laddove, a fronte di medesime
caratteristiche tipologico/strutturali, la loro funzione sia
quella di supporto di un impianto fotovoltaico, che,
consentendo la produzione di energia “pulita” e
“rinnovabile”, dovrebbe essere guardato con particolare
favore dalle Amministrazioni locali, deputate, per legge, a
curare gli interessi della comunità locale.
Ad avviso del Collegio, la tettoia (da realizzasi in sostituzione di una
pergola pre-esistente, previa sua demolizione) può ritenersi
assorbita nell’edificio principale o, comunque, nella parte
di esso cui accede.
Non v’è motivo, infatti, per ammettere l’accessorietà
delle tettoie apposte a parti di preesistenti edifici come
strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità
di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui
accedono (ex multis TAR Campania Napoli, sez. II, n. 8320
del 02.12.2009, n. 3870 del 13.07.2009, n. 492 del
29.01.2009; TAR Campania Napoli, Sez. IV, n. 19754 del
18.11.2008; TAR Campania Napoli, sez. III, n. 10059
del 09.09.2008) ed escluderla, invece, laddove, a
fronte di medesime caratteristiche tipologico/strutturali,
la loro funzione sia quella di supporto di un impianto
fotovoltaico, che, consentendo la produzione di energia
“pulita” e “rinnovabile”, dovrebbe essere guardato con
particolare favore dalle Amministrazioni locali, deputate,
per legge, a curare gli interessi della comunità locale.
Si rammenta, al riguardo, che la Direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio 27.09.2001, n. 2001/77/CE, attuata
col decreto legislativo 29.12.2003, n. 387 al quale si
richiama l’art. 36 della l.r. 16 del 2008, riconosce
espressamente la necessità di promuovere in via prioritaria
le fonti energetiche rinnovabili, poiché queste
contribuiscono alla protezione dell'ambiente e allo sviluppo
sostenibile, possono creare occupazione locale, avere un
impatto positivo sulla coesione sociale, contribuire alla
sicurezza degli approvvigionamenti e permettere di
conseguire più rapidamente gli obiettivi di Kyoto e
individua la promozione dell'elettricità prodotta da fonti
energetiche rinnovabili come un obiettivo altamente
prioritario a livello della Comunità, sottolineando la
necessità di individuare obiettivi vincolanti e ambiziosi in
materia di fonti energetiche rinnovabili a livello nazionale
e di tener conto della struttura specifica del settore delle
fonti energetiche rinnovabili, in particolare al momento
della revisione delle procedure amministrative di
autorizzazione a costruire impianti di produzione di
elettricità proveniente da fonti energetiche rinnovabili
(vedi considerando n. 1, 2, 3, 4 e 20)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 20.05.2013 n. 299 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Quello della regolarità contributiva è un
requisito di carattere generale oltre che condizione di
partecipazione alla gara, che va posseduto alla data di
scadenza della presentazione delle offerte e va assicurato
anche successivamente alla presentazione della domanda,
attesa l’imprescindibile esigenza di verifica
dell’affidabilità del soggetto partecipante sino alla
conclusione della gara medesima.
Ciò in quanto le disposizioni normative che prevedono
l’obbligo della regolarità contributiva sono poste a
presidio di superiori interessi pubblici, quali la tutela
dei lavoratori, la provvista di risorse per la finanza
pubblica e la corretta concorrenza tra le imprese di ciascun
settore, il che giustifica sia la verifica della sussistenza
del requisito da parte della stazione appaltante anche in
assenza di una espressa previsione del bando o della lettera
di invito, sia il fatto che la falsità della dichiarazione
costituisca di per sé motivo di esclusione da una gara
d’appalto senza che l’irregolarità possa essere sanata
dall’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione
contributiva.
Ai partecipanti alla gara, pertanto, è richiesto un onere di
verifica preventiva al fine di accertare la veridicità delle
proprie dichiarazioni, non essendo sufficiente ad evitare
l’esclusione o, come nel caso in esame, l’annullamento
dell’avvenuta aggiudicazione, il richiamo ad una ipotetica
"buona fede" sulla regolarità del pagamento dei contributi.
Come è noto, infatti, quello della
regolarità contributiva è un requisito di carattere generale
oltre che condizione di partecipazione alla gara, che va
posseduto alla data di scadenza della presentazione delle
offerte e va assicurato anche successivamente alla
presentazione della domanda, attesa l’imprescindibile
esigenza di verifica dell’affidabilità del soggetto
partecipante sino alla conclusione della gara medesima
(Cons. Stato, sez. IV, 02.04.2011, n. 2283; sez. V, 30.09.2009, n. 5896; sez. VI, 26.01.2009, n. 344;
TAR Molise Campobasso, sez. I, 08.10.2012, n. 512).
Ciò in quanto le disposizioni normative che prevedono
l’obbligo della regolarità contributiva sono poste a
presidio di superiori interessi pubblici, quali la tutela
dei lavoratori, la provvista di risorse per la finanza
pubblica e la corretta concorrenza tra le imprese di ciascun
settore, il che giustifica sia la verifica della sussistenza
del requisito da parte della stazione appaltante anche in
assenza di una espressa previsione del bando o della lettera
di invito, sia il fatto che la falsità della dichiarazione
costituisca di per sé motivo di esclusione da una gara
d’appalto senza che l’irregolarità possa essere sanata
dall’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione
contributiva.
Ai partecipanti alla gara, pertanto, è richiesto un onere di
verifica preventiva al fine di accertare la veridicità delle
proprie dichiarazioni, non essendo sufficiente ad evitare
l’esclusione o, come nel caso in esame, l’annullamento
dell’avvenuta aggiudicazione, il richiamo ad una ipotetica "buona
fede" sulla regolarità del pagamento dei contributi (TAR
Valle d'Aosta, sez. I, 10.03.2010, n. 21)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 16.05.2013 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina urbanistica da applicare in
occasione dell’esame di un progetto edilizio conseguente ad
una sentenza di annullamento del diniego della concessione è
quella vigente al momento in cui la sentenza è notificata al
sindaco, risultando inopponibili all’interessato solo le
variazioni dello strumento urbanistico sopravvenute
successivamente a tale notificazione.
Nel caso di annullamento del diniego in sede
giurisdizionale, l’autorità competente deve provvedere
applicando la disciplina vigente alla data di notifica della
sentenza di annullamento del diniego.
Premesso che la ricorrente impugnava
il diniego oppostole dal Comune di Ostuni alla richiesta di
autorizzazione all’installazione di un impianto di telefonia
in Contrada Brancati, e, ancora, il Regolamento Comunale per
il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti di telefonia mobile e la minimizzazione
dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici
ed il 1° Piano di Installazione Comunale (PIC) approvati con
delibera di C.C. n. 67 del 28.12.2005, il Collegio
osserva che il ricorso è ormai improcedibile per
sopravvenuto difetto di interesse.
.
L’Amministrazione Comunale intimata, difatti, con
delibera di C.C. n. 43 del 30.09.2010 approvava, al
termine di una fase di concertazione con i vari gestori e
sulla base dei relativi piani stralcio, il nuovo PIC, che,
notificato alla ricorrente e dalla stessa mai censurato, non
contempla il sito il Contrada Brancati: dall’eventuale
accoglimento del gravame, dunque, la Wind non trarrebbe
alcuna utilità, poiché la sua istanza sarebbe comunque,
sulla base del nuovo strumento di pianificazione,
insuscettibile di accoglimento (e d’altronde, per
consolidato orientamento giurisprudenziale, “la disciplina
urbanistica da applicare in occasione dell’esame di un
progetto edilizio conseguente ad una sentenza di
annullamento del diniego della concessione è quella vigente
al momento in cui la sentenza è notificata al sindaco,
risultando inopponibili all’interessato solo le variazioni
dello strumento urbanistico sopravvenute successivamente a
tale notificazione”; Consiglio di Stato, V, 10.01.2012,
n. 36.
E ancora: “nel caso di annullamento del diniego in
sede giurisdizionale, l’autorità competente deve provvedere
applicando la disciplina vigente alla data di notifica della
sentenza di annullamento del diniego (cfr. Cons. Stato, IV,
02.06.2000, n. 3177; Cons. Stato, V, 13.11.1999, n.
1551 e 08.01.1998 n. 53)”; Tar Toscana, II, 11.10.2007,
n. 3188)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 16.05.2013 n. 1121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, stretta sugli ambulanti. Trasporto per la vendita e
il recupero solo se autorizzato.
La Corte di
cassazione fa il punto sull'applicazione del Codice
ambientale (dlgs 152/2006).
L'attività di ritiro presso privati di rifiuti, così come il
loro trasporto, deve essere esercitata nel rispetto delle
norme autorizzatorie e gestionali previste dal Codice
ambientale ogni qual volta sia finalizzata alla vendita dei
beni a fine vita a impianti di recupero.
Questa la logica deduzione cui porta la recente
sentenza
03.05.2013 n. 19111 con la quale la Corte di Cassazione,
Sez. III penale, ha
compiuto una larga ricognizione sulla disciplina risultante
dal combinato disposto delle norme (previste dal dlgs
152/2006, cosiddetto «Codice ambientale») che recano un
regime di favore per le attività di raccolta e trasporto
rifiuti effettuate dai cosiddetti «robivecchi» e delle
regole (previste dal dlgs 114/1998) in materia di commercio
in generale.
Punto di partenza della pronuncia del giudice di legittimità
è l'articolo 266, comma 5 del dlgs 152/2006, a mente del
quale «Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e
212 (ndr: dello stesso Codice, che impongono dichiarazione Mud, registri di carico/scarico, formulario di trasporto ed
iscrizione all'Albo gestori) non si applicano alle attività
di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti
abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma
ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del
loro commercio».
Agendo in linea con i principi comunitari in materia di
tutela ambientale che impongono una interpretazione
restrittiva delle norme derogatorie, la Suprema Corte ha
infatti con la sentenza in parola tracciato i precisi
confini della eccezionale disciplina storicamente prevista
(dal dlgs 22/1997 prima, dal dlgs 152/2006 dopo) a favore
dei rigattieri.
In primo luogo la Cassazione ha ricordato (con ciò
allineandosi alle precedenti pronunce di legittimità) come
il citato regime derogatorio valga solo per raccolta e
trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi
(sentenze 25352/2012 e 27290/2012).
Scendendo nel dettaglio, la Corte ha poi precisato come i
soggetti ammessi alla deroga (ossia quelli che svolgono le
citate attività «in forma ambulante») siano unicamente i
«commercianti al dettaglio» identificati dall'articolo 4 del
citato dlgs 114/1998 (e abilitati dal comune all'attività ex
articolo 27, stesso provvedimento), essendo questi (secondo
la definizione datane dallo stesso dlgs) gli unici
commercianti a poter svolgere il loro mestiere (anche) in
forma itinerante, al contrario di quelli «all'ingrosso»,
vincolati invece a una sede fissa.
Oltre alla modalità operativa, a distinguere i
«dettaglianti» dai «grossisti» è altresì (sempre in base al
citato articolo 4) il fatto che i primi possono vendere i
propri beni solo a «consumatori finali», ossia a soggetti
che agiscono per scopi estranei all'attività imprenditoriale
o professionale, mentre i secondi hanno come clienti finali
esclusivamente questi ultimi.
Da tale precisazione, rintracciabile nella pronuncia della
Corte, è lecito dedurre (come peraltro già da tempo
sostenuto da autorevole dottrina) che il citato regime
derogatorio previsto dal dlgs 152/2006 non si applichi
all'attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuata
da soggetti che poi rivendono gli stessi a impianti di
recupero.
Ancora, per la Cassazione il regime eccezionale previsto dal
dlgs 152/2006 deve inoltre essere strettamente limitato alle
attività di raccolta e trasporto di rifiuti che (sempre
secondo il tenore del Codice) «formano oggetto del
commercio» dei soggetti in parola, dovendo dunque escludersi
la sua applicazione alla gestione di materiali non
ricompresi nel particolare settore merceologico cui
l'abilitazione comunale rilasciata fa riferimento.
Tracciati i confini del regime di favore previsto dal Codice
ambientale per raccolta e trasporto dei rifiuti (oggi
mediante l'esenzione, oltre che dall'Albo, dall'obbligo di
tenuta delle scritture verdi cartacee, domani dall'adozione
del «Sistri») la sentenza 19111/2013 non pare però
affrontare la questione dell'eventuale «commercializzazione»
dei rifiuti.
In tal senso appare coerente ricordare una precedente
pronuncia della stessa Corte (medesima Sezione penale: la
Terza), l'ordinanza 6602/2012, nella parte in cui si
sancisce che i provvedimenti abilitativi al commercio
itinerante su aree pubbliche nulla hanno a che vedere con le
autorizzazioni ambientali previste dal dlgs 152/2006 (anche)
in relazione al commercio e l'intermediazione dei rifiuti,
ragion per cui mancando queste ultime appare ipotizzabile il
reato di gestione illecita ex articolo 256, comma 1, stesso
Codice ambientale
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.05.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno esistenziale per il lavoro senza interruzioni.
Il Consiglio di Stato sui riposi settimanali.
IL MECCANISMO/
Il dipendente non deve dimostrare di aver subito un effetto
negativo È sufficiente provare di non aver fatto pause.
Va risarcito il danno per usura psicofisica al dipendente
pubblico che per anni ha lavorato anche di domenica senza
fruire del riposo compensativo.
È quanto affermato dalla
sentenza
19.04.2013 n. 7 dell'adunanza
plenaria del Consiglio di Stato in relazione alla domanda
risarcitoria proposta da alcuni dipendenti addetti al
servizio di trasporto pubblico locale.
Il Consiglio ha chiarito due questioni: la prima attiene a
come provare il danno da usura psicofisica del lavoratore;
la seconda riguarda il termine di prescrizione. Sulla prima
questione si è affermato che il dipendente pubblico che
lamenti un danno per aver prestato attività lavorativa sette
giorni su sette deve allegare circostanze e documenti (buste
paga, statini, istanze e diffide alla pubblica
amministrazione di appartenenza) che dimostrino la mancata
fruizione del riposo compensativo, protrattasi nel tempo per
esigenze aziendali. Non occorre provare che la mancanza del
giorno di effettivo riposo gli abbia provocato un danno.
L'amministrazione potrà fornire la prova contraria sulle
predette circostanze, con la conseguenza che, in loro
mancanza, le dichiarazioni del dipendente si considerano non
contestate e possono fondare la decisione del giudice
(articolo 115 del Codice di procedura civile).
Esistono due tipi di danno: quello biologico consistente in
un'infermità cioè nella lesione dell'integrità psicofisica;
quello esistenziale consistente nell'alterazione di
abitudini, relazioni e scelte di vita. Il danno derivante al
dipendente per aver lavorato sette giorni su sette attiene
alla sfera esistenziale e il giudice lo desume in base a
regole di esperienza, circostanze concrete e al tipo di
mansione svolta dal dipendente con il meccanismo delle
presunzioni semplici, cioè immediatamente percepibili.
In
altri termini, il giudice, dallo svolgimento di mansioni che
presuppongono un elevato grado di diligenza, come quelle
svolte da macchinisti posti alla guida di treni senza godere
di riposi compensativi, in modo sistematico nel corso di un
decennio, desume il danno esistenziale consistente in una
situazione patologica di stress derivante dal mancato
recupero delle energie psicofisiche. Ciò in quanto il
diritto al riposo settimanale e compensativo, irrinunciabile
in base all'articolo 36 della Costituzione, consente al
lavoratore di ricostituire le proprie energie psicofisiche e
svolgere attività espressione della propria personalità.
La pronuncia chiarisce inoltre che il dipendente può agire
per il ristoro di tale danno entro dieci anni dalla più
antica festività non goduta, in quanto il danno deriva
dall'inadempimento del contratto di lavoro da parte della
pubblica amministrazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2013). |
APPALTI:
L’informativa prefettizia
non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede
penale di carattere definitivo e certo sull’esistenza della
contiguità con organizzazioni malavitose e di un
condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può
essere sorretta da elementi sintomatici ed indiziari da cui
emergano gli elementi di pericolo di dette infiltrazioni
mafiose ma tali elementi devono comunque essere costanti e
attuali e riferibili all’attività di impresa con un certo
grado di probabilità e consequenzialità.
In merito, non è posta in discussione la discrezionalità di
cui dispone il Prefetto nella ricerca e ponderazione degli
elementi dai quali possa dedursi, nel quadro della
disciplina dettata dal d.lgs. n. 252/1998, l’esistenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare
le scelte e gli indirizzi delle società ed imprese con le
quali le pubbliche amministrazioni stipulano contratti o nei
cui confronti autorizzano o comunque consentono concessioni
o erogazioni ma tale potere deve comunque essere esercitato
con prudente bilanciamento fra la libertà di iniziativa
dell’impresa e la concorrente tutela delle condizioni di
sicurezza e di ordine pubblico cui sono indirizzate le norme
di prevenzione in questione, con la conseguenza che il
complesso degli elementi sintomatici ed indiziari che
emergono nella fase istruttoria che precede l’adozione del
provvedimento devono, quantomeno, configurarsi idonei, nella
loro emergenza ed oggettiva potenzialità, ad indurre con
efficienza casuale e con carattere di attualità la
situazione di condizionamento da parte della criminalità
organizzata dell’impresa sottoposta a monitoraggio.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che l'accertamento
dell'esistenza di un legame di parentela o affinità con
soggetti inquisiti o condannati per reati di mafia non
determina automaticamente la sussistenza di tentativi di
infiltrazioni criminali nella impresa, occorrendo che
vengano provati gli effettivi ed attuali tentativi di
condizionamento degli indirizzi e delle scelte della
società.
Ciò perché l’informativa prefettizia è strumento che, pur
potendosi fondare su un attendibile giudizio di possibilità
secondo la nozione di pericolo, poiché non occorre che sia
provata l'esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa,
essendo invece sufficiente, secondo un giudizio prognostico
latamente discrezionale, ancorché ragionevole e
circostanziato, “la mera possibilità di interferenze
malavitose rivelata da fatti idonei a configurarne il
substrato", deve essere utilizzato, oltre che con estremo
rigore, anche con estrema attenzione e cautela, perché il
suo meccanismo opera incidendo nel delicato equilibrio,
proprio dell'ordinamento democratico, che sussiste tra
diritti di difesa e di libertà di impresa, da un lato, ed
esigenze di politica repressiva e preventiva, dall'altro.
Il Collegio è ben conscio che
l’informativa prefettizia non deve necessariamente
collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere
definitivo e certo sull’esistenza della contiguità con
organizzazioni malavitose e di un condizionamento in atto
dell’attività di impresa, ma che può essere sorretta da
elementi sintomatici ed indiziari da cui emergano gli
elementi di pericolo di dette infiltrazioni mafiose (Cons.
Stato, Sez. III, n. 4360/2011) ma tali elementi devono
comunque essere costanti e attuali e riferibili all’attività
di impresa con un certo grado di probabilità e
consequenzialità.
In merito, non è posta in discussione la discrezionalità di
cui dispone il Prefetto nella ricerca e ponderazione degli
elementi dai quali possa dedursi, nel quadro della
disciplina dettata dal d.lgs. n. 252/1998, l’esistenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare
le scelte e gli indirizzi delle società ed imprese con le
quali le pubbliche amministrazioni stipulano contratti o nei
cui confronti autorizzano o comunque consentono concessioni
o erogazioni ma tale potere deve comunque essere esercitato
con prudente bilanciamento fra la libertà di iniziativa
dell’impresa e la concorrente tutela delle condizioni di
sicurezza e di ordine pubblico cui sono indirizzate le norme
di prevenzione in questione, con la conseguenza che il
complesso degli elementi sintomatici ed indiziari che
emergono nella fase istruttoria che precede l’adozione del
provvedimento devono, quantomeno, configurarsi idonei, nella
loro emergenza ed oggettiva potenzialità, ad indurre con
efficienza casuale e con carattere di attualità la
situazione di condizionamento da parte della criminalità
organizzata dell’impresa sottoposta a monitoraggio (Cons.
Stato, n. 204/2013 cit.).
Come detto, nel caso in esame, i fatti di rilevanza penale
risalivano nel tempo a due anni e mezzo addietro e nessun
ulteriore elemento è contenuto nella motivazione
dell’informativa in merito all’esistenza, con carattere di
prossimità, attualità ed immanenza, del pericolo di
condizionamento malavitoso al momento dell’adozione
dell’informativa in questione (Cons. Stato, Sez. VI,
10.02.2010, n. 684).
Tale valutazione non poteva essere sostenuta comunque
dall’unica altra circostanza presa in considerazione dal
Prefetto, legata al mero rapporto di coniugio con il nuovo
amministratore della società, in assenza dell’individuazione
di pluralità di rapporti parentali e di riferimento ad unico
centro di interessi malavitosi e di ulteriori circostanze
significative che ne confermino i presupposti potenziali di
infiltrazione mafiosa. La giurisprudenza ha infatti
precisato che l'accertamento dell'esistenza di un legame di
parentela o affinità con soggetti inquisiti o condannati per
reati di mafia non determina automaticamente la sussistenza
di tentativi di infiltrazioni criminali nella impresa,
occorrendo che vengano provati gli effettivi ed attuali
tentativi di condizionamento degli indirizzi e delle scelte
della società (Cons. Stato, Sez. VI, 17.07.2006, n. 4574 e
02.05.2007, n. 1916; Sez. V, 29.08.2005, n. 4408).
Ciò perché –come prima già anticipato– l’informativa
prefettizia è strumento che, pur potendosi fondare su un
attendibile giudizio di possibilità secondo la nozione di
pericolo (Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2001, n. 4724), poiché
non occorre che sia provata l'esistenza di tentativi di
infiltrazione mafiosa, essendo invece sufficiente, secondo
un giudizio prognostico latamente discrezionale, ancorché
ragionevole e circostanziato, “la mera possibilità di
interferenze malavitose rivelata da fatti idonei a
configurarne il substrato" (Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2008, n.
3090), deve essere utilizzato, oltre che con estremo rigore,
anche con estrema attenzione e cautela, perché il suo
meccanismo opera incidendo nel delicato equilibrio, proprio
dell'ordinamento democratico, che sussiste tra diritti di
difesa e di libertà di impresa, da un lato, ed esigenze di
politica repressiva e preventiva, dall'altro (TAR Calabria, Cz, Sez. I, 17.04.2012, n. 402)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 13.03.2013 n. 2659 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire
ha carattere vincolato, in quanto, ai sensi dell’art. 12,
comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u. in materia di
edilizia), può essere negato solamente per contrasto con
disposizioni di legge, di strumenti urbanistici o di
regolamenti edilizi.
Ne consegue che, a norma dell’art. 21-octies, comma 2, primo
alinea, della legge sul procedimento, non è annullabile
l’atto adottato in violazione di norme sul procedimento (tra
cui va ricompresa quella di cui all’art. 10-bis dello stesso
corpus normativo qualora l’atto stesso, per la sua natura
vincolata, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.
Nel nuovo quadro sistematico normativizzato dall’art.
21-octies la violazione dell’art. 10-bis non produce ex se
l’illegittimità del provvedimento terminale, dovendo il
giudice valutare il contenuto sostanziale del provvedimento,
e quindi non annullare l’atto nel caso in cui la violazione
formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale del
provvedimento impugnato.
Deve essere anzitutto disattesa, nei termini che seguono, la
censura con cui si deduce la violazione dell’art. 10-bis
della legge 07.08.1990, n. 241 per omessa comunicazione del
“preavviso di rigetto” anteriormente all’adozione del
diniego del permesso di costruire.
Ed invero, secondo l’assunto anche di parte ricorrente, il
permesso di costruire ha carattere vincolato, in quanto, ai
sensi dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(t.u. in materia di edilizia), può essere negato solamente
per contrasto con disposizioni di legge, di strumenti
urbanistici o di regolamenti edilizi.
Ne consegue che, a norma dell’art. 21-octies, comma 2, primo
alinea, della legge sul procedimento, non è annullabile
l’atto adottato in violazione di norme sul procedimento (tra
cui va ricompresa quella di cui all’art. 10-bis dello stesso
corpus normativo: così, tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI,
02.02.2009, n. 552) qualora l’atto stesso, per la sua natura
vincolata, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso (in
termini, in materia di permesso di costruire, TAR Veneto,
Sez. II, 17.04.2008, n. 1000; TAR Lazio, Latina, 05.06.2007,
n. 413).
Nel nuovo quadro sistematico normativizzato dall’art.
21-octies la violazione dell’art. 10-bis non produce ex
se l’illegittimità del provvedimento terminale, dovendo
il giudice valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento, e quindi non annullare l’atto nel caso in cui
la violazione formale non abbia inciso sulla legittimità
sostanziale del provvedimento impugnato (Cons. Stato, Sez.
II, 30.07.2009; TAR Toscana, Sez. II, 17.06.2009, n. 1058;
TAR Umbria, 26.06.2009, n. 360)
(TAR Umbria,
sentenza 08.04.2010 n. 236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere di recinzione del terreno non si configurano come
nuova costruzione, per la quale è necessario il previo
rilascio di permesso di costruire quando, per natura e
dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di
proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque,
la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro, la quale costituisce installazione
precaria e non incide in modo permanente sull’assetto
edilizio del territorio.
L’intervento in questione rientra, piuttosto nella portata
residuale degli interventi realizzabili con il regime
semplificato della d.i.a., a mente dell'art. 22 del t.u.
dell'edilizia, la cui mancanza non è sanzionabile con la
rimozione o la demolizione, previsti dall'art. 31 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, per l'esecuzione di interventi in
assenza del permesso di costruire, in totale difformità del
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ma con
l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal
successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza
della prescritta denuncia di inizio di attività.
La prima argomentazione a supporto dei provvedimenti
impugnati fa riferimento al mancato rispetto delle formalità
previste dal t.u. edilizia n. 380 del 2001 e al mancato
rilascio del titolo abilitativo (autorizzazione)
asseritamente occorrente per l’intervento.
Tali considerazioni non valgono a fondare la legittimità dei
provvedimenti impugnati.
Va rilevata, innanzitutto, la genericità della motivazione
del diniego di installazione (“l’intervento oggetto di
comunicazione deve essere presentato come richiesta ai sensi
del DPR 380/2001”) la quale, peraltro, appare incoerente
rispetto al contenuto dispositivo dell’atto che considera la
comunicazione dei proprietari come vera e propria istanza di
parte (“per le motivazioni di cui sopra, la vostra richiesta
è respinta”).
La mancanza di autorizzazione edificatoria non costituisce,
in ogni caso, valida giustificazione dell’impugnato ordine
di rimozione.
Le opere di recinzione del terreno non si configurano,
infatti, come nuova costruzione, per la quale è necessario
il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per
natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del
diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios
o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole
proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro, la quale costituisce installazione
precaria e non incide in modo permanente sull’assetto
edilizio del territorio (cfr., fra le ultime, TAR Lazio,
Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644).
L’intervento in questione rientra, piuttosto nella portata
residuale degli interventi realizzabili con il regime
semplificato della d.i.a., a mente dell'art. 22 del t.u.
dell'edilizia, la cui mancanza non è sanzionabile con la
rimozione o la demolizione, previsti dall'art. 31 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, per l'esecuzione di interventi in
assenza del permesso di costruire, in totale difformità del
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ma con
l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal
successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza
della prescritta denuncia di inizio di attività
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 15.02.2010 n. 950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appare
irrilevante che la recinzione in esame (costituita da una
semplice rete metallica e da paletti infissi nel terreno)
sia stata eseguita senza nulla-osta in area vincolata,
trattandosi di opera priva di apprezzabile impatto
ambientale.
Un secondo
ordine di considerazioni fa riferimento alla mancanza di
autorizzazione paesaggistica.
Si osserva preliminarmente che non è contestata l’esistenza
del vincolo, atteso che l’area interessata dall’intervento è
pacificamente inclusa nella fascia di rispetto di 150 metri
dalle sponde del torrente Orco.
Va quindi precisato, a confutazione dei rilievi di
legittimità svolti dalla parte ricorrente, che l’erroneo
riferimento normativo contenuto in entrambi i provvedimenti
impugnati (è stato richiamato l’abrogato d.lgs. n. 490 del
1999, in luogo del vigente d.lgs. n. 42 del 2004) non vale
certo ad inficiarne la legittimità, poiché i presupposti dei
provvedimenti stessi sono riconducibili senza margini di
incertezza alle disposizioni legislative che li regolano
(cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 19.12.2006, n. 2997).
Ciò premesso, appare irrilevante che la recinzione in esame
(costituita, si ribadisce, da una semplice rete metallica e
da paletti infissi nel terreno) sia stata eseguita senza
nulla-osta in area vincolata, trattandosi di opera priva di
apprezzabile impatto ambientale (cfr., in analoga
fattispecie, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08.05.2007, n.
4821) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 15.02.2010 n. 950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio
del potere comunale
di autotutela possessoria sulle strade vicinali
richiede la sussistenza di requisiti di fatto (un passaggio
esercitato “iure servitutis publicae” da una collettività di
persone, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze
di carattere generale, l'esistenza di un titolo valido a
fondamento del diritto di uso pubblico) che la parte
ricorrente non ha fatto oggetto di contestazione, essendosi
la deducente limitata a rimarcare le caratteristiche
oggettive che imporrebbero di configurare l’arteria in
questione come un semplice sentiero di campagna.
Tali caratteristiche, peraltro, non ne escludono la
riconducibilità alla categoria delle strade, poiché l’art. 3
del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, definisce il
sentiero (o mulattiera o tratturo) come la strada a fondo
naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di
animali.
Rimane da
considerare il terzo motivo posto a fondamento dei
provvedimenti impugnati, riferito all’esistenza di una
strada comunale che attraversa il fondo dei ricorrenti e che
sarebbe stata interrotta dalla recinzione.
Il provvedimento ripristinatorio specifica ulteriormente, al
riguardo, che l’esistenza della recinzione impedisce la
regolare circolazione sulla strada e l’accesso a un tombino
di derivazione dell’acqua potabile ivi esistente; il tombino
è posto a servizio di un limitrofo fabbricato di proprietà
di terzi, cosicché si verificherebbe nella specie
l’interruzione del pubblico servizio di manutenzione
dell’acquedotto.
Tale corredo motivazionale prescinde, quindi, da esigenze di
tutela di valori urbanistici o ambientali e presuppone,
invece, l’esercizio del potere comunale di autotutela
possessoria sulle strade vicinali, finalizzato alla
rimozione degli ostacoli che si frappongono all’uso pubblico
delle strade, tuttora previsto dall’art. 15 del decreto
legge luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446, convertito
nella legge 17.04.1925, n. 473.
L'esercizio di tale potere richiede la sussistenza di
requisiti di fatto (un passaggio esercitato “iure servitutis
publicae” da una collettività di persone, la concreta
idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere
generale, l'esistenza di un titolo valido a fondamento del
diritto di uso pubblico) che la parte ricorrente non ha
fatto oggetto di contestazione, essendosi la deducente
limitata a rimarcare le caratteristiche oggettive che
imporrebbero di configurare l’arteria in questione come un
semplice sentiero di campagna.
Tali caratteristiche, peraltro, non ne escludono la
riconducibilità alla categoria delle strade, poiché l’art. 3
del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, definisce il
sentiero (o mulattiera o tratturo) come la strada a fondo
naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni o di
animali.
Né il potere comunale di autotutela esercitato nella
fattispecie avrebbe potuto essere escluso dal diritto,
riconosciuto dall’art. 841 cod. civ., del proprietario di
chiudere il proprio fondo, poiché la facoltà di chiusura non
può esercitarsi con modalità tali da impedire (o da rendere
difficoltoso) l’esercizio della preesistente servitù
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 15.02.2010 n. 950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una
recinzione costituita da semplice rete metallica e paletti
infissi nel terreno non necessita di concessione edilizia,
dal momento che non configura un’opera edilizia permanente,
ma un manufatto di precaria installazione e di immediata
asportazione.
Si tratta invece di opera sottoposta a semplice regime di
Denuncia Inizio Attività, come tra l’altro espressamente
stabilito dall’art. 4 L. n. 493/1993 (L. n. 662/1996).
Nessuno rilievo può avere, poi, il fatto che, nella specie,
l’opera in questione sia stata realizzata in area vincolata,
sia perché le richiamate disposizioni non pongono alcuna
distinzione al riguardo (che pertanto non può essere posta
dall’interprete), sia perché si tratta comunque di opere,
per quanto sopra, prive di impatto ambientale.
Preliminarmente occorre chiarire, in punto di fatto, che le
opere in questione consistono (alla luce della stessa
istruttoria tecnica espletata dal Comune resistente) nella
realizzazione, in area vincolata paesaggisticamente, di <<una
recinzione costituita con 11 putrelle in ferro piantate nel
terreno e recintate con 10 pannelli di rete elettrosaldata,
legata alle putrelle con filo di ferro per una lunghezza
totale di 15 metri circa>>.
Non si tratta quindi tout court di “pannelli”
(come affermato in memoria dal Comune), ma di “pannelli
di rete elettrosaldata”, come tali privi di qualsiasi
impatto ambientale, posti unicamente a delimitazione della
proprietà privata (come si evince altresì dalla perizia e
dalla relativa documentazione fotografica allegata al
ricorso).
Tanto chiarito, il Collegio ritiene, conformemente alla
giurisprudenza formatasi sul punto, che la realizzazione di
una recinzione costituita da semplice rete metallica e
paletti infissi nel terreno (come appunto avvenuto nel caso
di specie) non necessiti di concessione edilizia, dal
momento che non configura un’opera edilizia permanente, ma
un manufatto di precaria installazione e di immediata
asportazione (cfr. TAR Emilia Romagna, Sez. II, n. 82/2007).
Si tratta invece di opera sottoposta a semplice regime di
Denuncia Inizio Attività, come tra l’altro espressamente
stabilito dall’art. 4 L. n. 493/1993 (L. n. 662/1996),
nonché dall’art. 35 del Regolamento Edilizio del Comune di
Napoli.
Nessuno rilievo può avere, poi, il fatto che, nella specie,
l’opera in questione sia stata realizzata in area vincolata,
sia perché le richiamate disposizioni non pongono alcuna
distinzione al riguardo (che pertanto non può essere posta
dall’interprete), sia perché si tratta comunque di opere,
per quanto sopra, prive di impatto ambientale.
Il Comune avrebbe dovuto quindi applicare la diversa
sanzione prevista per la mancanza di Denuncia Inizio
Attività (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 08.05.2007 n. 4821 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 27.05.2013 |
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IN EVIDENZA |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
In merito ai cosiddetti "lavori di somma urgenza".
Il comma 3 dell’art. 191 dlgs n. 267/2000 risulta
essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di
“autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in
presenza di situazioni che richiedono un intervento
immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in
presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità
di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di
fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti
lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può
procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei
modi indicati dal terzo comma.
Allora, appare chiara la volontà del legislatore di
consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni
qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo
allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale
circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere
all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di
bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono
sufficienti.
Diversamente, la presenza di fondi a tal
fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può
attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta
necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
---------------
... il Sindaco del Comune di Riva Ligure chiede alla Sezione
di controllo un parere in merito alla corretta
interpretazione ed applicazione dell’art. 191, comma 3, del
d.lgs. n. 267/2000, (come modificato dall'art. 3, comma 1,
lettera i), legge n. 213 del 2012), in base a cui “Per i
lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi
di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora
i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino
insufficienti, entro dieci giorni dall'ordinazione fatta a
terzi, su proposta del responsabile del procedimento,
sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento
della spesa con le modalità previste dall'articolo 194,
comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura
finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la
rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato
entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta
da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre
dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il
predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.”
Il Sindaco chiede di conoscere se nel caso in cui per i
lavori di somma urgenza i fondi previsti a bilancio siano
sufficienti occorra seguire la procedura di cui all’art. 194
(riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio).
...
Quesito analogo era stato posto dalla provincia di La Spezia
cui questa Sezione di controllo ha rilasciato parere con
delibera n. 12 del 2013, dalle cui conclusioni questa
Sezione non intende discostarsi.
Brevemente il Collegio, nel ripercorrere quanto già
osservato nelle delibera suddetta, ritiene che non sia
indifferente, al fine di un corretto percorso argomentativo,
evidenziare l’allocazione della norma all’interno del TUEL.
L’art. 191, difatti, fissa le “Regole per l'assunzione di
impegni e per l'effettuazione di spese” nel rispetto dei
“Principi di gestione e controllo di gestione” (CAPO IV).
Il primo comma della norma citata individua l’ordinaria
procedura di spesa per cui l’Ente può attivarsi solo se
sussistono l'impegno contabile registrato sul competente
intervento o capitolo del bilancio di previsione e
l'attestazione della copertura finanziaria di cui
all'articolo 153, comma 5. Solo dopo, il responsabile del
servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di
spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la
copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della
prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista
dalla legge, il comma 3 dell’articolato
normativo risulta essere una deroga alla disciplina
ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del
legislatore a derogare in presenza di situazioni che
richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela
di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in
presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità
di lavori di somma urgenza e mancanza (o insufficienza) di
fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti
lavori. Solo in presenza di tali presupposti l’Ente può
procedere all’ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la
procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei
modi indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati
appare chiara la volontà del legislatore di
consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni
qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo
allorquando non vi siano fondi a tal fine stanziati. In tale
circostanza, difatti, non è possibile per l’Ente procedere
all’impegno di somme sul competente capitolo o intervento di
bilancio in quanto fondi non ve ne sono o non sono
sufficienti.
Diversamente, la presenza di fondi a tal
fine destinati o, in altre parole, quando l’Ente può
attivare l’ordinaria procedura d’impegno, non risulta
necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto, la deroga è una sorta di
autorizzazione del legislatore con cui l’Ente può procedere
a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare
interessi primari e consentire, successivamente, attivare un
percorso che consenta l’individuazione delle risorse da
destinare alla copertura finanziaria dei lavori ordinati in
via d’urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano
trovarsi all’interno del bilancio dell’Ente non interessa al
fine della corretta applicazione della norma.
Altro non farà l’Ente, in sede di
riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto
dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al
piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli
equilibri di bilancio) del TUEL
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 22). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Consulenze, no web no money.
Senza pubblicazione non è possibile liquidare l'onorario.
La Corte conti ha condannato un responsabile finanziario a
una sanzione pari al compenso.
Il funzionario pubblico che liquida un compenso ad un
consulente esterno, nonostante l'amministrazione non abbia
ottemperato alla pubblicazione, sul proprio sito internet,
del relativo provvedimento di conferimento, è soggetto, a
titolo di responsabilità erariale, al pagamento di una
sanzione pari al compenso pattuito.
---------------
È quanto ha deciso la Sez. giurisdizionale della Corte
dei Conti per la regione Molise, nel testo della recente
sentenza
29.04.2013 n. 48, applicando, per la prima volta sul
panorama giurisprudenziale, i precetti indicati dal
legislatore all'articolo 1, comma 127, della legge
finanziaria 2007 (come modificato dall'art. 3 comma 54, della
finanziaria 2008), dirimendo la vicenda che ha visto
convenuto in giudizio un responsabile finanziario di un
comune molisano che aveva provveduto a liquidare il compenso
a un soggetto esterno, non avendo preventivamente verificato
la pubblicazione dell'incarico sulla pagina istituzionale
dell'amministrazione comunale.
E nei fatti oggetto del giudizio in esame, al momento del
pagamento, sulla home-page del comune non vi era alcuna
traccia del provvedimento di incarico.
Come si ricorderà, la disposizione sopra richiamata impone
che le p.a. che si avvalgono di collaboratori esterni o che
affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un
compenso, sono tenute (è pertanto un obbligo e non certo una
facoltà) a pubblicare sul proprio sito web i relativi
provvedimenti completi di indicazione dei soggetti
percettori, della ragione dell'incarico e dell'ammontare
erogato. La norma, poi, prevede che in caso di omessa
pubblicazione, la liquidazione del corrispettivo per gli
incarichi di collaborazione o di consulenza costituisca
illecito disciplinare e determini la responsabilità erariale
del dirigente preposto al pagamento.
Secondo il collegio giudicante della magistratura contabile
molisana, la disposizione si mostra chiara e non necessita
di alcuna interpretazione estensiva nel prevedere una
responsabilità erariale per tutti quei casi in cui si
provveda a liquidare gli incarichi di collaborazione, senza
che si sia preventivamente pubblicato, sul sito della p.a.,
il provvedimento di incarico, completo dei dati che vanno
nella direzione auspicata dei principi che devono regolare
la massima trasparenza e pubblicità tra la pubblica
amministrazione e il cittadino.
Entrando nel merito, sotto il profilo del danno, il collegio
ha osservato che la responsabilità di cui sopra non implica
necessariamente che si accerti la sussistenza di un danno
patrimoniale (quindi di un depauperamento delle casse
comunali). Pertanto, in queste ipotesi, occorrerà solamente
verificare la semplice violazione della disposizione
normativa, oltre ad accertare la sussistenza dell'elemento
psicologico della colpa grave (o del dolo, in alcuni casi)
in capo al soggetto convenuto.
In particolare, ha aggiunto la Corte nella sua attenta
disamina, deve essere chiarito che la norma violata, pur
connotando l'illiceità della liquidazione del compenso in
assenza dei necessari requisiti di pubblicità e trasparenza,
non individua una specifica sanzione come conseguenza della
violazione commessa. La sua quantificazione, quindi, è
rimessa all'autonoma valutazione del giudice contabile.
Sotto il profilo soggettivo, è indubbio che la condotta del
responsabile finanziario sia connotata da colpa grave, sia
per la funzione apicale rivestita in seno all'ente locale
sia perché la norma, al verificarsi della liquidazione delle
spettanze (siamo nel novembre del 2009), era già in vigore
da circa due anni (1/1/2008). La colpa grave, pertanto, è
collegata all'inescusabilità dell'errore interpretativo su
una norma sanzionatoria che, ammette il collegio, «si mostra
estremamente chiara e inequivoca» o, in alternativa, alla
mancata attivazione di un procedimento che avrebbe
consentito al convenuto di accertare la regolare osservanza
della norma.
Tuttavia, nella quantificazione del danno, rispetto alla
richiesta della Procura, pari all'ammontare del compenso,
liquidato in 3.900 euro, il collegio ha optato per un suo
dimezzamento. In questo caso, infatti, trova applicazione
l'istituto della «compensatio lucri cum damno»,
ovvero la detrazione dall'importo contestato dei vantaggi
comunque ricevuti dall'amministrazione, grazie all'opera
svolta dal consulente esterno (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Assunzione ai sensi della legge 12.03.1999, n.
68. Quote d'obbligo (nota
22.05.2013 n. 23580 di prot.). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
TRIBUTI:
Oggetto: Novità attinenti il versamento della prima rata
IMU ed alle relative modalità di calcolo (ANCE di
Bergamo,
circolare 24.05.2013 n. 125). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche
recate dall’art. 10, comma 4, lett. b), del D.L. 08.04.2013,
n. 35, in corso di conversione. Quesiti in materia di
pagamento della prima rata dell’imposta relativa all’anno
2013 (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare 23.05.2013 n. 2/DF). |
TRIBUTI:
Decreto Ministero dell’Economia e delle Finanze del
14.05.2013 di approvazione del modello di bollettino di
conto corrente postale concernente il versamento del tributo
comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES) (IFEL,
nota 21.05.2013). |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI: Vi
è un principio basilare nel nostro ordinamento, da lungo
tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza
contabile in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato
all’ente locale, deve assolvere ai compiti istituzionali
avvalendosi delle proprie strutture organizzative e del
personale che vi è preposto.
Detto principio costituisce, per jus receptum, il corollario
del canone costituzionale di buona amministrazione (art. 97
Cost.) che impone alla pubblica amministrazione di
uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità,
economicità, efficienza ed imparzialità.
Tuttavia, la possibilità di far ricorso a personale esterno
(esternalizzazione) è ammessa nei limiti e alle condizioni
in cui la legge lo preveda.
Dalla lettura sistematica delle disposizioni che
disciplinano il ricorso alle risorse esterne, e quindi
dall’esegesi dell’art. 7 del d.lgs. 1993, n. 29, dell’ art.
110, comma 1, 2, e 6 del dlg. 267/2000 (con esclusivo
riferimento ai comuni ed alla province), dell’art. 1, co. 11
e co. 116 della legge n. 311/2004, dell’art. 32 del d.l.
223/2006 e successivamente dell’art. 3, comma 76, della l.
244 del 2007, è dato cogliere un principio normativo di
fondo che regola tutta la materia e cioè il conferimento di
incarichi all’esterno, in qualunque delle ipotesi previste,
è consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione
organica non sia possibile reperire personale competente ad
affrontare problematiche di particolare complessità od
urgenza.
--------------
Requisito imprescindibile della responsabilità
amministrativo-contabile è la sussistenza del
danno erariale.
Il legislatore
si è occupato di disciplinare in
dettaglio i presupposti legittimanti il ricorso alla
collaborazione esterna così esprimendo a monte una
valutazione di utilità; per cui è, oltreché illegittimo,
assolutamente inutile qualsiasi conferimento di incarico che
non rispetti i presupposti normativi.
In altri termini lo stesso legislatore subordina l’utilità
dell’esternalizzazione a ferrei limiti legali, solo in
presenza dei quali si giustifica l’esborso di denaro.
Ne consegue che tutti gli emolumenti erogati al M.
costituiscono un danno all’erario del Comune di Serrata a
prescindere dall’attività concretamente svolta da questi,
poiché in ogni caso non può considerarsi utile atteso che
avrebbe potuto, per come sopra evidenziato, essere svolta da
soggetti interni all’amministrazione stessa.
---------------
L’evento dannoso per
cui è causa (ndr: illegittimo incarico professionale
all'esterno dell'ente) è stato determinato non solo dalla condotta
colposa degli odierni convenuti ma anche dal comportamento
di soggetti che sono rimasti estranei al presente giudizio
ed in particolare dal segretario comunale che ha reso parere
favorevole di legittimità sulla deliberazione della giunta
municipale con la quale è stato deciso il conferimento
dell’incarico per cui è causa.
Conseguentemente, in ragione dell'art. 53, comma 3, l. n. 142
del 1990, di tale parere deve rispondere, a prescindere
dalla natura obbligatoria o facoltativa.
Peraltro il segretario comunale, che è un tecnico del
diritto, svolge una specifica funzione di garante della
legalità e della correttezza amministrativa dell’azione
dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione
giuridica ed amministrativa, sicché non avrebbe dovuto
rilasciare il parere favorevole proprio in considerazione
della palese violazione dei parametri normativi.
---------------
1) La questione posta al vaglio del Collegio riguarda una
ipotesi di danno erariale relativo all’attribuzione di un
incarico a soggetto estraneo all’ente comunale.
In particolare, parte requirente contesta agli odierni
convenuti di aver conferito, con contratto di diritto
privato a tempo determinato, la gestione operativa
dell’attività contabile e tributaria del comune di Serrata
al sig. Macrì, in assenza dei presupposti cui il legislatore
subordina l’esternalizzazione.
2) In primo luogo si ritiene di dovere premettere alcune
considerazioni, tenendo comunque presente che con la
delibere richiamata in citazione è stato stipulato un
contratto a tempo determinato in ragione dell’art. 110,
comma 2° del Tuel.
Vi è un principio basilare nel nostro ordinamento, da lungo
tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza
contabile in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato
all’ente locale, deve assolvere ai compiti istituzionali
avvalendosi delle proprie strutture organizzative e del
personale che vi è preposto.
Detto principio costituisce, per jus receptum, il corollario
del canone costituzionale di buona amministrazione (art. 97
Cost.) che impone alla pubblica amministrazione di
uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità,
economicità, efficienza ed imparzialità (Corte dei conti,
Sez. Sardegna, 18.09.2008, n. 1831; Corte dei conti, Sez.
Lazio, 12.05.2008, n. 787).
Tuttavia, la possibilità di far ricorso a personale esterno
(esternalizzazione) è ammessa nei limiti e alle condizioni
in cui la legge lo preveda (Sez. controllo, 26.11.1991, n. 111; SS. RR., 23.06.1992, n. 792, e 12.06.1998, n. 27; Sez. II, 13.06.1997, n. 81, e 18.10.1999, n. 271).
Dalla lettura sistematica delle disposizioni che
disciplinano il ricorso alle risorse esterne, e quindi
dall’esegesi dell’ art. 7 del d.lgs. 1993, n. 29, dell’art.
110, comma 1, 2, e 6 del dlgs. 267/2000 (con esclusivo
riferimento ai comuni ed alla province), dell’art. 1, co.
11 e co. 116 della legge n. 311/2004, dell’art. 32 del
d.l. 223/2006 e successivamente dell’art. 3, comma 76, della
l. 244 del 2007, è dato cogliere un principio normativo di
fondo che regola tutta la materia e cioè il conferimento di
incarichi all’esterno, in qualunque delle ipotesi previste,
è consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione
organica non sia possibile reperire personale competente ad
affrontare problematiche di particolare complessità od
urgenza.
3) Tanto premesso, come innanzi evidenziato, la disposizione
di riferimento è contenuta nell’art. 110, comma 2, del d.lgs.
276/200, che consente, entro i limiti e seguendo i criteri e
le modalità indicate nel regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, di stipulare contratti a tempo
determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari
dell'area direttiva.
Anche detta disposizione, tuttavia, subordina il ricorso a
risorse esterne solo in assenza di professionalità analoghe
presenti all'interno dell'ente.
4) Ebbene, il Collegio non ritiene che l’incarico assegnato al Macrì sia stato conferito in presenza dei
presupposti legittimanti.
In primo luogo occorre chiarire che le incombenze assegnate
al suddetto avevano la forma di “operazioni
amministrative”, e quindi avevano un esclusivo contenuto
materiale.
Con riferimento all’attività contabile e tributaria,
infatti, quando si parla di gestione operativa (soprattutto
in un ente di ridottissime dimensioni), non può che farsi
riferimento all’attività necessaria per portare ad
esecuzione le già disposte decisioni amministrative, in
termini di pagamenti delle spese e di riscossioni
dell’entrate.
Trattasi, sostanzialmente di operazioni reali seguite dai
doveri di annotazione nelle scritture contabili dell’ente delle
operazioni svolte; compiti dunque aventi esclusivamente
natura esecutiva.
Ebbene, dall’esame della pianta organica risulta che,
all’epoca dei fatti, nell’Area Amministrativa nel Comune di
Serrata vi era un posto (coperto) di istruttore
amministrativo, categoria C, posizione economica C5 le cui
mansioni erano perfettamente compatibili con “la gestione
operativa dell’attività contabile e tributaria” di un paese
di 1.000 abitanti circa.
L’istruttore amministrativo, infatti, secondo la
declaratoria dei profili professionali di cui al CC.N.EE.LL.
del 31/03/1999, svolge un’attività caratterizzata da
contenuti di concetto con responsabilità di risultato
relativi a specifici processi produttivi/ amministrativi, ha
un’autonomia di iniziativa circoscritta al proprio ambito
operativo tant’è che se posto nell’ambito di una
organizzazione di medie dimensioni assume la funzione di
capoufficio. E’ un lavoratore che svolge attività
istruttoria nel campo amministrativo, tecnico e contabile,
curando, nel rispetto delle procedure e degli adempimenti di
legge ed avvalendosi delle conoscenze professionali tipiche
del profilo, la raccolta, l’elaborazione e l’analisi dei
dati.
Peraltro che le mansioni attribuite al Macrì fossero al
massimo quelle proprie dell’istruttore amministrativo emerge
senza alcun dubbio altresì ove si pongano a confronto con
quelle proprie del funzionario, Istruttore Direttivo,
categoria d (profilo immediatamente superiore alla cat. C)
al quale, invece, è chiesto di espletare funzioni di elevato
contenuto professionale che si concretizzano in attività di
studio, di ricerca, di elaborazione di piani e programmi, di
predisposizione e formazione di atti e provvedimenti di
notevole grado di difficoltà.
Non solo; la Giunta Municipale aveva previsto in pianta
organica, nell’area amministrativa, un posto di istruttore
contabile, categoria C.
Tanto premesso, si ritiene che le incombenze assegnate al
ragioniere esterno avrebbero dovuto essere espletate
dall’Istruttore amministrativo già presente nell’Area
Amministrativa o addirittura, da altro dipendente (anche
con profilo funzionale inferiore) mediante la progressione
verticale.
Detto assunto, infatti, scaturisce dalla delibera
dell’Organo giuntale avente ad oggetto “approvazione nuova
dotazione organica e piano triennale delle assunzioni” nella
quale viene chiaramente affermato “la copertura del posto di
istruttore contabile è prevista mediante la progressione
verticale”; la qualcosa lascia presumere che nell’ambito
della dotazione organica vi fossero professionalità ,anche
di profilo inferiore alla C, capaci di svolgere le funzioni
assegnate all’esterno.
5) Tra l’altro, nella delibera con la quale si autorizza il
sindaco al conferimento dell’incarico esterno, nessuna
motivazione concreta viene formulata in ordine alla
inesistenza di idonea professionalità nell’ambito dell’ente.
Nessun argomento, infatti, viene esternato in ordine alla
eventuale inidoneità dell’istruttore amministrativo in
organico a svolgere le mansioni esternalizzate Né risulta in
altro modo che una tale valutazione sia stata concretamente
svolta.
In proposito il Collegio condivide quanto affermato dalla
Sezione Toscana, nella sentenza n 329/2009, e cioè che “non
si può ignorare la necessità che tali valutazioni siano
suffragate da serie e documentate azioni”.
6) Invero, l’attribuzione della gestione operativa
dell’attività contabile e tributaria all’istruttore
amministrativo in organico sarebbe stata altresì possibile
in considerazione dell’esigua mole di lavoro conferita
all’esterno; si consideri al riguardo che Il Macrì, secondo
il contratto, avrebbe dovuto garantire almeno due accessi
settimanali in ufficio; e per tuziorismo si evidenzia che le
mansioni affidate al ragioniere potevano essere svolte solo
in ufficio.
Ebbene, seppure l’istruttore fosse già impegnato all’Ufficio
anagrafe (per come assunto dalla difesa), ben poteva
svolgere anche detta ulteriore mansione anche solo in
considerazione della modesta entità di lavoro che l’ ufficio
anagrafe di un paesino di meno di 1000 abitanti è chiamato
ad espletare.
7) Ma la illegittimità scaturisce anche da altra
considerazione.
Il Macrì, contro ogni principio che disciplina
l’esternalizzazione, è stato consulente contabile presso il
comune di Serrata dal 1980 al 2002, ed incaricato
all’Ufficio finanziario e tributario dal 2003 a tutt’oggi.
In sostanza il suddetto ragioniere, a dispetto di tutte le
norme che regolano le procedure di reclutamento e di
assunzione del personale nelle pubbliche amministrazioni,
svolge attività lavorativa a favore del comune di Serrata da
oltre trent’anni senza aver mai superato un concorso
pubblico.
Tanto emerge sia dal curriculum vitae del Macrì che dalla
deliberazione della Giunta municipale nella quale è
espressamente dichiarato “che l’Ufficio di ragioneria si è
avvalso del supporto del Rag. Macrì Tito da lungo tempo”.
Tanto premesso, l’incarico è stato conferito in assenza dei
presupposti normativi.
8)
Requisito imprescindibile della responsabilità
amministrativo-contabile è, tuttavia, la sussistenza del
danno erariale.
Il difensore dei convenuti oppone, in proposito, che
l’amministrazione avrebbe comunque beneficiato delle
prestazioni professionali rese dal Macrì.
Il Collegio tuttavia ritiene di non poter condividere detto
assunto e di non poter configurare un’ipotesi di vantaggio
derivante all’amministrazione locale.
Il legislatore, infatti,
si è occupato di disciplinare in
dettaglio i presupposti legittimanti il ricorso alla
collaborazione esterna così esprimendo a monte una
valutazione di utilità; per cui è, oltreché illegittimo,
assolutamente inutile qualsiasi conferimento di incarico che
non rispetti i presupposti normativi.
In altri termini lo stesso legislatore subordina l’utilità
dell’esternalizzazione a ferrei limiti legali, solo in
presenza dei quali si giustifica l’esborso di denaro.
Ne consegue che tutti gli emolumenti erogati al Macrì
costituiscono un danno all’erario del Comune di Serrata a
prescindere dall’attività concretamente svolta da questi,
poiché in ogni caso non può considerarsi utile atteso che
avrebbe potuto, per come sopra evidenziato, essere svolta da
soggetti interni all’amministrazione stessa.
9) La Procura ha ritenuto di citare il Sindaco e gli
assessori che hanno deliberato di conferire l’incarico al Macrì.
E’ fuori ogni dubbio che il danno testé configurato sia
etiologicamente riconducibile alla condotta posta in essere
dai suddetti soggetti.
Si consideri, infatti, che il Sindaco e gli assessori Sofi e
Sorrento, con il provvedimento n. 4 del 07.01.2010, hanno
deliberato il conferimento della gestione operativa
dell’attività contabile e tributaria del comune di Serrata
al rag. Macrì. Così come, il Sindaco, in ottemperanza a
quanto disposto nella delibera giuntale, ha provveduto a
conferire l’incarico.
Tutti atti illegittimi, per i motivi innanzi indicati e
forieri del danno erariale per cui è causa.
10)
Ma la condotta, oltre ad essere illecita è altresì
connotata da colpa grave.
I suddetti, infatti, in spregio alle norme che regolano la
materia con assoluta noncuranza dei parametri normativi
(propri dell’azione amministrativa) dell’efficacia,
dell’efficienza e dell’economicità ed in violazione alle più
elementari regole di buona amministrazione, hanno gestito
con evidente negligenza e trascuratezza il patrimonio del
Comune di Serrata.
Peraltro la gravità della colpa appare di tutta evidenza
proprio in considerazione che detto incarico è stato
conferito, senza soluzione di continuità, dal 2003 ad oggi.
Non solo; gli odierni convenuti ben conoscevano la dotazione
organica nonché la previsione di copertura del posto di
istruttore contabile mediante la progressione verticale: loro
stessi, infatti, lo avevano deliberato nel 2009.
Un ulteriore elemento emerge dagli atti e cioè che il Comune
di Serrata, da oltre venticinque anni utilizzava
l’esternalizzazione per provvedere ai bisogni istituzionali
dell’ente evidentemente considerando il ricorso a
professionalità esterne come una prerogativa arbitraria
propria degli amministratori.
In ogni caso, l’elemento che, a fortiori, convince il
Collegio ad affermare la gravità della colpa nella condotta
degli odierni convenuti, scaturisce dal fatto che il 05.03.2010, quindi appena due mesi dopo il conferimento, il gruppo
consiliare “Nuovi orizzonti” chiedeva al Sindaco, alla
Giunta Municipale ed al Segretario comunale, di revocare
l’incarico al Macrì in considerazione dei molteplici profili
di illegittimità.
Ebbene, anche a fronte di una puntuale ed argomentata
richiesta di revoca, i suddetti organi non hanno inteso
prendere posizione, mantenendo, seppure avvisati della
illegittimità, l’incarico al Macrì in spregio alle
disposizioni che disciplinano la materia.
11) L’ultimo profilo da esaminare riguarda la ripartizione
del danno evidenziando che “se il fatto dannoso è causato da
più persone, la Corte dei conti, valutate le singole
responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha
preso” (art. 1-quater l. 20/1994 ).
Il Collegio ritiene innanzi a tutto che l’evento dannoso per
cui è causa è stato determinato non solo dalla condotta
colposa degli odierni convenuti ma anche dal comportamento
di soggetti che sono rimasti estranei al presente giudizio
ed in particolare dal segretario comunale che ha reso parere
favorevole di legittimità sulla deliberazione della giunta
municipale con la quale è stato deciso il conferimento
dell’incarico per cui è causa.
Conseguentemente, in ragione dell'art. 53, comma 3, l. n. 142
del 1990, di tale parere deve rispondere, a prescindere
dalla natura obbligatoria o facoltativa.
Peraltro il segretario comunale, che è un tecnico del
diritto, svolge una specifica funzione di garante della
legalità e della correttezza amministrativa dell’azione
dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione
giuridica ed amministrativa, sicché non avrebbe dovuto
rilasciare il parere favorevole proprio in considerazione
della palese violazione dei parametri normativi.
Tanto premesso, il Collegio ritiene di dover imputare
idealmente il 25% del danno erariale al segretario comunale
non citato e di ripartire il restante 75% in parti uguali
tra il sindaco (Vinci Salvatore) e gli altri due membri
della giunta municipale presenti alla seduta del 07.01.2010 (Sofi Angelo e Sorrenti Gioacchino) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza 10.05.2013 n. 159). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
è
ammissibile la partecipazione di membri del
Consiglio Comunale al sistema dei controlli interni
disciplinato dagli articoli 147 e seguenti del dlgs
18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.), introdotti dall’articolo 3,
comma 1, lettera d), del decreto legge 10.10.2012, n. 174,
convertito con modificazioni con legge 07.12.2012 n. 213.
---------------
... il Sindaco del Comune di Cervo, dopo aver premesso che
lo specifico regolamento comunale vigente in materia prevede
che al sistema dei controlli partecipino il segretario
comunale, i responsabili dei servizi e l’unità organizzativa
appositamente istituita, chiede se il regolamento stesso
possa essere legittimamente modificato nel senso di
ammettere la possibilità della partecipazione a tale sistema
anche di membri del Consiglio Comunale.
...
Nel merito, questa Sezione ritiene di
riservare al quesito una soluzione negativa, nel senso cioè
della inammissibilità della partecipazione di membri del
Consiglio Comunale al sistema dei controlli interni
disciplinato dagli articoli 147 e seguenti del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.), introdotti
dall’articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto legge
10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni con legge
07.12.2012 n. 213.
Alla conclusione si perviene già in base alla stessa lettera
del nuovo art. 147 T.U.E.L. che al quarto comma individua
distintamente i soggetti coinvolti in tale sistema nelle
figure organizzative di maggior livello di responsabilità
presenti negli enti, quali il segretario comunale, il
direttore generale e i responsabili dei servizi, oltre che
nelle unità amministrative di controllo eventualmente
istituite. Nei successivi articoli da 147-bis a
147-quinquies sono poi contenute norme che definiscono con
maggior precisione il ruolo di ciascuno di tali soggetti con
riguardo alle diverse tipologie di controllo interno e che
non lasciano spazio all’inserimento di ulteriori figure
soggettive con proprie specifiche competenze, fatta salva
l’eccezione rappresentata dal coinvolgimento attivo degli
organi di governo nel controllo sugli equilibri finanziari
di cui all’art. 147-quinquies, il quale peraltro avviene
sotto la direzione e il coordinamento del responsabile del
servizio finanziario e che comunque non riguarda i
consiglieri comunali.
La suddetta elencazione normativa dei soggetti che
partecipano al sistema dei controlli interni deve pertanto
considerarsi tassativa, ferma restando l’autonomia normativa
ed organizzativa di ciascun ente in ordine alla puntuale
disciplina del medesimo.
D’altro canto, che tale spazio di autonomia riservata agli
enti non possa essere in questo ambito esercitato fino a
ricomprendere specifiche competenze in capo ad organi aventi
natura politica quali i componenti del Consiglio Comunale è
conclusione che discende dallo stesso principio generale di
separazione tra funzioni di indirizzo politico esercitate da
organi elettivi o rappresentativi e funzioni amministrative
e di gestione attribuite ad organi burocratici, principio
cui fa per giunta riferimento il primo periodo dello stesso
art. 147, co. 4, T.U.E.L. già citato e al quale gli enti
sono tenuti a conformarsi nel tracciare la disciplina del
sistema dei controlli.
Occorre precisare al riguardo che i controlli interni di cui
si verte in questa sede appartengono evidentemente alla
generale categoria dei controlli “amministrativi”
nelle pubbliche amministrazioni, nella quale sono ricomprese
tutte le varie forme di controllo che hanno comunque ad
oggetto atti o attività poste in essere da organi o uffici
amministrativi di un ente. Come tali essi stessi sono
esplicazione di attività propriamente amministrativa, sia
pur di carattere accessorio e strumentale rispetto a quella
di amministrazione attiva nonché svolta attraverso
procedimenti definiti di secondo grado, il cui esercizio è
in genere precluso agli organi di natura politica quali sono
anche i membri del Consiglio Comunale. Siffatti organi
figurano piuttosto tra i soggetti referenti e beneficiari
delle risultanze delle attività di controllo espletate
all’interno dell’apparato amministrativo, come nel nostro
caso emerge dalle stesse norme qui considerate (cfr. art.
147-bis, co. 3 e art. 147-ter, co. 2, T.U.E.L.).
Va infine rammentato che nel vigente ordinamento degli enti
locali di certo non manca la previsione di altri strumenti
giuridici a disposizione dei membri del consiglio comunale,
finalizzati a garantire il pieno soddisfacimento delle
esigenze informative e cognitive connesse all’adempimento
del loro ufficio.
Oltre al potere singolarmente riconosciuto dall’articolo 43,
comma primo, T.U.E.L. di presentare interrogazioni e mozioni
all’esame del Consiglio, potere in cui è connaturata una
funzione di sindacato politico che può estendersi allo
svolgimento delle funzioni amministrative da parte di
sindaco e giunta, ci si riferisce soprattutto al cosiddetto
diritto di accesso sancito dal secondo comma dello stesso
articolo, in base al quale ciascun consigliere ha il diritto
di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Tale istituto è stato oggetto di ampia trattazione da parte
della giurisprudenza amministrativa la quale, oltre a
rilevarne la natura propriamente funzionale rispetto
all’interesse pubblico perseguito dal singolo consigliere
quale organo di rappresentanza esponenziale della
collettività amministrata, ne ha anche rilevato l’esteso
oggetto di applicazione, specificando tra l’altro che il
diritto di accesso può investire tutti gli atti necessari a
consentire la valutazione della correttezza ed efficacia
dell’operato dell’amministrazione comunale (Cons. Stato,
sez. V, 02.04.2001, n. 1893) e che tutto ciò che concerne
l’attività della pubblica amministrazione in cui è
incardinato il consigliere comunale non può non essere messo
a sua disposizione in virtù della sua funzione a tutela
della collettività (Cons. Stato, sez. V, 23.09.2010, n.
7083) (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 35). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Deve
essere
riconosciuto al R.U.P. il diritto ad una quota parte
dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale
affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione
ed esecuzione dell’opera.
La corresponsione del medesimo peraltro dovrà essere
subordinata all’esistenza del regolamento con cui il Comune
fissi preventivamente la percentuale effettiva da
corrispondere, in rapporto all’entità e complessità
dell’opera da realizzarsi.
---------------
... il Sindaco del Comune
di Cairo Montenotte ha inviato, per il tramite del Consiglio
delle Autonomie Locali, una richiesta di parere sulla
possibilità di corrispondere al tecnico comunale la quota
spettante, ai sensi dell’art. 925 D.Lgs.
163/2006, al Responsabile Unico del Procedimento per
l’attività svolta nella realizzazione di un’opera pubblica
la cui progettazione ed esecuzione è stata affidata a
professionisti esterni in conseguenza dell’oggettiva
complessità della prestazione richiesta, indicando come
sul punto si siano già espresse le Sezioni Regionali di
Controllo dell’Umbria e del Piemonte.
...
2. La questione di merito. La giurisprudenza di controllo
L’ art. 925 D.Lgs. 12.04.2006 n. 163
stabilisce che <<una somma non superiore all’importo del
due per cento dell’importo posto a base di un’opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell’amministrazione è ripartita, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall’amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori. … La corresponsione dell’incentivo
è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti … Le quote parti
dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie>>.
Il Comune di Cairo Montenotte chiede di sapere se sia
applicabile tale disposizione nell’ipotesi in cui un tecnico
comunale abbia svolto le funzioni di Responsabile Unico del
Procedimento finalizzato alla realizzazione di un’opera
pubblica mentre tutte le altre fasi di progettazione ed
esecuzione della medesima siano state affidate a
professionisti esterni.
L’interpretazione positiva è sostenuta da C.d.C. Sez. contr.
Umbria
con il
parere 17.01.2012 n. 3,
che richiama le determinazioni dell’Autorità di Vigilanza
sui Lavori Pubblici 12.04.2001 e 22.06.2005 n. 70, ritenendo
sufficiente la sola esistenza del regolamento con cui l’Ente
fissi preventivamente la percentuale effettiva
dell’incentivo da corrispondere.
In senso opposto C.d.C. Sez. contr. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290,
ritiene che il Responsabile del procedimento abbia diritto
al compenso incentivante qualora effettivamente l’attività
di progettazione o esecuzione sia stata svolta internamente.
Diversamente, nel caso in cui queste ultime siano state
esternalizzate, <<non sorgendo il presupposto per la
ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti
dell’Ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del
Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per
un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e
doveri d’ufficio>>.
3. La valutazione della Sezione sulla questione
sottoposta.
La soluzione del quesito proposto presuppone la
preventiva analisi del ruolo assolto dal Responsabile unico
del procedimento, il quale svolge una funzione pregnante
all’interno del medesimo, gestendone le varie fasi,
assicurando il contraddittorio con le parti private e il
coordinamento con gli uffici interni. Tali compiti assumono
particolare rilevanza nell’ambito delle procedure di
affidamento di opere o servizi. Ciò è confermato dal fatto
che anche in caso di incarichi di progettazione o
pianificazione a soggetti esterni deve essere nominato
comunque un Responsabile unico che coordini le diverse
attività svolte dagli incaricati.
Tale considerazione induce a ritenere che
debba essere riconosciuto a tale figura il diritto ad una
quota parte dell’incentivo di progettazione, anche in caso
di totale affidamento a soggetti esterni delle fasi di
progettazione ed esecuzione dell’opera. La corresponsione
del medesimo peraltro dovrà essere subordinata all’esistenza
del regolamento con cui il Comune fissi preventivamente la
percentuale effettiva da corrispondere, in rapporto
all’entità e complessità dell’opera da realizzarsi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere
18.04.2013 n. 18). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Nei
confronti dei comuni montani fino a 5.000 abitanti trovano
applicazione le disposizioni di cui all’art. 33, comma
3-bis, del Codice dei contratti pubblici, da cui discende
l’obbligo di affidare la gestione delle gare ad evidenza
pubblica ad un'unica centrale di committenza, in assenza
della quale essi devono avvalersi, per gli acquisti di
rilevanza comunitaria, delle convenzioni Consip e di quelle
messe a disposizione da altre centrali di riferimento, ferma
restando la specificità della disciplina contemplata
dall’art. 1, comma 7, del più volte citato d.l. n. 95/2012
riguardo ad alcune categorie merceologiche di beni e servizi
(energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti
extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa
e telefonia mobile) ritenute di particolare rilevanza per il
contenimento della spesa pubblica.
Resta da dire, per completezza, che le conclusioni raggiunte
restano ferme anche a seguito delle innovazioni apportate
dalla l. 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), i cui
commi 149 e 150 hanno ancora modificato, rispettivamente, i
commi 450 e 449 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, e il cui
comma 154 ha integrato l’art. 1, comma 1, del d.l. n.
95/2012, come modificato in sede di conversione.
---------------
L’obbligo
prescritto dal comma 3-bis dell’art. 33 del Codice dei
contratti pubblici di ricorrere al mercato della pubblica
amministrazione, in assenza di una centrale unica e di
strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali
di committenza, pure regionali, investe senz’altro le
acquisizioni di valore inferiore alla soglia di rilevanza
comunitaria.
La stringente formulazione della norma non sembra ammettere
eccezioni all’obbligo di acquisizione tramite mercato
elettronico, fatta salva l’applicazione –diretta o
analogica– della disposizione di cui al secondo periodo del
comma 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, che prevede il
ricorso ad esso “fermi restando gli obblighi … previsti al
comma 449”, con ciò intendendo che,
nel caso in cui sia disponibile una convenzione Consip (o
regionale), il bene o il servizio può essere acquisito a
mezzo del mercato elettronico a condizione che sia
comprovato il rispetto dei parametri di prezzo e qualità ivi
indicati. Del resto, il citato art. 328 del Regolamento di
attuazione del codice dei contratti pubblici prevede (comma
4, lettera b) la possibilità di acquistare sul mercato
elettronico ricorrendo alle procedure in economia.
In questo assetto, le uniche ipotesi in cui possono
ritenersi consentite procedure autonome sono quelle che si
realizzano nel caso di assenza di disponibilità sul mercato
elettronico del bene o del servizio da acquisire e nel caso
di inidoneità dell’uno o dell’altro alle esigenze
dell’amministrazione per mancanza di qualità essenziali.
---------------
... la richiesta di parere della Sezione di
controllo, formulata dai Sindaci dei comuni di Brusson,
Donnas, Montjovet, Pont-Saint-Martin e Valtournenche, in
merito all’applicabilità delle disposizioni relative
all’obbligo di approvvigionamento di beni e servizi a mezzo
delle convenzioni e del mercato elettronico della pubblica
amministrazione della Consip s.p.a. e di altre centrali di
committenza ai comuni montani aventi popolazione non
superiore a 5000 abitanti.
Il quesito propone le seguenti problematiche:
a) se, nei confronti dei comuni montani con meno di 5.000
abitanti, trovi applicazione l’art. 33, comma 3-bis, del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture);
b) se la disposizione ivi recata abbia a oggetto i soli
contratti di rilevanza comunitaria o si estenda anche ai
contratti sotto la soglia di rilevanza comunitaria.
...
9.- La richiesta di parere formulata dalle amministrazioni
comunali di Brusson, Donnas, Montjovet, Pont-Saint-Martin e
Valtournenche propone la soluzione dei seguenti quesiti:
a) se, nei confronti dei comuni montani con popolazione fino
a 5.000 abitanti, trovi applicazione o meno la disciplina
contenuta nel comma 3-bis dell’art. 33 del d.lgs. n.
163/2006, in forza della quale i comuni con popolazione non
superiore a 5.000 abitanti, devono effettuare i propri
acquisti tramite un’unica centrale di committenza costituita
a livello locale o attraverso gli strumenti elettronici di
acquisto gestiti da altre centrali di committenza e il
mercato elettronico della pubblica amministrazione;
b) se, in caso affermativo, le disposizioni ivi recate
abbiano a oggetto anche le acquisizioni di importo inferiore
alla soglia di rilevanza comunitaria.
Riguardo al primo quesito, le amministrazioni
richiedenti hanno rappresentato che a distinte conclusioni
potrebbe giungersi attribuendo rilievo prevalente alla
lettera della norma, che fa riferimento ai comuni con
popolazione non superiore ai 5.000 abitanti, senza
distinzioni di sorta, o al coordinamento di tale norma
–introdotta dal comma 4 dell’art. 1 del d.l. 06.07.2012, n.
95, come modificato, in sede di conversione, dall’art. 1,
comma 1, della l. 07.08.2012, n. 135 [rectius:
introdotta dal comma 4 dell’art. 23 del d.l. 06.12.2011, n.
201, convertito dalla l. 22.12.2011, n. 214, e modificata
dal comma 4 dell’art. 1 del d.l. n. 95/2012, come modificato
dalla legge di conversione]– con quella contenuta nel comma
1 di tale articolo, la quale, nel regolamentare le
conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle procedure
di acquisto di beni e servizi, ricollega tali conseguenze
alla violazione dell’art. 26, comma 3, della l. 23.12.1999,
n. 488 (legge finanziaria 2000), che espressamente esclude
dal proprio ambito di applicazione i comuni con popolazione
fino a 1.000 abitanti e quelli montani con popolazione fino
a 5.000 abitanti.
Riguardo al secondo quesito, le amministrazioni
istanti hanno evidenziato che la norma della cui
applicabilità dubitano trova collocazione nella parte del
Codice dei contratti pubblici che disciplina i contratti di
rilevanza comunitaria.
Tanto premesso, esse hanno prospettato che i comuni montani
con popolazione non superiore a 5.000 abitanti siano
soggetti all’obbligo di affidamento a un’unica centrale di
committenza, potendo alternativamente effettuare acquisti
tramite il mercato elettronico, per i contratti di rilevanza
comunitaria, e che, per i restanti contratti, non trovi
applicazione nei loro confronti il sistema delle convenzioni
e del mercato elettronico, con l’avvertenza, sotto
quest’ultimo aspetto, che diversa sembra essere
l’impostazione seguita dalla Sezione regionale di controllo
per il Piemonte della Corte dei conti (del. n. 271/2012),
dalla quale deriverebbe una riduzione dell’ambito di non
applicabilità del sistema agli affidamenti diretti e alle
acquisizioni mediante amministrazione diretta.
10.- L’acquisto di beni e servizi da parte delle
amministrazioni pubbliche è stato oggetto, a partire dal
1999, di numerosi interventi del legislatore statale,
indotto a razionalizzare le relative procedure da esigenze
di contenimento della spesa pubblica.
Appare pertanto opportuno, al fine di
ricondurre a sistema la materia, ripercorrere sinteticamente
le principali fasi del processo di riforma.
11.- La centralizzazione degli acquisti delle
amministrazioni pubbliche ha preso avvio con l’art. 26 della
l. n. 488/1999. La disciplina originaria, nel prevedere
l’adesione necessaria delle amministrazioni statali alle
convenzioni centralizzate, lasciava alla disponibilità di
quelle non statali, tra cui quelle locali, la scelta di
aderirvi o meno, obbligandole, peraltro, a utilizzarne i
parametri di qualità e prezzo per l’acquisto di beni
comparabili con quelli oggetto di convenzionamento.
Succedutisi altri interventi normativi con le leggi
finanziarie degli anni immediatamente successivi, il
legislatore ha nuovamente riformulato il comma 3 dell’art.
26 con il d.l. 12.07.2004, n. 168, nel testo integrato dalla
legge di conversione 30.07.2004, n. 191, aggiungendo in
particolare la previsione secondo cui “le disposizioni
che danno facoltà alle amministrazioni non statali di
avvalersi delle convenzioni stipulate dalla centrale di
committenza nazionale (Consip s.p.a.), imponendo loro di
utilizzare i parametri di qualità e prezzo ivi previsti come
limiti massimi in caso di acquisti effettuati in proprio,
non si applicano ai comuni con popolazione fino a 1.000
abitanti e a quelli montani con popolazione fino a 5.000
abitanti”.
12.- A seguito di ulteriori modifiche della disposizione
appena riportata, introdotte dall’art. 1, comma 4, del d.l.
12.07.2004, convertito, con modificazioni, dalla l.
30.07.2004, n. 191, la materia veniva ridisciplinata dalla
l. 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007).
Il comma 449 dell’art. 1 di tale legge, riferito alle
commesse di importo comunitario, stabiliva, al primo
periodo, l’obbligo delle amministrazioni statali di
approvvigionarsi attraverso le convenzioni-quadro Consip,
limitatamente ad alcune tipologie di beni e servizi, da
individuarsi annualmente con decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze; il secondo periodo ribadiva
la facoltà delle restanti amministrazioni pubbliche di
ricorrere alle convenzioni –quelle stipulate da Consip o
quelle stipulate dalle centrali di committenza regionali,
introdotte dal comma 456 dell’art. 1 della legge stessa– e
il vincolo di utilizzarne alternativamente i parametri di
prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei
contratti.
Al riguardo, pare opportuno evidenziare che tale periodo si
riferiva indistintamente –come si è accennato– alle “restanti
amministrazioni pubbliche di cui al decreto legislativo
30.03.2001, n. 165”, delle quali fanno parte gli enti
locali, sicché non parrebbe destituito di fondamento
ritenere che l’esclusione dei comuni con popolazione fino a
1.000 abitanti e di quelli montani con popolazione fino a
5.000 abitanti dall’applicazione della norma di cui all’art.
26, comma 3, della l. n. 488/1999 fosse stata da esso
implicitamente superata.
Il comma 450, relativo agli acquisti sotto la soglia di
rilievo comunitario, imponeva, a sua volta, alle
amministrazioni dello Stato di ricorrere al mercato
elettronico della pubblica amministrazione, nulla disponendo
riguardo alle altre amministrazioni.
I commi 449 e 450 dell’art. 1 della l. n.
296/2006 sono stati modificati dall’art. 7 del d.l.
07.05.2012, n. 52, come sostituito dalla legge di
conversione 06.07.2012, n. 94. Mentre il primo comma
dell’art. 7 ha modificato il comma 449, estendendo l’obbligo
di approvvigionamento attraverso le convenzioni-quadro
Consip a tutte le tipologie di beni e servizi che devono
essere acquistati dalle amministrazioni statali, il secondo
comma ha innovato la disciplina prevista dal comma 450 per
le amministrazioni diverse da quelle statali, e dunque anche
per le autonomie locali, cui è stato imposto di fare ricorso
al mercato della pubblica amministrazione, analogamente alle
amministrazioni dello Stato, ovvero ad altri mercati
elettronici, fatto salvo il rispetto del sistema delle
convenzioni previsto nel ridetto comma 449.
13.- Peraltro, la norma ora richiamata è stata preceduta dal
d.l. n. 201/2011, convertito dalla l. n. 214/2011, il cui
art. 23, comma 4, ha aggiunto all’art. 33 del Codice dei
contratti pubblici il comma 3-bis, con il quale è stato
stabilito che “i comuni con popolazione non superiore a
5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna
provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di
committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture
nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32
del testo unico di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ove
esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile
tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici”.
Alla disposizione così introdotta, finalizzata –secondo
quanto precisato nella relazione tecnica al decreto-legge– a
superare, attraverso l’imposizione del divieto ai piccoli
comuni di gestire autonomamente le procedure di evidenza
pubblica, la frammentazione degli appalti e a ridurre,
conseguentemente, i costi di gestione dei relativi
procedimenti, è stata aggiunta quella di cui al comma 4
dell’art. 1 del d.l. 06.07.2012, n. 95, come modificato
dalla legge di conversione 07.08.2012, n. 135, a termini del
quale “in alternativa, gli stessi comuni possono
effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di
committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di
cui all’articolo 26 della legge 1999, n. 448, e il mercato
elettronico della pubblica amministrazione”.
Nella relazione tecnica che accompagna il d.d.l. di
conversione del decreto-legge viene affermato che
l’utilizzo, da parte dei piccoli comuni (quelli con
popolazione non superiore a 5.000 abitanti), degli strumenti
elettronici di acquisto gestiti dalle centrali di
committenza vale quale adempimento dell’obbligo di
acquistare attraverso un’unica centrale di committenza,
consentendo loro di superare le difficoltà di aggregazione
che possono incontrare.
La norma autorizza, pertanto, espressamente i piccoli comuni
ad avvalersi degli strumenti già previsti in generale per le
amministrazioni pubbliche non statali, tra cui quelle
locali, dalle disposizioni di cui ai commi 449 e 450
dell’art. 1 della l. n. 296/2006; il che costituisce anche
un vincolo in caso di mancata costituzione della centrale
unica di committenza.
Significativo appare, in questa prospettiva, il richiamo,
operato dalla norma, alle convenzioni di cui all’art. 26
della l. n. 488/1999: se, infatti, per effetto della norma
in questione, ai comuni fino a 5.000 abitanti è stata
accordata la possibilità, tra le altre, di avvalersi di
quelle stesse convenzioni, dal cui utilizzo erano stati
esclusi dalla legge da ultimo citata i comuni fino a 5.000
abitanti e quelli montani fino a 1.000, se ne può dedurre –a
non voler accedere alla tesi secondo cui l’estromissione
fosse già venuta meno– che l’esclusione dall’applicazione
del disposto di tale articolo dei comuni con popolazione
fino a 5.000 abitanti e dei comuni montani con popolazione
fino a 1.000 abitanti sia stata da tale norma superata,
sostanzialmente uniformando la disciplina degli acquisti
delle amministrazioni locali (e, più in generale, delle
amministrazioni pubbliche non statali), sulla base
dell’assunto che un sistema centralizzato di acquisti
contribuisce al risanamento della finanza pubblica.
14.- In questo contesto, il riferimento
alla violazione dell’art. 26, comma 3, della l. n. 448/1999,
contenuto nella norma introdotta dal comma 1 dello stesso
articolo che ha integrato,
nei termini anzidetti, il comma 3-bis del
Codice dei contratti pubblici
(invocato dagli enti richiedenti a sostegno di una possibile
interpretazione volta a estromettere i comuni di montagna
con popolazione fino a 5.000 abitanti dal campo di
applicazione della norma ivi recata), norma peraltro
riproduttiva in parte di precetti già esistenti,
va semplicemente inteso,
a giudizio della Sezione, nel senso che gli
effetti sanzionatori determinati dalla stipulazione di
contratti in violazione delle disposizioni di cui all’art.
26, comma 3 (nullità dei contratti, responsabilità
disciplinare, responsabilità amministrativa: conseguenze
identiche, queste, a quelle previste in caso di contratti
stipulati in violazione dell’obbligo di acquisizione
mediante gli strumenti di acquisto messi a disposizione da
Consip s.p.a.), si producono in capo alle amministrazioni
assoggettate all’applicazione di tali disposizioni in base
alla normativa vigente.
Per quanto sopra esposto, la Sezione ritiene,
conclusivamente, che nei confronti dei
comuni montani fino a 5.000 abitanti trovino applicazione le
disposizioni di cui all’art. 33, comma 3-bis, del Codice dei
contratti pubblici, da cui discende l’obbligo di affidare la
gestione delle gare ad evidenza pubblica ad un'unica
centrale di committenza, in assenza della quale essi devono
avvalersi, per gli acquisti di rilevanza comunitaria, delle
convenzioni Consip e di quelle messe a disposizione da altre
centrali di riferimento, ferma restando la specificità della
disciplina contemplata dall’art. 1, comma 7, del più volte
citato d.l. n. 95/2012 riguardo ad alcune categorie
merceologiche di beni e servizi (energia elettrica, gas,
carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per
riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile) ritenute
di particolare rilevanza per il contenimento della spesa
pubblica.
Resta da dire, per completezza, che le conclusioni raggiunte
restano ferme anche a seguito delle innovazioni apportate
dalla l. 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), i cui
commi 149 e 150 hanno ancora modificato, rispettivamente, i
commi 450 e 449 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, e il cui
comma 154 ha integrato l’art. 1, comma 1, del d.l. n.
95/2012, come modificato in sede di conversione.
15.- Quanto al tema della riferibilità della disciplina ai
contratti c.d. sotto soglia, le amministrazioni richiedenti
hanno prospettato la tesi della non applicabilità, nei
confronti dei comuni (montani) fino a 5.000 abitanti, del
sistema delle convenzioni Consip e del mercato della
pubblica amministrazione, come disciplinati dal comma 3-bis
dell’art. 33, fondando tale tesi –oltre che sull’art. 1,
comma 1, del d.l. n. 95/2012, come modificato in sede di
conversione, della cui portata si è già detto– sulla
collocazione della norma nella parte del Codice relativa ai
contratti di rilevanza comunitaria.
In effetti, la disciplina in questione è situata nel Titolo
I (Contratti di rilevanza comunitaria) della Parte II
(contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture
nei settori ordinari) del Codice. Tuttavia, l’art. 121,
ubicato nel Titolo II, dedicato ai contratti di importo
inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, stabilisce
che a questi si applicano, tra le altre, le disposizioni
contenute nella Parte II, in quanto non derogate dalle norme
dello stesso Titolo II.
Muovendo da questa premessa, la Sezione di controllo per il
Piemonte, nella deliberazione richiamata dai richiedenti, ha
ritenuto, basando il proprio orientamento anche sul dato
contenuto nell’art. 23, comma 5, del d.l. n. 201/2011 –il
quale, nel determinare il termine a partire dal quale trova
applicazione l’obbligo di gestione associata, si riferisce
alle “gare bandite successivamente al 31.03.2012”
(termine poi prorogato dall’art. 29, comma 11-ter, del d.l.
29.12.2011, n. 216, al 31.03.2013), sembrava ancorare tale
obbligo alle ipotesi in cui esiste un confronto
concorrenziale tra i partecipanti–, che, dovendo
qualificarsi come gare, secondo le disposizioni codicistiche,
anche le procedure di affidamento in economia mediante
cottimo fiduciario, restassero escluse le acquisizioni in
economia mediante amministrazione diretta e le altre ipotesi
in cui le norme consentono, eccezionalmente, la negoziazione
diretta.
16.- Pur condividendosi il percorso argomentativo seguito e
le conclusioni raggiunte nella menzionata deliberazione in
relazione alla fattispecie ivi scrutinata, occorre
considerare che, nel frattempo, il quadro
normativo di riferimento è significativamente mutato, per
essere intervenuti, da un lato, il nuovo testo del
comma 450 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, che, come si è
detto, ha introdotto l’obbligo per le amministrazione
diverse da quelle delle Stato di fare ricorso al mercato
della pubblica amministrazione, ovvero ad altri mercati
elettronici (fatto
salvo il rispetto del sistema delle convenzioni previsto nel
comma precedente); dall’altro lato,
la seconda parte del comma 3-bis dell’art. 33, che,
nell’individuare le alternative alla centrale unica, ha
espressamente richiamato –oltre agli strumenti elettronici
di acquisto gestiti da altre centrali di committenza– il
mercato della pubblica amministrazione, che costituisce uno
strumento utilizzabile soltanto per approvvigionamenti di
importo inferiore alla soglia comunitaria (art. 328 d.p.r.
05.10.2010, n. 207).
Di qui la conclusione che –indipendentemente dalla
collocazione della norma– a seguito dell’emanazione delle
predette disposizioni, l’obbligo prescritto
dal comma 3-bis dell’art. 33 del Codice dei contratti
pubblici di ricorrere al mercato della pubblica
amministrazione, in assenza di una centrale unica e di
strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali
di committenza, pure regionali, investe senz’altro le
acquisizioni di valore inferiore alla soglia di rilevanza
comunitaria.
Rimane da precisare che la stringente formulazione della
norma non sembra ammettere eccezioni all’obbligo di
acquisizione tramite mercato elettronico, fatta salva
l’applicazione –diretta o analogica– della disposizione di
cui al secondo periodo del comma 450 dell’art. 1 della l. n.
296/2006, che prevede il ricorso ad esso “fermi restando
gli obblighi … previsti al comma 449”, con ciò
intendendo che, nel caso in cui sia
disponibile una convenzione Consip (o regionale), il bene o
il servizio può essere acquisito a mezzo del mercato
elettronico a condizione che sia comprovato il rispetto dei
parametri di prezzo e qualità ivi indicati.
Del resto, il citato art. 328 del Regolamento di attuazione
del codice dei contratti pubblici prevede (comma 4, lettera
b) la possibilità di acquistare sul mercato elettronico
ricorrendo alle procedure in economia.
In questo assetto, le uniche ipotesi in cui
possono ritenersi consentite procedure autonome sono quelle
che si realizzano nel caso di assenza di disponibilità sul
mercato elettronico del bene o del servizio da acquisire e
nel caso di inidoneità dell’uno o dell’altro alle esigenze
dell’amministrazione per mancanza di qualità essenziali
(Corte dei Conti, Sez. controllo Valle d'Aosta,
parere 29.03.2013 n. 7). |
NEWS |
TRIBUTI: Imprese, acconto Imu leggero.
Si paga con l'aliquota (anche ridotta) vigente nel 2012.
Circolare
del Mineconomia sulle modifiche in corso di approvazione con
il dl 35.
Acconto Imu più semplice per gli immobili delle imprese. E
anche più soft, rispetto a quanto si sarebbe dovuto pagare
quest'anno, in quei comuni (pochi a dire il vero) che
avevano deciso di ritoccare al ribasso l'aliquota standard
dello 0,76 per mille (dal 2013 modificabile solo al rialzo).
È uno dei chiarimenti forniti dalle Finanze con la
circolare
23.05.2013 n. 2/DF.
L'aumento da 60 a 65 del moltiplicatore per il calcolo della
base imponibile si applicherà già dall'acconto del 17
giugno, e questo certamente produrrà un aggravio di imposta
(+8,3%).
Ma gli immobili di categoria catastale D, al pari di tutti
gli altri non esentati dall'acconto, pagheranno la prima
rata dell'Imu sulla base dell'aliquota vigente nel 2012
anche se questa risulta inferiore rispetto a quella standard
fissata dalla legge di stabilità 2013 allo 0,76% (elevabile
di un ulteriore 0,3% da parte dei comuni). La ragione è
chiara: semplificare l'acconto di giugno applicando a 360
gradi la novità contenuta in un emendamento al decreto legge
sui debiti della p.a. (dl 35/2013) introdotto alla camera ai
sensi del quale il versamento della prima rata dell'Imu va
eseguito «sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei 12
mesi dell'anno precedente» senza tenere conto per il momento
delle delibere che i comuni devono pubblicare sul sito delle
Finanze entro il 16 maggio di ogni anno.
Si tratta di una
norma di semplificazione non ancora formalmente in vigore,
perché il dl 35 nel testo modificato da Montecitorio non è
ancora stato definitivamente approvato (dovrà essere
convertito in legge entro il 7 giugno). Ma di cui non si può
non tenere conto visto il brevissimo tempo (solo 10 giorni)
a disposizione dei contribuenti tra la dead-line del 7
giugno e la scadenza dell'acconto. La volontà di stabilire
un trattamento uniforme a vantaggio dei contribuenti ha così
prevalso sulle esigenze dello stato (a cui andrà il gettito
dell'Imu su fabbricati D) che così facendo ha rinunciato ad
applicare sin dall'acconto le nuove aliquote stabilite dalla
legge n. 228/2012.
Nella circolare il Mef tranquillizza i contribuenti: chi
pagherà l'acconto Imu calcolando il tributo «sulla base
dell'aliquota e delle detrazioni dei 12 mesi dell'anno
precedente» ancor prima della conversione in legge del dl n.
35 del 2013 potrà appellarsi al principio stabilito
dall'art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del
contribuente che sterilizza l'applicazione di sanzioni
quando la violazione dipende da obiettive condizioni di
incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della
norma tributaria.
Nessuno impedisce, comunque, ai contribuenti di procedere al
pagamento della prima rata seguendo la norma in vigore.
L'emendamento approvato può dar luogo a complicazioni
procedurali in danno del contribuente che si trovi in
particolari situazioni, come chi, ad esempio, nel 2013,
destina un immobile ad abitazione principale diversamente
dall'anno precedente. In tal caso sarebbe assurdo richiedere
al contribuente il pagamento dell'Imu sulla base
dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi dell'anno
precedente, giacché il versamento della prima rata dell'Imu
è sospeso. Lo stesso dicasi per il caso in cui il
contribuente possiede un'area fabbricabile che nel 2013
diventa terreno agricolo: anche il tale ipotesi il
versamento della prima rata dell'Imu è sospeso. Viceversa,
nel caso in cui il terreno agricolo, nel 2013, diventa area
edificabile, la prima rata dell'Imu dovrà essere calcolata
applicando l'aliquota prevista per tale fattispecie per
l'anno 2012.
Altre particolari fattispecie possono verificarsi quando, ad
esempio, il contribuente:
- ha acquistato un immobile, non destinato ad abitazione
principale, il 01.10.2012: entro il 17.06.2013,
dovrà calcolare l'Imu dovuta per l'anno 2013 sulla base
dell'aliquota dei 12 mesi dell'anno precedente,
indipendentemente dalla circostanza che nell'anno 2012 abbia
avuto il possesso dell'immobile per soli 3 mesi;
- ha venduto l'immobile il 28.03.2013 e quindi al momento
del pagamento della prima rata ne ha avuto il possesso per
soli 3 mesi; in tal caso sarebbe del tutto irrazionale
imporgli di calcolare l'Imu sulla base dell'aliquota dei 12
mesi dell'anno precedente, addossandogli l'onere di
anticipare una somma superiore a quella realmente dovuta per
l'anno in corso e di presentare poi istanza di rimborso per
l'ammontare del tributo versato in eccedenza. Il
contribuente potrà, pertanto, versare la prima rata dell'Imu
dovuta per l'anno 2013 commisurandola ai 3/12 dell'importo
calcolato sulla base dell'aliquota dei dodici mesi dell'anno
precedente.
Tali soluzioni pratiche ricalcano quelle contenute nella
circolare n. 3/FL del 07.03.2005 che ha risolto le
problematiche sorte per l'Ici al momento dell'entrata in
vigore di una disposizione di analogo tenore a quella in
esame.
I codici tributo per l'Imu delle imprese. Vale la pena di
ricordare che con risoluzione n. 33/E del 21.05.2013,
l'Agenzia delle Entrate ha istituito i nuovi codici tributo
per il versamento dell'Imu relativa a tale tipologia di
fabbricati, vale a dire:
- «3925» denominato «IMU – imposta municipale propria per gli
immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale
D – STATO»;
- «3930» denominato «IMU – imposta municipale propria per gli
immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale
D – INCREMENTO COMUNE
Sono stati, peraltro, istituiti anche i codici tributo per
consentire, tramite modello F24 EP, il versamento dell'IMU
per gli immobili appartenenti al comune o ad altri enti
pubblici, e cioè:
- «359E» denominato «IMU – imposta municipale propria per
gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo
catastale D – STATO»;
- «360E» denominato «IMU – imposta municipale propria per
gli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo
catastale D – INCREMENTO COMUNE»
(articolo ItaliaOggi del 25.05.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Garante sui sistemi di videosorveglianza.
Privacy, stop a riprese occulte.
Niente telecamere all'insaputa dei lavoratori. La
videosorveglianza sul lavoro non gioca a nascondino e gli
strumenti di ripresa non devono essere occultati.
Lo ha
stabilito il Garante con il
provvedimento
04.04.2013 n. 164, con cui ha bloccato le riprese all'interno di
un noto quotidiano del sud Italia.
Nel caso specifico è
emerso che la gran parte delle telecamere installate (15 su
19) era stata nascosta in rilevatori di fumo o in lampade di
allarme, all'insaputa dei lavoratori. Inoltre ai dipendenti
non era stata fornita alcuna informativa sulla presenza
dell'impianto, né attraverso comunicazioni individuali, né
attraverso cartelli visibili.
Tra l'altro, le regole sulla videsorveglianza (provvedimento
generale dell'08.04.2010) prevedono che i cartelli devono
essere collocati prima del raggio di azione delle
telecamere. Le uniche informazioni, peraltro insufficienti,
erano scritte su un cartello di piccole dimensioni (15x15
cm), affisso a tre metri di altezza nell'ingresso del luogo
di lavoro.
Il garante ha ravvisato, quindi, la violazione delle norme
specifiche di privacy, ma anche delle disposizioni sul
divieto di controllo a distanza dei lavoratori (articolo 4
legge 300/1970).
Di conseguenza il garante ha disposto il divieto del
trattamento di dati personali mediante gli apparati di
ripresa occultamente installati presso la sede della
società, con obbligo per la società di sola conservazione
dei dati eventualmente registrati ai soli fini di consentire
l'attività di accertamento da parte delle competenti
autorità e la tutela dei diritti degli interessati.
In materia va ricordato che si deve certamente evitare di
esporre le telecamere ad atti vandalici, ma i cartelli
devono essere idonei a informare della presenza di strumenti
di ripresa.
Con altri tre provvedimenti il garante si è occupato di
marketing selvaggio, comminando sanzioni per un totale di
800 mila euro a due importanti società di servizi
informatici, specializzate nel settore delle banche dati e a
un operatore di telecomunicazioni
(articolo ItaliaOggi del 25.05.2013). |
TRIBUTI:
La riforma Imu punti all'equità. Niente esenzione
prima casa in presenza di altri immobili.
I
comuni dovrebbero avere libertà di manovra sulle aliquote
per i grandi patrimoni.
La volontà politica del nuovo governo di procedere con la
riforma complessiva del fisco immobiliare locale è una
scelta condivisibile, a condizione di non generare
aspettative frutto di demagogia o di banalizzazione, con
agevolazioni o esenzioni prive di copertura finanziaria,
mettendo a rischio le entrate degli enti locali.
Il decreto legge 54 del 21.05.2013, ha sospeso il pagamento
dell'Imu per le abitazioni principali e relative pertinenze,
esclusi i fabbricati di categoria A/1, A/8 e A/9, per le
unità immobiliari delle cooperative a proprietà indivisa e
degli istituti autonomi case popolari e enti similari, per i
terreni agricoli e per i fabbricati rurali.
La sospensione è una scelta transitoria e impone l'obbligo
di assumere decisioni definitive entro il 31.08.2013, ma in
primo luogo è necessario arrivare a una riforma complessiva,
indicando con chiarezza tempi realistici e fonti di
finanziamento.
Una riforma seria dell'Imu dovrebbe porsi pochi obiettivi
raggiungibili, comprensibili e applicabili con semplicità,
evitando di porsi obiettivi troppo ambiziosi che
renderebbero impossibili le fasi attuative, in tempi così
brevi.
L'ipotesi di eliminazione dell'Imu e della Tares, con la
nascita, peraltro in corso d'anno, di una nuova «Service
Tax», è un progetto troppo ambizioso e pieno di ostacoli
tecnici e operativi, con il rischio di una profonda
confusione sull'individuazione del soggetto passivo, sulla
base imponibile, sul concetto di utilizzo, sulla
inconciliabilità tra un'imposta patrimoniale e il principio
europeo sui rifiuti «paghi in base a quanto inquini».
La scelta della «Service Tax» è già stata abbandonata
negli anni passati e la sua replica, lascia trasparire un
eccesso di sottovalutazione delle problematiche tecniche ed
operative da parte di coloro che ne alimentano
l'introduzione, senza alcuna reale consapevolezza delle
difficoltà applicative.
In questo quadro i comuni italiani come possono deliberare
aliquote Imu e tariffe Tares, senza conoscere se i loro
tributi saranno confermati o eliminati, come si pensa che i
contribuenti interpretino questa ondivaga volontà del
governo rispetto alla prossima scadenza di giugno, quali
gettiti saranno credibilmente incassati in assenza di regole
certe sulla Tares, quali sicurezze vi sono sulla conferma
dell'attività di riscossione coattiva per i comuni da parte
di Equitalia.
Prima di approfondire le possibili scelte della riforma, è
necessario, a tutela dei circa 6 mila comuni che riscuotono
con Equitalia e a tutela dei livelli occupazionali della
stessa società di riscossione pubblica, intervenire con una
proroga immediata dell'attività in scadenza il 30.06.2013,
per dare continuità all'invio dei ruoli per la riscossione
coattiva, evitando l'isolamento dei piccoli comuni e il
disperdersi di potenziali gettiti comunali.
In questo quadro di profonda incertezza della fiscalità
locale, la riforma rischia di disattendere aspettative
politiche eccessive, prive di coperture, e di produrre
difficoltà nei flussi finanziari dei comuni, è quindi
necessario riformulare l'attuale struttura dell'Imu e della
Tares limitandosi ad apportare correttivi qualitativi e
credibili, riducendo le disuguaglianze sociali.
In assenza di risorse, non è equo decidere se l'Imu sulla
prima casa non di lusso, debba essere pagata o esentata a
tutti i contribuenti, a prescindere dal reddito e dalla
ricchezza posseduta.
Il concetto di abitazione principale, ha necessità di essere
distinto tra l'unica casa e la prima casa. Il legislatore
tende a uniformare le due fattispecie, ma in quella
distinzione vi sono spesso storie personali e familiari
molto diverse e con capacità patrimoniali e finanziarie non
allineate.
Esiste quindi la necessità di andare oltre il concetto di
tassazione Imu della prima casa, non di lusso, separando la
casistica in due fattispecie fiscali diverse:
1. unica casa non di lusso,
2. prima casa di altre.
Trattasi di fabbricati che, al momento, sono sottoposti allo
stesso livello di tassazione con identica aliquota, seppure
la differenziazione patrimoniale delle due casistiche non
sfugge certamente al lettore.
Il nuovo decreto legge 54/2013 si è limitato a mantenere la
tassazione sulle prime case di lusso, esentando tutte le
altre abitazioni principali, ma il minore gettito di circa 4
miliardi di euro che ne deriva, è insostenibile per le casse
dei comuni, per questo motivo Legautonomie propone di
passare dal concetto di prima casa, al concetto di unica
casa non di lusso.
Applicare l'esenzione Imu sull'unica casa non di lusso, è
una scelta di equità che garantirebbe un risparmio fiscale
alle fasce sociali più deboli e maggiormente aggredite dalla
crisi economica generale, con un minore gettito che potrebbe
essere assorbito utilizzando il principio di progressività
sui grandi patrimoni immobiliari, così come richiestoci
dall'Unione europea.
In carenza di risorse, l'esenzione non può eticamente essere
attribuita ai proprietari di una prima casa e di molti altri
immobili, l'appiattimento del beneficio rischia di
accentuare le disuguaglianze sociali, ponendosi in palese
contrasto con il principio dell'art. 53 della Costituzione
che recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il
sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Una parte significativa della popolazione è proprietaria
della propria abitazione:
- 17 milioni di famiglie circa sul totale di 23 milioni di
famiglie italiane possiedono la prima casa;
- 18 milioni di famiglie sono proprietarie di seconda casa,
immobili per usi non abitativi propri, immobili in affitto
per abitazione e altri usi.
Ben diversa appare invece la situazione quando si esamina
l'aspetto strettamente legato alla distribuzione del
patrimonio immobiliare e della ricchezza, che risulta, al
contrario, caratterizzata da un elevato grado di
concentrazione: molte famiglie ne detengono livelli modesti
o nulli; all'opposto, poche famiglie dispongono di patrimoni
elevati: il 10% delle famiglie italiane detiene circa il 46%
della ricchezza complessiva.
La riforma dell'Imu deve quindi tendere all'eliminazione
dell'imposta per i soli proprietari di un'unica casa non di
lusso, ampliando gli spazi di manovra dei comuni sulle
aliquote per i grandi patrimoni, per valore o per numero,
chiedendo un contributo fiscale più elevato ai più ricchi, a
favore della necessaria copertura finanziaria del minore
gettito derivante dall'applicazione della suddetta esenzione
sull'unica casa posseduta.
È inoltre necessario procedere con una semplificazione della
tassazione immobiliare, eliminando le molteplici imposte
statali che colpiscono fabbricati e terreni (imposta di
registro, imposta catastale e ipotecaria, imposta su
successioni e donazioni, cedolare secca) accorpandole nell'Imu,
al fine di avere un tributo comunale unico sugli immobili.
Equità, progressività e semplificazione sono obiettivi
credibili, raggiungibili e capaci di ridurre le
disuguaglianze, a parità di gettito, evitando il ricorso a
improbabili riforme complessive che risultano prive di
logica in un contesto temporale così breve.
Una riforma complessiva e più ambiziosa della fiscalità
immobiliare, non deve infatti partire dalla rimodulazione
dell'Imu, ma dalla emanazione di un Testo unico sui tributi
locali, che raccolga tutte le norme di riferimento e dalla
profonda e efficace revisione del catasto affinché le
rendite catastali diventino credibili ed esprimano il
concreto valore dei patrimoni immobiliari, evitando medie e
appiattimenti che penalizzano i più deboli.
Per capire quanto le rendite catastali siano distanti dalla
realtà, è infatti sufficiente visionare i dati
dell'osservatorio del mercato immobiliare, forniti da altro
ufficio della stessa Agenzia del territorio.
L'Imu è anche un metodo di redistribuzione finanziaria delle
risorse, attraverso un parziale e modesto trasferimento
monetario di riequilibrio sociale.
Tutto questo è doveroso ed equo, soltanto se la
progressività per le grandi ricchezze e l'esenzione per
l'unica abitazione non di lusso, divengono obiettivi di una
politica fiscale seria e condivisa, garantendo agli enti
locali il diritto di esercitare la propria autonomia fiscale
con principi di equità e di semplificazione
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Fatture ad hoc per la p.a..
Il documento digitale è valido solo in xml.
Il
regolamento 55/2013 del Mef sui metodi di pagamento
elettronici.
Fatturazione elettronica vincolante e vincolata nei rapporti
con la pubblica amministrazione. L'adozione del documento
digitale non è soltanto obbligatoria, ma dovrà seguire le
specifiche prescrizioni fissate dal regolamento n. 55/2013
varato dal ministero dell'economia, in attuazione della
legge 244/2007 (si veda ItaliaOggi di ieri).
In particolare, questa fattura elettronica dovrà avere il
formato di un file xml sottoscritto con firma elettronica o
digitale, così come imponeva l'art. 21 del dpr 633/1972
anteriormente alle modifiche apportate dalla legge 228/2012.
Quella destinata ai vari uffici delle pubbliche
amministrazioni sarà dunque una fattura elettronica
speciale, rispetto a quella che invece è ora ammessa, in via
generale, dal nuovo testo dell'art. 21 della legge Iva. Dal
1° gennaio scorso, infatti, detto articolo è stato
modificato per recepire la semplificazione della
fatturazione elettronica attuata, a livello comunitario,
dalla direttiva 2010/45/Ue (neppure menzionata nelle
premesse al regolamento, che richiama invece la precedente
direttiva 2001/115/Ce).
A seguito delle recenti modifiche, volte ad eliminare, come
spiegato nella direttiva 2010/45, gli oneri e le barriere
che ostacolavano il ricorso alla fatturazione elettronica
(quali, per esempio, i vincoli del sistema di trasmissione o
della firma digitale), il comma 1 dell'art. 21 stabilisce
che «per fattura elettronica, si intende la fattura che è
stata emessa e ricevuta in un qualunque formato
elettronico». Il successivo comma 3 stabilisce poi, che
l'autenticità dell'origine e l'integrità del contenuto della
fattura, sia cartacea, sia elettronica, possono essere
garantite, alternativamente:
a) mediante sistemi di controllo di gestione che assicurino
un collegamento affidabile tra la fattura e la cessione o
prestazione ad essa riferibile;
b) mediante l'apposizione della firma elettronica
qualificata o digitale dell'emittente;
c) mediante sistemi Edi di trasmissione elettronica dei dati
o altre tecnologie in grado di garantire i predetti
obiettivi di autenticità e integrità.
La libertà accordata alle imprese, nel ricorso alla
fatturazione elettronica, dal recente intervento di
semplificazione normativa, incontra pertanto una limitazione
nei rapporti con le amministrazioni pubbliche. Secondo
l'allegato A al
decreto 03.04.2013 n. 55, infatti, i dati
delle fatture elettroniche da trasmettere al sistema di
interscambio (Sdi) istituito, con dm 07.03.2008, gestito
dall'Agenzia delle entrate, devono infatti rispondere
obbligatoriamente allo standard xml e, il file, non deve
contenente macroistruzioni o codici eseguibili tali da
attivare funzionalità, che possano apportarvi modifiche.
La
trasmissione delle fatture dall'emittente, o
dall'intermediario, al sistema, come pure la successiva
trasmissione dal sistema alle amministrazioni destinatarie,
deve inoltre avvenire attraverso posta elettronica
certificata, oppure attraverso uno dei canali di
trasmissione telematica indicati nell'allegato B al
regolamento.
Si tratta, dunque, di una disciplina del tutto
particolare, finalizzata, tra l'altro, ad attuare la totale dematerializzazione
del processo del ciclo di fatturazione passiva delle
pubbliche amministrazioni mediante integrazione con i
sistemi gestionali e di pagamento, oltreché a permettere il
monitoraggio dei flussi finanziari da parte della ragioneria
generale dello stato.
In questa ottica, infatti, la fattura elettronica alla p.a.
conterrà informazioni utili alle predette finalità,
supplementari rispetto ai dati fiscali richiesti dall'art.
21 del dpr 633 (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Redditi su internet, le sanzioni le irroga il prefetto.
Va esclusa la competenza del sindaco o del presidente di
provincia.
È il prefetto l'autorità competente a irrogare la sanzione
prevista dall'articolo 47 del dlgs 33/2013 per gli
amministratori che non comunichino la loro situazione
patrimoniale, da pubblicare sui siti internet degli enti
locali.
Il comma 3 del citato articolo 47 consente di giungere,
indirettamente, alla competenza prefettizia. Esso dispone
che le sanzioni «sono irrogate dall'autorità amministrativa
competente in base a quanto previsto dalla legge 24.11.1981, n. 689».
Per comprendere quale possa essere l'autorità per gli enti
locali, occorre partire dall'abolizione dell'articolo 41-bis
del dlgs 267/2000, disposta espressamente dall'articolo 53,
comma 1, lettera c), del dlgs 33/2013. La norma abolita
demandava ai regolamenti degli enti locali (escludendo i
comuni con meno di 15 mila abitanti) il compito di
disciplinare il regime di pubblicazione e pubblicità della
situazione patrimoniale degli amministratori degli enti
locali.
Era, nella vigenza dell'articolo 41-bis, allora possibile
ritenere che l'autorità competente fosse il sindaco o il
presidente della provincia.
Abolito, però, l'articolo 41-bis, cade la fonte normativa
che assegnava alla potestà regolamentare degli enti locali
la disciplina della pubblicità del patrimonio degli
amministratori; di conseguenza, è esclusivamente la legge e,
segnatamente, l'articolo 14 del dlgs 33/2013 a fissare le
regole di detta pubblicità. Pertanto, viene a cadere
qualsiasi possibilità per gli enti locali di disciplinare
con regolamenti la materia, in quanto esaurita direttamente
dalla legge, sia di ritenere competenti i vertici politici
monocratici di tali enti. Scatta l'applicazione
dell'articolo 17, comma 1, della legge 689/1981, ai sensi
del quale «qualora non sia stato effettuato il pagamento in
misura ridotta, il funzionario o l'agente che ha accertato
la violazione, salvo che ricorra l'ipotesi prevista
nell'articolo 24, deve presentare rapporto, con la prova
delle eseguite contestazioni o notificazioni, all'ufficio
periferico cui sono demandati attribuzioni e compiti del
ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale
si riferisce la violazione o, in mancanza, al prefetto».
Competente in tema di trasparenza dovrebbe essere
considerato il ministero della funzione pubblica. Tuttavia,
tale dicastero non dispone di uffici periferici nel
territorio. La conclusione obbligata, allora, è che
riscontrando l'assenza di uffici provinciali del ministero
competente, l'autorità competente a ricevere il rapporto
sull'accertamento della violazione amministrativa è il
prefetto. Conseguentemente si può anche ricostruire quale
sia il soggetto competente ad accertare l'infrazione: non
può che essere il responsabile della trasparenza (negli enti
locali coincidente col segretario comunale a meno di
particolari motivate situazioni), chiamato dall'articolo 43
del dlgs a svolgere il ruolo di controllore del corretto
adempimento degli obblighi sulla trasparenza incombenti
sugli uffici e sui componenti degli organi di governo.
Dunque, accertato che gli organi politici non abbiano
comunicato agli uffici i dati necessari alla pubblicazione
prevista dall'articolo 14 del dlgs 33/2013, il responsabile
della trasparenza deve predisporre il verbale che li ammette
al pagamento in misura ridotta (nel caso di specie 1.000
euro, cioè il doppio del minimo previsto, che è di 500 euro)
e notificarlo al responsabile della violazione. Laddove
entro 60 giorni non si accerti l'avvenuto pagamento, il
responsabile della trasparenza dovrà trasmettere il rapporto
al prefetto, per l'emanazione dell'ordinanza ingiunzione (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: Oneri urbanistici ad alto rischio.
Dubbi sull'utilizzabilità per finanziare spese correnti.
La chance
non è consentita dal 2012. Ma una recente norma ha messo
tutto in discussione.
C'è incertezza, fra i comuni, circa la possibilità di
continuare a utilizzare per spese correnti i cosiddetti
oneri di urbanizzazione, ovvero i proventi dei permessi di
costruire e delle sanzioni previste dal testo unico
dell'edilizia. Fino allo scorso anno, tale possibilità
(concessa in deroga alla regola generale secondo la quale le
spese correnti devono essere finanziate esclusivamente da
entrate della stessa natura) era espressamente prevista
dall'art. 2, c. 8, della l. 244/2007, da ultimo modificato
dall'art. 2, c. 41, del dl 225/2009.
Tale disposizione consentiva di utilizzare gli oneri, per
una quota non superiore al 50%, per il finanziamento di
spese correnti indifferenziate e per una quota non superiore
ad un ulteriore 25% esclusivamente per spese di manutenzione
ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Tuttavia, tali eccezioni erano consentite solo fino al 2012.
Già l'anno scorso, quindi, i sindaci sono stati costretti a
far quadrare i conti degli ultimi due anni del loro bilancio
pluriennale senza potersi avvalere della deroga. Da
quest'anno, dovrebbe applicarsi pienamente la regola
generale, per cui le entrate da permessi di costruire
dovrebbero poter essere destinate solo a coprire le spese di
investimento (tit. II).
Il condizionale, tuttavia, è
d'obbligo, considerato quanto previsto dall'art. 4, c. 3,
della recente l. 10/2013. Tale disposizione, infatti, recita
così: «le maggiori entrate derivanti dai contributi per il
rilascio dei permessi di costruire e dalle sanzioni sono
destinate alla realizzazione di opere pubbliche di
urbanizzazione, di recupero urbanistico e di manutenzione
del patrimonio comunale in misura non inferiore al 50% del
totale annuo».
La norma non è chiarissima né laddove richiama le «maggiori»
entrate, né laddove individua le loro possibili
finalizzazioni, che peraltro sembrano circoscritte a opere
pubbliche, di cui il recupero urbanistico e la manutenzione
del patrimonio comunale sembrerebbero specificazioni. È
sintomatico, inoltre, il fatto che si preveda un limite
minimo e non (come in precedenza) massimo.
Secondo alcuni, sarebbe ancora vigente l'art. 49, c. 7,
della l. 449/1997, ai sensi del quale «i proventi delle
concessioni edilizie e delle sanzioni possono essere
destinati anche al finanziamento di spese di manutenzione
del patrimonio comunale», senza distinzioni fra spese
correnti e in conto capitale. Tuttavia, la seconda parte
della norma, che si apre con la locuzione «a tal fine» e
pare quindi collegata teleologicamente alla prima, limita la
deroga solo al 30.06.1998.
Occorre considerare, ancora,
che la l. 228/2012 ha previsto altre disposizioni volte a
rafforzare l'equilibrio di parte corrente. Da un lato, non è
più possibile utilizzare il plusvalore delle alienazioni
patrimoniali per finanziare le spese correnti aventi
carattere non permanente e per rimborsare la quota di
capitale dei mutui. Dall'altro lato, i proventi delle
alienazioni patrimoniali potranno essere destinati solo a
coprire le spese di investimento ovvero, in assenza di
queste o per la parte eccedente, per ridurre il debito. Le
medesime entrate, inoltre, non potranno più andare a
ripristinare gli equilibri di parte corrente, ma solo quelli
di parte capitale.
Non va trascurato, infine quanto prevede
(sia pure pro futuro) l'art. 9 della l. 243/2012 sul
pareggio di bilancio, chiarendo che i conti dei comuni si
considerano in equilibrio quando, sia nella fase di
previsione che di rendiconto, registrano un saldo non
negativo, in termini di competenza e di cassa, tra le
entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di
capitale delle rate di ammortamento dei prestiti.
In un simile contesto, la possibilità di applicare gli oneri
in parte corrente non pare così certa e deve essere valutata
con estrema cautela anche in punto di legittimità, oltre che
per le conseguenze negative sulla valutazione di virtuosità
degli enti (uno dei parametri, infatti, è proprio
l'equilibrio di parte corrente).
Anche l'Ancitel, del resto si è espressa in senso negativo,
ma una risposta definitiva ai dubbi potrà arrivare solo dai
questionari sul bilancio 2013 della Corte dei conti. È
chiaro, comunque, che al massimo la deroga è da ritenersi
circoscritta alle manutenzioni del patrimonio comunale (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Non sono obbligatorie le scadenze Tares fissate dal Mef.
I chiarimenti in una nota Ifel che sollecita la
pubblicazione dei codici tributo.
Le scadenze per il pagamento della Tares indicate nel
decreto ministeriale con il quale è stato approvato il
bollettino di conto corrente postale non sono obbligatorie
perché non previste dalla norma di legge. Il ministero
dell'economia e delle finanze, nel fissare le scadenze delle
rate, si è spinto oltre quanto stabilito dalla norma che
disciplina il tributo. Il nuovo bollettino potrà essere
utilizzato solo a partire dal prossimo 1° luglio e riporta
un unico numero di conto corrente che è valido per tutti i
comuni del territorio nazionale. La maggiorazione va pagata
con l'ultima rata Tares.
Sono alcune precisazioni contenute
nella
nota 21.05.2013 dell'Ifel che, tra l'altro, sollecita
la pubblicazione dei codici tributo Tares da inserire nel
modello F24. Inoltre, con una nota del 22 maggio sono stati
segnalati i nuovi codici tributo, istituiti con la
risoluzione n. 33/E dell'Agenzia delle entrate, per il
pagamento dell'Imu, tramite «F24» e «F24 EP», relativamente
agli immobili di categoria D, il cui gettito va allo stato
con aliquota standard del 7,6 per mille.
Pagamento Tares. Correttamente la fondazione Anci ha
chiarito che il decreto ministeriale «si spinge ad indicare
periodi di pagamento non previsti dalla normativa primaria
(dal 1° giorno ed entro il 16° giorno di ciascun mese di
scadenza delle rate)». Quindi, non possono essere
considerate obbligatorie.
L'Ifel pone in evidenza che il modello di bollettino di
conto corrente postale, intestato a «Pagamento Tares»,
riporta obbligatoriamente il numero di conto 1011136627, che
è valido per tutti i comuni del territorio nazionale. In
base alle ultime modifiche normative introdotte con
l'articolo 10 del dl 35/2013, la maggiorazione va pagata
contestualmente all'ultima rata del tributo, nella misura
fissa di 30 centesimi al metro quadrato, e verrà incassata
dallo stato.
In deroga alla disciplina ordinaria del tributo, infatti, i
comuni non possono aumentarla fino a 40 centesimi. La nota
interviene anche sulle modalità di riversamento ai comuni
delle somme riscosse e ricorda che la tempistica e le
modalità sono analoghe a quelle previste per i versamenti
unitari (F24) dal decreto legislativo 241/1997. In effetti,
il decreto ministeriale dispone che la società Poste
italiane è tenuta a riversare sulla contabilità speciale n.
1777 «Agenzia delle entrate - Fondi della riscossione»,
aperta presso la Banca d'Italia, le somme pagate dai
contribuenti tramite i bollettini di conto corrente.
Deve poi trasmettere alla struttura di gestione i dati
analitici indicati nei bollettini. In seguito alla
rendicontazione da parte delle Poste, la struttura di
gestione accredita le somme agli enti. Tributo e
maggiorazione sono accreditati ai comuni, mentre la tariffa
deve essere accreditata al gestore del servizio. Solo per il
2013, se deliberato dal comune, il gestore può riscuotere
anche il tributo.
Il comune o l'affidatario del servizio possono inviare ai
contribuenti i bollettini precompilati nei quali vanno
riportati il codice catastale dell'ente e gli importi
dovuti. Infine è urgente, per l'Ifel, la pubblicazione dei
codici tributo Tares da inserire nel modello F24.
Imu. Con la nota del 22 maggio viene invece dato risalto
alla risoluzione n. 33 con la quale l'Agenzia delle entrate
ha diffuso i codici tributo per il versamento, tramite
modello «F24» e «F24 EP», dell'imposta municipale relativa
agli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo
catastale D. Da quest'anno, infatti, l'Imu torna a essere a
tutti gli effetti un'imposta comunale.
Tuttavia, allo stato va la quota del gettito derivante dagli
immobili classificati nel gruppo catastale D, calcolato con
l'aliquota standard del 7,6 per mille. Per questi fabbricati
i comuni hanno la facoltà di aumentare l'aliquota base di 3
punti percentuali e di incassare le maggiori somme (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Consigli, decide l'ente.
Nei regolamenti i casi di espulsione dai gruppi.
Il
funzionamento dell'assemblea spetta all'autonomia del
comune.
È ammissibile l'espulsione di un consigliere comunale da
parte del gruppo consiliare di appartenenza, senza che la
stessa sia stata formalmente notificata all'interessato, né
comunicata per iscritto al presidente del consiglio
comunale? Lo stesso amministratore può essere privato dal
ruolo di rappresentante del gruppo presso le commissioni
consiliari permanenti, a seguito di una comunicazione fatta
pervenire al presidente del consiglio comunale dalla
segreteria provinciale del proprio partito di appartenenza?
La tematica del rapporto tra partiti politici e gruppi
costituiti nell'ambito degli organi assembleari è argomento
ampiamente dibattuto; in dottrina ed in giurisprudenza sono
state elaborate suggestive e variegate definizioni circa la
natura giuridica dei gruppi.
In linea generale, il rapporto tra il candidato eletto e il
partito di appartenenza «non esercita influenza
giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di
mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti
del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale
rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar
Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506 del 2005).
Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono
configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non
sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà
direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di
riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente. Al
riguardo si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale
il Tar per il Lazio ha precisato che i gruppi consiliari
hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso,
la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee e, per
altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento
assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo
istituzionale.
Nella citata pronuncia, si legge che «è
dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il
rapporto del singolo gruppo con il partito politico di
riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico,
in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti
necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli
organi assembleari, contribuendo ad assicurare
l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le
diverse posizioni politiche e programmatiche (cfr. Cass. civ,
Sezioni unite, 19.02.2004, n. 3335; C.s., IV, 02.10.1992, n. 932; Corte cost. 12.04.1990, n. 187)».
Il nostro ordinamento «si preoccupa di assicurare un metodo
di organizzazione democratica dei gruppi (in linea con
quanto previsto dall'art. 49 Cost. relativamente ai partiti
politici), ma non intende in alcun modo condizionarne la
vita e le dinamiche interne. In altre parole, il concreto
funzionamento e la gestione dei gruppi (parlamentari,
regionali, consiliari), diventano rilevanti per
l'ordinamento solo quando questi ultimi interferiscano con
lo svolgimento delle funzioni proprie delle assemblee» (Tar
Lazio ul. cit). L'art. 38, comma 2, del dlgs n. 267/2000,
demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti
dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei
consigli; pertanto, le problematiche relative alla
costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono
essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Nel caso di specie, dalle disposizioni regolamentari
relative al funzionamento del consiglio comunale si rileva
una disciplina dettagliata per quanto riguarda il passaggio
da un gruppo ad altro, con il presupposto indefettibile
dell'accettazione da parte del presidente del gruppo cui il
consigliere chiede di aderire; non si rinviene, invece, una
specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione
di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza
originario. Tuttavia, atteso che la materia dei «gruppi
consiliari» è interamente demandata allo statuto e al
regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale
ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative
problematiche applicative, posto che, diversamente,
sarebbero necessarie modifiche ed integrazioni a dette fonti
di disciplina locale.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale,
oltre che trovare soluzioni per le singole questioni,
valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica
regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di
assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato
svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo
ItaliaOggi del 24.05.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stop alle categorie protette se la Pa ha l'organico pieno. Spending
review. Le istruzioni della Funzione pubblica.
DOPO LA SPENDING/
La chiamata rischierebbe di far perdere il posto a chi è già
di ruolo Unica eccezione i centralinisti non vedenti.
Le Pubbliche amministrazioni devono sospendere le assunzioni
delle categorie protette se il loro organico è già pieno o
se, peggio, sono arrivate ad avere personale in
soprannumero. L'unica via possibile si apre se l'assunzione
riguarda profili professionali di aree in cui vi sia
disponibilità in organico, ma anche in questo caso la mossa
va valutata «in base alla coerenza e attendibilità del piano
di assorbimento dei soprannumeri» entro il 31.12.2014:
esclusi da questa disciplina rigida sono solo i
centralinisti non vedenti, per i quali la legge 113/1985
(articolo 4, comma 4) prevede in ogni caso l'inserimento in
soprannumero «fino al verificarsi della prima vacanza» in
organico.
La ricostruzione delle regole alla luce del decreto 95/2012
sulla revisione di spesa si deve alla Funzione pubblica, che
nel
parere
22.05.2013 n. 23580 di prot. risponde in questo modo all'Inps.
L'istituto di previdenza, che in seguito all'incorporazione
di Inpdap ed Enpals «presenta una situazione di soprannumerarietà in diverse aree», ha sospeso «in via
cautelativa» le procedure avviate prima della fusione con
gli altri enti e ha ottenuto con il parere l'approvazione
della Funzione pubblica.
La questione è legata appunto alle nuove regole introdotte
con l'articolo 2 del decreto 95/2012, che ha avviato la
revisione degli organici pubblici sfociati nei Dpcm in cui
sono state elencate le «eccedenze» in tutte le Pubbliche
amministrazioni centrali. Proprio il carattere diffuso delle
situazioni di eccedenza, o comunque degli organici occupati
al gran completo, aumenta il peso delle istruzioni dettate
da Palazzo Vidoni.
Le regole sulle categorie protette, sostiene la Funzione
pubblica, vanno lette in modo coordinato con i vincoli della
revisione di spesa, e in particolare con le sanzioni che il
testo unico del pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e il
decreto 95/2012 prevedono per le amministrazioni che escono
dai binari consentiti. In particolare, l'articolo 6, comma 1,
del Dlgs 165/2001 impedisce nella versione aggiornata con
gli ultimi interventi normativi di creare posizioni di
soprannumerarietà e impone l'avvio della mobilità collettiva
quando il personale è in eccesso.
In questo quadro,
arricchito dagli obblighi di ricognizione annuale del
personale e di assorbimento dei soprannumeri, «eventuali
assunzioni, anche di categorie protette, andrebbero ad
alimentare soprannumerarietà ed eccedenze producendo, a
fronte dell'occupazione di una categoria protetta, il
rischio della perdita del posto di lavoro per il personale
già in ruolo». Conseguenza finale: «L'obbligo di coprire le
quote di riserva per le categorie protette è sospeso» fino a
quando non ci sono posti disponibili nella dotazione
organica.
Per rafforzare la propria lettura, la Funzione pubblica
richiama anche le normative previste per il settore privato
dalla legge 68/1999, che all'articolo 3, comma 5, sospende
gli obblighi di avere categorie protette fra i dipendenti
per le imprese che attivano la cassa integrazione. La ratio
di questa norma, conclude Palazzo Vidoni, è «mutuabile» per
il settore pubblico anche alla luce della revisione degli
organici imposta dalla spending review.
Proprio il decreto sulla revisione di spesa, come accennato,
elenca con i suoi provvedimenti attuativi le eccedenze
presenti nelle varie articolazioni dell'amministrazione
centrale. Rimane invece ancora da attuare la nuova regola
per gli enti locali, che prevedeva un trattamento analogo
nei Comuni o nelle Province in cui si registrasse un dato
superiore del 40% rispetto alla media della loro fascia nel
rapporto fra dipendenti e popolazione amministrata (articolo
Il Sole 24 Ore 24.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
L’obbligo posto dagli artt. 4 della legge n. 490
del 1994 e 10 del d.P.R. n. 252 del 1998 a carico delle
stazioni appaltanti di acquisire l’informativa antimafia per
contratti o sub contratti di valore superiore alla soglia
comunitaria, mentre introduce una doverosità assoluta di
attivare il procedimento accertativo nei casi
specificatamente presi in considerazione dalla legge, non
assorbe la sfera di discrezionalità della stazione
appaltante, che può acquisire l’informativa in determinate
situazioni in cui scelte ed indirizzi delle imprese
interessate possano ricevere condizionamento da parte della
criminalità organizzata.
In linea con quanto ritenuto dalla Sezione in fattispecie
analoga (cfr. Cons. St. sez. VI, n, 249 del 29.01.2008) va
ribadito che l’obbligo posto dagli artt. 4 della legge n.
490 del 1994 e 10 del d.P.R. n. 252 del 1998 a carico delle
stazioni appaltanti di acquisire l’informativa antimafia per
contratti o sub contratti di valore superiore alla soglia
comunitaria, mentre introduce una doverosità assoluta di
attivare il procedimento accertativo nei casi
specificatamente presi in considerazione dalla legge, non
assorbe la sfera di discrezionalità della stazione
appaltante, che può acquisire l’informativa in determinate
situazioni in cui scelte ed indirizzi delle imprese
interessate possano ricevere condizionamento da parte della
criminalità organizzata (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.05.2013 n. 2798 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
illegittimo l'atto sindacale di rotazione dei dirigenti
laddove
L’arch. C. e l’ing. S.,
rispettivamente a capo del Settore Urbanistica e del
Settore Lavori Pubblici, sono stati
trasferiti a dirigere il Settore Affari Generali (arch. C.)
e la Polizia Municipale (ing. S.).
E' certamente vero che un dirigente
in possesso della laurea in giurisprudenza può essere
chiamato indifferentemente a dirigere l’Ufficio Affari
Generali o l’Ufficio Contratti o il Settore Pubblica
Istruzione e Servizi Sociali o financo il Settore
Urbanistica o la Polizia Municipale; ciò in quanto il corso
di laurea in giurisprudenza impartisce allo studente nozioni
che sono in qualche modo trasversali ai settori sopra
indicati.
Ma non è vera la reciproca, in quanto un ingegnere o un
architetto non dispongono certo della preparazione più
adeguata per dirigere settori in cui sono preponderanti i
profili giuridico-amministrativi e del tutto assenti quelli
tecnici (ma lo stesso è a dirsi, ad esempio, in relazione a
professioni sanitarie, quale ad esempio quella di farmacista
– che non può che essere incaricato della direzione della
farmacia comunale –o di geologo– che non può che essere
impiegato nei settori tecnici, quale ad esempio il Settore
Ambiente).
L’arch. Cioni e l’ing. Santelli, all’epoca dei fatti
dipendenti del Comune di Falconara Marittima e,
rispettivamente, a capo del Settore Urbanistica e del
Settore Lavori Pubblici, impugnano il provvedimento con il
quale il Sindaco pro tempore, in dichiarata applicazione del
principio di rotazione degli incarichi dirigenziali, li ha
trasferiti a dirigere il Settore Affari Generali (arch.
Cioni) e la Polizia Municipale (ing. Santelli). Il
controinteressato dott. Brunori è stato invece destinato a
dirigere il Settore Urbanistica e, temporaneamente, il
Settore Lavori Pubblici; in seguito a capo di quest’ultimo
Settore è stato posto, mediante conferimento di incarico
esterno, l’ing. Governatori.
...
E’ certamente vero che, a seguito della riforma del pubblico
impiego del 1993, sul dirigente incombe una responsabilità
di tipo manageriale, ossia legata ad una valutazione
complessiva dei risultati conseguiti della struttura che
egli dirige in relazione agli obiettivi periodicamente
fissati dagli organi di direzione politica dell’ente, ma è
anche vero che l’imputazione della responsabilità presuppone
di necessità che il dirigente sia posto in condizione di
poter controllare l’operato dei funzionari adibiti alla
struttura. Si ricordi, fra l’altro, che proprio
nell’organizzazione degli enti locali le deliberazioni
consiliari e giuntali debbono essere munite del parere di
regolarità tecnica rilasciato dal dirigente del settore
competente, dal che discendono rilevanti conseguenze in
termini di responsabilità amministrativo-contabile (art. 53
L. n. 142/1990).
Ma, per fare un esempio banale, si pensi alla deliberazione
con cui la Giunta approva il progetto di un’opera pubblica:
su tale delibera deve esprimere il parere di regolarità
tecnica il dirigente dell’ufficio lavori pubblici, il quale
deve essere in grado di “leggere” gli elaborati tecnici
predisposti dall’ufficio.
Fra l’altro, le stesse norme invocate dal Comune, pur
prevedendo il criterio della rotazione degli incarichi,
fanno salve quelle mansioni per il cui svolgimento sia
richiesto il possesso di specifiche professionalità e,
soprattutto, di titoli di studio e/o abilitazioni
particolari (oltre all’art. 19 del D.Lgs. n. 29/1993, si
veda proprio l’art. 26, comma 2, del citato regolamento
comunale sulla mobilità e le progressioni dei dipendenti).
Sotto questo profilo, non c’è dubbio alcuno sul fatto che
l’ingegnere e l’architetto debbono essere in possesso di
abilitazione rilasciata a seguito del superamento del c.d.
esame di Stato (vedasi gli artt. 4 e 62 del R.D. n.
2537/1925).
Tornando poi al criterio della rotazione degli
incarichi, per restare all’esempio del Comune, è certamente
vero che un dirigente in possesso della laurea in
giurisprudenza può essere chiamato indifferentemente a
dirigere l’Ufficio Affari Generali o l’Ufficio Contratti o
il Settore Pubblica Istruzione e Servizi Sociali o financo
il Settore Urbanistica o la Polizia Municipale; ciò in
quanto il corso di laurea in giurisprudenza impartisce allo
studente nozioni che sono in qualche modo trasversali ai
settori sopra indicati. Ma non è vera la reciproca, in
quanto un ingegnere o un architetto non dispongono certo
della preparazione più adeguata per dirigere settori in cui
sono preponderanti i profili giuridico-amministrativi e del
tutto assenti quelli tecnici (ma lo stesso è a dirsi, ad
esempio, in relazione a professioni sanitarie, quale ad
esempio quella di farmacista – che non può che essere
incaricato della direzione della farmacia comunale –o di
geologo– che non può che essere impiegato nei settori
tecnici, quale ad esempio il Settore Ambiente).
Ma, in ogni caso, il discorso non regge quando, al fine
di realizzare il principio di rotazione, l’ente destina i
dirigenti in possesso di specifiche abilitazioni
professionali a dirigere settori in cui tali professionalità
non possono emergere in alcun modo e, per converso, pone a
capo dei settori tecnici dirigenti in possesso di lauree
afferenti le discipline umanistiche. In questo senso si
realizza un evidente depauperamento delle risorse umane di
cui l’ente dispone.
E non si deve nemmeno dimenticare che la rotazione non è
sostanzialmente praticabile nei Comuni di più ridotte
dimensioni, nei quali solitamente sono presenti in organico
solo un ragioniere (il quale deve evidentemente essere posto
a capo del settore finanziario) e un tecnico diplomato o
laureato (il quale si deve occupare dei settori LL.PP.,
protezione civile, urbanistica, etc.). Le massime
giurisprudenziali citate dalla difesa del Comune debbono
dunque essere adattate alla concreta realtà, altrimenti non
si spiegherebbe la ragione per la quale l’art. 26, comma 2,
del citato regolamento comunale di Falconara Marittima
esclude dalla rotazione alcuni particolari incarichi.
Proprio per evitare tali inconvenienti l’art. 25 del
più volte citato regolamento comunale sulla mobilità e le
progressioni dei dipendenti impone che gli atti di
affidamento degli incarichi dirigenziali (il precedente art.
24 stabilisce infatti che le disposizioni del capo IV si
applicano anche alle qualifiche dirigenziali) siano motivati
e diano conto dell’opportunità delle scelte compiute dal
Sindaco. Nella specie, il decreto impugnato non contiene
alcuna motivazione specifica, se non il riferimento al
criterio della rotazione, che però, come si è detto, non è
il solo previsto dalle norme di riferimento.
E, fra l’altro, nella presente vicenda la illegittimità
della decisione del Sindaco è confermata anche dal fatto che
per coprire il posto lasciato vacante dall’ing. Santelli il
Comune ha dovuto ricorrere ad un incarico esterno (il che
rende palese il fatto che il dott. Brunori non è stato
ritenuto in possesso dei requisiti professionali adeguati
per dirigere il Settore LL.PP.).
L’obiettivo della rotazione nella specie avrebbe potuto
essere conseguito semplicemente invertendo gli incarichi dei
ricorrenti (destinando cioè l’arch. Cioni al Settore Lavori
Pubblici e l’ing. Santelli al Settore Urbanistica).
In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente
annullamento del provvedimento impugnato (TAR Marche,
sentenza 23.05.2013 n. 370 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e
giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione
delle parti, bensì il “petitum sostanziale”, il quale va
identificato non solo e non tanto in funzione della concreta
pronuncia che si chiede al giudice (vale a dire nella
domanda di annullamento di atti amministrativi) ma anche e
soprattutto in funzione della causa petendi cioè
dell'intrinseca natura della controversia dedotta in
giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti
allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti sono
manifestazione.
---------------
Rientrano nella giurisdizione del g.o. le controversie
relative all’impugnazione di provvedimenti amministrativi
allorché la parte ricorrente contesti la demanialità
dell'area stessa in quanto non investano vizi dell'atto
amministrativo, ma si esauriscano nell'indagine sulla
titolarità della proprietà e, quindi, rivolte alla tutela di
posizioni di diritto soggettivo.
---------------
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o
gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata
assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della
pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di
pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della
natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di
godimento da parte della collettività mediante un'azione
negatoria di servitù; ne consegue che la controversia circa
la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa
l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada
privata, è devoluta alla giurisdizione del g.o., giacché
investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di
diritti soggettivi, dei privati o della p.a..
---------------
Secondo giurisprudenza pacifica è da ricondurre alla nozione
di strada vicinale di uso pubblico la strada che:
a) per le sue dimensioni, struttura, e condizioni consente
un generale passaggio esercitato "iure servitutis publicae"
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all'accesso o di vincoli di proprietà
o condominio;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è contraddistinta da un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche
identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo
immemorabile;
d) è stata oggetto di interventi di manutenzione da parte
del Comune e di installazioni, sopra o sotto di essa, di
infrastrutture di servizio da parte dell'ente pubblico
(telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche).
E’ altresì pacifico che la mancata utilizzazione di essa da
parte della generalità degli utenti, protrattasi anche per
un lungo lasso di tempo, non depone ex se per la cessata
destinazione all'uso pubblico, occorrendo fatti concludenti
ed univoci atti a comprovare il venir meno delle esigenze di
utilizzo generale.
---------------
Il questionario fatto compilare dal Comune ad un gruppo di
cittadini appartenenti al bacino d’utenza della strada non è
di per sé sufficiente allo scopo poiché, tuttalpiù, esso
comprova la generica permanenza dell’interesse all’uso della
strada “uti singuli” da parte di un gruppo limitato di
persone e non già di una collettività indeterminata “iure
servitutis publicae”; inoltre, la mera tolleranza dei
proprietari interessati, secondo costante giurisprudenza,
impedisce la costituzione sia di una servitù pubblica di
passaggio per uso ultraventennale sia per effetto di dicatio
ad patriam.
Parimenti non costituiscono elementi decisivi idonei a
comprovare l’uso pubblico né l’inserimento nella
toponomastica comunale, né l’avvenuta posa in opera di una
tubazione idrica per servire alcuni utenti, in assenza di
altri elementi comprovanti la manutenzione pubblica della
strada vicinale.
Come noto, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la
prospettazione delle parti, bensì il “petitum sostanziale”,
il quale va identificato non solo e non tanto in funzione
della concreta pronuncia che si chiede al giudice (vale a
dire nella domanda di annullamento di atti amministrativi)
ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi cioè
dell'intrinseca natura della controversia dedotta in
giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti
allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti sono
manifestazione (ex plurimis Consiglio di Stato sez IV
02.03.2011, n. 1360; Cassazione Sezioni Unite 26.01.2011, n. 1767; TAR Campania - Napoli, sez. V, 01.04.2011, n. 1909).
Con l’azione in epigrafe l’odierna ricorrente, al di là
della formale domanda di annullamento degli atti impugnati,
contesta la sussistenza dei presupposti per il ripristino
dell’uso pubblico della strada vicinale per cui è causa, ed
in particolare lamenta l’illegittimità dell’esercizio del
potere con cui l’Amministrazione ha ripristinato l’idoneità
all’uso pubblico, implicitamente revocando le proprie
opposte e ripetute precedenti manifestazioni di volontà
espresse al riguardo.
Ciò premesso, secondo giurisprudenza consolidata da cui il
Collegio non ha ragione di discostarsi, rientrano nella
giurisdizione del g.o. le controversie relative
all’impugnazione di provvedimenti amministrativi allorché la
parte ricorrente contesti la demanialità dell'area stessa
(ex multis Consiglio di Stato sez. VI 14.11.2012, n.
5741; id. sez. IV 05.06.2012 n. 3298; id. sez. VI, 29.05.2002, n. 2972; TAR Campania-Napoli, sez VII,
07.06.2012, n. 2715; Cassazione civile Sez. Un. 27.01.2010, n. 1624; id. Sez. Un. 18.04.2003, n. 6347) in
quanto non investano vizi dell'atto amministrativo, ma si
esauriscano nell'indagine sulla titolarità della proprietà
e, quindi, rivolte alla tutela di posizioni di diritto
soggettivo.
L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o
gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata
assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della
pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di
pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria
della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto
di godimento da parte della collettività mediante un'azione
negatoria di servitù; ne consegue che la controversia circa
la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa
l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada
privata, è devoluta alla giurisdizione del g.o., giacché
investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di
diritti soggettivi, dei privati o della p.a. (Cassazione
civile sez. un. 27.01.2010 n. 1624).
Nel caso di specie, è invece evidente la giurisdizione del
giudice amministrativo, poiché la controversia investe
esattamente la legittimità dell’esercizio di un potere
autoritativo, riconducibile all’autotutela con funzione di
riesame, seppur implicita, rispetto a precedenti
manifestazioni di volontà incompatibili con l’impugnato
provvedimento, da ascriversi alla materia del “governo del
territorio”, devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a.
(art. 133, c. 1, lett. f) cod. proc. amm.). Entro tale ambito
di giurisdizione, spetta al giudice amministrativo oltre la
cognizione diretta sul corretto esercizio del potere di
ripristino del pubblico transito, quella in via incidentale
ex art. 8 cod. proc. amm. sui sottostanti diritti reali, se
necessaria per pronunciare sulle questioni principali (ex multis TAR Calabria-Catanzaro
05.03.2003, n. 523; TAR Emilia Romagna-Parma 25.05.2005, n. 287).
Va pertanto affermata la giurisdizione dell’adito TAR.
---------------
Come noto e
ben riassunto dalle stesse difese, secondo giurisprudenza
pacifica (ex multis Consiglio di Stato sez. IV 08.06.2011, n. 3509; id. sez. V 19.04.2013 n. 2218; Cassazione
civ. sez. II n. 7718/1991; TAR Toscana sez. I 28.01.2013, n. 136; TAR Campania Napoli 19.12.2012,
n. 5250) è da ricondurre alla nozione di strada vicinale di
uso pubblico la strada che:
a) per le sue dimensioni,
struttura, e condizioni consente un generale passaggio
esercitato "iure servitutis publicae" da parte di una
collettività indeterminata di persone in assenza di
restrizioni all'accesso o di vincoli di proprietà o
condominio;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è
contraddistinta da un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche
identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo
immemorabile;
d) è stata oggetto di interventi di
manutenzione da parte del Comune e di installazioni, sopra o
sotto di essa, di infrastrutture di servizio da parte
dell'ente pubblico (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche).
E’ altresì pacifico che la mancata utilizzazione di essa da
parte della generalità degli utenti, protrattasi anche per
un lungo lasso di tempo, non depone ex se per la cessata
destinazione all'uso pubblico, occorrendo fatti concludenti
ed univoci atti a comprovare il venir meno delle esigenze di
utilizzo generale (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V 30.11.2011, n. 6338; id. sez. IV,
07.09.2006 n.
5209; TAR Liguria sez. II 19.05.2011, n. 799; TAR
Umbria 21.09.2004, n. 545).
L’Amministrazione resistente, sulla base di precise
ricognizioni effettuate nel periodo 1997-2006 dai propri
organi tecnici depositate in giudizio (sopra specificate)
sulle condizioni morfologiche dei luoghi, ha escluso non
solo l’idoneità all’uso pubblico ma anche la stessa
qualificazione quale strada, in considerazione, tra l’altro:
- dell’irregolarità del sedime (in alcuni tratti sterrato ed
in altri costituito da terreno vegetativo)
- del pessimo
stato di manutenzione e della notevole pendenza di alcuni
tratti (tale da impedire il transito dei veicoli)
-
dell’assenza di collegamento con la strada pubblica e
l’esistenza di tratti di strade alternativi per il
collegamento tra San Carlo e San Bartolomeo.
Conseguentemente, ha coerentemente deciso di procedere
all’espressa sdemanializzazione della strada vicinale in
questione.
Di li a poco, e precisamente nel mese di novembre 2006, ha
esercitato un repentino “ius poenitendi” senza effettuare
l’indispensabile valutazione tecnica sull’opportunità di
considerare tutt’ora prevalente l’esigenza pubblica del
ripristino della situazione precedente per tutta o solo una
parte della strada stessa, si da contravvenire alle
risultanze precedentemente raggiunte, come accertato dalla
sentenza 592/2009 di annullamento delle deliberazioni di
revoca.
Come condivisibilmente argomentato dalla difesa della
ricorrente, la nuova deliberazione C.C. 270/2010 qui
impugnata, da una parte, interviene a disciplinare la
questione dell’uso pubblico in costanza di proprie
precedenti deliberazioni tutt’ora valide ed efficaci, per
effetto della sentenza 592/2009 la quale, nell’annullare la
revoca in autotutela, ne ha pienamente ripristinato ogni
efficacia; d’altra parte, la deliberazione impugnata è
espressione del potere dell’Amministrazione di rinnovare le
proprie precedenti valutazioni, nel rispetto dei vincoli
conformativi derivanti dalla sentenza, vale a dire
effettuando una più approfondita valutazione tecnica sullo
stato dei luoghi e sulla idoneità all’uso pubblico.
Non ritiene il Collegio che la suesposta rinnovata
valutazione sia idonea a dimostrare la sopravvenienza di
fatti o la logica diversa valutazione di circostanze già
accertate dai numerosi pareri tecnici dell’Amministrazione
poste a fondamento della deliberazione di sdemanializzazione,
oltre che dalle risultanze emerse dalle perizie disposte in
sede penale e dalla CTU depositata in sede civile.
Da una parte, il questionario fatto compilare dal Comune ad
un gruppo di cittadini appartenenti al bacino d’utenza della
strada non è di per sé sufficiente allo scopo poiché, tuttalpiù, esso comprova la generica permanenza
dell’interesse all’uso della strada “uti singuli” da parte
di un gruppo limitato di persone e non già di una
collettività indeterminata “iure servitutis publicae”;
inoltre, la mera tolleranza dei proprietari interessati,
secondo costante giurisprudenza, impedisce la costituzione
sia di una servitù pubblica di passaggio per uso
ultraventennale (Consiglio di Stato sez. V 28.01.1998
n. 102) sia per effetto di dicatio ad patriam (Cassazione
civ. sez. II 12.08.2002, n. 12167).
D’altronde, la contraddittorietà dell’operato del Comune
traspare apertamente dalla stessa motivazione della
deliberazione impugnata, laddove si afferma che in alcuni
tratti la strada sarebbe addirittura inesistente (pag. 4/5)
mentre alla successiva pag. 6 si evince che la strada
sarebbe aperta al pubblico transito da tempo immemorabile.
Se è vero che con l'introduzione dell'art. 21-quinquies
della L n. 241/1990, il potere di revoca ricomprende sia il
c.d. “ius poenitendi”, ossia la mutata valutazione
soggettiva dell’interesse pubblico, sia ogni diversa
valutazione per il sopravvenuto mutamento delle circostanze
di fatto o di diritto che costituivano il fondamento della
decisione (Consiglio di Stato sez. V 05.07.2011 n. 4028;
id. sez. V 21.04.2010, n. 2244), esso non può certo
spingersi sino al disconoscimento dei fatti obiettivamente
accertati, nella specie la natura e la morfologia della
strada, posti a fondamento dell’attività oggetto
dell’autotutela, a pena di evidente travisamento e sviamento
della funzione pubblica.
Parimenti non costituiscono elementi decisivi idonei a
comprovare l’uso pubblico né l’inserimento nella
toponomastica comunale, né l’avvenuta posa in opera di una
tubazione idrica per servire alcuni utenti, in assenza di
altri elementi comprovanti la manutenzione pubblica della
strada vicinale (TAR Umbria,
sentenza 23.05.2013 n. 304 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza amministrativa ha da tempo elaborato e
riconosciuto il pur controverso istituto dell’atto
amministrativo implicito, individuandone in modo rigoroso i
presupposti anche al fine di garantirne la compatibilità con
la legge sul procedimento amministrativo, con particolare
riferimento agli artt. 2, 3, 7 e 10-bis della L. 241/1990.
E’ tuttavia incerta, nella stessa giurisprudenza, la
configurabilità sul piano sistematico di una attività di
autotutela con funzione di riesame implicita, allorquando la
volontà di annullamento o di revoca sia desumibile in modo
inequivoco da diversa manifestazione provvedimentale
proveniente da organo astrattamente competente al riesame.
Infatti, a fronte della tesi positiva invalsa presso parte
della giurisprudenza di prime cure si è efficacemente
replicato che la revoca o l’annullamento d’ufficio di un
provvedimento amministrativo implica la necessità di
esplicitare le ragioni giustificanti la nuova
determinazione, con la conseguenza che essa non può assumere
la forma implicita, pena la violazione dell'art. 3 della L.
07.08.1990 n. 241, prescrivente l'obbligo di motivazione per
tutti i provvedimenti amministrativi, a meno che le ragioni
della stessa non siano chiaramente intuibili sulla base del
contenuto del provvedimento impugnato.
Senza contare poi, che connaturato all’attività di secondo
grado, per sua natura ampiamente discrezionale, è il
rigoroso rispetto del contraddittorio procedimentale, fatta
eccezione per le ipotesi, invero residuali, di interesse
pubblico in re ipsa, contraddittorio che, viceversa,
ammettendo l’autotutela in via implicita, sarebbe
inopinatamente escluso.
Come noto, la
giurisprudenza amministrativa ha da tempo elaborato e
riconosciuto il pur controverso istituto dell’atto
amministrativo implicito, individuandone in modo rigoroso i
presupposti (ex multis di recente C.G.A.S. sez. giurisd.
01.02.2012, n. 118) anche al fine di garantirne la
compatibilità con la legge sul procedimento amministrativo,
con particolare riferimento agli artt. 2, 3, 7 e 10-bis
della L. 241/1990.
E’ tuttavia incerta, nella stessa giurisprudenza, la
configurabilità sul piano sistematico di una attività di
autotutela con funzione di riesame implicita, allorquando la
volontà di annullamento o di revoca sia desumibile in modo
inequivoco da diversa manifestazione provvedimentale
proveniente da organo astrattamente competente al riesame.
Infatti, a fronte della tesi positiva invalsa presso parte
della giurisprudenza di prime cure (TAR Lombardia-Milano, sez. II,
07.07.2008, n. 2882) si è efficacemente
replicato che la revoca o l’annullamento d’ufficio di un
provvedimento amministrativo implica la necessità di
esplicitare le ragioni giustificanti la nuova
determinazione, con la conseguenza che essa non può assumere
la forma implicita, pena la violazione dell'art. 3 della L.
07.08.1990 n. 241, prescrivente l'obbligo di motivazione
per tutti i provvedimenti amministrativi, a meno che le
ragioni della stessa non siano chiaramente intuibili sulla
base del contenuto del provvedimento impugnato (Consiglio di
Stato, sez V 28.06.2011 n. 3875; id. 22.09.2003,
n. 5398). Senza contare poi, che connaturato all’attività di
secondo grado, per sua natura ampiamente discrezionale, è il
rigoroso rispetto del contraddittorio procedimentale, fatta
eccezione per le ipotesi, invero residuali, di interesse
pubblico in re ipsa, contraddittorio che, viceversa,
ammettendo l’autotutela in via implicita, sarebbe
inopinatamente escluso.
Ciò premesso, non ritiene il Collegio di poter configurare,
nella fattispecie, alcuna revoca indiretta o implicita,
poiché alla luce della disciplina normativa
dell’annullamento e della revoca d’ufficio di cui agli artt.
21-nonies e 21-quinques della legge 241/1990, l’attività di
riesame presuppone, a pena di illegittimità, tra l’altro,
una espressa e puntuale ponderazione dell’interesse pubblico
con gli interessi contrapposti, nonché l’indicazione delle
stesse ragioni di illegittimità o inopportunità del
provvedimento.
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha completamente
ignorato anche le opposte risultanze fattuali acclarate sino
al mese di giugno 2006, non specificando le particolari
ragioni atte a giustificarne una valutazione diametralmente
opposta e non ha effettuato alcuna comparazione tra gli
interessi contrapposti
(TAR Umbria,
sentenza 23.05.2013 n. 304 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo trascorso dalla
realizzazione giammai può legittimare.
A ciò va aggiunto che -in linea generale- l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati, né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo trascorso dalla realizzazione giammai
può legittimare (cfr. ex multis TAR Piemonte sez. II, 28.02.2013, n. 271; TAR Catanzaro sez. I, 22.02.2013, n. 183; TAR Lazio sez. I, 11.03.2013, n. 2518)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 620 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Va ricordato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale che riconosce la
possibilità di proporre impugnativa avverso strumenti di
pianificazione del territorio allorquando la nuova
destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non
appartenente al ricorrente, incida direttamente sul
godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o
comunque su interessi propri e specifici del medesimo
esponente.
---------------
I rilievi svolti dai privati in occasione dell'adozione di
un nuovo strumento di pianificazione del territorio non
costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici
apporti collaborativi, che non onerano l'amministrazione a
ciò competente di un obbligo di puntuale e analitica
motivazione.
Prescindendo dall’effettiva portata e fondatezza delle
contestazioni sollevate dalla ricorrente, non si può negare
che esse -se esaminate sulla base del parametro di
astrattezza tipico delle condizioni di ingresso dell’azione
processuale- delineano sufficienti profili di ammissibilità
del ricorso, posto che la legittimazione ad agire, nel caso
di specie, oltre che sulla vicinitas della ricorrente
all’area interessata dalla variante urbanistica, si fonda su
specifici effetti pregiudizievoli che la Forgest paventa in
conseguenza dei provvedimenti impugnati.
Tale conclusione si
inserisce nel contesto del consolidato indirizzo
giurisprudenziale che riconosce la possibilità di proporre
impugnativa avverso strumenti di pianificazione del
territorio allorquando la nuova destinazione urbanistica,
pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente,
incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato
dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici
del medesimo esponente (cfr. Cons. St. sez. IV, 28.07.2005, n. 4018, concernente un caso in cui la legittimazione
a ricorrere avverso atti di pianificazione riguardanti aree
diverse da quelle di proprietà del ricorrente, è stata
correlata al pregiudizio -connesso al limitato godimento di
una servitù di passaggio- che la contestata previsione
urbanistica determinava nella sfera giuridica del
ricorrente).
---------------
L’illustrazione
delle ragioni del rigetto delle osservazioni, appare
certamente adeguata allo sforzo esigibile
dall’amministrazione in subiecta materia, posto che, per
indirizzo consolidato della giurisprudenza, i rilievi svolti
dai privati in occasione dell'adozione di un nuovo strumento
di pianificazione del territorio non costituiscono veri e
propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi,
che non onerano l'amministrazione a ciò competente di un
obbligo di puntuale e analitica motivazione (Cons. St., sez. IV, 12.02.2013 n. 845 e 16.11.2011,
n. 6049) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Gli impianti di distribuzione di carburante
(disciplinati dal d.lgs. 11.02.1998 n. 32) non sono
definibili in senso proprio come “impianti produttivi”,
rientrando piuttosto tra le opere catalogabili lato sensu
come opere di urbanizzazione secondaria e come
infrastrutture complementari al servizio della circolazione
stradale, come tali ubicabili in ogni ambito del P.R.G..
In proposito,
coglie nel segno l’argomentazione difensiva del Comune
secondo cui gli impianti di distribuzione di carburante
(disciplinati dal d.lgs. 11.02.1998 n. 32) non sono
definibili in senso proprio come “impianti produttivi”,
rientrando piuttosto tra le opere catalogabili lato sensu
come opere di urbanizzazione secondaria e come
infrastrutture complementari al servizio della circolazione
stradale, come tali ubicabili in ogni ambito del P.R.G.
(cfr. Cons. St. sez. V, 23.01.2007, n. 192; TAR
Palermo sez. III, 18.11.2011, n. 2143) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'apposizione di
condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile
soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell'intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell'intervento edilizio, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale della concessione
stessa. Concedendo spazio al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato -legato allo
svolgimento dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti
per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi
avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore.
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare
illegittime le condizioni che subordinano la validità della
concessione edilizia alla cessione gratuita di aree
destinate alla realizzazione di opere pubbliche, in quanto
condizionare l’assenso all’intervento edilizio a fattori
diversi da quelli di stretta conformità ai richiesti
parametri normativi, appare non in linea con la natura e le
finalità dei poteri dell’amministrazione in materia
edilizia, trattandosi di attività vincolata da specifiche
norme e funzionale al solo accertamento della corrispondenza
degli interventi e dei relativi elaborati progettuali con
tali prescrizioni normative.
---------------
La recinzione di un fondo non può essere ostacolata
dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano
regolatore, in quanto il legittimo esercizio dello jus
excludendi, di per sé, non contrasta con la detta
previsione, non avendo per fine quello di imprimere all'area
una destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche e non limitando in alcun modo l'amministrazione
nell'esercizio dei poteri, eventualmente ablativi, che dal
vincolo discendono.
Le censure svolte dal ricorrente appaiono fondate sotto
plurimi profili.
Innanzitutto, il provvedimento di diniego opposto dal Comune
alla richiesta di concessione edilizia non reca adeguata
motivazione in merito all’intervenuta cessazione del vincolo
espropriativo che in precedenza destinava parte dell’area
privata a viabilità pubblica.
L’intenzione palesata dall’amministrazione di condizionare
il rilascio del titolo abilitativo alla previa cessione
della fascia di terreno inscritta nell’ambito dei viabilità
pubblica, non trova infatti giustificazione nella
pianificazione urbanistica all’epoca vigente.
Il punto è di evidente rilievo se si considera che lo "ius
aedificandi" costituisce facoltà insita nel diritto di
proprietà, comprimibile esclusivamente per un contrasto con
esigenze di pubblico interesse recepite nelle prescrizioni
urbanistiche. Se, pertanto, un provvedimento di diniego
presuppone necessariamente che siano evidenziate ipotesi di
contrasto tra l'elaborato progettuale e le prescrizioni
urbanistiche, senza possibilità di limitazioni non
strettamente pertinenti all'aspetto urbanistico, nel caso di
specie tale condizione di contrasto non è rinvenibile,
atteso che all’epoca della presentazione dell’istanza di
concessione, in data 20.04.2006, era già pacificamente
decaduto il vincolo espropriativo potenzialmente configgente
con l’intervento edificatorio.
L’operato della pubblica amministrazione si è svolto,
inoltre, in contrasto con il principio -costantemente
affermato dalla giurisprudenza- secondo il quale
l'apposizione di condizioni al rilascio di un titolo
edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere
su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento
costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che
strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto
in una norma di legge o regolamento. Diversamente, non è
possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano
estranee alla fase di realizzazione dell'intervento
edilizio, stante la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale della concessione stessa. Concedendo
spazio al perseguimento di finalità estranee a quelle
sottese al potere esercitato -legato allo svolgimento
dell'attività edificatoria– si finirebbe infatti per funzionalizzare l'attività amministrativa ad interessi
avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore (cfr. TAR
Milano sez. IV, 10.09.2010, n. 5655; TAR Trentino
Alto Adige, Trento sez. I, 04.01.2011, n. 2; TAR Lecce
sez. III, 28.09.2012, n. 1623).
La giurisprudenza ha già avuto modo di dichiarare
illegittime le condizioni che subordinano la validità della
concessione edilizia alla cessione gratuita di aree
destinate alla realizzazione di opere pubbliche (cfr. Cons.
St. sez. V, 24.03.2001, n. 1702; TAR Milano sez. II, 18.02.1984, n. 77), in quanto condizionare l’assenso
all’intervento edilizio a fattori diversi da quelli di
stretta conformità ai richiesti parametri normativi, appare
non in linea con la natura e le finalità dei poteri
dell’amministrazione in materia edilizia, trattandosi di
attività vincolata da specifiche norme e funzionale al solo
accertamento della corrispondenza degli interventi e dei
relativi elaborati progettuali con tali prescrizioni
normative.
Sotto diverso profilo, correttamente la difesa di parte
ricorrente richiama il principio giurisprudenziale secondo
il quale la recinzione di un fondo non può essere ostacolata
dall'esistenza di una previsione vincolistica del piano
regolatore (nel caso di specie peraltro assente), in quanto
il legittimo esercizio dello jus excludendi, di per sé, non
contrasta con la detta previsione, non avendo per fine
quello di imprimere all'area una destinazione diversa da
quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in
alcun modo l'amministrazione nell'esercizio dei poteri,
eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono (cfr. TAR
Bari sez. III, 22.02.2006, n. 572; TAR Catanzaro sez. II, 24.02.2003, n. 351; TAR Milano, sez. II, 20.05.1993 n. 334 e 24.10.1991
n. 1247) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Relativamente ai
contrasti insorti tra il ricorrente e le proprietà
confinanti per l’esercizio del passaggio sulla strada
esistente, va rilevato che si tratta di profilo meramente
civilistico, sul quale l'amministrazione non può e non deve
fondare alcuna preclusione al rilascio del titolo edilizio,
se ed in quanto il sottostante intervento sia,
indipendentemente dalla controversia civile in atto,
legittimamente assentibile in quanto conforme alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti e
della disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Invero, i rapporti tra l'istante e i vicini hanno natura e
rilevanza privatistica e non devono interessare
l'amministrazione locale, anche in ragione della clausola di
salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi (oggi
prevista dall'art. 11, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Pertanto, in sede di rilascio di concessione od
autorizzazione edilizia, l'amministrazione deve limitarsi a
verificare che il richiedente sia proprietario od abbia
comunque la disponibilità dell'area interessata, non essendo
necessario compiere ulteriori ed autonome indagini circa
l'esistenza e/o la natura (reale o personale) di diritti
vantati da terzi, che la legge fa comunque salvi.
Infine, per quanto concerne la questione (pure evocata
negli atti comunali del 17 e 25.08.2006) dei contrasti
insorti tra il ricorrente e le proprietà confinanti per
l’esercizio del passaggio sulla strada esistente, va
rilevato che si tratta di profilo meramente civilistico, sul
quale l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna
preclusione al rilascio del titolo edilizio, se ed in quanto
il sottostante intervento sia, indipendentemente dalla
controversia civile in atto, legittimamente assentibile in
quanto conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente.
Invero, i rapporti tra l'istante e i vicini hanno natura e
rilevanza privatistica e non devono interessare
l'amministrazione locale, anche in ragione della clausola di
salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi (oggi
prevista dall'art. 11, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380;
cfr. in questo senso parere Cons. St., sez. II, 27.02.2002, n. 2559, secondo cui "una volta accertata la
conformità dell'intervento agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi, l'assumere a presupposto del diniego un
elemento estraneo a tale verifica, qual è la viabilità di
accesso al lotto sul quale si chiede di costruire, esula dai
poteri assegnati al Comune dalla legge in sede di rilascio
dl permesso di costruire". Nello stesso senso cfr. Cons. di
Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341; TAR Veneto sez. II,
12.01.2011, n. 37; TAR Latina sez. I, 09.12.2010,
n. 1949).
Pertanto, in sede di rilascio di concessione od
autorizzazione edilizia, l'amministrazione deve limitarsi a
verificare che il richiedente sia proprietario od abbia
comunque la disponibilità dell'area interessata, non essendo
necessario compiere ulteriori ed autonome indagini circa
l'esistenza e/o la natura (reale o personale) di diritti
vantati da terzi, che la legge fa comunque salvi (cfr. TAR
Trento Trentino Alto Adige, Trento 18.06.2002, n. 197,
vertente su fattispecie analoga a quella per cui è causa) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.05.2013 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' inaffidabile un'offerta con margine di utile
pari a zero, anche se formulata da una Onlus priva, in
quanto tale, di scopo di lucro.
La formulazione di un offerta da parte di un'ATI, ad una
gara per l'affidamento del servizio di assistenza
domiciliare integrata, con un margine lordo (utile) pari a
zero la rende inaffidabile ed inattendibile, anche nel caso
in cui la proposta provenga da una ONLUS priva, in quanto
tale, di scopo di lucro.
L'ATI suddetta si sarebbe discostata dalle tabelle di cui al
decreto ministeriale del 02.04.2012, senza, tuttavia,
addurre alcuna logica giustificazione, né specificare le
ragioni che consentirebbero di operare in condizioni più
favorevoli; pertanto, le giustificazioni dell'ATI
controinteressata non offrirebbero elementi di prova a
supporto degli scostamenti dai dati tabellari, il che
renderebbe inaffidabile l'offerta (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 20.05.2013 n. 781 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità nel caso di aggiudicazione di
una gara ad un consorzio di cooperative di produzione e
lavoro, della designazione di secondo grado, o "a cascata".
L'art. 13, c. 4, della l. n. 109/1994 (ora art. 37, c. 7,
del d.lgs. n. 163 del 2006), ha eccezionalmente previsto che
i consorzi tra società cooperative di produzione e lavoro
indichino, nell'offerta, per quali loro consorziati essi
concorrano e non ha, invece, esteso anche ai soggetti
(eventualmente costituiti in forma consortile) così
designati di indicare, a loro volta, a cascata, i propri
consorziati chiamati ad eseguire i lavori stessi.
Il consorzio concorrente ed aggiudicatario può avvalersi
delle prestazioni di un'impresa cooperativa in esso
associata e specificamente designata in sede di gara; e, in
tal caso, l'impresa indicata può eseguire i lavori pur
essendo priva dei requisiti di qualificazione tecnica; ma
non anche, a quest'ultima, di avvalersi di un'ulteriore
impresa -a sua volta, in essa associata- altrimenti
potendosi innescare un meccanismo di designazioni a catena
destinato a beneficiare non (secondo la ratio legis)
il consorzio concorrente e le imprese cooperative in esso
associate, ma, in ipotesi (come nel caso di specie) anche
soggetti terzi, non concorrenti direttamente alla gara, né
in questa puntualmente designati, secundum legem, dal
concorrente risultato aggiudicatario, quali materiali
esecutori dei lavori (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 20.05.2013 n. 14 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla insussistenza della giurisdizione del
giudice amministrativo per le questioni riguardanti la
legittimità del documento unico di regolarità contributiva (durc).
La valutazione di gravità o meno della infrazione
previdenziale è riservata agli enti previdenziali e la
stessa è, pertanto, vincolante per le stazioni appaltanti,
precludendo ad esse qualsivoglia apprezzamento autonomo.
Sotto il profilo soggettivo le Casse Edili appartengano alla
categoria delle associazioni non riconosciute ex art. 36
c.c. le quali, nell'esercizio delle loro funzioni tipiche,
non sono soggette di regola alla giurisdizione del giudice
amministrativo. Sotto il profilo oggettivo, poi, il
documento unico di regolarità contributiva (durc), si
sostanza in una dichiarazione di scienza e si colloca fra
gli atti di certificazione o di attestazione aventi
carattere meramente dichiarativo di dati in possesso
dell'ente, assistiti da pubblica fede ex articolo 2700 c.c.
e facenti pertanto prova fino a querela di falso.
Ne consegue che eventuali errori contenuti in detto
documento, involgendo posizioni di diritto soggettivo
afferenti al sottostante rapporto contributivo, potranno
essere corretti dal giudice ordinario, o all'esito di
proposizione di querela di falso, o a seguito di ordinaria
controversia in materia di previdenza e di assistenza
obbligatoria. Infatti, ciò che forma oggetto di valutazione
ai fini del rilascio del certificato è la regolarità dei
versamenti effettuata dall'impresa iscritta presso la Cassa
Edile, ed in questo ambito ciò che viene in rilievo non è
certo un rapporto pubblicistico, bensì un rapporto
obbligatorio previdenziale di natura privatistica.
In altri termini, il rapporto sostanziale di cui il durc è
mera attestazione si consuma interamente in ambito
privatistico, senza che su di esso vengano ad incidere
direttamente o indirettamente poteri pubblicistici, per cui
il sindacato sullo stesso esula dall'ambito della
giurisdizione, ancorché esclusiva, di cui è titolare il
giudice amministrativo in materia di appalti.
---------------
Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 38, c. 1, lett. i),
d.lgs. n.163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente
al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di
esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle
norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione
di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per
caso della stazione appaltante, ma si desume dalla
disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina
del documento unico di irregolarità contributiva; ne
consegue che la verifica della regolarità contributiva delle
imprese partecipanti a procedure di gara per
l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione
è demandata agli istituti di previdenza, le cui
certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni
appaltanti, che non possono sindacare il contenuto (Adunanza
Plenaria del CdS 16/04/2012, n. 8) (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 17.05.2013 n. 2682 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
La normativa a tutela della concorrenza nel
settore dell'acqua si applica anche agli appalti o ai
concorsi riguardanti lo smaltimento o il trattamento delle
acque reflue.
L'art. 209 del D.Lgs. n. 163/2006, riproduce pedissequamente
l'art. 4 della Direttiva 2004/17/CE, in forza del quale la
normativa a tutela della concorrenza nel settore dell'acqua
si applica anche agli appalti o ai concorsi riguardanti lo
smaltimento o il trattamento delle acque reflue, qualora
siano attribuiti o organizzati da alcuno degli enti del
settore speciale dell'acqua, analogamente è a dirsi per lo
smaltimento dei fanghi prodotti dalla depurazione, che ne
costituisce il necessitato complemento operativo. Il dato,
tuttavia, non comporta di per sé che qualsivoglia
affidamento avente ad oggetto lo smaltimento di fanghi da
depurazione debba obbedire alla disciplina dettata dall'art.
209, posto che questa riguarda i soli affidamenti attribuiti
od organizzati da enti che esercitano le attività di messa a
disposizione o gestione di reti fisse in connessione con la
produzione, il trasporto o la distribuzione di acque
potabile, ovvero l'alimentazione delle reti con acqua
potabile.
Deve riconoscersi ad un'impresa operante nel settore dei
rifiuti speciali non pericolosi e titolare dell'affidamento,
da parte di enti pubblici, di numerosi servizi di prelievo e
smaltimento di fanghi da depurazione, di un interesse
qualificato ad accedere a tutti gli atti e documenti
concernenti l'affidamento a terzi, da parte di Aquapur,
società a prevalente partecipazione pubblica affidataria
della gestione del depuratore, in quanto la summenzionata
società riveste la qualità di organismo di diritto pubblico,
e questo anche a voler ammettere che la prevalente attività
esercitata presenti invece carattere industriale e
commerciale. L'infrazionabilità dei reflui implica peraltro
l'attrazione dell'intero affidamento del servizio di
prelievo e smaltimento dei fanghi nella sfera pubblicistica
dell'attività di Aquapur, non potendosi altrimenti garantire
tutela ai superiori principi di libera concorrenza, parità
di trattamento, imparzialità, pubblicità, trasparenza (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 15.05.2013 n. 813 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza che il Comune non sia intervenuto
tempestivamente nell’assumere iniziative per il ripristino
della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione
delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può
ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della
strada discendente dalla sua iscrizione nell’elenco delle
strade pubbliche, ma, secondo i consolidati principi
elaborati dalla giurisprudenza, non è in grado di assumere
alcun significato nella vicenda in esame, i cui elementi
significativi sono l’esistenza di una strada vicinale
iscritta come tale nell’elenco delle strade comunali, l’uso
da parte della collettività uti cives, la concreta idoneità
della strada a soddisfare esigenze di generale interesse per
il collegamento con la pubblica via del santuario dell’acqua
nera e l’interruzione e trasformazione da parte del
ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo la
realizzazione sull’area stradale di opere edilizie abusive.
L’asserita
privatizzazione della strada “ab immemore” sulla quale
insiste la difesa del Grassini, appare priva di consistenza,
atteso che l’istituto richiamato dall’interessato,
presuppone il disuso del bene demaniale per un tempo
superiore a cinquanta anni, ovvero il verificarsi di fatti
naturali che abbiano mutato l’originaria consistenza e
funzione del bene.
Nel caso non risulta che ci siano stati eventi naturali
significativi e l’unico elemento portato a suffragio di tale
ricostruzione giuridica è la costruzione di opere abusive,
avvenuta solamente quindici anni prima dell’ordinanza di
rimozione qui in questione e che, verosimilmente è stata la
causa dello spostamento che la strada avrebbe subito.
La circostanza che il Comune non sia intervenuto
tempestivamente nell’assumere iniziative per il ripristino
della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione
delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può
ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della
strada discendente dalla sua iscrizione nell’elenco delle
strade pubbliche (giusta delibera comunale n. 57 del 1969),
ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato
nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono
l’esistenza di una strada vicinale iscritta come tale
nell’elenco delle strade comunali, l’uso da parte della
collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a
soddisfare esigenze di generale interesse per il
collegamento con la pubblica via del santuario dell’acqua
nera e l’interruzione e trasformazione da parte del
ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo la
realizzazione sull’area stradale di opere edilizie abusive
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2012, n. 3531; sez. V,
04.02.2004, n. 373; sez. V, 24.10.2002, n. 5692;
Cass. civ., sez. II, 10.10.2000, n. 13485; 07.04.2000, n. 4345; Sez. I,
03.10.2000, n. 13087, cui si
rinvia a mente degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d) c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2611 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di tutela
delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una anteriore
lesione arrecata alla zona non rappresenta, da sola, un
motivo sufficiente a dispensare dalla verifica riguardante
la realizzabilità o la sanabilità di un’opera; anzi,
l’eventuale danno pregresso produce la necessità di una
indagine ancor più accurata, per scongiurare un maggiore,
più grave e definitivo turbamento, dei valori tipici dei
luoghi.
Osserva, a questo proposito, il Collegio che, come rilevato
dal giudice di prime cure, il Soprintendente -nel ritenere
illegittimo l’atto emesso dal Comune di Taranto in quanto
nell’attuare “una inammissibile deroga al vincolo” si
pone in contrasto con quest’ultimo- espone in maniera
puntuale le ragioni di tale contrasto al fine di evidenziare
i profili di illegittimità connessi all’azione del dirigente
comunale, atteso che, ai sensi dell’art. 32 della legge n.
47 del 1985, la funzione del parere soprintendentizio è
quella di verificare la compatibilità dell’opera abusiva con
i valori paesistici tutelati dal vincolo.
Tale motivazione, strettamente connessa alla illegittimità
del provvedimento n. 2230 del comune di Taranto, non
travalica i limiti propri del sindacato estrinseco di
legittimità e non svolge specifiche valutazioni di merito,
essendo invece volta esclusivamente a evidenziare l’iter
logico sotteso alla menzionata dichiarazione di
illegittimità del provvedimento comunale.
Risulta infatti del tutto immotivata –e in contrasto logico
con la realtà dei luoghi– la considerazione posta a base
della autorizzazione comunale, la quale ha rilevato che
l’immobile in questione, posto in prossimità del mare, “non
costituisce alterazione dell’ambiente circostante, già
interessato da una diffusa edificazione”.
Contrariamente a quanto affermato dall’appellante, quindi,
il “sindacato” esercitato dalla Soprintendenza con il
decreto n. 4724 del 26.02.2004 è esente da censure,
rientrando nell’ambito del suo potere il constatare la
sostanziale assenza di motivazione della autorizzazione.
Il Collegio ritiene, altresì, che sotto il profilo
sostanziale non può trovare condivisione la valutazione
comunale sul rilievo della presenza di diffusi illeciti
edilizi nella medesima zona ove è stato realizzato
l’immobile oggetto degli impugnati provvedimenti: al
contrario, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto
esprimersi sul perché la sua demolizione non avrebbe
consentito una riqualificazione del territorio.
In ogni caso, per la pacifica giurisprudenza “in materia
di tutela delle bellezze panoramiche, l’esistenza di una
anteriore lesione arrecata alla zona non rappresenta, da
sola, un motivo sufficiente a dispensare dalla verifica
riguardante la realizzabilità o la sanabilità di un’opera;
anzi, l’eventuale danno pregresso produce la necessità di
una indagine ancor più accurata, per scongiurare un
maggiore, più grave e definitivo turbamento, dei valori
tipici dei luoghi” (Cons. di Stato, Sez. VI, 27.03.2012,
n. 1813)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2541 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda la
censura relativa alla mancata sospensione del procedimento
volto a reprime l’abuso edilizio in pendenza della domanda
di condono presentata ai sensi dell’art. 32, comma 25, del
decreto legge n. 269 del 2003, la sospensione non opera
quale effetto automatico connesso alla presentazione della
domanda di condono, poiché tale effetto risulta subordinato
all’“astratta sanabilità” delle opere abusivamente eseguite
a norma dell’art. 32, comma 27, del citato decreto legge.
---------------
In sede di rilascio della concessione in sanatoria per opere
ricadenti in zone sottoposte a vincolo […] l’esistenza del
vincolo (stesso) va valutata al momento in cui deve essere
presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere
dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le
opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo in
questione.
Il Collegio rileva,
infine, per quanto riguarda la censura relativa alla mancata
sospensione del procedimento volto a reprime l’abuso
edilizio in pendenza della domanda di condono presentata
dall’appellante ai sensi dell’art. 32, comma 25, del decreto
legge n. 269 del 2003, che la sospensione non opera quale
effetto automatico connesso alla presentazione della domanda
di condono, poiché tale effetto risulta subordinato, come
correttamente rilevato dal giudice di primo grado, all’“astratta
sanabilità” delle opere abusivamente eseguite a norma
dell’art. 32, comma 27, del citato decreto legge (Cons. di
Stato, Sez. V, 03.08.2004, n. 5412).
---------------
La consolidata giurisprudenza in questa materia dispone,
infatti, che “in sede di rilascio della concessione in
sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo
[…] l’esistenza del vincolo (stesso) va valutata al momento
in cui deve essere presa in considerazione la domanda di
condono, a prescindere dall’epoca della sua introduzione e,
quindi, anche per le opere eseguite anteriormente
all’apposizione del vincolo in questione” (Cons. di
Stato, Sez. IV, 29.11.2012, n. 6882)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2541 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I procedimenti concorsuali si concludono con
l’approvazione della graduatoria, cui segue, normalmente
senza soluzione di continuità, l’atto di nomina costitutivo
del rapporto giuridico e degli effetti che ne conseguono.
L’amministrazione, successivamente all’approvazione della
graduatoria, può, per specifiche ragioni di tipo
organizzativo o finanziario, che devono essere esternate,
non procedere alla nomina o spostare in avanti l’adozione
dell’atto di nomina.
Nel caso, invece, in cui tale adozione sia impedita
dall’esistenza di un contenzioso giudiziale –avente ad
oggetto, come nella specie, la legittimità di un atto di
esclusione– gli effetti giuridici devono essere collegati ad
una data anteriore rispetto a quella di adozione del decreto
di nomina. Infatti, una volta emanata la sentenza l’atto
illegittimo viene annullato con effetto retroattivo, con la
conseguenza che viene meno, per una fictio iuris, anche lo
spazio temporale esistente tra l’approvazione della
graduatoria e l’adozione dell’atto di nomina.
In altri termini, considerando come mai adottato l’atto di
esclusione, si applica la regola generale che pone in
rapporto di stretta successione temporale l’approvazione
della graduatoria e l’atto di nomina. Il fenomeno giuridico
descritto non è riconducibile, sul piano della
qualificazione, alla retroattività in senso proprio
dell’atto amministrativo, in quanto la produzione
dell’effetto “da tempo anteriore” non deriva da una
determinazione volontaria dell’amministrazione ma è connessa
alla natura della sentenza di annullamento e, in
particolare, all’effetto di ripristinazione proprio del
giudicato.
I procedimenti concorsuali si concludono con l’approvazione della
graduatoria, cui segue, normalmente senza soluzione di
continuità, l’atto di nomina costitutivo del rapporto
giuridico e degli effetti che ne conseguono.
L’amministrazione, successivamente all’approvazione della
graduatoria, può, per specifiche ragioni di tipo
organizzativo o finanziario, che devono essere esternate,
non procedere alla nomina o spostare in avanti l’adozione
dell’atto di nomina (cfr. Cons. Stato, VI, 21.10.2011,
n. 5672).
Nel caso, invece, in cui tale adozione sia impedita
dall’esistenza di un contenzioso giudiziale –avente ad
oggetto, come nella specie, la legittimità di un atto di
esclusione– gli effetti giuridici devono essere collegati
ad una data anteriore rispetto a quella di adozione del
decreto di nomina. Infatti, una volta emanata la sentenza
l’atto illegittimo viene annullato con effetto retroattivo,
con la conseguenza che viene meno, per una fictio iuris,
anche lo spazio temporale esistente tra l’approvazione della
graduatoria e l’adozione dell’atto di nomina.
In altri termini, considerando come mai adottato l’atto di
esclusione, si applica la regola generale che pone in
rapporto di stretta successione temporale l’approvazione
della graduatoria e l’atto di nomina. Il fenomeno giuridico
descritto non è riconducibile, sul piano della
qualificazione, alla retroattività in senso proprio
dell’atto amministrativo, in quanto la produzione
dell’effetto “da tempo anteriore” non deriva da una
determinazione volontaria dell’amministrazione ma è connessa
alla natura della sentenza di annullamento e, in
particolare, all’effetto di ripristinazione proprio del
giudicato (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTAZIONE:
Non è necessario per poter partecipare
all'affidamento di incarichi di progettazione in qualità di
raggruppamento temporaneo avere come associato un
professionista abilitato da meno di cinque anni
all'esercizio della professione.
Per poter partecipare all'affidamento di incarichi di
progettazione in qualità di raggruppamento temporaneo non è
necessario avere come associato un professionista abilitato
da meno di cinque anni all'esercizio della professione, e
ciò in quanto il c. 7 dell'art. 90 del codice dei contratti
(D.lgs. n. 163/2006), parla soltanto di "presenza" di
un giovane professionista, con evidenti finalità di
carattere "promozionale", non potendo essere intesa
come prescrizione di un vero e proprio obbligo di "associare"
il giovane professionista al raggruppamento.
Pertanto, ai fini della valida partecipazione di un R.T.I. a
procedure indette per l'aggiudicazione di servizi di
progettazione, è sufficiente che nella compagine del
raggruppamento sia contemplata la presenza, con rapporto di
collaborazione professionale o di dipendenza, di un
professionista abilitato iscritto all'albo da meno di cinque
anni, senza la necessità che questi assuma anche
responsabilità contrattuali.
Ciò che conta, in definitiva, è che il giovane
professionista -pur senza assurgere a responsabilità sociali
probabilmente non proporzionate alla sua ridotta formazione
professionale- partecipi al servizio di progettazione
oggetto di affidamento maturando esperienze professionali e
lavorative.
È questa la finalità promozionale della previsione, che
viene radicalmente disattesa ove il giovane professionista
-pur figurando sulla carta come componente del gruppo di
lavoro- non è in realtà investito della benché minima
incombenza collaborativa e non può quindi acquisire alcuna
utile esperienza formativa (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 08.05.2013 n. 268 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Non
è ravvisabile violazione dell'obbligo di comunicazione
dell'avvio del procedimento, di cui agli artt. 7 e 8 della
legge n. 241, nel caso in cui il soggetto inciso
sfavorevolmente dal provvedimento non dimostri che, ove
fosse stato reso edotto del suddetto avvio, sarebbe stato in
grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali
da far determinare in modo diverso le scelte
dell'amministrazione procedente.
---------------
Nel caso dell’ordinanza contingibile e urgente, come
disciplinata dall’art. 54, comma 2, del d.lgs. n. 267 del
2000, il ricorso a tale provvedimento presuppone una
situazione di pericolo effettivo ed imprevisto, costituente
concreta minaccia per la pubblica incolumità, per
fronteggiare la quale sia impossibile utilizzare i normali
mezzi apprestati dall'ordinamento quali sono appunti i
rimedi di carattere ordinario.
Ne consegue che il carattere di temporaneità è tipico delle
ordinanze contingibili e urgenti e che, pertanto, è
conforme, alla ratio della legge, oltre che satisfattivo ai
fini motivazionali, che a distanza di 6 anni, come nel caso
di specie, la situazione di pericolo, per la parte in cui
persiste, possa essere affrontata con strumenti di carattere
ordinario e che conseguentemente l’ordinanza contingibile ed
urgente debba essere revocata per lasciare il posto a
quest’ultima tipologia di provvedimenti.
In ogni caso, si tratta di poteri derogatori attribuiti al
Sindaco, il cui esercizio non può essere subordinato alla
preventiva attivazione del contraddittorio.
In proposito si considera che, per costante orientamento
giurisprudenziale, non è ravvisabile violazione dell'obbligo
di comunicazione dell'avvio del procedimento, di cui agli
artt. 7 e 8 della legge n. 241, nel caso in cui il soggetto
inciso sfavorevolmente dal provvedimento non dimostri che,
ove fosse stato reso edotto del suddetto avvio, sarebbe
stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di
giudizio tali da far determinare in modo diverso le scelte
dell'amministrazione procedente (tra le più recenti, Cons.
St., sez. IV, 16.02.2010 n. 885; sez. III, 20.06.2012, n.
3595).
Nel caso dell’ordinanza contingibile e urgente, come
disciplinata dall’art. 54, comma 2, del d.lgs. n. 267 del
2000 nel testo vigente alla data dell’emanazione
dell’ordinanza sindacale 03.12.2005 n. 17, il ricorso a tale
provvedimento presuppone una situazione di pericolo
effettivo ed imprevisto, costituente concreta minaccia per
la pubblica incolumità, per fronteggiare la quale sia
impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati
dall'ordinamento quali sono appunti i rimedi di carattere
ordinario. Ne consegue che il carattere di temporaneità è
tipico delle ordinanze contingibili e urgenti e che,
pertanto, è conforme, alla ratio della legge, oltre
che satisfattivo ai fini motivazionali, che a distanza di 6
anni, come nel caso di specie, la situazione di pericolo,
per la parte in cui persiste, possa essere affrontata con
strumenti di carattere ordinario e che conseguentemente
l’ordinanza contingibile ed urgente debba essere revocata
per lasciare il posto a quest’ultima tipologia di
provvedimenti.
In ogni caso, si tratta di poteri derogatori attribuiti al
Sindaco, il cui esercizio non può essere subordinato alla
preventiva attivazione del contraddittorio (Consiglio di
Stato, Sez. I,
parere 30.04.2013 n. 2055 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non
produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale,
dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere
interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma
2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel
caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione
delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il
fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Invero la violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del
1990 non produce ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso
di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare
il contenuto sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione
delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il
fatto che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (cfr: Consiglio di
Stato Sez. VI, sent. n. 585 del 02.02.2012; Tar
Toscana-Firenze, sez. III, n. 1616/2005), atteso che il
rapporto in questione non sussisteva “da almeno tre mesi
dalla data del 30.06.2009” (TAR Siciliza-Catania, Sez.
IV,
sentenza 26.04.2013 n. 1182 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di opere in assenza di autorizzazione paesaggistica ex
art. 151 D.Lgs. 490/1999, l’art. 164 prevede una sanzione
pecuniaria commisurata alla maggior somma tra danno arrecato
e profitto conseguito. Tale alternativa dimostra che il
pregiudizio ambientale non è esclusivo presupposto
applicativo di tale sanzione, comunque denominata, dovendo
essa essere applicata anche in caso di illecito formale.
Inoltre le opere di mitigazione, anche se eliminano il
pregiudizio all’interesse ambientale, non sono evidentemente
equipollenti e fungibili rispetto alle demolizione nella
prospettiva dell’interesse privato del proprietario, non
avendo per esso alcuna valenza sanzionatoria.
a) In caso di opere in assenza di autorizzazione
paesaggistica ex art. 151 D.Lgs. 490/1999, l’art. 164
prevede una sanzione pecuniaria commisurata alla maggior
somma tra danno arrecato e profitto conseguito. Tale
alternativa dimostra che il pregiudizio ambientale non è
esclusivo presupposto applicativo di tale sanzione, comunque
denominata, dovendo essa essere applicata anche in caso di
illecito formale.
Inoltre le opere di mitigazione, anche se eliminano il
pregiudizio all’interesse ambientale, non sono evidentemente
equipollenti e fungibili rispetto alle demolizione nella
prospettiva dell’interesse privato del proprietario, non
avendo per esso alcuna valenza sanzionatoria (cfr. in termini
TAR Toscana, 15.07.2011, n. 1195; Cons. Stato, IV,
14.04.2010, n. 2083; TAR Liguria 854/2005).
b) L’opzione per la sanzione pecuniaria anziché demolitoria
non necessita di motivazione in presenza della domanda (di
sanatoria) formulata in tal senso dall’interessato.
c) Il procedimento attivato con la domanda di concessione è
senz’altro concluso con il perfezionamento del titolo: il
suo ritiro e il pagamento della sanzione da parte
dell’interessato sono soltanto condizioni di efficacia, il
cui avveramento o meno non rientra nella sfera di
disponibilità della P.A. (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
II,
sentenza 17.04.2013 n. 280 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il legislatore del 1999 ha innovato solo per
quanto riguarda lo stato di disoccupazione al momento
dell’assunzione e non per quello della partecipazione e ciò
in quanto tale requisito deve considerarsi sempre il
presupposto necessario” per l’accesso alle riserve di posto
di cui agli artt. 1 e 3 della citata legge.
Altresì, la Consulta ha stabilito che, in base al combinato
disposto degli artt. 7, 8 e 16 della l. n. 68 del 1999, “il
principio, secondo cui le quote di riserva nelle assunzioni
presso le pubbliche amministrazioni postulano
necessariamente lo stato di disoccupazione del soggetto
-costante nella vigenza della legge 02.04.1968, n. 482-
persiste anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 68
del 1999”.
In conclusione il Collegio deve rilevare che dal combinato
disposto degli artt. 7, comma 2, 8, comma 2 e 16, comma 2
della citata l. n. 68 del 1999 discende che il requisito
della disoccupazione, che trova il suo presupposto
nell’iscrizione negli appositi elenchi, deve sussistere al
momento della presentazione della domanda e può non
sussistere al momento dell’assunzione.
L’art. 7, comma 2, della legge 12.03.1999, n. 68, nell’indicare
le modalità delle assunzioni obbligatorie, stabilisce che
per le assunzioni di cui all’art. 36, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 29 del 1993 (sostituito dall’art. 35, comma
1, lettera a), del d.lgs. n. 165 del 2001) gli appartenenti
alle categorie protette -iscritti nell’elenco di cui
all’art. 8, comma 2 della predetta legge in cui possono
essere inseriti esclusivamente quelli che risultano
disoccupati- hanno diritto alla riserva dei posti nei
limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta
per cento dei posti messi a concorso.
Osserva il Collegio che la chiarezza del disposto normativo
non consente di condividere la decisione che il giudice di
prime cure ha dato della normativa vigente, atteso che detto
articolo stabilisce per tabulas che soltanto i soggetti
iscritti nell’elenco di cui all’art. 8, comma 2, della
predetta legge, in quanto disoccupati, hanno titolo alla
riserva dei posti.
A quanto precede deve aggiungersi che l’art. 16, comma 2,
della l. n. 68 del 1999 -che dispone che i lavoratori
disabili “che abbiano conseguito l’idoneità nei concorsi
pubblici possono essere assunti, ai fini dell'adempimento
dell'obbligo di cui all'articolo 3, anche se non versino in
stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi
riservati nel concorso”- non si pone in contrasto con le
sopracitate norme, ma anzi, disciplinando una fattispecie
diversa e cioè quella successiva al conseguimento
dell’idoneità, le completa e le integra prevedendo che ai
fini dell’assunzione il lavoratore disabile possa anche non
trovarsi in stato di disoccupazione e ciò con l’evidente ratio di non penalizzare i soggetti interessati a causa
della durata imprevedibile dell’iter concorsuale.
Tale indirizzo risulta, peraltro, confermato dalla
giurisprudenza, che ha affermato che “il legislatore del
1999 ha innovato solo per quanto riguarda lo stato di
disoccupazione al momento dell’assunzione e non per quello
della partecipazione” e ciò in quanto tale requisito “deve
considerarsi sempre il presupposto necessario” per l’accesso
alle riserve di posto di cui agli artt. 1 e 3 della citata
legge (Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.12.2006, n.
7395; Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.03.2003, n. 1271).
Il medesimo orientamento risulta corroborato anche dalla
decisione della Corte Costituzionale che ha stabilito che,
in base al combinato disposto degli artt. 7, 8 e 16 della l.
n. 68 del 1999, “il principio, secondo cui le quote di
riserva nelle assunzioni presso le pubbliche amministrazioni
postulano necessariamente lo stato di disoccupazione del
soggetto -costante nella vigenza della legge 02.04.1968,
n. 482- persiste anche dopo l’entrata in vigore della legge
n. 68 del 1999” (Corte Costituzionale, 11.05.2006, n.
190).
In conclusione il Collegio deve rilevare che dal combinato
disposto degli artt. 7, comma 2, 8, comma 2 e 16, comma 2
della citata l. n. 68 del 1999 discende che il requisito
della disoccupazione, che trova il suo presupposto
nell’iscrizione negli appositi elenchi, deve sussistere al
momento della presentazione della domanda e può non
sussistere al momento dell’assunzione e che, di conseguenza,
l’interpretazione della vigente normativa effettuata dal Tar
per la Campania nella sentenza in epigrafe impugnata -oltre
a non essere conforme al dettato normativo- risulta anche in
contrasto con la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
e con le statuizioni della Corte Costituzionale (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 1992 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
lamentata omissione della previa notifica dell’atto di
accertamento dell’inottemperanza (dell'ordinanza di
demolizione) produce l'impossibilità di adottare la
successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale
e di disporre tale acquisizione, ciò in quanto, come
previsto al quarto comma dell’art. 31 D.P.R. 380/2001,
“l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3 (novanta giorni
dall’ordinanza di demolizione), previa notifica
all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari”.
Sicché, mancando la notifica al ricorrente dell'atto di
accertamento della inottemperanza, deve ritenersi
illegittimo il provvedimento di acquisizione delle opere
abusive e dell'area di sedime.
Il ricorso è fondato in parte qua.
Il Comune ha eccepito di aver notificato ai sensi dell’art.
140 c.p.c. alla ricorrente il verbale di inottemperanza, ma
non ha comprovato il rispetto degli adempimenti da tale
norma stabiliti (deposito della copia dell'atto nella casa
del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affissione
dell'avviso del deposito, notizia del deposito al
destinatario mediante raccomandata con avviso di
ricevimento) in mancanza dei quali la notifica deve comunque
ritenersi non perfezionatasi.
Infatti, la notificazione eseguita a norma dell'art. 140
c.p.c. non si perfeziona se l'ufficiale giudiziario, a
completamento delle altre formalità, non spedisce la
raccomandata con la quale dà notizia degli estremi dell'atto
(Giurisprudenza assolutamente pacifica; tra le tante
Consiglio di Stato sez. VI, 28.12.2011 n. 6897).
Ciò posto, non rimane che riaffermare l’orientamento (anche)
di questa Sezione (per tutte, sent. n. 1688/2009 del
22/10/2009), secondo il quale la lamentata omissione della
previa notifica dell’atto di accertamento
dell’inottemperanza produce l'impossibilità di adottare la
successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale
e di disporre tale acquisizione, ciò in quanto, come
previsto al quarto comma dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, “l'accertamento
dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine
di cui al comma 3 (novanta giorni dall’ordinanza di
demolizione), previa notifica all'interessato, costituisce
titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari”.
Sicché, mancando la notifica al ricorrente dell'atto di
accertamento della inottemperanza, deve ritenersi
illegittimo il provvedimento di acquisizione delle opere
abusive e dell'area di sedime (in termini, TAR Sicilia Sez.
I di Catania, n. 1688/2009 cit. e Giur. ivi richiam.: TAR
Sicilia Palermo, sez. III, 25.09.2006, n. 1947; TAR Venezia
n. 478 del 30.03.1996; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
28.04.2003, n. 4175) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.04.2013 n. 1053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SEGRETARI COMUNALI: Dopo
la riforma indotta dall’art. 51 della legge n. 127 del 1997,
il meccanismo giuridico che caratterizza i segretari
comunali e provinciali è scisso in una doppia procedura,
ognuna delle quali è indipendente dall’altra: la prima
consiste nella iscrizione all’albo, il che determina la
idoneità dei soggetti a ricoprire la posizione di segretario
comunale o provinciale, a seconda della relativa fascia,
mentre la seconda è affidata alla scelta dei sindaci,
i quali possono richiedere la nomina di uno dei segretari
iscritti all’albo, ma ciò non è un obbligo giuridico, ma
solo una facoltà, mentre, naturalmente, i soggetti iscritti
all’albo non possono pretendere alcunché dai sindaci per il
fatto della loro iscrizione, la quale, si ripete, è solo un
presupposto per la eventuale, successiva richiesta di
nomina.
Osserva invero la Sezione che il ricorrente è un soggetto
che, a seguito del superamento di un pubblico concorso, è
stato inserito all’albo dei segretari comunali e
provinciali, relativamente alla fascia C (comuni fino a
3.000 abitanti) e pertanto lo stesso è un soggetto
potenzialmente idoneo ad essere chiamato, a livello
personale e fiduciario, da qualche sindaco di comuni
ricadenti nel territorio della regione Friuli-Venezia Giulia
ed essere nominato nel rapporto di ufficio di segretario
comunale, ma la sua situazione personale si ferma qui, non
avendo egli titolo ad ingerirsi, per il solo fatto della sua
idoneità potenziale, in attività (nella specie di tipo
organizzatorio) posta in essere dai comuni.
Infatti, come è noto, dopo la riforma indotta dall’art. 51
della legge n. 127 del 1997, il meccanismo giuridico che
caratterizza i segretari comunali e provinciali è scisso in
una doppia procedura, ognuna delle quali è indipendente
dall’altra: la prima consiste nella iscrizione
all’albo, il che determina la idoneità dei soggetti a
ricoprire la posizione di segretario comunale o provinciale,
a seconda della relativa fascia, mentre la seconda è
affidata alla scelta dei sindaci, i quali possono richiedere
la nomina di uno dei segretari iscritti all’albo, ma ciò non
è un obbligo giuridico, ma solo una facoltà, mentre,
naturalmente, i soggetti iscritti all’albo non possono
pretendere alcunché dai sindaci per il fatto della loro
iscrizione, la quale, si ripete, è solo un presupposto per
la eventuale, successiva richiesta di nomina (Consiglio di
Stato, Sez. I,
parere 08.04.2013 n. 1661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: I
provvedimenti concernenti la circolazione stradale sulle
strade comunali sono espressione di funzioni gestionali.
Essi, infatti, non implicano l’esercizio di funzioni di
indirizzo e controllo politico amministrativo ma di gestione
ordinaria. I relativi poteri rientrano, pertanto, nella
sfera di attribuzione dei dirigenti e non del Sindaco,
secondo il criterio generale di cui all’art. 107 T.U.
18.08.2000 n. 267.
Tale previsione, cronologicamente successiva e
specificamente dedicata al riparto di competenze all'interno
delle pubbliche amministrazioni, prevale sul diverso regime
previsto dall'art. 7 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285.
Ritiene il Collegio che i provvedimenti concernenti la
circolazione stradale sulle strade comunali siano
espressione di funzioni gestionali. Essi, infatti, non
implicano l’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo
politico amministrativo ma di gestione ordinaria. I relativi
poteri rientrano, pertanto, nella sfera di attribuzione dei
dirigenti e non del Sindaco, secondo il criterio generale di
cui all’art. 107 T.U. 18.08.2000 n. 267.
Tale previsione, cronologicamente successiva e
specificamente dedicata al riparto di competenze all'interno
delle pubbliche amministrazioni, prevale sul diverso regime
previsto dall'art. 7 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285 (TAR
Sardegna, sez. II, 06.04.2010 n. 661; TAR Lombardia,
Brescia, 28.04.2003 n. 464; Cons. St. sez. II, 01.04.2003 n.
1661) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 29.03.2013 n. 357 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il rapporto di lavoro
alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni (oggi regolato
dal d.lgs. n. 165 del 2001) è disciplinato da una lex
specialis, che deroga, rendendolo inapplicabile, l’art. 2096
c.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base
di detta norma.
In altre parole, mentre nell’impiego privato è pacifico
ritenere che il patto di prova debba essere predisposto in
forma scritta a pena di nullità, con la conseguenza che, in
mancanza di detta formalità lo stesso deve considerarsi
nullo e l’assunzione del lavoratore va considerata
definitiva, nel pubblico impiego il periodo di prova
scaturisce direttamente per effetto ex lege e non per
effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro
dall’autonomia contrattuale.
... per la riforma della sentenza del TAR CALABRIA-SEZ.
STACCATA DI REGGIO CALABRIA n. 00118/2002, resa tra le
parti, concernente concorso interno riservato ai vigili
urbani
...
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Preliminarmente deve osservarsi che il Titolo III del CCNL
in esame (rapporto di lavoro), al Capo I (costituzione del
rapporto di lavoro) specifica nell’art. 14 (contratto
individuale di lavoro) che “Il rapporto di lavoro a tempo
indeterminato o determinato è costituito e regolato da
contratti individuali, secondo le disposizioni di legge,
della normativa comunitaria e del presente contratto. Nel
contratto di lavoro individuale, per il quale è richiesta la
forma scritta, sono comunque indicati: (…) e) durata del
periodo di prova”.
Il successivo art. 14-bis (Periodo di prova) stabilisce che
“Il dipendente assunto in servizio a tempo indeterminato è
soggetto ad un periodo di prova” e che “possono essere
esonerati dal periodo di prova i dipendenti che lo abbiano
già superato nella medesima qualifica e profilo
professionale presso altra amministrazione pubblica”.
Da tali norme si evince che il periodo di prova nelle
Amministrazioni pubbliche è obbligatorio e le assunzioni
sono assoggettate all’esito positivo dello stesso.
Come ha chiarito la giurisprudenza, infatti, il rapporto di
lavoro alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni (oggi
regolato dal d.lgs. n. 165 del 2001) è disciplinato da una
lex specialis, che deroga, rendendolo inapplicabile, l’art.
2096 c.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla
base di detta norma (cfr. Corte di Cassazione, sezione
lavoro, 13.08.2008, n. 21586, nonché Corte
Costituzionale nn. 313-1996, 309-1997, 89-2003 e 199-2003).
In altre parole, mentre nell’impiego privato è pacifico
ritenere che il patto di prova debba essere predisposto in
forma scritta a pena di nullità, con la conseguenza che, in
mancanza di detta formalità lo stesso deve considerarsi
nullo e l’assunzione del lavoratore va considerata
definitiva, nel pubblico impiego il periodo di prova
scaturisce direttamente per effetto ex lege e non per
effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro
dall’autonomia contrattuale.
Nel caso di specie, l’esito completamente e radicalmente
negativo del periodo di prova è stato ampiamente e
motivatamente dimostrato dall’Amministrazione, potendosi
così prescindere da ogni questione del tutto formale circa
la complessiva valutazione del servizio prestato, vista
l’entità e il contenuto di tale giudizio negativo che
indubbiamente esprimono un mancato superamento della prova,
a prescindere dal fatto che lo stesso fosse o meno compiuto
e che la valutazione avesse riguardo al servizio
effettivamente prestato a titolo di prova, trattandosi di un
giudizio di idoneità dell’appellante a rivestire il ruolo
per il quale avrebbe dovuto essere assunto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1821 - link a
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URBANISTICA: Il
bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985,
descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva,
non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto
della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela
dell’interesse all’effettività del controllo del territorio
da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi
comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento
lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi
di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono
elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi
oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione
un’area non urbanizzata.
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del
presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è
sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un
terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la
necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti, giustificandosi l’adozione del provvedimento
repressivo anche a fronte della dimostrazione della
sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci
sopraddetti.
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia
il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto
sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla
realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento
contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può
concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della
lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non
equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla
natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo
edificatorio.
Rileva in proposito la Sezione che, secondo la condivisibile
giurisprudenza formatasi in materia, il bene giuridico
protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le
caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o
solo la tutela dell’interesse al rispetto della
pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela
dell’interesse all’effettività del controllo del territorio
da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi
comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento
lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi
di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono
elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi
oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione
un’area non urbanizzata (Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n.
1157).
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del
presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è
sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un
terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la
necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V, 20.10.2004, n.
6810), giustificandosi l’adozione del provvedimento
repressivo anche a fronte della dimostrazione della
sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci
sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004, n.
3136).
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia
il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto
sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla
realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento
contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può
concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della
lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non
equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla
natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo
edificatorio (Consiglio Stato, Sezione IV, 11.09.2006, n.
6060) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1809 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: Lo
scopo precipuo della fascia di rispetto di dieci metri,
prevista dal RD 523/1904, è quello di assicurare il libero
deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi,
canali e scolatoi; in altri termini deve essere garantito,
attraverso la fascia suindicata, il regolare deflusso
idraulico.
Ai fini della soluzione del problema, ritiene il
Collegio di dovere prendere le mosse dalla “ratio” dell’art.
96 citato, per verificarne la corretta applicazione nel caso
di specie, alla luce dell’accurata analisi tecnica svolta
dal CTU.
Lo scopo precipuo della fascia di rispetto di dieci metri,
prevista dalla norma 523/1904, è quello di assicurare il
libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti,
rivi, canali e scolatoi; in altri termini deve essere
garantito, attraverso la fascia suindicata, il regolare
deflusso idraulico (cfr., fra le tante, TAR Toscana, sez. III, 26.04.2012, n. 842).
Ciò premesso, risulta -senza smentita alcuna- dalla
relazione del CTU (cfr. soprattutto il punto 6 della
relazione stessa) che:
- il corso d’acqua di cui è causa –vale a dire il torrente
Ripiantino– scorre in una stretta gola, collocata al fondo
di una scarpata avente un forte dislivello (circa 9 metri),
rispetto all’edificio del sig. Rambelli;
- la sponda del torrente è rocciosa e quindi di sicura
stabilità, almeno per quanto concerne la misurazione
metrica;
- a monte della proprietà del sig. Rambelli, il torrente è
intubato (scorre cioè al coperto in un tubo artificiale),
per cui l’eventuale portata di piena non è dissimile a
quella che appare in condizioni ordinarie.
La misurazione della “distanza” di cui all’art. 96 citato,
effettuata con il sistema tridimensionale, non porta certo a
risultati in contrasto con la finalità già ricordata
dell’art. 96, in quanto le particolari caratteristiche della
zona ove insiste l’abitazione del sig. Rambelli escludono,
in base alla relazione del CTU, pericoli o ostacoli del
regolare deflusso delle acque.
L’interpretazione dell’art. 96, propugnata dal Comune di
Saltrio nella presente fattispecie, risulta quindi erronea,
dovendosi preferire il calcolo della distanza minima di
legge attraverso un sistema tridimensionale, che consente di
affermare il rispetto della distanza stessa da parte della
costruzione del sig. Rambelli.
La soluzione interpretativa accolta dallo scrivente
Tribunale garantisce da una parte il pieno rispetto
dell’art. 96, in conformità alla finalità della norma e
dall’altra salvaguarda anche l’interesse del privato, nel
complessivo rispetto del principio di proporzionalità
dell’azione amministrativa, di diretta derivazione
comunitaria, da osservarsi soprattutto nel caso di specie,
in cui la Pubblica Amministrazione si è avvalsa del proprio
potere di autotutela (sul necessario rapporto fra principio
comunitario di proporzionalità ed autotutela amministrativa,
si veda TAR Toscana, sez. II, 08.01.2010, n. 8).
Il provvedimento impugnato si fonda quindi su un erroneo
presupposto di fatto, vale a dire la violazione –in realtà
insussistente– dell’art. 96 citato per effetto del rilascio
del permesso di costruire n. 10/2008.
L’Amministrazione di Saltrio è quindi incorsa in un eccesso
di potere per travisamento dei presupposti di fatto e
difetto di istruttoria, oltre che nella violazione dell’art.
96 sopra menzionato, dal che consegue l’accoglimento del
motivo di ricorso indicato con il numero I^
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
Il destinatario di un ordine di demolizione di un manufatto
abusivo (ovvero il suo avente causa) non è titolare di un
affidamento meritevole di tutela, quando siano stati
realizzati abusi edilizi, né ci si può dolere del ritardo
con cui l’amministrazione ha esercitato il suo potere, così
avvantaggiando chi ha l’obbligo di rimuovere gli abusi.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel
considerare che l’esercizio del potere repressivo degli
abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto (tra gli altri Cons. Stato, IV,
04.02.2013, n. 666; IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; IV,
20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129).
Neppure è fondata la censura secondo cui sarebbe occorsa una
specifica motivazione a tutela dell’affidamento che sarebbe
sorto, in ragione del notevolissimo decorso del tempo,
rispetto alla data dell’abuso.
Infatti, il destinatario di un ordine di demolizione di un
manufatto abusivo (ovvero il suo avente causa) non è
titolare di un affidamento meritevole di tutela, quando
siano stati realizzati abusi edilizi, né ci si può dolere
del ritardo con cui l’amministrazione ha esercitato il suo
potere, così avvantaggiando chi ha l’obbligo di rimuovere
gli abusi (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.03.2013 n. 1682 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Qualora
la p.a., sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla
base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare
la volizione espressa in un precedente provvedimento, quello
successivo ha valore di atto di conferma, e non di atto
meramente confermativo, con la conseguenza che deve essere
dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di
interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che,
in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal
provvedimento di conferma innovativo e dotato di autonoma
efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario,
come tale idoneo a rendere priva di ogni utilità la
pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente
provvedimento.
Si ha atto meramente confermativo (c.d. conferma impropria),
invece, allorché l’amministrazione, di fronte ad un’istanza
di riesame, si limiti a dichiarare l’esistenza di un suo
precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione, e dunque senza
riaprire i termini per l’impugnazione.
Con la conferma la p.a. entra, diversamente dall’atto
meramente confermativo, nel merito di una nuova istanza e,
dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi prospettati dal
richiedente, si esprima in senso negativo con provvedimento
autonomamente impugnabile.
Al riguardo la costante giurisprudenza di questo Consiglio,
dalla quale non vi è motivo di discostarsi nel caso di
specie, insegna che qualora la p.a., sulla scorta di una
rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione,
dimostri di voler confermare la volizione espressa in un
precedente provvedimento, quello successivo ha valore di
atto di conferma, e non di atto meramente confermativo, con
la conseguenza che deve essere dichiarato improcedibile, per
sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto
avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia
stato sostituito dal provvedimento di conferma innovativo e
dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica
del suo destinatario, come tale idoneo a rendere priva di
ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il
precedente provvedimento (Cons. St., sez. V, 25.08.2011, n.
4807).
Si ha atto meramente confermativo (c.d. conferma impropria),
invece, allorché l’amministrazione, di fronte ad un’istanza
di riesame, si limiti a dichiarare l’esistenza di un suo
precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione, e dunque senza
riaprire i termini per l’impugnazione.
Con la conferma la p.a. entra, diversamente dall’atto
meramente confermativo, nel merito di una nuova istanza e,
dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi prospettati dal
richiedente, si esprima in senso negativo con provvedimento
autonomamente impugnabile (Cons. St., sez. VI, 11.05.2007,
n. 2315) (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.03.2013 n. 1655 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
base di una interpretazione funzionale dell’art. 41-sexies
L. n. 1150/1942, sussiste la necessità della dotazione di
parcheggi privati anche per interventi di ristrutturazione
che importino cambio di destinazione con conseguente aumento
del carico urbanistico.
Comunque, il vincolo di pertinenza inseparabile tra
parcheggio e appartamento è venuto meno in virtù dell’art.
12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246.
Fondata è anche la censura relativa all’imposizione di un
vincolo di “pertinenzialità” tra unità immobiliari e
posti auto da reperire.
Ferma restando infatti, sulla base di una interpretazione
funzionale dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942, la necessità
della dotazione (nella misura indicata dalla disciplina
impugnata, non fatta oggetto di censura sul punto) di
parcheggi privati anche per interventi di ristrutturazione
che importino –come nel caso di specie- cambio di
destinazione con conseguente aumento del carico urbanistico
(cfr. TAR Lazio, II, 07.11.2011, n. 8535; TAR Liguria, I,
14.04.2011, n. 592), il vincolo di pertinenza inseparabile
tra parcheggio e appartamento è in effetti venuto meno in
virtù dell’art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 25.03.2013 n. 525 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: Non
può affermarsi che i terrapieni trattenuti dai muri in
questione abbiano prodotto un dislivello oppure abbiano
aumentato il dislivello già esistente per la natura dei
luoghi, presupposto che deve invece sussistere perché i muri
possano qualificarsi quali costruzioni.
Esclusa la natura di costruzioni delle opere realizzate ed
attesa la funzione svolta, di sostenere il terreno al fine
evitare movimenti franosi, esse non sono computabili ai fini
delle distanze e non violano la destinazione impressa dal
p.r.g. all’area in questione, né sono, tantomeno, soggette
alle disposizioni che regolano le recinzioni.
Con il primo ed il
secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la
violazione dell'art. 34 delle n.t.a. in relazione all'art.
1, l. n. 10/1977, essendo i terreni inseriti in zona F1 ed
inedificabili ed in quanto la norma tecnica di attuazione
consentirebbe la realizzazione di recinzioni e non di
terrazzamenti con relativi muri di sostegno.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 5 delle n.t.a., la quale prescrive la distanza
minima delle costruzioni di cinque metri dal confine: a suo
avviso, i muri in questione ed i retrostanti terrapieni, che
sarebbero stati realizzati artificialmente, sarebbero delle
costruzioni, tenute al rispetto delle distanze legali.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché
strettamente connessi sul piano logico e giuridico, sono
privi di fondamento.
Il Collegio è dell’avviso che l’attività istruttoria
compiuta nel corso del giudizio civile che si è svolto tra
le medesime parti -e che si è concluso con la sentenza del
Tribunale di Milano n. 607/2007 del 17.04.2007, parzialmente
riformata dalla Corte d’Appello di Milano con la sentenza n.
500/12 del 09.02.2012- sia esaustiva e che possa,
pertanto, disattendersi ogni richiesta di consulenza tecnica
d’ufficio avanzata dal ricorrente.
La consulenza tecnica d’ufficio disposta dalla Corte
d’Appello di Milano –al fine di ottenere chiarimenti in
merito alle conclusioni espresse dalla consulenza tecnica
depositata nel giudizio di primo grado- ha accertato la
funzione di contenimento dei muri e la loro necessità al
fine di evitare “il denudamento, il franamento e/o lo
scivolamento della terra naturale”.
Queste valutazioni sono state recepite nella sentenza della
Corte d’Appello n. 500/2012 del 09.02.2012, che ha
escluso la natura di "costruzioni", agli effetti della
disciplina di cui all'art. 873 c.c., dei muri e dei
terrazzamenti realizzati dai sig.ri Luigi Pietroboni e
Silvio Pietroboni e quindi la violazione della distanza dal
confine, quale prescritta dallo strumento urbanistico
vigente.
Il Collegio condivide le conclusioni cui è giunta la Corte
d’Appello, ritenendo che -alla luce di quanto accertato
dalle consulenze tecniche rese nel corso del giudizio civile- non possa affermarsi che i terrapieni trattenuti dai muri
in questione abbiano prodotto un dislivello oppure abbiano
aumentato il dislivello già esistente per la natura dei
luoghi, presupposto che deve invece sussistere perché i muri
possano qualificarsi quali costruzioni (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 24.04.2009, n. 2579).
Né assume rilievo, ai fini della qualificazione
dell’intervento, la circostanza che l’amministrazione abbia
rilasciato un permesso di costruire in sanatoria: il
rilascio di un permesso di costruire è previsto all’art. 10
d.P.R. n. 380/2001 anche per la realizzazione di interventi
diversi dalle nuove costruzioni e, comunque, non incide
sulla qualificazione delle opere con esso assentite.
Esclusa la natura di costruzioni delle opere realizzate ed
attesa la funzione svolta, di sostenere il terreno al fine
evitare movimenti franosi, esse non sono computabili ai fini
delle distanze e non violano la destinazione impressa dal
p.r.g. all’area in questione, né sono, tantomeno, soggette
alle disposizioni che regolano le recinzioni.
Non sussiste quindi la violazione degli artt. 5 e 34 delle
n.t.a.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.03.2013 n. 645 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Quando
è proposta una domanda volta ad ottenere il rilascio di un
titolo edilizio, il vicino del richiedente può intervenire
nel corso del relativo procedimento e può impugnare il
provvedimento che accolga l'istanza, ma non ha titolo a
ricevere l'avviso dell'avvio del procedimento in quanto ciò
comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese
violazione dei principi di economicità ed efficacia
dell'attività amministrativa.
Per giurisprudenza costante, invero, quando è proposta una
domanda volta ad ottenere il rilascio di un titolo edilizio,
il vicino del richiedente può intervenire nel corso del
relativo procedimento e può impugnare il provvedimento che
accolga l'istanza, ma non ha titolo a ricevere l'avviso
dell'avvio del procedimento in quanto ciò comporterebbe un
aggravio del procedimento, in palese violazione dei principi
di economicità ed efficacia dell'attività amministrativa
(Cons. Stato, sez. VI, 15.09.1999, n. 1197; 14.03.2002, n. 1533; 18.04.2005, n. 1773; Tar Liguria, 10.07.2009,
n. 1736)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.03.2013 n. 645 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A
fronte dell’esercizio di un potere vincolato, quale è quello
di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, il
provvedimento finale non necessita di altra motivazione che
non sia quella della rispondenza dell'opera ai presupposti
previsti dalla legge, senza che possa onerarsi
l’amministrazione di confutare le osservazioni presentate da
un vicino.
Parimenti, il provvedimento non è viziato per difetto di
motivazione per non avere la p.a. replicato alle
osservazioni formulate nella nota presentata dal ricorrente
del 20.02.2002 e nell’allegata relazione redatta dal
dott. Landi.
A fronte dell’esercizio di un potere vincolato, quale è
quello di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria,
il provvedimento finale non necessita di altra motivazione
che non sia quella della rispondenza dell'opera ai
presupposti previsti dalla legge, senza che possa onerarsi
l’amministrazione di confutare le osservazioni presentate da
un vicino
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.03.2013 n. 645 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per ravvisare la presenza
di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno
intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e
paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover
accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente
accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi
svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli
di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola
giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi
siano”.
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere
accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la
libera attività di preghiera sia non riservato ai membri
dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire.
... per l'annullamento del provvedimento 97149/12 P.G.
adottato in data 07.11.2012 dal Responsabile del
Settore “Sportello Unico dell’Edilizia” del Comune di
Brescia attraverso il quale è stato ordinato
all’Associazione Culturale Al-Noor Brescia – Italia di
ripristinare la destinazione d’uso autorizzata “commerciale”
nell’unità immobiliare sita in via F.lli Bonardi n. 9, piano
terra, individuabile al NCT fg. 26, part. 132 sub. 12, con
l’avvertimento che “per poter utilizzare in futuro i locali
a Centro Culturale e/o a sede associativa e centro di culto,
dovrà essere richiesto ed ottenuto il necessario permesso di
costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12, così come previsto dalle norme regionali
sopradescritte, ed una nuova certificazione di agibilità”,
nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente.
...
Il ricorso risulta fondato.
L’Amministrazione comunale, una volta preso conoscenza
dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Associazione
islamica qui ricorrente, è pervenuta dunque alla conclusione
che l’utilizzo dei locali richiederebbe, anche in assenza di
lavori, il rilascio del permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita
dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n.
6415 del 23.9.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art.
74 c.p.a.
(Per comodità del lettore si riporta il punto centrale della
sentenza: <<di per sé le opere oggetto dell’istanza non
rivelano, in alcun modo, la volontà dell’associazione
ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad
“attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai
sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005,
piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per
effetto di tali interventi, quale immobile destinato al
culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale
di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui
all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n.
12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili
adibiti ad attività educative, culturali, sociali,
ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le
attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e
similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali
attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero
pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino
di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso,
l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti
igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in
alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di
esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio
del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non
rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione
“Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il
Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa”
assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e
dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile
la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione
d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che
l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed
assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il
fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti
ad una comunità appartenente ad una determinata confessione
religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di
promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società,
non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui
essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad
attività connesse all’esercizio del ministero pastorale,
come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n.
12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in
passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di
culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di
modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di
adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa
rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per
servizi religiosi”- deve, invero, trovare una
corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere
realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che
possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più
quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno
ad una destinazione di tipo religioso.>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza
cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti
ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento,
vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del
resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non
pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo
rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata
su un presupposto diverso, che ben può essere quello che
storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza
non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del
provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che
il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede
dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad
altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a
moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di
una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai
sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005,
nella specie mancante. In tal senso, deve allora osservarsi
che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di
un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di
specie l’uso difforme non può essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera.
Infatti,
come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il
parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011
dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza
di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può
essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera sia non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire;>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'analisi
dell'anomalia dell'offerta va compiuta in un'ottica di
generale valutazione in ordine alla “congruità complessiva
dei costi” in relazione al servizio globalmente offerto.
Non dunque una analisi puntuale delle singole voci va
compiuto, ma una verifica della “capienza” del corrispettivo
proposto in relazione ai servizi/opere che si intendono
rendere.
Invero, "il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una
motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in
senso negativo; mentre, in caso positivo, non occorre che la
relativa determinazione sia fondata su un'articolata
motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni
ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una
motivazione espressa per relationem alle giustificazioni
rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro
volta, siano state congrue ed adeguate".
"Il giudizio di verifica della congruità di un'offerta
apparentemente anomala ha natura globale e sintetica sulla
serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, restando
irrilevanti eventuali singole voci di scostamento; tale
verifica non ha dunque per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero
finalizzato ad accertare se l'offerta sia attendibile nel
suo complesso e, dunque, se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell'appalto, sicché ciò che
rileva è che l'offerta rimanga nel complesso <seria>".
Questo significa che, in sede di ricorso, colui che detiene
il contrapposto interesse deve essere in grado di dimostrare
la sussistenza di “voci di costo”, con un margine tale da
rendere sostanzialmente "incapiente” il corrispettivo
proposto dall’aggiudicataria.
L'analisi dell'anomalia dell'offerta va compiuta in
un'ottica di generale valutazione in ordine alla “congruità
complessiva dei costi” in relazione al servizio globalmente
offerto.
Non dunque una analisi puntuale delle singole voci va
compiuto, ma una verifica della “capienza” del corrispettivo
proposto in relazione ai servizi/opere che si intendono
rendere.
Secondo la giurisprudenza, infatti, "Il giudizio di anomalia
dell'offerta richiede una motivazione rigorosa ed analitica
solo ove si concluda in senso negativo; mentre, in caso
positivo, non occorre che la relativa determinazione sia
fondata su un'articolata motivazione ripetitiva delle
medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo
sufficiente anche una motivazione espressa per relationem
alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre
che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate"
(Consiglio di Stato sez. V 10.09.2012 n. 4785).
"Il giudizio di verifica della congruità di un'offerta
apparentemente anomala ha natura globale e sintetica sulla
serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, restando
irrilevanti eventuali singole voci di scostamento; tale
verifica non ha dunque per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero
finalizzato ad accertare se l'offerta sia attendibile nel
suo complesso e, dunque, se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell'appalto, sicché ciò che
rileva è che l'offerta rimanga nel complesso <seria>"
(Consiglio di Stato sez. VI 07.09.2012 n. 4744).
Questo significa che, in sede di ricorso, colui che detiene
il contrapposto interesse deve essere in grado di dimostrare
la sussistenza di “voci di costo”, con un margine tale da
rendere sostanzialmente "incapiente” il corrispettivo
proposto dall’aggiudicataria (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 28.02.2013 n. 1894 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
giurisprudenza ha rilevato come l’obbligo di pubblicazione
dei bandi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana
costituisca regola generale, vincolante in assenza di
previsioni diverse e derogatorie, rivolta come è a garantire
la conoscibilità dell’esistenza di un concorso pubblico a
tutti i cittadini –indipendentemente dalla loro residenza
sul territorio dello Stato–, in perfetta armonia con i
principi costituzionali sull’accesso agli impieghi pubblici.
Si è altresì escluso che detta previsione sia in contrasto
con l’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001
(“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni si conformano ai seguenti princìpi: a)
adeguata pubblicità della selezione e modalità di
svolgimento che …”), in quanto la norma primaria
sopravvenuta nulla specifica in ordine alla pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale, sicché le disposizioni di dettaglio
contenute nella fonte regolamentare servono a completare la
prima costituendone coerente e conforme attuazione, anche in
relazione agli enti locali territoriali.
Neppure una preclusione alla perdurante operatività
dell’obbligo di pubblicazione di bandi e/o avvisi di
concorso in Gazzetta Ufficiale deriva dalla nuova disciplina
di cui all’art. 32, comma 1 (“A far data dal 01.01.2010, gli
obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si
intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti
informatici da parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati”) e comma 5 (“A decorrere dal 01.01.2011
e, nei casi di cui al comma 2, dal 01.01.2013, le
pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto
di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le
amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di
effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore
diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio”), della legge n. 69 del 2009, essendo stato
precisato che l’ultimo comma del medesimo art. 32 (“È fatta
salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione
europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana
e i relativi effetti giuridici …”) sottrae all’applicazione
delle restanti disposizioni gli effetti giuridici regolati
dalla normativa vigente in tema di pubblicità dei
procedimenti concorsuali a mezzo inserzione in Gazzetta
Ufficiale.
- Ritenuto che, ai sensi dell’art. 4
del d.P.R. n. 487 del 1994 («Regolamento recante norme
sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e
le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici
e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi»),
le “domande di ammissione al concorso, redatte in carta
semplice, devono essere indirizzate e presentate
direttamente o a mezzo di raccomandata con avviso di
ricevimento … entro il termine perentorio di giorni trenta
dalla data di pubblicazione del bando nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica” (comma 1) e che per “gli enti
locali territoriali la pubblicazione del bando nella
Gazzetta Ufficiale di cui al comma 1 può essere sostituita
dalla pubblicazione di un avviso di concorso contenente gli
estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine
per la presentazione delle domande” (comma 1-bis);
-
che la giurisprudenza ha rilevato come l’obbligo di
pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana costituisca regola generale, vincolante
in assenza di previsioni diverse e derogatorie, rivolta come
è a garantire la conoscibilità dell’esistenza di un concorso
pubblico a tutti i cittadini –indipendentemente dalla loro
residenza sul territorio dello Stato–, in perfetta armonia
con i principi costituzionali sull’accesso agli impieghi
pubblici (v., tra le altre, TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 28.01.2009 n. 105);
-
che si è altresì escluso che detta previsione sia in
contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n.
165 del 2001 (“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni si conformano ai seguenti princìpi: a)
adeguata pubblicità della selezione e modalità di
svolgimento che …”), in quanto la norma primaria
sopravvenuta nulla specifica in ordine alla pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale, sicché le disposizioni di dettaglio
contenute nella fonte regolamentare servono a completare la
prima costituendone coerente e conforme attuazione, anche in
relazione agli enti locali territoriali (v. Cons. Stato,
Sez. V, 16.02.2010 n. 871);
-
che neppure una preclusione alla perdurante operatività
dell’obbligo di pubblicazione di bandi e/o avvisi di
concorso in Gazzetta Ufficiale deriva dalla nuova disciplina
di cui all’art. 32, comma 1 (“A far data dal 01.01.2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si
intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti
informatici da parte delle amministrazioni e degli enti
pubblici obbligati”) e comma 5 (“A decorrere dal 01.01.2011 e, nei casi di cui al comma 2, dal
01.01.2013, le
pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto
di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le
amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di
effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore
diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio”), della legge n. 69 del 2009, essendo stato
precisato che l’ultimo comma del medesimo art. 32 (“È fatta
salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione
europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana
e i relativi effetti giuridici …”) sottrae all’applicazione
delle restanti disposizioni gli effetti giuridici regolati
dalla normativa vigente in tema di pubblicità dei
procedimenti concorsuali a mezzo inserzione in Gazzetta
Ufficiale (v. TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 08.06.2012
n. 1474);
-
che quanto, infine, alla disciplina contenuta nel
Regolamento comunale sull’ordinamento generale degli uffici
e servizi, non vi si individuano ragioni ostative
all’obbligo di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, posto
che, nel regolare la selezione del personale, l’art. 69 del
regolamento prevede che il “bando deve … essere affisso
all’Albo Pretorio del Comune” (comma 5) e che ad “ogni bando
… deve essere data adeguata pubblicità in relazione alla
natura della procedura selettiva indetta” (comma 6),
disposizioni che non contraddicono le previsioni statali,
per essere quella all’Albo pretorio una necessaria
integrazione a fronte della facoltà di pubblicare in
Gazzetta Ufficiale solo un estratto del bando, e per essere
quella sull’«adeguata pubblicità» una prescrizione
ripetitiva del disposto dell’art. 35, comma 3, lett. a), del
d.lgs. n. 165 del 2001, che si è già visto essere non
incompatibile con la disciplina di cui all’art. 4 del d.P.R.
n. 487 del 1994;
-
che indebitamente, allora, il Comune di Bologna ha nella
circostanza omesso di pubblicare –neanche per estratto– il
bando di concorso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana, essendosi limitato alla pubblicità sull’Albo
pretorio on-line e sul proprio sito web, con l’effetto di
legittimare la ricorrente all’impugnativa degli atti del
concorso cui non ha potuto partecipare e che ha però titolo
a censurare anche se non ha presentato una sia pur tardiva
domanda di ammissione (v. Cons. Stato, Sez. V, n. 871/2010
cit.)
(TAR Emilia Romagna–Bologna, Sez. I,
sentenza 22.02.2013 n. 145 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il semplice scarico e spianamento su un terreno di una certa
quantità di detriti non integra l’ipotesi di trasformazione
della destinazione a zona agricola dello stesso, né quella
di occupazione di suolo mediante deposito di materiali di
cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9 per le quali sia
necessaria specifica autorizzazione dell’autorità comunale,
concretando piuttosto un’ipotesi di mera utilizzazione che
il proprietario ritenga fare del proprio terreno, per la
quale è esclusa la necessità di un titolo concessorio.
Il provvedimento impugnato non specifica e non dà modo di
comprendere per quali ragioni, e sotto quali profili, il
deposito di materiale di risulta sull’area di proprietà
della società ricorrente sia stato ritenuto “difforme”
dalle denunce di inizio attività presentate
dall’interessata.
Il richiamo, fatto nel preambolo dell’atto impugnato, al
contenuto della relazione istruttoria dell’ufficio tecnico
comunale non è conferente sotto tale profilo, dal momento
che detta relazione si era limitata a riferire
dell’esistenza di difformità “del muro di cinta”
rispetto al progetto allegato alla DIA, non del deposito del
materiale di risulta, al quale l’ufficio tecnico aveva
accennato solo come elemento sintomatico, unitamente alla
realizzazione delle opere di recinzione, dell’esistenza in
atto di una lottizzazione abusiva del terreno.
Soprattutto, e più in generale, il semplice scarico e
spianamento su un terreno di una certa quantità di detriti
non integra l’ipotesi di trasformazione della destinazione a
zona agricola dello stesso, né quella di occupazione di
suolo mediante deposito di materiali di cui all’art. 7 d.l.
23.01.1982 n. 9 per le quali sia necessaria specifica
autorizzazione dell’autorità comunale (Cons. St. Ad Plen.
05.12.1984, n. 22), concretando piuttosto un’ipotesi di mera
utilizzazione che il proprietario ritenga fare del proprio
terreno, per la quale è esclusa la necessità di un titolo
concessorio (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 08.02.2013 n. 184 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art.
9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta
non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al
proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui
di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da
quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la
nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una
quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in
sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso
che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di
norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
---------------
In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre
non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di
finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti
dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la
consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali
indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie
che, comunque progettate in relazione alla situazione dei
luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più
confacente dal committente, hanno una struttura che deve
essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad
assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che
non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il
terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo
edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed
autonomia, in una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di
rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal
confine privato.
---------------
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di
origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici
in funzione integrativa della disciplina privatistica, la
nozione di costruzione non si identifica con quella di
edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non
rileva il materiale utilizzato per la fabbrica,
richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera,
comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro
od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non
transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della
Corte di legittimità secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle
distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza.
Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è
stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art.
907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da
ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in
quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è
stata realizzata, determini un ostacolo del genere”.
---------------
Laddove si afferma il carattere inderogabile della
prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968
(distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti
finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e
regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone
l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi
in cui una sola delle due pareti frontistanti sia
finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla
norma è quello della salubrità dell'edificato, da non
confondersi con l'interesse privato del frontista a
mantenere la riservatezza o la prospettiva.
E' illegittimo il permesso di costruire rilasciato per
l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze
minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili
da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze
tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9,
comma 2, essendo stato emanato su delega della legge
17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge
urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art.
17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne
consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina
in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale
preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi
risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art.
323 c.p..
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444,
relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
In tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle
sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti
urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché
contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9
del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la
distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di
applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime,
quelle dello stesso strumento urbanistico, nella
formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della
regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale.
La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure
ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi)
non comporta certo che si possa omettere di rispettare la
successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra
edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad
essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince
dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove
ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato
interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione
della disposizione, siccome collidente con la disciplina
nazionale inderogabile (ex multis: “in tema di distanze tra
edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2,
D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela
del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia
d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi
tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario
dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire
il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza
alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova
costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota
inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza
dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art.
907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di
formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M.
02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria,
sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle
norme tecniche di attuazione.” -TAR Puglia-Lecce Sez. III,
28.09.2012, n. 1624-).
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In ultimo,
rammenta il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato,
“in tema di distanze legali tra edifici o dal confine,
mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme
del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
di finitura od accessoria di limitata entità, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili,
invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni,
le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi
avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a
volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi
per le opere di contenimento, quali indubbiamente si
configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque
progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla
soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal
committente, hanno una struttura che deve essere idonea per
consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla
funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella
di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la
proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine
di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da
dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come
opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una
accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei
fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici
costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in
particolare, delle distanze dal confine privato.” (Consiglio
Stato , sez. IV, 30.06.2005, n. 3539)
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di
legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato
che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze
legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti
urbanistici in funzione integrativa della disciplina
privatistica, la nozione di costruzione non si identifica
con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto
non completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera.” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011,
n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto
condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto
presente che ai fini del rispetto delle distanze fra
costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la
fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera,
comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro
od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non
transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della
Corte di legittimità secondo il quale
“costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del
c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per
struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e
permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era
coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere,
ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)”
(Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva
del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di
Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare
l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con
carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione
è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma
di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal
materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo
del genere. (nella specie, il giudice del merito aveva
ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una
veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla
finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in
opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di
fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a
tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato
principio di diritto, ha confermato tale decisione).”
(Cassazione civile , sez. II, 21.10.1980, n. 5652).
---------------
E’ appena il
caso di rammentare, conclusivamente, che in ordine alla
illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza
minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto
ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla cogenza
ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla
doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa
venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde.
Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il
carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10
relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli
strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte
comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina
anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico
presidiato dalla norma è quello della salubrità
dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato
del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva”
(Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di
legittimità penale ha affermato di recente che “è
illegittimo il permesso di costruire rilasciato per
l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze
minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili
da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze
tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9,
comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge
urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765,
art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne
consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina
in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale
preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi
risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art.
323 c.p." (Cass. pen. Sez. III, 12.01.2012, n. 10431 -rv.
252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il
principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti
è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed
inderogabile” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato
in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di
conseguenza applicativa del principio, il condivisibile
principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni,
applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte
dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni
illegittime perché contrastanti con la norma di superiore
livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che
fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta
l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento
urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel
decreto ministeriale” (Cons. Stato Sez. IV, 27-10-2011, n.
5759) (Cons. Stato Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 354 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha
ritenuto ammissibile l’apposizione di condizioni al rilascio
di un titolo edilizio <<soltanto quando si vada ad incidere
su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento
costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che
strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto
in una norma di legge o regolamento>>.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è
volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti
provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non
vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità
amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà
dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti
normative, in assenza di discrezionalità nel quid”.
Come già evidenziato da questo Tar in sede cautelare, in
specie (v. l’ordinanza n. 1195 del 2001 e quella, per
l’esecuzione della prima, n. 1424 dello stesso anno), le
condizioni prescritte dalla Commissione Edilizia -e
richiamate dall’Ufficio Tecnico- per il rilascio del titolo
richiesto dalla sig.ra Silibello, anche per come esplicitate
con il provvedimento di conferma del 03.09.2001, erano
sicuramente illegittime, atteso che:
- la condizione sub a), <<che il muro non superi i 30 cm.
di altezza dal piano campagna per tutta la sua estensione>>,
era priva di fondamento normativo, non trovando
giustificazione neppure nella disciplina edilizia comunale
e, in specie, nel R.E.C. vigente;
- la condizione sub b), <<che prima del rilascio
dell’autorizzazione sia sottoscritto un atto di
sottomissione in cui il titolare rinuncia al pagamento del
valore delle opere autorizzate al momento della concreta
attuazione da parte dell’A.C. del Comparto di “167”
denominato Ces1 […]>>, era del tutto estranea al
fisiologico esplicitarsi delle potestà pubbliche in campo
urbanistico ed edilizio.
In termini generali, d’altronde, e con riguardo a entrambi i
richiamati profili, va posto in rilievo come la
giurisprudenza abbia ritenuto ammissibile l’apposizione di
condizioni al rilascio di un titolo edilizio <<soltanto
quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento>>
[fondamento assente, per quanto prima scritto, nel caso di
specie].
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non
è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”
(Tar Abruzzo Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti -come nel caso di specie- di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid” (Tar Abruzzo Pescara,
08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta
contrasta anche con il principio di rango costituzionale
-ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza
29.03.2006, caso Scordino contro Italia]- che subordina
necessariamente l’espropriazione alla corresponsione di un
indennizzo (art. 42, terzo comma, Cost.)>> (Tar Lombardia
Milano, IV, 10.09.2010, n. 5655) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.09.2012 n. 1623 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio
di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa
soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è
volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti
provvedimenti.
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid”.
---------------
La specifica condizione apposta al rilascio della richiesta
concessione edilizia (e cioè la
consegna da parte degli odierni ricorrenti di una
“dichiarazione di non indennizzabilità delle opere
realizzate in caso di eventuale esproprio”)
contrasta anche con il principio di rango costituzionale che
subordina necessariamente l’espropriazione alla
corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma,
Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto
indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione
della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in
misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve
rappresentare un serio ristoro, espressione di un
ragionevole legame con il valore venale, come prescritto
dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo”.
... per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia:
- della condizione apposta al provvedimento 11.08.1999, prot.
n. 5547 del responsabile del Servizio tecnico del Comune di
Abbadia Lariana avente ad oggetto “l’avviso di emanazione
dei provvedimenti di concessione edilizia” per la “realizzazione
di area a parcheggio sull’area al mapp. 3487 in Comune
Censuario di Abbadia Lariana”, nella parte in cui il
rilascio della concessione edilizia è stato subordinato alla
consegna da parte degli odierni ricorrenti di una “dichiarazione
di non indennizzabilità delle opere realizzate in caso di
eventuale esproprio”.
...
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un
titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto
quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non
è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”
(TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara,
08.02.2007, n. 153).
Infine, va evidenziato che la specifica condizione apposta
contrasta anche con il principio di rango costituzionale
–ribadito anche a livello sovranazionale dalla Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo [Grande Camera, Strasburgo, sentenza
29.03.2006, caso Scordino contro Italia (n.1)]– che
subordina necessariamente l’espropriazione alla
corresponsione di un indennizzo (art. 42, terzo comma,
Cost.): difatti, pur non essendo necessario che il predetto
indennizzo “debba consistere nell’integrale riparazione
della perdita subita, non può essere fissato, nondimeno, in
misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve
rappresentare un serio ristoro, espressione di un
ragionevole legame con il valore venale, come prescritto
dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo”
(Cassazione civile, I, 22.01.2009, n. 1606; altresì, Corte
costituzionale, 24.10.2007, n. 348) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5655 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto del
proprietario di chiudere il proprio fondo non può essere
impedito dall’esistenza di una previsione vincolistica
interessante l’area in questione (nella specie verde
pubblico), atteso che il legittimo esercizio dello “ius
escludendi alios”, laddove attuato mediante l’apposizione di
una recinzione costituita da una rete metallica -senza l’uso
di materiali ad elevato impatto ambientale quali cemento,
mattoni e simili- non contrasta, di per sé, con detta
previsione, non avendo per fine quello di imprimere all’area
una destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche.
- Considerato che il diritto del proprietario di chiudere il
proprio fondo non può essere impedito dall’esistenza di una
previsione vincolistica interessante l’area in questione
(nella specie verde pubblico), atteso che il legittimo
esercizio dello “ius escludendi alios”, laddove
attuato mediante l’apposizione di una recinzione costituita
da una rete metallica -senza l’uso di materiali ad elevato
impatto ambientale quali cemento, mattoni e simili- non
contrasta, di per sé, con detta previsione, non avendo per
fine quello di imprimere all’area una destinazione diversa
da quella prevista dalle norme urbanistiche (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 22.02.2006 n. 572 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il completamento della recinzione di un fondo non
può essere impedito dall’esistenza di una previsione
vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo
esercizio dello jus excludendi alios, di per sé, non
contrasta con la detta previsione, non avendo per fine
quello di imprimere all’area una destinazione diversa da
quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in
alcun modo l’amministrazione nell’esercizio dei poteri,
eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Ed invero, il completamento della recinzione di un fondo non
può essere impedito dall’esistenza di una previsione
vincolistica del piano regolatore, in quanto il legittimo
esercizio dello jus excludendi alios, di per sé, non
contrasta con la detta previsione, non avendo per fine
quello di imprimere all’area una destinazione diversa da
quella prevista dalle norme urbanistiche e non limitando in
alcun modo l’amministrazione nell’esercizio dei poteri,
eventualmente ablativi, che dal vincolo discendono (cfr. TAR
Milano, sez. II, 20.05.1993 n. 334 e 24.10.1991 n. 1247) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 24.02.2003 n. 351 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 24.05.2013 |
ã |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
maggio 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
22.05.2013 n. 118 "Regolamento in materia di emissione,
trasmissione e ricevimento della fattura elettronica da
applicarsi alle amministrazioni pubbliche ai sensi
dell’articolo 1, commi da 209 a 213, della legge 24.12.2007,
n. 244"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 03.04.2013 n. 55). |
TRIBUTI:
G.U. 21.05.2013 n. 117 "Interventi urgenti in tema di
sospensione dell’imposta municipale propria, di
rifinanziamento di ammortizzatori sociali in deroga, di
proroga in materia di lavoro a tempo determinato presso le
pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli stipendi
dei parlamentari membri del Governo"
(D.L.
21.05.2013 n. 54). |
TRIBUTI: G.U.
20.05.2013 n. 116 "Approvazione del modello di bollettino
di conto corrente postale concernente il versamento del
tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 14.05.2013). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI: Bando
di gara pubblica, quando è lesivo?
Domanda
I bandi di una
gara pubblica sono da ritenersi lesivi dei principi generali
in materia di appalti quando c'è la concreta impossibilità
per le imprese di formulare offerte coerenti e serie, a
causa dell'eccessiva diversità, eterogeneità delle
prestazioni, e dell'oggettiva indeterminatezza dell'oggetto
del contratto.
Risposta
La giurisprudenza sottolinea come il concreto esercizio del
potere discrezionale deve essere funzionalmente coerente con
il complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti
dal procedimento di appalto e deve rispettare le specifiche
norme del Codice dei contratti. L'intero impianto non deve
costituire dunque una violazione sostanziale dei principi di
libera concorrenza, par condicio, non discriminazione,
trasparenza di cui all'art. 2, comma 1, del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 e s.m..
Specie nel settore sanità sono stati utilizzati bandi con un
contenuto variegato ed omnicomprensivi, tuttavia tali bandi
diventano lesivi dei princìpi generali in materia di appalti
quando vi sia la concreta impossibilità per le imprese di
formulare offerte consapevoli a cagione della eccessiva
diversità, della assoluta eterogeneità delle prestazioni,
dell'oggettiva indeterminatezza dell'oggetto del contratto;
della carenza e dell'illogicità e, conseguente
l'inapplicabilità dei criteri selettivi previsti dal bando.
A seguito di queste premesse, bisogna specificare che la
lesione effettiva dell'interesse giuridicamente rilevante
dell'impresa partecipante e che legittima l'immediata
impugnativa del bando, non deve essere necessariamente
connessa alla presenza di clausole che possano comportare la
sua esclusione dalla selezione.
Tale lesione può, infatti, consistere anche nella concreta
impossibilità per l'impresa stessa di formulare un'offerta
informata per le cause appena dette, a causa di disposizioni
che impediscono di comprendere e valutare con sufficiente
precisione l'entità delle prestazioni da offrire e gli oneri
economici connessi (22.05.2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: M.
P. Melia,
Il discrimine tra la ristrutturazione edilizia e la
realizzazione di una nuova costruzione
(20.05.2013 - link a www.diritto.it). |
APPALTI: A.
Concas,
La responsabilità contrattuale nel contratto di appalto
(04.04.2013 - link a www.diritto.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
L’incompetenza dei geometri nella progettazione degli
impianti fotovoltaici (Centro
Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, aprile 2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
L’estensione dell’obbligo di assicurazione agli iscritti
all’Ordine degli ingegneri (art. 3, comma 5, lettera e),
del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148 e art. 5 del
D.P.R. 07.08.2012, n. 137) (Centro
Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, aprile 2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
U. Bonsante,
“I REATI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE”
(20.03.2013 - link a www.diritto.it). |
APPALTI: M.
Dell'Unto,
BANDO-TIPO: INDICAZIONI GENERALI PER LA REDAZIONE DEI BANDI
DI GARA
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI: G.
Napolitano, CONTRATTO
DI DISPONIBILITÀ: SPESA OFF BALANCE SOLO SE IL RISCHIO
RICADE SUL PRIVATO
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI: L.
Capicotto,
COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE –GRANDE
SEZIONE– 19.12.2012. ELEMENTI IDENTIFICATIVI DEGLI ACCORDI
DI COOPERAZIONE, EX ART. 15 LEGGE 241 DEL 1990 E S.M.I. E
OBBLIGO DI RISPETTARE LE REGOLE DELL’UNIONE EUROPEA SUGLI
APPALTI PUBBLICI
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI:
T. Molinaro,
ISTITUZIONE DELL’AUTHORITY VIRTUAL COMPANY PASSPORT
(AVCPASS): QUALI NOVITÀ?
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI: A.
Cantone,
LA SPONSORIZZAZIONE PASSIVA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE:
DALLE ORIGINI ALL’ATTUALE CRISI ECONOMICA
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI: I
Di Toro,
APPALTI PUBBLICI: ESTESA LA PLATEA DEI POTENZIALI
AGGIUDICATARI
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI SERVIZI: G.
Bacosi e V. Giammaria,
I SERVIZI PUBBLICI LOCALI: LA RILEVANZA ECONOMICA DEL
SERVIZIO DI ILLUMINAZIONE VOTIVA
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: S.
Napolitano,
IL RICORSO AL M.E.P.A. QUALE STRUMENTO ATTUATIVO DELLA
RAZIONALIZZAZIONE DELLA SPESA PUBBLICA: CRITERI APPLICATIVI
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Amitrano Zingale,
L’ATTIVITÀ DI INSTALLAZIONE DI CONDIZIONATORI CLIMATICI
SULLE FACCIATE DI EDIFICI: MANUTENZIONE ORDINARIA,
STRAORDINARIA, RISANAMENTO CONSERVATIVO E/O RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA?
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Cernelli,
PUNTI FERMI SU STATO DI NECESSITÀ E REATI EDILIZI
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Cernelli,
MANUFATTI LEGGERI E NECESSITÀ DEL TITOLO ABILITATIVO: IL
CASO DEI C.D. GAZEBO DESTINATI ALLA RISTORAZIONE
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Fifi,
AMPIEZZA DEI POTERI COMUNALI IN TEMA DI INSEDIAMENTI
URBANISTICI DI IMPIANTI TELEFONICI
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: M.
Esposito,
IL CONTROLLO DI REGOLARITÀ AMMINISTRATIVA ED IL RUOLO DEL
SEGRETARIO COMUNALE
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: V.
Napolitano,
LIMITI SOGGETTIVI ED OGGETTIVI DEI PARERI CONSULTIVI DI CUI
ALL'ART. 7, CO. 8, DELLA L. 05.06.2003 N. 131
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: A.
Cordasco,
ART. 2-BIS L. 241/1990: OBBLIGO DI PROVVEDERE DA PARTE
DELL'AMMINISTRAZIONE, SILENZIO E RISARCIMENTO DEL DANNO
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
ENTI
LOCALI:
A. Marini,
DIFFICOLTÀ INTERPRETATIVE PER L’ART. 9 DELLA SPENDING REVIEW
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
ENTI LOCALI: E.
Materia,
IL FENOMENO DEI DEBITI FUORI BILANCIO QUALE COMPONENTE
FONDAMENTALE NELLA REGOLAMENTAZIONE DEL CONTROLLO DI
REGOLARITÀ AMMINISTRATIVA E CONTABILE PREVISTA DAL D.L. N.
174/2012
(Gazzetta Amministrativa
n. 4/2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI:
P.a., addio alle fatture di carta.
Al più tardi entro due anni solo documenti elettronici.
Decreto
dell'Economia su emissione e gestione pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale.
La fattura cartacea delle forniture alle pubbliche
amministrazioni ha i giorni contati: al più tardi, entro due
anni, la fatturazione dovrà avvenire in forma elettronica.
Lo stabilisce il decreto del ministro dell'economia del 03.04.2013, n. 55, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
numero 118 di ieri, 22.05.2013, che approva il
regolamento per l'emissione, trasmissione e ricezione della
fattura elettronica nei rapporti con le amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 209, della legge n.
244/2007, in attuazione di quanto previsto dalla legge
stessa.
Le fatture elettroniche, rappresentate in formato XML e
contenenti le indicazioni dettagliatamente riportate
nell'allegato A al decreto, dovranno essere trasmesse alle
amministrazioni destinatarie attraverso il sistema di
interscambio di cui al decreto ministeriale 07.03.2008,
gestito dall'Agenzia delle entrate avvalendosi del supporto
informatico di Sogei. Le regole tecniche di emissione,
trasmissione e ricevimento sono definite nell'allegato B al
decreto.
La fattura elettronica si considera trasmessa e ricevuta
solo a fronte del rilascio della ricevuta di consegna. Le
amministrazioni dovranno identificare con appositi codici
gli uffici abilitati alla ricezione delle fatture
elettroniche, che dovranno riportare anche tali codici.
Per le piccole e medie imprese fornitrici delle pubbliche
amministrazioni, il ministero dell'economia provvederà a
rendere disponibile gratuitamente sul proprio portale
elettronico i servizi e gli strumenti informatici di
supporto per la generazione delle fatture elettroniche. Per
le stesse imprese, l'Agenzia per l'Italia digitale mette a
disposizione gratuitamente il supporto per lo sviluppo di
strumenti informatici «open source» per la fatturazione
elettronica.
Gli operatori economici possono comunque avvalersi di
intermediari per la trasmissione, la conservazione e
l'archiviazione delle fatture elettroniche, ferma restando
la responsabilità fiscale dell'emittente.
I tempi di attuazione
A decorrere dal termine di sei mesi dal 06.06.2013, data
di entrata in vigore del regolamento pubblicato ieri sulla
Gazzetta Ufficiale, il sistema di interscambio sarà reso
disponibile alle amministrazioni che volontariamente e sulla
base di specifici accordi con tutti i propri fornitori,
intendono avvalersene per la ricezione delle fatture
elettroniche.
In tal caso, la data di effettiva applicazione delle
disposizioni sarà quella comunicata dalle amministrazioni al
gestore del sistema.
Al di fuori dell'ipotesi precedente, l'obbligo della
fatturazione elettronica decorre dal termine di 12 mesi
dall'entrata in vigore del regolamento nei confronti dei
ministeri, delle agenzie fiscali e degli enti nazionali di
previdenza e assistenza sociale individuati nell'elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato.
Negli altri casi, l'obbligo decorre dal termine di 24 mesi
dalla predetta data.
Con successivo decreto saranno disciplinate le modalità di
applicazione degli obblighi alle fatture emesse da non
residenti in Italia e a quelle, già trasmesse per via
telematica, relative al servizio di pagamento delle entrate
oggetto del sistema di versamento unificato. Dalle
decorrenze indicate sopra, le amministrazioni non potranno
accettare fatture che non siano trasmesse in forma
elettronica tramite il sistema di interscambio e, decorsi
tre mesi da tali date, non potranno procedere ad alcun
pagamento, nemmeno parziale, sino all'invio delle fatture in
formato elettronico
(articolo ItaliaOggi del 23.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Fotovoltaico, oltre i sei kW progettazione agli ingegneri.
No alla progettazione da parte dei geometri di un impianto
fotovoltaico di potenza superiore a 6 kW. Il geometra può
solo progettare un impianto di potenza inferiore ai 6 kW in
qualità di tecnico abilitato ai sensi dell'articolo 4 del dm
n. 37/2008. Il solo iscritto all'albo potrà dunque
progettare un impianto fotovoltaico di potenza superiore a 6
kW mentre per quelli di potenza inferiore la progettazione
potrà essere eseguita dal tecnico abilitato dipendente
dell'azienda installatrice. Il professionista abilitato
dovrà quindi avere uno dei seguenti requisiti: diploma di
laurea in materia tecnica specifica; qualifica conseguita al
termine di scuola secondaria seguita da un periodo di
inserimento di almeno due anni continuativi alle dirette
dipendenze di una impresa del settore; attestato di
formazione professionale conseguito dopo un periodo di
inserimento di almeno quattro anni consecutivi alle dirette
dipendenze di una impresa del settore; prestazione
lavorativa svolta, alle dirette dipendenze di una impresa
abilitata nel ramo di attività per un periodo non inferiore
a tre anni, escluso quello computato ai fini
dell'apprendistato e quello svolto come operaio
installatore.
Questa è la conclusione a cui è giunto il Centro studi del
consiglio nazionale ingegneri, con lo
studio dell'aprile scorso.
Il consiglio sottolinea da un lato che il regio decreto
247/1929 (ordinamento professionale geometri) all'art. 16 «non
ricomprende fra le competenze professionali la redazione di
progetti di impianti, tanto meno quelli elettrici»,
dall'altro il dm n. 37/2008 precisa che per installazione,
trasformazione e ampliamento degli impianti di produzione di
energia elettrica, il progetto deve essere redatto da
professionisti iscritti in albi professionali e stabilisce
che se la potenza dell'impianto supera i 6 kW, la
progettazione può essere eseguita solo da un professionista
iscritto all'albo
(articolo ItaliaOggi del 23.05.2013). |
APPALTI: Appalti
registrati. Iscrizioni aperte fino al 10 luglio. I
committenti dovranno entrare nell'Anagrafe unica.
Entro il 10 luglio le stazioni appaltanti devono chiedere
l'iscrizione all'anagrafe unica gestita dall'Autorità per la
vigilanza dei contratti pubblici. L'inadempimento
dell'obbligo è previsto a pena di nullità degli atti di
gara.
Questo è quanto afferma il presidente dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, Sergio Santoro, che ha
siglato la
nota 16.05.2013 indirizzata a tutte le
stazioni appaltanti.
La creazione dell'Anagrafe unica, è prevista dall'art.
33-ter del dl 179/2012. Per rendere effettiva l'attuazione
dell'Anagrafe, la norma di legge, non soltanto impone la
registrazione presso la banca dati gestita dall'Authority di
via di Ripetta, ma annette a tale obbligo di registrazione
anche l'ulteriore obbligo di aggiornamento annuale dei dati
identificativi forniti dalle stazioni appaltanti.
È di particolare rilievo la conseguenza derivante
dall'inadempimento degli obblighi di registrazione. La legge
infatti prevede, in caso di inadempimento di entrambi gli
obblighi, la nullità degli atti adottati e la responsabilità
amministrativa e contabile dei funzionari responsabili. Per
il funzionamento dell'intero sistema, è poi la stessa legge
221 a prevedere che sia l'Autorità per la vigilanza a
dettare le regole.
Con la nota varata il 16 maggio, «nelle more
dell'implementazione e della definizione delle modalità di
iscrizione», è quindi il presidente Santoro a dettare le
prime indicazioni transitorie, mettendo in relazione
l'anagrafe con gli obblighi informativi che già spettano
alle stazioni appaltanti registrate presso la banca dati. In
particolare, si precisa che, in via transitoria, ai fini
dell'adempimento all'obbligo di registrazione previsto
dall'articolo 33-ter, le stazioni appaltanti già registrate
presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici,
devono acquisire sul sito dell'Autorità, a partire dal
10.07.2013, l'Attestato di iscrizione all'Anagrafe unica. «L'attestato»,
si legge nella nota, «avrà validità per tutto il 2013 e
sarà rilasciato ai soggetti richiedenti per il tramite dei
propri utenti già titolari di credenziali per I'accesso ai
servizi sul portale dell'Autorità».
Inoltre viene fatto presente che, a partire dal 01.09.2013 e
comunque entro il 31.12.2013, le stazioni appaltanti
dovranno anche comunicare, il nominativo del responsabile,
il quale provvederà alla iniziale verifica o alla
compilazione ed al successivo aggiornamento delle
informazioni. Nel merito, le informazioni da fornire e le
modalità con le quali verranno trasmesse, saranno però
definite con una successiva nota, al fine di potere
consentire il permanere dell'iscrizione nell'Anagrafe unica
delle stazioni appaltanti, da effettuarsi a cura del
responsabile.
La nota infine ricorda che, l'aggiornamento delle
informazioni dell'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti,
dovrà essere effettuato dal soggetto individuato, entro il
31 dicembre di ciascun anno
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2013). |
ENTI LOCALI: Battaglia Tar-Corte dei conti sui dissesti nei municipi.
Enti locali. I giudici calabresi fermano il default di Vibo.
L'ITER BLOCCATO/
Tramite il Prefetto i giudici contabili avevano dato 20
giorni al consiglio per dichiarare «fallimento» Stop con
ordinanza.
Si estende nelle Regioni del Sud il braccio di ferro fra i
giudici amministrativi e i loro colleghi contabili sulla
sorte dei Comuni che rischiano il dissesto e provano a
evitarlo con la ciambella lanciata dal decreto «salva-enti»
174/2012. La nuova puntata della telenovela è stata scritta
dal Tar Calabria, che con l'ordinanza 229/2013 ha sottratto
il Comune di Vibo Valentia al default e ha bloccato tutto
fino alla decisione di merito: in calendario per il 20
giugno.
La vicenda ricalca un precedente siciliano, relativo al
Comune di Cefalù (Palermo; si veda «Il Sole 24 Ore» del 23
gennaio scorso), quando il Tar dell'isola aveva stoppato il
dissesto del Comune anche sulla base della considerazione
che le ragioni alla base del disastro contabile fossero
«chiaramente attribuibili ai precedenti Governi del Comune».
Il caso di Vibo assume però significati ulteriori, e non
solo per il fatto che al centro della contesa fra giudici
questa volta si trova un Comune capoluogo di Provincia.
A differenza della vicenda siciliana, la questione del
Comune di Vibo Valentia prima di tutto non intreccia in
alcun modo la complessa gestione transitoria legata al
debutto del «pre-dissesto» e del fondo rotativo per salvare
con una mano statale i Comuni in crisi. Vibo infatti aveva
deliberato l'11 gennaio scorso, quindi in piena vigenza
delle regole del Dl 147/2012 ormai stabilizzate, di aderire
alla procedura del «pre-dissesto». Dopo questo passaggio,
però, il meccanismo si è inceppato perché la Giunta si è
vista respingere dal Consiglio il piano di rientro: vista la
«condizione finanziaria disastrosa» del Comune, in cui alla
«crisi di cassa» si accompagna «la presenza di una
gigantesca massa passiva alla quale non riesce in alcun modo
a fare fronte», la sezione regionale di controllo (delibera
21/2013) ha ripreso l'iter del «dissesto guidato» nel punto
in cui l'aveva sospesa in attesa del piano di rientro, e per
il tramite del prefetto ha dato al Comune i classici 20
giorni di tempo per dichiarare il default.
Il Tar Calabria, però, ha sospeso la nota del prefetto,
riportando in un limbo il capoluogo gravato da un deficit
pesante (4,3 milioni nel 2010, 3,8 nel 2011) e dalle
incognite legate alla presenza in bilancio di 55 milioni di
residui passivi precedenti al 2007.
Il punto, però, è nel conflitto fra giudici amministrativi e
magistrati contabili, che non si ferma nemmeno di fronte
alla sentenza 60/2013 in cui la Consulta ha stabilito che,
in particolare dopo il Dl 174/2012, i controlli della Corte
dei conti «si collocano su un piano distinto rispetto al
controllo sulla gestione amministrativa» perché servono a
garantire una vigilanza indipendente sugli «obiettivi di
finanza pubblica» e a tutelare «l'unità economica della
Repubblica». In questa chiave, spiegava la Consulta,
l'azione della Corte dei conti si verifica «in riferimento a
parametri costituzionali (articoli 81, 119 e 120 della
Costituzione) e ai vincoli derivanti dall'appartenenza
dell'Italia all'Unione europea (articoli 11 e 117, primo
comma, della Costituzione)». Una funzione "pesante", che non
sembra però in grado di blindare le decisioni della Corte e
quindi di rendere certa l'applicazione delle norme del «pre-dissesto»
e del «dissesto guidato» nei tanti enti locali coinvolti
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Congelato l'acconto dell'Imu.
Sospensione per la prima casa. Immobili di pregio esclusi.
Il provvedimento del consiglio dei ministri, in attesa di
una riforma del sistema.
Sospeso il pagamento dell'acconto Imu, fissato per il
prossimo 17 giugno, per gli immobili adibiti ad abitazione
principale e relative pertinenze. Sono però esclusi dal
beneficio i fabbricati classificati nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9. La sospensione si estende anche
alle unità immobiliari appartenenti alle cooperative
edilizie a proprietà indivisa adibite a prima casa dei soci
assegnatari, nonché a quelli assegnati da Iacp, Ater o da
altri enti di edilizia residenziale pubblica. Sono esonerati
dal pagamento dell'acconto anche i titolari di fabbricati
rurali e terreni agricoli, in attesa di una complessiva
riforma dell'imposizione fiscale sul patrimonio immobiliare
che dovrebbe essere varata nei prossimi mesi.
È quanto
prevede l'articolo 1 del decreto legge approvato venerdì
scorso dal Consiglio dei ministri.
La sospensione del pagamento dell'acconto Imu, la cui
scadenza è prevista per il 17 giugno, nelle more della
riforma del sistema di tassazione degli immobili, sia a
livello statale sia locale, sembra finalizzata a un
successivo riconoscimento dell'esenzione dal pagamento,
soprattutto per gli immobili destinati a abitazione
principale. Va ricordato che dal 2008 al 2011 sono stati
esonerati dal pagamento dell'Ici i titolari di questi
immobili. Così come sono state escluse dal beneficio le
unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8
e A9 (immobili di lusso, ville e castelli).
La qualificazione giuridica di abitazione principale. Per
abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o
iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità
immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e
risiede anagraficamente. Sono da considerare pertinenze
dell'abitazione principale esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella
misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle
suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto
unitamente all'immobile adibito ad abitazione. Attualmente
la legge prevede per queste unità immobiliari l'applicazione
di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni
possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una
detrazione di 200 euro, che può essere maggiorata di 50 euro
per ogni figlio che risiede anagraficamente e dimora
abitualmente nell'immobile, fino a un massimo di 400 euro,
al netto della detrazione ordinaria.
Il contribuente, però, può fruire delle agevolazioni «prima
casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più
unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, a meno
che non abbia provveduto al loro accatastamento unitario. Lo
ha chiarito il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia con la circolare 3/2012. Rispetto a quanto
previsto per l'Ici, la definizione di abitazione principale
presenta dei profili di novità. L'articolo 13, comma 2, del
dl 201/2011 prevede che per abitazione principale si intende
l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio
urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore
e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente. Dalla lettura della norma, per il
dipartimento, «emerge, innanzitutto, che l'abitazione
principale deve essere costituita da una sola unità
immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto a prescindere
dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione
principale più di una unità immobiliare». Quindi, le singole
unità vanno assoggettate separatamente a imposizione,
ciascuna per la propria rendita. È il contribuente a
scegliere quale destinare a abitazione principale.
L'interpretazione ministeriale, però, non può essere
condivisa, in quanto richiama nella circolare il principio
affermato per la prima volta dalla Cassazione (sentenza
25902/2008) per l'Ici, poi ribadito con altre pronunce, ma
lo ritiene superato dalla nuova disposizione, secondo la
quale il beneficio fiscale è limitato a una sola unità
immobiliare, mentre le altre, ancorché utilizzate di fatto
come abitazione principale, non possono fruire del
trattamento agevolato. Invece, anche per l'Imu il
contribuente dovrebbe fruire dei benefici fiscali, qualora
utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come
abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che
si tratti di un'unica unità immobiliare «iscritta o
iscrivibile» come tale in catasto. Occorre dare un senso
alla formulazione letterale della norma che fa riferimento
ai diversi immobili che sono potenzialmente «iscrivibili»
come un'unica unità immobiliare. In questi casi, dunque, è
sufficiente che sussistano due requisiti: uno soggettivo e
l'altro oggettivo. In particolare, le diverse unità
immobiliari devono essere possedute dallo stesso titolare (o
dagli stessi titolari) e devono essere contigue. E l'Agenzia
del territorio dovrebbe certificare l'iscrivibilità come
unica unità immobiliare.
---------------
Esonero esteso ai fabbricati rurali e ai terreni agricoli.
Sono esonerati dal pagamento dell'acconto Imu anche i
titolari di fabbricati rurali e terreni agricoli.
Fabbricati rurali. Per gli immobili rurali dal 2012 sono
cambiate le regole sulle agevolazioni. Quelli adibiti ad
abitazione di tipo rurale sono stati assoggettati al
pagamento dell'Imu con applicazione dell'aliquota ordinaria,
a meno che non siano destinati a prima casa. Mentre per
quelli strumentali, vale a dire quelli utilizzati per la
manipolazione, trasformazione e vendita dei prodotti
agricoli, non è più prevista l'esenzione, ma un trattamento
agevolato con applicazione dell'aliquota del 2 per mille che
i comuni possono ridurre all'1 per mille. Mentre è stata
confermata l'esenzione solo per i fabbricati strumentali
ubicati in comuni montani o parzialmente montani indicati in
un elenco predisposto dall'Istat.
Bisogna inoltre ricordare che per i fabbricati rurali
strumentali non conta più la classificazione catastale per
avere diritto alle agevolazioni fiscali. Possono infatti
mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente
l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali
che siano per loro natura censibili nella categoria D/10.
Con la circolare 2/2012 l'Agenzia ha anche fornito dei
chiarimenti, relativamente a quanto disposto dal decreto
ministeriale emanato il 26.07.2012, sugli adempimenti
che devono porre in essere i titolari dei fabbricati
interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali
della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu del
trattamento agevolato.
Terreni agricoli e incolti. L'articolo 1 del dl si limita a
concedere la sospensione dal pagamento dell'imposta solo per
i terreni agricoli, mentre sono tenuti a passare alla cassa
i titolari di terreni incolti. Dal 2012, infatti, sono
soggetti al pagamento dell'Imu anche i terreni incolti che
prima erano esclusi dal campo di applicazione dell'Ici.
Oltre ai terreni agricoli la nuova imposta colpisce i
terreni diversi da quelli fabbricabili e da quelli
utilizzati per l'esercizio delle attività agricole.
Terreni agricoli, secondo la definizione contenuta
nell'articolo 2135 del Codice civile, sono quelli utilizzati
per l'esercizio dell'attività agricola, ovvero la
coltivazione del fondo, la silvicoltura, l'allevamento
animali e le attività connesse. In base all'articolo 13 del
dl salva-Italia (201/2011), il valore dei terreni agricoli
su cui calcolare l'imposta è ottenuto moltiplicando il
reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1°
gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, per
135. La norma, invece, prevede un trattamento agevolato per
i coltivatori diretti e gli imprenditori professionali
iscritti nella previdenza agricola, per i quali il
moltiplicatore di riferimento è ridotto a 110, anche se i
terreni non vengono coltivati (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.05.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI - VARI:
È conto alla rovescia: a ogni professionista la sua polizza.
Obbligati alla sottoscrizione oltre 2 milioni di iscritti
all'albo e le società entro il 15 agosto.
Countdown per la sottoscrizione di una polizza di
responsabilità civile per tutti i professionisti iscritti in
albi. Tale obbligo (che peraltro è imposto anche a tutte le
nuove società fra professionisti) dovrà essere assolto entro
il prossimo 15 agosto da tutti coloro, fra i circa 2 milioni
di iscritti a un albo professionale, che a oggi non hanno
ancora provveduto.
L'obbligo nasce con l'art. 3, comma 5,
lett. e), del dl 13/08/2011, n. 138 , e viene confermato con
la conversione nella legge 14/09/2011 n. 148, in G.U. 216 del
16/09/2011. Una regolamentazione (soft) dell'obbligo avviene
con il dpr 137/2012 con il quale è peraltro stabilità una
proroga annuale dell'obbligo dall'agosto 2012 all'agosto
2013.
Tutti i professionisti (e le società da loro costituite)
dovranno rendere noto ai clienti, evidenziando loro al
momento dell'assunzione dell'incarico, come si legge nel
regolamento «gli estremi della polizza professionale, il
relativo massimale e ogni variazione successiva». La
violazione di tale dovere costituirà un illecito
disciplinare. Ecco, in dettaglio, i maggiori rischi da
coprire per ciascuna categoria professionale, da un lato, e
dall'altro il confronto tra alcuni prodotti proposti dalle
principali compagnie assicurative.
La copertura per il commercialista. La polizza Rc
professionale tiene indenne l'assicurato di quanto questi
sia tenuto a pagare (a titolo di sanzioni, interessi e
spese) per danni colposamente cagionati a terzi, compreso i
clienti, in conseguenza di errori personalmente commessi
nell'esercizio della professione, mentre restano sempre
escluse da copertura le sanzioni dirette comminate al
professionista. Nelle condizioni standard del contratto
viene normalmente inclusa la copertura per danni relativi:
a) all'attività di tenuta di contabilità, registri Iva e
redazione di dichiarazioni fiscali, a causa di errori (non
dolosi) imputabili al consulente;
b) al fatto colposo o doloso di collaboratori, sostituti di
concetto, praticanti e dipendenti facenti parte dello studio
professionale;
c) alla perdita, distruzione, danneggiamento di documenti di
proprietà dell'assicurato o per i quali egli è legalmente
responsabile o custode nell'esercizio dell'attività
professionale;
d) a lesioni corporali e/o materiali involontariamente
cagionati a terzi, compresi i clienti, in relazione alla
conduzione dei locali e delle attrezzature adibite
all'attività dell'assicurato, nonché per fatti dolosi o
colposi dei dipendenti e collaboratori dello studio;
e) a perdite patrimoniali subite dai clienti e seguito
dell'apposizione del visto di conformità (c.d. visto
leggero) e/o dall'asseverazione per gli studi di settore e
della certificazione tributaria (c.d. visto pesante), a
condizione che l'Assicurato abbia e mantenga per tutto il
periodo di Assicurazione i requisiti previsti dalle norme
applicabili per l'esercizio di tali attività;
f) a perdite patrimoniali cagionate a terzi in conseguenza
dell'errato trattamento dei dati personali (privacy) degli
assistiti conseguente ad atti colposi.
Da evidenziare, tuttavia, che alcuni rischi, ordinariamente
riscontrabili nell'attività di dottore commercialista ed
esperto contabile, vengano «coperti» solo se espressamente
richiamati dal contratto e, di norma con una integrazione
del premio.
In particolare, si tratta di rischi rinvenibili nello
svolgimento di specifiche funzioni, quali:
- consigliere di amministrazione o del consiglio di
gestione;
- membro di collegi sindacali (o altro organo di controllo)
di società o enti;
- revisore legale dei conti in società;
- membro di Commissione tributaria (legge 13/4/1988 n. 117);
- revisore/amministratore in Enti locali;
- liquidatore, anche giudiziale, di società o imprese;
- curatore e commissario giudiziale;
- incaricato per l'invio telematico di dichiarazioni fiscali
(dpr 322/98 e succ. mod.);
- incaricato del pagamento di imposte, tasse e contributi
(anche online) per conto del cliente;
- consulente su pratiche per l'accesso a finanziamenti
agevolati o a fondo perduto;
- amministratore di stabili (condomini);
- consulenza del lavoro o in materia giuslavoristica;
- mediatore ex dlgs 28/2010 e dm 180/2010;
- amministratore di centri elaborazione dati;
- direttore presso Caf.
Va puntualizzato, in ogni caso, che una attenzione deve
essere dedicata alle clausole relative alla «franchigia»
e, soprattutto, allo «scoperto», ordinariamente
inserite nelle polizze, che rimangono, comunque a carico
degli assicurati (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.05.2013t). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione. Le strade per conciliare gli obblighi della spending review con le incompatibilità della nuova
disciplina
Nei Cda dipendenti con limiti.
Possibile ingresso ma senza deleghe se non svolgono attività
di vigilanza e controllo.
L'OSTACOLO/ Il presidente di una società nell'anno dopo la
cessazione non può essere nominato in un'altra azienda
all'interno della regione.
Dopo lo sconcerto iniziale, i primi approfondimenti
consentono di individuare qualche punto fermo delle norme su
incompatibilità e inconferibilità del Dlgs 39/2012, che
spesso però mancano di coerenza interna.
Anzitutto le motivazioni di fondo: non permettere la
trasmigrazione dei politici (evidentemente considerati
"infettati") nei ruoli gestionali per evitare che possano
dar luogo a fenomeni corruttivi. Il divieto è temporaneo,
salvo casi di responsabilità penale (anche solo in primo
grado), e dura due anni o un anno, in ragione di quanto si
fosse vicini all'infezione (ovvero alla politica).
Il problema è che il decreto non ha una visione chiara delle
diverse posizioni, e vede come "politici" non solo i membri
della Giunta e i consiglieri comunali ma anche gli
amministratori con deleghe degli enti partecipati e perfino
chi riveste incarichi amministrativi apicali (segretario
generale e direttore generale) dei diversi enti (articolo
1). Un elemento rilevante è la distinzione tra consiglieri
con e senza deleghe gestionali dirette: i primi sono
colpiti, i secondi ignorati (anche se il Codice civile vede
il Cda come organo collegiale e collettivamente
responsabile).
Tutto ciò consente di individuare una "conciliazione" tra
articolo 4 del Dl 95/2012 e Dlgs 39/2013: i dipendenti di un
ente locale possono dunque entrare nei Cda delle controllate
purché non svolgano vigilanza e controllo (articolo 9), e
non sono incompatibili purché non rivestano deleghe
(altrimenti si cade nel divieto di cui all'articolo 12,
comma 4, lettera c). Questo vale anche per il presidente del
Cda, purché non abbia deleghe gestionali dirette.
Il divieto di "trasmigrazione", comprensibile, si ritrova
già in molte norme, alcune abrogate (articolo 23-bis del Dl
112/2008) altre tuttora in essere (articoli 63 e 67 del Dlgs
267/2000). Crea però infiniti problemi l'ambigua
collocazione del presidente e dell'ad tra i politici. Mentre
nelle definizioni si precisa che il presidente debba avere
delle deleghe operative dirette, nell'inconferibilità
prevista dall'articolo 7 si parla di «presidente e
amministratore delegato». Chi rivestiva tali cariche non
può, nell'anno successivo alla cessazione, essere nominato
presidente con deleghe gestionali dirette o ad di una
società a controllo pubblico nella regione.
L'articolo 7 fa nascere però il dubbio dell'ammissibilità di
un'eventuale riconferma nella stessa società. Nonostante
alcune perplessità, sembrerebbe di sì. Se la finalità è
combattere le trasmigrazioni, qui il problema non si pone; e
l'uso del passato prossimo fa pensare a una cesura
temporale, che in questo caso non sussisterebbe se non sul
piano formale. Sarebbe opportuno, però, un chiarimento
immediato da fonte istituzionale, perché sono in gioco i
diritti soggettivi.
Nonostante le ambiguità dell'articolo 1,
comma 2, lettera 1), (che considera il dg un incarico
amministrativo di vertice e non un incarico dirigenziale)
non pare sostenibile la compatibilità tra dg e presidente o
ad della stessa società. Ciò anche alla luce dell'articolo
3, comma 44, della legge 244/2007, che esclude la
possibilità del contemporaneo espletamento del doppio
incarico (e dunque della duplicazione dei compensi)
prevedendo per il dipendente l'automatica messa in
aspettativa (articolo Il
Sole 24 Ore del 20.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego. Nessuna norma transitoria nel decreto.
Nelle Pa divieti per il futuro.
IL PRINCIPIO/
La giurisprudenza spiega che gli incarichi legittimi al
momento del conferimento rimangono validi fino alla scadenza
naturale.
Un tema cruciale introdotto dalle nuove regole sulle
incompatibilità e inconferibilità è rappresentato, per le
fattispecie legate al pubblico impiego, dalla decorrenza dei
divieti previsti dal Dlgs 39/2013.
La ratio è di prevenire ogni possibile situazione di
"conflitto di interessi" o comunque contrastante con il
principio costituzionale di imparzialità.
L'articolo 20, applicabile a regime, chiarisce che le cause
di inconferibilità vanno verificate una tantum alla data di
conferimento dell'incarico, mentre l'incompatibilità è un
vizio che può insorgere anche successivamente. Tuttavia,
l'articolo 20 non affronta il problema della decorrenza
delle nuove disposizioni e della loro applicabilità agli
incarichi in corso alla data di entrata in vigore del
decreto, disattendendo parzialmente alla delega contenuta
all'articolo 1, comma 50, lettere e) e f), della legge 190.
In assenza di norme transitorie, è stata richiamata la
giurisprudenza consolidata in materia che tende a bilanciare
il principio di legalità con la tutela costituzionale
riconosciuta alle posizioni giuridiche soggettive oggetto
delle disposizioni. Di regola, un provvedimento
originariamente conforme al dettato normativo non può
risultare viziato a causa del mutato scenario normativo;
l'applicabilità dello ius superveniens presuppone che il
procedimento sia ancora in itinere (Consiglio di Stato,
parere 440/2007, e sentenze 6361/2003 e 5316/2005).
Trova quindi applicazione il principio «tempus regit actum»,
con riferimento agli incarichi pregressi legittimamente
assegnati, che restano validi ed efficaci fino a naturale
scadenza. Ferma restando la complessità della vicenda
interpretativa in esame, queste argomentazioni sono
rispondenti ai principi di legalità, tassatività ed
irretroattività che informano le materie dell'illecito
amministrativo e civile.
Più precisamente, una norma afflittiva si applica agli
incarichi conferiti successivamente alla modifica di legge,
anche con riferimento a fatti pregressi; non si applica
invece agli incarichi conferiti prima dell'entrata in vigore
della norma.
In definitiva, le cause di incompatibilità in esame si
applicherebbero quindi con esclusivo riferimento agli
incarichi conferiti dopo l'entrata in vigore del decreto (04.05.2013). Nessun dubbio invece sulle cause di inconferibilità, che per loro natura non sono suscettibili
di applicazione retroattiva.
Tale ricostruzione non esclude evidentemente la possibilità
di rivedere comunque gli incarichi in corso, nell'ottica di
un'etica politica improntata alla "cultura delle regole",
secondo modalità di tipo consensuale e quindi tali da
prevenire ogni possibile contenzioso (articolo Il
Sole 24 Ore del 20.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Sanzioni. Niente nomine per tre mesi.
Bloccato il sindaco che sbaglia.
IL TERMINE/
Entro il 3 agosto le amministrazioni devono adeguare gli
statuti per individuare i sostituti degli organi interdetti.
Il sindaco che viola i limiti per le nomine stabiliti dalla
disciplina sull'inconferibilità degli incarichi non può
procedere a nuove designazioni per tre mesi e il Comune deve
individuare un sostituto che eserciti il potere di nomina.
La nuova disciplina prevista dal Dlgs 39/2013 definisce un
sistema molto articolato che garantisce due livelli di
vigilanza sulla sua corretta applicazione, oltre a un quadro
di sanzioni specifiche che associano la nullità degli atti
con l'interdizione temporanea degli organi.
Il responsabile anticorruzione è il soggetto di riferimento
per l'intero sistema, in quanto deve vigilare sul rispetto
delle disposizioni sull'inconferibilità e
sull'incompatibilità degli incarichi, particolarmente in
relazione ai procedimenti di nomina degli amministratori di
società partecipate.
Il responsabile anticorruzione è tenuto a segnalare i casi
di violazione della disciplina sul conferimento di incarichi
e sulle nomine alla Civit (in quanto autorità nazionale
anticorruzione), all'Agcm (per l'esercizio delle sue
funzioni in materia di conflitto di interessi) e alla Corte
dei conti (per la verifica di responsabilità
amministrative).
La Civit esercita poteri ispettivi e di accertamento di
singole fattispecie di conferimento degli incarichi, potendo
(articolo 16) anche sospendere una procedura di nomina con
un proprio provvedimento che contiene osservazioni o rilievi
sull'atto di designazione, di cui l'amministrazione deve
tener conto.
Il sistema di sanzioni presenta il profilo più pesante
nell'articolo 17, il quale stabilisce la nullità degli atti
di conferimento di incarico o di nomina in violazione della
disciplina contenuta nel Dlgs 39/2013.
Tuttavia a questo si accompagnano (articolo 18) i profili di
responsabilità degli organi che abbiano proceduto al
conferimento di questi incarichi o a queste nomine, ma,
soprattutto, il divieto per gli stessi di procedere ad
incarichi o nomine per tre mesi.
Gli enti locali devono adeguare entro il 3 agosto i propri
ordinamenti (ad esempio le norme statutarie per le nomine)
al fine di individuare le procedure interne e gli organi che
in via sostitutiva possono procedere al conferimento degli
incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari
(se non provvedono, interviene in via sostitutiva il
Prefetto).
Altrettanto rilevante è la sanzione relativa ai casi di
incompatibilità, per i quali l'articolo 19 prevede la
decadenza dall'incarico o dalla nomina decorsi quindici
giorni dalla contestazione dell'incompatibilità da parte del
responsabile anticorruzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Legali p.a. imprigionati.
Patrocinio solo per gli enti di appartenenza.
Consulta:
niente difesa e consulenza verso le società partecipate.
Gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici possono
patrocinare cause solo per l'ente di appartenenza. Il
principio, affermato dalla legge professionale forense del
1933, riconfermato dalla riforma del 2012 (legge n. 247) e
più volte interpretato restrittivamente dalle sezioni unite
della Cassazione, non ammette deroghe. Nemmeno per la difesa
legale delle società partecipate dall'ente di appartenenza.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza
22.05.2013 n.
91.
La Consulta ha
bacchettato il tentativo della regione Campania di estendere
le prerogative della propria avvocatura interna, fino a
ricomprendere anche l'attività di consulenza e patrocinio in
giudizio verso gli enti strumentali e delle società
interamente partecipate dalla regione. Tutto questo in una
norma contenuta nella Finanziaria regionale per il 2009 (lr
19.01.2009 n. 1) già finita nel mirino dei giudici,
visto che lo stesso Tar Campania l'ha ritenuta
costituzionalmente a rischio trasmettendo gli atti alla
Consulta.
La regione si è difesa rivendicando la propria competenza in
materia di professioni, ma si è trattato di
un'argomentazione incoferente dato che le prerogative
regionali in materia sono limitate solo «agli aspetti che
presentano uno specifico collegamento con la realtà
regionale», mentre invece la disciplina delle professioni «è
riservata, per il suo carattere necessariamente unitario,
allo stato». E le leggi statali parlano chiaro.
Il punto di partenza è la legge professionale forense del
1933 che ha sancito che la professione di avvocato è
incompatibile con qualunque impiego o ufficio retribuito con
stipendio a carico dello stato. Il principio, ha ribadito la
Corte, è di stretta interpretazione, e conosce deroghe
limitate solo «per quanto concerne le cause e gli affari
propri dell'ente presso il quale gli avvocati prestano la
loro opera» a condizione che siano iscritti nell'elenco
speciale annesso agli albi professionali. Le eccezioni al
principio generale dell'incompatibilità vanno dunque
interpretate in maniera restrittiva e non sono suscettibili
di estensione analogica.
Sul punto non hanno mai avuto dubbi
le sezioni unite (con numerose sentenze dal 1996 al 2009) e
nemmeno il legislatore che, riformando l'ordinamento forense
l'anno scorso (legge n. 247/2012), ha sostanzialmente
riconfermato il principio. Tanto che la Consulta ha deciso
di trattenere la questione per deciderla nel merito, anziché
dichiarare l'inammissibilità per ius superveniens come di
solito accade nel caso di normativa sopravvenuta.
La decisione ha bacchettato la regione Campania, la cui
normativa, consentendo agli avvocati regionali di svolgere
attività di patrocinio e consulenza anche a favore di enti
strumentali e società partecipate, «amplia la deroga al
principio di incompatibilità, prevista dal legislatore
statale esclusivamente in riferimento agli affari legali
propri dell'ente pubblico di appartenenza». Infatti,
conclude la sentenza redatta dal giudice Marta Cartabia, «la
norma secondo cui gli avvocati dipendenti possono
patrocinare solo per l'ente di appartenenza non è
suscettibile di estensione da parte del legislatore
regionale, ma rientra nell'ambito dei principi fondamentali
della materia delle professioni»
(articolo ItaliaOggi del 23.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
VARI:
Ristoratori, non badanti.
Il gestore di un ristorante non è obbligato al controllo del
parco giochi annesso al ristorante. La messa a disposizione
di un parco giochi a perfetta regola d'arte da parte di un
titolare di un ristorante non determina a carico di costui
alcun obbligo di sorveglianza dei minori intenti all'uso
delle relative attrezzature.
È quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione (Sez. III civile) con
sentenza 21.05.2013 n. 12401.
Secondo gli ermellini la Corte di appello aveva attribuito a
carico del ristoratore un obbligo di necessaria sorveglianza
dei minori intenti all'uso dell'attrezzatura ludica, senza
considerare che la messa a disposizione del parco-giochi da
parte del titolare dell'esercizio commerciale non comporta
l'assunzione di obbligazioni ulteriori rispetto al contratto
di ristorazione
(articolo ItaliaOggi del 23.05.2013). |
APPALTI:
Il documento unico di regolarità contributiva (durc)
si sostanza in una dichiarazione di scienza e si colloca fra
gli atti di certificazione o di attestazione aventi
carattere meramente dichiarativo di dati in possesso
dell'ente, assistiti da pubblica fede ex articolo 2700 c.c.
e facenti pertanto prova fino a querela di falso.
---------------
La regolarità contributiva deve essere conservata nel corso
di tutto l'arco temporale impegnato dallo svolgimento della
procedura, non assumendo quindi valore sanante l'intervento
di un adempimento tardivo da parte dell'impresa.
---------------
Eventuali certificazioni di irregolarità rilasciate da Casse
edili non abilitate, pur accompagnate da certificazioni di
regolarità separate da parte degli Istituti, non possono ….
in alcun modo sostituirsi al Documento Unico di Regolarità
Contributiva (DURC), ancorché dette Casse abbiano in passato
sottoscritto Accordi a livello locale ovvero abbiano in
corso contenzioso e merito alla possibilità di rilasciare
attestazioni di regolarità nelle more della definizione dei
procedimenti.
Sotto il profilo oggettivo, poi, il documento unico di
regolarità contributiva (durc), come più volte precisato
dalla giurisprudenza di questo Consiglio, si sostanza in una
dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti di
certificazione o di attestazione aventi carattere meramente
dichiarativo di dati in possesso dell'ente, assistiti da
pubblica fede ex articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova
fino a querela di falso (cfr. Cons. Stato Sez. IV n. 1458/2009; Sez. V n. 789/2011).
Ne consegue che eventuali errori contenuti in detto
documento, involgendo posizioni di diritto soggettivo
afferenti al sottostante rapporto contributivo, potranno
essere corretti dal giudice ordinario, o all'esito di
proposizione di querela di falso, o a seguito di ordinaria
controversia in materia di previdenza e di assistenza
obbligatoria.
Infatti, ciò che forma oggetto di valutazione ai fini del
rilascio del certificato è la regolarità dei versamenti
effettuata dall'impresa iscritta presso la Cassa Edile, ed
in questo ambito ciò che viene in rilievo non è certo un
rapporto pubblicistico, bensì un rapporto obbligatorio
previdenziale di natura privatistica.
In altri termini, il rapporto sostanziale di cui il durc è
mera attestazione si consuma interamente in ambito
privatistico, senza che su di esso vengano ad incidere
direttamente o indirettamente poteri pubblicistici, per cui
il sindacato sullo stesso esula dall'ambito della
giurisdizione, ancorché esclusiva, di cui è titolare il
giudice amministrativo in materia di appalti.
Correttamente, pertanto, il primo giudice ha concluso sul
punto rilevando che “…essendo precluso al giudice
amministrativo disporre l'annullamento del durc, questo
Tribunale è privo di giurisdizione quanto all'impugnativa
del certificato rilasciato dalla Cassa Edile di Latina”.
---------------
Né, al riguardo,
può assumere rilievo la regolarità dei durc successivamente
rilasciati dalla stessa Cassa Edile di Latina, a seguito
della ripetizione delle somme originariamente dovute da
parte di Coem.
Infatti, come più volte affermato dalla giurisprudenza
amministrativa, la regolarità contributiva deve essere
conservata nel corso di tutto l'arco temporale impegnato
dallo svolgimento della procedura, non assumendo quindi
valore sanante l'intervento di un adempimento tardivo da
parte dell'impresa (cfr. Cons. Stato Sezione V 26.06.2012,
n. 3738; Sez. IV 15.09.2010,n. 6907; 12.03.2009,n. 1458 ).
Infine, per ciò che attiene alla asserita erroneità del durc rilasciato dalla Cassa ed alla ritenuta prevalenza di
quello rilasciato dalla Cenai, non può che farsi rinvio a
quanto già precisato al punto 3 che precede.
Peraltro, pur se in via meramente incidentale, va rilevato
al riguardo come il Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali, con specifiche circolari assunte sulla base
dell'attuale quadro normativo di riferimento, abbia
precisato che “Eventuali certificazioni di irregolarità
rilasciate da Casse edili non abilitate, pur accompagnate da
certificazioni di regolarità separate da parte degli
Istituti, non potranno …. in alcun modo sostituirsi al
Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ancorché
dette Casse abbiano in passato sottoscritto Accordi a
livello locale ovvero abbiano in corso contenzioso e merito
alla possibilità di rilasciare attestazioni di regolarità
nelle more della definizione dei procedimenti” (cfr.
circolari n. 8367 del 02.05.2012; n. 12 del 01.06.2012)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.05.2013 n. 2682 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La funzione
programmatoria propria del piano urbanistico, anche di
dettaglio, è prettamente rivolta all’ordinato sviluppo del
tessuto esistente, con la costituzione di parametri validi
per il futuro sviluppo del territorio. La funzione propria
della tutela dei valori paesaggistici è, invece, rivolta per
definizione a preservare l’esistente, una volta che
dell’esistente sia riconosciuta la portata espressiva di
quei valori. Essa ha perciò, in linea con il significato
dell’espressione “tutela” di cui all’art. 9 Cost., funzione
eminentemente conservativa e di salvaguardia del dato
pregiuridico stimato meritevole di essere preservato, e che
non è un oggetto da programmare e realizzare nel futuro.
Quanto all’oggetto della valutazione, nel primo caso
–cioè, nel contesto del piano attuativo- è la compatibilità
dell’espansione programmata con i tutelati valori
paesaggistici espressi dal territorio preso in
considerazione, e dunque riguarda solo ciò che del piano
attuativo è l’oggetto essenziale (es. opere di
urbanizzazione); nel secondo caso –cioè, riguardo ai
singoli manufatti- è, invece, la coerenza del concreto
intervento edilizio o urbanistico con il pregio riconosciuto
all’area destinata ad accoglierlo e con le eccellenze che vi
insistono, e la valutazione è volta ad evitare, a norma
dell’art. 146 (o, transitoriamente, 159) d.lgs. 22.01.2004,
n. 42, che sopravvengano alterazioni inaccettabili del
valore paesaggistico protetto.
Diversamente si cancellerebbe, contro la legge (la quale
vuole sia valutato e legittimato ogni singolo intervento) la
necessità dell’autonoma autorizzazione per ogni singola
edificazione. Per ogni intervento, infatti, devono essere
considerate le caratteristiche costruttive, il concreto
inserimento nel tessuto esistente, le dimensioni e
l’ubicazione, al fine di valutarne la compatibilità con il
vincolo.
La comparazione valorizzata dal giudice territoriale, tra
approvazione del piano urbanistico e autorizzazione
paesaggistica, sconta la riconducibilità della funzione
esercitata e dei relativi poteri a una medesima sequenza,
identica per oggetto, scopo e ampiezza di valutazione: è
invece evidente che, tra (approvazione del) piano
particolareggiato e (parere sull’) autorizzazione
paesaggistica diversa è la funzione esercitata e diverso è
l’oggetto della valutazione nella quale la funzione si
concreta.
Quanto ai primi punti, si deve osservare che la funzione
programmatoria propria del piano urbanistico, anche di
dettaglio, è prettamente rivolta all’ordinato sviluppo del
tessuto esistente, con la costituzione di parametri validi
per il futuro sviluppo del territorio. La funzione propria
della tutela dei valori paesaggistici è, invece, rivolta per
definizione a preservare l’esistente, una volta che
dell’esistente sia riconosciuta la portata espressiva di
quei valori. Essa ha perciò, in linea con il significato
dell’espressione “tutela” di cui all’art. 9 Cost., funzione
eminentemente conservativa e di salvaguardia del dato pregiuridico stimato meritevole di essere preservato, e che
non è un oggetto da programmare e realizzare nel futuro.
Quanto all’oggetto della valutazione, nel primo caso –cioè,
nel contesto del piano attuativo- è la compatibilità
dell’espansione programmata con i tutelati valori
paesaggistici espressi dal territorio preso in
considerazione, e dunque riguarda solo ciò che del piano
attuativo è l’oggetto essenziale (es. opere di
urbanizzazione); nel secondo caso –cioè, riguardo ai
singoli manufatti- è, invece, la coerenza del concreto
intervento edilizio o urbanistico con il pregio riconosciuto
all’area destinata ad accoglierlo e con le eccellenze che vi
insistono, e la valutazione è volta ad evitare, a norma
dell’art. 146 (o, transitoriamente, 159) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che sopravvengano alterazioni inaccettabili del
valore paesaggistico protetto. Diversamente –come già
questa Sezione ha rilevato (Cons. Stato, VI, 06.06.2011,
da n. 3342 a n. 3346)- si cancellerebbe, contro la legge
(la quale vuole sia valutato e legittimato ogni singolo
intervento) la necessità dell’autonoma autorizzazione per
ogni singola edificazione. Per ogni intervento, infatti,
devono essere considerate le caratteristiche costruttive, il
concreto inserimento nel tessuto esistente, le dimensioni e
l’ubicazione, al fine di valutarne la compatibilità con il
vincolo (cfr. altresì Cons. Stato, VI, 23.11.2011, n.
6156; 18.01.2012, n. 173).
Deriva da quanto sopra che nessuna interferenza del tipo
riconosciuto dal primo giudice può esistere tra
l’approvazione del piano particolareggiato, intervenuta da
ultimo nel 2006, e l’impugnato diniego dell’autorizzazione
paesaggistica, posto che tali valutazioni hanno
procedimenti, oggetti e finalità diversi e procedono da
diverse prospettive (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.05.2013 n. 2666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte urbanistiche
effettuate dal comune in sede di adozione del piano
regolatore generale costituiscono valutazioni discrezionali
attinenti al merito amministrativo che, come tali, sono
sottratte al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo in sede di giudizio impugnatorio, a meno che
non risultino inficiate da errori di fatto o da vizi di
grave illogicità, con la precisazione che le osservazioni
proposte dai cittadini e/o proprietari nei confronti degli
atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e
propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi
e, pertanto, non danno luogo a peculiari aspettative, sicché
il loro rigetto o il loro accoglimento, di regola, non
richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che
esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi
generali sottesi allo strumento pianificatorio.
Le evenienze che, invece, giustificano una più incisiva e
singolare motivazione nelle scelte pianificatorie degli
strumenti urbanistici generali sono state ravvisate nel
superamento degli standards urbanistici ed edilizi, nella
lesione dell’affidamento qualificato del privato basato su
precedenti determinazioni dell’amministrazione o su
provvedimenti giurisdizionali (ad es., derivante
dall’avvenuta stipula di convenzioni di lottizzazione, da
accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i
proprietari delle aree, da sentenze passate in giudicato di
annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di
silenzio rifiuto su una domanda di concessione), o nella
modificazione in zona agricola della destinazione di un’area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Mentre, quindi, ai fini motivazionali delle previsioni degli
strumenti urbanistici generali, è sufficiente
l’esplicitazione dei criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano,
che può essere assolta con l’espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto del piano
rielaborato, nei casi particolari, sopra evidenziati, si
configura uno specifico e puntuale obbligo motivazionale a
carico dell’amministrazione.
Al riguardo giova premettere, in linea di diritto, che
secondo costante orientamento di questo Consiglio di Stato
le scelte urbanistiche effettuate dal comune in sede di
adozione del piano regolatore generale costituiscono
valutazioni discrezionali attinenti al merito amministrativo
che, come tali, sono sottratte al sindacato di legittimità
del giudice amministrativo in sede di giudizio impugnatorio,
a meno che non risultino inficiate da errori di fatto o da
vizi di grave illogicità, con la precisazione che le
osservazioni proposte dai cittadini e/o proprietari nei
confronti degli atti di pianificazione urbanistica non
costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici
apporti collaborativi e, pertanto, non danno luogo a
peculiari aspettative, sicché il loro rigetto o il loro
accoglimento, di regola, non richiede una motivazione
analitica, essendo sufficiente che esse siano state
esaminate e confrontate con gli interessi generali sottesi
allo strumento pianificatorio.
Le evenienze che, invece, giustificano una più incisiva e
singolare motivazione nelle scelte pianificatorie degli
strumenti urbanistici generali sono state ravvisate (v. sul
punto, per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 22.12.1999,
n. 24) nel superamento degli standards urbanistici ed
edilizi, nella lesione dell’affidamento qualificato del
privato basato su precedenti determinazioni
dell’amministrazione o su provvedimenti giurisdizionali (ad
es., derivante dall’avvenuta stipula di convenzioni di
lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi tra
il Comune e i proprietari delle aree, da sentenze passate in
giudicato di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di
concessione), o nella modificazione in zona agricola della
destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo.
Mentre, quindi, ai fini motivazionali delle previsioni degli
strumenti urbanistici generali, è sufficiente
l’esplicitazione dei criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano,
che può essere assolta con l’espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto del piano
rielaborato, nei casi particolari, sopra evidenziati, si
configura uno specifico e puntuale obbligo motivazionale a
carico dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.05.2013 n. 2653 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La legittimazione del
consigliere di un ente locale, in questo caso di un
consigliere comunale, ad impugnare atti dell’organo
collegiale di appartenenza è soggetta a limiti ben precisi.
Esclusa la fattispecie in cui gli atti approvati riguardino
direttamente e personalmente il consigliere stesso, ad
esempio nel caso in cui essi pregiudichino l’interesse a
permanere nella carica rivestita e a esercitarla, tale
legittimazione infatti sussiste solo a fronte di atti lesivi
del cd. diritto all’ufficio, ovvero delle prerogative
spettanti alla persona fisica eletta alla carica, come nel
caso in cui si deduca un vizio del procedimento di
formazione dell'atto deliberativo che interferisca sul
corretto esercizio del mandato del consigliere, ad esempio
allorquando l’organo sia stato irritualmente convocato o
costituito, ovvero ne sia stato violato l’ordine del giorno,
ovvero ancora non sia stata depositata nei termini la
documentazione da fornire ai suoi membri.
Tutto ciò in omaggio alla regola per cui il processo
amministrativo è diretto di regola a risolvere controversie
intersoggettive, e non controversie fra organi o componenti
di organi di uno stesso ente, né può configurarsi come
“organo di soluzione delle contese politiche interne tra
maggioranza e minoranza”.
Secondo costante giurisprudenza, condivisa da questo
Tribunale nella sentenza sez. II 30.04.2010 n. 1660, ove
ampi richiami di conformi precedenti, e di recente ribadita
anche da C.d.S. sez. V 21.03.2012 n. 1610, correttamente
citata dal Comune intimato, la legittimazione del
consigliere di un ente locale, in questo caso di un
consigliere comunale, ad impugnare atti dell’organo
collegiale di appartenenza è soggetta a limiti ben precisi.
Esclusa la fattispecie, all’evidenza qui non ricorrente, in
cui gli atti approvati riguardino direttamente e
personalmente il consigliere stesso, ad esempio nel caso in
cui essi pregiudichino l’interesse a permanere nella carica
rivestita e a esercitarla, tale legittimazione infatti
sussiste solo a fronte di atti lesivi del cd. diritto
all’ufficio, ovvero delle prerogative spettanti alla persona
fisica eletta alla carica, come nel caso in cui si deduca un
vizio del procedimento di formazione dell'atto deliberativo
che interferisca sul corretto esercizio del mandato del
consigliere, ad esempio allorquando l’organo sia stato
irritualmente convocato o costituito, ovvero ne sia stato
violato l’ordine del giorno, ovvero ancora non sia stata
depositata nei termini la documentazione da fornire ai suoi
membri.
Tutto ciò in omaggio alla regola per cui il processo
amministrativo è diretto di regola a risolvere controversie
intersoggettive, e non controversie fra organi o componenti
di organi di uno stesso ente, né può configurarsi come “organo
di soluzione delle contese politiche interne tra maggioranza
e minoranza”, come sottolineato espressamente da C.d.S.
sez. V, 15.12.2005 n. 7122, e come a ben guardare si
vorrebbe nel caso di specie, in cui il Sindaco uscente e i
suoi compagni di gruppo politico contestano, in buona
sostanza, alla nuova maggioranza di aver modificato le loro
precedenti scelte.
Nel caso concreto, infatti, non si denuncia alcuna lesione
del diritto all’ufficio, ma si contestano atti con i quali
il Comune ha inteso realizzare una data operazione, parte
del proprio indirizzo politico amministrativo. La
legittimazione quindi non sussiste.
E’ solo per completezza che si ricorda come la
giurisprudenza invocata dai ricorrenti a sostegno
dell’opposta loro tesi sia in realtà non esattamente
pertinente. In dettaglio, C.d.S. sez. V 31.01.2001 n. 358 e
TAR Liguria sez. II 15.02.2007 n. 231 sono sulla stessa
linea qui sostenuta, e negano la legittimazione,
rispettivamente quanto alla impugnazione degli atti relativi
ad un’opera pubblica e all’approvazione dello strumento
urbanistico generale. Viceversa, TAR Lombardia Brescia
11.08.2004 n. 889 e 19.06.2006 n. 752, TAR Lombardia Milano
sez. III 24.06.2004 n. 2664, nonché 06.05.2004 n. 1622,
confermata da C.d.S. sez. V 03.03.2005 n. 832, riguardano
proprio casi di lesione delle prerogative del consigliere,
ovvero la sottrazione di competenze al consiglio da parte
della giunta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.05.2013 n. 475 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E' del tutto noto che la
motivazione di un qualunque provvedimento amministrativo
deve consentire in modo agevole di ripercorrere il percorso
logico seguito nell’emanare il provvedimento stesso: sul
principio, si veda per tutte. La regola è intesa in modo
ampio, nel senso che la motivazione si considera presente in
tutti i casi in cui anche “a prescindere dal tenore
letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria
offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni… della determinazione
assunta”; rimane fermo però che tale ricostruzione deve
essere possibile, e non meramente ipotetica o congetturale.
L’onere di motivazione poi, come previsto in modo espresso
dall’art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, può essere assolto
anche con il rinvio esplicito ad uno degli atti del
procedimento, cd. motivazione per relationem: come dispone
il comma 3 dell’articolo in questione, infatti, “se le
ragioni della decisione risultano da altro atto
dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa,
insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere
indicato e reso disponibile, a norma della presente legge,
anche l'atto cui essa si richiama”.
In termini
generali, è del tutto noto, e condiviso da questo Collegio,
che la motivazione di un qualunque provvedimento
amministrativo deve consentire in modo agevole di
ripercorrere il percorso logico seguito nell’emanare il
provvedimento stesso: sul principio, si veda per tutte
C.d.S. sez. V 11.11.2005 n. 6347. La regola è intesa in modo
ampio, nel senso che la motivazione si considera presente in
tutti i casi in cui anche “a prescindere dal tenore
letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria
offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni… della determinazione
assunta”, come affermato di recente da C.d.S. sez. IV
10.05.2005 n. 2231; rimane fermo però che tale ricostruzione
deve essere possibile, e non meramente ipotetica o
congetturale.
L’onere di motivazione poi, come previsto in modo espresso
dall’art. 3 della l. 07.08.1990 n. 241, può essere assolto
anche con il rinvio esplicito ad uno degli atti del
procedimento, cd. motivazione per relationem: come
dispone il comma 3 dell’articolo in questione, infatti, “se
le ragioni della decisione risultano da altro atto
dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa,
insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere
indicato e reso disponibile, a norma della presente legge,
anche l'atto cui essa si richiama”. In proposito, come
ha chiarito la giurisprudenza, l’atto richiamato deve essere
offerto in copia o per lo meno in visione, e ciò su istanza
di parte, si che non può dolersi di un difetto di
motivazione chi non possa provare di avere richiesto
l’accesso all’atto e di non essere stato in ciò soddisfatto:
così sul punto C.d.S. sez. IV 24.12.2007 n. 6653 e
20.10.2000 n. 5619
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.05.2013 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 38, comma 1, lettera f), nello stabilire
che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di
affidamento delle concessioni, degli appalti i soggetti che
“secondo motivata valutazione della stazione appaltante,
hanno commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione
delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che
bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave
nell’esercizio della loro attività professionale, accertato
con qualunque mezzo di prova dalla stazione appaltante”
comprende due ipotesi, l’una relativa a
prestazioni affidate dalla stessa amministrazione che ha
bandito l’appalto e l’altra che riguarda la
negligenza professionale anche in rapporti con altre
amministrazioni.
La vicenda relativa alla grave inadempienza con soggetto
diverso dall’amministrazione che ha bandito la gara rientra
per l’appunto nella seconda parte della disposizione, che
consente la valutazione dei precedenti professionali delle
imprese concorrenti anche in rapporti contrattuali
intercorsi con amministrazioni diverse da cui desumere,
eventualmente, l’affidabilità dell’impresa che concorre;
l’accertamento del grave errore professionale può avvenire
con qualsiasi mezzo di prova ed è rimesso al giudizio
insindacabile dell’amministrazione , salvo il limite della
abnormità che non si registra nel caso di specie.
La questione centrale della controversia riguarda
l’interpretazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs.
n. 163 del 2006 e l’erronea applicazione della suddetta
disposizione da parte della stazione appaltante che non
aveva esclusa Gema dalla gara, malgrado avesse reso falsa
dichiarazione in ordine a detto requisito.
L’art. 38, comma 1, lettera f), nello stabilire che sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento
delle concessioni, degli appalti i soggetti che “secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualunque
mezzo di prova dalla stazione appaltante” comprende due
ipotesi, l’una relativa a prestazioni affidate dalla stessa
amministrazione che ha bandito l’appalto e l’altra che
riguarda la negligenza professionale anche in rapporti con
altre amministrazioni.
La vicenda relativa alla grave inadempienza con soggetto
diverso dall’amministrazione che ha bandito la gara rientra
per l’appunto nella seconda parte della disposizione, che
consente la valutazione dei precedenti professionali delle
imprese concorrenti anche in rapporti contrattuali
intercorsi con amministrazioni diverse da cui desumere,
eventualmente, l’affidabilità dell’impresa che concorre;
l’accertamento del grave errore professionale può avvenire
con qualsiasi mezzo di prova ed è rimesso al giudizio
insindacabile dell’amministrazione , salvo il limite della
abnormità che non si registra nel caso di specie (cfr. in
termini, Cons. Stato, sez. V, 15.03.2010, n. 1500; 14.04.2008, n. 1716; sez. VI, 10.05.2007, n. 2245;
determinazione Autorità di vigilanza n. 1 del 2010 cui si
rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2610 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ordine alla gratuità degli interventi in zona
agricola, l’art. 9, comma 1, lett. a), della l. n. 10 del
1977 (oggi art. 17, co. 3, lett. a), t.u. edilizia) prevede
una duplice condizione:
a) che la zona di intervento abbia nello strumento
urbanistico destinazione agricola;
b) che l’intervento sia funzionale allo sfruttamento
agricolo del fondo.
Non è sufficiente quindi la destinazione agricola dell’area
interessata dalla costruzione, essendo, invece, necessaria
la concorrenza della destinazione della costruzione allo
sfruttamento del fondo che presuppone la qualità soggettiva
del richiedente, di imprenditore agricolo a titolo
principale.
In ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è
univoca nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da
delimitarne l’ambito esclusivamente all’imprenditore
agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, l.
09.05.1975, n. 153.
La gratuità della concessione edilizia è, dunque, prevista
ove concorrano qualità soggettive del richiedente,
che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e
qualità oggettive del fabbricato da erigersi.
In ordine alla gratuità degli interventi in zona agricola, l’art. 9,
comma 1, lett. a), della l. n. 10 del 1977 (oggi art. 17, co.
3, lett. a), t.u. edilizia), rinviando all’art. 12 della l.
09.05.1975, n. 153 (successivamente abrogato dall’art. 1
del d.lgs. 29.03.2004 n. 99 a sua volta modificato
dall’art. 1 d.lgs. 27.05.2005, n. 101), prevede una
duplice condizione:
a) che la zona di intervento abbia nello strumento
urbanistico destinazione agricola;
b) che l’intervento sia funzionale allo sfruttamento
agricolo del fondo.
Non è sufficiente quindi la destinazione agricola dell’area
interessata dalla costruzione, essendo, invece, necessaria
la concorrenza della destinazione della costruzione allo
sfruttamento del fondo che presuppone la qualità soggettiva
del richiedente, di imprenditore agricolo a titolo
principale.
In ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è
univoca nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da
delimitarne l’ambito esclusivamente all’imprenditore
agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153 (cfr. Cons. Stato, sez. V,
02.09.1990, n. 682; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 03.10.2005,
n. 1533; Palermo, sez. I, 15.07.2004, n. 1554).
La gratuità della concessione edilizia è, dunque, prevista
ove concorrano qualità soggettive del richiedente, che deve
essere imprenditore agricolo a titolo principale, e qualità
oggettive del fabbricato da erigersi.
Nel caso non sussistevano tali requisiti soggettivi, in
disparte ogni considerazione sul tipo di costruzione,
consistente nell’ampliamento di una villa residenziale
destinata ad abitazione permanente, che per struttura è ben
lontana da potersi ritenere destinata a scopi agricoli.
Quanto all’asserita applicabilità della esenzione al
fabbricato da destinare ad abitazione dell’imprenditore
agricolo, in disparte la questione di principio
sull’ammissibilità della interpretazione estensiva di una
norma derogatoria, nel caso non poteva trovare ingresso
l’esenzione non avendo mai la ricorrente provato la qualità
di imprenditore agricolo ai sensi della richiamata l. n. 153
del 1975, che deve coesistere con la destinazione
dell’intervento alla destinazione agricola.
In conclusione, il Sindaco legittimamente ha richiesto il
pagamento degli oneri contemplati dall’art. 3 della l.
28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione edilizia
in questione, in mancanza di allegazione da parte
dell’istante della documentazione attestante il possesso dei
requisiti per beneficiare di siffatta esenzione (in termini,
Cons. Stato, sez. V, 02.09.1990, n. 682) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2609 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I pareri sulle delibere
di giunta/consiglio rilevano solo sul piano interno,
pertanto la loro assenza si traduce in una mera irregolarità
e non ridonda in un vizio di legittimità.
Del pari infondate sono le censure imperniate sull’assenza
del parere di regolarità contabile e sulla necessità che il
parere tecnico venisse espresso dal Responsabile per il
personale e non dal Segretario comunale, ma per ragioni
diverse da quelle poste a base dell’impugnata sentenza
(secondo cui il primo non sarebbe necessario non comportando
un impegno di spesa, mentre il secondo sarebbe stato
correttamente espresso dal Segretario comunale sulla scorta
di una non condivisibile esegesi del comma 3 dell’art. 49,
t.u. enti locali.),
Invero, secondo un consolidato orientamento di questo
Consiglio, da cui non si ravvisano ragioni per decampare
(cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez IV,
22.06.2006, n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670),
i pareri in questione rilevano solo sul piano interno,
pertanto, la loro assenza si traduce in una mera
irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2607 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La stipula del contratto
preliminare, ed invero nemmeno quella del contratto
definitivo, non escludono affatto la legittimazione, della
stazione appaltante, all’annullamento del provvedimento di
aggiudicazione.
Invero, "il provvedimento di aggiudicazione definitiva non
costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile
al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che
all’annullamento degli atti amministrativi che ne
costituiscono il presupposto.
Ed ancora, “non può accogliersi la tesi propugnata dalle
appellanti secondo cui le sole (peraltro pacifiche)
circostanze dell’intervenuta stipulazione del contratto e
della sua attuale esecuzione, costituirebbero elementi
sufficienti ad escludere nella fattispecie in esame la
giurisdizione del giudice amministrativo e a radicare quella
del giudice ordinario. Di fronte all’esercizio del potere di
annullamento la situazione del privato è di interesse
legittimo, a nulla rilevando che tale esercizio, in ultima
analisi, produca effetti indiretti su di un contratto
stipulato da cui sono derivati diritti.”
Le argomentazioni esposte legittimano, in conclusione, la decisione
dell’Amministrazione di non procedere alla stipula del
contratto definitivo, implicita nell’annullamento d’ufficio
dell’aggiudicazione.
Inoltre, la stipula del contratto preliminare, ed invero
nemmeno quella del contratto definitivo, non escludono
affatto la legittimazione, della stazione appaltante,
all’annullamento del provvedimento di aggiudicazione.
C. di S., V, 07.09.2011, n. 5032, ha infatti stabilito
che “il provvedimento di aggiudicazione definitiva non
costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile
al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che
all’annullamento degli atti amministrativi che ne
costituiscono il presupposto”; “non può accogliersi la tesi
propugnata dalle appellanti secondo cui le sole (peraltro
pacifiche) circostanze dell’intervenuta stipulazione del
contratto e della sua attuale esecuzione, costituirebbero
elementi sufficienti ad escludere nella fattispecie in esame
la giurisdizione del giudice amministrativo e a radicare
quella del giudice ordinario.
Di fronte all’esercizio del potere di annullamento la
situazione del privato è di interesse legittimo, a nulla
rilevando che tale esercizio, in ultima analisi, produca
effetti indiretti su di un contratto stipulato da cui sono
derivati diritti.” (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il decreto del Presidente
della Repubblica, che decide il ricorso straordinario in
conformità del parere del Consiglio di Stato, è impugnabile
con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, comma 1,
cod. proc. civ., solo per motivi attinenti alla
giurisdizione, e non anche con le altre censure di diritto
previste dall’art. 360 cod. proc. civ., e il decreto
decisorio sul ricorso straordinario, una volta divenuto
definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo ed è,
quindi, suscettibile di essere azionato nel giudizio di
ottemperanza.
Giova rilevare, in linea di diritto, che secondo
orientamento ormai consolidato della Corte regolatrice il
decreto del Presidente della Repubblica, che decide il
ricorso straordinario in conformità del parere del Consiglio
di Stato, è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi
dell’art. 362, comma 1, cod. proc. civ., solo per motivi
attinenti alla giurisdizione, e non anche con le altre
censure di diritto previste dall’art. 360 cod. proc. civ., e
che il decreto decisorio sul ricorso straordinario, una
volta divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato
amministrativo ed è, quindi, suscettibile di essere azionato
nel giudizio di ottemperanza (v. in tal senso, da ultimo,
Cass. Civ., Sez. Un., 19.12.2012, n. 23464, con ulteriori
richiami giurisprudenziali) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In materia di accesso alla documentazione
amministrativa, nella nozione di <pubblica amministrazione>
la legge [art. 22, comma 1, lett. e), della legge n. 240 del
1990] ricomprende anche i soggetti di diritto privato, sia
pur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
E’ da premettere che, in materia di accesso alla documentazione
amministrativa, nella nozione di <pubblica amministrazione>
la legge [art. 22, comma 1, lett. e), della legge n. 240 del
1990] ricomprende anche i soggetti di diritto privato, sia
pur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
Ciò detto, il Collegio condivide la lettura interpretativa
fornita dal Giudice di primo grado riguardo
all’ammissibilità ed alla fondatezza, nel caso in esame,
della istanza ostensiva proposta dai partecipanti alla
selezione dei mandatari SIAE per le sedi Agropoli e
Sorrento.
Anzitutto non appare fondata la censura proposta
dall’appellante in relazione alla pretesa carenza di nesso
strumentale tra accesso ed esigenze di difesa in giudizio
delle proprie ragioni, a seguito della pronuncia
declinatoria della giurisdizione sul capo di domanda di
primo grado afferente la legittimità degli atti della
procedura selettiva.
In ossequio al principio della translatio iudicii, il
Tar ha infatti correttamente disposto che la causa
principale debba proseguire dinanzi al giudice civile munito
di giurisdizione e, pertanto, il vincolo di strumentalità
rispetto alle esigenze defensionali prospettate dagli
originari ricorrenti permane, essendo ininfluente che sia il
giudice ordinario anziché il giudice amministrativo ad
essere investito della decisione nel merito: al di là del
profilo della corretta individuazione del giudice munito di
giurisdizione, nel caso in esame l’accesso è funzionale ad
una più proficua difesa degli interessi degli originari
ricorrenti, i quali attraverso l’acquisizione della
documentazione richiesta vorrebbero meglio comprendere per
quali ragioni siano stati preferiti loro altri soggetti
quali mandatari nelle indicate sedi.
Vero è che nei poteri istruttori del giudice ordinario
dinanzi al quale proseguirà il giudizio di merito è
senz’altro ricompreso quello di acquisire al giudizio gli
atti oggetto della richiesta ostensiva, ma non par dubbio
che l’acquisizione preventiva di tale documentazione, in
esecuzione dell’ordine di esibizione conseguente
all’accoglimento del ricorso contro il diniego di accesso,
possa risultare utile alle odierne parti appellate, al fine
di apprestare una più proficua linea difensiva dinanzi al
giudice munito di giurisdizione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2566 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A fronte di un’istanza
tesa all’esercizio dei suoi poteri repressivi in materia
edilizia, l’inerzia del Comune consente all’interessato di
ricorrere avverso il suo silenzio.
Contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, nella specie è
rilevabile un’inerzia in senso tecnico dell’amministrazione
comunale, dato che la stessa avrebbe dovuto ultimare il
procedimento sanzionatorio avviato, adottando, a seguito
dell’emanazione dell’ingiunzione di demolizione, i
provvedimenti e gli atti materiali ulteriori, diretti a
darvi piena attuazione.
Infatti, al dovere di concludere il procedimento, previsto
dall’art. 2, comma 1, l. n. 241/1990, si accompagna l’art.
21-quater della legge medesima, il quale dispone che “i
provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti
immediatamente”, sicché l’applicazione congiunta delle due
disposizioni configura, in esplicazione del principio di
esecutorietà dei provvedimenti amministrativi –ossia, della
loro idoneità ad essere eseguiti, direttamente e
coattivamente, dall’amministrazione senza necessità di
precostituire un titolo esecutivo giudiziale– un
potere-dovere dell’amministrazione di portare ad effettiva
attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del
procedimento.
Ovviamente, il sopra richiamato art. 21-quater va
interpretato in connessione con le disposizioni del testo
unico n. 380 del 2001 sull’obbligo di eseguire l’ordinanza
di demolizione entro il termine di novanta giorni successivi
alla sua notifica, decorso il quale l’amministrazione ha lo
specifico dovere di emanare gli atti conseguenti e di porre
in essere –a spese dell’inadempiente– l’attività materiale
di adeguamento dello stato di fatto a quello di diritto.
Ne deriva che a fronte di un’istanza tesa all’esercizio dei
suoi poteri repressivi in materia edilizia, l’inerzia del
Comune consente all’interessato di ricorrere avverso il suo
silenzio (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Quando siano in causa espressioni di
discrezionalità tecnica, in quanto fondata sul difetto di
istruttoria e motivazione dell’atto all’esame, il giudice di
legittimità può “intervenire solo in presenza di vizi
macroscopici di illegittimità o di travisamento dei fatti
ictu oculi rilevabile”.
A quanto rilevato deve, peraltro, aggiungersi che per
costante giurisprudenza, da cui il Collegio medesimo non
ravvisa ragioni per discostarsi, quando siano in causa
espressioni di discrezionalità tecnica, come nel caso della
valutazione di cui alla nota soprintendentizia n. 1148 del
2011, in quanto fondata sul difetto di istruttoria e
motivazione dell’atto all’esame, il giudice di legittimità
può “intervenire solo in presenza di vizi macroscopici di
illegittimità o di travisamento dei fatti ictu oculi
rilevabile”: vizi questi che non risultano riscontrabili nel
provvedimento soprintendentizio impugnato (Cons. di Stato,
Sez. IV, 03.05.2007, n. 2781).
Osserva, altresì, il Collegio, riguardo alle censure
avanzate dalla signora Moscatello nella memoria dell’08.01.2013, relativamente alla compatibilità ambientale
del manufatto nel caso in cui rimanga “montato” oltre il
periodo estivo, che, come già rilevato con recente pronuncia
della Sezione per un caso analogo (Cons. Stato, Sez. VI,
07.09.2012, n. 4761):
a) l'esistenza di una autorizzazione che attesti la
compatibilità ambientale e paesaggistica delle opere in
questione per il solo periodo estivo non comporta
necessariamente che tale compatibilità sussista anche per il
periodo invernale;
b) la limitazione temporale dell'autorizzazione al solo
periodo estivo risulta, infatti, frutto di un complessivo
bilanciamento fra gli interessi dei privati e quelli
pubblici connessi con la necessità di tutela del paesaggio
garantita dall'art. 9 della Costituzione, che ha trovato il
suo punto di equilibrio proprio nella limitata incidenza
temporale del manufatto sull’ambiente circostante;
c) non può, infine, trovare accoglimento anche la censura
dedotta dall’appellata concernente il fatto che la rimozione
delle strutture in esame determinerebbe danni ambientali
maggiori rispetto al loro mantenimento poiché tale rilievo
non risulta adeguatamente supportato dagli atti di causa e
non sarebbe comunque idoneo a far ritenere irragionevoli le
valutazioni espresse dall’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2564 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare d’appalto,
ciascun membro di un’associazione temporanea può impugnare a
titolo individuale gli atti della procedura, atteso che il
fenomeno del raggruppamento di imprese non dà luogo a
un’entità giuridica autonoma che escluda la soggettività
delle singole imprese che lo compongono.
Tale legittimazione –che si correla alla posizione
sostanziale di interesse legittimo alla regolarità della
procedura concorsuale, in relazione ai poteri autoritativi
che fanno capo alla stazione appaltante nella fase di
evidenza pubblica della selezione del contraente, ed alla
consequenziale pretesa al risarcimento dei danni (in forma
specifica e/o per equivalente monetario)– non viene meno, né
trova limite quanto all’oggetto ed agli effetti della
domanda di annullamento e della connessa domanda
risarcitoria, ove taluno degli iniziali litisconsorti,
individuati fra le imprese del raggruppamento costituito o
costituendo, non impugni la sentenza sfavorevole di primo
grado (oppure rinunzi al ricorso in corso di causa).
Ritiene la Sezione che è infondata l’eccezione di inammissibilità
dell’appello, in quanto:
- per il consolidato orientamento giurisprudenziale di
questo Consiglio di Stato, nelle gare d’appalto, ciascun
membro di un’associazione temporanea può impugnare a titolo
individuale gli atti della procedura, atteso che il fenomeno
del raggruppamento di imprese non dà luogo a un’entità
giuridica autonoma che escluda la soggettività delle singole
imprese che lo compongono (v., per tutte, Cons. St., Ad.
Plen., 15.04.2010, n. 1);
- tale legittimazione –che si correla alla posizione
sostanziale di interesse legittimo alla regolarità della
procedura concorsuale, in relazione ai poteri autoritativi
che fanno capo alla stazione appaltante nella fase di
evidenza pubblica della selezione del contraente, ed alla
consequenziale pretesa al risarcimento dei danni (in forma
specifica e/o per equivalente monetario)– non viene meno, né
trova limite quanto all’oggetto ed agli effetti della
domanda di annullamento e della connessa domanda
risarcitoria, ove taluno degli iniziali litisconsorti,
individuati fra le imprese del raggruppamento costituito o
costituendo, non impugni la sentenza sfavorevole di primo
grado (oppure rinunzi al ricorso in corso di causa) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2563 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La pubblicazione all’albo pretorio non è
sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena
conoscenza dell’atto da parte dei soggetti, ai quali l’atto
direttamente si riferisce e interessati a impugnarlo, ai
quali il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine
d’impugnazione, deve essere notificato o comunicato
direttamente.
L’art. 21 l. n. 1034 del 1971 prevede che il termine decadenziale
di sessanta giorni per impugnare l’atto amministrativo
decorre dal momento in cui «l’interessato ne abbia ricevuta
la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o,
per gli atti di cui non sia richiesta la notifica
individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della
pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di
legge o di regolamento» (v. ora art. 41, secondo comma, Cod.
proc. amm.).
L’art. 124 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)
prevede che «tutte le deliberazioni del Comune e della
Provincia sono pubblicate mediante affissione all’albo
pretorio, nella sede dell'ente, per quindici giorni
consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge».
Il Consiglio di Stato, con orientamento costante, afferma
che la pubblicazione all’albo pretorio non è sufficiente a
determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza
dell’atto da parte dei soggetti, ai quali l’atto
direttamente si riferisce e interessati a impugnarlo, ai
quali il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine
d’impugnazione, deve essere notificato o comunicato
direttamente (da ultimo, Cons. Stato, V, 15.03.2011, n.
1589) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2544 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Affinché possa considerarsi esistente una servitù
pubblica di passaggio su una strada occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di
persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in
una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della
pubblica amministrazione.
La
giurisprudenza, con orientamento costante cui la Sezione
aderisce, ritiene che affinché possa considerarsi esistente
una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che
essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di
persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in
una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia
concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di
manutenzione da parte della pubblica amministrazione (ex multis, Cons. Stato, IV, 24.02.02011, n. 1240; IV,
n. 2760 del 2012, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2544 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha
costantemente affermato, quanto all’oggetto della
valutazione paesaggistica nel contesto del procedimento di
condono edilizio, che il detto parere «ha natura e funzioni
identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della
legge 29.06.1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti il
presupposto legittimante la trasformazione urbanistico
edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere
ministeriale di annullamento del parere favorevole alla
sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in
quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come
estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale
primario».
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato afferma anche
che il potere di annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica da parte della Soprintendenza, che esprime non
un potere di controllo, bensì una manifestazione di
cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema
difesa, se non comporta un riesame di merito delle
valutazioni dell’ente competente, nondimeno impone la
valutazione dell’atto di base anche in tutti i profili che
possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un
eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il
difetto di motivazione, che si ha quando l’ente che rilascia
l’atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di
motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell’opera. In questo caso gli organi
ministeriali annullano l’atto locale per difetto di
motivazione e possono indicare –anche per evidenziare il
vizio di eccesso di potere– le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità dell’intervento edilizio
con i valori tutelati.
In relazione alla disciplina dell’autorizzazione
paesaggistica, alla sua durata e ai controlli sui di essa
effettuabili, la legge 29.06.1939, n. 1497 (Protezione
delle bellezze naturali) prevedeva che i proprietari,
possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di immobili
vincolati, ai sensi delle previsioni contenute nella stessa
legge, avrebbero dovuto ottenere una apposita autorizzazione
dalle autorità competenti per i lavori che intendessero
eseguire. Il potere di annullamento ministeriale fu poi
disciplinato, a seguito del riordino delle competenze tra
Stato e regioni, dall’art. 82 d.P.R. 24.07.1977, n. 616,
come modificato dall’art. 1 d.l. 27.06.1985, n. 312,
come convertito dalla l. 08.08.1985, n. 431.
Il decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (Testo unico
delle disposizioni legislative in materia di beni culturali
e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 08.10.1997, n. 352), applicabile
ratione temporis, ha formalmente
abrogato, sostanzialmente riordinandola, la legge n. 1497
del 1939, ribadendo all’art. 151 la necessità, in presenza
di immobili vincolati, del rilascio dell’autorizzazione ad
effettuare lavori, con potere ministeriale di annullare
l’autorizzazione rilasciata in sede regionale o locale.
La materia è stata poi regolata dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio). In particolare, l’art. 159 prevede un regime
transitorio operante –in sostanziale continuità della
fattispecie normativa rispetto alle citate discipline
precedenti– fino al 31.12.2009.
In relazione al c.d. condono edilizio, o sanatoria
straordinaria, la disciplina rilevante è, mediante rinvio
anche per i condoni edilizi successivi a quello del 1985 (l.
23.12.1994, n. 724; d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. dalla l. 24.11.2003, n. 326) contenuta negli
artt. 31 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere edilizie). In particolare, l’art. 32 dispone che «il
rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per
opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è
quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha
costantemente affermato, quanto all’oggetto della
valutazione paesaggistica nel contesto del procedimento di
condono edilizio, che il detto parere «ha natura e funzioni
identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della
legge 29.06.1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti
il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico
edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere
ministeriale di annullamento del parere favorevole alla
sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in
quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come
estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale
primario» (es. Cons. Stato, VI, 15.03.2007, n. 1255).
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato afferma
anche che il potere di annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica da parte della Soprintendenza, che esprime non
un potere di controllo, bensì una manifestazione di
cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema
difesa, (cfr. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14.02.2001, n. 9) se non comporta un riesame di merito delle
valutazioni dell’ente competente, nondimeno impone la
valutazione dell’atto di base anche in tutti i profili che
possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un
eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il
difetto di motivazione, che si ha quando l’ente che rilascia
l’atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di
motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell’opera. In questo caso gli organi
ministeriali annullano l’atto locale per difetto di
motivazione e possono indicare –anche per evidenziare il
vizio di eccesso di potere– le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità dell’intervento edilizio
con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, VI, 20.12.2012, n. 6585; Cons. Stato, VI, 18.01.2012, n.
173; VI, 28.12.2011, n. 6885; VI, 21.09.2011, n. 5292) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.05.2013 n. 2535 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia è
necessaria, anche qualora non sussistano i presupposti che
ne comportano l'obbligatorietà, quando gli elementi
dell'offerta e l'entità del ribasso complessivo non trovino
adeguata giustificazione negli atti e presentino evidenti o
comunque seri dubbi di anomalia, in attuazione dei principi
generali di efficacia, imparzialità, parità di trattamento e
buon andamento dell'azione amministrativa.
---------------
Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in
sede di verifica di anomalia delle offerte deve ritenersi
circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica
erroneità o irragionevolezza, in considerazione della
discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali
riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio
margine di apprezzamento.
E tale principio deve ritenersi applicabile anche nella fase
(precedente), in cui l’amministrazione ritiene di utilizzare
(o non utilizzare) la facoltà di procedere al controllo di
anomalia, ai sensi dell’art. 86, comma 3, del codice dei
contratti pubblici.
Si deve poi aggiungere che è la scelta di effettuare la
verifica facoltativa di anomalia che esige una espressa ed
adeguata motivazione (in ordine alle ragioni ed agli
elementi di fatto sulla base dei quali essa si sia risolta
nel senso di attendere alla verifica di anomalia ai sensi
del citato comma 3), mentre una motivazione non è
(normalmente) necessaria quando l’amministrazione ritiene di
non dover far uso di tale facoltà, il cui mancato esercizio
non è pertanto censurabile.
Neppure ricorrevano le condizioni per l’attivazione del controllo
facoltativo di cui al comma 3, del citato articolo 86,
secondo cui «le stazioni appaltanti possono valutare la
congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi
specifici, appaia anormalmente bassa».
In proposito questa Sezione ha, di recente, affermato che
nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia è necessaria,
anche qualora non sussistano i presupposti che ne comportano
l'obbligatorietà, quando gli elementi dell'offerta e
l'entità del ribasso complessivo non trovino adeguata
giustificazione negli atti e presentino evidenti o comunque
seri dubbi di anomalia, in attuazione dei principi generali
di efficacia, imparzialità, parità di trattamento e buon
andamento dell'azione amministrativa (Consiglio di Stato,
sez. III, 14.12.2012, n. 6442).
---------------
Peraltro, si
deve anche ricordare che l’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, con la decisione n. 36 del 29.11.2012, ha
affermato che il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni
compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte deve
ritenersi circoscritto ai soli casi di manifesta e
macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione
della discrezionalità che connota dette valutazioni, come
tali riservate alla stazione appaltante cui compete il più
ampio margine di apprezzamento.
E tale principio deve ritenersi applicabile anche nella fase
(precedente), in cui l’amministrazione ritiene di utilizzare
(o non utilizzare) la facoltà di procedere al controllo di
anomalia, ai sensi dell’art. 86, comma 3, del codice dei
contratti pubblici.
Si deve poi aggiungere che, come pure ricordato dal
TAR, è la scelta di effettuare la verifica facoltativa di
anomalia che esige una espressa ed adeguata motivazione (in
ordine alle ragioni ed agli elementi di fatto sulla base dei
quali essa si sia risolta nel senso di attendere alla
verifica di anomalia ai sensi del citato comma 3), mentre
una motivazione non è (normalmente) necessaria quando
l’amministrazione ritiene di non dover far uso di tale
facoltà (Consiglio di Stato, sez. VI, 27.07.2011, n. 4489),
il cui mancato esercizio non è pertanto censurabile
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 10.05.2013 n. 2533 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'attività repressiva in tema di opere
edilizie abusive non è necessaria la previa comunicazione
dell' avvio procedimentale di cui all'art. 7 l. 241/1990,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato; sicché
l'ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera edilizia
e, proprio in quanto atto vincolato, l'ordinanza medesima
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione.
---------------
Avuto riguardo alla natura tipicamente vincolata dell’ordine
di demolizione in esame, l’impugnato provvedimento non
necessitava di una particolare motivazione, diversa da
quella consistente nell’indicazione del tipo di abuso
realizzato dal ricorrente, e delle norme da lui violate.
---------------
La giurisprudenza prevalente considera che la valutazione in
ordine alla necessità della concessione edilizia per la
realizzazione di opere di recinzione vada effettuata sulla
scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle
opere e loro destinazione e funzione.
Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso
di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali ad esempio
recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti di ferro
o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro
tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra
le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle
singole proprietà.
Viceversa, è necessario il permesso di costruire, quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica.
Si legge nell’impugnato provvedimento che i ricorrenti hanno
realizzato “… una recinzione in c.a. dell’altezza fuori
terra di mt. 3,50 circa, dal livello della strada privata
che fronteggia l’area, con tre accessi chiusi da un portone
in ferro. Sul lato della recinzione … è stato realizzato un
muro di contenimento in c.a. dell’altezza variabile tra mt
3,00 e mt. 5,00 con una lunghezza di mt. 38 circa”.
Tale essendo la ricostruzione in fatto operata
dall’amministrazione, e considerato altresì che l’impugnato
provvedimento dà conto che “trattasi di opere realizzate in
assenza di permesso di costruire”, occorre ora stabilire se
tale impianto motivazionale soddisfa il relativo obbligo di
cui all’art. 3 l. n. 241/1990.
A tal riguardo, premette il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza amministrativa, “nell'attività repressiva in
tema di opere edilizie abusive non è necessaria la previa
comunicazione dell' avvio procedimentale di cui all'art. 7
l. 241/1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato; sicché l'ordinanza di demolizione è
sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata
abusività dell'opera edilizia e, proprio in quanto atto
vincolato, l'ordinanza medesima non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione” (TAR Campania, Salerno, II, 28.11.2012, n.
2161. In senso confermativo, cfr. altresì, ex multis, TAR
Campania, Napoli, III, 04.12.2012, n. 4913; TAR Friuli
Venezia Giulia, I, 20.12.2012, n. 498; TAR Lazio, II,
05.09.2012, n. 7570; TAR Liguria, I, 24.07.2012, n. 1073; TAR
Sardegna, II, 23.07.2012, n. 747).
Tanto chiarito, e venendo ora al caso di specie, reputa
il Collegio che, avuto riguardo alla natura tipicamente
vincolata dell’ordine di demolizione in esame, l’impugnato
provvedimento non necessitava di una particolare
motivazione, diversa da quella consistente nell’indicazione
del tipo di abuso realizzato dal ricorrente, e delle norme
da lui violate. E poiché l’impugnata ordinanza reca compiute
indicazioni in entrambi i sensi or ora menzionati, essa si
sottrae senz’altro alle censure lamentate in parte qua dal
ricorrente.
---------------
Con il secondo
motivo di ricorso, deducono i ricorrenti l’illegittimità
dell’impugnato provvedimento, in quanto assunto sul falso
presupposto dell’assenza di permesso di costruire. A tal
riguardo, deducono i ricorrenti che la presentazione, in
data 15.06.2006, di denuncia di inizio di attività, sia
sufficiente a ritenere integrata la sussistenza di regolare
titolo edilizio.
L’assunto è infondato.
La giurisprudenza prevalente, cui il Collegio aderisce,
considera che la valutazione in ordine alla necessità della
concessione edilizia per la realizzazione di opere di
recinzione vada effettuata sulla scorta dei seguenti due
parametri: natura e dimensioni delle opere e loro
destinazione e funzione (TAR Lazio Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2003, n. 6196).
Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso
di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali ad esempio
recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti di ferro
o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro
tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra
le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle
singole proprietà (TAR Campania Napoli, sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Campania Napoli, sez. IV,
08.05.2007, n. 4821; TAR Emilia Romagna, sez. II, 26.01.2007, n. 82; TAR Veneto Venezia, sez. II,
07.03.2006, n. 533).
Viceversa, è necessario il permesso di costruire, quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica (TAR Campania, Napoli, IV, 03.04.2012, n. 1542;
TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897) o da
opera muraria (Cassazione penale , sez. III, 13.12.2007, n. 4755).
Ciò chiarito, e venendo ora al caso di specie, si legge
nell’impugnato provvedimento che l’abuso in esame consiste
in una recinzione in c.a. dell’altezza fuori terra di mt.
3,50 circa, con tre accessi chiusi da un portone in ferro.
Inoltre, sul lato della recinzione è stato realizzato un
muro di contenimento in c.a. dell’altezza variabile tra mt.
3,00 e mt. 5,00, con una lunghezza di mt. 38 circa.
Avuto riguardo a tale descrizione delle opere in esame, è
pertanto di tutta evidenza che i ricorrenti hanno realizzato
non già una struttura precaria, ma un’opera che, per natura
e dimensioni, può senz’altro definirsi permanente, incidendo
in maniera durevole sull’assetto del territorio.
Ne discende che i ricorrenti avrebbero dovuto premunirsi di
permesso di costruire, non essendo sufficiente una mera
denuncia di inizio attività. E poiché essi non hanno in tal
senso operato, del tutto legittimamente l’amministrazione ha
ordinato la demolizione delle opere da loro abusivamente
realizzate
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 10.05.2013 n. 714 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce attività vincolata della p.a. con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio
del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto, né essendo
necessario acquisire il parere di organi, quali la
Commissione edilizia integrata.
Va infine
esaminato il quarto motivo di gravame, con il quale i
ricorrenti si dolgono della mancata acquisizione del parere
della commissione edilizia comunale.
Il motivo è infondato.
Costituisce approdo giurisprudenziale del tutto
condiviso quello secondo cui: “l'esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce attività
vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio di comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto, né essendo necessario acquisire
il parere di organi, quali la Commissione edilizia
integrata” (C.d.S, V, 09.06.2012, n. 3337).
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, deve
pertanto ritenersi del tutto irrilevante, nel caso di
specie, l’acquisizione di pareri di organismi tecnici,
venendo in rilievo un potere a contenuto tipicamente
vincolato, che postula unicamente l’accertamento dell’abuso.
E poiché non v’è dubbio, alla luce delle considerazioni
sopra esposte, che abuso vi è stato, tale circostanza rende
di per sé legittima, sotto questo profilo, l’emanato ordine
di demolizione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 10.05.2013 n. 714 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Quanto al concetto di “piena conoscenza”
dell’atto lesivo, lo stesso non deve essere inteso quale
“conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si
intendono impugnare, ovvero di eventuali atti
endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di
“piena conoscenza” -il verificarsi della quale determina il
dies a quo per il computo del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando
quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento
prevede l’istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei
quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso
derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti
al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla
conoscenza integrale di atti prima non pienamente
conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta.
Ciò comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della
“piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione.
Ed infatti, se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa
come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei
motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe
essere considerato residuale.
In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi
aggiunti consentirebbe di interpretare la “piena conoscenza”
come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti
endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo
(ipotetico) caso si produrrebbe –diversamente opinando- un
vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto
il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe
compresso tra un termine decadenziale che corre ed una
impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di
completa e consapevole articolazione di una linea difensiva.
Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova
ex se che la “piena conoscenza” indicata dal legislatore
come determinatrice del dies a quo della decorrenza del
termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può
che essere intesa se non come quella che consenta
all’interessato, di percepire la lesività dell’atto emanato
dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente
ammissibile –quanto alla sussistenza dell’interesse ad
agire- l’azione in sede giurisdizionale.
Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento
conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo,
ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi,
incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere
amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della
domanda di annullamento.
Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice
ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o
rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa
dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione
dei citati motivi aggiunti.
Il Collegio rileva che -come già diffusamente esposto nella
propria decisione 28.05.2012 n. 3159- quanto al
concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo, lo stesso,
anche con riferimento alla previgente disciplina, non deve
essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei
provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di
eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità
infici, in via derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di
“piena conoscenza” -il verificarsi della quale determina il
dies a quo per il computo del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando
quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento
prevede l’istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei
quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso
derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti
al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla
conoscenza integrale di atti prima non pienamente
conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta.
Ciò comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della
“piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione.
Ed infatti, se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa
come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei
motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe
essere considerato residuale.
In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi
aggiunti consentirebbe di interpretare la “piena conoscenza”
come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo
(ipotetico) caso si produrrebbe –diversamente opinando- un
vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto
il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe
compresso tra un termine decadenziale che corre ed una
impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di
completa e consapevole articolazione di una linea difensiva.
Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova
ex se che la “piena conoscenza” indicata dal legislatore
come determinatrice del dies a quo della decorrenza del
termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può
che essere intesa se non come quella che consenta
all’interessato, di percepire la lesività dell’atto emanato
dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente
ammissibile –quanto alla sussistenza dell’interesse ad
agire- l’azione in sede giurisdizionale.
Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento
conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo,
ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi,
incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere
amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della
domanda di annullamento.
Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice
ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o
rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa
dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione
dei citati motivi aggiunti (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2013 n. 2521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il procedimento per il rilascio del permesso di
costruire e quello per il nulla-osta di compatibilità
paesaggistica dell'intervento da eseguire, ancorché
connessi, restano due procedimenti ontologicamente e
logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni
diversi ed essendo articolati sulla base di competenze
diverse.
Ne consegue che l’inammissibilità del ricorso avverso il
nulla-osta inibisce la riproposizione di tali censure nel
confronti del permesso di costruire, risultando diversamente
eluso il termine decadenziale.
Il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il
nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell'intervento da
eseguire, ancorché connessi, restano due procedimenti
ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la
tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di
competenze diverse (Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV,
Sentenza 30.07.2012, n. 4312).
Ne consegue che
l’inammissibilità del ricorso avverso il nulla-osta inibisce
la riproposizione di tali censure nel confronti del permesso
di costruire, risultando diversamente eluso il termine decadenziale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2013 n. 2513 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel procedimento di
rilascio della concessione edilizia in sanatoria, il parere
della Commissione edilizia comunale, considerata la mancanza
di espressa previsione normativa e la specialità del
procedimento, deve essere considerato facoltativo.
Così dicasi
anche per il mancato parere della Commissione edilizia
comunale: la giurisprudenza della Sezione è nel senso che
nel procedimento di rilascio della concessione edilizia in
sanatoria, il parere della Commissione edilizia comunale,
considerata la mancanza di espressa previsione normativa e
la specialità del procedimento, deve essere considerato
facoltativo (Cfr. Consiglio Stato sez. IV, 02.11.2009, n.
6784) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2013 n. 2513 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha da
tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni
che si definiscono “muro”, in base alla destinazione del
manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia
unicamente la delimitazione della proprietà, si ricade
nell'ipotesi della “pertinenza”, per cui non è normalmente
necessario il rilascio della concessione ai sensi di quanto
previsto, a contrario, dall’art. 3, comma 1, lett. e.6, del
d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel caso in cui il muro sia invece destinato non solo
a recingere un fondo, ma anche a contenere o a sostenere
esso stesso dei volumi ulteriori, l’opera è tale da
presentare una funzione autonoma, sia dal punto di vista
edilizio che da quello economico, con la conseguenza che
fuoriesce dalla nozione edilizia di “pertinenza” e necessita
del permesso di costruire.
In ogni caso ciò che più conta è “l’impegno visivo”
dell’opera, ossia la sua concreta idoneità ad incidere sulla
trasformazione del suolo: beninteso, purché però tale
“impegno” (che deve formare, evidentemente, oggetto di
valutazione da parte dell’amministrazione) sia adeguatamente
valorizzato come parte integrante della motivazione
dell’ordine di ripristino, nel senso che l’amministrazione
deve preoccuparsi di offrire ragionevoli indicazioni
(derivanti, ad esempio, dalle notevoli dimensioni o dalle
modalità costruttive dell’opera) in ordine alla ritenuta
trasformazione del suolo, tali da giustificare il più severo
regime edilizio applicato.
Osserva il Collegio che la giurisprudenza, anche di questo
TAR (cfr. TAR Piemonte, sez. I, n. 657 del 2003), ha da
tempo individuato un corretto discrimine tra le costruzioni
che si definiscono “muro”, in base alla destinazione
del manufatto.
Nel caso in cui lo scopo della realizzazione sia
unicamente la delimitazione della proprietà, si ricade
nell'ipotesi della “pertinenza”, per cui non è
normalmente necessario il rilascio della concessione ai
sensi di quanto previsto, a contrario, dall’art. 3, comma 1,
lett. e.6, del d.P.R. n. 380 del 2001. Nel caso in cui
il muro sia invece destinato non solo a recingere un fondo,
ma anche a contenere o a sostenere esso stesso dei volumi
ulteriori, l’opera è tale da presentare una funzione
autonoma, sia dal punto di vista edilizio che da quello
economico, con la conseguenza che fuoriesce dalla nozione
edilizia di “pertinenza” e necessita del permesso di
costruire (cfr., più di recente, TAR Campania, Napoli, sez.
IV, n. 4275 del 2012).
In ogni caso –è stato anche aggiunto– ciò che più conta è “l’impegno
visivo” dell’opera, ossia la sua concreta idoneità ad
incidere sulla trasformazione del suolo (cfr. TAR Sicilia,
Catania, sez. I, n. 3847 del 2010): beninteso, purché però
tale “impegno” (che deve formare, evidentemente,
oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione) sia
adeguatamente valorizzato come parte integrante della
motivazione dell’ordine di ripristino, nel senso che
l’amministrazione deve preoccuparsi di offrire ragionevoli
indicazioni (derivanti, ad esempio, dalle notevoli
dimensioni o dalle modalità costruttive dell’opera) in
ordine alla ritenuta trasformazione del suolo, tali da
giustificare il più severo regime edilizio applicato.
Nel caso di specie non appare dubbio, in base sia agli atti
versati in giudizio sia alla motivazione dell’ordinanza di
demolizione, che la funzione del muro edificato è unicamente
quella di recingere l’area adibita a deposito e stoccaggio
di materiali industriali, anche al fine di assicurare idonee
condizioni di sicurezza dello stabilimento. Sotto altro
profilo, poi, la motivazione dell’atto, nella sua estrema
sinteticità, non si è preoccupata di individuare i profili
che potevano indurre a ritenere integrata una vera e propria
trasformazione urbanistica del suolo, in modo da
giustificare l’applicazione del regime edilizio della
concessione, in luogo di quello tipico delle opere
pertinenziali.
Emerge, in definitiva, ed allo stato degli atti,
un’oggettiva destinazione pertinenziale dell’opera de qua a
servizio della proprietà, senza particolari problematiche di
compatibilità urbanistica (se non un fugace, e del tutto
generico, accenno –compiuto nell’ordinanza impugnata– a non
meglio definite “difformità da quanto previsto dalle
norme di attuazione del vigente PRGC”), con un quadro di
risulta tale quindi da determinare l’applicazione del più
blando regime edilizio della d.i.a., e la conseguente
inapplicabilità della sanzione ripristinatoria ai sensi
dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Piemonte, Sez.
II,
sentenza 09.05.2013 n. 590 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ordinanze inutilizzabili per eliminare gli odori
di un allevamento.
Oggetto del contendere, nella sentenza in commento, era un
ordinanza con la quale il Sindaco di un comune pugliese
aveva interdetto l’allevamento zootecnico avi-cunicolo al
proprietario di un terreno, “sino alla data di esecuzione
dei lavori per abbattere la percezione di odori molesti”.
I giudici del Tribunale amministrativo di Lecce, hanno
accolto il ricorso decretando l’impossibilità di ricorrere
allo strumento atipico in questione in circostanze come
questa, visto che il Sindaco si è limitato a prendere atto
del persistere di inconvenienti igienico-sanitari. Tale
inconvenienti, tuttavia, lungi dal costituire un concreto
pericolo per la collettività (non enunciato affatto),
secondo gli stessi giudici erano fronteggiabili con gli
ordinari strumenti, imponendo ad esempio l’osservanza di
specifici e puntuali obblighi nella tenuta dell’allevamento
(cfr. Cons. Stato – Sez. VI, 13.06.2012 n. 3490, cit.: “le
ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate
dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente
quando si tratti di affrontare situazioni di carattere
eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per
la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile
utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento
giuridico: tali requisiti non ricorrono, di conseguenza,
quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i
rimedi di carattere ordinario”).
È giurisprudenza costante, infatti, che i caratteri
dell’urgenza e della contingibilità, che legittimano le
ordinanze in questione, sono rinvenibili nell’esistenza di
un evento eccezionale ed imprevedibile, accompagnato a una
situazione di pericolo, e nel contempo nell’inesistenza di
ordinari strumenti con cui provvedere. Più in particolare, è
stato affermato che la situazione di pericolo è
individuabile nella “ragionevole probabilità che accada
un evento dannoso nel caso in cui l’amministrazione non
intervenga prontamente”.
E la conclusione non muta, secondo i giudici salentini,
anche a voler ritenere applicabile l’art. 50, quinto comma,
TUEL (per il quale il Sindaco provvede a fronteggiare “emergenze
sanitarie o di igiene pubblica”), non essendo
ipotizzabile il carattere emergenziale della situazione
derivante dalla percezione di odori, ancorché nauseabondi,
provenienti da allevamento sito in zona agricola e che gli
stessi accertatori hanno descritto come “caratteristici
dell’allevamento in questione”.
---------------
Dal preambolo del
provvedimento (“Letto ed applicato l’art. 54, comma 2°
del D. Leg.vo 267/2000”) è palese che il Sindaco di
Francavilla abbia inteso far ricorso al potere “extra
ordinem”, accordato dalla norma (correttamente, quarto
comma art. cit.) “al fine di prevenire e di eliminare gravi
pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza
urbana”.
Come affermato costantemente, i caratteri dell’urgenza e
della contingibilità che legittimano le ordinanze in
questione sono rinvenibili nell’esistenza di un evento
eccezionale ed imprevedibile, accompagnato a una situazione
di pericolo, e nel contempo nell’inesistenza di ordinari
strumenti con cui provvedere (giurisprudenza pacifica; per
tutte, Cons. Stato – Sez. VI, 13.06.2012 n. 3490).
Più in particolare, è stato affermato che la situazione di
pericolo è individuabile nella “ragionevole probabilità
che accada un evento dannoso nel caso in cui
l’amministrazione non intervenga prontamente” (TAR
Toscana – Sez. II, 09.04.2004 n. 1006).
La conclusione non muta, anche a voler ritenere applicabile
l’art. 50, quinto comma, TUEL (per il quale il Sindaco
provvede a fronteggiare “emergenze sanitarie o di igiene
pubblica”), non essendo ipotizzabile il carattere
emergenziale della situazione derivante dalla percezione di
odori, ancorché nauseabondi, provenienti da allevamento sito
in zona agricola e che gli stessi accertatori hanno
descritto come “caratteristici dell’allevamento in
questione” (cfr. la stessa ordinanza impugnata).
A ciò consegue l’impossibilità di ricorrere allo strumento
atipico in questione, posto che il Sindaco di Francavilla
Fontana si è limitato a prendere atto che persistono gli
inconvenienti igienico-sanitari; essi tuttavia, lungi dal
costituire un concreto pericolo per la collettività (non
enunciato affatto), sono fronteggiabili con gli ordinari
strumenti, imponendo ad esempio l’osservanza di specifici e
puntuali obblighi nella tenuta dell’allevamento (cfr. Cons.
Stato – Sez. VI, 13.06.2012 n. 3490, cit.: “le ordinanze
contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco
nella veste di ufficiale di governo solamente quando si
tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e
impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i
normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali
requisiti non ricorrono, di conseguenza, quando le pubbliche
amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere
ordinario”) (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 08.05.2013 n. 1012 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio serbato dalla Pubblica
Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità
urbanistica, presentata ai sensi dell’art. 36 D.P.R.
06.06.2001 n. 380, ha natura di provvedimento tacito di
reiezione della domanda di sanatoria (e, quindi, di
silenzio-rigetto, e non di silenzio-rifiuto), sicché una
volta decorso il termine di sessanta giorni (previsto dal
citato art. 36) si forma il silenzio-diniego, che è un
provvedimento tacito che va impugnato dall’interessato nel
termine di decadenza di sessanta giorni dalla sua
formazione.
Il Collegio –premesso che, notoriamente (alla stregua
dell’insegnamento giurisprudenziale consolidato), il
silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione sull’istanza
di accertamento di conformità urbanistica, presentata ai
sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura di
provvedimento tacito di reiezione della domanda di sanatoria
(e, quindi, di silenzio-rigetto, e non di silenzio-rifiuto),
sicché una volta decorso il termine di sessanta giorni
(previsto dal citato art. 36) si forma il silenzio-diniego,
che è un provvedimento tacito che va impugnato
dall’interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni
dalla sua formazione (“ex plurimis”: Consiglio di
Stato, IV Sezione, 13.01.2010 n° 100)– ritiene sufficiente
rilevare che, nella fattispecie concreta oggetto del
presente giudizio, il ricorrente ha (in sostanza) contestato
il provvedimento comunale (tacito) di rigetto dell’istanza
di sanatoria quasi un anno dopo la formazione del silenzio
diniego, proponendo (in data 14.07.2012) ricorso dinanzi a
questo TAR (con “petitum” qualificabile come domanda
di annullamento) ben dopo la scadenza del predetto termine
di decadenza di sessanta giorni, previsto dagli artt. 29 e
41 del Codice del Processo Amministrativo (TAR Puglia-Lecce,
Sez. III,
sentenza 30.04.2013 n. 995 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche in materia urbanistico-edilizia, il giudice
amministrativo ha da sempre richiesto, in capo ai
ricorrenti, la dimostrazione di requisiti soggettivi
differenziati rispetto al “quivis de populo”, nonostante il
dettato di cui all’art. 31, comma 9, L. 17.08.1942, n. 1150.
Tale differenziazione è stata generalmente riconosciuta
sulla base della c.d. “vicinitas”, intesa come prossimità
fisica, nel senso di adiacenza tra le aree, da cui la
legittimazione a ricorrere del proprietario confinante del
terreno oggetto del provvedimento amministrativo, ovvero
dello “stabile collegamento” riconoscibile nell’insediamento
stabile non necessariamente collegato alla titolarità di
diritti reali.
La giurisprudenza ha così evidenziato la varietà degli
interessi sottesi ad un determinato assetto territoriale,
che conduce ad intendere il titolo legittimante di
“vicinitas” non limitato al significato rigidamente
geografico, ma piuttosto identificabile nell’interesse a
preservare il valore del proprio investimento, la propria
posizione imprenditoriale e la preesistente amenità della
propria situazione proprietaria, ove in concreto lesi.
Resta tuttavia confermato che il criterio della “vicinitas”
non importa l’introduzione di un’azione popolare e che lo
stesso riferimento geografico non esclude la necessaria
verifica della sussistenza di un interesse giuridicamente
qualificato e differenziato del ricorrente, considerando il
durevole rapporto esistente tra la sua proprietà e l’area
interessata dall’intervento.
In termini, “nel ricorso proposto avverso il permesso di
costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione
necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la
legittimazione, l’interesse al ricorso, il quale richiede
anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà
dominicali del ricorrente“.
Tale interesse va per necessità indagato caso per caso,
avuto riguardo agli effetti diretti ed indiretti
dell’intervento sui diversi fattori caratterizzanti il
contesto ambientale e territoriale di riferimento,
considerando la natura e le dimensioni dell’opera
realizzata, la sua destinazione, le sue implicazioni
urbanistiche ed anche le conseguenze prodotte dal nuovo
insediamento sulla qualità della vita di coloro che per
residenza, attività lavorativa o simili, sono in durevole
rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera.
Va ancora considerato che il principio della necessaria
verifica dell’interesse a ricorrere quale condizione di
ammissibilità dell’azione in giudizio è stato recentemente
confermato e corroborato dall’art. 35, comma 1, lett. b),
del codice del processo amministrativo.
Ne resta confermata la necessità di individuare con
esattezza il grado di differenziazione della posizione
giuridica da ricercare in capo al ricorrente e di cui lo
stesso deve dar conto al fine di dimostrare la diretta
riconducibilità alla propria persona dell’utilità derivante
da un eventuale giudicato di accoglimento, così da
scongiurare l’ingresso nel processo amministrativo di
possibili ed eventuali ricorsi popolari.
In termini, l’interesse a ricorrere nei confronti del
proprietario confinante sussiste nelle sole ipotesi in cui
si verifichi una lesione attuale di uno specifico interesse
di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante,
suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole
alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico
che il ricorrente intende conservare”.
A sostegno dell’eccezione deducono che la ricorrente non
avrebbe in alcun modo giustificato tale interesse, del tutto
insussistente in ragione della circostanza che la medesima
ricorrente non sarebbe neppure “confinante” con la controinteressata, giacché le due proprietà sono divise da
una pubblica strada, e comunque nessuna lesione ha allegato
(né dimostrato) derivante dalla pretesa illegittimità
dell’attività edilizia autorizzata; dal che la dedotta
carenza di interesse “personale, attuale e contrario”
spendibile in sede giurisdizionale.
Com’è noto, anche in materia urbanistico-edilizia, il
giudice amministrativo ha da sempre richiesto, in capo ai
ricorrenti, la dimostrazione di requisiti soggettivi
differenziati rispetto al “quivis de populo”, nonostante il
dettato di cui all’art. 31, comma 9, L. 17.08.1942,
n. 1150.
Tale differenziazione è stata generalmente riconosciuta
sulla base della c.d. “vicinitas”, intesa come prossimità
fisica, nel senso di adiacenza tra le aree, da cui la
legittimazione a ricorrere del proprietario confinante del
terreno oggetto del provvedimento amministrativo, ovvero
dello “stabile collegamento” riconoscibile nell’insediamento
stabile non necessariamente collegato alla titolarità di
diritti reali.
La giurisprudenza ha così evidenziato la varietà degli
interessi sottesi ad un determinato assetto territoriale,
che conduce ad intendere il titolo legittimante di
“vicinitas” non limitato al significato rigidamente
geografico, ma piuttosto identificabile nell’interesse a
preservare il valore del proprio investimento, la propria
posizione imprenditoriale e la preesistente amenità della
propria situazione proprietaria, ove in concreto lesi.
Resta tuttavia confermato che il criterio della
“vicinitas” non importa l’introduzione di un’azione popolare
e che lo stesso riferimento geografico non esclude la
necessaria verifica della sussistenza di un interesse
giuridicamente qualificato e differenziato del ricorrente,
considerando il durevole rapporto esistente tra la sua
proprietà e l’area interessata dall’intervento.
In termini, “nel ricorso proposto avverso il permesso di
costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione
necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la
legittimazione, l’interesse al ricorso, il quale richiede
anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà
dominicali del ricorrente“ (Cfr. Cons. di Stato, sez. IV,
n. 485/2011).
Tale interesse va per necessità indagato caso per caso,
avuto riguardo agli effetti diretti ed indiretti
dell’intervento sui diversi fattori caratterizzanti il
contesto ambientale e territoriale di riferimento,
considerando la natura e le dimensioni dell’opera
realizzata, la sua destinazione, le sue implicazioni
urbanistiche ed anche le conseguenze prodotte dal nuovo
insediamento sulla qualità della vita di coloro che per
residenza, attività lavorativa o simili, sono in durevole
rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera (cfr. Cons.
di Stato, sez. IV, 30.11.2009, n. 7490).
Va ancora considerato che il principio della
necessaria verifica dell’interesse a ricorrere quale
condizione di ammissibilità dell’azione in giudizio è stato
recentemente confermato e corroborato dall’art. 35, comma 1, lett. b), del codice del processo amministrativo (cfr. TAR
Veneto, n. 959/2012).
Ne resta confermata la necessità di individuare con
esattezza il grado di differenziazione della posizione
giuridica da ricercare in capo al ricorrente e di cui lo
stesso deve dar conto al fine di dimostrare la diretta
riconducibilità alla propria persona dell’utilità derivante
da un eventuale giudicato di accoglimento, così da
scongiurare l’ingresso nel processo amministrativo di
possibili ed eventuali ricorsi popolari.
In termini, l’interesse a ricorrere nei confronti del
proprietario confinante sussiste nelle sole ipotesi in cui
si verifichi una lesione attuale di uno specifico interesse
di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante,
suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole
alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico
che il ricorrente intende conservare” (cfr. Cons. di Stato, Sez.IV.
n. 6157/2007) (TAR Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 26.04.2013 n. 404 - link a
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URBANISTICA:
La decadenza dei vincoli urbanistici preordinati
all’esproprio comporta l’obbligo per il Comune di
“reintegrare” la disciplina urbanistica dell’area
interessata dal vincolo decaduto con una nuova
pianificazione.
Ne consegue che il proprietario dell’area interessata può
presentare all’Amministrazione un’istanza, volta a ottenere
l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica; e che
l’Amministrazione è tenuta a pronunziarsi motivatamente
sulla stessa, anche nel caso in cui non la ritenga
suscettibile di accoglimento, fermo restando, naturalmente,
il potere discrezionale dell’amministrazione comunale in
ordine alla verifica e alla scelta della destinazione, in
coerenza con la più generale disciplina del territorio e con
l’interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo.
In ordine ai termini di durata dei vincoli espropriativi
urbanistici, va, peraltro, richiamato il parere del
Consiglio di Giustizia Amministrativa secondo cui deve
ritenersi applicabile nel territorio della Regione Siciliana
il termine di durata quinquennale dei vincoli espropriativi
urbanistici di cui all’art. 9 del D.P.R. 327/2001, con
decorrenza dalla data di approvazione degli strumenti
urbanistici.
E’ stato, inoltre, evidenziato:
- che “l’obbligo di provvedere gravante sul Comune in caso
di decadenza di vincolo preordinato all’esproprio, va
assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di
una variante generale, gli unici strumenti che consentono
alle amministrazioni comunali di verificare la persistente
compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree
situate nelle zone più diverse del territorio comunale,
rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di
piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico
interesse”;
- e che “il potere di conformazione urbanistica, peraltro, è
attribuito dalla legge all’organo consiliare, di talché il
semplice e prospettato avvio del procedimento di revisione
del piano regolatore generale comunale non costituisce
adempimento da parte del Comune in ordine all’obbligo di
riqualificazione urbanistica della zona rimasta priva di
specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di
destinazione su di essa gravante”.
---------------
L’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere dato
soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del
Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione
di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da
parte del competente Organo consiliare.
La decadenza dei vincoli urbanistici per l'inutile decorso
del termine quinquennale dall'approvazione del piano
regolatore generale obbliga il Comune a procedere alla nuova
qualificazione dell'area rimasta priva di disciplina, per
cui è illegittima l'inerzia serbata al riguardo dalla P.A.
ed è possibile la formazione del silenzio-rifiuto a seguito
dell'intimazione da parte dei proprietari dell'area stessa.
Laddove, però, l'amministrazione, a giustificazione del
silenzio, pronunci asserzioni generiche e non indichi con
precisione i tempi procedimentali necessari, il
provvedimento silenzioso va dichiarato illegittimo, con la
consequenziale declaratoria dell'obbligo di provvedere in
capo all'organo competente ad effettuare discrezionalmente
la scelta della nuova destinazione da imprimere all'area,
mediante adeguata motivazione.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che
trova le sue radici nelle statuizioni dell’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato n. 7 del 02.04.1984 e n. 12
dell’11.06.1984, al quale anche questo Tribunale ha aderito,
da ultimo con le richiamate sentenze -dalle quali non si
ravvisano ragioni per discostarsi- la decadenza dei vincoli
urbanistici preordinati all’esproprio comporta l’obbligo per
il Comune di “reintegrare” la disciplina urbanistica
dell’area interessata dal vincolo decaduto con una nuova
pianificazione.
Ne consegue che il proprietario dell’area interessata può
presentare all’Amministrazione un’istanza, volta a ottenere
l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica; e che
l’Amministrazione è tenuta a pronunziarsi motivatamente
sulla stessa, anche nel caso in cui non la ritenga
suscettibile di accoglimento (Consiglio di Stato, sez. IV,
22.06.2004, n. 4426; TAR Campania, Salerno, sez. I,
03.06.2009, n. 2825; TAR Sicilia, Palermo, sez. III,
25.06.2009, n. 1167; Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 467;
18.07.2006, n. 1183; 21.06.2004, n. 1733), fermo restando,
naturalmente, il potere discrezionale dell’amministrazione
comunale in ordine alla verifica e alla scelta della
destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del
territorio e con l’interesse pubblico al corretto e armonico
suo utilizzo (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2007, n.
3025).
In ordine ai termini di durata dei vincoli espropriativi
urbanistici, va, peraltro, richiamato il parere del
Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 461/2005 del
01.09.2005 secondo cui deve ritenersi applicabile nel
territorio della Regione Siciliana il termine di durata
quinquennale dei vincoli espropriativi urbanistici di cui
all’art. 9 del D.P.R. 327/2001, con decorrenza dalla data di
approvazione degli strumenti urbanistici (cfr. sul punto,
anche TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 09.07.2008, n. 905).
E’ stato, inoltre, evidenziato (TAR Sicilia, Palermo, II, n.
1318 del 2012):
- che “l’obbligo di provvedere gravante sul Comune in
caso di decadenza di vincolo preordinato all’esproprio, va
assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di
una variante generale, gli unici strumenti che consentono
alle amministrazioni comunali di verificare la persistente
compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree
situate nelle zone più diverse del territorio comunale,
rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di
piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse
(in termini: Consiglio di Stato, sez. IV, 31.05.2007,
n.2885)”;
- e che “il potere di conformazione urbanistica,
peraltro, è attribuito dalla legge all’organo consiliare, di
talché il semplice e prospettato avvio del procedimento di
revisione del piano regolatore generale comunale non
costituisce adempimento da parte del Comune in ordine
all’obbligo di riqualificazione urbanistica della zona
rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza
del vincolo di destinazione su di essa gravante (cfr.:
Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2006, n. 7131; sez. V,
01.10.2003, n. 5675)”.
Come precisato nella sentenza n. 1565/2009, “l’adempimento
non elusivo di tale obbligo può essere dato soltanto dallo
specifico ed effettivo completamento del Piano regolatore
generale per quella zona, mediante adozione di un
provvedimento espresso (e cioè di una variante) da parte del
competente Organo consiliare”.
È stato anche affermato che: "la decadenza dei vincoli
urbanistici per l'inutile decorso del termine quinquennale
dall'approvazione del piano regolatore generale obbliga il
Comune a procedere alla nuova qualificazione dell'area
rimasta priva di disciplina, per cui è illegittima l'inerzia
serbata al riguardo dalla P.A. ed è possibile la formazione
del silenzio-rifiuto a seguito dell'intimazione da parte dei
proprietari dell'area stessa. Laddove, però,
l'amministrazione, a giustificazione del silenzio, pronunci
asserzioni generiche e non indichi con precisione i tempi
procedimentali necessari, il provvedimento silenzioso va
dichiarato illegittimo, con la consequenziale declaratoria
dell'obbligo di provvedere in capo all'organo competente ad
effettuare discrezionalmente la scelta della nuova
destinazione da imprimere all'area, mediante adeguata
motivazione" (TAR Puglia Bari, Sez. II, 22.11.2001, n.
5129; in senso conforme, da ultimo: TAR Sicilia, Palermo, n.
7035/2010 e n. 1565/2009) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 23.04.2013 n. 938 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In caso di acclarata illegittimità dell'atto
amministrativo, asseritamente foriero di danno, al privato
non è richiesto un particolare sforzo probatorio per ciò che
attiene al profilo dell'elemento soggettivo della colpa,
potendo egli invocare l'illegittimità del provvedimento
quale presunzione (semplice) della colpa, spettando poi
all'Amministrazione dimostrare che si è trattato di un
errore scusabile, configurabile nelle ipotesi di contrasti
giurisprudenziali sull'interpretazione di una fonte
normativa di formulazione incerta o di recente entrata in
vigore ovvero di notevole complessità del fatto o di
influenza determinante di comportamenti di altri soggetti.
---------------
Per quanto concerne, poi, i rapporti fra il
lucro cessante
(coincidente con l’utile economico che sarebbe derivato
dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione non
avvenuta per le illegittimità qui rilevate) e danno
emergente (coincidente con la diminuzione patrimoniale
dovuta per le spese e gli esborsi sostenuti per la
partecipazione alla gara), si osserva quanto segue.
Invero, il danno
emergente, consistente nelle spese sostenute per la
partecipazione ad una gara d'appalto, non è risarcibile, in
favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione
dell'appalto (o anche la sola perdita della relativa chance). Infatti, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto
comporta per le imprese costi che, di norma, restano a
carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione,
sia in caso di mancata aggiudicazione.
Detti costi di
partecipazione si colorano come danno emergente solo se
l'impresa illegittimamente esclusa lamenti (e chieda di
essere tenuta indenne in relazione a) questi profili
dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene
in considerazione soltanto la pretesa risarcitoria del
contraente che si duole del fatto di essere stato coinvolto
in trattative inutili. Tali danni, peraltro, vanno, in via
prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica,
mediante rinnovo delle operazioni di gara e, solo ove tale
rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente.
Per converso, nel caso in cui l'impresa ottenga il
risarcimento del lucro cessante per mancata aggiudicazione
(o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non
vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente
dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante
il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un
beneficio maggiore di quello che deriverebbe
dall'aggiudicazione.
Neppure può trovare accoglimento l’ulteriore motivo con cui
si è lamentato che la sentenza in epigrafe sarebbe
meritevole di riforma per la parte in cui ha ritenuto di
poter accordare alla società ricorrente in primo grado un
pieno risarcimento del danno, mentre invece il pertinente
quadro giuridico e fattuale avrebbe al più consentito di
riconoscere alla ricorrente un indennizzo pari al (solo)
interesse negativo connesso all’infruttuosa partecipazione
alla gara.
Al riguardo si osserva:
- che sussistono nel caso di specie tutti gli elementi
oggettivi e soggettivi della fattispecie foriera di danno,
con particolare riguardo: a) al fatto costitutivo
(rappresentato dalla mancata aggiudicazione in assenza di
una qualunque valida giustificazione); b) all’evento dannoso
(rappresentato dalle mancate utilità ritraibili
dall’esecuzione dell’appalto); c) dall’evidente esistenza di
un nesso eziologico fra il fatto e l’evento;
- che, per quanto concerne il profilo della colpevolezza, la
sentenza in epigrafe risulta meritevole di conferma laddove
ha osservato che (anche a prescindere dalla giurisprudenza
comunitaria in tema di prova della colpa nelle controversie
risarcitorie in tema di pubblici appalti – C.G.C.E.,
sentenza 30.09.2010 in causa C-314/2009), deve
nondimeno trovare applicazione nel caso di specie il
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui in
caso di acclarata illegittimità dell'atto amministrativo,
asseritamente foriero di danno, al privato non è richiesto
un particolare sforzo probatorio per ciò che attiene al
profilo dell'elemento soggettivo della colpa, potendo egli
invocare l'illegittimità del provvedimento quale presunzione
(semplice) della colpa, spettando poi all'Amministrazione
dimostrare che si è trattato di un errore scusabile,
configurabile nelle ipotesi (che qui non sussistono) di
contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una
fonte normativa di formulazione incerta o di recente entrata
in vigore ovvero di notevole complessità del fatto o di
influenza determinante di comportamenti di altri soggetti
(sul punto –ex plurimis -: Cons. Stato, V, 19.11.2012,
n. 5846; id., V, 03.07.2012, n. 3888; id., VI, 20.07.2010, n. 4660).
Per quanto concerne, poi, i rapporti fra il lucro cessante
(coincidente con l’utile economico che sarebbe derivato
dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione non
avvenuta per le illegittimità qui rilevate) e danno
emergente (coincidente con la diminuzione patrimoniale
dovuta per le spese e gli esborsi sostenuti per la
partecipazione alla gara), si osserva quanto segue.
Al riguardo il Collegio ritiene che non sussistano ragioni
per discostarsi dall’orientamento secondo cui il danno
emergente, consistente nelle spese sostenute per la
partecipazione ad una gara d'appalto, non è risarcibile, in
favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione
dell'appalto (o anche la sola perdita della relativa chance). Invero, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto
comporta per le imprese costi che, di norma, restano a
carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione,
sia in caso di mancata aggiudicazione.
Detti costi di
partecipazione si colorano come danno emergente solo se
l'impresa illegittimamente esclusa lamenti (e chieda di
essere tenuta indenne in relazione a) questi profili
dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene
in considerazione soltanto la pretesa risarcitoria del
contraente che si duole del fatto di essere stato coinvolto
in trattative inutili. Tali danni, peraltro, vanno, in via
prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica,
mediante rinnovo delle operazioni di gara e, solo ove tale
rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente.
Per converso, nel caso in cui l'impresa ottenga il
risarcimento del lucro cessante per mancata aggiudicazione
(o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non
vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente
dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante
il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un
beneficio maggiore di quello che deriverebbe
dall'aggiudicazione (Cons. Stato, VI, 16.09.2011, n.
5168) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 1999 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
il tir responsabile.
Il trasportatore professionale di rifiuti è responsabile di
come e dove li trasporta. La verifica dell'esistenza
dell'autorizzazione in capo al titolare dell'impianto ove il
rifiuto trasportato è destinato rientra tra quei dati
verificabili dal trasportatore. Il riferimento alla normale
diligenza richiesta in relazione alla natura dell'incarico
rende evidente che il trasportatore deve considerarsi
comunque soggetto tecnicamente competente in relazione alla
tipologia di attività svolta. Nella quale il trasportatore
risulta professionalmente inserito e non può, quindi,
invocare la sua ignoranza circa la natura di quanto
trasportato o della sua destinazione finale.
È quanto
previsto dalla
sentenza
09.04.2013 n. 16209 della Corte di Cassazione penale (Sez. III)
(articolo ItaliaOggi del 23.05.2013).
---------------
Chi trasporta rifiuti deve considerarsi
un soggetto tecnicamente competente in relazione alla
tipologia di attività svolta, nella quale risulta
professionalmente inserito, e non può invocare la sua
completa ignoranza circa la natura di quanto trasportato o
disinteressarsi del tutto della natura effettiva del carico
o della sua destinazione finale.
«Come è noto, il trasporto dei rifiuti rientra tra le
attività di gestione, come espressamente previsto dall’art.
183, lett. n), d.lgs. 152/2006. La stessa disposizione, alla
lettera h), individua come “detentore” del rifiuto “il
produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che
ne è in possesso”. Tale ampia definizione, rimasta
sostanzialmente invariata rispetto alle numerose modifiche
apportate all’art. 183, ricomprende evidentemente anche il
trasportatore del rifiuto, (…) Nell’attuale formulazione
l’art. 188 prevede, al quarto comma, che i soggetti, enti o
imprese, che provvedono alla raccolta o al trasporto dei
rifiuti a titolo professionale, devono conferire i rifiuti
raccolti e trasportati agli impianti autorizzati alla
gestione ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 214 e 216 e
nel rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 177,
comma 4. Come è dato rilevare dal tenore letterale delle
disposizioni menzionate, viene sempre espressamente previsto
(e non poteva essere altrimenti), che il conferimento dei
rifiuti avvenga presso soggetti autorizzati e ciò anche
quando la disposizione prevede specifiche esenzioni di
responsabilità, quali quelle indicate al terzo comma.
(…) non può legittimamente pretendersi dal trasportatore la
verifica di dati riscontrabili attraverso attività di
analisi, uso di particolari tecnologie o strumentazione
tecnica, ma il riferimento alla normale diligenza richiesta
in relazione alla natura dell’incarico rende altrettanto
evidente che il trasportatore deve considerarsi comunque un
soggetto tecnicamente competente in relazione alla tipologia
di attività svolta, nella quale risulta professionalmente
inserito e non può, quindi, invocare la sua completa
ignoranza circa la natura di quanto trasportato o
disinteressarsi del tutto della natura effettiva del carico
o della sua destinazione finale. La richiesta diligenza,
inoltre, può ritenersi palesemente mancante allorquando
taluni elementi sintomatici, quali, ad esempio, la quantità
dei rifiuti, il loro stato di conservazione o
confezionamento per il trasporto, le modalità di ricezione
del carico, quelle di trasporto o la destinazione del
rifiuto rendano evidente o, comunque, facilmente
riscontrabile, la discrepanza tra documentazione e realtà.
È indubbio che la verifica dell’esistenza
dell’autorizzazione in capo al titolare dell’impianto ove il
rifiuto trasportato è destinato rientra tra quei dati
verificabili dal trasportatore con la normale diligenza e
l’inosservanza di tale elementare regola di condotta potrà
essere riscontrata dal giudice del merito con adeguata
valutazione degli elementi in fatto offerti al suo esame.
(…) l’esistenza dell'autorizzazione poteva essere accertata
non soltanto mediante la prassi adottata dell'invio via fax
dell’autorizzazione medesima, ma anche mediante una semplice
visura presso l'Albo Nazionale Gestori Ambientali»
(massima tratta da www.dirittoambiente.net). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istanza di sanatoria posteriore all'ordine di
demolizione non incide sulla legittimità di quest'ultimo,
che l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione, se e
non appena abbia rigettato tale domanda.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità determina un arresto
dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che
questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di
temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o
difformità dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di
sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente
meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del
carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a
suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era
definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della
conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola
specificazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il
diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può
rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di
legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine
a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le
conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello
stesso.
Per costante giurisprudenza -anche della Sezione-
l'istanza di sanatoria posteriore all'ordine di demolizione
non incide sulla legittimità di quest'ultimo, che
l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione, se e non
appena abbia rigettato tale domanda (TAR Lazio, I,
09.07.2012, n. 6197; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1084).
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità determina un arresto
dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che
questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di
temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la
demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o
difformità dal permesso di costruire, è conforme alla
strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra le tante, TAR
Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n.
10128).
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di
sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente
meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del
carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso sia al momento della
presentazione della domanda. In caso di rigetto, invece, il
provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista
la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma
solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter
procedimentale– con la sola specificazione che il termine
concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione
decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza
dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto,
poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per
adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative
connesse alla mancata esecuzione dello stesso (così TAR
Campania-Napoli, II, 02.03.2010, n. 1259; TAR Liguria, I,
05.02.2011, n. 226)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 25.03.2013 n. 524 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 4,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, spetta al regolamento
edilizio indicare gli interventi sottoposti al “preventivo”
parere della commissione edilizia.
Con il secondo
motivo i ricorrenti si dolgono della mancata acquisizione
del necessario parere della commissione edilizia.
Anche questo motivo è infondato.
E’ noto che, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001, spetta al regolamento edilizio indicare gli
interventi sottoposti al “preventivo” parere di tale
organo consultivo.
Nel caso di specie, da un lato i ricorrenti non hanno citato
la disposizione del regolamento edilizio che renderebbe
obbligatorio tale parere per interventi della natura di
quello in questione; dall’altro, stante la ontologica
diversità del procedimento di accertamento di conformità (in
cui il parere é privato della sua naturale funzione di
consulenza preventiva) e di quello per il rilascio del
titolo edilizio ordinario, non può ritenersi che le
disposizioni sul parere obbligatorio della C.E. dettate per
il secondo siano automaticamente estensibili al primo (in
tal senso cfr. TAR Campania, VIII, 10.09.2010, n. 17398),
ostandovi il principio generale di divieto di inutile
aggravamento del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, L.
n. 241/1990
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 25.03.2013 n. 524 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'interesse ad agire è dato dal rapporto tra la
situazione antigiuridica che viene denunciata e il
provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante
l'applicazione del diritto, e questo rapporto deve
consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per
acquisire all'interesse leso la protezione accordata dal
diritto. Prima ancora, colui che intende proporre un ricorso
deve essere titolare di una posizione differenziata,
protetta dall'ordinamento e riferita ad un bene della vita
oggetto della funzione svolta dall'Amministrazione (cd.
legittimazione al ricorso).
Si è ulteriormente precisato che nel processo
amministrativo, la legittimazione ad impugnare un atto
amministrativo deve essere di norma direttamente correlata
ad una situazione giuridica sostanziale che sia lesa dal
provvedimento e postula l'esistenza di un interesse diretto,
attuale e concreto del ricorrente all'annullamento dell'atto
vantaggio pratico e concreto anche soltanto eventuale o
morale che può derivare al ricorrente dall'accoglimento
dell'impugnativa.
Come è noto l'interesse ad agire è dato dal rapporto tra la
situazione antigiuridica che viene denunciata e il
provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante
l'applicazione del diritto, e questo rapporto deve
consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per
acquisire all'interesse leso la protezione accordata dal
diritto. Prima ancora, colui che intende proporre un ricorso
deve essere titolare di una posizione differenziata,
protetta dall'ordinamento e riferita ad un bene della vita
oggetto della funzione svolta dall'Amministrazione (cd.
legittimazione al ricorso).
Si è ulteriormente precisato che nel processo
amministrativo, la legittimazione ad impugnare un atto
amministrativo deve essere di norma direttamente correlata
ad una situazione giuridica sostanziale che sia lesa dal
provvedimento e postula l'esistenza di un interesse diretto,
attuale e concreto del ricorrente all'annullamento dell'atto
vantaggio pratico e concreto anche soltanto eventuale o
morale che può derivare al ricorrente dall'accoglimento
dell'impugnativa (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2008, n.
2546 TAR Campania, Salerno, sez. II, 20.10.2011, n. 1695)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 25.03.2013 n. 467 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Attraverso l’approvazione
dei piani attuativi, il cui contenuto è stabilito dalla
norma generale di cui all’art. 13 della legge n. 1150/1942,
l’amministrazione competente mira a dare concreta attuazione
alle previsioni contenute nei piani generali i quali,
considerata la loro natura, necessitano di essere integrati
da una disciplina di dettaglio.
Nei piani attuativi, dunque, viene prevista la tipologia
concreta delle opere assentibili, la quantità realizzabile e
la tipologia e quantità di opere di urbanizzazione primaria
e secondaria necessarie per conferire alla zona, sulla quale
si intendono realizzare gli interventi, un assetto armonico,
ordinato e sostenibile dal punto di vista urbanistico.
La giurisprudenza ha sempre ritenuto che le prescrizioni
contenute nei piani attuativi siano particolarmente
stringenti: è attraverso di essi infatti che
l'amministrazione deve provvedere alla determinazione
concreta degli impianti urbanistici da realizzare nella
zona, dei vincoli concreti da apporre alla proprietà privata
e dei limiti quantitativi e tipologici cui deve soggiacere
l'attività edilizia.
E’ quindi con il piano attuativo che viene configurato
l’assetto ottimale della zona interessata dall’intervento ed
è, dunque, con esso che viene definito il livello
quantitativo ottimale delle dotazioni di interesse generale
da realizzare (fra le quali rientrano senz’altro i
parcheggi).
Ne consegue che il soggetto che dà esecuzione al piano
attuativo deve attenersi alle prescrizioni ivi contenute; e
che ogni opera ivi non prevista (o prevista per un limite
quantitativo inferiore) non può essere realizzata, se non
previa modifica del piano stesso.
Ammettere il contrario comporterebbe invero lo
stravolgimento dell’assetto ottimale concreto che, con il
piano attuativo, l’amministrazione ha inteso configurare per
la zona interessata.
---------------
Il piano per gli insediamenti produttivi (PIP) ai sensi
dell’art. 27, comma terzo, della legge 22.10.1971 n. 865 ha
valore di piano particolareggiato d'esecuzione (e dunque di
piano attuativo).
Come noto, attraverso l’approvazione dei piani attuativi, il
cui contenuto è stabilito dalla norma generale di cui
all’art. 13 della legge n. 1150/1942, l’amministrazione
competente mira a dare concreta attuazione alle previsioni
contenute nei piani generali i quali, considerata la loro
natura, necessitano di essere integrati da una disciplina di
dettaglio.
Nei piani attuativi, dunque, viene prevista la tipologia
concreta delle opere assentibili, la quantità realizzabile e
la tipologia e quantità di opere di urbanizzazione primaria
e secondaria necessarie per conferire alla zona, sulla quale
si intendono realizzare gli interventi, un assetto armonico,
ordinato e sostenibile dal punto di vista urbanistico.
La giurisprudenza ha sempre ritenuto che le prescrizioni
contenute nei piani attuativi siano particolarmente
stringenti: è attraverso di essi infatti che
l'amministrazione deve provvedere alla determinazione
concreta degli impianti urbanistici da realizzare nella
zona, dei vincoli concreti da apporre alla proprietà privata
e dei limiti quantitativi e tipologici cui deve soggiacere
l'attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.01.2006 n. 238; id, sez. IV,
03.06.1980 n. 622).
E’ quindi con il piano attuativo che viene configurato
l’assetto ottimale della zona interessata dall’intervento ed
è, dunque, con esso che viene definito il livello
quantitativo ottimale delle dotazioni di interesse generale
da realizzare (fra le quali rientrano senz’altro i
parcheggi).
Ne consegue che il soggetto che dà esecuzione al piano
attuativo deve attenersi alle prescrizioni ivi contenute; e
che ogni opera ivi non prevista (o prevista per un limite
quantitativo inferiore) non può essere realizzata, se non
previa modifica del piano stesso.
Ammettere il contrario comporterebbe invero lo
stravolgimento dell’assetto ottimale concreto che, con il
piano attuativo, l’amministrazione ha inteso configurare per
la zona interessata.
Ciò premesso, va rilevato che, nella fattispecie in
esame, è incontestato che la zona sulla quale la ricorrente
vuole realizzare il parcheggio e l’autorimessa interrata è
interessata da un piano per gli insediamenti produttivi (PIP),
il quale, ai sensi dell’art. 27, comma terzo, della legge 22.10.1971 n. 865 ha valore di piano particolareggiato
d'esecuzione (e dunque di piano attuativo); e che detto
piano non prevede affatto la possibilità di realizzazione di
tali interventi.
Ne discende che, per le ragioni sopra illustrate,
l’Amministrazione intimata ha correttamente negato il
rilascio del titolo necessario per procedere alla loro
costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.02.2013 n. 536 -
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122 e l’art.
66 della l.r. 11.03.2005 n. 12 contengono norme di
particolare favore per la realizzazione di parcheggi, le
quali autorizzano addirittura la loro costruzione (nel
sottosuolo) anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai
regolamenti edilizi vigenti.
Tali disposizioni hanno carattere straordinario, ed hanno la
finalità di far fronte al problema dell’ingombro dei veicoli
parcheggiati nelle pubbliche vie causato dalla conformazione
dei nostri centri storici risalenti ad epoca antecedente
l’avvento delle automobili. Queste disposizioni pertanto si
applicano solo con riferimento ai fabbricati già esistenti,
per i quali non si è tenuto conto, al momento del rilascio
del titolo edilizio che ne ha autorizzato la realizzazione,
della necessità di prevedere una adeguata dotazione di
parcheggi onde ovviare alla problematica suindicata.
Per i nuovi fabbricati, invece, si applica la regola di cui
al citato art. 41-sexies della legge n. 1150/1942
(introdotto dall’art. 2, comma 2, della stessa legge n.
122/1989) che impone, già al momento del rilascio del titolo
edilizio, di verificare se nel progetto sia prevista una
adeguata dotazione di parcheggi.
A conclusioni contrarie non può portare l’art. 9 della
legge 24.03.1989 n. 122, né l’art. 66 della l.r. 11.03.2005 n. 12 che, come noto, contengono norme di particolare
favore per la realizzazione di parcheggi, le quali
autorizzano addirittura la loro costruzione (nel sottosuolo)
anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti.
Per costante giurisprudenza, tali disposizioni hanno
carattere straordinario, ed hanno la finalità di far fronte
al problema dell’ingombro dei veicoli parcheggiati nelle
pubbliche vie causato dalla conformazione dei nostri centri
storici risalenti ad epoca antecedente l’avvento delle
automobili (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 16.04.2012
n. 2185). Queste disposizioni pertanto si applicano solo con
riferimento ai fabbricati già esistenti, per i quali non si
è tenuto conto, al momento del rilascio del titolo edilizio
che ne ha autorizzato la realizzazione, della necessità di
prevedere una adeguata dotazione di parcheggi onde ovviare
alla problematica suindicata.
Per i nuovi fabbricati, invece, si applica la regola di
cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150/1942
(introdotto dall’art. 2, comma 2, della stessa legge n.
122/1989) che, come visto, impone, già al momento del rilascio
del titolo edilizio, di verificare se nel progetto sia
prevista una adeguata dotazione di parcheggi.
Nel caso in esame è pacifico che la dotazione di
parcheggi posti a pertinenza dei fabbricati che insistono
sull’area ove dovrebbero realizzarsi i nuovi interventi
soddisfa già il fabbisogno di cui all’art. 41-sexies della
legge n. 1150/1942; e ciò proprio in quanto tale condizione è
stata verificata al momento del rilascio del titolo edilizio
e, prima ancora, al momento dell’approvazione del piano per
gli insediamenti produttivi. Ne consegue che le disposizioni
recate dall’art. 9 della legge n. 122/1989 e dall’art. 66
della l.r. n. 12/2005 non sono applicabili alla fattispecie.
Va pertanto ribadita la correttezza delle valutazioni
effettuate dall’Amministrazione intimata e, di conseguenza,
va affermata l’infondatezza delle censure esaminate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.02.2013 n. 536 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Quando un atto si fonda su una pluralità di
ragioni ciascuna delle quali sufficiente per giustificare il
suo contenuto dispositivo, l’infondatezza delle censure
rivolte contro una di esse rende inutile lo scrutinio delle
altre censure, posto che il loro accoglimento non potrebbe
comunque determinare l’annullamento dell’atto stesso.
Va invero
osservato che, per costante orientamento giurisprudenziale,
quando un atto si fonda su una pluralità di ragioni ciascuna
delle quali sufficiente per giustificare il suo contenuto
dispositivo, l’infondatezza delle censure rivolte contro una
di esse rende inutile lo scrutinio delle altre censure,
posto che il loro accoglimento non potrebbe comunque
determinare l’annullamento dell’atto stesso (cfr. Consiglio
di Stato, sez. III, 15.11.2012 n. 5769; TAR Roma Lazio, sez.
I, 05.12.2012 n. 10141) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.02.2013 n. 536 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Anche in ambito
procedimentale vero e proprio, i pareri obbligatori ma non
vincolanti, rilasciati dagli organi consultivi, non sono
autonomamente impugnabili, atteso che tali pareri non
definiscono il procedimento e che quindi l’organo competente
ad adottare il provvedimento finale può sempre
disattenderli.
Proprio rifacendosi a questo principio, altra parte della
giurisprudenza afferma che il parere obbligatorio della
commissione edilizia sull'istanza dell’interessato (volta al
rilascio di un titolo edilizio vero e proprio) non definisce
il procedimento e, pertanto, non è atto autonomamente
impugnabile.
A maggior ragione deve ritenersi non impugnabile un parere
preventivo (reso quindi addirittura al di fuori del
procedimento) richiesto proprio al fine di valutare se dare
o meno corso ad esso.
Va invero
rilevato che l’atto impugnato con i motivi aggiunti consiste
in una nota con la quale il Responsabile del Servizio
Edilizia Privata e Pianificazione del Comune di Sondrio ha
riscontrato una richiesta di parere preventivo circa l’assentibilità
di una recinzione, di una pavimentazione in ghiaia e di un
impianto di illuminazione da realizzarsi presso un’area di
proprietà della ricorrente.
L’atto impugnato dunque non consiste in un diniego di
permesso di costruire ma, semplicemente, in un parere
negativo espresso da un tecnico incardinato
nell’Amministrazione.
Il Collegio non ignora che, secondo una parte della
giurisprudenza, il parere preventivo negativo riguardante la
possibilità di rilascio di un titolo edilizio costituisce
atto autonomamente impugnabile (cfr. TAR Friuli Venezia
Giulia, sez. I, 10.06.2011 n. 278; nel caso di specie si
trattava di un parere preventivo espresso dalla commissione
edilizia).
Questa giurisprudenza tuttavia si scontra con un
principio generalmente riconosciuto nel diritto
amministrativo secondo il quale, anche in ambito
procedimentale vero e proprio, i pareri obbligatori ma non
vincolanti, rilasciati dagli organi consultivi, non sono
autonomamente impugnabili, atteso che tali pareri non
definiscono il procedimento e che quindi l’organo competente
ad adottare il provvedimento finale può sempre
disattenderli.
Proprio rifacendosi a questo principio, altra parte
della giurisprudenza afferma che il parere obbligatorio
della commissione edilizia sull'istanza dell’interessato
(volta al rilascio di un titolo edilizio vero e proprio) non
definisce il procedimento e, pertanto, non è atto
autonomamente impugnabile (cfr. TAR Roma Lazio sez. II,
16.03.2010 n. 4170; cfr. anche TAR Lombardia Brescia,
sez. II, 20.04.2011 n. 588).
A maggior ragione deve ritenersi non impugnabile un
parere preventivo (reso quindi addirittura al di fuori del
procedimento) richiesto proprio al fine di valutare se dare
o meno corso ad esso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.02.2013 n. 536 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
legge n. 241/1990, nel fornire definizioni e principi in
materia di accesso, ha qualificato il "diritto di accesso"
come il diritto degli interessati di prendere visione e di
estrarre copia di documenti amministrativi, mentre per
"interessati" ha inteso tutti i soggetti privati, compresi
quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che
abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (cfr.
art. 22, comma 1, lett. a e b).
Al contempo, la stessa legge n. 241/1990 conferisce al
"diritto" di accesso, attese le sue rilevanti finalità di
pubblico interesse, valore di "principio generale
dell’attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la
trasparenza" (cfr. art. 22, comma 2, come sostituito dalla
legge n. 69/2009).
Circa il diritto di accesso agli atti in materia edilizia,
l’individuazione della "situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso" (art.
22 della legge n. 241/1990) è operata direttamente dalla
legislazione, che di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già
disponeva che "chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti
di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza
edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi
o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore
generale e dei piani particolareggiati di esecuzione".
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n.
380, nel fissare le competenze e responsabilità dello
"sportello unico per l’edilizia", ha individuato quella di
"fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)"
(cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) "anche mediante
predisposizione di un archivio informatico", al dichiarato
fine di consentire a chiunque vi abbia interesse "l’accesso
gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle
domande presentate, allo stato del loro iter procedurale,
nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili".
--------------
I pareri legali sono suscettibili di accesso, ove posti a
base del provvedimento finale come parte integrante della
sua motivazione.
Al riguardo, è opportuno rammentare, in via
generale, come la legge n. 241/1990, nel fornire definizioni
e principi in materia di accesso, abbia qualificato il
"diritto di accesso" come il diritto degli interessati di
prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi, mentre per "interessati" ha inteso tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso (cfr. art. 22, comma 1, lett. a e b).
Al contempo, la stessa legge n. 241/1990 conferisce al
"diritto" di accesso, attese le sue rilevanti finalità di
pubblico interesse, valore di "principio generale
dell’attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la
trasparenza" (cfr. art. 22, comma 2, come sostituito dalla
legge n. 69/2009).
Circa il diritto di accesso agli atti in materia edilizia,
l’individuazione della "situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso" (art.
22 della legge n. 241/1990) è operata, così come evidenziato
dalla giurisprudenza amministrativa (cfr., Cons. di Stato,
sez. IV, n. 2092/2010), direttamente dalla legislazione, che
di seguito si riporta.
L’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, già
disponeva che "chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti
di progetto e ricorrente contro il rilascio della licenza
edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi
o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore
generale e dei piani particolareggiati di esecuzione".
L’art. 5 del Testo unico approvato con D.P.R. 06.06.2001, n.
380, nel fissare le competenze e responsabilità dello
"sportello unico per l’edilizia", ha individuato quella di
"fornire informazioni sulle materie di cui al punto a)"
(cioè sul rilascio dei titoli abilitativi) "anche mediante
predisposizione di un archivio informatico", al dichiarato
fine di consentire a chiunque vi abbia interesse "l’accesso
gratuito, anche in via telematica, … all’elenco delle
domande presentate, allo stato del loro iter procedurale,
nonché a tutte le possibili informazioni utili disponibili".
Ebbene, con specifico riguardo al caso in esame, non v’è
dubbio che l’Immobiliare Polo vanti un interesse
giuridicamente tutelato alla conoscenza dei documenti
inerenti la vicenda urbanistico-edilizia meglio descritta
nell’istanza di accesso, così come richiamata nella parte in
fatto.
Si tratta, infatti, di soggetto che, non soltanto, è
proprietario di area confinante con quella ceduta dal Comune
resistente alla controinteressata (situazione nella quale
rileva, pertanto, l’elemento della cd. vicinitas), ma che ha
stipulato col Comune di Brugherio la convenzione urbanistica
di attuazione del PII “San Cristoforo” (per l’ambito C1.4
del PRG), le cui prescrizioni si assumono essere violate
proprio con i titoli edilizi o, comunque, con gli atti
adottati dal Comune in favore della Brughiera Due F. srl.
L’area di proprietà di quest’ultima società, infatti, stando
alla ricostruzione dell’istante, avrebbe dovuto essere
destinata con Piano di zona comunale ad area per l’edilizia
economico residenziale, nel rispetto, contestato, delle
prescrizioni contenute nella Convenzione attuativa del cit.
P.I.I. San Cristoforo.
In tale situazione appare evidente che l’Immobiliare Polo
vanti una posizione giuridica all’accesso che, in quanto
qualificata e differenziata e non meramente emulativa o
preordinata ad un controllo generalizzato dell'azione
amministrativa, è idonea -ai sensi dell'art. 22 della L. n.
241/1990- a legittimare il diritto di accesso alla
documentazione amministrativa richiesta (cfr. Cons. Stato.
Sez. V, 14.05.2010, n. 2966).
È, pertanto, illegittimo il diniego opposto dal Comune di
Brugherio in ordine all’istanza di accesso concernente i
titoli edilizi eventualmente rilasciati a favore della soc.
controinteressata (e i relativi dati progettuali),
trattandosi di atti detenuti dal Comune medesimo e
concernenti un’attività di pubblico interesse alla cui
conoscenza la ricorrente è specificamente interessata in
virtù della riferita situazione di cd. vicinitas (cfr. al
riguardo anche l’ampia definizione di <<documento
amministrativo>> di cui all’art. 22, co. 1, lett. d), della
legge n. 241/1990, che delimita l’oggetto dell’acceso
facendo riferimento a <<ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra
specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi
ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale>>).
D’altra parte, la motivazione addotta dalla difesa
resistente a giustificazione del diniego (o comunque del
differimento) di accesso è priva di un valido supporto
normativo, atteso che essa non è riconducibile ad alcuna
delle ipotesi che, ai sensi dell’art. 24 legge n. 241/1990,
giustificano l’esclusione dal diritto di accesso.
Le limitazioni all'accesso possono essere disposte, infatti,
unicamente nelle ipotesi previste dal comma 1 e dal comma 6
dell'art. 24, ovvero in quelle ulteriori eventualmente
individuate, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 24, dai
regolamenti di cui le Amministrazioni si siano dotate per
disciplinare l'accesso alla documentazione in loro possesso.
Sennonché, la documentazione afferente la vicenda che
coinvolge la società controinteressata e il Comune di
Brugherio, di cui l'odierna ricorrente ha domandato
l'ostensione, non rientra –così come evidenziato dalla
ricorrente- in alcuna delle summenzionate ipotesi
derogatorie e, pertanto, la relativa domanda di accesso non
è suscettibile -sotto tale aspetto- di limitazioni.
Né potrebbe invocarsi, nella fattispecie in esame, la
prevalenza del diritto alla riservatezza del soggetto cui i
documenti si riferiscono rispetto all'interesse del
richiedente, in quanto la documentazione oggetto della
domanda non investe alcuno dei dati -sensibili o
sensibilissimi- la cui tutela giustifica la facoltà di
esclusione dell'accesso, sancita dal comma 7 del medesimo
art. 24.
Trova, pertanto, nella specie, incondizionata applicazione
il principio di cui all’art. 24, comma 7, della L. n.
241/1990 (per il quale "deve comunque essere garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici"), senza che possa essere
attribuito alcun rilievo al coinvolgimento in sede
giurisdizionale dell’odierna resistente (a più riprese
invocato dal Comune, sia nel diniego del 24.08.2012 che
nell’odierna discussione camerale), giacché tale
circostanza, sia pure sotto forma di tutela del diritto di
mantenere riservata la conoscenza degli atti processuali
dell’amministrazione, non vale a superare l'obbligo posto in
capo alla P.A. di garantire la trasparenza dell'attività
amministrativa, nella parte in cui viceversa sussistono
tutti i presupposti oggettivi e soggettivi del diritto di
accesso.
In altri termini, la tutela del diritto di difesa
strettamente inerente al contenzioso in essere con le
parti, non può essere utilizzata, come pretende il Comune,
per opporsi in toto al diritto di accesso, ma eventualmente
e motivatamente per escludere l’accesso a quei documenti (e
solo a quelli) che non possono e non debbono essere
divulgati perché non ineriscono al procedimento
amministrativo ma al contenzioso in essere tra soggetti
terzi rispetto al ricorrente che non risulta essere né parte
né contro interessato né interveniente nello stesso
giudizio.
D’altro canto, non soltanto è del tutto indimostrato che
l’ostensione dei documenti richiesti dall’Immobiliare Polo
possa pregiudicare il diritto di difesa del Comune, atteso
che il diniego di accesso è formulato in termini generici e
non con riferimento a determinati documenti riservati, ma,
va comunque rimarcato come, secondo la giurisprudenza
amministrativa maggioritaria, persino i pareri legali sono
suscettibili di accesso, ove posti a base del provvedimento
finale come parte integrante della sua motivazione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 23.06.2011, n. 3812; id.
15.04.2004, n. 2163; TAR Lombardia, Milano, II, 18.11.2011
n. 2788; TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 16.03.2011, n. 658
e TAR Campania, Napoli, 16.05.2007, n. 5264).
L’area dei documenti preordinati alla difesa giudiziale
sottratti all’accesso non può che essere, in tal senso,
circoscritta ai soli pareri o relazioni legali che non
abbiano assunto alcuna rilevanza esterna e il cui contenuto
non sia stato in alcun modo trasfuso in un provvedimento.
Quanto alla più esatta individuazione dei documenti, va
rammentato come ciò che rileva, ai fini dell'accoglimento
dell'istanza di accesso, non sia il "nomen iuris" di un
determinato atto o documento dell'Amministrazione, ma
l'informazione in esso contenuta, indipendentemente dal modo
in cui l'atto sia stato denominato.
Di conseguenza, al di là del termine con cui siano stati
indicati gli atti cui si intende accedere, l'accesso deve
essere consentito a tutti gli atti esistenti contenenti le
informazioni indicate nell’istanza (cfr. Consiglio di Stato,
VI, 26.01.2006, n. 229)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2013 n. 38 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel silenzio del
legislatore, i termini di costituzione delle parti intimate
devono ritenersi di natura ordinatoria, e non perentoria,
con la conseguenza che la costituzione in giudizio
dell’Amministrazione intimata, ancorché avvenuta oltre il
termine di sessanta giorni di cui all'art. 46, c.p.a. è
ammissibile. La costituzione tardiva dell'Amministrazione
non incorre, pertanto, in alcuna decadenza, avendo la sola
conseguenza che la stessa interviene allo stato in cui il
procedimento si trova.
Ciò comporta che non può fare un utilizzo tardivo delle
potestà processuali di produrre documenti e memorie, in
quanto tali potestà soggiacciono ai termini perentori/decadenziali
previsti direttamente dalla normativa che regola il processo
amministrativo; per cui la parte tardivamente costituita il
giorno prima dell’udienza può solo svolgere la sola difesa
orale nel corso dell’udienza di discussione.
Secondo, infatti, un costante e consolidato orientamento
degli organi di giustizia amministrativa, nel silenzio del
legislatore, i termini di costituzione delle parti intimate
devono ritenersi di natura ordinatoria, e non perentoria,
con la conseguenza che la costituzione in giudizio
dell’Amministrazione intimata, ancorché avvenuta oltre il
termine di sessanta giorni di cui all'art. 46, c.p.a. è
ammissibile (Cons. St., sez. V, 19.06.2012, n. 3562, e
sez. III, 23.02.2012, n. 1070). La costituzione
tardiva dell'Amministrazione non incorre, pertanto, in
alcuna decadenza, avendo la sola conseguenza che la stessa
interviene allo stato in cui il procedimento si trova.
Ciò comporta che non può fare un utilizzo tardivo delle
potestà processuali di produrre documenti e memorie, in
quanto tali potestà soggiacciono ai termini perentori/decadenziali
previsti direttamente dalla normativa che regola il processo
amministrativo; per cui la parte tardivamente costituita il
giorno prima dell’udienza può solo svolgere la sola difesa
orale nel corso dell’udienza di discussione (TAR Toscana,
sez. III, 12.03.2012, n. 496, TAR Lombardia, sede
Milano, sez. II, 07.07.2011, n.1829, TAR Campania,
sede Napoli, sez. VI, 10.01.2011, n. 35, e TAR
Lazio, sede Roma, sez. I, 07.04.2011, n. 3108, e sez. III,
03.08.2012, n. 7216).
Né sembra al Collegio che nella specie si rinvengono ragioni
per autorizzare “eccezionalmente” tale deposito in base al
disposto dell’art. 54 del codice.
Di conseguenza, nel mentre deve ritenersi ammissibile la
costituzione in giudizio del Comune, in accoglimento della
puntuale eccezione della parte ricorrente, deve essere
rilevata la tardività, con conseguente inutilizzabilità ai
fini del presente giudizio, della memoria depositata dalla
difesa comunale il 05.12.2012 (TAR Sicilia, sez.
Catania, 23.03.2012, n. 831)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.12.2012 n. 556 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per effetto del D.Lgs. n. 4/2008 oggi debbono
essere sottoposti a valutazione ambientale strategica (VAS)
tutti gli atti di “pianificazione territoriale” e di
“destinazione dei suoli” e tale valutazione deve essere
effettuata -come disposto dall’art. 11, n. 3- prima
dell’approvazione del piano, in quanto tale normativa ha
individuato, quale unico limite temporale inderogabile per
l’espletamento della valutazione ambientale, la data di
“approvazione” del piano e non quella di “adozione”, tanto
che l’art. 11, n. 5, ha dichiarato espressamente annullabili
i provvedimenti di approvazione degli strumenti
pianificatori ove non siano stati preceduti dal
sub-procedimento in questione.
Con la prima doglianza la
parte ricorrente ha dedotto che -in violazione della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 27.06.2001 n. 2001/42/CE, e degli artt. 4 e segg. del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152 (in vigore a decorrere al 31.07.2007)- non era stata esperita, prima dell’approvazione del
piano, la prescritta valutazione ambientale strategica (VAS),
né, quanto meno, era stata effettuata la relativa verifica
di assoggettabilità.
Tale doglianza è fondata.
Va al riguardo ricordato che la direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio 27.06.2001 n. 2001/42/CE,
concernente la valutazione degli effetti i determinati piani
e programmi sull’ambiente, ha imposto all’art. 3 agli Stati
membri di individuare i piani ed i programmi che “possono
avere effetti significativi sull’ambiente”; mentre la norma
transitoria contenuta nell’art. 13 ha da un lato imposto
agli Stati membri di conformarsi alla direttiva entro il 21.07.2004 e dall’altro ha precisato (al n. 3) che tale
obbligo non si applica ai piani ed ai programmi il cui primo
atto formale preparatorio sia precedente a tale data e “che
sono stati approvati più di ventiquattro mesi dopo”.
Tale direttiva, ritenuta dalla giurisprudenza non
self-executing (Cons. St., sez. IV, 14.04.2010, n. 2097,
TAR Lombardia, sede Milano, sez. II, 17.02.2011, n.
481, e TAR Veneto, sez. I, 07.10.2011, n. 1503), è
stata recepita con il D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, il quale
ha previsto la sottoposizione a valutazione ambientale non
solo dei “piani e dei programmi statali, regionali e sovracomunali” (art. 4, n. 1, lett. a, n. 3), ma anche dei
“piani e programmi che possono avere effetti significativi
sull’ambiente” (art. 4, n. 1, lett. a, n. 4); l’art. 7 ha
previsto a tal fine al n. 5 che “l’autorità competente
all’approvazione del piano deve preliminarmente verificare
se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione
possa avere effetti significativi sull’ambiente”. La norma
transitoria contenuta nell’art. 52 di tale decreto ha poi
previsto che i procedimenti amministrativi in corso “alla
data di entrata in vigore del presente decreto, nonché i
procedimenti per i quali a tale data sia già stata
formalmente presentata istanza introduttiva da parte
dell'interessato, si concludono in conformità alle
disposizioni ed alle attribuzioni di competenza in vigore
all'epoca della presentazione di detta istanza”.
Tale decreto, a seguito di successive proroghe, è entrato in
vigore il 31.07.2007 (Cons. St., sez. VI, 10.05.2011, n. 2755).
Successivamente, tale decreto legislativo ha subito
sostanziali modifiche a seguito prima del D.Lgs. 16.01.2008, n. 4 (c.d. primo correttivo), e poi del D.Lgs. 29.06.2010, n. 120. L’intera parte seconda del D.Lgs. 152
del 2006 è stata, infatti, abrogata dall’art. 4, comma 2,
del decreto legislativo 16.01.2008, n. 4, ed è stata
sostituita dagli artt. 1, comma 2, e 4, comma 3, del
medesimo decreto correttivo, che hanno introdotto, in
materia di VAS, una disciplina (v. gli artt. da 4 a 18 e da
30 a 36, nonché gli allegati da I a V della parte seconda)
largamente differente. Le disposizioni in materia di VAS
contenute nel decreto originario hanno, pertanto, avuto
vigenza dal 31.07.2007 al 13.02.2008, data di
entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal c.d.
primo correttivo.
Per effetto di tale D.Lgs. n. 4/2008 oggi debbono, pertanto,
essere sottoposti a valutazione ambientale strategica tutti
gli atti di “pianificazione territoriale” e di “destinazione
dei suoli” e tale valutazione deve essere effettuata -come
disposto dall’art. 11, n. 3, e come questa stessa Sezione ha
già avuto modo di chiarire con sentenze 13.12.2011, nn.
693-700- prima dell’approvazione del piano, in quanto tale
normativa ha individuato, quale unico limite temporale
inderogabile per l’espletamento della valutazione ambientale
la data di “approvazione” del piano, e non quella di
“adozione”, tanto che l’art. 11, n. 5, ha dichiarato
espressamente annullabili i provvedimenti di approvazione
degli strumenti pianificatori, ove non siano stati preceduti
dal sub procedimento in questione (cfr. nello stesso senso
TAR Sicilia, sez. Catania, sez. I, 01.09.2011, n.
2143, e sede Palermo, sez. III, 31.10.2011, n. 1934, e
TAR Friuli Venezia - Giulia, 10.08.2011, n. 365).
Con riferimento a tali considerazioni ritiene il Collegio
che l’atto impugnato sia inficiato dal vizio denunciato in
quanto -come sembra evidente dagli atti di causa- l’atto
di approvazione del piano non è stato preceduto dal sub
procedimento in questione.
Né appaiono al riguardo rilevanti le difese prospettate dal
Comune che ha fatto riferimento alla circostanza che il
piano era stato adottato prima della predetta modifica
introdotta con il D.Lgs. 16.01.2008, n. 4, e che le
norme transitorie contenute nell’art. 35, n. 2-ter (nuovo
testo), prevedono espressamente che “le procedure di VAS,
VIA ed AIA avviate precedentemente all’entrata in vigore del
presente decreto sono concluse ai sensi delle norme vigenti
al momento dell'avvio del procedimento”.
Secondo la resistente, invero, l’art. 4, 1° co., n. 3), del
D.Lgs. n. 152/2006, nella versione originaria, prevedeva
“l’utilizzo della valutazione ambientale [strategica] nella
stesura dei piani e dei programmi statali, regionali e sovra
comunali” e che i PRG comunali fossero esclusi dalla VAS, la
cui necessità sarebbe stata introdotta dal D.Lgs. n. 4/2008
(entrato in vigore il 13.02.2008), che, all’art. 6, ha
esteso tale procedura a tutti i piani ed i programmi di
pianificazione territoriale e di destinazione dei suoli,
mentre il procedimento di adozione del PRG, concluso con la
deliberazione n. 37 del 21.12.2007, soggiaceva alla
normativa ante riforma e nessuna necessità era ravvisata in
ordine alla VAS.
Deve, invero, osservarsi in merito innanzitutto che il D.Lgs. n. 152/2006 nel suo testo originario prevedeva, come
si è già ricordato, la sottoposizione a valutazione
ambientale anche dei “piani e programmi che possono avere
effetti significativi sull’ambiente” (art. 4, n. 1, lett. a,
n. 4) e tra tali piani non può non rientrare lo strumento
urbanistico in questione che disciplina una zona di
rilevante dimensione (l’intero territorio comunale), che
comprende anche zone sottoposte a particolare tutela
ambientale; tale previsione impositiva dell’obbligo di
eseguire la procedura VAS era in vigore in epoca antecedente
la deliberazione di adozione dello strumento urbanistico in
questione. E basta al riguardo ricordare quanto questo
Tribunale ha già avuto modo di evidenziare con le sopra
ricordate sentente del 2011 relative ad una fattispecie per
molti versi analoga relativa al P.R.G. del Comune di Vasto.
Va, inoltre, considerato che la mancata adozione della
procedura VAS non attiene ad un aspetto meramente formale,
ma al contrario appare fondamentale per determinare le
scelte di pianificazione del territorio.
Inoltre, va anche osservato per un verso che tale procedura
di valutazione ambientale strategia deve precedere, come già
detto, non la delibera di adozione, ma quella di
approvazione del piano e per altro verso che la norma
transitoria contenuta nel predetto art. 35, così come quella
contenuta nel previgente art. 52, si riferisce alle ipotesi
in cui fosse già stata avviata una procedura VAS, mentre
nella specie tale procedura è stata omessa del tutto e non
risulta sia mai stata espletata (TAR Sicilia, sez.
Catania, 23.03.2012, n. 831)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.12.2012 n. 556 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 20.05.2013 |
ã |
OKKIO: la
manutenzione degli impianti tecnologici, innanzitutto!! |
Siamo tutti indaffarati, pieni di rogne sul tavolo,
sotto organico ed il lavoro che si accumula di
giorno in giorno ... senza contare il tempo che si
perde appresso agli amministratori che ogni giorno
ne inventano una nuova anziché -prima di ogni cosa-
spendere le proprie energie nel cercare di azzerare
il pregresso di lavoro inevaso, creare/sistemare le
banche dati necessarie per poter lavorare meglio e
garantire anche un miglior servizio al cittadino e
lavorare fiduciosi, così, con miglior qualità per il
futuro ...
Per non parlare, poi, del tempo che si perde appresso
ai progetti di propaganda politica perché (guarda
caso) la legislatura sta per finire e non si vuole
perdere il consenso popolare, cercando di realizzare
quanto più possibile con una precisa caratteristica:
"abbagliare" l'elettore !! (così se ne
ricorderà -favorevolmente- nella cabina elettorale
...).
Invero, le priorità sono ben altre: per esempio,
sistemare, ammodernare, mettere in sicurezza ciò che
già c'è al fine di garantire la pubblica incolumità
... e spesso e volentieri queste cose non si vedono,
non "abbagliano" l'elettore !!
Tuttavia, se
non si vuole rischiare in prima persona, sarà bene
porre maggiormente l'attenzione su ciò che,
quotidianamente, non attrae i nostri pensieri:
stiamo alludendo agli impianti tecnologici.
Ebbene, un tecnico comunale è stato condannato dal
Tribunale penale, condanna confermata in Cassazione
laddove il ricorso è stato dichiarato inammissibile,
per aver temporeggiato oltre misura nel metter mano
all'impianto elettrico risultato non a norma a
seguito di sopralluogo da parte della ASL. Di
seguito le sentenze ... |
PATRIMONIO: Va
condanno il dirigente dell'ufficio tecnico per non
aver tenuto gli impianti elettrici (nel caso di
specie, del parco comunale, della biblioteca e
dell'archivio del Comune) in condizioni di
sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81
l'obbligo della sicurezza grava sia sul datore di
lavoro e sia sul dirigente.
All'udienza odierna avveniva la discussione. Al
termine della stessa il PM chiedeva l'assoluzione
dell'imputato per non aver commesso il fatto; la
difesa si associava.
Ritiene questo decidente che in base agli elementi
acquisiti nel corso del giudizio debba essere,
invece, affermata la penale responsabilità di L.G.
per tutte e tre le contravvenzioni allo stesso
ascritte.
...
Riferisce in udienza in ordine ai fatti il tecnico
Asl della prevenzione G.D.:
- che interveniva presso il Comune di Severe nel
2008 in due distinte occasioni per verificare la
idoneità degli impianti elettrici sotto il profilo
della sicurezza;
- che, esattamente il controllo riguardava il
20.05.2008 il Parco Comunale ed il 28.05.2008 la
Biblioteca comunale (e l'archivio comunale);
- che per il Parco Comunale esattamente le carenze
rilevate erano tre, così puntualizzate nel verbale
di contestazione delle irregolarità: "Sono rotti
i morsetti di connessione dei conduttori PE ai
dispersori collocati lungo il perimetro del campo da
tennis, gli interruttori del quadro generale non
riportano chiare indicazioni dei circuiti ai quali
si riferiscono ed il dispositivo differenziale del
quadro prese, collocato all'aperto, è guasto e privo
di pannello di protezione";
- che il verbale di violazione veniva elevato nei
confronti del geom. L.G., quale responsabile del
settore gestione del territorio del Comune di Sovere;
...
Al prevenuto L. viene, invero, rimproverato -nella
contestazione che la Pubblica accusa ha elevato
elevato- di non aver tenuto gli impianti elettrici
del parco comunale, della biblioteca e dell'archivio
del Comune di Sovere in condizioni di sicurezza.
Ai sensi dell'ari. 68 del D.L.vo 09.04.2008 n. 81
l'obbligo della sicurezza grava sia sul datore di
lavoro e sia sul dirigente.
...
Non vi è necessità di avere una particolare
competenza per rendersi conto che gli impianti
elettrici sono in uno stato di abbandono mancando
pure i normali interventi di manutenzione per la
sostituzione, ad cs., delle luci che non funzionano
(significativamente la Asl, come visto, respinge la
richiesta di proroga del termine inerente gli
adempimenti relativi al parco comunale perché
ritiene che si sia di fronte a semplici interventi
di ordinaria manutenzione).
Segue che la pratica stessa non può non avere una
priorità nella gestione (dovendo altrimenti
prendersi l'iniziativa doverosa della chiusura per
motivi di sicurezza dell'archivio, della biblioteca
e del parco comunale), con evidente stimolazione del
progettista se lo stesso tarda a fare i sopralluoghi
e poi a redigere il progetto.
Non c'è traccia di un impegno simile del prevenuto.
Solo dopo i controlli della Asl lo stesso si attiva
in qualche modo.
La colpevolezza appare quindi innegabile (TRIBUNALE
di Bergamo, Sez. distaccata di Clusone,
sentenza 27.02.2012 n. 46). |
PATRIMONIO:
Responsabile del settore gestione del
territorio di un Comune e omissione di regolare
manutenzione per gli impianti ed i dispositivi di
sicurezza presso il parco comunale e la biblioteca.
Dichiara inammissibile il ricorso avverso la
sentenza 27.02.2012 n. 46
del
TRIBUNALE di Bergamo, Sez. distaccata di Clusone
e, di fatto, resta confermata la condanna in 1°
grado (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.03.2013 n. 10932). |
Morale?? Si svolgano le necessarie priorità con la
diligenza e correttezza del buon funzionario
pubblico, anche a costo di inimicarsi l'assessore di
turno ... diversamente, memorizzate il numero di
cellulare dell'avvocato di fiducia, con la speranza
di non doverlo chiamare nottetempo ...
20.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo
bottone:
dossier ASCENSORE |
IN EVIDENZA |
Con lo scorso
AGGIORNAMENTO AL 13.05.2013 ponevamo la questione se
all'interno del cimitero comunale occorresse, o meno, il
titolo edilizio abilitativo (ex DPR n. 380/2001) per la
costruzione di una edicola funeraria privata.
In quel contesto davamo ampia pubblicità a numerose sentenze
secondo cui non occorre che il cittadino si premuri di
acquisire preliminarmente alcun titolo edilizio ma un
semplice atto amministrativo autorizzatorio in conformità al
vigente regolamento comunale di polizia mortuaria. Sentenze
che costituiscono giurisprudenza assolutamente maggioritaria
rispetto a quella (minoritaria) che vorrebbe imporre il
rilascio del permesso di costruire (o DIA che sia ...) e,
magari, far pure pagare gli oo.uu..
Di seguito, riportiamo un'altra pronuncia che va nel senso
sopra esposto, e ringraziamo il nostro lettore che ce l'ha
segnalata.
20.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL
---------------
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
edilizia in aree cimiteriali (poiché le relative costruzioni
non comportano un carico urbanistico di tipo ordinario) è
regolata in via primaria, non dalla normazione
urbanistica, ma dalle norme del Regolamento di Polizia
Mortuaria (attualmente il D.P.R. 285/1990, che ha sostituito
il D.P.R. 803/1975, a sua volta subentrato al R.D.
21.12.1942 n. 1880) nonché, in via secondaria, non
dagli strumenti urbanistici generali, ma dal Piano
cimiteriale, che, ai sensi degli artt. 54 e segg. del citato
decreto ogni Comune è tenuto ad adottare, cosicché il
privato non deve munirsi di alcun autonomo titolo edilizio,
essendo sufficiente all’uopo il provvedimento di
approvazione previsto dall’art. 94 della citata normativa.
Parimenti, non può fondatamente sostenersi una intervenuta
automatica decadenza della concessione cimiteriale in
questione per mancato esercizio della facoltà di costruire,
in applicazione dell’art. 15, co. II, del D.P.R. 380/2001.
Invero, l’attività edilizia in aree cimiteriali (poiché le
relative costruzioni non comportano un carico urbanistico di
tipo ordinario) è regolata in via primaria, non dalla
normazione urbanistica, ma dalle norme del Regolamento di
Polizia Mortuaria (attualmente il D.P.R. 285/1990, che ha
sostituito il D.P.R. 803/1975, a sua volta subentrato al
R.D. 21.12.1942 n. 1880) nonché, in via secondaria,
non dagli strumenti urbanistici generali, ma dal Piano
cimiteriale, che, ai sensi degli artt. 54 e segg. del citato
decreto ogni Comune è tenuto ad adottare, cosicché il
privato non deve munirsi di alcun autonomo titolo edilizio,
essendo sufficiente all’uopo il provvedimento di
approvazione previsto dall’art. 94 della citata normativa
(cfr. Cass. Pen. sez. III, 02.03.1983 – Patimo)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 22.06.2009 n. 3428 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Guida
ANCE per la sicurezza nelle imprese edili: le responsabilità
del datore di lavoro e la delega di funzioni, con 13 modelli
di incarico.
Garantire adeguati livelli di sicurezza sul lavoro
nell’ambito di un’impresa edile è un’operazione complessa
che richiede un’apposita organizzazione che deve collaborare
con il datore di lavoro.
Con la delega di funzioni il Testo Unico sulla Sicurezza sul
Lavoro (D.Lgs. 81/2008) ha introdotto un importante istituto
che permette di delineare i ruoli e le responsabilità
all’interno di un’azienda.
La delega di funzioni è per definizione un atto
organizzativo interno all’impresa, con il quale il datore di
lavoro (delegante) trasferisce ad un altro soggetto
(delegato) doveri originariamente gravanti su di lui, il cui
omesso o negligente adempimento può dare luogo a
responsabilità penali.
Il TUSL prevede che la delega di funzioni:
●
risulti da atto scritto recante data certa;
●
sia affidata a personale dotato di tutti i requisiti di
professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica
natura delle funzioni delegate;
●
attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione,
gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle
funzioni delegate;
●
attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo
svolgimento delle funzioni delegate;
●
sia accettata dal delegato per iscritto.
Con l’obiettivo di fornire agli imprenditori edili le
indispensabili indicazioni sulla delega in materia di
sicurezza sul lavoro, l’ANCE ha pubblicato
l’opuscolo “La responsabilità in materia di sicurezza sul
lavoro”.
La guida fornisce un quadro dettagliato sui ruoli e sulle
responsabilità tracciate dal D.Lgs. 81/2008.
Questi gli argomenti trattati:
►
Le figure previste dal Testo Unico Sicurezza e le relative
posizioni di garanzia (il datore di lavoro, il dirigente, il
preposto, il responsabile del servizio di prevenzione e
protezione)
►
La delega di funzioni (i requisiti di validità, la posizione
del delegante, modelli di organizzazione e gestione, la
posizione del delegato, la subdelega)
►
Applicazione della disciplina al settore dei lavori in
edilizia: imprese esecutrici ed impresa affidataria (il
datore di lavoro dell’impresa esecutrice, dirigenti e
preposti nei cantieri, l’impresa affidataria)
Nel documento sono inoltre presenti 13 esempi di lettere di
incarico e di delega in materia di sicurezza, utilizzabili
direttamente dai datori di lavoro
(16.05.2013 - link a www.acca.it). |
APPALTI:
La nuova responsabilità fiscale solidale nei
contratti di appalto
(dossier
ItaliaOggi Sette del 13.05.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
TRIBUTI:
Nota di approfondimento sulle innovazioni normative in
materia di IMU e Tares anche con riferimento agli
orientamenti espressi dal Mef (Risoluzione n. 5/DF del
28.03.2013 e Circolare n. 1/DF del 29.04.2013) (IFEL,
nota 10.05.2013). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità volontaria: non è così "neutra" come afferma la
Corte dei Conti
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 16.05.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
P. Cosmai,
Il diritto di accesso agli atti in materia ambientale (Ambiente
& Sviluppo n. 5/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Responsabilità del proprietario del fondo e scarico abusivo
di rifiuti (nota a Cass. pen. n. 9213/2013) (Ambiente
& Sviluppo n. 5/2013). |
APPALTI:
G. F. Nicodemo,
Sull’esclusione per ‘‘grave negligenza’’ quando è
commessa a danno di altre p.a.
(Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
URBANISTICA:
V. Gastaldo,
Opere integrative previste nella convenzione urbanistica e
necessità di una procedura ad evidenza pubblica per la loro
realizzazione (Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
URBANISTICA:
S. R. Masera,
La VAS del piano attuativo conforme allo strumento
urbanistico generale
(Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
UN’INTERPRETAZIONE FUORI DAL CORO DELL’ART. 9 DELLA LEGGE N.
122/1989 - (nota critica a TAR Lazio, Roma, sez. II-bis,
sentenza n. 4087 del 23.04.2013) (tratto da
www.lexambiente.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 20.05.2013, "Aggiornamento
Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008, art.
57)" (decreto
D.S. 13.05.2013 n. 3951). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2013, "Terzo
aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 09.05.2013 n. 3885). |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa il fatto che l'Agenzia del territorio (ora
Agenzia delle Entrate) richiede al comune il riconoscimento
di una somma di denaro a titolo di "rimborso dei costi
sostenuti per lo svolgimento delle attività richieste",
in forza del dettato di cui all'art. 64 del d.lgs. n.
300/1999 (comma 3-bis), per rendere la richiesta perizia ex
art. 37, comma 4, dpr 380/2001.
Il comune non è d'accordo a riconoscere tale somma, chiede
lumi alla Corte per non incappare in una spesa illegittima e
la stessa risponde picche (... Con specifico riferimento
ai quesiti posti, gli stessi devono ritenersi inammissibili,
in quanto, oltre ad afferire a materia esulante dal concetto
di contabilità, risultano altresì diretti alla risoluzione
di un contrasto tra enti, con conseguente trasformazione
dell’attività consultiva della Corte in una funzione
latamente arbitrale).
---------------
Il comune istante
espone di non potere, ai sensi della normativa edilizia
vigente, comminare le sanzioni pecuniarie urbanistiche senza
aver preliminarmente acquisito agli atti la perizia redatta
dall'Agenzia del Territorio (ora Agenzia dell'Entrate) circa
la determinazione dell'eventuale incremento di valore
dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere
edilizie abusive oggetto di sanatoria.
Al riguardo, l'Agenzia delle Entrate, per rendere al comune
la perizia richiesta, imporrebbe la sottoscrizione di un "accordo
di collaborazione per attività di valutazione immobiliare"
la cui sottoscrizione, però, comporta il riconoscimento alla
stessa Agenzia di una somma di denaro a titolo di "rimborso
dei costi sostenuti per lo svolgimento delle attività
richieste", e ciò in forza del dettato di cui all'art.
64 del d.lgs 30.07.1999, n. 300 (nello specifico il comma
3-bis).
Il comune evidenzia altresì che -in forza delle casistiche
di sanatoria che si possono presentare al vaglio
dell'ufficio tecnico comunale ex art. 37, comma 4, di cui
sopra- verosimilmente si avrebbe una percentuale
maggioritaria di sanatorie per le quale non si verifica
alcun incremento di valore dell'immobile conseguente alle
opere abusive eseguite ed oggetto di sanatoria talché la
sanzione amministrativa da comminare sarebbe quantificabile
nel minimo di legge pari a € 516,00.
Tanto premesso, il comune richiede:
i. se sia pertinente la norma di legge invocata
dall'Agenzia delle Entrate, per il caso di specie, circa la
richiesta di somma di denaro a titolo di "rimborso dei
costi sostenuti per lo svolgimento delle attività richieste";
ii. comunque, se sia legittimo -da parte del comune- il
riconoscimento all'Agenzia delle Entrate della somma di
denaro che sarà richiesta; in caso affermativo ai quesiti
precedenti:
iii. se la spesa da sostenere, nei confronti dell'Agenzia delle
Entrate, potrà/dovrà avvenire a consuntivo e solamente a
seguito della produzione in atti delle necessarie pezze
(sic) giustificative;
iv. se sia legittimo recuperare la spesa sostenuta, nei
confronti dell'Agenzia delle entrate, addebitando al
richiedente la sanatoria edilizia unitamente alla sanzione
pecuniaria di cui sopra.
...
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo di
ammissibilità del quesito, occorre rammentare che la
richiesta di parere è formulata ai sensi dell’articolo 7,
comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, recante “Disposizioni
per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla
legge costituzionale 18.10.2001, n. 3”.
La disposizione contenuta nell’art. 7, comma 8, della legge
131/2003 deve essere raccordata con il precedente comma 7,
norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di
verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il
perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e
regionali di principio e di programma, la sana gestione
finanziaria degli enti locali.
Lo svolgimento delle funzioni è qualificato dallo stesso
legislatore come una forma di controllo collaborativo.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il
comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a
quelle del precedente comma che, lungi dal conferire alle
Sezioni regionali di controllo un generale ruolo di
consulenza, la limitano alla sola contabilità pubblica.
Preliminare all’ulteriore procedibilità del parere è quindi
la ricomprensione del parere tra quelli attribuibili per
materia alle Sezioni regionali di controllo.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, intervenute con
una pronuncia in sede di coordinamento della finanza
pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto legge
01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla
legge 03.08.2009, n. 102, hanno al riguardo precisato che
detto concetto non si estende sino a ricomprendere la
totalità dell’azione amministrativa che presenti riflessi di
natura finanziaria, ma deve intendersi limitato al “sistema
di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e
patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici”, sia
pure “in una visione dinamica dell’accezione che sposta
l’angolo visuale dal tradizionale contesto della gestione
del bilancio a quello inerente ai relativi equilibri”.
Con specifico riferimento ai quesiti posti,
gli stessi devono ritenersi inammissibili, in quanto, oltre
ad afferire a materia esulante dal concetto di contabilità
come sopra descritto, risultano altresì diretti alla
risoluzione di un contrasto tra enti, con conseguente
trasformazione dell’attività consultiva della Corte in una
funzione latamente arbitrale
(cfr nei termini la Sezione con deliberazione 18.03.2013, n.
95)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.05.2013 n. 201). |
ENTI
LOCALI: Partecipate. La Corte dei conti lombarda «amplia» le opzioni
degli enti locali.
Amministratore unico anche per i servizi pubblici.
Riduzione Cda non più limitata alle società strumentali.
Gli enti locali devono procedere alla nomina dei componenti
dei consigli di amministrazione delle società partecipate
nel rispetto dei limiti numerici stabiliti dalla legge, ma
possono optare per un amministratore unico sia per le
società che svolgono attività strumentali che in quelle che
gestiscono servizi pubblici.
La Corte dei conti, sezione regionale controllo Lombardia,
con il
parere 03.05.2013 n. 186 ha
chiarito le problematiche applicative determinate
dall'articolo 4, comma 5 del Dl 95/2012, evidenziando
anzitutto come gli organi di amministrazione societari
debbano rispettare i rigorosi limiti dimensionali previsti
dalla legge.
Il quadro normativo si compone, peraltro, non solo del
l'articolo 4, comma 5 del Dl spending review, ma anche
dell'articolo 1, comma 729, della legge 296/2006: entrambe le
disposizioni prevedono una composizione che può variare da
un numero massimo di 3 membri a un numero massimo di 5 per
le società a capitale interamente pubblico.
I parametri della rilevanza e della complessità delle
attività svolte indicati dalla norma del 2012 devono essere
rapportati al riferimento di valore stabilito dalla norma
del 2006, che individua il discrimine nel valore di due
milioni di euro del capitale sociale.
La scelta dei componenti dei consigli di amministrazione
delle società partecipate deve comprendere anche la
designazione di almeno due o tre dipendenti degli enti
locali soci (a seconda che il cda sia composto nel massimo
da tre o cinque componenti), i quali hanno l'obbligo di
riversare i compensi alle proprie amministrazioni.
Gli altri amministratori (che possono essere soggetti
esterni all'ente socio) dovranno essere scelti o designati
nel rispetto degli indirizzi elaborati dal Consiglio
comunale o provinciale.
La Corte dei conti lombarda evidenzia tuttavia come i soci
pubblici possano optare per l'amministratore unico al posto
del cda, sia nelle società che gestiscono servizi pubblici
sia in quelle che gestiscono attività strumentali, in quanto
tale soluzione rientra pienamente nella ratio di risparmio
della spending review. In tal caso, tuttavia, risulta
evidente come l'amministratore possa essere scelto, a
discrezione dell'ente locale socio, tra propri dipendenti o
soggetti esterni.
Nel nominare gli amministratori destinati a ricoprire il
ruolo di componente del cda o di amministratore unico gli
enti locali di dimensioni maggiori devono tener conto del
nuovo limite posto dall'articolo 7, comma 2, del Dlgs
39/2013. La disposizione, infatti, impedisce che a coloro
che siano stati presidente o amministratore delegato di enti
di diritto privato controllati da enti locali della stessa
Regione siano conferiti incarichi di amministratore di ente
di diritto privato in controllo pubblico da parte di una
Provincia, di un Comune o di un'unione di Comuni con
popolazione superiore a 15mila abitanti.
In altre parole chi è stato presidente di una società
partecipata non può essere nominato nel cda della stessa
società. Inoltre, per i dirigenti delle amministrazioni
locali che svolgono attività di controllo sulle partecipate
occorre tener conto dell'incompatibilità determinata
dall'articolo 9, comma 1, dello stesso Dlgs 39/2013.
---------------
Le scelte
01 |I COMPONENTI
La Corte dei conti della Lombardia, rispondendo a un
quesito, ha ammesso che la strada dell'amministratore unico,
indicata dal Dl spending review, è percorribile non solo per
le società partecipate che svolgono attività strumentali, ma
anche per quelle che gestiscono servizi pubblici locali, in
un'ottica di risparmio
02 | LE INCOMPATIBILITÀ
Gli enti locali non possono nominare nel consiglio di
amministrazione di una loro partecipata i soggetti che siano
stati presidenti
o amministratori delegati di società partecipate
da Province, Comuni o unioni di Comuni con oltre 15mila
abitanti (articolo
Il Sole 24 Ore del 13.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento del servizio di assistenza e del servizio
infermieristico a favore degli ospiti del Centro sociale
residenziale per anziani. Esclusione di un concorrente.
Le indicazioni fornite dalla
giurisprudenza e dall'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp) in
merito alla portata del precetto contenuto nell'art. 46, c.
1-bis, del D.Lgs. 163/2006, non appaiono univoche e
generano, pertanto, l'oggettiva incertezza di stabilire se
risulti legittimamente apposta la clausola, prevista dalla
lex specialis, del possesso 'da almeno un anno' della
certificazione di qualità, che costituisce requisito
essenziale per la partecipazione alla gara.
Il Comune, che ha già posto un quesito [1] circa la rispondenza, alle
previsioni del bando di gara per l'affidamento del 'servizio
di assistenza e servizio infermieristico rivolto agli ospiti
del Centro sociale residenziale per anziani', della
certificazione di conformità del sistema di qualità
aziendale, prodotto da una ditta in virtù di un contratto di avvalimento, richiede l'ulteriore assistenza di questo
Ufficio, al fine di stabilire se le contestazioni mosse
dalla ditta medesima, a seguito della sua esclusione dalla
gara, possano ritenersi fondate.
Occorre, anzitutto, ricordare che lo scrivente Servizio
fornisce attività di consulenza giuridico-amministrativa, a
favore degli enti locali, su problematiche aventi rilevanza
di carattere generale e non implicanti valutazioni di casi
specifici, tanto più ove si tratti di questioni che
potrebbero sfociare in un contenzioso in sede
giurisdizionale.
Si rammenta, inoltre, la possibilità, per l'Ente, di
interpellare l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp) [2].
Tuttavia, a titolo meramente collaborativo, si esaminano gli
elementi normativi e giurisprudenziali che la ditta esclusa
pone a fondamento delle proprie rimostranze, con l'auspicio
di poter coadiuvare il Comune nell'assunzione delle proprie
determinazioni al riguardo.
L'Ente ha disposto la predetta esclusione in considerazione
dei seguenti elementi:
1) il contratto di avvalimento prodotto è inidoneo, giacché
si limita a prevedere la disponibilità generica e astratta
della certificazione ISO posseduta dall'impresa ausiliaria;
2) il campo di applicazione indicato nel certificato di
qualità prodotto dalla ditta (Progettazione ed erogazione di
servizi socio-educativi in regime diurno e
socio-assistenziali in regime domiciliare per anziani,
minori e disabili. Progettazione ed erogazione di corsi di
formazione professionale) risulta sostanzialmente diverso
dal servizio oggetto di gara (Servizio di assistenza e
servizio infermieristico rivolto agli ospiti del Centro
sociale residenziale per anziani);
3) la validità della certificazione di qualità decorre dal
23.07.2012, mentre il bando di gara richiedeva il
possesso del requisito 'da almeno un anno'.
Avverso il predetto provvedimento la ditta esclusa ha
inviato la comunicazione preventiva ai sensi dell'art.
243-bis [3] del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
diffidando l'Ente a voler provvedere alla sua riammissione
in gara e preannunciando, in difetto, l'intenzione di
proporre ricorso giurisdizionale.
La ditta contesta la sanzione adottata nei suoi confronti
facendo, peraltro, riferimento ad uno solo dei motivi posti
alla base del provvedimento comunale. Essa sostiene,
infatti, che la previsione, quale requisito di
partecipazione alla gara, del possesso 'da almeno un anno'
della certificazione di qualità è lesiva del principio della
libera concorrenza, pregiudicando la partecipazione alla
procedura di tutte quelle aziende che -come essa stessa-
risultano costituite da meno di un anno e non possono,
pertanto, possedere l'anzianità del requisito nei termini
richiesti dal bando.
La ditta ricorda, in particolare, il principio di
tassatività delle cause di esclusione, desumibile dall'art.
46, comma 1-bis [4], del D.Lgs. 163/2006, il quale prevede
che «La stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali
ovvero in caso di non integrità del plico contenente
l'offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e
le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono
comunque nulle.».
Dopo aver svolto alcune considerazioni al riguardo
[5], la
ditta richiama, a sostegno della propria tesi, la sentenza
del Consiglio di Stato - Sez. V, 31.01.2012, n. 467, nella
quale è stato statuito che «solo qualora la
documentazione prodotta da un concorrente ad una pubblica
gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, di
guisa che sussista un indizio del possesso del requisito
richiesto, l'Amministrazione non può pronunciare
l'esclusione dalla procedura, ma è tenuta a richiedere al
partecipante di integrare e chiarire il contenuto di un
documento già presente, costituendo siffatta attività
acquisitiva un ordinario 'modus procedendi', ispirato
all'esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma.».
[6]
Occorre, anzitutto, rilevare che tanto l'affermazione della
ditta, quanto il richiamo giurisprudenziale, non appaiono
inerire al caso di specie, nel quale viene in rilievo la
carenza, di natura sostanziale, della prevista anzianità nel
possesso di un requisito indispensabile per la
partecipazione alla gara, ma alla diversa ipotesi di
incompletezza meramente formale nella produzione della
documentazione richiesta dal bando, rispetto alla quale deve
essere tendenzialmente consentita la regolarizzazione,
tranne ove -come chiarisce la predetta sentenza del
Consiglio di Stato- si tratti di «integrare documenti che
avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione in
quanto attinenti a requisiti essenziali per la
partecipazione».
Quanto alla portata della disposizione invocata dalla ditta,
si rende necessario segnalare che la giurisprudenza non
sembra esprimersi in maniera univoca al riguardo.
Infatti, essa afferma che:
- l'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 «introduce il
c.d. 'principio di tassatività delle cause di esclusione',
secondo cui solo le violazioni di norme di legge o di
regolamento o quelle che determinano irregolarità
sostanziali in relazione a quanto esplicitamente indicato
nella stessa disposizione, comportano l'esclusione dal
procedimento. Ciò determina, da un lato, la nullità di
quelle previsioni dei bandi ad oggetto omnicomprensivo, che
rendono obbligatoria la presentazione di tutta la
documentazione richiesta e nelle forme indicate,
riconnettendo automaticamente l'esclusione della concorrente
al generico difetto di una qualsiasi parte della
documentazione stessa; e dall'altro, l'obbligo per il
giudice di accertare se l'omissione di cui una concorrente
si lamenta (ai fini della domanda di esclusione dalla gara
di altro concorrente) sia effettivamente ascrivibile alle
condizioni del menzionato art. 46» [7];
- «In difetto di esplicite sanzioni di esclusione contenute
nella legge e/o nel bando, deve ritenersi che non possa
farsi luogo ad esclusioni, come prevede ora l'art. 46 comma
1-bis, del codice dei contratti, modificato dall'art. 4,
comma II, lett. d), D.L. 13.5.2011, n. 70»
[8];
- «anche prima della positivizzazione (ad opera del
decreto-legge n. 70 del 2011) del principio di tassatività
delle clausole di esclusione nell'ambito delle pubbliche
gare, la giurisprudenza aveva fissato il principio secondo
cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti
comminatorie di esclusione, non possono essere applicate
meccanicisticamente, ma secondo il principio di
ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua
dell'interesse che la norma violata è destinata a presidiare
per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse
pubblico effettivo e rilevante, deve essere accordata la
preferenza al favor partecipationis» [9];
- a fronte dell'incompletezza, non colmabile ricorrendo al
contenuto di altri atti, di autodichiarazioni da rendere ai
fini della partecipazione alla gara, «in applicazione delle
chiare ed inequivoche clausole del disciplinare», va
disposta l'esclusione del concorrente, dovendosi ritenere
che, anche nella vigenza dell'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006, «sia rimasta inalterata la facoltà delle
amministrazioni aggiudicatrici di richiedere, a pena di
esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti
necessari o utili per identificare e selezionare i
partecipanti ad una procedura concorsuale nel rispetto del
principio di proporzionalità, ai sensi degli art. 73
[10] e
74 [11] del Codice dei contratti (cfr. Sez. V, 12.06.2012, n. 3884)»
[12];
- «con riferimento all'attività della c.d. stazione
appaltante prodromica all'avvio della selezione, pur
confermandosi in capo ad essa il potere discrezionale a
predisporre le regole di gara, detto potere appare essere
ormai legislativamente ridotto nella latitudine di sviluppo,
in quanto condizionato al rispetto delle prescrizioni
normative che impongono all'Amministrazione procedente di
non ignorare, in tema di introduzione di clausole ostative
alla partecipazione ovvero di modalità di partecipazione il
cui inadempimento provoca l'espulsione del concorrente, la
recente formula normativa di estrinsecazione del principio
della esclusiva indicazione legislativa, con portata
tassativa, delle cause di esclusione dalla selezione. [...]
D'altronde la disciplina di gara ben può richiedere ai
concorrenti requisiti di partecipazione e di qualificazione
più rigorosi e restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla
legge, purché tali ulteriori prescrizioni si rivelino
rispettose dei principi di proporzionalità e di
ragionevolezza con riguardo alle specifiche esigenze imposte
dall'oggetto dell'appalto e comunque non introducano
indebite discriminazioni nell'accesso alla procedura (cfr.,
per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 02.02.2010 n. 426, Sez. VI, 11.05.2007 n. 2304 nonché TAR Lazio, Sez. II,
09.12.2008 n. 11147)» [13];
- «l'interpretazione delle clausole munite di sanzioni
espulsive va condotta necessariamente alla luce dell'art.
46, c. 1-bis, del D.lgs. 12.04.2006 n. 163 (che assurge al
rango di principio generale interpretativo), ossia per i
casi previsti dalla legge, nonché in quelli '... di
incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri
elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del
plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o
altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali
da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia
stato violato il principio di segretezza delle offerte...'.
Poiché nella specie, i plichi della controinteressata son
stati verificati integri, completi, sicuramente provenienti
e sottoscritti da questa e non manca l'atto richiesto,
quello sì inderogabilmente, non è possibile interpretare la
vicenda in esame fuori dal principio di tassatività delle
cause d'esclusione indicati dalla norma»
[14].
Circa la posizione assunta, sulla questione, dall'Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture (Avcp), si ritiene utile segnalare le indicazioni
fornite con determinazione 10.10.2012, n. 4
[15]:
- la ratio delle disposizioni contenute nell'art. 46, comma
1-bis, del D.Lgs. 163/2006 «è rinvenibile nell'intento di
garantire un concreto rispetto dei principi di rilievo
comunitario di massima partecipazione, concorrenza e
proporzionalità nelle procedure di gara, evitando che le
esclusioni possano essere disposte a motivo della violazione
di prescrizioni meramente formali, la cui osservanza non
risponde ad alcun apprezzabile interesse pubblico»;
- infatti, come si evince dalla relazione illustrativa del
D.L. 70/2011, «la finalità è quella di effettuare una
'tipizzazione tassativa delle cause di esclusione dalle gare
e di ridurre il potere discrezionale della stazione
appaltante', limitando 'le numerose esclusioni che avvengono
sulla base di elementi formali e non sostanziali, con
l'obiettivo di assicurare il rispetto del principio della
concorrenza e di ridurre il contenzioso in materia di
affidamento dei contratti pubblici'»;
- «La norma elenca, quindi, i vincoli ed i criteri che le
stazioni appaltanti, nonché la stessa Autorità, devono
osservare nell'individuazione delle ipotesi legittime di
esclusione, allorché redigono, rispettivamente, i documenti
di gara ed i bandi-tipo»;
- «rispetto alle ipotesi tipizzate nel presente bando-tipo,
le stazioni appaltanti possono prevedere ulteriori cause di
esclusione, previa adeguata e specifica motivazione, solo
con riferimento a disposizioni di leggi vigenti ovvero alle
altre regole tassative previste dall'art. 46, comma 1-bis,
del Codice».
Venendo, ora, all'unico motivo oggetto di contestazione da
parte della ditta esclusa e rammentato che la giurisprudenza
prevalente ritiene che la certificazione di qualità debba
essere annoverata tra i requisiti speciali di carattere
tecnico-organizzativo, si segnala che, con riferimento a
tali requisiti, l'Avcp chiarisce che «essi costituiscono
presupposti di natura sostanziale per la partecipazione alla
gara, ai sensi dell'art. 2 del Codice».
Pertanto -prosegue l'Avcp- «la carenza dei requisiti
speciali di partecipazione indicati nel bando di gara si
traduce necessariamente nell'esclusione dalla gara».
Sul tema, la medesima Avcp ha, successivamente, affermato
che «La stazione appaltante può introdurre nella lex
specialis della gara d'appalto disposizioni che limitano la
platea dei concorrenti, al fine di consentire la
partecipazione di soggetti particolarmente qualificati,
specialmente per ciò che attiene al possesso di requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, se tale scelta non sia
eccessivamente o irragionevolmente limitativa della
concorrenza. Siffatta scelta può essere sindacata dal
giudice amministrativo in sede di legittimità solo in quanto
sia manifestamente irragionevole, irrazionale, arbitraria,
sproporzionata, illogica o contraddittoria (Cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 02.02.2009 n. 525 e 23.07.2008 n.
3655)» [16].
Dal quadro degli orientamenti sopra esposti emerge
l'oggettiva incertezza nella soluzione della questione
posta, rispetto alla quale potrebbe esprimersi solo il
giudice competente.
In relazione a quanto finora osservato si rileva che, anche
ove la clausola del possesso, da almeno un anno, della
certificazione di qualità, richiesta quale requisito
essenziale per la partecipazione alla gara, dovesse
ritenersi come non apposta, restano comunque ferme le
ulteriori ragioni sostanziali che -stante quanto
illustrato, con dovizia di richiami giurisprudenziali, nel
parere già reso da questo Ufficio- hanno indotto la
stazione appaltante a disporre l'esclusione della ditta e
che si concretano:
a) nella diversità ed incompletezza, rispetto alla natura
dei servizi oggetto di gara, del campo di applicazione cui
il certificato di qualità si riferisce [17];
b) nell'inidoneità -per l'assenza del contenuto minimo, già
individuato dalla giurisprudenza ed ora previsto dall'art.
88, comma 1 [18], del decreto del Presidente della Repubblica
05.10.2010, n. 207- del contratto di avvalimento
prodotto dalla ditta esclusa, ai fini della dimostrazione
della concreta ed effettiva disponibilità, nell'esecuzione
dell'appalto, delle risorse, dei mezzi e delle attrezzature
posseduti dalla ditta certificata.
A tale ultimo riguardo, si segnala un'ulteriore recente
pronuncia del Consiglio di Stato [19], nella quale risulta
confermato che «l'avvalimento, così come configurato dalla
legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non
può considerarsi sufficiente 'prestare' la certificazione
posseduta (Cons. Stato, III, 18.04.2011, n. 2343)
assumendo impegni assolutamente generici, giacché in questo
modo verrebbe meno la stessa essenza dell'istituto,
finalizzato non già ad arricchire la capacità tecnica ed
economica del concorrente, bensì a consentire a soggetti che
ne siano sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai
requisiti di altri soggetti (C.d.S., sez. V, 03.12.2009, n. 7592), garantendo l'affidabilità dei lavori, dei
servizi o delle forniture appaltati».
Il supremo Giudice amministrativo ha, infatti, rilevato che
la responsabilità solidale, che viene assunta con il
contratto di avvalimento da parte dell'impresa ausiliaria
nei confronti dell'amministrazione appaltante e che discende
direttamente dalla legge, «si giustifica proprio per
l'effettiva partecipazione dell'impresa ausiliaria
all'esecuzione dell'appalto (Cons. Stato, VI, 13.05.2010, n. 2956, secondo cui l'impresa ausiliaria diventa
titolare passivo di un'obbligazione accessoria dipendente
rispetto a quella principale del concorrente, obbligazione
che si perfeziona con l'aggiudicazione a favore del
concorrente ausiliato, di cui segue le sorti)».
Pertanto, il Consiglio di Stato ha ritenuto inidoneo il
contratto di avvalimento sottoposto al suo giudizio
[20],
«mancando del tutto l'autentica messa a disposizione di
risorse, mezzi o di altro elemento necessario».
---------------
[1] Al quale è stato fornito riscontro con parere prot.
n. 12088 del 16.04.2013.
[2] Per le modalità di acquisizione dei relativi pareri, v.
le informazioni reperibili all'indirizzo Internet
avcp.it/portal/public/classic/FAQ/FAQ_precontenzioso.
[3] «1. Nelle materie di cui all'articolo 244, comma 1, i
soggetti che intendono proporre un ricorso giurisdizionale
informano le stazioni appaltanti della presunta violazione e
della intenzione di proporre un ricorso giurisdizionale.
2. L'informazione di cui al comma 1 è fatta mediante
comunicazione scritta e sottoscritta dall'interessato, o da
un suo rappresentante, che reca una sintetica e sommaria
indicazione dei presunti vizi di illegittimità e dei motivi
di ricorso che si intendono articolare in giudizio, salva in
ogni caso la facoltà di proporre in giudizio motivi diversi
o ulteriori. L'interessato può avvalersi dell'assistenza di
un difensore. La comunicazione può essere presentata fino a
quando l'interessato non abbia notificato un ricorso
giurisdizionale. L'informazione è diretta al responsabile
del procedimento. La comunicazione prevista dal presente
comma può essere effettuata anche oralmente nel corso di una
seduta pubblica della commissione di gara ed è inserita nel
verbale della seduta e comunicata immediatamente al
responsabile del procedimento a cura della commissione di
gara.
3. L'informativa di cui al presente articolo non impedisce
l'ulteriore corso del procedimento di gara, né il decorso
del termine dilatorio per la stipulazione del contratto,
fissato dall'articolo 11, comma 10, né il decorso del
termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale.
4. La stazione appaltante, entro quindici giorni dalla
comunicazione di cui al comma 1, comunica le proprie
determinazioni in ordine ai motivi indicati
dall'interessato, stabilendo se intervenire o meno in
autotutela. L'inerzia equivale a diniego di autotutela.
5. L'omissione della comunicazione di cui al comma 1 e
l'inerzia della stazione appaltante costituiscono
comportamenti valutabili, ai fini della decisione sulle
spese di giudizio, nonché ai sensi dell'articolo 1227 del
codice civile.
6. Il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o
tacito, è impugnabile solo unitamente all'atto cui si
riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già stato impugnato,
con motivi aggiunti.».
[4] Come inserito dall'art. 4, comma 2, lett. d), del
decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito, con
modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106.
[5] 'La normativa in materia di appalti pubblici esprime
sempre più la prevalenza dell'interesse sostanziale rispetto
ai canoni meccanicamente formalistici codificando un modo di
procedere volto a far valere la sostanza sulla forma, al
fine di limitare le numerose esclusioni che avvengono solo
sulla base di elementi formali e non sostanziali, e di
ridurre, anche in quest'ipotesi, il contenzioso in materia
di affidamento dei contratti pubblici.'.
[6] V. anche TAR Lazio-Roma, Sez. II, 19.02.2013, n. 1828,
il quale afferma, al riguardo, che «Come è noto nelle
procedure di tipo concorsuale quali gare d'appalto, concorsi
pubblici, selezioni pubbliche per la concessione di
finanziamenti et similia, per giurisprudenza assolutamente
pacifica, la regolarizzazione documentale può essere
consentita quando i vizi siano puramente formali o
chiaramente imputabili a errore solo materiale, e sempre che
riguardino dichiarazioni o documenti che non sono richiesti
a pena di esclusione, non essendo, in quest'ultima ipotesi,
consentita la sanatoria o l'integrazione postuma che si
tradurrebbero in una violazione dei termini massimi di
presentazione dell'offerta e, in definitiva, in una
violazione della 'par condicio' (cfr., ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. V, 14.09.2010 n. 6687, Sez. IV, 19.06.2006 n.
3660 e 06.03.2006 n. 1068, Sez. VI 18.05.2001 n. 2781).
Sanatorie documentali sono possibili, dunque, con la
possibilità d'integrare successivamente la documentazione
prodotta con la domanda di partecipazione alla gara o,
comunque, con l'offerta, nel rispetto di un duplice limite:
a) la regolarizzazione deve riferirsi a carenze puramente
formali od imputabili ad errori solo materiali (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 31.08.2004 n. 5734); b) la regolarizzazione
non può mai riguardare produzioni documentali che abbiano
violato prescrizioni del bando (o della lettera di invito)
sanzionate con una comminatoria di esclusione (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 09.12.2002 n. 6675), sempreché queste ultime
non si rivelino affette da nullità.».
[7] TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, 22.03.2012, n.
245. Ai fini della corretta comprensione della riportata
affermazione, si ritiene utile segnalare che il Giudice
calabrese precisa, di seguito, che «L'obbligo di rendere le
dichiarazioni di cui all'art. 38 lett. 'c' del Dlgs 163/2006
anche da parte di amministratori o tecnici appartenenti ad
operatori economici terzi rispetto all'impresa concorrente,
ma a questa legati da negozi di trasferimento dell'azienda o
di un ramo di essa, deriva dalla previsione del bando, non
dalla norma di legge o dal regolamento; pertanto la
violazione della suddetta previsione non può determinare
automaticamente l'esclusione dall'appalto della concorrente,
dovendosi verificare se dall'ammissione sia derivato alla
concorrente un effettivo vantaggio, mediante violazione
della par condicio rilevante ai fini dell'art. 46 cit.».
[8] Consiglio di Stato - Sez. III, 04.10.2012, n. 5203.
[9] Consiglio di Stato - Sez. VI, 19.10.2012, n. 5389.
[10] La norma, che disciplina la forma e il contenuto delle
domande di partecipazione, dispone, per quanto qui rileva,
che «3. Le stazioni appaltanti richiedono gli elementi
essenziali di cui al comma 2 nonché gli elementi e i
documenti necessari o utili per operare la selezione degli
operatori da invitare, nel rispetto del principio di
proporzionalità in relazione all'oggetto del contratto e
alle finalità della domanda di partecipazione.».
[11] La disposizione, che attiene alla forma e al contenuto
delle offerte, prevede, ai fini di cui di discute, che «4.
Le offerte sono corredate dei documenti prescritti dal bando
o dall'invito ovvero dal capitolato d'oneri.» e che «5. Le
stazioni appaltanti richiedono gli elementi essenziali di
cui al comma 2, nonché gli altri elementi e documenti
necessari o utili, nel rispetto del principio di
proporzionalità in relazione all'oggetto del contratto e
alle finalità dell'offerta.».
[12] Consiglio di Stato - Sez. V, 18.02.2013, n. 974.
[13] TAR Lazio - Roma, Sez. II, n. 1828/2013, cit., il quale
precisa, inoltre, che:
- «alla luce dei principi di derivazione comunitaria ed
immanenti nell'ordinamento nazionale, di ragionevolezza e di
proporzionalità, nonché di apertura alla concorrenza degli
appalti pubblici, il potere discrezionale della stazione
appaltante di prescrivere adeguati requisiti ovvero speciali
modalità per la partecipazione alle gare per l'affidamento
di appalti pubblici è soggetto ai limiti connaturati alla
funzione affidata alle clausole del bando volte a
prescrivere i requisiti speciali o le peculiari modalità
partecipative pretese in stretta relazione con le finalità
proprie della selezione tra più aspiranti per la scelta di
quello più idoneo e l'oggetto della commessa da affidarsi»;
- «in buona sostanza il potere discrezionale
dell'amministrazione appaltante di determinare le regole
della gara e, in specie, di introdurre requisiti di
partecipazione alla gara, oggettivi e/o soggettivi ovvero
modalità specifiche di partecipazione -ulteriori e
maggiormente selettivi rispetto a quelli stabiliti dalle
norme- incontra il limite del rispetto del principio di
proporzionalità e di ragionevolezza»;
- «Fermo quanto sopra» si rammenta che, con la disposizione
di cui all'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. 163/2006 «il
legislatore ha inteso rimettere alla sola fonte normativa la
competenza ad individuare cause di non ammissione a
procedure di gara, residuando in capo alle stazioni
appaltanti, un'attività di stretta interpretazione di
siffatte ipotesi, o comunque di mera ricognizione delle
medesime».
[14] Consiglio di Stato - Sez. III, 14.03.2013, n. 1533. La
vicenda riguarda l'esclusione di un concorrente a causa
dell'erroneo inserimento di un atto -richiesto, come rileva
lo stesso Consiglio di Stato, «quello sì inderogabilmente»-
nella busta contenente la documentazione amministrativa,
anziché in quella contenente la documentazione tecnica. Il
supremo Giudice amministrativo osserva, infatti, che
l'accaduto non integra affatto un inadempimento della legge
di gara, poiché l'atto è comunque pervenuto alla stazione
appaltante. Inoltre, aggiunge il Consiglio di Stato, «non
v'è inadempimento anche perché, come evincesi dalla serena
lettura della precisazione vincolante, il documento de quo
era obbligatorio in sé e non nella sua collocazione
specifica, in un luogo, piuttosto che in un altro».
[15] Recante «Indicazioni generali per la redazione dei
bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46,
comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici».
[16] V. parere di precontenzioso 27.09.2012, n. 149.
[17] Si ricorda che il punto 6), lett. f), del bando di
gara, richiedeva espressamente il possesso di tale
certificazione «per il servizio oggetto di gara».
[18] «Per la qualificazione in gara, il contratto di cui
all'articolo 49, comma 2, lettera f), del codice deve
riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente:
a) oggetto: le risorse e i mezzi prestati in modo
determinato e specifico;
b) durata;
c) ogni altro utile elemento ai fini dell'avvalimento.».
[19] V. Sez. V., 10.01.2013, n. 90.
[20] Contratto che si limitava a stabilire che l'ausiliaria
si obbligava, nei confronti dell'impresa concorrente e della
stazione appaltante, a fornire il requisito di cui l'impresa
era carente, nonché a mettere a disposizione i mezzi e le
attrezzature necessarie per tutta la durata dell'appalto,
rinviando ad una separata scrittura privata la dettagliata
regolamentazione degli impegni che l'ausiliaria avrebbe
assunto nei confronti dell'impresa concorrente, qualora
questa fosse risultata aggiudicataria dell'appalto
(16.05.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
TRIBUTI: Nullità
Tarsu.
Domanda
Per la tassa sui
rifiuti solidi urbani mi è stata notificata una cartella
esattoriale non preceduta dalla notifica dell'avviso bonario
o dell'avviso di accertamento da parte del comune. Chiedo se
nel caso prospettato la cartella di pagamento possa essere
inficiata di nullità.
Risposta
La Commissione
tributaria provinciale di Bolzano, Sezione prima, con la
sentenza del 07.06.2012, numero 66, ha sentenziato che la
cartella di pagamento, in materia di tassa sui rifiuti
solidi urbani, è nulla se non è stata preceduta dalla
notifica dell'avviso bonario o dell'avviso di accertamento
da parte dell'ente creditore. I giudici di Bolzano fondano
il loro ragionamento su quanto deciso dalla Corte di
cassazione civile, sezione quinta, con la sentenza numero
6104, del 16.03.2011,.
In materia, infatti, i Supremi giudici della Corte di
cassazione hanno stabilito che «in tema di Tarsu, essendo a
tale tributo in larga parte applicabile la disciplina
prevista per la riscossione delle imposte sui redditi, in
virtù dell'articolo 72, commi 4 e 5, del decreto legislativo
15.11.1993, numero 507, deve ritenersi che la mancata
previa notifica della cartella esattoriale di pagamento, o,
a maggior ragione, dell'avviso di accertamento, comporti la
nullità dell'avviso di mora, deducibile in quanto vizio
proprio dell'atto, anche nei confronti del concessionario
che lo abbia emesso».
Anche se il richiamo alla sentenza della Corte di cassazione
è un richiamo lato, la sentenza dei giudici di Bolzano, nel
merito, è condivisibile (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
TRIBUTI: Termine
Imu.
Domanda
Gli enti non
commerciali entro quale data devono presentare la
dichiarazione Imu?
Risposta
Il ministero
dell'economia e delle finanze, con la Risoluzione dell'11.01.2013, numero 1/DF, ha chiarito che per quanto
riguarda gli adempimenti relativi agli obblighi dichiarativi
Imu degli enti non commerciali, si deve fare riferimento
all'articolo 91-bis del decreto legge 24.01.2012,
numero 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, numero 27, integrato dal comma 6 dell'articolo 9
del decreto legge 10.10.2012, numero 174, convertito
con modificazioni dalla legge 07.12.2012, numero 213,
il quale prevede che, a partire dal 01.01.2013,
l'esenzione di cui alla lettera i), comma 1, dell'articolo 7
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, si
applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale
dell'immobile, quale risulta da apposita dichiarazione e
che, con successivo decreto del ministro dell'economia e
delle finanze sono stabilite le modalità e le procedure
relative alla predetta dichiarazione, gli elementi rilevanti
ai fini dell'individuazione del rapporto proporzionale
nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare
le attività di cui alla lettera i) del comma dell'articolo 7
del decreto legislativo 30.12.1992, numero 504, come
svolte con modalità non commerciali.
Il decreto ministeriale
19.11.2012, numero 200, di attuazione del citato comma
3, dell'articolo 91-bis, all'articolo 6 stabilisce che gli
enti non commerciali presentano la dichiarazione di cui
all'articolo 9, comma 6, del decreto legislativo 14.03.2011, numero 23, indicando distintamente gli immobili per i
quali è dovuta l'Imu, anche a seguito dell'applicazione del
comma 2 dell'articolo 91-bis, del decreto legge numero 1 del
2012, nonché gli immobili per i quali l'esenzione Imu si
applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale
degli stessi. La dichiarazione non è presentata negli anni
in cui non vi sono variazioni.
«Pertanto», puntualizza la suddetta risoluzione, «gli enti
interessati non devono presentare la dichiarazione Imu entro
il 04.02.2012, ma devono attendere la successiva emanazione
del decreto di approvazione dell'apposito modello di
dichiarazione, in cui verrà indicato anche il termine di
presentazione della stessa» (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Obblighi di pubblicità e trasparenza delle pubbliche
amministrazioni.
Ai sensi dell'articolo 26 del d.lgs.
33/2013, sono soggetti all'obbligo di pubblicazione tutti
gli atti di concessione dei benefici economici ivi indicati
che comportino l'erogazione al medesimo beneficiario, nel
corso di un anno solare, di un importo complessivo superiore
ai mille euro. Risulta, pertanto, opportuno pubblicare anche
i singoli atti di importo inferiore a detta somma per
evitare il rischio che più atti di erogazione di piccoli
importi, nei confronti dello stesso soggetto, comportino il
superamento della soglia di mille euro prevista dalla norma,
con le conseguenti sanzioni disciplinate al comma 3.
Il Comune chiede chiarimenti in merito alle previsioni di cui all'articolo
18 del DL 83/2012, convertito dalla legge 134/2012,
relativamente ai limiti di importo oltre i quali risulta
obbligatoria la pubblicazione degli atti di attribuzione di
sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e
comunque vantaggi economici di cui all'articolo 12 della
legge 241/1990.
Si rappresenta che l'articolo 18 del DL 83/2012 risulta
abrogato, a decorrere dal 20 aprile u.s., dall'articolo 53
del d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante 'Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazione da parte delle
pubbliche amministrazioni'. La disciplina da esso dettata
relativamente agli obblighi di pubblicazione degli atti in
argomento è ora contenuta nell'articolo 26 del citato d.lgs.
33/2013, il quale dispone che: '1. Le pubbliche
amministrazioni pubblicano gli atti con i quali sono
determinati, ai sensi dell'articolo 12 della legge
07.08.1990, n. 241, i criteri e le modalità cui le
amministrazioni stesse devono attenersi per la concessione
di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
per l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere
a persone ed enti pubblici e privati.
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano gli atti di
concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati ai
sensi del citato articolo 12 della legge n. 241 del 1990, di
importo superiore a mille euro.
3. La pubblicazione ai sensi del presente articolo
costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti
che dispongano concessioni e attribuzioni di importo
complessivo superiore a mille euro nel corso dell'anno
solare al medesimo beneficiario; la sua eventuale omissione
o incompletezza è rilevata d'ufficio dagli organi
dirigenziali, sotto la propria responsabilità
amministrativa, patrimoniale e contabile per l'indebita
concessione o attribuzione del beneficio economico. La
mancata, incompleta o ritardata pubblicazione rilevata
d'ufficio dagli organi di controllo è altresì rilevabile dal
destinatario della prevista concessione o attribuzione e da
chiunque altro abbia interesse, anche ai fini del
risarcimento del danno da ritardo da parte
dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 30 del decreto
legislativo 02.07.2010, n. 104.
4. È esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle
persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al
presente articolo, qualora da tali dati sia possibile
ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero
alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati.'.
Dal tenore letterale della norma si evince che sono soggetti
all'obbligo di pubblicazione tutti gli atti di concessione
dei benefici economici sopra indicati che comportino
l'erogazione al medesimo beneficiario, nel corso di un anno
solare, di un importo complessivo superiore ai mille euro.
Ciò rende necessario valutare l'opportunità di pubblicare
anche i singoli atti di importo inferiore a detta somma per
evitare il rischio che più atti di erogazione di piccoli
importi, a vario titolo, nei confronti dello stesso
soggetto, comportino il superamento della soglia di mille
euro prevista dalla norma, con le conseguenti sanzioni
disciplinate al comma 3
(10.05.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Documento di regolarità contributiva di libero
professionista.
Con riferimento all'attività svolta da
un legale a favore di un ente locale, trova applicazione la
disciplina relativa all'attestazione di regolarità
contributiva solo qualora detta attività sia riconducibile
ad un appalto di servizi e non anche nel caso in cui
consista in un incarico di collaborazione affidato ai sensi
dell'articolo 7, comma 6, d.lgs. 165/2001, avente natura di
prestazione di opera intellettuale e come tale non
inquadrabile nella materia degli appalti e non soggetta alla
relativa normativa.
Il Comune chiede di conoscere se sussista la necessità di
acquisizione del documento di regolarità contributiva di un
libero professionista (avvocato) privo di dipendenti.
Sul tema si è espressa l'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici che nella sezione FAQ, alla voce 'Documento
unico di regolarità contributiva - DURC', in risposta al
quesito n. 17: 'Il DURC va acquisito anche per i liberi
professionisti?' così risponde: 'La risposta è
affermativa; tuttavia, in caso di lavoratori autonomi liberi
professionisti iscritti alle rispettive casse previdenziali
volontarie, il DURC non può essere acquisito attraverso lo
Sportello Unico Previdenziale, poiché si tratta di
lavoratori autonomi non soggetti alla gestione previdenziale
dell'INPS e dell'INAIL. Per ottenere l'attestazione di
regolarità contributiva, è invece possibile richiedere il
rilascio di una certificazione equipollente direttamente
alle rispettive casse previdenziali di appartenenza dei
professionisti. L'acquisizione di tale certificazione di
regolarità contributiva è necessaria sia al momento della
stipulazione del contratto, sia all'atto dei pagamenti dei
relativi compensi previsti in favore del professionista.'.
Si osserva, tuttavia, che l'ambito di applicazione della
normativa in materia di DURC [1],
come precisato dall'articolo 1 [2]
del DM 24/10/2007 e dalla relativa circolare attuativa,
riguarda le seguenti fattispecie:
- tutti gli appalti pubblici (lavori, servizi e forniture)
nonché i servizi e attività pubbliche svolti in convenzione
o in concessione;
- i lavori privati dell'edilizia soggetti a denuncia di
inizio attività e a permesso di costruire;
- i finanziamenti e sovvenzioni per la realizzazione di
investimenti previsti dalla disciplina comunitaria;
- i benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e
di legislazione sociale;
- l'attestazione SOA, l'iscrizione all'Albo Fornitori e
tutti gli altri casi specificatamente indicati dalla
normativa nazionale o regionale per i quali è richiesto il
DURC.
Nei casi sopra indicati, i datori di lavoro devono essere
sempre in possesso del DURC.
I lavoratori autonomi devono essere in possesso del DURC nel
solo caso degli appalti pubblici (opere, servizi e
forniture) e dei lavori privati edili. [3]
Sembrano pertanto non contemplati dalla disciplina del DURC
gli incarichi di collaborazione affidati ai sensi
dell'articolo 7, comma 6, d.lgs. 165/2001 e aventi natura di
prestazione di opera intellettuale [4],
in quanto non inquadrabili nella materia degli appalti e non
soggetti alla relativa normativa.
Pertanto, per la valutazione del caso di specie il Comune
dovrà individuare la natura dell'attività svolta dal legale
[5] e,
solo qualora essa sia riconducibile ad un appalto di
servizi, dovrà applicare la disciplina relativa
all'attestazione di regolarità contributiva.
---------------
[1] Il quadro normativo relativo al DURC è costituito dai
seguenti atti:
- Legge 22.11.2002, n. 266: 'Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, recante
disposizioni urgenti in materia di emersione del lavoro
sommerso e di rapporti di lavoro a tempo parziale';
- Decreto Legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modifiche ed
integrazioni: 'Attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge
14.02.2003, n. 30';
- Decreto Legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed
integrazioni: 'Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE';
- Legge 27.12.2006, n. 296: "Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge
finanziaria 2007)", art. 1, commi 1175 e 1176;
- Dcreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445 e
successive modifiche ed integrazioni: 'Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa';
- Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del
24.10.2007 recante 'Documento Unico di Regolarità
contributiva';
- Circolari Inail n. 38 del 25.07.2005 e n. 52 del 22.12.2005
recanti istruzioni in materia di Documento Unico di
Regolarità Contributiva;
- Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale
30.01.2008, n. 5: 'Decreto recante le modalità di rilascio
ed i contenuti analitici del Documento Unico di Regolarità
Contributiva (DURC) di cui all'art. 1, comma 1176, della
legge n. 296/2006'.
[2] L'articolo 1, del DM 24/10/2007 recita: 'Il possesso del
Documento Unico di Regolarita' Contributiva (DURC) e'
richiesto ai datori di lavoro i fini della fruizione dei
benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e
legislazione sociale previsti dall'ordinamento nonché ai
fini della fruizione dei benefici e sovvenzioni previsti
dalla disciplina comunitaria. Ai sensi della vigente
normativa il DURC è inoltre richiesto ai datori di lavoro ed
ai lavoratori autonomi nell'ambito delle procedure di
appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori
privati dell'edilizia.'.
[3] Cfr. Circolare INAIL - DIREZIONE GENERALE - DIREZIONE
CENTRALE RISCHI n. 7 dd. 05.02.2008.
[4] Si veda, a tal proposito, parere ANCI 15.02.2013, ove si
segnala la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V,
11.05.2012, n. 2730.
[5] Sulla natura dell'incarico conferito al legale cfr.
parere prot. 3911 dd. 29/02/2008, espresso dallo scrivente
Ufficio, consultabile sul portale delle autonomie locali
all'indirizzo: http://autonomielocali.regione.fvg.it
(07.05.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Quesito in tema di
compatibilità tra la posizione di responsabile per la
prevenzione della corruzione e di responsabile dell’ufficio
per i procedimenti disciplinari.
Domanda:
“E’ stato
chiesto alla Commissione se il Segretario comunale, quale
responsabile per la prevenzione della corruzione e, al tempo
stesso, responsabile dell’ufficio per i procedimenti
disciplinari, versi in situazioni di conflitto di interesse
o di incompatibilità”
Risposta:
“La Commissione ha espresso l’avviso che, anche alla luce
di quanto previsto dalla circolare n. 1/2013 del
Dipartimento della Funzione pubblica, il responsabile della
prevenzione della corruzione non può rivestire
contemporaneamente il ruolo di responsabile dell’ufficio per
i procedimenti disciplinari, versandosi in tale ipotesi in
una situazione di potenziale conflitto di interessi” (marzo
2013 - link a www.civit.it). |
NEWS |
TRIBUTI: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Varato il dl. Per le imprese deducibilità
dall'Ires, ma non subito.
Imu sospesa in attesa di riforma.
Senza nuove regole entro agosto, versamenti al 16/09.
Imu prima casa sospesa in attesa di riforma. Mentre le
imprese incassano per il momento solo una promessa: quando
metterà mano all'intera materia della fiscalità immobiliare
(Tares compresa), il governo introdurrà forme di
deducibilità dai redditi d'impresa (Ires) dell'Imu pagata
sugli immobili strumentali.
È questo il compromesso
raggiunto nel consiglio dei ministri di ieri che ha
approvato il decreto legge di sospensione dell'imposta
municipale sugli immobili in attesa di una complessiva
riforma dell'imposizione immobiliare che avrà come deadline
il 31 agosto.
Nel frattempo l'appuntamento del 17 giugno per l'acconto Imu
slitterà per 15 milioni di proprietari di abitazione
principale (e relative pertinenze) ad accezione solo degli
immobili di lusso, iscritti nelle categorie catastali A/1
(abitazioni di tipo signorile), A/8 (ville) e A/9 (castelli
e palazzi di pregio storico-artistico). Niente acconto a
giugno anche per gli immobili delle cooperative edilizie a
proprietà indivisa, adibiti ad abitazione principale (e
relative pertinenze), nonché per gli alloggi assegnati dagli
Istituti autonomi case popolari (Iacp) e per gli enti di
edilizia residenziale pubblica. E anche per terreni agricoli
e fabbricati rurali l'appuntamento con l'acconto è rimandato
a settembre (si veda altro pezzo in pagina).
Il
testo del provvedimento, che stanzia anche 990 milioni
per il finanziamento della Cassa integrazione in deroga e
proroga al 31 dicembre i contratti dei precari della
pubblica amministrazione, non è stato tuttavia ancora
licenziato in via definitiva dal governo (lo sarà lunedì) in
attesa di completare l'allegato con le quantificazioni della
quota Imu di competenza di ciascun comune.
Nel periodo di sospensione dell'acconto il governo dovrà
riformare la fiscalità immobiliare locale nel rispetto degli
obiettivi indicati nel Documento di economia e finanza 2013
(dove però l'Imu, senza distinzione tra prima e seconda
casa, viene descritta come un'imposta permanente e
strutturale, il che ne escluderebbe qualsiasi ipotesi di
definitiva cancellazione) e in coerenza con gli impegni
assunti in sede europea. Se la riforma non arriverà entro
fine agosto, l'attuale disciplina dell'Imu prima casa
rivivrà e i contribuenti saranno chiamati al versamento
entro il 16 settembre.
La sospensione dell'imposta non produrrà problemi di
liquidità nei comuni. Infatti, i buchi di bilancio che si
apriranno nei conti per effetto del mancato incasso
dell'acconto saranno compensati attraverso il meccanismo
delle anticipazioni di tesoreria. Come anticipato su
ItaliaOggi dell'08/05/2013, i comuni potranno chiedere sino al
30 settembre anticipazioni pari al 50% del gettito Imu prima
casa 2012 di propria pertinenza calcolato ad aliquota base
(là dove i sindaci hanno deciso di limitare il prelievo al 4
per mille) o ad aliquota maggiorata (nei municipi che l'anno
scorso hanno deliberato una tassazione extra anche sulla
prima casa). Gli importi che gli enti potranno chiedere
terranno conto anche del gettito Imu proveniente dagli
immobili di cooperative e Iacp.
Gli oneri per interessi sulle somme anticipate ai sindaci
saranno a carico dello stato, nel senso che sarà il
ministero dell'interno a rimborsarli ai comuni con modalità
da definire entro 20 giorni dall'entrata in vigore del
decreto. Si dovrebbe trattare in totale di 18,2 milioni per
il 2013, che saranno attinti in questo modo: 12,5 milioni,
mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di
politica economica, 5,1 milioni mediante riduzione di alcuni
fondi speciali nello stato di previsione del Mef e infine
600 mila euro dal risparmio ottenuto dal divieto di cumulo
tra gli stipendi da ministro, viceministro e sottosegretario
con l'indennità parlamentare. Una misura, questa, annunciata
da Enrico Letta nel discorso con cui ha chiesto la fiducia
delle camere e trasposta nel decreto legge approvato ieri.
Secondo la Cgia di Mestre, la deducibilità dell'Imu dalle
imposte dirette produrrebbe un vantaggio fiscale medio sui
capannoni a uso industriale di oltre 3.300 euro. La
simulazione è stata realizzata sul risparmio Imu che
potrebbe godere una srl metalmeccanica avente un reddito di
90.000 euro e un capannone da 5.000 mq con una rendita
catastale di oltre 9.500 euro.
Tuttavia secondo gli artigiani di Mestre «è indispensabile
che questa opportunità sia concessa non solo ai proprietari
degli immobili a uso produttivo, ma anche alle micro imprese
(laboratori artigianali e negozi) che si trovano in perenne
crisi di liquidità». «Vigileremo perché non si facciano
differenza tra grandi e piccole imprese», ha assicurato
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia. Soddisfazione
per la sospensione dell'acconto è stata anche espressa da
Confedilizia, il cui presidente, Corrado Sforza Fogliani, ha
però puntato il dito contro la «superficialità» con cui si
sono individuati gli immobili di lusso per i quali la
sospensione non si applicherà. Mentre il presidente dell'Anci,
Alessandro Cattaneo, ha rimarcato la situazione di
incertezza in cui con la sospensione dell'Imu si troveranno
i comuni nella predisposizione dei bilanci. «Incertezze alle
quali pare difficile poter dare risposta»
(articolo ItaliaOggi del 18.05.2013). |
TRIBUTI: La Tares a conguaglio va versata al comune.
I gestori possono incassare soltanto gli acconti, dice l'Ifel.
L'ultima rata Tares, a conguaglio di quanto pagato dai
contribuenti in acconto, deve essere versata ai comuni. I
gestori del servizio rifiuti possono incassare solo i
pagamenti in acconto.
È quanto affermato dall'Ifel
(fondazione Anci) con la
nota 10.05.2013, con la
quale ha fornito dei chiarimenti ai comuni sulla corretta
applicazione delle nuove disposizioni contenute
nell'articolo 10 del dl 35/2013. Questa interpretazione si
pone però in contrasto con quanto sostenuto dal ministero
dell'economia con la circolare 1/2013.
Dunque, l'Ifel prende una posizione diversa dal ministero
anche sulla riscossione della Tares, oltre che sull'Imu. Ha
infatti precisato nella nota che i gestori del servizio
possono incassare solo gli acconti. Il saldo va versato
direttamente ai comuni. Mentre per il ministero possono
incassare anche il saldo. Secondo la fondazione Anci la
circolare ministeriale «propone una lettura estensiva»
dell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.», poiché attribuisce
«direttamente alle aziende di gestione del servizio rifiuti
l'intero gettito annuale del tributo, previa delibera
comunale in tal senso», nonostante la norma non deroghi
espressamente
«alla diretta destinazione al comune delle
somme incassate a titolo di Tares, come prescritto
ordinariamente dallo stesso comma 35, terzo periodo».
La
nota pone in rilievo che «una lettura più prudente delle
norme straordinarie recate dal dl 35» porta a escludere che
il gestore incassi l'ultima rata 2013, in quanto
«dall'attivazione del pagamento via F24 il comune dovrebbe
invece essere il diretto destinatario delle somme riscosse».
Fermo restando che bisogna accelerare l'iter per i pagamenti
delle somme dovute al gestore per l'attività svolta.
In effetti l'articolo 10, che deroga alla disciplina
ordinaria del tributo, dispone che la nuova tassa sui
rifiuti e la maggiorazione sui servizi si pagheranno con
l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto.
Le rate possono essere determinate in base a quanto già
versato dai contribuenti nell'anno 2012 per Tarsu, Tia1 e
Tia2. Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30
euro per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni
e il gettito è riservato allo stato.
Gli enti locali, con
propria deliberazione, possono stabilire il numero delle
rate di versamento del tributo. Ma i cittadini devono essere
informati, anche con la pubblicazione sul sito internet del
comune, almeno 30 giorni prima della data di scadenza dei
pagamenti. Per le prime due rate le amministrazioni locali
possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento
di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal
quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
La prima
rata fissata ex lege per il mese di luglio, come
previsto dal dl rifiuti (1/2013), può essere anticipata
anche nel caso in cui il comune non abbia adottato il
regolamento, che deve essere emanato entro il prossimo 30
giugno. Concessionari e gestori del servizio possono
continuare a riscuotere il tributo, con l'unico dubbio che
possano incassarlo per tutto il 2013, anche a saldo, o solo
in acconto. Si ritiene più aderente al dettato normativo la
circolare ministeriale, che opta per la prima soluzione
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Osservatorio Viminale/ Sulla casella mail del
gruppo decide il consiglio comunale.
È possibile l'attivazione dell'indirizzo di posta
elettronica del proprio gruppo consiliare al fine di
agevolare la comunicazione con i cittadini?
In materia, si fa riferimento all'art. 9 del codice
dell'amministrazione digitale di cui al dlgs n. 82 del 2005,
come modificato dal dlgs n. 235 del 2010, recante
«partecipazione democratica elettronica», con la quale il
legislatore ha stabilito che le pubbliche amministrazioni
devono favorire ogni forma di uso delle nuove tecnologie per
promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini al
processo democratico.
Le scelte in ordine alla declinazione concreta del principio
della partecipazione democratica elettronica e della
compatibilità delle stesse con le esigenze di ottimizzazione
e contenimento dei costi rientrano nella autonomia
decisionale del comune interessato.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale,
oltre che trovare soluzioni per le singole questioni,
valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica
regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di
assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato
svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Osservatorio Viminale/ Dimissioni.
L'aver rassegnato le dimissioni da sindaco al fine di
prendere parte alle elezioni ai sensi dell'art. 1, comma 1,
lett. d) del dl 18.12.2012, n.223, e quindi aver
accettato la candidatura in data antecedente a quella in cui
le dimissioni rassegnate dallo stesso diventino
irrevocabili, ne comporta la decadenza ai sensi dell' art.
62 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?
Le dichiarazioni di accettazione delle singole candidature,
ai sensi dell'art. 20 del dpr 30.03.1957, n. 361, per
l'elezione della camera dei deputati, e ai sensi dell'art. 9
del dlgs 20.12.1993, n. 533, per l'elezione del senato
della repubblica, devono essere presentate, unitamente ai
certificati di iscrizione elettorale dei candidati, a
corredo della documentazione concernente la presentazione,
da parte dei partiti e gruppi politici, delle liste dei
candidati stessi; ciò che dovrà essere effettuato, con
riferimento alle elezioni politiche indette, esclusivamente
dalle ore 8 del 35° giorno alle ore 20 del 34° giorno
antecedente a quello della votazione.
Solo nel giorno stesso
di presentazione della lista dei candidati, può ritenersi
che le dichiarazioni di accettazione delle candidature
possano assumere giuridica rilevanza ed efficacia, in
quanto, prima di quel momento, l'accettazione della
candidatura rimane nella disponibilità della forza politica
che l'ha raccolta e che, ovviamente, può desistere da
formalizzare la propria partecipazione alla competizione o
può anche ritenere di modificare i componenti della propria
lista.
Pertanto, se non revocate, a decorrere dal giorno
successivo alla data del perfezionamento delle dimissioni
del sindaco dovrà essere avviata la procedura di
scioglimento del consiglio comunale, ai sensi dell'art. 141
del dlgs 18.08.2000, n. 267
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Incompatibilità a due vie.
Stretta per le partecipate, sugli incarichi decide l'ente.
Molti comuni sono in affanno nel definire l'esatto ambito
applicativo del dlgs 39/2013.
L'incompatibilità degli incarichi ai dipendenti pubblici
prevista dal dlgs 39/2013 riguarda esclusivamente lo
svolgimento di attività professionali se finanziate
dall'ente di appartenenza, o di funzioni con poteri
negoziali negli organi di amministrazione delle società
partecipate.
Non rientrano, dunque, nella disciplina del dlgs 39/2013 gli
incarichi di diversa natura, conferiti dalle pubbliche
amministrazioni ai sensi del dlgs 165/2001.
Molte amministrazioni si stanno ponendo il problema della
legittimità dello svolgimento di incarichi professionali,
sotto forma di collaborazione, consulenza, studio o ricerca,
da parte di propri dipendenti presso altre amministrazioni
o, anche, a favore di società da esse partecipate, nonché
presso soggetti privati anche non partecipati.
Il dubbio è se detti incarichi restino o meno coinvolti dal
regime di incompatibilità recentemente introdotto.
A ben vedere, il dlgs 39/2013 ha un ambito di applicazione
tendenzialmente ristretto, posto a scongiurare il pericolo
di un conflitto di interessi, consistente sia nella
posizione di controllore e controllato, sia nella
eventualità che incarichi in enti e società partecipate
possano essere una sorta di compenso per decisioni di favore
(altrimenti non spettanti) garantite dal dipendente
destinatario.
Il rimedio posto dal dlgs 39/2013 è drastico:
l'impossibilità di continuare a condurre il rapporto di
lavoro con l'amministrazione di appartenenza, mentre si
svolge anche l'incarico incompatibile.
La fattispecie degli incarichi di prestazione di lavoro
autonomo contemplata dal dlgs 165/2001 e, segnatamente,
dall'articolo 7, commi 6 e seguenti, è totalmente
differente. In questo caso, il dipendente pubblico viene
chiamato non a svolgere funzioni connesse a poteri di
governo e rappresentanza, ma a realizzare prestazioni di
collaborazione. Non è, dunque, inserito nella governance
dell'ente, ma è un prestatore di lavoro autonomo. Lo stesso
vale nel caso in cui gli incarichi di collaborazione siano
conferiti da società partecipate e, a maggior ragione, da
soggetti privati tout court.
In questo caso, non entra in gioco il dlgs 39/2013, ma
l'articolo 53 del dlgs 165/2001, che regolamenta le ipotesi
nelle quali l'amministrazione pubblica di appartenenza può
autorizzarlo o meno allo svolgimento delle prestazioni di
lavoro autonomo. Non scattano, dunque, le incompatibilità di
cui al dlgs 39/2013, connesse esclusivamente alle
fattispecie tipiche ivi elencate e non suscettibili di
interpretazioni estensive. Si applica, invece, la disciplina
propria, quella del già citato articolo 53 del dlgs
165/2001, che non è mirata solo a scongiurare conflitti di
interesse anche potenziali, ma è finalizzata ad assicurare
che le energie lavorative del dipendente -che conduce con
l'amministrazione un rapporto in esclusiva- non siano
assorbite da altre prestazioni lavorative, così risultando
pregiudicate.
Se l'amministrazione autorizza le prestazioni richieste dal
dipendente, si esaurisce la fattispecie e non si aggiunge
alla disciplina dell'articolo 53 del dlgs 165/2001 anche
quella del dlgs 39/2013, perché si tratta di norme con
finalità in parte simili, ma rivolte a casi del tutto
autonomi e diversi tra loro
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tarsu sui campeggi, strutture fisse come le civili
abitazioni.
Sentenza della ctp Lecce.
Tarsu campeggi: equiparata la superficie delle strutture
fisse abitative a quella delle civili abitazioni.
Con la
sentenza n. 177/02/13, la Ctp di Lecce ha stabilito che le
strutture fisse abitative dei campeggi (per esempio
bungalow, piazzole) devono essere tassate con l'aliquota
unica delle civili abitazioni.
La vicenda ha a oggetto
l'impugnazione da parte di una società, proprietaria di un
campeggio, di una cartella di pagamento relativa a Tarsu
anno 2008. In particolar modo, la ricorrente eccepiva la
nullità della cartella per illegittimità della tariffa per
contrasto con l'art. 68 del dlgs n. 507/1993 nonché la
nullità della cartella per illegittimità del regolamento e
della relativa delibera comunale, con conseguente
disapplicazione degli stessi; in subordine, chiedeva che
venisse disposta la riliquidazione della tassa dovuta in
applicazione della tariffa prevista per le abitazioni
private ai sensi dell'art. 68 citato.
I giudici di merito
nell'accogliere parzialmente il ricorso della società
ricorrente hanno ricordato come l'art. 68 del dlgs 507/1993
stabilisce che i comuni, per l'applicazione della tassa,
sono tenuti ad adottare apposito regolamento che deve
contenere, tra l'altro, la classificazione delle categorie e
delle eventuali sottocategorie di locali e aree con omogenea
potenzialità di rifiuti da tassare con la medesima misura
tariffaria. Con il comma 2 del suddetto articolo il
legislatore suggerisce l'articolazione delle categorie e
delle eventuali sottocategorie da compiersi «ai fini della
determinazione comparativa delle tariffe» tenendo conto, in
via di massima, di alcuni gruppi di attività o di
utilizzazione.
La lettera c) del citato comma 2 accorpa nel
medesimo gruppo i locali e aree a uso abitativo per nuclei
familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri;
tale elencazione, peraltro, deve considerarsi meramente
esemplificativa. Alla luce di tanto, è dato leggersi in
sentenza, «appare irragionevole ritenere che un nucleo
familiare in vacanza produca maggiori rifiuti di quelli
prodotti ordinariamente nella propria abitazione» e,
pertanto, il comune deve provvedere alla riliquidazione
della Tarsu.
Con tale pronuncia, in sostanza, è stato ribadito quanto già
stabilito per gli alberghi che sono stati parimenti
assimilati, dalla giurisprudenza di merito, a civili
abitazioni
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, raccolta al passo europeo.
Ritardi sulla direttiva degli apparecchi elettronici nuovi.
La foto della filiera degli elettrorifiuti in Italia scattata
dal centro di coordinamento.
Raccolta media pro capite di rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche (c.d. «Raee») in linea con gli
obiettivi Ue e incremento dei centri di conferimento
presenti sul territorio nazionale. Ma anche diminuzione
della raccolta generale dovuta a flessione del mercato delle
apparecchiature elettriche ed elettroniche nuove (c.d. Aee)
e aumento dei Raee contenenti metalli preziosi gestiti
nell'ombra.
Questa la fotografia della filiera degli elettrorifiuti nell'Italia del 2012 scattata dal Centro di
coordinamento Raee (l'organismo costituito dal dlgs 151/2005
dai sistemi collettivi di gestione dei rifiuti elettrici)
attraverso il nuovo «Rapporto annuale sul sistema di ritiro
e trattamento dei Raee».
Ma da un'analisi del più ampio
contesto normativo comunitario l'Italia risulta in ritardo
sul recepimento delle ultime norme Ue sulla produzione di Aee, mentre altre nuove regole comunitarie si affacciano
all'orizzonte.
I dati del Rapporto 2012. In base al citato Rapporto 2012 la
raccolta media pro capite di Raee nel 2012 è stata di 4 kg
per abitante, coincidente proprio con il minimo imposto
dall'articolo 5, paragrafo 5 della direttiva madre Ue in
materia (la 2002/96/Ce). Questo, sottolinea lo studio,
nonostante il 2012 abbia visto un abbassamento della
quantità totale di Raee raccolti rispetto al precedente 2011
(circa 8,5% in meno), fatto dovuto alla crisi economica che
riducendo il volume di acquisto di nuove Aee (come gli
elettrodomestici) da parte delle famiglie (facendo segnare
un -12% dell'immesso sul mercato) ha pesato anche sulla
rituale e parallela restituzione delle Aee obsolete
detenute. Sempre in base al rapporto si è invece registrato
un aumento annuo del 9% dei centri di conferimento presenti
sul territorio cui recapitare i rifiuti (tra cui quelli
comunali e quelli gestiti direttamente dai distributori di
Aee).
L'allarme che viene lanciato dal Centro di
coordinamento Raee è quello relativo a un crescente canale
«informale» di smaltimento dei Raee contenenti metalli
preziosi poco attento agli impatti ambientali e finalizzato
(complice l'aumento dei prezzi delle relative materie prime)
all'esclusivo recupero dei materiali pregiati contenuti
negli stessi. Il tutto, sottolinea il rapporto, con
l'aumento della quantità dei Raee che sfuggono alla gestione
da parte dei sistemi collettivi ufficiali e, dunque, ai loro
impegnativi target qualitativi (anche dal punto di vista del
rispetto dell'ecosistema) di riciclo.
Le novità Raee in arrivo. Il rapporto 2012 ricorda le
consistenti novità in tema di raccolta degli elettrorifiuti
che arriveranno con il recepimento della nuova direttiva
2012/19/Ue (Guue del 24.07.2012 n. L197) destinata a
sostituire (dal 15.02.2014) l'attuale e citata
2002/96/Ce. La nuova direttiva (da tradurre sul piano
nazionale entro il 14.02.2014, plausibilmente tramite
la riformulazione del dlgs 151/2005, decreto attuativo del
provvedimento del 2002) prevede, infatti, sotto questo
profilo un sostanzioso upgrade degli attuali parametri di
raccolta, chiamando a nuovi obblighi sia distributori di Aee
che gestori dei relativi rifiuti. I distributori dovranno
assicurare il ritiro gratuito «one on zero» dei rifiuti da
Aee di «piccolissime dimensioni» (ossia di dimensioni
esterne inferiori a 25 centimetri) provenienti da nuclei
domestici e conferiti dagli utenti finali, laddove l'attuale
regola è quella del «one on one» (ossia obbligo di ritiro
solo previo acquisto di Aee equivalente).
Il «one on zero»
sarà obbligatorio per i negozi al dettaglio con superfici di
vendita di Aee uguali o superiori ai 400 metri quadrati e
potrà essere evitato solo ove sia dimostrato che i regimi di
raccolta alternativa esistenti siano altrettanto efficaci. A
livello di raccolta generale dei Raee, la nuova direttiva
2012/19/Ue prevede invece dei nuovi parametri da osservare,
stabilendo a partire dal 2019 un tasso annuale minimo da
conseguire pari al 65% del peso medio delle Aee immesse sul
mercato nello stato membro nei tre anni precedenti (secondo
quindi un nuovo sistema di calcolo), o in alternativa, pari
all'85% del peso dei Raee prodotti nel territorio nazionale
(secondo quindi l'attuale metodo di calcolo, ma con un
incremento percentuale rispetto l'odierno «range» che varia
tra il 70 e l'80%).
Le novità Aee «in ritardo». Se per l'adeguamento alle nuove
regole Raee la deadline è ancora lontana, è invece scaduto
lo scorso 02.01.2013 il termine entro il quale l'Italia
avrebbe dovuto recepire la parallela direttiva 2011/65/Ce
(sostitutiva della 2002/95/Ce, anch'essa recepita con il
citato dlgs 1521/2005) sulle nuove restrizioni all'uso di
sostanze pericolose nelle Aee. Il provvedimento comunitario
in parola (pubblicato sulla Guue 01.07.2011, n. L174,
previsto tra quelli oggetto di delega governativa già negli
ultimi disegni di «legge comunitaria» del precedente
parlamento, mai giunti ad approvazione) prevede un
allargamento del divieto di commercializzazione delle
apparecchiature elettriche ed elettroniche contenenti
determinate sostanze pericolose, e ciò tramite un'estensione
della stessa definizione di Aee (a qualsiasi
apparecchiatura, pezzi di ricambio inclusi, che dipenda da
correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare
«almeno una» delle funzioni previste) e la possibilità di
derogare agli stringenti limiti solo a condizione che
l'impiego delle sostanze pericolose non contrasti con il
livello di precauzione sancito dal regolamento Ce n.
1907/2006 (recante la disciplina «Reach» sul controllo delle
sostanze chimiche).
Raee e metalli preziosi. Ad arginare il preoccupante
fenomeno, evidenziato dal rapporto sopra esaminato, del
recupero «informale» dei metalli preziosi contenuti nei Raee
potrà verosimilmente concorrere la nuova disciplina in
arrivo dall'Ue sull'«end of waste» del rame. Le regole in
itinere, previste da uno schema di regolamento già messo a
punto dal consiglio Ue lo scorso gennaio 2013, stabiliranno
(con efficacia immediata e vincolante per tutti gli stati
membri) le condizioni da rispettare per riabilitare allo
status di veri e propri beni (determinandone quindi con
certezza la «cessazione della qualifica di rifiuto») i
materiali ottenuti all'esito di precisi processi di recupero
di rifiuti che li contengono.
L'uscita dal regime dei
rifiuti del rame recuperato (anche dai Raee) dovrà essere
garantita dal produttore delle materie prime secondarie
attraverso una propria «certificazione di conformità» a
precise norme tecniche su: tipologia di rifiuti trattati
(saranno esclusi i pericolosi); standard tecnici di settore
osservati; compatibilità dei rottami ottenuti con usi
consentiti (diretta produzione di sostanze od oggetti in
impianti di fusione, raffinazione, fabbricazione di altri
metalli); adozione di un sistema interno di gestione della
qualità (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Sportello unico edilizia, nessuna sanzione se il Comune non
parte.
Ampia flessibilità alla Pa, ma su molti punti restano nodi
da sciogliere.
Per lo Sportello unico edilizia la legge affida ai Comuni
molta flessibilità organizzativa, ma nessuna conseguenza
deriva in realtà dalla mancata costituzione del Sue, e
qualche dubbio resta sul nodo dell’acquisizione dei pareri
di terzi.
LE NUOVE COMPETENZE
Lo Sportello unico edilizia, ancor prima delle recenti
novelle operate dalle leggi 106/2001 e 134/2012, vedeva tra
le sue attribuzioni non solo la competenza per il rilascio
dei permessi di costruire e di tutte le certificazioni
edilizio-urbanistiche, ma anche l’assunzione di tutti i
provvedimenti a carattere urbanistico,
paesaggistico-ambientale, edilizio e comunque rilevanti ai
fini degli interventi di trasformazione edilizia del
territorio.
Tale funzione generale risulta ora rafforzata con il
riconoscimento legislativo di unico punto di accesso per il
privato interessato in relazione a tutte le vicende
amministrative riguardanti il titolo abilitativo e
l’intervento edilizio oggetto dello stesso, al fine di
fornire una risposta tempestiva in luogo delle altre Pa
coinvolte nel procedimento (comprese quelle preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico o della salute e pubblica
incolumità), oltre a essere l’unico ufficio ad acquisire
direttamente da tali amministrazioni tutti gli atti di
assenso (cfr. commi 1-bis e 1-ter aggiunti all’art. 5 Testo
Unico dalla legge 134/2012).
ORGANIZZAZIONE ELASTICA
Il modello organizzativo –a dir poco elastico– previsto
dalla legge (accorpamento, disarticolazione, soppressione di
uffici o organi già esistenti), se da un lato non pone
limitazioni alle Amministrazioni, dall’altro non risolve
evidenti questioni organizzative e procedurali laddove
l’attivazione dello Sportello non avvenga in forma associata
(si tratta comunque di una scelta, non di un obbligo) per
tutti gli Enti locali appartenenti a uno specifico ambito di
area vasta (in cui altro ente territoriale esercita
competenze specifiche, si pensi ad es. alla Provincia o alla
Comunità montana).
Uniche certezze sono date dall’obbligatorietà di
costituzione dell’ufficio “unico” da parte dei Comuni con
proprio atto organizzativo, non ravvisando nel testo di
legge una costituzione automatica in caso di inerzia
dell’amministrazione e dall’obbligo di interfacciarsi con il
Sue (laddove costituito) sia per quanto attiene al privato,
sia per gli atti di competenza delle diverse amministrazioni
coinvolte.
Pertanto istanze private pervenute a una singola
amministrazione interessata in un ambito territoriale in cui
risulta istituito lo Sportello, andranno inoltrate d’ufficio
dall’ente ricevente allo Sportello per l’avvio
dell’istruttoria; diversamente, nei casi di mancata
costituzione del Sue, l’istanza andrà inoltrata al
competente ufficio comunale, salvo non contenga la richiesta
di rilascio di un atto di competenza esclusiva dell’ente
ricevente (ovviamente diverso dal Comune: si pensi ad es.
alle autorizzazioni ambientali ecc.).
ENTI DI TUTELA, LA SENTENZA
La recente giurisprudenza ha precisato che il Dpr 380/2001,
nell’assegnare al Sue l’acquisizione di tutti gli «atti di
assenso, comunque denominati», si riferisce certamente a
tutti i pareri e nulla osta endoprocedimentali intesi al
rilascio del permesso di costruire, ma non può estendersi
anche a un’autorizzazione diversa ed esterna rispetto a tale
procedimento, quale è l’autorizzazione paesaggistica
eventualmente richiesta per l’esecuzione dell’intervento
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30/07/2012, n. 4312).
La questione si complica ulteriormente nei casi in cui sia
manifestato il dissenso da parte dell’amministrazione
preposta alla tutela, dato che lo stesso Dlgs 42/2004
disciplina la conferenza dei servizi esclusivamente per i
procedimenti relativi a opere o lavori incidenti su beni
culturali (cfr. art. 25), ma nulla dispone con riguardo alla
conferenza dei servizi indetta per gli interventi su aree e
immobili di interesse paesaggistico (anche se devono
comunque ritenersi applicabili le disposizioni generali
dell’art. 14-quater della 241/1990).
ALTRO NODO: LA VIGILANZA
Ulteriori questioni insorgono anche in materia di vigilanza,
dato che l’individuazione delle competenze del Sue operata
dalla legge (ancorché non tassativa) nulla prevede, e lo
stesso Titolo IV Dpr 380/2001 assegna tale funzione al
dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale,
ma sempre secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai
regolamenti dell’ente, che può quindi decidere di attribuire
anche questa attività al Sue.
Se invece il regolamento locale del Sue nulla prevede sulla
vigilanza, la competenza resta dell’ufficio tecnico.
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I PRINCIPALI PROBLEMI OPERATIVI - Dai nuovi compiti ai poteri
istruttori e di vigilanza
I nuovi compiti
- Lo Sportello è l’unico punto di accesso per
il privato interessato, in tutte le vicende amministrative
riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio
oggetto dello stesso, con la conseguenza che:
a) deve acquisire d’ufficio presso le Pa competenti (anche
con conferenza di servizi) gli atti di assenso delle
amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, storico-artistica o della salute
e pubblica incolumità;
b) deve trasmettere all’interessato tutte le comunicazioni
relative al procedimento, sia per gli atti di propria
competenza che per atti emessi dalle altre amministrazioni e
inviati allo Sportello.
Mancata
costituzione - La costituzione dello Sportello unico è
obbligatoria per i Comune, ma l’omessa costituzione non
comporta sanzioni a carico dell’ente obbligato né
l’esercizio di poteri sostitutivi in capo alla Regione o
allo Stato.
Tuttavia, anche senza Sue: a) resta l’obbligo in capo al
soggetto interveniente di richiedere preventivamente i
titoli abilitativi all’ufficio tecnico del Comune (dato che
la mancata istituzione non ha alcuna incidenza sul regime
autorizzatorio e non esonera dal conseguimento dei necessari
titoli abilitativi);
b) resta l’obbligo di ottenere tutte le autorizzazioni o
pareri previsti dalla legge incidenti sulla specifica opera
e di eseguire tutti gli adempimenti in materia di sicurezza;
c) resta legittimato il potere di repressione degli abusi
edilizi da parte dell’organo competente.
Esercizio
del diritto
di accesso - L’accesso gratuito alle informazioni sugli
adempimenti necessari per lo svolgimento delle procedure,
all’elenco delle domande presentate, allo stato dell’iter
procedurale, nonché a tutte le possibili informazioni utili
disponibili, non può prescindere dalle regole generali
dettate dal Capo V della legge 241/1990: il richiedente deve
sempre dimostrare un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento richiesto.
Conferenza
di servizi
e diniego di enti
di tutela - Lo Sportello, qualora debba procedere mediante
conferenza di servizi ai sensi dell’art. 14 e ss. l.
241/1990, deve sempre valutare se il parere negativo
espresso da una delle amministrazioni di tutela coinvolte
sia fondato su profili di legittimità (rispetto delle leggi
o degli atti amministrativi presupposti) o sia invece
espressione di una valutazione di merito di tipo
discrezionale: solo nella prima fattispecie non potrà essere
superato il diniego, diversamente la valutazione è rimessa
alle amministrazioni coinvolte le quali potranno, sulla base
dell’interesse prevalente, pronunciarsi favorevolmente.
Poteri istruttori
e di vigilanza - L’esercizio dei poteri istruttori deve sempre
svolgersi in ossequio del principio di leale collaborazione
tra privato e pubblica amministrazione e finalizzato ad
accertare la corrispondenza del progetto presentato alle
norme vigenti.
Laddove il regolamento organizzativo dello Sportello nulla
preveda in materia di vigilanza, tale funzione e gli
eventuali provvedimenti sanzionatori restano di competenza
del responsabile dell’ufficio comunale preposto.
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I quesiti
AVVIO AUTOMATICO
O SERVE UNA DELIBERA?
Il Comune per rispondere all’art. 5, comma 1, del Dpr 380/2001
deve formalizzare l’istituzione del Sue con un atto interno
all’Ente (delibera di Giunta, determina del Responsabile
servizio ecc.) oppure trattandosi di un obbligo normativo il
Sue è già automaticamente attivato?
COSA SUCCEDE
SENZA SUE COSTITUITO
Nel caso serva un atto di costituzione, e il Comune non lo
faccia, l’ente preposto al rilascio di autorizzazioni (nel
nostro caso, una Comunità montana: autorizzazioni su vincoli
forestali, idrogeologico e paesaggistico) cosa deve fare se
l’interessato gli chiede direttamente il parere? Rinvia
l’atto al Comune come se il Sue esistesse, o procede
all’emanazione del parere?
IL PARERE CHIESTO
ALLA PA TERZA
Se il soggetto interessato, nonostante il Sue sia stato
costituito, invia la richiesta di parere direttamente alla
Pa terza competente, questa può emanarlo direttamente, o
deve necessariamente girare la richiesta al Sue?
COMUNITÀ MONTANE, QUALI POTERI RESTANO?
In base alla nostra legge regionale, le Comunità montana
esercitano in alcuni casi un potere diretto di emanazione di
titoli abilitativi edilizi. L’art. 44, c. 4, della Lr 31/2008
cita: «Le Province, le Comunità montane e gli enti gestori
di parchi e riserve regionali, per il territorio di
rispettiva competenza, rilasciano ... le autorizzazioni alla
trasformazione d’uso del suolo». L’art. 80, c. 3-bis, della Lr
12/2005 cita: «Nei territori compresi ... le funzioni
amministrative di cui al comma 1 inerenti interventi di
trasformazione del bosco, di cui ... (Orientamento e
modernizzazione del settore forestale, ...) sono esercitate
dalle Comunità montane».
Anche in questi casi tutto passa al Sue, e il nostro si
trasforma in un parere, o restano queste nostre competenze? (articolo Edilizia e Territorio n. 19/2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
La p.a. creditrice di oneri concessori ha il dovere, in
ossequio ai principi di correttezza e buona fede operanti
nei rapporti paritetici, di preventiva escussione della
polizza fideiussoria posta a garanzia del credito dal
soggetto titolare della concessione edilizia.
1.1. Nell’ipotesi in cui il soggetto
titolare di una concessione edilizia che ha rilasciato al
Comune richiedente una polizza assicurativa, a garanzia
degli oneri concessori collegati al rilascio del titolo,
effettui in ritardo il versamento di detti oneri, sussiste
in capo all’Amministrazione creditrice il dovere (e non la
mera facoltà) di preventiva escussione dell'istituto
garante, anche ove si tratti di polizza “a prima richiesta”
e priva del beneficio di preventiva escussione.
1.2. Il principio di salvaguardia dell’effetto utile impone
un’applicazione e un’interpretazione di tale fideiussione,
quale atto di regolamentazione in rapporto di strumentalità
alla riscossione del credito, che sia funzionale al
raggiungimento della sua finalità e dell’obiettivo di
garanzia da essa prefissato. Infatti, a mente del combinato
disposto degli artt. 1362 e 1367 del codice civile, tra le
possibili interpretazioni del contratto, deve tenersi conto
degli inconvenienti cui può portare una soluzione che lo
renda improduttivo di effetti.
1.3. Alla luce dei più recenti approdi giurisprudenziali, i
principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e di buona fede
(art. 1375 c.c.) incombono anche sulla Pubblica
Amministrazione la quale, ove (come nel caso in esame) si
verta in ambito del tutto paritetico e non provvedimentale,
non può al riguardo vantare alcuno statuto speciale, perché
non si deve avere riguardo alla legittimità dell’esercizio
della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento
amministrativo, bensì alla correttezza del comportamento
complessivamente tenuto dall’amministrazione.
1.4. I sopra richiamati principi generali funzionano in
chiave di reciprocità nell’ambito dei rapporti
comportamentali e costituiscono rivelazione dei precetti
costituzionali di solidarietà sociale (art. 2) e di buon
andamento (art. 97) nei termini declinati dalla legge
07.08.1990, n. 241, che si estrinseca nell’imporre, a
ciascuna delle parti del rapporto paritetico o autoritativo,
il dovere di agire in leale collaborazione tale da
preservare il giusto interesse dell’altra, a prescindere
dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di
quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
1.5. La correttezza, quale regola di condotta, si concreta
dunque nella c.d. buona fede oggettiva, rispettosa degli
altrui interessi che non può assumere i connotati della
libera discrezionalità con abuso del diritto e non affranca
perciò l’Amministrazione per comportamenti superficiali o
negligenti, perché diversamente verrebbe ad essere inutile
nel sinallagma l’onere imposto della fideiussione e la
funzione propria della garanzia, come accade nel caso in cui
non venga attivata prontamente l’escussione e recuperato
tempestivamente il credito della p.a., facendo lievitare
invece sanzioni e interessi con consistente aggravio alla
posizione della debitrice.
---------------
2. Dal ritardo nel pagamento degli oneri concessori non
deriva automaticamente l’applicazione della sanzione
prevista dall'art. 42 del D.P.R. n. 380/2001.
2.1. Nella giurisprudenza
amministrativa, con riferimento all’applicabilità della
sanzione di cui all’art. 42 D.P.R. n. 380/2001, si sono
formati due opposti orientamenti. Secondo un primo
orientamento, che fa leva su una una interpretazione di
senso della disposizione, “in forza degli artt. 1175, 1375 e
1227 c.c. comma 2, le sanzioni previste per il ritardo nel
versamento del contributo edilizio, non sono dovute in tutti
quei casi in cui il creditore, restando inerte e non
richiedendo quanto dovutogli al garante, avrebbe potuto
evitare con una condotta attiva la causazione dell’evento
dannoso attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza”; secondo
un diverso orientamento, invece, si deve ricorrere ad una
applicazione letterale della norma in termini di “automatico
obbligo sanzionatorio governato dalla disciplina
pubblicistica di riferimento, con esclusione della
configurabilità di ogni onere di previa escussione ai fini
dell’adempimento puntuale non tempestivo”.
2.2. Nell’attuale panorama giurisprudenziale, appare
opportuno seguire, in quanto aderente alle attuali
sensibilità in tema di cooperazione nel rapporto
amministrazione-amministrati, il condivisibile convincimento
secondo il quale “Nell'ipotesi in cui il soggetto titolare
di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del
versamento dei contributi concessori, polizza fideiussoria
priva del beneficio di preventiva escussione dell'obbligato
principale, in virtù di quanto disposto dall'art. 1227,
comma 2 c.c., che pone a carico del creditore i danni che
questi avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza,
non può farsi luogo all'applicazione delle sanzioni previste
dall'art. 3 della l. 28.02.1985 n. 47 che puniscono l'omesso
o ritardato versamento dei contributi concessori, ove
l'amministrazione creditrice, in violazione dei doveri di
correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel
richiedere all'istituto garante il pagamento delle somme
dovutele”.
2.3. La circostanza che la società abbia effettuato in
ritardo il pagamento rateizzato degli oneri di
urbanizzazione non può dunque comportare l’applicazione
automatica della sanzione prevista dall'art. 3 della legge
28.02.1985, n. 47 (ora art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001),
per il ritardato o mancato pagamento degli oneri concessori.
2.4. Invero, il principio dell’affidamento costituisce
valore guida dell’intero ordinamento ed è espressione di
principi generali immanenti nel diritto (in particolare,
correttezza e buona fede), anche di rango costituzionale
(artt. 2, 3 e 97), sicché esso vincola l’interprete, in
forza del canone ermeneutico dell’interpretazione conforme a
Costituzione, essendo regola deputata a disciplinare una
serie indeterminata di casi concreti.
2.5. Dai principi sopra richiamati discende la sussistenza
di un obbligo (e non di una mera facoltà), per
l'Amministrazione creditrice, di escutere il garante nel
caso di ritardato versamento dei contributi concessori e,
correlativamente, la sua colpa oggettiva per l’inerzia
causativa della mancata tempestiva percezione e
corresponsione degli oneri concessori. Né, in contrario, si
può far leva sulla natura sanzionatoria e non risarcitoria
della pretesa irrogata, perché essa, a salvaguardia degli
interessi pubblici di specifica attribuzione nella materia
urbanistico-edilizia, costituisce evento posteriore rispetto
alla stabilita e interposta “obbligazione
patrimoniale”(fideiussoria) finalizzata al programmato
puntuale incameramento degli oneri concessori dilazionati.
2.6. Infatti, l’effetto dissuasivo di legge finalizzato al
regolare versamento degli oneri concessori trova copertura
proprio nella procedimentalizzata fideiussione a prima
richiesta, che è strumento non disciplinato dall’art. 3
della legge n. 47 del 1985, ma applicazione amministrativa
per l’appunto a garanzia del tempestivo contributo afferente
alla concessione, il cui introito, in applicazione del
principio di buon andamento, non può essere
dall’Amministrazione differito a piacimento ad un tempo
futuro e indeterminato quando ha pronta la soluzione
dell’immediato incasso tramite l’escussione della polizza
fideiussoria richiesta per la rateizzazione.
---------------
Considerato:
- la società ricorrente ha effettuato in ritardo il
pagamento rateizzato degli oneri di urbanizzazione e per
costo di costruzione connessi alla concessione edilizia
assentita (la rata del 2009 dopo 902 giorni, quella del 2010
dopo 537 gg., quella del 2011 dopo 172 gg.);
- a garanzia degli oneri concessori collegati al rilascio di
titolo edilizio, la società deducente aveva rilasciato al
Comune resistente polizza assicurativa che nello specifico
prevedeva (clausola 2.5) “Il pagamento delle somme dovute
in base alla presente polizza sarà effettuato dalla Società
entro il termine di 30 giorni dal ricevimento della
richiesta scritta dell'Ente Garantito, restando inteso che,
ai semi dell'art. 1944 del Codice Civile, la Società non
godrà del beneficio della preventiva escussione del
Contraente. La Società rinuncia inoltre ad avvalersi del
disposto di cui all'art. 1957 del Codice Civile. Il
pagamento avverrà dopo un semplice avviso al Contraente
senza bisogno di preventivo consenso da parte di
quest'ultimo, che nulla potrà eccepire alla Società in
merito al pagamento stesso”;
- in presenza di tale apposita polizza assicurativa a prima
richiesta e priva del beneficio di preventiva escussione,
non merita condivisione la tesi del Comune resistente che
contesta la sussistenza di un onere normativo di
collaborazione in capo all'Amministrazione creditrice e,
quindi, nega ogni dovere di preventiva escussione
dell'istituto garante, all’opposto sostenendo l'automatismo
nell'applicazione della sanzione indicata dall'art. 3 della
legge 28.02.1985, n. 47 (ora art. 42 del d.P.R. n. 380 del
2001), per il ritardato o mancato pagamento degli oneri
concessori;
- innanzitutto, sul piano prettamente generale, merita
osservare come il principio di salvaguardia dell’effetto
utile imponga un’applicazione e un’interpretazione di tale
fideiussione, quale atto di regolamentazione in rapporto di
strumentalità alla riscossione del credito, che sia
funzionale al raggiungimento della sua finalità e
dell’obiettivo di garanzia da essa prefissato. Infatti, a
mente del combinato disposto degli artt. 1362 e 1367 del
codice civile, tra le possibili interpretazioni del
contratto, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può
portare una soluzione che lo renda improduttivo di effetti
(Cass. Civ., Sez. II, 27.03.2013, n. 7791);
- inoltre, alla luce dei più recenti approdi
giurisprudenziali, i principi di correttezza (art. 1175
c.c.) e di buona fede (art. 1375 c.c.) incombono anche sulla
Pubblica Amministrazione la quale, vertendosi nella specie
in ambito del tutto paritetico e non provvedimentale, non
può al riguardo vantare alcuno statuto speciale, perché non
si deve avere riguardo alla legittimità dell’esercizio della
funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento
amministrativo, bensì alla correttezza del comportamento
complessivamente tenuto dall’amministrazione (Cons. St.,
Sez. IV, 07.03.2005, n. 920);
- oltre a ciò, questi principi generali funzionano in chiave
di reciprocità nell’ambito dei rapporti comportamentali e
costituiscono rivelazione dei precetti costituzionali di
solidarietà sociale (art. 2) e di buon andamento (art. 97)
nei termini declinati dalla legge 07.08.1990, n. 241, che si
estrinseca nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto
paritetico o autoritativo, il dovere di agire in leale
collaborazione tale da preservare il giusto interesse
dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici
obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da
singole norme di legge (Cons. St., Sez. VI, 12.07.2011, n.
4196);
- la correttezza, quale regola di condotta, si concreta
dunque nella c.d. buona fede oggettiva, rispettosa degli
altrui interessi che non può assumere i connotati della
libera discrezionalità con abuso del diritto e non affranca
perciò l’Amministrazione per comportamenti superficiali o
negligenti perché diversamente verrebbe ad essere inutile
nel sinallagma l’onere imposto della fideiussione e la
funzione propria della garanzia, come accaduto nel caso di
specie in cui non si è attivata prontamente l’escussione e
recuperato tempestivamente il credito comunale, facendo
lievitare invece sanzioni e interessi con consistente
aggravio alla posizione della debitrice;
- entrando così nel merito della controversia, alla Sezione
sono ben note le contrastanti posizioni che si registrano
nella giurisprudenza amministrativa di primo e secondo
grado, le quali possono essere indicativamente sintetizzate
negli opposti orientamenti, ma in prevalenza per una
interpretazione di senso, secondo cui “in forza degli
artt. 1175, 1375 e 1227 c.c. comma 2, le sanzioni previste
per il ritardo nel versamento del contributo edilizio, non
sono dovute in tutti quei casi in cui il creditore, restando
inerte e non richiedendo quanto dovutogli al garante,
avrebbe potuto evitare con una condotta attiva la causazione
dell’evento dannoso attraverso l’uso dell’ordinaria
diligenza” (Cons. St., Sez. IV, 02.03.2011, n. 1357 e
17.12.1990, n. 880; Sez. V, 05.02.2003, n. 585; 10.01.2003,
n. 32; 03.07.1995, n. 1001) rispetto a quella piuttosto
orientata ad una applicazione letterale della norma in
termini di “automatico obbligo sanzionatorio governato
dalla disciplina pubblicistica di riferimento, con
esclusione della configurabilità di ogni onere di previa
escussione ai fini dell’adempimento puntuale non tempestivo”
(Cons. St., Sez. IV, 13.03.2008, n. 1084 e 10.08.2007, n.
4419; Sez. V, 16.07.2007, n. 4025 e 11.11.2005, n. 6345);
- ad avviso della Sezione, nell’attuale panorama
giurisprudenziale per le considerazioni tutte prima
illustrate, è da seguire perché aderente alle attuali
sensibilità in tema di cooperazione nel rapporto
amministrazione-amministrati il condivisibile convincimento
secondo il quale “Nell'ipotesi in cui il soggetto
titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a
garanzia del versamento dei contributi concessori, polizza
fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione
dell'obbligato principale, in virtù di quanto disposto
dall'art. 1227 comma 2, c.c., che pone a carico del
creditore i danni che questi avrebbe potuto evitare usando
l'ordinaria diligenza, non può farsi luogo all'applicazione
delle sanzioni previste dall'art. 3 della l. 28.02.1985 n.
47 che puniscono l'omesso o ritardato versamento dei
contributi concessori, ove l'amministrazione creditrice, in
violazione dei doveri di correttezza e buona fede, non si
sia attivata per tempo nel richiedere all'istituto garante
il pagamento delle somme dovutele” (per tutte, Cons.
St., Sez. V, 05.02.2003, n. 585);
- invero, il principio dell’affidamento costituisce valore
guida dell’intero ordinamento ed è espressione di principi
generali immanenti nel diritto (in particolare, correttezza
e buona fede), anche di rango costituzionale (artt. 2, 3 e
97), sicché esso vincola l’interprete, in forza del canone
ermeneutico dell’interpretazione conforme a Costituzione,
essendo regola deputata a disciplinare una serie
indeterminata di casi concreti,
- dai principi innanzi riportati discende nel caso in esame
la sussistenza di un obbligo (e non di una mera facoltà),
per l'Amministrazione creditrice, di escutere il garante nel
caso di ritardato versamento dei contributi concessori e,
correlativamente, la sua colpa oggettiva per l’inerzia
causativa della mancata tempestiva percezione e
corresponsione degli oneri concessori, ove si consideri il
ritardo tollerato di quasi tre anni che ha aggravato la
posizione debitoria con le sanzioni accessorie applicate e
che si sono intese ora recuperare con l’impugnato atto di
intempestiva verifica contabile;
- né, in contrario, si può far leva sulla natura
sanzionatoria e non risarcitoria della pretesa irrogata,
perché essa, a salvaguardia degli interessi pubblici di
specifica attribuzione nella materia urbanistico-edilizia,
costituisce evento posteriore rispetto alla stabilita e
interposta “obbligazione patrimoniale” (fideiussoria)
finalizzata al programmato puntuale incameramento degli
oneri concessori dilazionati (Cons. St., Sez. IV,
17.12.1990, n. 880);
- infatti, l’effetto dissuasivo di legge finalizzato al
regolare versamento degli oneri concessori trova copertura
proprio nella procedimentalizzata fideiussione a prima
richiesta, che è strumento non disciplinato dall’art. 3
della legge n. 47 del 1985, ma applicazione amministrativa
per l’appunto a garanzia del tempestivo contributo afferente
alla concessione, il cui introito, in applicazione del
principio di buon andamento, non può essere
dall’Amministrazione differito a piacimento ad un tempo
futuro e indeterminato quando ha pronta la soluzione
dell’immediato incasso tramite l’escussione della polizza
fideiussoria richiesta per la rateizzazione;
- il ricorso va pertanto accolto nei sensi che precedono,
dovendo trovare applicazione le disposizioni generali in
materia di obbligazioni in quanto, pur potendo essere i
singoli pagamenti prontamente riscossi con l’escussione, si
è invece preferito nella sostanza lasciare montare e
raddoppiare il credito contributivo con la maturazione dei
consistenti aumenti sanzionatori;
P.Q.M.
Esprime l’avviso che il ricorso straordinario in esame debba
essere accolto
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 17.05.2013 n. 2366 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Albo avvocati chiuso alla Pa. La riforma delle professioni
non ha eliminato lo stop all'ingresso.
Cassazione. Le sezioni unite confermano il divieto di
iscrizione per i dipendenti pubblici part-time.
Il divieto di iscrizione all'albo degli avvocati per i
dipendenti pubblici part-time, soddisfa l'interesse pubblico
a difendere l'indipendenza del legale.
Le Sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza
16.05.2013 n. 11833) difendono
le incompatibilità previste dalla legge 339/2003, che vieta
ai dipendenti della pubblica amministrazione a "mezzo
servizio", di svolgere la professione forense.
La Suprema Corte riunisce e respinge una serie di ricorsi,
avallando la scelta del Consiglio nazionale forense di
confermare la cancellazione dall'albo di chi non aveva
esercitato l'opzione per l'una o l'altra attività.
I giudici smontano le molte obiezioni mosse dai diretti
interessati che si appellavano alle norme più favorevoli.
La legge 339 del 2003 ha, in effetti, dettato un contrordine
rispetto a quanto previsto dalle «Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica» (legge 662/1996)
che sfilavano dal regime delle incompatibilità i dipendenti
della Pubblica amministrazione a tempo parziale.
Un salvacondotto a cui si erano appellati i ricorrenti
iscritti all'albo durante il regime favorevole, chiedendo
per questo di salvaguardare i diritti acquisti e il loro
legittimo affidamento.
I ricorrenti avevano visto uno spiraglio anche nella manovra
d'agosto (Dl 138/2011) e nel Dpr professioni (137/2012),
portatori di una ventata liberalizzatrice che subordinava lo
svolgimento della libera professione al solo possesso dei
titoli: per il Dpr 137/2012, in particolare, la libera
professione poteva essere esercitata in maniera sia abituale
sia prevalente. I soli paletti riguardavano le condanne
penali e i motivi di interesse generale.
Su quest'ultimo si infrangono le speranze dei ricorrenti.
La Suprema corte si pone due domande: se lo "ius
superveniens" abbia tacitamente abrogato la legge "scomoda"
e se l'esigenza di scongiurare il rischio di avere avvocati
poco indipendenti possa essere considerata «motivo
imperativo di interesse generale». La prima risposta è no e
la seconda è sì, e l'una è il risultato dell'altra.
La Suprema Corte esclude che la legge 339/2003 possa essere
stata implicitamente abrogata proprio perché
l'incompatibilità tra l'impiego pubblico part-time e
l'esercizio della professione forense risponde a esigenze
specifiche di interesse pubblico «correlate proprio alla
peculiare natura di tale attività privata e ai possibili
inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le
caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente». Ad
avviso del collegio la legge 339/2003 fa da scudo a
interessi di rango costituzionale, come l'imparzialità e il
buon andamento della Pa, oltre che all'indipendenza
dell'avvocato da poteri che potrebbero mettere in dubbio la
correttezza della difesa causa dei possibili conflitti tra
interessi pubblici e privati. Inutile anche il tentativo dei
ricorrenti di sollevare contrasti sia con la Carta e con il
diritto dell'Unione.
La Cassazione ricorda che la Corte costituzionale, si è
espressa sul punto con due sentenze (390/2006 e 166/2012):
con la prima ha considerato il divieto coerente con la
peculiarità della professione e con la seconda ha affermato
la possibilità di modificare in senso meno favorevole norme
più "permissive", pur di non sfociare in regolamenti
irrazionali. Un'irragionevolezza esclusa dal lasso di tempo
concesso per esercitare l'opzione. Va male anche sul fronte
comunitario: la Corte di giustizia con la sentenza C-225/09
ha dato il suo nulla osta a una limitazione prevista anche
dal nuovo ordinamento forense
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Travet part-time ma mai avvocati.
La sentenza della Cassazione.
Legittima la cancellazione dall'Albo dell'Ordine forense per
il dipendente pubblico che aveva optato per il part-time in
modo da poter fare anche l'avvocato. È escluso, infatti, che
la manovra bis (dl 138/11) abbia tacitamente abrogato le
disposizioni della legge 339/03. E d'altronde anche la
recente riforma forense conferma l'incompatibilità, benché
non risulti ancora applicabile in merito perché manca ancora
il provvedimento ad hoc del ministero della Giustizia.
Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione con
la
sentenza
16.05.2013 n. 11833.
Exit strategy
Veniamo alla legge «incriminata». La normativa dispone che
gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno
ottenuto l'iscrizione sulla base della richiamata normativa
del 1996 possono optare, nel termine di tre anni, tra il
mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo
caso ritorna ad essere a tempo pieno, e il mantenimento
dell'iscrizione all'albo degli avvocati con contestuale
cessazione dei rapporto di pubblico impiego; in questa
seconda ipotesi il dipendente pubblico part-time conserva
per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a
tempo pieno; inoltre in caso di mancato esercizio
dell'opzione tra libera professione e pubblico impiego entro
il termine di trentasei mesi dall'entrata in vigore della
legge stessa, i consigli degli ordini degli avvocati
provvedono alla cancellazione d'ufficio dell'iscritto dal
proprio albo.
Interesse pubblico
Insomma, la legge 339/2003 ha posto un aut aut ai travet che
avevano scelto l'orario ridotto per esercitare la
contestualmente professione forense. Non ha senso riproporre
le argomentazioni contrarie all'incompatibilità anche dopo
il dl 138/2011, che pure ha introdotto liberalizzazioni nel
mondo delle professioni oltre che nell'economia.
Il punto è
che deve escludersi ogni abolizione dei vincoli per effetto
dello ius superveniens perché l'incompatibilità fra
pubblico impiego, per quanto part-time, ed esercizio della
professione forense risponde a specifiche esigenze di
interesse pubblico: l'attività privata di avvocato ha natura
molto peculiare e può dar vita a intrecci pericolosi se
combinata al lavoro di dipendente dell'amministrazione. Il
«no» ai conflitti d'interesse viene anche dalla
giurisprudenza della Consulta. Inutile infine invocare la
giurisprudenza Ue, laddove la stessa Corte di giustizia
europea ritiene legittimo per il legislatore nazionale
disporre la cancellazione dell'albo.
Non si può dunque invocare il principio comunitario della
libera circolazione contro la legge 339/2003: la normativa,
in effetti, non regola l'organizzazione della professione
forense ma soltanto le modalità di svolgimento del servizio
presso enti pubblici
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Nei
limiti del carattere “modesto” dell’edificio civile, la
progettazione può essere eseguita in zona sismica anche da
un geometra e tale competenza del professionista permane
anche -ai sensi dell’art. 2 della l. n. 1086/1971 (Norme per
la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato,
normale e precompresso e a struttura metallica), ora
ribadito anche dall’art. 64, comma 2, del T.U. Edilizia
approvato con d.P.R. n. 380/2001- nelle ipotesi in cui il
progetto di un edificio modesto preveda l’impiego di cemento
armato.
È stato in proposito affermato da condivisibile
giurisprudenza:
A) che spetta "al G.A. il sindacato sulla valutazione circa
l’entità quantitativa e qualitativa della costruzione al
fine di stabilire se la stessa … rientri o meno nella
nozione di “modesta costruzione civile”, alla cui
progettazione è limitata la competenza professionale del
geometra, ai sensi degli art. 16 ss. r.d. 274/1929";
B) che “il geometra è sempre abilitato alla progettazione di
“modeste costruzioni civili”; e che tale competenza permane
anche per le costruzioni a struttura metallica o per quelle
che richiedano l’impiego di conglomerato cementizio armato
normale o precompresso, a condizione -in questo caso- che
persista la qualificazione di edificio civile “modesto”…";
C) che i limiti posti dal predetto art. 16, lettera m), alla
competenza professionale dei geometri, se è pur vero che
rispondono a una scelta inequivoca del legislatore dettata
da evidenti ragioni di pubblico interesse, lasciano nella
sostanza all’interprete ampi margini in ordine alla
valutazione dei requisiti della “modestia” della
costruzione, della non necessità di complesse operazioni di
calcolo e dell’assenza d’implicazioni per la pubblica
incolumità.
---------------
Il criterio per accertare se una
costruzione sia da considerare modesta, e rientri quindi
nella competenza professionale dei geometri, va individuato
nelle difficoltà tecniche che la progettazione e
l’esecuzione dell’opera comportano e nelle capacità
occorrenti per superarle; a questo fine assumono specifico
rilievo, oltre alla complessità della struttura e delle
relative modalità costruttive, anche, ma in via
complementare, il costo presunto dell’opera, in quanto si
tratta di un elemento sintomatico che vale ad evidenziare le
difficoltà tecniche che coinvolgono la costruzione.
In aggiunta, competenza professionale dei geometri in
materia di progettazione e direzione dei lavori di opere
edili riguarda anche le piccole costruzioni accessorie in
cemento armato che non richiedono particolari operazioni di
calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque
implicare pericolo per la incolumità delle persone.
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In materia di progettazione delle opere private, lo scopo
perseguito dalla disciplina legislativa che stabilisce i
limiti di competenza dei geometri e periti edili e indica i
progetti per i quali è invece necessario l’intervento di un
ingegnere o di un architetto (art. 16 r.d. 11.02.1929, n.
275, art. 1 r.d. 16.11.1939 n. 2229, l. 24.06.1923 n. 1395 e
r.d. 23.10.1925 n. 2537) consiste, non nel garantire una
buona qualità delle opere sotto il profilo estetico e
funzionale, ma unicamente nell’assicurare l’incolumità delle
persone; …. e se -a tali fini- viene ritenuta sufficiente in
giurisprudenza la “ratifica, con assunzione di
responsabilità” ad opera di un ingegnere del progetto
redatto da un geometra, allora si deve ritenere che -a
maggior ragione- sia legittimo ed ammissibile il progetto
che un geometra abbia redatto solo per la parte
architettonica, allorquando lo stesso contempli gli
elaborati tecnico strutturali firmati tutti da un ingegnere.
Il ricorrente, in qualità di professionista iscritto
all’Albo dei Geometri, impugna il provvedimento del
dirigente del Servizio tecnico e di Pianificazione
territoriale provinciale di non accettazione del deposito
del progetto elaborato per la realizzazione di un’edicola
funeraria, in quanto “il direttore dei lavori delle
strutture in c.a. relativi alle costruzioni in oggetto è un
geometra laureato” nonché la conseguente nota del
responsabile dell’U.T.C. comunale nella quale si specifica
che “in assenza dell’attestazione di cui agli artt. 93-94
del d.P.R. 380/2001 i lavori relativi alle strutture in c.a.
non possono essere eseguiti”.
...
Il ricorso è fondato nei termini di seguito esposti.
Va premesso che in zona sismica, ai sensi dell’art. 17 della
L. 64/1974, possono essere eseguite costruzioni su progetto
d’ingegneri, architetti, geometri o periti edili iscritti
nell’albo, nei limiti delle rispettive competenze.
Per delineare, allora, le competenze dei geometri occorre
fare riferimento alle norme che disciplinano la specifica
figura professionale e, quindi, all’art. 16 del R.D.
274/1929 (Regolamento per la professione di geometra).
Dispone, per quanto d’interesse, tale noma: “L’oggetto ed
i limiti dell’esercizio professionale di geometra sono
regolati come segue: …
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di
costruzioni rurali e di edifici per uso d’industrie
agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per
la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo
per la incolumità delle persone; …
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili; ...”.
Ne consegue, in primo luogo, che nei limiti del carattere “modesto”
dell’edificio civile, la progettazione può essere eseguita
in zona sismica anche da un geometra e, in secondo luogo,
che tale competenza del professionista permane anche -ai
sensi dell’art. 2 della l. n. 1086/1971 (Norme per la
disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato,
normale e precompresso e a struttura metallica), ora
ribadito anche dall’art. 64, comma 2, del T.U. Edilizia
approvato con d.P.R. n. 380/2001- nelle ipotesi in cui il
progetto di un edificio modesto preveda l’impiego di cemento
armato.
È stato in proposito affermato da condivisibile
giurisprudenza:
A) che spetta "al G.A. il sindacato sulla valutazione
circa l’entità quantitativa e qualitativa della costruzione
al fine di stabilire se la stessa … rientri o meno nella
nozione di “modesta costruzione civile”, alla cui
progettazione è limitata la competenza professionale del
geometra, ai sensi degli art. 16 ss. r.d. 274/1929" (Tar
Salerno 9772/2010);
B) che “il geometra è sempre abilitato alla progettazione
di “modeste costruzioni civili”; e che tale competenza
permane anche per le costruzioni a struttura metallica o per
quelle che richiedano l’impiego di conglomerato cementizio
armato normale o precompresso, a condizione -in questo caso-
che persista la qualificazione di edificio civile “modesto”…"
(TAR Sicilia, Catania, sez. I, 22.04.2011, n. 1022; nello
stesso senso: Cons. St., sez. V, 16.09.2004, n. 6004);
C) che i limiti posti dal predetto art. 16, lettera m), alla
competenza professionale dei geometri, se è pur vero che
rispondono a una scelta inequivoca del legislatore dettata
da evidenti ragioni di pubblico interesse, lasciano nella
sostanza all’interprete ampi margini in ordine alla
valutazione dei requisiti della “modestia” della
costruzione, della non necessità di complesse operazioni di
calcolo e dell’assenza d’implicazioni per la pubblica
incolumità.
Della questione, va ricordato, si è già occupato, tra gli
altri, con sentenza 05.03.2009, n. 134, il anche il TAR
Abruzzo, “che in tale occasione ha precisato che il
criterio per accertare se una costruzione sia da considerare
modesta, e rientri quindi nella competenza professionale dei
geometri, vada individuato nelle difficoltà tecniche che la
progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e nelle
capacità occorrenti per superarle; ed ha ritenuto che a
questo fine assumono specifico rilievo, oltre alla
complessità della struttura e delle relative modalità
costruttive, anche, ma in via complementare, il costo
presunto dell’opera, in quanto si tratta di un elemento
sintomatico che vale ad evidenziare le difficoltà tecniche
che coinvolgono la costruzione.
In aggiunta, ha anche precisato che la competenza
professionale dei geometri in materia di progettazione e
direzione dei lavori di opere edili riguarda anche le
piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non
richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la
loro destinazione non possono comunque implicare pericolo
per la incolumità delle persone” (TAR Abruzzo, Pescara,
sez. I, 16.11.2010, n. 1213).
Il Collegio non ignora la sussistenza di un contrario
orientamento, manifestato dalla giurisprudenza civile
(Cass., II, 17028/2006, e 19292/2009), che ha considerato
nulli sul piano civilistico i contratti d’opera
professionale stipulati da geometri in quanto aventi ad
oggetto la realizzazione di opere in cemento armato.
Si tratta, tuttavia, di una ricostruzione del dato normativo
non condividibile in quanto non tiene conto del fatto che
anche le norme relative alle costruzioni in cemento armato,
così come quelle dettate per le zone sismiche, fanno
espresso richiamo “per relationem” alle competenze
stabilite dall’ordinamento professionale dei geometri (TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 22.04.2011, n. 1022).
Ciò posto e per passare all’esame del caso di specie,
ritiene la Sezione che nella specie la costruzione
progettata possa essere ascritta fra le modeste costruzioni,
di cui all’art. 16, lett. m), del R.D. n. 274/1929,
assimilabili a quelle accessorie in cemento armato, di cui
alla precedente lett. l), atteso che, per un verso,
non richiede per la sua progettazione particolari operazioni
di calcolo e, per altro verso, non implica pericolo
per l’incolumità delle persone proprio in riferimento alla
sua specifica destinazione a edicola funeraria - ove
l’utilizzo del cemento armato, peraltro, riguarda opere
interne (strutture di divisione dei n. 6 loculi, il relativo
basamento e i setti).
Quanto esposto vale come inquadramento generale della
problematica sulla quale si incentra il giudizio.
Deve essere, tuttavia, evidenziato il fatto che nel caso
sono presenti delle peculiari circostanze che conferiscono
alla vicenda una specifica singolarità: se è vero che il
progettista architettonico e direttore dei lavori è un
geometra laureato (il ricorrente), calcolatore delle
strutture è, invece, un ingegnere (dott. ing. Salvatore
Miceli).
In altri termini, non siamo in presenza di un progetto
ascritto solo al geometra; ma di una progettazione
effettuata a più mani, nella quale l’apporto dell’ingegnere
risulta prevalente sul piano quantitativo e tecnico, mentre
quello del progettista/geometra è secondario e per certi
versi atecnico, essendo limitato a definire l’aspetto
esteriore dell’edificio.
La predetta conclusione risulta avvalorata anche dalla
giurisprudenza (Cons. Stato, V, 83/1999) che ha precisato il
ruolo da attribuire, nella progettazione, all’intervento del
tecnico laureato: “In materia di progettazione delle
opere private, lo scopo perseguito dalla disciplina
legislativa che stabilisce i limiti di competenza dei
geometri e periti edili e indica i progetti per i quali è
invece necessario l’intervento di un ingegnere o di un
architetto (art. 16 r.d. 11.02.1929, n. 275, art. 1 r.d.
16.11.1939 n. 2229, l. 24.06.1923 n. 1395 e r.d. 23.10.1925
n. 2537) consiste, non nel garantire una buona qualità delle
opere sotto il profilo estetico e funzionale, ma unicamente
nell’assicurare l’incolumità delle persone; …. e se -a tali
fini- viene ritenuta sufficiente in giurisprudenza la
“ratifica, con assunzione di responsabilità” ad opera di un
ingegnere del progetto redatto da un geometra; allora si
deve ritenere che -a maggior ragione- sia legittimo ed
ammissibile il progetto che un geometra abbia redatto solo
per la parte architettonica, allorquando lo stesso contempli
gli elaborati tecnico strutturali firmati tutti da un
ingegnere" (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 22.04.2011, n.
1022).
Sulla base delle sovra esposte considerazioni, il ricorso va
accolto, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 15.05.2013 n. 1108 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
contributi concessori devono essere stabiliti al momento del
rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre
dunque avere riguardo per la determinazione della entità
dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al
momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario
della irretroattività delle determinazioni comunali a
carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri
generali, le nuove tariffe e le modalità di calcolo per gli
oneri di urbanizzazione ribadendosi l'integrale applicazione
del principio tempus regit actum e quindi la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza deve ritenersi che le delibere comunali che
dispongono l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione
possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza,
fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 DPR
380/2001 (“la quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio
del permesso di costruire” e “la quota di contributo
relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del
rilascio...”) i contributi concessori devono essere stabiliti
al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale
momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione
della entità dell’onere facendo applicazione della normativa
vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario
della irretroattività delle determinazioni comunali a
carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri
generali, le nuove tariffe e le modalità di calcolo per gli
oneri di urbanizzazione ribadendosi l'integrale applicazione
del principio tempus regit actum e quindi la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza deve ritenersi che le delibere comunali che
dispongono l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione
possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 15.05.2013 n. 1103 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del
d.l.gs. 163/2006 impongono, anche per gli appalti di servizi
e forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica
di tutti i costi relativi alla sicurezza. Il combinato
disposto delle due norme impone ai concorrenti di
evidenziare gli oneri economici che ritengono di sopportare
al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza
sul lavoro, al duplice fine di assicurare la consapevole
formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto
nevralgico e di consentire alla stazione appaltante la
valutazione della congruità dell’importo destinato a tale
scopo.
Gli oneri della sicurezza -sia nel comparto dei lavori che
in quelli dei servizi e delle forniture- devono essere
distinti tra oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati
all’eliminazione dei rischi da interferenze (che devono
essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed
oneri concernenti i costi specifici connessi con l’attività
delle imprese, che devono essere indicati dalle stesse nelle
rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione
appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del
procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto
all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o
fornitura.
---------------
La mancanza di una specifica previsione sul tema in seno
alla “lex specialis” non giustifica la mancata indicazione
dei costi per la sicurezza, e ciò sul fondamentale rilievo
del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge
che prescrivono di esibire tali costi, idonee come tali a
eterointegrare le regole della singola gara (ai sensi
dell’art. 1374 del c.c.), e a imporre, in caso di loro
inosservanza, l’esclusione dalla procedura.
Pertanto, “anche in difetto di una comminatoria espressa
nella disciplina speciale di gara, dunque, l’inosservanza
della prescrizione primaria che impone l’indicazione
preventiva dei costi di sicurezza implica la sanzione
dell’esclusione, in quanto rende l’offerta incompleta sotto
un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed
impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo
sull’affidabilità dell’offerta stessa”.
---------------
L’esclusione dell’offerta si rivela doverosa anche ai sensi
dell'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006, configurando
l’omessa specificazione degli oneri di sicurezza un’ipotesi
di “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal
presente codice” idoneo a determinare “incertezza assoluta
sul contenuto dell'offerta” per difetto di un elemento
essenziale.
Secondo giurisprudenza costante:
A) “gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.l.gs.
163/2006 impongono, anche per gli appalti di servizi e
forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica
di tutti i costi relativi alla sicurezza. Il combinato
disposto delle due norme impone ai concorrenti di
evidenziare gli oneri economici che ritengono di sopportare
al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza
sul lavoro, al duplice fine di assicurare la consapevole
formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto
nevralgico e di consentire alla stazione appaltante la
valutazione della congruità dell’importo destinato a tale
scopo.
Gli oneri della sicurezza -sia nel comparto dei
lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- devono
essere distinti tra oneri, non soggetti a ribasso,
finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze (che
devono essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri concernenti i costi specifici connessi con
l’attività delle imprese, che devono essere indicati dalle
stesse nelle rispettive offerte, con il conseguente onere
per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche
al di fuori del procedimento di verifica delle offerte
anomale) rispetto all’entità ed alle caratteristiche del
lavoro, servizio o fornitura” (TAR Lombardia, Brescia,
sez. II, 19.02.2013, n. 181; nello stesso senso:
TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 17.01.2013, n. 124;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 07.01.2013, n. 66; TAR
Veneto, Venezia, sez. I, 04.12.2012, n. 1477; TAR
Piemonte, Torino, sez. I, 12.01.2012, n. 23);
B) la mancanza di una specifica previsione sul tema in seno
alla “lex specialis” non giustifica la mancata indicazione
dei costi per la sicurezza, e ciò sul fondamentale rilievo
del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge
che prescrivono di esibire tali costi, idonee come tali a
eterointegrare le regole della singola gara (ai sensi
dell’art. 1374 del c.c.), e a imporre, in caso di loro
inosservanza, l’esclusione dalla procedura.
Pertanto, “anche in difetto di una comminatoria espressa
nella disciplina speciale di gara, dunque, l’inosservanza
della prescrizione primaria che impone l’indicazione
preventiva dei costi di sicurezza implica la sanzione
dell’esclusione, in quanto rende l’offerta incompleta sotto
un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed
impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo
sull’affidabilità dell’offerta stessa” (TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181, nello stesso
senso: Cons. di St., sez. V, 29.02.2012, n. 1172;
TAR Venezia, Veneto, sez. I, 22.11.2011, n. 1720);
C) “l’esclusione dell’offerta si rivela doverosa anche ai
sensi dell'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006,
configurando l’omessa specificazione degli oneri di
sicurezza un’ipotesi di “mancato adempimento alle
prescrizioni previste dal presente codice” idoneo a
determinare “incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta”
per difetto di un elemento essenziale” (TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, 19.02.2013, n. 181)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 15.05.2013 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cattivi odori dalle stalle? Rischio multe.
L'allevatore non ottempera all'ordine del sindaco di
chiudere la stalla, causa di esalazioni maleodoranti e viene
punito, quindi, con 50 euro di ammenda. La sentenza di 1°
grado, impugnata dall'imprenditore agricolo è stata ritenuta
esente da vizi anche se non era stata effettuata alcuna
misurazione, ovvero senza compiere nessun accertamento circa
l'entità delle emissioni, ai fini della verifica del reato,
che sussiste ogni qualvolta viene ad essere superata la
normale tollerabilità secondo la previsione dell'art. 844
cc..
Ma se manca la possibilità di accertare obiettivamente,
con adeguati strumenti, com'è il caso degli odori,
l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e
sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può
basarsi su dichiarazioni di testi, specie se a diretta
conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni consistano
nel riferimento a quanto oggettivamente percepito.
Lo ha
stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 14.05.2013 n. 20748
(articolo ItaliaOggi del 18.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va preliminarmente
affermata la legittimazione dell’odierno appellante a
proporre censura avverso la rilasciata concessione edilizia,
essendo egli, in quanto confinante con il manufatto oggetto
della sua impugnativa, portatore dell’interesse a che
l’attività edificatoria svolta dai proprietari confinanti
avvenga nel rispetto delle norme poste a presidio
dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
urbanistico-edilizio, tra le quali sono indiscutibilmente
comprese quelle regolatrici della corretta progettazione e
realizzazione degli edifici.
Detto interesse pubblico altro non è, infatti, che la
sintesi di una pluralità di interessi, tra i quali anche
quello meramente privato inerente la conservazione delle
costruzioni realizzate nelle immediate vicinanze, di cui
Longo è nel caso di specie portatore.
Ciò precisato, è innanzitutto fondato l’ultimo motivo,
incentrato sull’incompetenza professionale del geometra
incaricato dai controinteressati per la progettazione della
loro costruzione.
A confutazione dell’eccezione di inammissibilità sollevata
da questi ultimi, va preliminarmente affermata la
legittimazione dell’odierno appellante a proporre tale
censura, essendo egli, in quanto confinante con il manufatto
oggetto della sua impugnativa, portatore dell’interesse a
che l’attività edificatoria svolta dai proprietari
confinanti avvenga nel rispetto delle norme poste a presidio
dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
urbanistico-edilizio, tra le quali sono indiscutibilmente
comprese quelle regolatrici della corretta progettazione e
realizzazione degli edifici. Detto interesse pubblico altro
non è, infatti, che la sintesi di una pluralità di
interessi, tra i quali anche quello meramente privato
inerente la conservazione delle costruzioni realizzate nelle
immediate vicinanze, di cui Longo è nel caso di specie
portatore (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2617 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Ancora di recente questo
Consiglio di Stato ha ricordato che è inibita al geometra la
progettazione di opere in cemento armato a destinazione
abitativa strutturate su più piani.
Su posizioni non dissimili si pone l’incontrastata
giurisprudenza della Cassazione.
Secondo il giudice di legittimità, la competenza
professionale dei geometri in materia di progettazione e
direzione dei lavori di opere edili è circoscritta alle
costruzioni in cemento armato con destinazione agricola, in
quanto non richiedenti particolari operazioni di calcolo e
che per la loro destinazione non comportino pericolo per la
incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili
con struttura portante in cemento armato, ancorché di
modeste dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri
ed architetti.
Nelle sentenze ora citate la stessa Cassazione ha anche
precisato che la legge n. 1086/1971 non ha innovato la
ripartizione di competenze tra geometri da una parte ed
architetti ed ingegneri dall’altra quale definita dai citati
testi legislativi del 1929, ma la ha semplicemente recepita.
Il TAR non si è attenuto a questo indirizzo, enucleando un
criterio di carattere quantitativo, vale a dire la cubatura
dell’edificio, sfornito di base normativa, risultando
invece, sulla scorta di tali rilievi, evidente che
l’edificio realizzato non potesse, per caratteristiche
costruttive e destinazione, essere progettato da un
geometra.
Tra l'altro, è evidente che una palazzina residenziale di
tre piani fuori terra importa l’adozione di accurati e
complessi calcoli strutturali, al fine di assicurarne la
stabilità, chiaramente esorbitanti dal limitato ambito entro
il quale la legge circoscrive la competenza professionale
dei geometri in materia.
Venendo al merito della doglianza, risulta innanzitutto in
fatto, sulla base della documentazione progettuale versata
agli atti di causa, ed anche per deduzione dei fratelli
Galiandro, che tale costruzione si sostanzia in un
fabbricato di civile abitazione su tre piani fuori terra,
oltre che uno interrato, con strutture portanti in cemento
armato.
In diritto, per contro, in base al regolamento professionale
di cui al citato r.d. n. 274/1929, e precisamente l’art. 16,
lett. m), il geometra può essere incaricato di progettare “modeste
costruzioni civili”, laddove, ai sensi dell’art. 1 del
r.d. n. 2229/1939 (“Norme per la esecuzione di opere in
conglomerato cementizio semplice od armato”), la
progettazione delle opere comportanti l’impiego di tale
tecnica costruttiva, “la cui stabilità possa comunque
interessate l’incolumità delle persone”, è riservata
agli ingegneri o agli architetti.
In aderenza al dato normativo in questione, che si impernia
dunque sul pericolo per l’incolumità pubblica, ancora di
recente questo Consiglio di Stato ha ricordato che è inibita
al geometra la progettazione di opere in cemento armato a
destinazione abitativa strutturate su più piani (Sez. IV,
sentenza 14.03.2013 n. 1526).
Su posizioni non dissimili si pone l’incontrastata
giurisprudenza della Cassazione.
Secondo il giudice di legittimità, la competenza
professionale dei geometri in materia di progettazione e
direzione dei lavori di opere edili è circoscritta alle
costruzioni in cemento armato con destinazione agricola, in
quanto non richiedenti particolari operazioni di calcolo e
che per la loro destinazione non comportino pericolo per la
incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili
con struttura portante in cemento armato, ancorché di
modeste dimensioni, ogni competenza è riservata ad ingegneri
ed architetti (da ultimo: Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; in
precedenza: 30.03.1999, n. 3046; 21.12.2006, n. 27441;
07.09.2009, n. 19292).
Nelle sentenze ora citate la stessa Cassazione ha anche
precisato, per rispondere alle difese svolte sul punto dagli
appellati, che la legge n. 1086/1971 (“Norme per la
disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato”),
non ha innovato la ripartizione di competenze tra geometri
da una parte ed architetti ed ingegneri dall’altra quale
definita dai citati testi legislativi del 1929, ma la ha
semplicemente recepita.
Il TAR non si è attenuto a questo indirizzo, enucleando un
criterio di carattere quantitativo, vale a dire la cubatura
dell’edificio, sfornito di base normativa, risultando
invece, sulla scorta di tali rilievi, evidente che
l’edificio realizzato dai fratelli Galiandro non potesse,
per caratteristiche costruttive e destinazione, essere
progettato da un geometra.
Del tutto infondatamente questi ultimi asseriscono che
l’appellante non avrebbe indicato quale soluzione tecnica di
particolare difficoltà ponga la realizzazione del manufatto
edificato sul terreno di proprietà, essendo evidente che una
palazzina residenziale di tre piani fuori terra importa
l’adozione di accurati e complessi calcoli strutturali, al
fine di assicurarne la stabilità, chiaramente esorbitanti
dal limitato ambito entro il quale la legge circoscrive la
competenza professionale dei geometri in materia.
L’accoglimento di tale censura comporta l’assorbimento di
tutte le altre, qui riproposte, concernenti le asserite
difformità progettuali rispetto agli standard fissati nei
citati decreti ministeriali, rivestendo la stessa piena
idoneità ad invalidare ab imis la concessione in
sanatoria n. 79/1994 impugnata da Longo (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2617 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto
di esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale
a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex
art. 79, comma 5, del codice dei contratti pubblici.
Merita, infatti, condivisione l’indirizzo ermeneutico alla
stregua del quale l’art. 120, comma 5 c.p.a., non prevedendo
forme di comunicazione "esclusive" e "tassative", non incide
sulle regole processuali generali del processo
amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità
che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del
termine di impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel
caso di specie, con forme diverse di quelle dell'art. 79 cit..
E’ documentato nel verbale in atti che alla seduta di gara
del 26.11.2010, nella quale è stata data comunicazione
alla ricorrente dell’esclusione, hanno presenziato due
rappresentanti della società ricorrente.
La qualifica di rappresentanti attribuita ai soggetti in
parola dal nel verbale di gara in parola è suffragata, in
termini decisivi, dalla ruolo effettivamente svolto dagli
stessi nel corso della seduta in esame, tale da evidenziare,
al di là dell’ esistenza di un mandato formale o della
specifica carica a sociale rivestita, l’attribuzione di un
effettivo potere rappresentativo che esorbita dalla veste di
mero nuncius della società concorrente. E’
significativa, soprattutto, la circostanza che uno dei
suddetti soggetti non si sia limitato ad assistere alle
operazioni di gara, ma vi abbia partecipato attivamente,
censurando le determinazioni della Commissione e instaurando
un vero e proprio contraddittorio.
La tipologia dei poteri esercitati dimostra, in definitiva,
che non si tratta di persone incaricate solamente di ad
assistere alle operazioni ma di veri e propri
rappresentanti, legittimati a manifestare la volontà
dell’impresa e, conseguentemente, a rappresentarla anche ai
fini della piena conoscenza.
La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di
esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a
prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art.
79, comma 5, del codice dei contratti pubblici. Merita,
infatti, condivisione l’indirizzo ermeneutico alla stregua
del quale l’art. 120, comma 5 c.p.a., non prevedendo forme
di comunicazione "esclusive" e "tassative",
non incide sulle regole processuali generali del processo
amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità
che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del
termine di impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel
caso di specie, con forme diverse di quelle dell'art. 79
cit. (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V,
28.02.2013, n. 1204; sez. III, 22.08.2012, n. 4593; sez. VI,
13.12.2011, n. 6531) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.05.2013 n. 2614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte di ordine urbanistico sono riservate alla
discrezionalità dell’Amministrazione, con la conseguenza che
nell’adozione di un atto di programmazione territoriale
avente rilevanza generale l’Amministrazione stessa non è
tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte
operate, a meno che sulla precedente disciplina urbanistica
siano state fondate specifiche aspettative, come quelle
derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un
giudicato d’annullamento di un diniego di concessione
edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
In tale concezione di programmazione urbanistica rientra
anche la rete viaria, compreso il dimensionamento e la
limitazione delle superfici di aree per parcheggio. Le
relative scelte possono essere sottoposte al vaglio della
giustizia amministrativa solo per palese arbitrarietà,
illogicità, manifesta irragionevolezza, errori di fatto, che
non sussistono nel caso in cui nella scelta della località
vengano fornite adeguate motivazioni di ordine urbanistico e
di dislocazione dei parcheggi. Di conseguenza non è
arbitraria la scelta dell’area che, secondo le valutazioni
del comune, ha caratteristiche idonee alla localizzazione
delle aree viarie e di parcheggio, in base alla dimensione
territoriale del comune e delle attività d’interesse
pubblico locale anche in relazione alle specifiche
condizioni di viabilità.
Per il rimanente, le scelte di ordine urbanistico sono
riservate alla discrezionalità dell’Amministrazione, con la
conseguenza che nell’adozione di un atto di programmazione
territoriale avente rilevanza generale l’Amministrazione
stessa non è tenuta a dare specifica motivazione delle
singole scelte operate, a meno che sulla precedente
disciplina urbanistica siano state fondate specifiche
aspettative, come quelle derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato d’annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto (Consiglio di Stato sez. VI, 17.02.2012
n. 854).
In tale concezione di programmazione urbanistica rientra
anche la rete viaria, compreso il dimensionamento e la
limitazione delle superfici di aree per parcheggio. Le
relative scelte possono essere sottoposte al vaglio della
giustizia amministrativa solo per palese arbitrarietà,
illogicità, manifesta irragionevolezza, errori di fatto, che
non sussistono nel caso in cui nella scelta della località
vengano fornite adeguate motivazioni di ordine urbanistico e
di dislocazione dei parcheggi. Di conseguenza non è
arbitraria la scelta dell’area che, secondo le valutazioni
del comune, ha caratteristiche idonee alla localizzazione
delle aree viarie e di parcheggio, in base alla dimensione
territoriale del comune e delle attività d’interesse
pubblico locale anche in relazione alle specifiche
condizioni di viabilità
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 14.05.2013 n. 2337 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Se
i clienti sono rumorosi paga il titolare del bar.
Se i clienti sono rumorosi, il titolare del bar ne paga le
conseguenze se nell'ambito dell'ordinaria gestione
dell'attività non impedisce che gli avventori del locale
provochino eccessivo rumore, tale da procurare disturbo alle
ordinarie occupazioni ed al riposo degli abitanti degli
immobili siti nei pressi del bar stesso.
La Corte di Cassazione, Sez. I penale, con la sentenza
10.05.2013 n. 20207, ha dichiarato l'inammissibilità del
ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Venezia per il
reato di cui all'art. 659 del codice penale che punisce il
disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone.
In sostanza, la Cassazione ha rilevato che la sentenza
impugnata ha fatto corretta applicazione della
giurisprudenza di legittimità, la quale ritiene che elemento
essenziale della contravvenzione è l'idoneità del fatto, che
nel caso specifico, corrisponde a eccessivi rumori, strepiti
e schiamazzi provocati dal personale e dai frequentatori del
bar, ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di
persone. In sostanza, perché maturi l'ipotesi di reato non è
richiesto l'effettivo disturbo al riposo di più persone,
essendo invece necessario venga accertata l'astratta
attitudine del fatto medesimo ad arrecare tale tipo di
disturbo.
Nel caso specifico, la sentenza impugnata ha adeguatamente
motivato tale circostanza. E lo ha fatto sia con riferimento
alla concreta sussistenza di voci e rumori provenienti dal
bar che si protraevano ben oltre la mezzanotte, e che si
diffondevano per una vasta area circostante l'esercizio
commerciale, sia la loro idoneità ad arrecare disturbo al
riposo di un vasto ed indeterminato numero di persone,
ovvero gli abitanti degli edifici circostanti. Del resto,
secondo la Cassazione era del tutto irrilevante che due
testi affermassero di non essere stati infastiditi dai
rumori molesti, perché occorre al contrario fare riferimento
al comune modo di sentire della generalità dei consociati.
E, a tale proposito, afferma la sentenza «il vociare del
personale e degli avventori di un bar è un evento
oggettivamente idoneo ad arrecare disturbo al riposo delle
persone costrette a vivere nelle vicinanze di tale fonte di
rumori molesti»
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la possibilità di condonare fabbricati
abusivi,
soccorre il disposto dell’art. 31, comma 2, della l. n.
47/1985 (richiamato dall’art. 39 della l. n. 724/1994), in
base al quale “si
intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito
il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle
opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano state completate
funzionalmente”.
A livello giurisprudenziale, sono state tracciate le
seguenti coordinate ermeneutico-applicative:
- innanzitutto, la costruzione condonabile deve essere
completata a rustico, ossia in tutte le sue strutture
essenziali, mediante realizzazione delle tamponature e della
copertura, in quanto determinanti per stabilire la relativa
volumetria e la sagoma esterna, restando, invece, irrilevanti le
opere di rifinitura, quali, ad es., la pavimentazione e gli
infissi;
- il rustico deve essere completato, in particolare, nelle
tamponature esterne, necessarie a realizzare in concreto i
volumi individuabili ed esattamente calcolabili,
indipendentemente dai materiali utilizzati; tamponature
esterne che assolvono, quindi, la funzione di isolamento
dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella
sua fondamentale volumetria;
- quanto alla copertura –essenziale, al pari delle
tamponature esterne–, essa deve intendersi come qualsiasi
chiusura superiore, anche non avente carattere di stabilità
e definitività, idonea a consentire l'individuazione del
volume dell'edificio e ad impedirne la maggiorazione.
Dalla superiore rassegna normativa e giurisprudenziale si
evince che, per aversi ultimazione delle opere abusive
suscettibile di condono edilizio, è indispensabile
l’avvenuta realizzazione del rustico, consistente,
segnatamente, nell’esecuzione delle tamponature esterne
(muri perimetrali) e della copertura (senza necessità di
rifiniture) così da ottenere un volume integrante nuova
costruzione.
---------------
Nell'ambito del condono edilizio, va esclusa la formazione
del silenzio-assenso nelle ipotesi di domanda rivelatasi
dolosamente infedele per la portata delle omissioni o delle
inesattezze in essa riscontrate.
Il titolo abilitativo tacito può, dunque, formarsi, per
effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di
definizione dell’illecito edilizio presentata possegga i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in
quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice
che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il
decorso del tempo è mero coelemento costitutivo della
fattispecie autorizzativa: affinché sia abbia silenzio
assenso, occorre, cioè, che l’iter amministrativo sia stato
avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto
dalla norma che regola il procedimento di condono.
La mancata definizione dell’illecito edilizio da parte
dell’amministrazione comunale entro il termine perentorio
all’uopo prefissato non determina, cioè, ope legis, la
regolarizzazione tacita dell'abuso, qualora manchino i
presupposti di fatto e di diritto normativamente richiesti,
tra cui, segnatamente, quello del completamento delle opere
abusive entro la data del 31.12.1993, ovvero qualora la
domanda di condono –con specifico riferimento a quest’ultimo
presupposto essenziale– rappresenti la realtà, attraverso
omissioni o inesattezze rilevanti, in maniera dolosamente
infedele.
Sul piano normativo, soccorre il disposto
dell’art. 31, comma 2, della l. n. 47/1985 (richiamato
dall’art. 39 della l. n. 724/1994), in base al quale “si
intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito
il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle
opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano state completate
funzionalmente”.
A livello giurisprudenziale, sono state tracciate le
seguenti coordinate ermeneutico-applicative:
- innanzitutto, la costruzione condonabile deve essere
completata a rustico, ossia in tutte le sue strutture
essenziali, mediante realizzazione delle tamponature e della
copertura (TAR Campania, Salerno, sez. II, 09.01.2007,
n. 3), in quanto determinanti per stabilire la relativa
volumetria e la sagoma esterna (TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.09.2005, n. 7000; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.10.2006, n. 4973), restando, invece, irrilevanti le
opere di rifinitura (Cons. Stato, sez. IV, 26.01.2009,
n. 393; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 14.05.2004, n. 2917),
quali, ad es., la pavimentazione e gli infissi (TAR Umbria,
Perugia, 06.11.2008, n. 702);
- il rustico deve essere completato, in particolare, nelle
tamponature esterne (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 04.07.2007, n. 1739; cfr. Cass. pen., sez. III, 29.05.2007, n. 28515), necessarie a realizzare in concreto i
volumi individuabili ed esattamente calcolabili,
indipendentemente dai materiali utilizzati (TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 08.04.2005, n. 1982); tamponature
esterne che assolvono, quindi, la funzione di isolamento
dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella
sua fondamentale volumetria (TAR Calabria, Reggio Calabria,
09.12.2002, n. 1955; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.10.2006, n. 1745);
- quanto alla copertura –essenziale, al pari delle
tamponature esterne–, essa deve intendersi come qualsiasi
chiusura superiore, anche non avente carattere di stabilità
e definitività, idonea a consentire l'individuazione del
volume dell'edificio e ad impedirne la maggiorazione (TAR
Sardegna, Cagliari, 14.10.2003, n. 1212).
Dalla superiore rassegna normativa e giurisprudenziale si
evince che, per aversi ultimazione delle opere abusive
suscettibile di condono edilizio, è indispensabile
l’avvenuta realizzazione del rustico, consistente,
segnatamente, nell’esecuzione delle tamponature esterne
(muri perimetrali) e della copertura (senza necessità di
rifiniture) così da ottenere un volume integrante nuova
costruzione.
---------------
Al riguardo,
il citato art. 39 subordina, innanzitutto, al comma 1, la
consentita sanatoria delle opere abusive al relativo
completamento entro la data del 31.12.1993.
Stabilisce, altresì, al comma 4, cit., che il pagamento
dell’oblazione e degli oneri concessori, la presentazione
della documentazione a corredo della domanda di condono
(prescritta dall’art. 35, commi 3 e 5, della l. n. 47/1985)
e della denuncia in catasto, nonché “il decorso del termine
di un anno e di due anni per i comuni con più di 500.000
abitanti dalla data di entrata in vigore della presente
legge senza l’adozione di un provvedimento negativo del
comune” “equivale a concessione o ad autorizzazione edilizia
in sanatoria”. Ma precisa, nel contempo, che “se nei termini
previsti l’oblazione dovuta non è stata interamente
corrisposta o è stata determinata in modo non veritiero e
palesemente doloso, le costruzioni realizzate senza licenza
o concessione edilizia sono assoggettate alle sanzioni
richiamate agli artt. 40 e 45 della l. 28.02.1985, n.
47”.
Analogamente a tali previsioni, l’art. 35 della l. n.
47/1985 (richiamato dall’art. 39 della l. n. 724/1994)
stabilisce, al comma 18, che, "fermo il disposto del primo
comma dell'art. 40 … decorso il termine perentorio di
ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda,
quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda
al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a
conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico
erariale della documentazione necessaria
all'accatastamento"; mentre il successivo art. 40 precisa,
al comma 1, che, “se nel termine prescritto non viene
presentata la domanda … per opere abusive realizzate in
totale difformità o in assenza della licenza o concessione,
ovvero se la domanda presentata, per la rilevanza delle
omissioni o delle inesattezze riscontrate, deve ritenersi
dolosamente infedele, gli autori di dette opere abusive non
sanate sono soggetti alle sanzioni di cui al capo I” e che
“le stesse sanzioni si applicano, se, presentata la domanda,
non viene effettuata l’oblazione dovuta”.
La disciplina dianzi riportata prevede che la domanda
di condono si intende accolta, in presenza delle seguenti
condizioni:
- ultimazione delle opere abusive entro il 31.12.1993;
- decorso del termine perentorio prefissato
per una pronuncia espressa dell’amministrazione comunale;
-
pagamento dell’oblazione e degli oneri concessori dovuti;
-
produzione della documentazione richiesta;
- denuncia in
catasto dell’immobile abusivo.
In omaggio al principio
‘fraus omnia corrumpit’, esclude, poi, la formazione del
silenzio-assenso nelle ipotesi di domanda rivelatasi
dolosamente infedele per la portata delle omissioni o delle
inesattezze in essa riscontrate (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
22.07.2010, n. 4823; TAR Campania, Napoli, sez. III, 25.10.2010, n. 21436; TAR Puglia, Bari, sez. II, 18.11.2011, n. 1762; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 12.09.2012, n. 1517).
Il titolo abilitativo tacito può, dunque, formarsi, per
effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di
definizione dell’illecito edilizio presentata possegga i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in
quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice
che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il
decorso del tempo è mero coelemento costitutivo della
fattispecie autorizzativa: affinché sia abbia silenzio
assenso, occorre, cioè, che l’iter amministrativo sia stato
avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto
dalla norma che regola il procedimento di condono.
Secondo il legislatore, la mancata definizione dell’illecito
edilizio da parte dell’amministrazione comunale entro il
termine perentorio all’uopo prefissato non determina, cioè,
ope legis, la regolarizzazione tacita dell'abuso, qualora
manchino i presupposti di fatto e di diritto normativamente
richiesti, tra cui, segnatamente, quello del completamento
delle opere abusive entro la data del 31.12.1993,
ovvero qualora la domanda di condono –con specifico
riferimento a quest’ultimo presupposto essenziale–
rappresenti la realtà, attraverso omissioni o inesattezze
rilevanti, in maniera dolosamente infedele (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 12.07.2004, n. 5039; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.02.2006, n. 2124; Salerno, sez. II,
13.07.2009, n. 3990; Napoli, sez. VIII, 14.07.2011,
n. 3849; sez. II, 06.02.2012, n. 585; TAR Veneto,
Venezia, sez. II, 27.05.2009, n. 1627; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. I, 18.09.2012, n. 951; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 12.04.2012, n. 625; Bari, sez. III,
19.04.2012, n. 743)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A norma dell’art. 9,
comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 nelle c.d. ‘zone
bianche’, e cioè nelle zone rimaste sprovviste di strumento
urbanistico sono consentiti, al di fuori del perimetro dei
centri abitati, interventi di nuova edificazione nel limite
della densità massima fondiaria di mc/mq 0,03.
In proposito, giova rammentare che, a norma dell’art.
9, comma 1, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001, nonché a norma
del comb. disp. artt. 3, comma 1, lett. b, della l.r.
Campania n. 17/1982 e 38, comma 3, della l.r. Campania n.
16/2004, nelle c.d. ‘zone bianche’, e cioè nelle zone
rimaste sprovviste di strumento urbanistico (segnatamente –come nella specie– per sopravvenuta decadenza dei vincoli
espropriativi da questo imposti su di esse: cfr. Cons.
Stato, sez. V, 17.03.2001, n. 1596; sez. IV, 17.07.2002, n. 3999; sez. V,
09.05.2003, n. 2449; TAR Veneto,
Venezia, sez. II, 08.10.2003, n. 5156; TAR Sicilia,
Catania, sez. I, 11.02.2004, n. 201), sono consentiti,
al di fuori del perimetro dei centri abitati, interventi di
nuova edificazione nel limite della densità massima
fondiaria di mc/mq 0,03
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2407 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La normativa consente
alla amministrazione comunale di inibire l’attività edilizia
prevista dalla d.i.a. entro il termine perentorio di 30
giorni dalla presentazione di quest’ultima.
Ora, ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 241/1990, una
simile misura interdittiva, per la sua natura recettizia,
acquista efficacia con la sua comunicazione al destinatario
e deve, quindi, considerarsi tempestivamente e
legittimamente attuata, unicamente se, prima della
maturazione del richiamato termine perentorio di 30 giorni,
essa sia stata non solo adottata, ma anche notificata.
---------------
Evocando l'autotutela (e, in particolare, l'annullamento
d'ufficio), il legislatore … ha voluto solo chiarire che,
anche dopo la scadenza del termine perentorio di 30 giorni
per l'esercizio del potere inibitorio, la pubblica
amministrazione conserva un potere residuale di autotutela,
da intendere, però, come potere sui generis, che si
differenzia della consueta autotutela decisoria proprio
perché non implica un'attività di secondo grado insistente
su un procedente provvedimento amministrativo … il
riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n.
241/1990 … consente alla pubblica amministrazione di
esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo
grado, in quanto non interviene su una precedente
manifestazione di volontà dell'amministrazione, ma che con
l'autotutela classica condivide soltanto i presupposti e il
procedimento … in questo senso, deve ritenersi che il
richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies vada riferito
alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in
senso proprio, ma di esercitare i poteri di inibizione
dell'attività e di rimozione dei suoi effetti,
nell'osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali
previsti dal tali norme … in tal modo, il legislatore, nel
recepire l'orientamento giurisprudenziale che ammetteva la
sussistenza in capo alla pubblica amministrazione di un
potere residuale di intervento anche dopo la scadenza dl
termine, si fa pure carico di tutelare l'affidamento che può
essere maturato in capo al privato per effetto del decorso
del tempo.
Non vi è dubbio, invero, che la d.i.a., pur essendo un atto
che proviene da un privato, sia comunque suscettibile, a
causa del decorso del tempo e del mancato tempestivo
esercizio del potere inibitorio da parte della pubblica
amministrazione, di consolidare, analogamente a quanto
potrebbe fare un provvedimento espresso, un affidamento
meritevole di protezione … tale affidamento non è certamente
così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da
parte della pubblica amministrazione, anche perché
altrimenti per effetto della d.i.a., si andrebbe a
consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che
deriva del provvedimento autorizzatorio (il quale,
ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto
rimosso in via di autotutela) … ed allora, superando anche i
dubbi interpretativi in passato da qualcuno sollevati circa
l'esistenza di un residuo potere di intervento da parte
della pubblica amministrazione una volta scaduto il termine
perentorio di 30 giorni, la l. n. 80/2005, nel riformulare
l'art. 19 della l. n. 241/1990, ha precisato che la pubblica
amministrazione può vietare lo svolgimento dell'attività ed
ordinare l'eliminazione degli effetti già prodotti anche
dopo che è scaduto il termine perentorio … lo potrà fare,
però, soltanto se vi sono i presupposti per l'esercizio del
potere di autotutela (in particolare dell'annullamento
d'ufficio) e, quindi, entro un ragionevole lasso di tempo,
dopo aver valutato gli interessi in conflitto e
sussistendone le ragioni di interesse pubblico.
---------------
Ai sensi dell’art. 23, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, la
d.i.a. può essere presentata da chiunque, non solo essendo
proprietario dell’immobile, ma anche vantando altro idoneo
titolo di legittimazione, ossia la disponibilità
giuridicamente qualificata dello stesso, abbia la facoltà di
eseguire i lavori progettati.
Oltre al proprietario dell’immobile interessato dalle opere
progettate, possono, cioè, invocare il rilascio del permesso
di costruire, i titolari di diritti reali di godimento sullo
stesso ovvero di obbligazioni, che accordino la
disponibilità del fondo e il relativo ius aedificandi, così
da legittimarli, nei confronti sia dell’autorità competente
sia dei proprietari, ad eseguire le divisate trasformazioni
urbanistico-edilizie del suolo.
Ciò premesso, occorre qui rammentare che, a
norma dell’art. 23, commi 1 e 6, del d.p.r. n. 380/2001, “il
proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare
la denuncia di inizio attività, almeno 30 giorni prima
dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello
unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione
a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni
elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle
opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e
non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti
edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza
e di quelle igienico-sanitarie … il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il
termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una
o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato
l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento”.
La disciplina dianzi riportata –previgente alle innovazioni
apportate all’art. 19 della l. n. 241/1990 dall’art. 49,
comma 4-bis, del d.l. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010,
ed applicabile, ratione temporis, alla fattispecie dedotta
in giudizio– consente, dunque, alla competente
amministrazione comunale di inibire l’attività edilizia
prevista dalla d.i.a. entro il termine perentorio (cfr. TAR
Abruzzo, L’Aquila, 08.06.2005, n. 433; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 27.06.2005, n. 8707) di 30 giorni dalla
presentazione di quest’ultima.
Ora, ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 241/1990, una
simile misura interdittiva, per la sua natura recettizia,
acquista efficacia con la sua comunicazione al destinatario
e deve, quindi, considerarsi tempestivamente e
legittimamente attuata, unicamente se, prima della
maturazione del richiamato termine perentorio di 30 giorni,
essa sia stata non solo adottata, ma anche notificata (cfr.
TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.06.2005, n. 8707; 11.04.2008, n. 2093; TAR Liguria, Genova, sez. I,
02.11.2011, n. 1511).
---------------
In proposito,
giova rammentare l’arresto di Cons. Stato, sez. VI, 09.02.2009, n. 717: “evocando l'autotutela (e, in
particolare, l'annullamento d'ufficio), il legislatore … ha
voluto solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine
perentorio di 30 giorni per l'esercizio del potere
inibitorio, la pubblica amministrazione conserva un potere
residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui
generis, che si differenzia della consueta autotutela
decisoria proprio perché non implica un'attività di secondo
grado insistente su un procedente provvedimento
amministrativo … il riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990 … consente alla pubblica
amministrazione di esercitare un potere che tecnicamente non
è di secondo grado, in quanto non interviene su una
precedente manifestazione di volontà dell'amministrazione,
ma che con l'autotutela classica condivide soltanto i
presupposti e il procedimento … in questo senso, deve
ritenersi che il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies vada riferito alla possibilità di adottare non già
atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i
poteri di inibizione dell'attività e di rimozione dei suoi
effetti, nell'osservanza dei presupposti sostanziali e
procedimentali previsti dal tali norme … in tal modo, il
legislatore, nel recepire l'orientamento giurisprudenziale
che ammetteva la sussistenza in capo alla pubblica
amministrazione di un potere residuale di intervento anche
dopo la scadenza dl termine, si fa pure carico di tutelare
l'affidamento che può essere maturato in capo al privato per
effetto del decorso del tempo … non vi è dubbio, invero, che
la d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un privato,
sia comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e
del mancato tempestivo esercizio del potere inibitorio da
parte della pubblica amministrazione, di consolidare,
analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento
espresso, un affidamento meritevole di protezione … tale
affidamento non è certamente così forte da escludere
qualsiasi potere di intervento da parte della pubblica
amministrazione, anche perché altrimenti per effetto della
d.i.a., si andrebbe a consolidare una posizione più stabile
rispetto a quella che deriva del provvedimento
autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge,
può essere appunto rimosso in via di autotutela) … ed
allora, superando anche i dubbi interpretativi in passato da
qualcuno sollevati circa l'esistenza di un residuo potere di
intervento da parte della pubblica amministrazione una volta
scaduto il termine perentorio di 30 giorni, la l. n.
80/2005, nel riformulare l'art. 19 della l. n. 241/1990, ha
precisato che la pubblica amministrazione può vietare lo
svolgimento dell'attività ed ordinare l'eliminazione degli
effetti già prodotti anche dopo che è scaduto il termine
perentorio … lo potrà fare, però, soltanto se vi sono i
presupposti per l'esercizio del potere di autotutela (in
particolare dell'annullamento d'ufficio) e, quindi, entro un
ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi
in conflitto e sussistendone le ragioni di interesse
pubblico”.
---------------
Ed invero, ai
sensi dell’art. 23, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, la d.i.a. può essere presentata da chiunque, non solo essendo
proprietario dell’immobile, ma anche vantando altro idoneo
titolo di legittimazione, ossia la disponibilità
giuridicamente qualificata dello stesso (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 28.05.2001, n. 2882; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 27.04.2004, n. 1255), abbia la facoltà di eseguire i
lavori progettati.
Oltre al proprietario dell’immobile interessato dalle opere
progettate, possono, cioè, invocare il rilascio del permesso
di costruire, i titolari di diritti reali di godimento sullo
stesso ovvero di obbligazioni –come, appunto, la C.M.T. &
C.–, che accordino la disponibilità del fondo e il relativo
ius aedificandi, così da legittimarli, nei confronti sia
dell’autorità competente sia dei proprietari, ad eseguire le
divisate trasformazioni urbanistico-edilizie del suolo (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 28.05.2001, n. 2882; TAR Abruzzo,
L’Aquila, 06.06.2002, n. 316; TAR Basilicata, Potenza, 24.11. 2003, n. 1007; TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.09.2006, n. 8243; TAR Puglia, Bari, sez. II,
04.06.2010, n. 2250) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di
demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e
rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella
sfera di controllo dell’interessata, non richiede apporti
partecipativi di quest’ultima, la quale, in relazione alla
disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini
del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei
luoghi, è stata, in ogni caso, posta in condizione di
interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva
statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive.
Non può,
infine, accreditarsi il secondo motivo di ricorso,
concernente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio concluso con l’ordinanza n. 10
del 18.02.2008.
Il provvedimento gravato, per la sua natura di atto urgente
dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella
sfera di controllo dell’interessata, non richiedeva,
infatti, apporti partecipativi di quest’ultima, la quale, in
relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti
repressivi, contemplante la preventiva contestazione
dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa
dell'originario assetto dei luoghi, è stata, in ogni caso,
posta in condizione di interloquire con l'amministrazione
prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio
delle opere abusive (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI,
08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725;
sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038;
Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676;
06.011.2007, n. 10679; sez. VII,
12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n.
16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474;
04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano,
08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178;
TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII,
09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez.
I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le caratteristiche del
manufatto (tettoia con struttura portante in ferro e legno,
bullonata al muro dell’abitazione, senza pilastri di
sostegno ed interamente aperta su tre lati) e la sua
destinazione al servizio dell’abitazione principale portano
ad escludere che essa dia luogo ad una autonoma costruzione
e a nuovo volume edilizio.
In proposito, deve infatti richiamarsi l’indirizzo espresso
da questa Sezione secondo cui, in materia
urbanistico–edilizia, il presupposto per l'esistenza di un
volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un
piano di base coperto e due superfici verticali contigue, e
tale presupposto non si riscontra nel caso di una tettoia
aperta su tutti i lati.
Le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio
principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive
non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze
dell'edificio cui accedono pur richiedendo il previo
rilascio del permesso di costruire qualora esse attuino una
trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e siano
preordinate a soddisfare esigenze non precarie del
costruttore.
E’ errato il presupposto logico–giuridico sul
quale si fonda il costrutto argomentativo delle ricorrenti,
secondo cui la realizzazione della tettoia in esame darebbe
luogo ad una “nuova costruzione”, come tale assoggettata al
rispetto delle prescrizioni sulle distanze minime.
In senso contrario, le caratteristiche del manufatto
(tettoia con struttura portante in ferro e legno, bullonata
al muro dell’abitazione, senza pilastri di sostegno ed
interamente aperta su tre lati) e la sua destinazione al
servizio dell’abitazione principale portano ad escludere che
essa dia luogo ad una autonoma costruzione e a nuovo volume
edilizio.
In proposito, deve infatti richiamarsi l’indirizzo espresso
da questa Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.02.2013 n. 789) secondo cui, in materia urbanistico–edilizia, il presupposto per l'esistenza di un volume
edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano
di base coperto e due superfici verticali contigue, e tale
presupposto non si riscontra nel caso di una tettoia aperta
su tutti i lati.
Né la ricorrente può trarre utili elementi a sostegno della
propria tesi difensiva dall’orientamento della Corte di
Cassazione (Sez. VI, 02.10.2012 n. 1676), secondo cui la
realizzazione di una struttura con tettoia è da considerarsi
come una costruzione ai fini della misurazione delle
distanze legali tra edifici. In realtà, la ricorrente
trascura di considerare che, nel precedente citato, si controverteva di un manufatto (struttura metallica con
tettoia realizzata in violazione delle distanze legali)
idoneo a determinare autonoma volumetria, circostanza che
non ricorre nella fattispecie in esame nella quale, come si
è visto, si è in presenza di una struttura completamente
aperta su tre lati sprovvista di pilastri ed infissa al muro
perimetrale del fabbricato.
Neppure può ritenersi che tale tettoia sia destinata ad
estendere ed ampliare la consistenza dell’edificio al quale
accede, tenuto conto della indiscutibile sussistenza di un
rapporto di pertinenzialità del bene con l’abitazione della
controinteressata. In argomento, si è difatti affermato che
le tettoie aperte su tre lati ed addossate ad un edificio
principale, se di dimensioni e caratteristiche costruttive
non particolarmente impattanti, costituiscono pertinenze
dell'edificio cui accedono (TAR Lazio Latina, 03.03.2010 n.
205; TAR Piemonte, 12.06.2002 n. 1205 e 21.12.2002 n. 2155)
pur richiedendo il previo rilascio del permesso di costruire
qualora esse attuino una trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio e siano preordinate a soddisfare
esigenze non precarie del costruttore
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2396 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. 380/2001 ed in
vista del rilascio del permesso di costruire, è necessario
che esistano –ovvero se ne preveda l’imminente
realizzazione– almeno le opere di urbanizzazione primaria
stimate in concreto necessarie, in modo che la zona possa
dirsi atta a soddisfare adeguatamente le esigenze indotte
dal nuovo insediamento abitativo.
Compito primario della pianificazione urbanistica è,
infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività
edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato
sistema infrastrutturale che valga ad assicurare uno
sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di
urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della L.
847/1964 e comprendono fognature, rete idrica, rete di
distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica
illuminazione, spazi di verde attrezzato, spazi di sosta o
di parcheggio nonché strade residenziali.
Deve rammentarsi che, ai sensi dell’art.12 del
D.P.R. 380/2001 ed in vista del rilascio del permesso di
costruire, è necessario che esistano –ovvero se ne preveda
l’imminente realizzazione– almeno le opere di
urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, in
modo che la zona possa dirsi atta a soddisfare adeguatamente
le esigenze indotte dal nuovo insediamento abitativo (TAR
Campania, Napoli, Sez. II, 25.09.2012 n. 3942 e 22.02.2010 n. 1091).
Compito primario della pianificazione urbanistica è,
infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività
edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato
sistema infrastrutturale che valga ad assicurare uno
sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di
urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della L.
847/1964 e comprendono fognature, rete idrica, rete di
distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica
illuminazione, spazi di verde attrezzato, spazi di sosta o
di parcheggio nonché strade residenziali (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pronuncia di decadenza del permesso di
costruire è espressione di un potere strettamente vincolato,
ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno
degli effetti del titolo edilizio in conseguenza
dell'inerzia del titolare ed ha decorrenza ex tunc (secondo
l'art. 15 dpr 380/2001 "Il termine per l'inizio dei lavori
non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata non può superare i tre anni dall'inizio dei
lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla
volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una
proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento
motivato, esclusivamente in considerazione della mole
dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari”).
Inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha
rilasciato il titolo abilitativo, che accerti
l'impossibilità del rispetto del termine (e solamente nei
casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum
principis" ovvero l'insorgenza di una causa di forza
maggiore).
Peraltro, ai
sensi dell'art. 15, secondo comma, T.U. Edilizia e alla luce
dell’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 23.02.2012 n. 974), la
pronuncia di decadenza del permesso di costruire è
espressione di un potere strettamente vincolato, ha una
natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli
effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del
titolare ed ha decorrenza ex tunc (secondo la menzionata
disposizione “Il termine per l'inizio dei lavori non può
essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello
di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata non può superare i tre anni dall'inizio dei
lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla
volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una
proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento
motivato, esclusivamente in considerazione della mole
dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari”).
Inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha
rilasciato il titolo abilitativo, che accerti
l'impossibilità del rispetto del termine (e solamente nei
casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum principis"
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per determinare il
carattere essenziale o meno di una variante alla concessione
edilizia si deve avere riguardo al risultato complessivo
dell'intervento costruttivo, per cui il relativo giudizio va
formulato, non già esaminando l'intervento stesso nei suoi
singoli elementi, ma valutando l'insieme delle modificazioni
apportate al progetto originario, con particolare
riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o
quantitativo, quali la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria e le caratteristiche funzionali e strutturali
dell'edificio.
In argomento, giova
rammentare il tradizionale orientamento giurisprudenziale,
secondo il quale per determinare il carattere essenziale o
meno di una variante alla concessione edilizia si deve avere
riguardo al risultato complessivo dell'intervento
costruttivo, per cui il relativo giudizio va formulato, non
già esaminando l'intervento stesso nei suoi singoli
elementi, ma valutando l'insieme delle modificazioni
apportate al progetto originario (Consiglio di Stato, Sez.
V, 03.08.2004 n. 5429; 22.01.2003 n. 249; 18.10.2001 n.
5496; TAR Puglia, Bari, 14.12.2006 n. 4355), con particolare
riferimento alle modifiche di carattere qualitativo o
quantitativo, quali la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria e le caratteristiche funzionali e strutturali
dell'edificio (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
- la realizzazione di impianti di
telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione
prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una
normativa speciale ed esaustiva che include anche la
valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica
dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di
costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001;
- l'art. 87 del codice delle comunicazioni prevede al nono
comma che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di
attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative
alla modifica delle caratteristiche di emissione degli
impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro
novanta giorni dalla presentazione del progetto e della
relativa domanda … non sia stato comunicato un provvedimento
di diniego o un parere negativo da parte dell'organismo
competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14
della legge 22.02.2001, n. 36…”;
- la ratio della summenzionata disposizione va ricercata
nella previsione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto
di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei
termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi,
nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti
anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di
autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti
mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990;
- è evidente che tali criteri risulterebbero
irrimediabilmente vanificati se il nuovo procedimento fosse
destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello
previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure
di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro
procedimento, anche di natura edilizia.
---------------
E' illegittimo un regolamento comunale in tema di fissazione
dei criteri per la localizzazione delle SRB laddove l'ente
territoriale si sia posto quale obiettivo (non dichiarato,
ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare) quello
di preservare la salute umana dalle emissioni
elettromagnetiche promananti da impianti di
radiocomunicazione, ad esempio attraverso la fissazione di
distanze minime delle stazioni radio base da particolari
tipologie d'insediamenti abitativi, essendo tale materia
attribuita alla legislazione concorrente Stato-Regioni
dell'art. 117 Cost..
Al riguardo, si è inoltre precisato che occorre distinguere
tra criteri localizzativi (consentiti) e limitazioni alla
localizzazione (vietate) ritenendo che “è consentito alle
Regioni ed ai Comuni, ciascuno per la sua competenza,
introdurre criteri localizzativi degli impianti de quibus,
nell’ambito della funzione di definizione degli ‘obiettivi
di qualità’ …. di cui all’art. 3, comma 1, lettera d, ed
all’art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge quadro
(n.d.r. L. 22.02.2001 n. 36); non è invece consentito
introdurre limitazioni alla localizzazione.
Sono criteri localizzativi (legittimi, ancorché espressi ‘in
negativo’) i divieti di installazione su ospedali, case di
cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a
specifici edifici; sono, invece, limitazioni alla
localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed
eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da
rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro
esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di
lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente
connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali,
case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole
ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della
legislazione sui beni storico–artistici o individuati come
edifici di pregio storico–architettonico, di parchi
pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti
sportivi.
In conclusione, i comuni possono legittimamente vietare
l’installazione su specifici edifici e dettare criteri
distanziali concreti, omogenei e specifici. Non possono
introdurre misure di cautela distanziali generiche ed
eterogenee”.
Orbene, quanto al primo rilievo, ai sensi
dell’art. 74 cod. proc. amm. il Collegio non ritiene di
discostarsi dalla richiamata pronuncia di questo TAR n.
426/2012, secondo cui:
- la realizzazione di impianti di telecomunicazione è
subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art.
87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed
esaustiva che include anche la valutazione della
compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non
occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt.
3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001 (cfr. anche Consiglio di
Stato, Sez. VI, 28.04.2010 n. 2436 e 15.07.2010 n.
4557);
- l'art. 87 del codice delle comunicazioni prevede al nono
comma che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di
attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative
alla modifica delle caratteristiche di emissione degli
impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro
novanta giorni dalla presentazione del progetto e della
relativa domanda … non sia stato comunicato un provvedimento
di diniego o un parere negativo da parte dell'organismo
competente ad effettuare i controlli, di cui all'articolo 14
della legge 22.02.2001, n. 36…”;
- la ratio della summenzionata disposizione va ricercata
nella previsione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto
di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei
termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi,
nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti
anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di
autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti
mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990;
- è evidente che tali criteri risulterebbero
irrimediabilmente vanificati se il nuovo procedimento fosse
destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello
previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure
di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro
procedimento, anche di natura edilizia (cfr. anche TAR
Campania, Napoli, Sez. VII, 05.06.2009 n. 3098);
- in data 29.09.2010 la società Vodafone inoltrava
istanza di autorizzazione ex art. 87 e, rispetto a tale dies
a quo ed in mancanza di atti di autotutela del Comune di
Sessa Aurunca, è maturato il termine di 90 giorni per il
silenzio–assenso ex art. 87, nono comma, D.Lgs. 259/2003
con la conseguenza che l’intervento edilizio della
ricorrente deve ritenersi assistito da idoneo titolo
abilitativo (cfr. TAR Napoli, 426/2012).
---------------
Nel merito,
l’impugnazione della citata delibera è fondata alla luce
dell’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7128; 28.04.2010 n. 2436; 20.12.2002 n. 7274; TAR
Campania, Napoli, Sez. VII, 14.07.2005 n. 9668 e Sez. I,
10.03.2005 n. 1708).
In argomento, si è condivisibilmente osservato che è
illegittimo un regolamento comunale in tema di fissazione
dei criteri per la localizzazione delle SRB laddove l'ente
territoriale si sia posto quale obiettivo (non dichiarato,
ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare) quello
di preservare la salute umana dalle emissioni
elettromagnetiche promananti da impianti di
radiocomunicazione, ad esempio attraverso la fissazione di
distanze minime delle stazioni radio base da particolari
tipologie d'insediamenti abitativi (come nella fattispecie
in esame), essendo tale materia attribuita alla legislazione
concorrente Stato-Regioni dell'art. 117 Cost..
Al riguardo, si è inoltre precisato (TAR Napoli, sent.
cit. 9668/2005) che occorre distinguere tra criteri
localizzativi (consentiti) e limitazioni alla localizzazione
(vietate) ritenendo che “è consentito alle Regioni ed ai
Comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri
localizzativi degli impianti de quibus, nell’ambito della
funzione di definizione degli ‘obiettivi di qualità’ …. di
cui all’art. 3, comma 1, lettera d, ed all’art. 8, comma 1,
lettera e, e comma 6 della legge quadro (n.d.r. L.
22.02.2001 n. 36); non è invece consentito introdurre
limitazioni alla localizzazione. Sono criteri localizzativi
(legittimi, ancorché espressi ‘in negativo’) i divieti di
installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole
e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici; sono,
invece, limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri
distanziali generici ed eterogenei, quali la prescrizione di
distanze minime, da rispettare nell’installazione degli
impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad
abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da
quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti
stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici
adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili
vincolati ai sensi della legislazione sui beni
storico–artistici o individuati come edifici di pregio
storico–architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco,
aree verdi attrezzate ed impianti sportivi. In conclusione,
i comuni possono legittimamente vietare l’installazione su
specifici edifici e dettare criteri distanziali concreti,
omogenei e specifici. Non possono introdurre misure di
cautela distanziali generiche ed eterogenee”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive non deve essere preceduta né
dalla comunicazione di avvio del procedimento, attesa la
situazione di urgenza in cui intervengono tali provvedimenti
e data la loro natura strettamente vincolata, né dalla
comunicazione di cui all’art. 10-bis della legge n.
241/1990, trattandosi di procedimenti d’ufficio.
In merito alla rappresentazione della sussistenza dei
presupposti di cui all’art. 31 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380,
per l’irrogazione della sanzione demolitoria, è sufficiente
che l’amministrazione deduca la natura abusiva delle opere
realizzate, nel caso di specie specificamente indicata nel
provvedimento impugnato.
---------------
L’esistenza di un sequestro giudiziario di edifici
abusivamente realizzati e delle relative aree di insistenza
non costituisce un’oggettiva condizione di impossibilità di
adempimento all’ingiunzione di demolizione, dovendo il
soggetto onerato procedere a richiedere il dissequestro
all’autorità competente, iniziativa che non risulta mai
adottata nel caso in esame.
Quanto al ricorso introduttivo, se ne deve
dichiarare l’infondatezza; innanzitutto, secondo costante
giurisprudenza, anche di questa Sezione, l’adozione
dell’ordine di demolizione di opere abusive non deve essere
preceduta né dalla comunicazione di avvio del procedimento,
attesa la situazione di urgenza in cui intervengono tali
provvedimenti e data la loro natura strettamente vincolata
(da ultimo Consiglio di Stato sez. VI 29.11.2012 n.
6071; TAR Campania Napoli sez. II 04.02.2013 n.
700), né dalla comunicazione di cui all’art. 10 bis della
legge n. 241/1990, trattandosi di procedimenti d’ufficio.
Quanto alla carenza di motivazione, va rilevato che, in
merito alla rappresentazione della sussistenza dei
presupposti di cui all’art. 31 del d.p.r. 06.06.2001 n.
380, per l’irrogazione della sanzione demolitoria, è
sufficiente che l’amministrazione deduca la natura abusiva
delle opere realizzate, nel caso di specie specificamente
indicata nel provvedimento impugnato (Consiglio di Stato sez. VI 28.01.2013 n. 496; TAR Napoli Campania sez. VII
08.02.2013 n. 826).
Riguardo al terzo motivo, osserva il
Collegio che non potrebbe giammai consentirsi
all’amministrazione di non adottare ordini di demolizione
relativi ad opere accertate come abusive, nel caso di specie
per carenza di titolo abilitativo, dal momento, in assenza
di un’istanza ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. 06.06.001
n. 380, la contrarietà alla disciplina urbanistica consiste
tout court nella mancanza del titolo edilizio abilitativo
fin dal momento dell’edificazione.
Quanto alla mancata
valutazione da parte del Comune di Aversa della possibilità
di applicare sanzioni alternative, argomento dedotto con la
quarta censura, rileva il Collegio che, nel caso in esame,
la demolizione ha riguardato immobili realizzati in assenza
del permesso di costruire, come tali ricadenti nella
fattispecie di cui all’art. 31 del d.p.r. 06.06.2001 n.
380 che non ammette soluzioni alternative alla demolizione.
Nemmeno meritevole di accoglimento è l’ultima censura, dal
momento che i manufatti da demolire sono stati adeguatamente
identificati, aggiungendosi a tale rilievo che, in ogni
caso, un più puntuale accertamento è richiesto
nell’eventuale fase di acquisizione dei beni al patrimonio
indisponibile comunale (TAR Napoli Campania sez. III 15.01.2013 n. 294; TAR Napoli Campania sez. III 20.11.2012 n. 4647).
---------------
Rileva il
Collegio che l’esistenza di un sequestro giudiziario di
edifici abusivamente realizzati e delle relative aree di
insistenza non costituisce un’oggettiva condizione di
impossibilità di adempimento all’ingiunzione di demolizione,
dovendo il soggetto onerato procedere a richiedere il
dissequestro all’autorità competente, iniziativa che non
risulta mai adottata nel caso in esame (TAR Campania
Napoli, sez. VII 10.05.2012 n. 2175; TAR Campania,
Napoli, VII, 01.09.2011, n. 4259; TAR Campania, Napoli,
Sezione II, 30.10.2006, n. 9243; TAR Campania, Napoli,
Sezione IV, 04.02.2003, n. 614) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.05.2013 n. 2386 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione,
per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato,
deve essere collegata alla data in cui sia percepibile dal
controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua
incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario -salvo
che non venga fornita la prova certa di una conoscenza
anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di
decadenza decorre dunque dal completamento dei lavori, cioè
dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale
portata dell'intervento in precedenza assentito.
Per giunta, sempre nel caso di costruzione da parte del
vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente
lesiva non obbliga affatto il titolare dell'interesse
legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede
giurisdizionale, dato che, ad esempio, potrebbe trattarsi di
un’edificazione abusiva; pertanto il termine decadenziale
per l'impugnazione decorre solo dalla piena conoscenza
dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o
dal contenuto specifico della concessione o del progetto
edilizio.
Quanto alla tardività dell’impugnata concessione, si deve
ricordare che la decorrenza del termine per ricorrere in
sede giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell'edificazione, per i soggetti diversi da quelli cui
l'atto è rilasciato, deve essere collegata alla data in cui
sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del
manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria
posizione giuridica.
In caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario -salvo
che non venga fornita la prova certa di una conoscenza
anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di
decadenza decorre dunque dal completamento dei lavori, cioè
dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale
portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr. Cons.
St., Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; Cons. St., sez. IV,
29.05.2009 n. 3358).
Per giunta, sempre nel caso di costruzione da parte del
vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente
lesiva non obbliga affatto il titolare dell'interesse
legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede
giurisdizionale, dato che, ad esempio, potrebbe trattarsi di
un’edificazione abusiva; pertanto il termine decadenziale
per l'impugnazione decorre solo dalla piena conoscenza
dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o
dal contenuto specifico della concessione o del progetto
edilizio (cfr., fra le molte, Consiglio Stato, sez. VI,
10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n.
4485).
In conseguenza, contrariamente a quanto vorrebbe
l’appellante, la fattura che proverebbe la realizzazione ad
una certa data dei rustici da parte dell’appellata è
inconferente, in quanto non vi è comunque sicurezza che
fossero materialmente apprezzabili le caratteristiche
essenziali, la legittimità, la destinazione specifica delle
opere e la reale portata dell'intervento qui in
contestazione.
Nel dubbio deve infatti farsi applicazione dei principi
generali di cui all’art. 24 ed all’art. 113 Cost., per cui
la tutela dei diritti e interessi legittimi in giudizio è un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e
non può essere pregiudicato da formalismi non strettamente
ed assolutamente necessari all’economia processuale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I proprietari di immobili in zone confinanti o
limitrofe con quelle interessate da una costruzione sono
sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che possono
pregiudicare la loro posizione per l’incisione delle
condizioni dell'area e, più in generale, per le modifiche
all'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona
ove sono ricompresi gli immobili di cui hanno la
disponibilità, senza che sia necessaria la prova di un danno
specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno
a tutti i membri di quella collettività.
Infatti, se l'art. 31, comma 9, L. 17.08.1942 n. 1150 (come
modificato dall'art. 10 L. 06.08.1967 n. 765) non ha
introdotto un'azione popolare, nondimeno ha riconosciuto una
posizione qualificata e differenziata in favore dei
proprietari di immobili siti nella zona in cui la
costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una
situazione di “stabile collegamento” con la zona stessa.
Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione
del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia,
che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di
stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato esime da qualsiasi
indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione,
atteso che l'esistenza della suddetta posizione legittimante
abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme
urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi
esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli
potrebbero arrecare.
I proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con
quelle interessate da una costruzione sono sempre
legittimati ad impugnare i titoli edilizi che possono
pregiudicare la loro posizione per l’incisione delle
condizioni dell'area e, più in generale, per le modifiche
all'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona
ove sono ricompresi gli immobili di cui hanno la
disponibilità, senza che sia necessaria la prova di un danno
specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno
a tutti i membri di quella collettività (cfr. Consiglio
Stato sez. IV n. 284 del 23/01/2012; Consiglio Stato sez. IV
13.01.2010 n. 72).
Infatti, se l'art. 31, comma 9, L. 17.08.1942 n. 1150 (come
modificato dall'art. 10 L. 06.08.1967 n. 765) non ha
introdotto un'azione popolare, nondimeno ha riconosciuto una
posizione qualificata e differenziata in favore dei
proprietari di immobili siti nella zona in cui la
costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una
situazione di “stabile collegamento” con la zona
stessa.
Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione
del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia,
che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato esime da
qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i
lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un
effettivo pregiudizio per il soggetto che propone
l'impugnazione, atteso che l'esistenza della suddetta
posizione legittimante abilita il soggetto ad agire per il
rispetto delle norme urbanistiche, che assuma violate, a
prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione, che i
lavori in concreto gli potrebbero arrecare (cfr. Consiglio
Stato, Sez. VI 15.06.2010 n. 3744)
(Consiglio di Stato. Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2488 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Non risulta che la “giurisprudenza
costituzionale” dia la prevalenza all’edificazione rispetto
ai valori paesaggistici ed ambientali.
Al contrario, la visione “costituzionalmente orientata”
della materia è ancorata all’art. 9 della Cost., che
inserisce la “tutela del paesaggio” nelle disposizioni
fondamentali, sull’implicito insegnamento di Benedetto Croce
il quale, all’epoca Ministro della Pubblica Istruzione,
aveva affermato che “… il paesaggio altro non è che la
rappresentazione materiale e visibile della Patria...” (così
la relazione di accompagnamento al primo disegno di legge in
materia del 1920).
In tale scia, il Giudice delle leggi, superando il
significato meramente estetico di “bellezza naturale”, ha
configurato il paesaggio nella sua unitarietà come il
“complesso dei valori inerenti il territorio”, e l’ambiente
come bene “primario” ed “assoluto”.
La Corte Costituzionale -in conformità ai principi
costituzionali e con riguardo all'applicazione della
Convenzione europea sul paesaggio, adottata a Firenze il
20.10.2000- ha affermato che l’oggetto della tutela del
paesaggio non è il concetto astratto delle "bellezze
naturali" ma l'insieme delle terre, acque, vegetazione, beni
materiali, cose e le loro composizioni. Pertanto la tutela
ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed
unitario, è un valore che precede la tutela -e che comunque
costituisce un limite per gli altri interessi pubblici e
privati- in materia edilizia, di governo del territorio, e
di valorizzazione dei beni culturali e ambientali.
In tale prospettiva la disciplina legislativa in materia di
ricostruzione post-terremoto non può essere affatto
derogatoria della disciplina ambientale, per cui l'opera di
ricostruzione del patrimonio edilizio danneggiato dal sisma
non può avvenire con sacrificio del valore ambientale.
Inoltre alla Sezione
non risulta che la “giurisprudenza costituzionale”
(del resto nemmeno indicata dagli appellanti) dia la
prevalenza all’edificazione rispetto ai valori paesaggistici
ed ambientali.
Al contrario, la visione “costituzionalmente orientata”
della materia è ancorata all’art. 9 della Cost., che
inserisce la “tutela del paesaggio” nelle
disposizioni fondamentali, sull’implicito insegnamento di
Benedetto Croce il quale, all’epoca Ministro della Pubblica
Istruzione, aveva affermato che “… il paesaggio altro non
è che la rappresentazione materiale e visibile della
Patria...” (così la relazione di accompagnamento al
primo disegno di legge in materia del 1920).
In tale scia, il Giudice delle leggi (cfr. Corte Cost.,
07.11.1994, n. 379; 05.05.2006, nn. 182, 183; 22.07.2004 n.
259), superando il significato meramente estetico di “bellezza
naturale”, ha configurato il paesaggio nella sua
unitarietà come il “complesso dei valori inerenti il
territorio”, e l’ambiente come bene “primario” ed
“assoluto”. La Corte Costituzionale -in conformità ai
principi costituzionali e con riguardo all'applicazione
della Convenzione europea sul paesaggio, adottata a Firenze
il 20.10.2000- ha affermato che l’oggetto della tutela del
paesaggio non è il concetto astratto delle "bellezze
naturali" ma l'insieme delle terre, acque, vegetazione,
beni materiali, cose e le loro composizioni. Pertanto la
tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene
complesso ed unitario, è un valore che precede la tutela -e
che comunque costituisce un limite per gli altri interessi
pubblici e privati- in materia edilizia, di governo del
territorio, e di valorizzazione dei beni culturali e
ambientali (cfr. sentenza cost. n. 182 cit.).
In tale prospettiva la disciplina legislativa in materia di
ricostruzione post-terremoto non può essere affatto
derogatoria della disciplina ambientale, per cui l'opera di
ricostruzione del patrimonio edilizio danneggiato dal sisma
non può avvenire con sacrificio del valore ambientale
(Consiglio di Stato. Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2488 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai sensi dell'art. 21-quinquies l. 07.08.1990 n.
241 (introdotto dall'art. 14 l. 11.02.2005 n. 15), i
presupposti che, in via alternativa, legittimano l'adozione
di un provvedimento di revoca, in senso tecnico, di un
provvedimento amministrativo ad efficacia durevole da parte
dell'Autorità emanante sono rispettivamente;
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse,
b) nuova valutazione dell'interesse pubblico originario;
c) mutamento della situazione di fatto.
---------------
La revoca ha per sua natura effetto ex nunc, per cui non può
comportare la retrodatazione degli effetti.
Come la Sezione ha avuto nodo di ricordare (cfr. Consiglio
di Stato sez. IV 31.05.2012 n. 3262), ai sensi dell'art.
21-quinquies l. 07.08.1990 n. 241 (introdotto dall'art. 14
l. 11.02.2005 n. 15), i presupposti che, in via alternativa,
legittimano l'adozione di un provvedimento di revoca, in
senso tecnico, di un provvedimento amministrativo ad
efficacia durevole da parte dell'Autorità emanante sono
rispettivamente;
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse,
b) nuova valutazione dell'interesse pubblico originario;
c) mutamento della situazione di fatto.
A quest’ultima ipotesi deve essere ricondotto il caso in
esame. La revoca era stata adottata in immediata esecuzione
di una sentenza del giudice amministrativo n. 7609/2005.
Tuttavia il TAR -nel ritenere illegittima, con
un’interpretazione costituzionalmente orientata, la
preclusione ex lege alla riammissione del ricorrente
nel Corpo della Polizia penitenziaria- non aveva toccato
specificamente la questione dell’effettiva idoneità dello
stesso ad assolvere le funzioni proprie del servizio di
istituto.
Pertanto il provvedimento con cui si poneva nel nulla il
passaggio al ruolo civile non poteva essere configurabile in
termini di “annullamento”, in quanto tale fattispecie
presuppone l’illegittimità di un atto presupposto, che nel
caso non sussiste.
Il transito ai ruoli civili era stato conseguenza non di un
atto illegittimo dell’amministrazione, ma da un’infermità
invalidante che aveva afflitto il ricorrente.
Per questo, nel caso in esame, è esatta la qualificazione
del provvedimento in termini di “revoca” ex art.
21-quinquies cit., in quanto: a) il transito ai ruoli civili
era originariamente legittimo siccome conseguente
all’inidoneità fisica ai servizi di istituto; b) sennonché,
a seguito dell’evoluzione positiva delle condizioni
sanitarie del dipendente, detto transito non corrispondeva
più alla situazione di fatto dell’interessato, il che
appunto giustificava la “revoca”.
In conseguenza ha ragione il primo giudice quando ricorda
che:
- la revoca ha per sua natura effetto ex nunc, per
cui non può comportare la retrodatazione degli effetti;
- nel caso in esame il termine “revoca” è stato
esattamente utilizzato dall’amministrazione, perché “… lo
status precedentemente posseduto dal Sig. Cristiani è stato
rimosso non già per illegittimità del provvedimento che lo
aveva statuito, bensì per la sopravvenienza di una diversa
situazione in fatto –la sua guarigione– che ha comportato la
sua idoneità, accertata dall’organo dell’Amministrazione a
ciò competente, ad assumere la nuova posizione nella Polizia
penitenziaria”.
In tale prospettiva, l’esigenza di impugnare tempestivamente
il decreto del 2006 derivava in realtà dalla necessità
impedire il consolidamento del predetto, relativamente alla
fissazione della data di decorrenza della riammissione.
In assenza di disposizioni speciali (che qui non risultano),
tale momento aveva comunque rilievo decisivo ai fini
giuridici, economici, e di carriera a prescindere dal
momento in cui sarebbero stati adottati i conseguenti atti
di inquadramento stipendiale e di inserimento in ruolo.
In simile ipotesi, in assenza di una specifica disposizione
di legge, non è, infatti, possibile concepire un servizio
nella Polizia Penitenziaria utile ai fini dell’avanzamento
che possa essere computato antecedentemente alla decorrenza
fissata in sede di rientro nel Corpo.
In sostanza, il decreto 2006 avrebbe dovuto essere impugnato
nei termini dall’appellante, in quanto la riammissione al
15.12.2006 restava definitivamente fissata -senza alcuna
possibilità di successive variazioni- la data della ripresa
del servizio a tutti i fini, ivi compresa anche la
decorrenza del periodo necessario per maturare il passaggio
al ruolo di assistente ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n.
443 del 1992 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2485 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di esecuzione
di sanzioni amministrative per abusi edilizi, la sussistenza
di un sequestro penale sul manufatto abusivo non può affatto
costituire, per il responsabile, un’esimente per
l’inosservanza dell’ordine di demolizione del manufatto
medesimo, ben potendo –ed anzi dovendo- l’interessato farsi
parte attiva per chiedere alla competente A.G. la revoca del
sequestro al fine di dare esecuzione all’ordine suddetto.
-----------------
L’acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di
sedime sono atti dovuti, consequenziali, connessi e
conseguenti all’inottemperanza che non richiedono
particolare ed ulteriore motivazione.
---------------
Nell'ambito di un procedimento amministrativo per la
demolizione di opere abusive, non è necessaria la
rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della
domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna
norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di
demolizione.
In assenza di un’esplicita norma di legge, per poter
affermare l’inefficacia sopravvenuta delle ordinanze sul
piano procedimentale sarebbe stato necessario un
provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull’istanza
di sanatoria. In caso contrario il riesame negativo circa
l'abusività dell'opera, che è provocato dall'istanza di
sanatoria, se porta alla formazione di un provvedimento di
rigetto, non dà luogo ad alcuna modificazione sostanziale
della preesistente realtà giuridica e quindi costituisce un
tipico atto conformativo del precedente provvedimento
sanzionatorio.
Come già ricordato in sede cautelare, in materia di
esecuzione di sanzioni amministrative per abusi edilizi, la
sussistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo non
può affatto costituire, per il responsabile, un’esimente per
l’inosservanza dell’ordine di demolizione del manufatto
medesimo, ben potendo –ed anzi dovendo- l’interessato farsi
parte attiva per chiedere alla competente A.G. la revoca del
sequestro al fine di dare esecuzione all’ordine suddetto
(cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 20.01.2010, n. 299).
L'argomentazione della società appellante avrebbe potuto
trovare legittimo ingresso in questa sede solo in presenza
di un esplicito rifiuto dell'autorità giudiziaria
sull’istanza di dissequestro a fini demolitori
dell'interessato.
Né occorreva alcuna specificazione nel provvedimento circa
le attività necessarie per consentire all'autore dell'abuso
di rispettare l’ordine di demolizione dell’autorità, e di
evitare quindi le conseguenze della sua attività illecita.
---------------
L’acquisizione
gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime sono atti
dovuti, consequenziali, connessi e conseguenti
all’inottemperanza che non richiedono particolare ed
ulteriore motivazione (cfr. Consiglio Stato, sez. V,
24.03.2011, n. 1793).
In conseguenza, del tutto inconferente è la presunta
incoerenza del provvedimento con i precedenti ordini di
demolizione, dato che l’art. 31 del DPR 06/06/2001 n. 380
struttura l’acquisizione come effetto automatico della
mancata ottemperanza all'ordine di demolizione (…sono
acquisiti di diritto …).
---------------
La doglianza non merita adesione.
L’appellante, infatti, non oppone nulla di concreto al
rilievo del TAR per cui “…l’ordinanza impugnata è stata
emanata solo dopo la conclusione del procedimento di condono
edilizio avviato con istanza della società in data
13.01.1995 e culminato in un diniego datato 05.04.2004. Ciò
significa che il procedimento finalizzato a conseguire la
sanatoria dell’abuso edilizio non ha subito alcuna
interferenza a causa del parallelo procedimento di
repressione dell’abuso ma ha seguito il proprio iter in
tutta autonomia giovandosi della naturale sospensione
divisata in casi di concomitante esercizio delle potestà di
settore.”
Nell'ambito di un procedimento amministrativo per la
demolizione di opere abusive, non è dunque necessaria la
rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della
domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna
norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di
demolizione (cfr. Consiglio Stato sez. V 09.05.2006 n.
2562).
In assenza di un’esplicita norma di legge, per poter
affermare l’inefficacia sopravvenuta delle ordinanze sul
piano procedimentale sarebbe stato necessario un
provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull’istanza
di sanatoria. In caso contrario il riesame negativo circa
l'abusività dell'opera, che è provocato dall'istanza di
sanatoria, se porta alla formazione di un provvedimento di
rigetto, non dà luogo ad alcuna modificazione sostanziale
della preesistente realtà giuridica e quindi costituisce un
tipico atto conformativo del precedente provvedimento
sanzionatorio.
Come tale, non costituiva un fatto idoneo a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio originario
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2484 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E' infondata la tesi per cui un lotto è da
ricondursi a "centro storico” per il
solo fatto che ivi insiste un vincolo a suo tempo imposto ex
L. 1497 del 1939, posto che così argomentando tutte le aree
assoggettate a vincolo paesistico risulterebbero
automaticamente classificate sotto il profilo
urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del
Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n. 3210
chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di aree
nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati urbani”,
e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante la sua
ben evidente marginalità rispetto al centro urbano.
---------------
L’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, laddove impone la distanza
di 10 metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma
di ordine generale, prevalente anche sulla disciplina
regionale eventualmente difforme, e va pertanto applicata
anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque
compresa l’ipotesi di sopraelevazione.
Convince viceversa il Collegio la censura rimasta assorbita nel giudizio
di primo grado e riproposta in via tuzioristica dal Wurthner
circa la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, violazione e falsa applicazione
dell’art. 11 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n.
380, violazione e falsa applicazione dell’art. 31 della L.R.
06.06.2008 n. 16, nonché eccesso di potere per carenza
assoluta di istruttoria e di motivazione e difetto del
presupposto ed illogicità manifesta: ossia che,
sinteticamente, in difformità da tali disposizioni normative
il progetto prevede che i muri perimetrali della porzione
immobiliare di proprietà Ascheri distino all’incirca 7,15
metri dalle pareti finestrate di proprietà Wurthner.
A fronte dell’eccezione del Comune e dell’Ascheri secondo la
quale la disciplina di cui all’art. 9, secondo comma, del
D.M. 02.04.1968 n. 1444 –segnatamente contemplata nella
misura di 10 metri per i nuovi edifici– non si applica alle
zone A così come definite dall’art. 2 dello stesso D.M., la
Sezione ha disposto un’istruttoria chiedendo al Comune
medesimo di produrre agli atti di causa
un certificato di destinazione urbanistica del sito in cui
ricade la costruzione Ascheri – Wurthner.
Il documento prodotto certifica che il foglio 8 del mappale
n. 972 ricade integralmente nella Zona A.12 del P.U.C.
(Piano urbanistico comunale) comprendente l’ambito di
conservazione e riqualificazione delle località Pian dei
Rossi, Sciarto, Mei, Feu … Torre del Mare, nonché secondo il
P.T.C.P. –Piano territoriale di coordinamento paesistico
(Assetto insediativo) nella Zona ID-MA– Regime normativo di
mantenimento, in Zona COL-ISS del P.T.C.P. (Assetto
vegetazionale), secondo il P.T.C.P. (Assetto Geomorfologico)
in Zona MO-A – Aree assoggettate a regime normativo di
modificabilità di tipo-A.
Lo stesso foglio 8, mappale 972, ricade integralmente nella
Carta della suscettività al dissesto dei versanti quale PG1
– Area a suscettività al dissesto bassa, è sottoposta
integralmente a vincolo paesistico-ambientale a’ sensi del
D.L.vo 22.01.2004 n. 42 ed è inoltre assoggettata
integralmente a vincolo idrogeologico a’ sensi della L.R. 16.04.1984 (peraltro ad oggi abrogata dalla L.R.
03.01.2001 n. 1) e del R.D. 30.12.1923 n. 3267.
Secondo la tesi del Comune e dell’Ascheri l’area in
questione ricadrebbe nella Zona A contemplata dall’art. 2
del D.M. 1444 del 1968 in quanto ivi si menzionano “le parti
del territorio interessate da agglomerati urbani che
rivestono carattere storico, artistico o di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”, e l’ambito
A.12 del P.U.C. di Bergeggi, con superficie territoriale di
mq. 540.146 è definito da tale strumento di pianificazione
“della grande edificazione residenziale per la seconda
casa”, completato da “vaste aree boscate di notevole pregio
ambientale, soprattutto sul versante a mare”.
Sempre secondo il Comune il vincolo paesaggistico introdotto
sull’area medesima a’ sensi del D.M. 06.04.1957 emanato
sulla base dell’allora vigente L. 29.06.1939 n. 1497 in
tal senso dirimente, posto che ivi si definisce l’area
stessa di “una bellezza paesistica costituente un quadro
naturale unitamente all’isolotto omonimo”.
In dipendenza di tutto ciò, quindi, la distanza di cui
trattasi –ossia “la distanza minima assoluta di m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”– non si
applicherebbe al caso di specie, stante la vigenza della
disciplina specificamente contemplata relativamente alla
zona A “per le operazioni di risanamento conservativo e per
le eventuali ristrutturazioni”, laddove –per l’appunto-
“le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti,
computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale”.
Né, da ultimo, andrebbe sottaciuto che la distanza predetta
di m. 10 non si applicherebbe se i fabbricati non hanno tra
loro pareti contrapposte (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 05.10.2005 n. 5348), stante il fatto che
la relativa disciplina non è deputata alla tutela del
diritto alla riservatezza, ma alla “salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie”, nella specie
non sussistenti (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2013 n. 354).
Orbene, ad avviso del Collegio risulta innanzitutto
infondata la tesi che riconduce l’ambito A.12 – Torre di
Porto a “centro storico” per il solo fatto che ivi insiste
un vincolo a suo tempo imposto ex L. 1497 del 1939, posto
che così argomentando tutte le aree assoggettate a vincolo
paesistico risulterebbero automaticamente classificate sotto
il profilo urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del
Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n.
3210 chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di
aree nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati
urbani”, e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante
non solo la sua ben evidente marginalità rispetto al centro
urbano di Bergeggi, ma anche –e soprattutto– sia la
circostanza che l’art. 28 del P.U.C. la definisce quale
ambito della “grande edificazione residenziale della seconda
casa, realizzata fra gli anni ’50 e ’90, costituito da
grandi condomίni e ville unifamiliari”, sia l’avvenuta
inclusione nel previgente P.R.G. della zona di “Torre del
Mare” in zona SR, espressamente equiparata dal Piano stesso
a Zona B.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la
tesi dell’Ascheri secondo la quale il suo progetto sarebbe
una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un
intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova
costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo
caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Tale tesi risulta infatti smentita dalla giurisprudenza,
come ad es. Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011 n. 5759,
anche sulla scorta di Cass., Civ., Sez. II, 27.03.2001 n.
4413.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la
tesi dell’Ascheri, secondo la quale il suo progetto sarebbe
una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un
intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova
costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo
caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Va, infatti, in primo luogo evidenziata l’intrinseca
contraddittorietà della tesi dell’Ascheri secondo la quale
la distanza di m. 10 non si applicherebbe alle ipotesi di
“edificio unico”, come –per l’appunto– nel caso in esame,
posto che l’Ascheri medesimo ha ben più fondatamente
sostenuto per l’innanzi, anche con l’adesione di questo
stesso giudice, che l’edificio di cui trattasi non
costituisce un “condominio” ma due unità abitative tra di
loro autonome.
Ma, soprattutto, è assorbente la constatazione, derivante
dalla giurisprudenza dianzi citata, che l’art. 9 del D.M.
1444 del 1968, laddove impone l’anzidetta distanza di 10
metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma di
ordine generale, prevalente anche sulla disciplina regionale
eventualmente difforme, e va pertanto applicata anche a
corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa
l’ipotesi di sopraelevazione (cfr. sul punto, ad es., Cass.
Civ., Sez. II, 27.03.2001 n. 4413)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può per certo
configurarsi congruamente motivato l’assunto della
Commissione locale per il paesaggio secondo il quale “la
soluzione progettuale determina un sensibile miglioramento
dell’assetto compositivo del fabbricato preesistente”, posto
che tale assunto è carente di qualsivoglia giudizio in
ordine all’impatto che la nuova realizzazione edilizia avrà
sul territorio e che, dalle fotografie e dalle
prefigurazioni dello stato di fatto quale risulterà
all’esito dei lavori, si ricava che sarà apportato un
rilevante mutamento sotto il profilo paesaggistico, la cui
compatibilità con i piani vigenti a tale riguardo avrebbe
dovuto essere giustificata in modo puntuale.
Va inoltre da
ultimo respinto il motivo di appello riguardante la carente
motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rispetto al
contenuto della pianificazione paesaggistica locale, posto
che –come ben evidenziato dal giudice di primo grado– non
può per certo configurarsi congruamente motivato l’assunto
della Commissione locale per il paesaggio secondo il quale
“la soluzione progettuale determina un sensibile
miglioramento dell’assetto compositivo del fabbricato
preesistente”, posto che tale assunto è carente di
qualsivoglia giudizio in ordine all’impatto che la nuova
realizzazione edilizia avrà sul territorio e che, dalle
fotografie e dalle prefigurazioni dello stato di fatto quale
risulterà all’esito dei lavori, si ricava che sarà apportato
un rilevante mutamento sotto il profilo paesaggistico, la
cui compatibilità con i piani vigenti a tale riguardo
avrebbe dovuto essere giustificata in modo puntuale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
previsione di penali, per il ritardo nella realizzazione
delle opere di urbanizzazione indicate nel piano attuativo,
non è affatto incompatibile con i principi della materia. Al
contrario, una clausola avente questo contenuto riflette
l’intensità dell’interesse pubblico al completamento
dell’intervento, ed è coerente con la facoltà di
espropriazione nei confronti dei proprietari dissenzienti.
Parimenti, lo scomputo solo parziale del costo dei lavori
dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione
rientra nei margini normalmente riservati alla negoziazione
delle parti.
Sullo schema di convenzione urbanistica
28. Il ricorrente censura anche alcune clausole dello schema
di convenzione urbanistica del piano attuativo (penale per i
ritardi nella realizzazione delle opere di urbanizzazione,
scomputo degli oneri di urbanizzazione limitato a 2/3 dei
costi effettivi). Benché in generale l’impugnazione possa
essere sostenuta anche da un interesse strumentale, al quale
anzi deve essere assicurata ampia estensione a garanzia del
diritto di difesa, è pur sempre necessario che
l’accoglimento della censura possa portare un risultato
utile a chi la propone.
Nello specifico, invece, l’eventuale l’eliminazione delle
predette clausole avrebbe il solo effetto di migliorare la
posizione economica del soggetto lottizzante, il che
dovrebbe favorire e non rallentare o impedire la
realizzazione del piano attuativo.
29. Anche tralasciando la questione dell’ammissibilità della
censura, si osserva, comunque, che la stessa non è
condivisibile nel merito. In particolare, la previsione di
penali, per il ritardo nella realizzazione delle opere di
urbanizzazione indicate nel piano attuativo, non è affatto
incompatibile con i principi della materia. Al contrario,
una clausola avente questo contenuto riflette l’intensità
dell’interesse pubblico al completamento dell’intervento, ed
è coerente con la facoltà di espropriazione nei confronti
dei proprietari dissenzienti.
Parimenti, lo scomputo solo parziale del costo dei lavori
dall’importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione
rientra nei margini normalmente riservati alla negoziazione
delle parti (v. CS Sez. IV 28.07.2005 n. 4015; TAR Brescia
Sez. I 14.05.2010 n. 1739) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’area
del piano attuativo è sottoposta a vincolo
paesistico-ambientale, ma il Comune, discostandosi dalla
previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942, non
ha acquisito l’autorizzazione della Soprintendenza.
Occorre precisare che questo adempimento, pur essendo
riferito ai piani particolareggiati, è necessario anche nel
caso di lottizzazioni a iniziativa privata. In effetti, le
esigenze di tutela ambientale sottese a queste tipologie di
piani sono identiche. Vi è poi un elemento formale in questo
senso, costituito dall’art. 28, comma 2, della legge
1150/1942. Tale norma, nel descrivere la procedura di
approvazione dei piani di lottizzazione, inserisce anche il
parere della “competente Soprintendenza”, il che implica una
valutazione estesa a interessi pubblici diversi da quelli
rimessi alla tutela dei comuni. Tra gli interessi pubblici
che devono essere salvaguardati, già nella fase di
approvazione dei piani attuativi, rientra a pieno titolo
quello paesistico-ambientale. Il parere della Soprintendenza
è richiesto indipendentemente dalla presenza formale del
vincolo. Qualora, però, un tale vincolo sussista, tanto per
l’intervento di una dichiarazione di notevole interesse
pubblico, riferita a un bene determinato, quanto per effetto
della tutela ex lege dei contesti ambientali, è necessaria
una vera e propria autorizzazione paesistica.
La mancata acquisizione dell’autorizzazione paesistica non
provoca tuttavia l’illegittimità del piano attuativo, in
quanto non impedisce alla Soprintendenza di esercitare le
proprie funzioni, ma semplicemente le concentra sui
provvedimenti a valle, ovvero sui singoli permessi di
costruire. Il rilascio dell’autorizzazione paesistica sul
piano attuativo esaurisce, infatti, il potere della
Soprintendenza di contestare in seguito, nella procedura di
rilascio del permesso di costruire, i progetti delle singole
edificazioni con riferimento a scelte urbanistiche o
costruttive già esposte nel piano attuativo. Se però la
Soprintendenza non è stata coinvolta in precedenza, può
svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le
valutazioni di carattere urbanistico che avrebbe potuto
formulare nei confronti del piano attuativo. In altri
termini, il mancato coinvolgimento della Soprintendenza
rende inopponibile alla stessa il piano attuativo, e il
conseguente rischio è a carico dei lottizzanti.
Sull’autorizzazione paesistica
30. L’area del piano attuativo è sottoposta a vincolo
paesistico-ambientale, ma il Comune, discostandosi dalla
previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942, non
ha acquisito l’autorizzazione della Soprintendenza.
31. Occorre precisare che questo adempimento, pur essendo
riferito ai piani particolareggiati, è necessario anche nel
caso di lottizzazioni a iniziativa privata. In effetti, le
esigenze di tutela ambientale sottese a queste tipologie di
piani sono identiche. Vi è poi un elemento formale in questo
senso, costituito dall’art. 28, comma 2, della legge
1150/1942. Tale norma, nel descrivere la procedura di
approvazione dei piani di lottizzazione, inserisce anche il
parere della “competente Soprintendenza”, il che
implica una valutazione estesa a interessi pubblici diversi
da quelli rimessi alla tutela dei comuni. Tra gli interessi
pubblici che devono essere salvaguardati, già nella fase di
approvazione dei piani attuativi, rientra a pieno titolo
quello paesistico-ambientale. Il parere della Soprintendenza
è richiesto indipendentemente dalla presenza formale del
vincolo. Qualora, però, un tale vincolo sussista, tanto per
l’intervento di una dichiarazione di notevole interesse
pubblico, riferita a un bene determinato, quanto per effetto
della tutela ex lege dei contesti ambientali, è
necessaria una vera e propria autorizzazione paesistica (v.
TAR Brescia Sez. I 09.04.2010 n. 1531).
32. La mancata acquisizione dell’autorizzazione paesistica
non provoca tuttavia l’illegittimità del piano attuativo, in
quanto non impedisce alla Soprintendenza di esercitare le
proprie funzioni, ma semplicemente le concentra sui
provvedimenti a valle, ovvero sui singoli permessi di
costruire. Il rilascio dell’autorizzazione paesistica sul
piano attuativo esaurisce, infatti, il potere della
Soprintendenza di contestare in seguito, nella procedura di
rilascio del permesso di costruire, i progetti delle singole
edificazioni con riferimento a scelte urbanistiche o
costruttive già esposte nel piano attuativo. Se però la
Soprintendenza non è stata coinvolta in precedenza, può
svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le
valutazioni di carattere urbanistico che avrebbe potuto
formulare nei confronti del piano attuativo. In altri
termini, il mancato coinvolgimento della Soprintendenza
rende inopponibile alla stessa il piano attuativo, e il
conseguente rischio è a carico dei lottizzanti (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Gare, giovani uniti.
Se associati in Rti hanno i requisiti.
Il Tar
Calabria sui requisiti nelle gare per i progettisti.
Nelle gare di progettazione il giovane professionista, se
associato in raggruppamento, non è tenuto a documentare
requisiti di qualificazione, ma deve essere abilitato da
meno di cinque, anni, iscritto all'albo e avere un preciso
ruolo come progettista che gli consenta di acquisire
un'utile esperienza formativa.
È quanto afferma il TAR Calabria-Reggio Calabria, con la
sentenza 08.05.2013
n. 268, che ha avuto anche modo di precisare che nei
raggruppamenti di progettisti il limite minimo per la
mandataria vale soltanto in caso di raggruppamenti
orizzontali e nell'ambito dei sub raggruppamenti
orizzontali.
I giudici hanno preso in esame una gara di
progettazione in cui il raggruppamento aggiudicatario,
costituito in forma mista, aveva associato un giovane
professionista che però non dichiarava né requisiti di
qualificazioni, né quote di partecipazione al
raggruppamento. Accertata la finalità «promozionale» della
norma sul giovane professionista (art. 253, comma 5, del dpr
207/2010) e il fatto che la «presenza» nel raggruppamento
può anche non essere assicurata anche soltanto indicando un
collaboratore di uno degli associati, il tribunale ha
precisato che se il giovane professionista viene associato
nel raggruppamento, non risultano comunque operanti anche
nei suoi confronti gli obblighi di qualificazione, né
l'obbligo (allora vigente) di indicare la quota di
partecipazione.
Per il collegio giudicante quel che conta
(ed è questa la ratio della legge) è che il giovane
professionista, senza assumere responsabilità sproporzionate
rispetto alla sua limitata formazione professionale, possa
partecipare al servizio di progettazione oggetto
dell'appalto maturando esperienze professionali e
lavorative. Devono però essere rispettati i paletti posti
dal regolamento del Codice (non più di cinque anni dal
superamento dell'esame di stato; iscrizione all'albo e
coinvolgimento come progettista nella compagine che si
candida.
Il fatto che sia stato qualificato come «mandante»,
in assenza di una specifica previsione di quota
partecipativa, «non può assurgere a causa di esclusione
del raggruppamento, vista la finalità della previsione
normativa e considerato che i requisiti di partecipazione
previsti dal bando erano interamente assolti dagli altri
professionisti». Un secondo aspetto trattato nella
sentenza attiene alla norma del requisito minimo che può
essere richiesto dalle Amministrazioni la mandataria di un
raggruppamento di progettisti.
A tale riguardo il Tar precisa che l'articolo 261, comma 7,
del dpr 207/2010 opera solo nell'ambito dei raggruppamenti
orizzontali e che, quindi, nel caso specifico il limite
fissato (al 40%) doveva essere verificato non in rapporto
all'intero ammontare dell'appalto, ma rispetto alla classe e
categoria per la quale era stato costituito il sub
raggruppamento orizzontale
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013). |
APPALTI:
L’informativa antimafia non deve provare
l’intervenuta infiltrazione o condizionamento essendo questi
un quid pluris non richiesto, ma deve solo dimostrare
sufficientemente la sussistenza di elementi dai quali è
deducibile il tentativo o il rischio di ingerenza ancor
prima del suo concreto realizzarsi, elementi connessi dunque
a situazioni anche solo potenzialmente pericolose per la
vicinanza tra l’impresa sottoposta alla valutazione del
Prefetto e soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità
organizzata, nella prospettiva di massima anticipazione
della tutela antimafia propria della normativa di
riferimento.
Si ricorda al riguardo che l’informativa antimafia non deve
provare l’intervenuta infiltrazione o condizionamento
essendo questi un quid pluris non richiesto, ma deve
solo dimostrare sufficientemente la sussistenza di elementi
dai quali è deducibile il tentativo o il rischio di
ingerenza ancor prima del suo concreto realizzarsi (Cons.
Stato, VI 08.06.2009 n. 349), elementi connessi dunque a
situazioni anche solo potenzialmente pericolose per la
vicinanza tra l’impresa sottoposta alla valutazione del
Prefetto e soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità
organizzata, nella prospettiva di massima anticipazione
della tutela antimafia propria della normativa di
riferimento (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.05.2013 n. 2478 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Premesso che il contributo di costruzione è posto
a carico del costruttore a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae, la deroga alla onerosità della
concessione ricorre nelle ipotesi tassativamente previste
dalla legge e, per quanto attiene in particolare la lettera
f) dell’art. 9, l. citata, se ricorrano due requisiti
che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale
regime di gratuità della concessione, l'uno di tipo
soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competente e
l'altro di carattere oggettivo per effetto del quale la
costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse
generale.
Nella fattispecie difettano entrambi i requisiti. Invero, il
titolare della concessione edilizia non riveste lo status di
soggetto pubblico o equiparato, essendo invece una società
privata che svolge un’attività commerciale, e l'intervento
realizzato non costituisce espletamento di un'attività
istituzionale o di interesse pubblico, essendo le opere
edilizie in questione (un complesso ricettivo per anziani)
palesemente finalizzate ad assecondare le finalità di lucro
proprie del soggetto di diritto privato.
-----------------
Deve escludersi la configurazione dell’intervento edilizio
quale attrezzatura socio–sanitaria e, quindi, quale opera di
urbanizzazione secondaria.
Infatti, trattasi di un complesso immobiliare di circa
16.000 metri cubi da destinare a “residenze e servizi per
anziani”, della superficie di metri quadrati 22.710,
articolata in 36 mono-alloggi e 36 camere multiple dotate di
bagni e servizio autonomo di cucina.
Dal punto di vista strutturale va, quindi, evidenziata una
prevalente configurazione di tipo ricettivo o residenziale,
piuttosto che quella di una struttura sanitaria, essendo
quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza di spazi
destinati alla prestazione di servizi propriamente sanitari,
mentre, nel caso i servizi ambulatoriali raggiungono
complessivamente i 300 metri quadri, a fronte dei servizi
residenziali che coprono in tutto una superficie pari a
6.700 metri quadrati.
Non sussistono, quindi, le caratteristiche che consentano di
annoverare la struttura tra quelle sanitarie in senso
proprio, mancando la prevalenza di spazi destinati alla
prestazione di servizi propriamente sanitari.
Ne consegue che l’intervento edilizio non è assolutamente
assimilabile ad una struttura sanitaria e non costituisce di
conseguenza opera di urbanizzazione.
Peraltro, le opere di urbanizzazione secondaria sono
caratterizzate dalla destinazione prioritaria all’uso della
generalità degli utenti o, comunque, ad essere messe a
disposizione dell'intera collettività, anche se dietro
pagamento di un corrispettivo fissato dal Comune in misura
tale che consenta il godimento da parte della collettività
indifferenziata degli utenti.
---------------
L'art. 10 della legge 28.01.1977 n. 10 distingue, ai fini
della determinazione del contributo del costo di
costruzione, gli edifici o gli impianti destinati ad
attività industriale e artigianale dirette alla
trasformazione dei beni e alla prestazione di servizi, dalle
costruzioni od impianti destinati ad attività turistiche,
commerciali o direzionali, prevedendo per i primi manufatti
le agevolazioni contributive ed escludendole per i secondi.
La concessione edilizia qui in questione non rientra tra gli
impianti destinati ad attività produttive.
Ad escludere la configurazione di un complesso alberghiero
come un'attività produttiva è proprio il dettato normativo
sopra indicato che menziona espressamente gli impianti
turistici tra i manufatti per i quali il legislatore in base
ad una scelta insindacabile ha ritenuto non possa farsi
luogo alla concessione del beneficio de quo e non v'è dubbio
che l'esistenza di un siffatto dato normativo è di per sé
preclusivo di quale che sia interpretazione estensiva.
E questo a prescindere dall'utilizzo dei normali canoni
ermeneutici per cui riesce veramente difficile equiparare un
complesso di immobili destinati ad un'attività ricettizia ad
un'attività industriale di produzione di beni e servizi.
Il Comune di Firenze rilasciava alla società “La
Fontenuova s.r.l.” concessione edilizia per la
realizzazione di un complesso immobiliare da destinare a “residenza
e servizi per anziani” (concessione edilizia n. 163 del
2000), determinando gli oneri ed i contributi di cui alla l.
28.01.1977, n. 10 in lire 517.886.416 per urbanizzazioni
primarie; lire 222.628.002 per urbanizzazioni secondarie;
lire 1.156.335.850 per contributo sul costo di costruzione.
La società Fontenuova con ricorso al TAR Toscana gravava la
suddetta concessione edilizia, assumendone la gratuità ai
sensi dell’art. 9, lett. f), della l. n. 10 del 1977 e, in
subordine, la parziale gratuità, con esenzione dal solo
costo di costruzione ai sensi dell’art. 10, della medesima
legge n. 10 del 1977.
Con sentenza n. 1819 del 06.12.2001, il Tribunale
Amministrativo Regionale per la Toscana respingeva il
ricorso, non ravvisando nella concessione edilizia di cui
trattasi le caratteristiche previste dalla legge per le
ipotesi di gratuità totale o parziale.
La società La Fontenuova ha proposto appello avverso la
suddetta sentenza di cui chiede l’annullamento o la riforma
perché erronea alla stregua dei seguenti motivi:
- violazione dell’articolo 9, lettera f), della l. n. 10 del
1977, che prevede l’esenzione del contributo per le
concessioni rilasciate per la realizzazione di opere
pubbliche o di interesse generale da parte degli enti
istituzionalmente competenti, ovvero nel caso di opere di
urbanizzazioni eseguite anche da privati in attuazione di
strumenti urbanistici generali;
- violazione dell’art. 10, comma 1, della l. n. 10 del 1977,
che esenta dal pagamento del costo di costruzione le
concessioni edilizie volte alla realizzazione di strutture
destinate ad un’attività di tipo industriale.
...
L’art. 9, lettera f), della l. 28.01.1977, n. 10 -richiamata
dalla società appellante a sostegno del gravame- stabilisce
che “Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è
dovuto (…) f) per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Premesso che il contributo di costruzione è posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae (cfr., Cons. Stato Sez. V, 21.04.2006
n. 2258), la deroga alla onerosità della concessione ricorre
nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge e, per
quanto attiene in particolare la lettera f) dell’art. 9, l.
citata, se ricorrano due requisiti che devono
entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di
gratuità della concessione, l'uno di tipo soggettivo,
per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un
ente istituzionalmente competente e l'altro di
carattere oggettivo per effetto del quale la costruzione
deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale
(cfr. Sez. V, 20.10.2004 n. 6818; Sez. VI, 05.06.2007
n.2981; Cons. Stato Sez. IV, 02.03.2011, n. 1332).
Nella fattispecie difettano entrambi i requisiti.
Il titolare della concessione edilizia non riveste lo
status di soggetto pubblico o equiparato, essendo invece
una società privata che svolge un’attività commerciale, e
l'intervento realizzato non costituisce espletamento di
un'attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo
le opere edilizie in questione (un complesso ricettivo per
anziani) palesemente finalizzate ad assecondare le finalità
di lucro proprie del soggetto di diritto privato.
---------------
Sotto altro profilo deve escludersi la configurazione
dell’intervento quale attrezzatura socio–sanitaria e,
quindi, quale opera di urbanizzazione secondaria.
L’intervento edilizio di cui trattasi consiste, infatti, in
un complesso immobiliare di circa 16.000 metri cubi da
destinare a “residenze e servizi per anziani”
realizzato su un’area di particolare pregio paesaggistico
sita in Firenze, della superficie di metri quadrati 22.710,
articolata in 36 mono-alloggi e 36 camere multiple dotate di
bagni e servizio autonomo di cucina.
Dal punto di vista strutturale va, quindi, evidenziata una
prevalente configurazione di tipo ricettivo o residenziale,
piuttosto che quella di una struttura sanitaria, essendo
quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza di spazi
destinati alla prestazione di servizi propriamente sanitari,
mentre, nel caso i servizi ambulatoriali raggiungono
complessivamente i 300 metri quadri, a fronte dei servizi
residenziali che coprono in tutto una superficie pari a
6.700 metri quadrati.
Non sussistono, quindi, le caratteristiche che consentano di
annoverare la struttura tra quelle sanitarie in senso
proprio, mancando la prevalenza di spazi destinati alla
prestazione di servizi propriamente sanitari.
Ne consegue che l’intervento edilizio non è assolutamente
assimilabile ad una struttura sanitaria e non costituisce di
conseguenza opera di urbanizzazione.
Peraltro, le opere di urbanizzazione secondaria sono
caratterizzate dalla destinazione prioritaria all’uso della
generalità degli utenti o, comunque, ad essere messe a
disposizione dell'intera collettività, anche se dietro
pagamento di un corrispettivo fissato dal Comune in misura
tale che consenta il godimento da parte della collettività
indifferenziata degli utenti.
Caratteristiche che non ricorrono nel caso della struttura
realizzata dalla società appellante.
---------------
L'art. 10 della legge 28.01.1977 n. 10 distingue, ai fini
della determinazione del contributo del costo di
costruzione, gli edifici o gli impianti destinati ad
attività industriale e artigianale dirette alla
trasformazione dei beni e alla prestazione di servizi, dalle
costruzioni od impianti destinati ad attività turistiche,
commerciali o direzionali, prevedendo per i primi manufatti
le agevolazioni contributive ed escludendole per i secondi.
La concessione edilizia qui in questione non rientra tra gli
impianti destinati ad attività produttive.
Ad escludere la configurazione di un complesso alberghiero
come un'attività produttiva è proprio il dettato normativo
sopra indicato che menziona espressamente gli impianti
turistici tra i manufatti per i quali il legislatore in base
ad una scelta insindacabile ha ritenuto non possa farsi
luogo alla concessione del beneficio de quo e non v'è
dubbio che l'esistenza di un siffatto dato normativo è di
per sé preclusivo di quale che sia interpretazione
estensiva.
E questo a prescindere dall'utilizzo dei normali canoni
ermeneutici per cui riesce veramente difficile equiparare un
complesso di immobili destinati ad un'attività ricettizia ad
un'attività industriale di produzione di beni e servizi
(cfr., Cons. Stato, sez. IV, n. 4488 del 12.07.2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.05.2013 n. 2467 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La mera partecipazione
alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione
al ricorso. La situazione legittimante costituita
dall'intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva
da una qualificazione di carattere normativo, che postula il
positivo esito del sindacato sulla ritualità della
ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto, la definitiva esclusione o l'accertamento della
illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di
assegnare al concorrente la titolarità di una situazione
sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della
procedura selettiva.
Tale esito rimane fermo in tutti i casi in cui
l'illegittimità della partecipazione alla gara è
definitivamente accertata, sia per inoppugnabilità dell'atto
di esclusione, sia per annullamento dell'atto di ammissione.
Ed invero, come chiarito dall'Adunanza Plenaria di questo
Consiglio con la decisione n. 4/2011, la mera partecipazione
alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione
al ricorso. La situazione legittimante costituita
dall'intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva
da una qualificazione di carattere normativo, che postula il
positivo esito del sindacato sulla ritualità della
ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto, la definitiva esclusione o l'accertamento della
illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di
assegnare al concorrente la titolarità di una situazione
sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della
procedura selettiva.
Tale esito rimane fermo in tutti i casi in cui
l'illegittimità della partecipazione alla gara è
definitivamente accertata, sia per inoppugnabilità dell'atto
di esclusione, sia per annullamento dell'atto di ammissione.
Ne consegue l'inammissibilità del ricorso per non essere AVR
legittimata alla relativa proposizione, attesa la acclarata
illegittimità della sua ammissione e conseguente
partecipazione alla gara per cui e causa (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 07.05.2013 n. 2460 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI: Chiese vicine? No alle slot-machine.
Il Tar Liguria pone limiti ai tabaccai
Dal tabaccaio posizionato vicino alla chiesa si potrà anche
acquistare un gratta e vinci ma non si gioca con le slot
machine, almeno in Liguria e nelle altre regioni in cui il
legislatore è intervenuto.
Lo ha stabilito il TAR Liguria, Sez, II, con la
sentenza 07.05.2013 n. 753 che ha respinto il
ricorso presentato avverso il diniego opposto dal Comune di
Genova.
Secondo il Collegio, in pratica, non è incostituzionale la
scelta della Regione di regolamentare la distribuzione delle
apparecchiature per il gioco lecito sul territorio,
nell'ambito delle competenze spettanti alla Regione in
ordine alla tutela della salute e delle politiche sociali,
al fine di prevenire il vizio del gioco anche se lecito.
Condizioni, queste, cui è del tutto razionalmente
preordinata una disciplina uniforme che non avrebbe senso
limitare esclusivamente alle sale giochi solo perché le
rivendite dei tabacchi hanno già, nel proprio patrimonio, la
possibilità di rivendere altri generi di giuochi e
scommesse, considerate le differenze strutturali anche in
termini di impatto psicologico individuale sull'utenza.
L'impresa ricorrente, peraltro, aveva cercato di sostenere
la tesi della competenza esclusiva dello Stato in materia di
gioco lecito e che, peraltro, non c'è corrispondenza tra la
disciplina delle distanze fissata dalla Regione e le
finalità di prevenzione sociale che la legge esplicitamente
raffigura. Ma secondo la Sezione, diversi sono i profili di
interesse statale e regionale. Nel senso che la legge
regionale persegue la tutela sociale e della salute, mentre
quella statale assolve a criteri di ordine pubblico.
Del resto, già la Corte costituzionale, con la sentenza 300
del 10.11.2011, aveva rilevato la legittimità della scelta
del legislatore (in quel caso la Provincia autonoma di
Bolzano) di fissare un limite di distanza tra i luoghi dove
è possibile praticare il gioco ed i luoghi cosiddetti
sensibili, quali scuole e chiese
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Inottemperanza all'ordinanza di rimozione e reato
permanente.
Il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale di
rimozione dei rifiuti, di cui all'art. 255, comma terzo, D.Lgs. n. 152 del 2006, ha natura di reato permanente, nel
quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica
il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio
della fase di consumazione che si protrae sino al momento
dell'ottemperanza all'ordine ricevuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.05.2013 n. 19461
- tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai fini
dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a
carico della Pubblica amministrazione non è sufficiente il
solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì
necessaria la prova del danno subito e la sussistenza
dell'elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa.
Si deve quindi verificare se l'adozione e l'esecuzione
dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole
di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali
l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con
la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare
la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti
a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e
commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un
quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare
la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del
provvedimento viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore
scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per
l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto.
In particolare, si deve ricordare che, per giurisprudenza
pacifica, ai fini dell'ammissibilità della domanda di
risarcimento del danno a carico della Pubblica
amministrazione non è sufficiente il solo annullamento del
provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria la prova del
danno subito e la sussistenza dell'elemento soggettivo del
dolo ovvero della colpa.
Si deve quindi verificare se l'adozione e l'esecuzione
dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole
di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali
l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con
la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare
la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti
a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e
commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un
quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare
la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del
provvedimento viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore
scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per
l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto (fra le più recenti:
Consiglio di Stato, sez. IV, 07.01.2013 n. 23; Consiglio di
Stato sez. V, 31.07.2012 n. 4337) (Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 06.05.2013 n. 2452 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La scelta dei criteri più
adeguati dell’offerta economicamente più vantaggiosa
costituisce espressione tipica della discrezionalità della
stazione appaltante e, impingendo nel merito dell’azione
amministrativa è sottratta al sindacato dio legittimità del
giudice amministrativo, tranne che in relazione alla natura
ed oggetto dell’appalto non sia manifestamente illogica,
arbitraria, irragionevole o macroscopicamente viziata da
travisamento dei fatti.
Nel criterio di aggiudicazione dell’appalto secondo
l’offerta economicamente più vantaggiosa si tiene conto di
una pluralità di elementi, quali il prezzo e la qualità,
spettando all’amministrazione dare il peso a tali elementi
fermo restando che la scelta di siffatti criteri di
valutazione pur connotata da ampia discrezionalità, deve
avvenire nel rispetto della proporzionalità, ragionevolezza
e non discriminazione e sempre con riferimento all’oggetto
dell’appalto.
Ebbene, l’inserimento tra i criteri di valutazione
dell’offerta tecnica dell’elemento costituito dal costo
della futura manutenzione delle opere di ristrutturazione si
muove nell’ambito dei parametri di giudizio fissati da una
copiosa giurisprudenza di questo Consesso, non appalesandosi
la scelta della stazione appaltante illogica, né
irragionevole e neppure non pertinente con l’oggetto
dell’appalto.
Invero, ancorché si tratti di appalto di esecuzione di
opere, non può negarsi o comunque escludersi una stretta
connessione logica tra la realizzazione di opere di
ristrutturazione e la successiva attività di manutenzione
delle stesse, in un rapporto di “variabile dipendente” nel
senso che ai fini di una migliore esecuzione delle opere a
farsi ben può la stazione appaltante (se non deve) tener
conto della proiezione in futuro della “tenuta” nel tempo di
tali opere e quindi anche della maggiore o minore spesa che
l’Amministrazione sarà “costretta” a sopportare per la
connessa, sia pure successiva attività manutentiva ha la sua
incidenza sulla qualità delle opere a farsi di guisa che non
si vede alcunché di macroscopica (ma neppure minima)
illogicità nella scelta di valutare un progetto migliorativo
di opere di ristrutturazione alla luce anche della
economicità derivante dalla futura manutenzione.
Va opportunamente qui richiamati alcuni principi
giurisprudenziali intervenuti in subjecta materia e che
debbono fungere da linee-guida per la comprensione e
soluzione della problematica qui in rilievo.
Occorre allora premettere che la scelta dei criteri più
adeguati dell’offerta economicamente più vantaggiosa
costituisce espressione tipica della discrezionalità della
stazione appaltante e, impingendo nel merito dell’azione
amministrativa è sottratta al sindacato dio legittimità del
giudice amministrativo, tranne che in relazione alla natura
ed oggetto dell’appalto non sia manifestamente illogica,
arbitraria, irragionevole o macroscopicamente viziata da
travisamento dei fatti (Cons. Stato Sez. IV 08.06.2007
n. 3103; sez. V 16.02.2009 n. 837).
Così sempre sul punto è stato evidenziato che nel criterio
di aggiudicazione dell’appalto secondo l’offerta
economicamente più vantaggiosa si tiene conto di una
pluralità di elementi, quali il prezzo e la qualità,
spettando all’amministrazione dare il peso a tali elementi
fermo restando che la scelta di siffatti criteri di
valutazione pur connotata da ampia discrezionalità, deve
avvenire nel rispetto della proporzionalità, ragionevolezza
e non discriminazione e sempre con riferimento all’oggetto
dell’appalto (Cons. Stato Sez. V 11.01.2006 n. 28; Sez.
V 21.11.2007 n. 5911).
Ebbene, l’inserimento tra i criteri di valutazione
dell’offerta tecnica dell’elemento costituito dal costo
della futura manutenzione delle opere di ristrutturazione si
muove nell’ambito dei parametri di giudizio fissati da una
copiosa giurisprudenza di questo Consesso, non appalesandosi
la scelta della stazione appaltante illogica, né
irragionevole e neppure non pertinente con l’oggetto
dell’appalto.
Invero, ancorché si tratti di appalto di esecuzione di
opere, non può negarsi o comunque escludersi una stretta
connessione logica tra la realizzazione di opere di
ristrutturazione e la successiva attività di manutenzione
delle stesse, in un rapporto di “variabile dipendente”
nel senso che ai fini di una migliore esecuzione delle opere
a farsi ben può la stazione appaltante (se non deve) tener
conto della proiezione in futuro della “tenuta” nel
tempo di tali opere e quindi anche della maggiore o minore
spesa che l’Amministrazione sarà “costretta” a
sopportare per la connessa, sia pure successiva attività
manutentiva ha la sua incidenza sulla qualità delle opere a
farsi di guisa che non si vede alcunché di macroscopica (ma
neppure minima) illogicità nella scelta di valutare un
progetto migliorativo di opere di ristrutturazione alla luce
anche della economicità derivante dalla futura manutenzione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2444 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La Conferenza di servizi
–sia c.d. “istruttoria”, sia “decisoria” e, quindi, anche
quella propria del modello procedimentale condiviso dagli
artt. 4 e 5 del D.P.R. 447 del 1998- non costituisce un
organo collegiale ma soltanto un modulo procedimentale
(organizzativo) suscettibile di produrre un’accelerazione
dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto
degli interessi pubblici coinvolti.
Tale istituto di carattere generale, disciplinato dalla L.
241 del 1990 e attuato poi con specifiche variante nelle
diverse discipline di settore, è precipuamente finalizzato
all’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a
tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri,
nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale
specificatamente conformato dalla legge ed è uno strumento
che non comporta pertanto modificazione o sottrazione delle
competenze, né modificazione della natura o tipo
d’espressione volitiva o di scienza che le amministrazioni
sono tenute ad esprimere secondo la disciplina di più
“procedimenti amministrativi connessi” o di un solo
procedimento nel quale siano coinvolti “vari interessi
pubblici”.
Discende quindi da ciò che in sede di conferenza di servizi
è ben ammissibile esprimere valutazioni anche attraverso la
trasmissione di note scritte, considerato, da un lato, che
scopo della conferenza è –come detto innanzi- la massima
semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo e
che, pertanto, le forme della conferenza stessa vanno
osservate nei limiti in cui siano strumentali all’obiettivo
perseguito, non potendo far discendere automaticamente dalla
inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato della
conferenza se lo scopo è comunque raggiunto, e, dall’altro,
che la conferenza di servizi non è –per l’appunto- un organo
collegiale, a presenza necessaria, ma –come dianzi
evidenziato- un modello di semplificazione amministrativa.
Orbene, per quanto attiene al primo profilo di asserita
illegittimità, va tenuto presente che ormai da tempo, e
comunque già all’epoca dei fatti per cui è ora causa, la
giurisprudenza si è consolidata nel senso di ritenere che la
Conferenza di servizi –sia c.d. “istruttoria”, sia “decisoria”
e, quindi, anche quella propria del modello procedimentale
condiviso dagli artt. 4 e 5 del D.P.R. 447 del 1998- non
costituisce un organo collegiale ma soltanto un modulo
procedimentale (organizzativo) suscettibile di produrre
un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un
esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti (cfr. sul
punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 08.05.2007 n. 2107);
tale istituto di carattere generale, disciplinato dalla L.
241 del 1990 e attuato poi con specifiche variante nelle
diverse discipline di settore, è precipuamente finalizzato
all’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a
tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri,
nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale
specificatamente conformato dalla legge ed è uno strumento
che non comporta pertanto modificazione o sottrazione delle
competenze, né modificazione della natura o tipo
d’espressione volitiva o di scienza che le amministrazioni
sono tenute ad esprimere secondo la disciplina di più “procedimenti
amministrativi connessi” o di un solo procedimento nel
quale siano coinvolti “vari interessi pubblici” (cfr.
ibidem).
Discende quindi da ciò che in sede di conferenza di servizi
è ben ammissibile esprimere valutazioni anche attraverso la
trasmissione di note scritte, considerato, da un lato, che
scopo della conferenza è –come detto innanzi- la massima
semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo e
che, pertanto, le forme della conferenza stessa vanno
osservate nei limiti in cui siano strumentali all’obiettivo
perseguito, non potendo far discendere automaticamente dalla
inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato della
conferenza se lo scopo è comunque raggiunto, e, dall’altro,
che la conferenza di servizi non è –per l’appunto- un organo
collegiale, a presenza necessaria, ma –come dianzi
evidenziato- un modello di semplificazione amministrativa
(cfr. sullo specifico punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI,
04.01.2002 n. 34 e 11.07.2002 n. 3917) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2443 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un’area edificabile, già
interamente considerata in occasione del rilascio di una
concessione edilizia, agli effetti della volumetria
realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione
come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio
della seconda concessione nelle perdurante esistenza del
primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende
inerenti alla proprietà de terreni.
Più specificatamente, si è precisato che in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata,
ai fini edificatori deve essere considerata l’intera
estensione interessata con l’effetto che anche l’area
accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di
frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui
insistono i manufatti.
La verifica della esistenza o meno di sufficiente capacità
edificatoria dell’area sulla quale si chiede il rilascio del
titolo ad aedificandum va fatta sulla base del nuovo
strumento urbanistico vigente al momento della richiesta
dell’assenso a costruire, non potendosi far valere
situazioni di “favore” sulla scorta della normativa edilizia
esistente all’epoca dell’edificazione di preesistenti
edifici.
Questo Consiglio di Stato ha avuto già modo di affermare che
un’area edificabile, già interamente considerata in
occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli
effetti della volumetria realizzabile, non può più essere
tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione
nelle perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti
appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni
(Cons. Stato Sez. V 10.02.2000 n. 749).
Più specificatamente, si è precisato che in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata,
ai fini edificatori deve essere considerata l’intera
estensione interessata (nella specie il comparto
edificatorio unitariamente considerato) con l’effetto che
anche l’area accorpata non è più edificabile anche se è
oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle
aree su cui insistono i manufatti ( Cons. Stato Sez. V
07.11.2002 n. 6128; idem 10.02.2000 n. 749 già citata; Sez.
IV 06.08.2012 n. 4482).
Parte ricorrente fonda la legittimità della sua pretesa
edificatoria con riferimento alla disciplina urbanistica
esistente negli anni “60, ma la verifica della esistenza o
meno di sufficiente capacità edificatoria dell’area sulla
quale si chiede il rilascio del titolo ad aedificandum
va fatta sulla base del nuovo strumento urbanistico vigente
al momento della richiesta dell’assenso a costruire, non
potendosi far valere situazioni di “favore” sulla
scorta della normativa edilizia esistente all’epoca
dell’edificazione di preesistenti edifici (Cons. Stato Sez.
V 07.11.2002 n. 6128) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2442 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Quando un provvedimento
amministrativo negativo è fondato su una pluralità di
motivi, è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del
giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne
derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità
di disporne l’annullamento giurisdizionale.
Il Collegio rileva che l’esame della censura risulta
sovrabbondante ai fini decisori, in quanto secondo la
consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 17.07.2008, n.
3609; V, 06.06.2011, n. 3382; V, 21.10.2011, n. 5683; IV,
06.07.2012, n. 3970), quando un provvedimento amministrativo
negativo è fondato su una pluralità di motivi, è sufficiente
che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza
di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione
dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento
giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2013 n. 2409 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’onere di motivazione gravante
sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento
urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate
incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo
legittime aspettative, è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità
di una motivazione puntuale e “mirata”, così come,
nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione.
Una volta che l’amministrazione ha in via generale espresso
la propria volontà di riportare talune previsioni del piano
particolareggiato ad una esatta corrispondenza con quanto
previsto dal PRG, l’obbligo di motivazione è stato già in
tal modo assolto, salvo che non si dimostri che il nuovo
deliberato, lungi dal ricostituire tale coerenza, abbia un
contenuto diverso e/o difforme dal piano regolatore.
---------------
Il termine decadenziale previsto dall’art. 2 l. n. 1187/1968
riguarda solo le “indicazioni del piano regolatore generale
o del programma di fabbricazione (che) incidono su beni
determinati e assoggettano i beni stessi a vincoli
preordinati all’espropriazione o a vincoli che comportano l’inedificabilità”.
Al contrario, ogni altra previsione del Piano regolatore,
che costituisce espressione del potere di pianificazione,
non può che essere ritenuta vigente e ad essa devono essere
coerentemente riportati gli strumenti urbanistici attuativi.
In linea generale, occorre ricordare che l’onere di
motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
le scelte effettuate incidano su zone territorialmente
circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”
(Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478), così come,
nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione (si veda anche, Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Tanto premesso –ed a prescindere dalla natura perentoria o
meno del termine per la presentazione di dette osservazioni– il Collegio ritiene che, una volta che l’amministrazione
abbia in via generale espresso la propria volontà di
riportare talune previsioni del piano particolareggiato ad
una esatta corrispondenza con quanto previsto dal PRG,
l’obbligo di motivazione sia stato già in tal modo assolto,
salvo che non si dimostri (ma ciò non accade nel caso di
specie) che il nuovo deliberato, lungi dal ricostituire tale
coerenza, abbia un contenuto diverso e/o difforme dal piano
regolatore.
Quanto al motivo sub c) dell’esposizione in fatto, il
Collegio, condividendo quanto affermato dalla sentenza
appellata, rileva come il termine decadenziale previsto
dall’art. 2 l. n. 1187/1968 riguardi solo le “indicazioni
del piano regolatore generale o del programma di
fabbricazione (che) incidono su beni determinati e
assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati
all’espropriazione o a vincoli che comportano l’inedificabilità”.
Al contrario, ogni altra previsione del Piano regolatore,
che costituisce espressione del potere di pianificazione,
non può che essere ritenuta vigente e ad essa devono essere
coerentemente riportati gli strumenti urbanistici attuativi (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.05.2013 n. 2428 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'amministrazione appaltante può esercitare il
potere di annullare un procedimento di gara, allorquando non
sia intervenuto l'atto conclusivo (aggiudicazione
definitiva).
E' legittimo il provvedimento di revoca di una gara di
appalto, disposta in una fase non ancora definita della
procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle
posizioni delle parti e quando il contratto non è stato
ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio
economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto
la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte
della amministrazione a seguito di una nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario.
Inoltre, è stato ripetutamente ribadito che fino a quando
non sia intervenuta l'aggiudicazione, rientra nel potere
discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del
bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano
concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere
inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione
della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche
nell'organizzazione del servizio attinenti le concrete
modalità di esecuzione, il riassetto societario, la volontà
di provvedere in autoproduzione e non mediante
esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso
tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di
personale in un quadro di attività concertate in sede
sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno,
sono tutti profili attinenti al merito dell'azione
amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del
giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di
irragionevolezza; anche il riferimento al risparmio
economico derivante dalla revoca è stato ritenuto legittimo
motivo della stessa.
Conseguentemente, nel caso di specie, la mera adozione
dell'atto di revoca dell'approvazione del progetto posto a
base di gara, non costituisce di per sé elusione del
giudicato, atteso che, l'amministrazione appaltante può
esercitare il potere di annullare un procedimento di gara,
allorquando non sia intervenuto l'atto conclusivo
(aggiudicazione definitiva) oppure quando, a seguito
dell'annullamento giurisdizionale, l'aggiudicazione
definitiva sia stata annullata ed il procedimento di gara
sia regredito alla fase di valutazione delle offerte
presentate, sempre che ne sussistano i presupposti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2400 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'affidamento dell'uso e della gestione degli
impianti sportivi comunali deve essere qualificato come
concessione di pubblico servizio.
Deve essere qualificato come concessione di pubblico
servizio l'affidamento dell'uso e della gestione
dell'impianto sportivo comunale, in quanto il bene affidato
in uso rientra, nella previsione dell'ultimo capoverso
dell'art. 826 cod. civ., ossia in quella relativa ai beni di
proprietà dei comuni destinati ad un pubblico servizio e
perciò assoggettati al regime dei beni patrimoniali
indisponibili, i quali, giusto il disposto dell'art. 828,
non possono essere sottratti alla loro destinazione.
Su tali beni insiste dunque un vincolo funzionale, coerente
con la loro vocazione naturale ad essere impiegati in favore
della collettività, per attività di interesse generale; la
conduzione di impianti sportivi sottende a tale tipologia di
attività, l'ordinamento sportivo è, infatti, connotato da
un'organizzazione di stampo pubblicistico, con al vertice il
CONI, ente pubblico, e quindi le federazioni sportive,
qualificate dalla legge istitutiva di detto ente come organi
dello stesso, soggetti incaricate di funzioni di interesse
generale, consistenti nella promozione ed organizzazione
dello sport (artt. 2, 3 e 5 l. n. 426/1942, istitutiva del
CONI) ed invero, oggetto di concessione non è solo il loro
uso, ma anche la relativa gestione, trattandosi, di attività
rivolta a finalità di pubblico interesse, consistenti nel
caso di specie nella fruizione di campi sportivi. Pertanto,
nel caso di specie, ricorrono tutti gli indici che la
giurisprudenza richiede per qualificare un'attività come
servizio pubblico, e cioè:
a) l'imputabilità e la titolarità in capo all'ente pubblico;
b) la sua destinazione a soddisfare interesse di carattere
generale della collettività;
c) la predisposizione di un programma di gestione,
vincolante per il privato incaricato della gestione, con la
previsione obblighi di condotta e l'imposizione di standards
qualitativi;
d) il mantenimento in capo all'amministrazione concedente di
poteri di indirizzo, vigilanza ed intervento, affinché il
programma sia rispettato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2385 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Attenzione
al decoro degli edifici, il manufatto che non lo rispetta va
abbattuto!
Il manufatto realizzato sopra l’ultimo piano di un
condominio che non rispetti il “decoro architettonico” va
demolito, anche se compatibile con l’aspetto architettonico
complessivo dell’edificio.
È il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza 24.04.2013 n.
10048.
Nel caso in esame, i giudici della Corte d’Appello avevano
deciso che il manufatto costruito su una terrazza di un
edificio condominiale anche se indecoroso non andava
abbattuto poiché rispettava lo stile architettonico del
palazzo.
Di avviso contrario la Suprema Corte, secondo la quale la
nozione di decoro architettonico (art. 1120 del Codice
Civile) è più restrittiva e non coincide con quella di
aspetto architettonico (art. 1127 del Codice Civile).
Pertanto, il corpo di fabbrica aggiunto alla preesistente
costruzione, pur rispettando in linea di massima l’aspetto
architettonico, va abbattuto se arreca un pregiudizio al
decoro complessivo dell’edificio, tanto più se si tratta di
un manufatto di significativa volumetria, ben visibile
all'esterno e tale da alterare le linee originarie
dell'intero stabile
(16.05.2013 - tratto da www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione autorimesse pertinenziali.
Come si evince in modo univoco dall'esame dell'art. 9, comma
5, L. 122/1989, come modificato dall’art. 10 d.l. 5/2012 la
disciplina legislativa consente esclusivamente di trasferire
–in epoca successiva alla realizzazione dell'autorimessa- la
proprietà del parcheggio con contestuale destinazione del
parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità
immobiliare sita nello stesso Comune; il tutto in deroga
alla originaria destinazione del parcheggio ad unità
immobiliare già individuata nel titolo edilizio che aveva
legittimato la costruzione.
Detta norma, tuttavia, non consente sin dall'inizio la
realizzazione del parcheggio senza preventiva individuazione
nel titolo edilizio del fabbricato cui l'autorimessa è
asservita (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.04.2013 n. 16495
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di strade o piste in zona
vincolata.
La realizzazione di strade e piste è soggetta a permesso di
costruire, senza alcuna distinzione riguardo alle
caratteristiche costruttive, dimensioni e finalità,
ritenendosi sempre necessario il titolo abilitativo anche
per l’esecuzione di strade o piste sterrate o realizzate su
un preesistente tracciato e ciò in quanto trattasi di opere
che consentono ed incrementano il traffico veicolare,
determinando una trasformazione urbanistica del territorio.
Nel caso di interventi del genere realizzati in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico è necessaria
l'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.04.2013 n. 16205
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori in zona sismica ed elemento
soggettivo del reato.
In materia di costruzioni in zona sismica la colpa dei
committenti si può sostanziare nella inosservanza di
obblighi imposti dalla legge dei quali essi erano
destinatari diretti, attraverso comportamenti negligenti ed
imprudenti concretantesi nell'avere omesso di acquisire
-assumendo le dovute informazioni presso le autorità
amministrative competenti- doverosa cognizione di tutti gli
adempimenti necessari per la legittima esecuzione dei lavori
edilizi da realizzare (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.04.2013 n. 16182 - tratto da
www.lexambiente.it).
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MASSIMA
2. Per completezza espositiva -tenuto conto delle
peculiarità costruttive del manufatto oggetto della vicenda
in esame- appare opportuno evidenziare che
le disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 del d.P.R. n.
380/2001 si applicano a tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla
rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture
realizzate, stante l'esigenza di massimo rigore nelle zone
dichiarate sismiche, che rende necessari i controlli e le
cautele prescritte anche quando si impiegano elementi
strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura ed
al cemento armato
(vedi Cass., Sez. III: 17.02.2012, n. 6591; 25.01.2011, n.
15412; 03.09.2007, n. 33767; 24.10.2001, n. 38142).
3. In ordine alla eccepita estraneità di Vi.Cr. agli
illeciti contestati, deve rilevarsi che, a norma dell'art.
93 del T.U. n. 380/2001 "chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni", in zona
sismica, deve farne denuncia all'organo competente con
comunicazione alla quale deve essere allegato il progetto
firmato da un tecnico autorizzato e dal direttore dei
lavori. Le relative opere edilizie, poi, a norma del
successivo art. 94, non possono essere iniziate senza
preventiva autorizzazione.
L' art. 95 del T.U. n. 380/2001, infine, commina la sanzione
penale della sola ammenda, da infliggersi a "chiunque"
violi le prescrizioni già contenute nella legge antisismica
ed ora nel CAPO IV del citato T.U. (Procedimenti per le
costruzioni con particolari prescrizioni per le zone
sismiche) e nei decreti interministeriali di attuazione.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema,
la responsabilità penale per costruzione abusiva può
essere affermata quando sussistano elementi in base ai quali
possa ragionevolmente presumersi che l'agente abbia in
qualche modo concorso, anche solo moralmente, con li
committente o l'esecutore del lavori abusivi.
Occorre considerare, in sostanza, la
situazione concreta in cui si è svolta l'attività
incriminata, tenendo conto non soltanto della piena
disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie
edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova
costruzione (principio del "cui prodest" bensì pure:
dei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il proprietario; dell'eventuale
presenza "in loco" durante l'effettuazione dei
lavori; dello svolgimento di attività di materiale vigilanza
sull'esecuzione dei lavori; della richiesta di provvedimenti
abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale fra
coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle
situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui
possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove
circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione
delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale
della stessa)
[vedi Cass., Sez. III: 27.09.2000, n. 10284, Cutaia;
03.05.2001, n. 17752, Zorzi, 10.08.2001, n. 31130,
Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n.
9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizauto; 12.01.2005, n.
216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n.
32856, Farzone].
Grava sull'interessato, inoltre, l'onere di
allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella
specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua
insaputa e senza la sua volontà
(vedi Cass., Sez. feriale, 16.09.2003, n. 35537, Vitale).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame,
il giudice del merito -con motivazione adeguata ed immune da
vizi logico-giuridici- ha ricondotto anche all'imputata Cr.
l'attività di edificazione in oggetto sui rilievi che essa:
era comproprietaria dell'edificio sul cui terrazzo è stata
realizzata la nuova struttura; ne aveva la disponibilità
giuridica e di fatto; aveva sicuro interesse all'esecuzione
delle opere.
Trattasi di elementi indiziari univoci e gravi -non smentiti
da elementi di segno diverso- sulla base dei quali
correttamente è stato ritenuto il concorso nei reati quanto
meno sotto il profilo del rafforzamento morale del disegno
criminoso del marito. |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti fotovoltaici e lottizzazione abusiva.
Anche con riferimento agli impianti fotovoltaici, realizzati
in assenza della prescritta autorizzazione, e ipotizzabile
il reato di lottizzazione abusiva allorché per le dimensioni
dell’impianto, in relazione alla superficie residua del
territorio, non risulti salvaguardata la sua utilizzazione
agricola e si determini, quindi, lo stravolgimento
dell'assetto ad esso attribuito dagli strumenti urbanistici (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.04.2013 n. 15988
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Acque pubbliche: la presunzione di demanialità si estende
all'intero corso.
Con
sentenza 08.04.2013 n. 57,
il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha
definitivamente ribadito, confermando la decisione n.
1390/2010 del Tribunale delle Acque Pubbliche presso la
Corte d’Appello di Milano, che la mera
attitudine di un valletto a ricevere, anche in misura
significativa, acque pubbliche ne determina ex lege
la demanialità per l'intero suo corso.
Nella fattispecie, i ricorrenti -invocando la riforma della
sentenza di primo grado- avevano chiesto che venisse
accertata l'assenza di demanialità di un tratto di un
valletto, non inserito nell'elenco delle acque pubbliche,
senza tuttavia provare la destinazione dello stesso a mero
convogliamento delle acque nelle fognature.
E' la mera attitudine del corso d'acqua ad usi di pubblico
generale interesse (art. 1 R.D. n. 1755/1933) -intesa come
l'"idoneità alla soddisfazione di un interesse pubblico,
come la salvaguardia del territorio e dell'ambiente, ovvero
riconducibile ad attività ed opera dell'uomo, quali la
produzione, l'irrigazione, l'energia, la bonifica, la pesca,
desumibile dalla portata delle acque, dall'ampiezza del
bacino imbrifero o del sistema idrografico al quale
appartengono"-, a determinarne ex lege la
demanialità.
Circostanze acclarate nella fattispecie, in ragione
dell'ampiezza del bacino e delle opere realizzate a monte
del tratto in contestazione, ed irrilevante la mancata
inclusione negli elenchi pubblici ex R.D. 523/1904.
Né, d'altra parte, sottolinea il TSAP, si potrebbe giungere
alla paradossale conclusione di ritenere sottratto al regime
di demanialità esclusivamente un tratto del valletto,
dovendosi considerare lo stesso "nella sua interezza"
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità ordinanza demolizione di
prefabbricato metallico, tende a cappottina, pedana in legno
e deposito per acqua, in zona paesaggisticamente vincolata.
E’ illegittima l’ordinanza di demolizione per demolizione di
prefabbricato metallico, tende a cappottina, pedana in legno
e deposito per acqua che insistono sul territorio del Comune
di Monte Argentario, in zona paesaggisticamente vincolata,
intervenuta a distanza di lungo tempo dall’epoca del
posizionamento del manufatto, e per il quale si sono
succeduti provvedimenti e comunicazioni, (rilascio di
concessione demaniale ed autorizzazione al subingresso,
autorizzazione all’installazione dell’insegna, parere
favorevole all’ampliamento della concessione demaniale) che
hanno generato negli interessati un ragionevole affidamento.
Pur condividendo il principio giurisprudenziale
assolutamente consolidato, che assume gli abusi edilizi come
illeciti permanenti, e, quindi, l’imprescrittibilità del
relativo potere sanzionatorio, le evidenziate particolarità
avrebbero imposto all’amministrazione uno specifico onere di
motivare le ragioni, diverse dal mero ripristino della
legalità e prevalenti rispetto al contrapposto interesse
privato, che avrebbero militato in favore della demolizione
dei manufatti.
Nella fattispecie in esame la reazione dell’amministrazione
è intervenuta a distanza di lungo tempo dall’epoca del
posizionamento del manufatto (epoca attestata dalla stessa
relazione della Polizia municipale del 17.02.2010); inoltre,
nel corso del tempo si sono succeduti provvedimenti e
comunicazioni, cui si è fatto sopra cenno (rilascio di
concessione demaniale ed autorizzazione al subingresso,
autorizzazione all’installazione dell’insegna, parere
favorevole all’ampliamento della concessione demaniale) e
che, indubbiamente, hanno generato negli interessati un
ragionevole affidamento.
Pur condividendo il principio giurisprudenziale
assolutamente consolidato, che assume gli abusi edilizi come
illeciti permanenti, e, quindi, l’imprescrittibilità del
relativo potere sanzionatorio, il collegio non può non
rilevare che le evidenziate particolarità avrebbero imposto
all’amministrazione uno specifico onere di motivare le
ragioni, diverse dal mero ripristino della legalità e
prevalenti rispetto al contrapposto interesse privato, che
avrebbero militato in favore della demolizione dei
manufatti.
Di tali valutazioni non vi è traccia nel provvedimento
oggetto del giudizio di primo grado: la sentenza impugnata,
che ha respinto il ricorso, non valorizzando il particolare
onere motivazionale, in relazione alla specificità della
fattispecie, merita quindi la riforma richiesta con
l’appello, che deve, in conclusione, essere accolto, con
contestuale riforma della gravata pronuncia, correlativo
accoglimento del ricorso di prima istanza e conseguente
annullamento degli atti ivi impugnati, fatti salvi quelli
ulteriori della p.a., che li emanerà nel pieno rispetto dei
princìpi di diritto qui enunciati (massima
tratta da www.lexambiente.it
-
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2013 n. 1849 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità diniego sanatoria per un impianto di
frantumazione di inerti provvisorio.
E’ legittimo il diniego di concessione
in sanatoria della messa in opera di un impianto di
frantumazione di inerti, già oggetto di autorizzazione
provvisoria, poi non rinnovata, di carattere assolutamente
accessorio ad opere funzionali alla attività svolta.
Non può formare oggetto di condono edilizio (ai sensi
dell’art. 31 della l. n. 47/1985) una costruzione meramente
precaria, ossia l’opera destinata ad essere rimossa non
appena soddisfatto lo scopo per cui è stata realizzata,
anche se costruzione industriale. Del resto l'eventuale
applicazione del condono edilizio a tale fattispecie avrebbe
l'effetto di rendere durevole un'installazione di natura
meramente provvisoria, così da snaturare la funzione
dell'art. 31 della l. n. 47/1985. Non si può definire
abusiva e non è, quindi, condonabile, l'opera edilizia
realizzata in base ad un'autorizzazione "in precario", a
nulla rilevandone neppure l'eventuale illegittimità.
Quindi, ai sensi dell'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, non può
formare oggetto di condono edilizio una costruzione
meramente precaria, ossia l'opera edilizia destinata ad
essere rimossa non appena soddisfatto lo scopo per cui essa
è stata realizzata.
Va premesso che gli abusi edilizi condonabili vengono
individuati di volta in volta dalla legge istitutiva, che
può allargare oppure restringere le ipotesi a sua
insindacabile discrezione, -ovviamente nel rispetto dei
principi costituzionali- sulla base delle mutevoli esigenze
fiscali, che normalmente costituiscono la ragione della
scelta del legislatore.
L'esame nell'ammissibilità della domanda di condono
edilizio, nonché l'individuazione della sanzione da
infliggere per l'abuso edilizio commesso, costituiscono
valutazioni di natura tecnico-discrezionale di competenza
esclusiva dell'autorità amministrativa (Consiglio Stato,
sez. V, 27.04.1990, n. 397) che attengono anche alla
qualificazione degli interventi posti in essere.
In ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per
essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in
astratto due criteri discretivi: 1) criterio strutturale, in
virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso
al suolo; 2) il criterio funzionale, in virtù del quale è
precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza
temporanea.
La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare
la natura precaria di un'opera si debba seguire non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui
un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo,
ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata
per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare
del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per
la quale occorre la concessione edilizia e che possono
essere oggetto di domanda di condono in caso di
realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non
meramente occasionale, come impianti per attività produttive
all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura "precaria"
di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità
della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca
destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente
di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Nel caso di specie le opere di cui trattasi erano
individuate nell’istanza di condono edilizio depositata in
data 28.02.1995, prot. n. 1506, dalla soc. Meraviglia, come
“Installazione temporanea di impianto di frantumazione in
assenza di proroga”; la stessa società, in data 16.11.1995,
in sede di integrazione documentale richiesta
dall’Amministrazione, ha precisato che tale impianto di
frantumazione era una “unità tecnologica mobile, non …
soggetta ad accatastamento”.
Correttamente quindi il TAR ha ritenuto che non potesse
formare oggetto di condono edilizio (ai sensi dell’art. 31
della l. n. 47/1985) una costruzione meramente precaria,
ossia l’opera destinata ad essere rimossa non appena
soddisfatto lo scopo per cui è stata realizzata, anche se
costruzione industriale.
Del resto l'eventuale applicazione del condono edilizio a
tale fattispecie avrebbe l'effetto di rendere durevole
un'installazione di natura meramente provvisoria, così da
snaturare la funzione dell'art. 31 della l. n. 47/1985
(cfr., Cons. St., sez. V, 03.10.1995, n. 1372)
Le norme del condono edilizio, di cui al citato articolo,
nel definire le opere sanabili, si riferiscono alla
realizzazione di fabbricati in assenza di un qualunque
provvedimento astrattamente abilitativo all'edificazione, e
non già a vicende in cui quest'ultima è stata effettuata in
forza di un atto autorizzativo formalmente rilasciato dal
Comune, ancorché reputato non appropriato alla tipologia
delle opere realizzate. Pertanto, non si può definire
abusiva (e non è, quindi, condonabile) l'opera edilizia
realizzata in base ad un'autorizzazione "in precario",
a nulla rilevandone neppure l'eventuale illegittimità (cfr.,
Cons. St., sez. V, 03.10.1995, n. 1372).
Quindi, ai sensi dell'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, non può
formare oggetto di condono edilizio una costruzione
meramente precaria, ossia l'opera edilizia destinata ad
essere rimossa non appena soddisfatto lo scopo per cui essa
è stata realizzata (cfr., Cons. St. sez. V 04.02.1998, n.
131).
Né appare fuori di logica o manifestamente ingiusto che
un'opera precaria non possa essere condonata, dal momento
che l'interessato in qualsiasi momento può chiedere alla
Amministrazione comunale, ove sussista la compatibilità con
le norme urbanistiche vigenti, il rilascio di un titolo
edilizio definitivo (massima tratta
da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1776 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Tassati i ruderi recuperabili.
La potenzialità edificatoria rende l'area soggetta a Imu.
La Cassazione sull'edificabilità di
terreni con fabbricati rurali destinati alla demolizione.
Sono edificabili, e di conseguenza tassabili, i terreni sui
quali insistono fabbricati rurali destinati alla
demolizione, in relazione ai quali è consentito il recupero
a uso civile.
È quanto stabilito nella sentenza 01.03.2013 n. 5166 resa
dalla V Sez. della Corte di Cassazione.
La fattispecie. Il processo scaturisce da un ricorso
proposto dal ricorrente avverso la sentenza resa da una
Commissione tributaria regionale che, in accoglimento della
tesi dell'amministrazione finanziaria, aveva qualificato
come edificabile un terreno pervenuto in successione e
successivamente ceduto. Tale terreno costituiva un corpo
unico sul quale a suo tempo erano stati eretti fabbricati
rurali destinati però a essere demoliti per poi erigere
nuovi fabbricati, ma a uso di civile abitazione.
Peraltro, solo su una parte del terreno potevano essere
costruiti i nuovi fabbricati; il che ha indotto il
contribuente a prospettare due distinti e graduati motivi di
ricorso, il primo attinente alla tassabilità della
fattispecie, il secondo volto a eventualmente ridimensionare
la quota di plusvalenza tassabile in proporzione alla
quota-parte di terreno sul quale, appunto, venivano eretti i
detti fabbricati civili.
La sentenza. La sentenza, confermando la pronuncia di
secondo grado, ritiene che il terreno oggetto di
compravendita sia da qualificare come edificabile, da qui la
ritenuta tassabilità dello stesso. Ma precisa che nemmeno la
domanda subordinata può essere accolta, in quanto il
giudice, avendo qualificato la complessiva operazione come
«unitaria», ha individuato un criterio che, a monte, non
consente di frazionare la vendita in due operazioni autonome
(cessione di terreno agricolo; cessione di terreno
edificabile).
La Corte in motivazione fa riferimento a precedenti pronunce
che, seppur relative al medesimo tema, affrontavano la
questione con un diverso angolo visuale. Vediamo perché.
Si legge nella sentenza che ai fini della determinazione
della base imponibile, evidentemente agli effetti delle
imposte dirette, e dunque, per quanto qui interessa, con
riguardo all'art. 67 Tuir, che disciplina i redditi diversi,
la nozione di area edificabile racchiude le due sub-specie
di:
- Area edificabile di diritto.
- Area edificabile di fatto.
La prima è evidentemente quella così qualificata in un piano
urbanistico, mentre la seconda è quella edificabile nel
senso che, pur non essendo urbanisticamente qualificata come
edificabile, lo è di fatto in quanto potenzialmente tale
anche al di fuori di una previsione programmatica. Sul punto
la sentenza parla espressamente di edificabilità non
programmata, o fatturale, o potenziale.
Ma in concreto? La sentenza individua alcuni elementi che
sono sintomatici di tale edificabilità «fattuale»:
- vicinanza al centro abitato;
- sviluppo edilizio raggiunto dalle zone adiacenti;
- esistenza di servizi pubblici essenziali;
- presenza di opere di urbanizzazione primaria;
- collegamento con i centri urbani già organizzati;
- in via residuale, esistenza di «qualsiasi altro elemento,
obiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica».
La sentenza poi prosegue richiamando la nozione di
edificabilità racchiusa nella disciplina dell'Ici e
dell'indennità di espropriazione: anche tali provvedimenti
richiamano una nozione di edificabilità di fatto: elemento
che finisce per divenire situazione giuridica oggettiva
nella quale può venirsi a trovare un bene immobile e che
influisce sul suo valore (articolo ItaliaOggi Sette del
13.05.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’autorità che rilascia
l’autorizzazione paesaggistica deve manifestare la piena
consapevolezza delle conseguenze derivanti dalla
realizzazione delle opere in relazione alle specifiche
caratteristiche dei luoghi e verificare se l’intervento
edilizio comporti una compromissione dell’area protetta, di
guisa che la mancata valutazione di tali interessi e delle
circostanze di fatto ovvero una motivazione non adeguata
comportano l’illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica
per eccesso di potere.
---------------
Quanto alle disposizioni di cui all’art. 10-bis, l. n. 241
del 1990, queste non sono applicabili al procedimento
statale di verifica della legittimità dell’autorizzazione
paesaggistica comunale, dal momento che la relativa
comunicazione ha ad oggetto “i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda”, laddove la funzione del
potere di cui costituisce espressione il decreto di
annullamento di un’autorizzazione paesaggistica, siccome
riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo
grado, non è quella di verificare la sussistenza dei
presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento
favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità
dell’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione
comunale.
La giurisprudenza di questo Tribunale ha affermato più volte
il principio per cui il potere di annullamento ministeriale
del nulla osta paesaggistico non deve comportare un riesame
delle valutazioni tecnico-discrezionali già compiute
dall’ente locale. Nella fattispecie, ciò non si è
verificato, atteso che l’organo statale ha riscontrato
tipici vizi di legittimità dell’autorizzazione paesaggistica
comunale quali il difetto di istruttoria e di motivazione.
Come ha avuto modo di stabilire l’Adunanza Plenaria nella
sentenza n. 9/2001, l’autorità che rilascia l’autorizzazione
paesaggistica deve manifestare la piena consapevolezza delle
conseguenze derivanti dalla realizzazione delle opere in
relazione alle specifiche caratteristiche dei luoghi e
verificare se l’intervento edilizio comporti una
compromissione dell’area protetta, di guisa che la mancata
valutazione di tali interessi e delle circostanze di fatto
ovvero una motivazione non adeguata comportano
l’illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica per
eccesso di potere (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 03.06.2009, n. 946).
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Sono infondati
anche il primo e l’ultimo motivo di ricorso con i quali si
lamenta la violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n.
241 del 1990 per omessa comunicazione di avvio del
procedimento da parte della Soprintendenza e dei motivi
ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Valga in proposito richiamare quanto già sostenuto da questa
sezione (TAR Campania, Napoli, sez. III 30.06.2010,
n. 16494). La disciplina contenuta nel Codice dei beni
culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42) e in
particolare l'art. 159, comma 1 (applicabile rationae
temporis alla presente controversia), consente alla
Soprintendenza di omettere la comunicazione di avvio del
procedimento relativo all'annullamento dell'autorizzazione
comunale, posto che la comunicazione anche agli interessati
(avvenuta nella specie con la nota del 30.06.2009), da
parte dell'amministrazione Comunale, dell'invio alla
Soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata costituisce
avviso di inizio del procedimento, ai sensi e per gli
effetti della l. n. 241 del 1990. Detta specifica disciplina
ha superato quella precedente e, quindi, anche quella di cui
al d.m. n. 165 del 2002, la quale escludeva del tutto la
necessità dell'invio della comunicazione di' avvio per i
procedimenti del genere in commento (TAR Campania Napoli,
sez. VII, 13.10.2009, n. 5407).
In particolare,
l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, previsto
in relazione alla generalità degli atti amministrativi
dall'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, espressamente ribadito
per i procedimenti di annullamento ministeriale dall'art. 4
comma 1, d.m. 13.06.1994 n. 495, recante regolamento per
l'attuazione degli artt. 2 e 4 della l. n. 241 del 1990, ed
eliminato dal d.m. 19.06.2002 n. 165, è stato
ripristinato dal d.lgs. 22.01.2004 n. 42, il quale (agli
artt. 146 e 159) ribadisce l'obbligo di comunicare
all'interessato l'avvio del procedimento di annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica, anche se attraverso la
speciale forma della comunicazione agli interessati della
trasmissione dell'autorizzazione rilasciata da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (TAR Lazio
Roma, sez. II, 01.02.2008, n. 888).
Come più volte
ribadito dalla giurisprudenza, l'obbligo
dell'Amministrazione statale di dare notizia dell'avvio del
procedimento volto all'eventuale annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica può essere validamente
ottemperato con qualsiasi meccanismo che assicuri il
raggiungimento dello scopo di consentire all'interessato la
chiara percezione dell'avvio della nuova fase
procedimentale, preordinata al controllo dell'autorizzazione
già rilasciata; in particolare è stato ritenuto che l'avviso
della trasmissione degli atti al Ministero (in calce
all'atto autorizzatorio), o anche l'indicazione del
Ministero tra i destinatari dell'atto medesimo, soddisfi
adeguatamente le esigenze che sono alla base della
comunicazione dell'avvio del procedimento, dovendosi
pertanto considerare equipollenti alla comunicazione di cui
all'art. 7 L. n. 241 (C.d.S sez. VI, 22.06.2007, n.
3440; Consiglio Stato, sez. VI, 09.02.2007, n. 533;
Consiglio Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3220).
Con
riferimento al caso in esame, rileva che, dopo l’entrata in
vigore del d.lgs. n. 42/2004, la fattispecie è disciplinata
dall’art. 159 il quale dispone: “la comunicazione è inviata
contestualmente agli interessati, per i quali costituisce
avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti
della legge 07.08.1990, n. 241”. Deve, pertanto,
ritenersi superata la giurisprudenza (anche di questa
Sezione) secondo cui sussisteva l'obbligo dell'autorità
statale di dare notizia all'interessato dell'avvio del
procedimento preordinato all'eventuale annullamento del
nulla-osta paesaggistico, tesi che può legittimamente
sostenersi solo per i procedimenti integralmente svolti
prima della modifica regolamentare introdotta con il D.M. n.
165 del 19.06.2002 (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 01.02.2010, n. 392).
In ogni caso, anche con riferimento
al diverso indirizzo giurisprudenziale precedentemente
seguito da questa Sezione, vale, anche nel caso in esame, il
pacifico insegnamento della giurisprudenza secondo cui
l’obbligo di cui all’art. 7 non può essere applicato
meccanicamente e formalisticamente, essendo volto non solo
ad assolvere ad una funzione difensiva a favore del
destinatario dell’atto conclusivo, ma anche a formare
nell’Amministrazione procedente una più completa e meditata
volontà, e pertanto si deve ritenere che il vizio derivante
dall’omissione di comunicazione (di avvio del procedimento)
non sussiste nei casi in cui lo scopo della partecipazione
del privato sia stato comunque raggiunto o manchi l’utilità
della comunicazione all’azione amministrativa(Cons. St., VI
Sez., n. 1844/2008; V, n. 6641/2004 e n. 343/2002). Ciò si
verifica allorquando il soggetto inciso sfavorevolmente da
un provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso
edotto dell’avvio del procedimento, sarebbe stato in grado
di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far
determinare in modo diverso le scelte dell’Amministrazione
procedente (cfr. in termini, Cons. St, IV Sez., nn. 1844 e
343 cit.; Sez. II, n. 1359/1999).
...
Quanto alle disposizioni di cui all’art. 10-bis, l. n. 241
del 1990, queste non sono applicabili al procedimento
statale di verifica della legittimità dell’autorizzazione
paesaggistica comunale, dal momento che la relativa
comunicazione ha ad oggetto “i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda”, laddove la funzione del
potere di cui costituisce espressione il decreto di
annullamento di un’autorizzazione paesaggistica, siccome
riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo
grado, non è quella di verificare la sussistenza dei
presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento
favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità
dell’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione comunale
(TAR Campania Napoli, sez. IV, 18.05.2009, n. 2667)
(TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 25.02.2013 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Le
slot-machine lontane da giovani, vecchi, malati.
Sono legittimi i regolamenti comunali che vietano
l'installazione di apparecchi con vincita in denaro nelle
zone adiacenti a luoghi di aggregazione frequentati, se non
esclusivamente, almeno prevalentemente dalle fasce deboli e
influenzabili della popolazione, quali giovani, anziani e
persone svantaggiate o malate.
Insomma, tutti coloro i quali sono potenzialmente non in
grado, per immaturità, solitudine, condizioni personali e/o
sociali in genere, di gestire prudentemente e con temperanza
l'accesso a tale pericolosa ed insidiosa forma di
intrattenimento.
Lo ha chiarito il TAR Trentino Alto Adige-Trento decidendo,
con le
sentenze 21.02.2013 n. 63 e
21.02.2013 n. 64, su
due ricorsi presentati avverso altrettante delibere comunali
che, in attuazione della legge della Provincia di Trento,
avevano fissato una distanza minima dai luoghi cosiddetti
sensibili, per l'installazione degli apparecchi in bar,
ristoranti o sale giochi.
Secondo il Tar, che ha fatto
riferimento anche alla recente disciplina contenuta nel
cosiddetto decreto Balduzzi (decreto legge 158/2012
conversione legge 189/2012), con la quale la ludopatia è
stata riconosciuta ufficialmente nei livelli essenziali di
assistenza (l.e.a.), non può essere trascurato il fatto che
lo stato si sta orientando «non tanto verso l'enfatizzazione
del disvalore morale del gioco d'azzardo» ma piuttosto
incentivando la maggiore diffusione possibile del gioco
controllato dallo stesso ritenendo, in tal modo, che la ludopatia riguarda solo il gioco illecito. «Se si dovesse
condividere tale singolare sillogismo, infatti, ha precisato
il Collegio, si potrebbe anche sostenere, con uguale ratio,
che le dipendenze da alcol o da fumo colpiscono solo i
consumatori di alcolici o di sigarette acquistati di
contrabbando».
Ed è per questo motivo che la Corte
costituzionale con la sentenza 300/2011 ha ritenuto che,
accanto a un'indiscutibile strategia di «controllo» sulle
attività e sull'esercizio dei giochi, riservata allo stato,
è contestualmente necessaria anche una strategia di
«contenimento mirato» della diffusione di tali giochi e che,
per queste ultime finalità, la disciplina nazionale non è né
sufficiente né competente in via esclusiva
(articolo ItaliaOggi del 18.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
URBANISTICA:
Poiché la mera adozione del piano, non ancora
approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di
impugnazione, si deve ritenere che la delibera, avente ad
oggetto prescrizioni urbanistiche, soltanto adottata, non
determini, in pendenza del procedimento di approvazione, la
"novazione" della fonte procedimentale del rapporto, non
rendendo, pertanto, improcedibile per sopravvenuta carenza
di interesse il ricorso contro la variante al pendente piano
regolatore.
La mancata impugnazione della delibera di approvazione della
variante al piano regolatore non determina improcedibilità
del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del
medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica
effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo
provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le
previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di
impugnativa.
---------------
Le scelte effettuate dall'amministrazione per la
destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione
del piano regolatore generale o di variante al medesimo,
costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato
giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di
fatto o da abnormi illogicità.
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per
cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla
destinazione di singole aree, queste non necessitano di
apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere
dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale,
seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano
regolatore generale".
Ritiene in proposito il Collegio di doversi limitare a richiamare il
consolidato orientamento della giurisprudenza di questa
Sezione del Consiglio di Stato –dal quale non si ravvisa
alcuna ragione per discostarsi- a tenore del quale, da un
canto, “Poiché la mera adozione del piano, non ancora
approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di
impugnazione, si deve ritenere che la delibera, avente ad
oggetto prescrizioni urbanistiche, soltanto adottata, non
determini, in pendenza del procedimento di approvazione, la
"novazione" della fonte procedimentale del rapporto, non
rendendo, pertanto, improcedibile per sopravvenuta carenza
di interesse il ricorso contro la variante al pendente piano
regolatore“ (Cons. Stato Sez. IV, 09.09.2009, n. 5402 ).
In coerenza con detto orientamento, e con più stretta
aderenza alla odierna materia del contendere, è stato
rilevato da pacifica giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 08.03.2010, n. 1361, e 23.07.2009, n. 4662) che “la
mancata impugnazione della delibera di approvazione della
variante al piano regolatore non determina improcedibilità
del ricorso proposto avverso la delibera di adozione del
medesimo, poiché l'annullamento di quest'ultima esplica
effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo
provvedimento di approvazione nella parte in cui conferma le
previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di
impugnativa” (si veda anche, per quanto riguarda la
giurisprudenza di merito, ex multis: TAR Marche Ancona
Sez. I, 25-07-2012, n. 493, ma anche TAR Abruzzo Pescara
Sez. I, 11.01.2011, n. 22, TAR Lombardia Milano Sez. II,
30.01.2007, n. 119).
---------------
Ritiene il Collegio di
rimarcare sul punto che per pacifica giurisprudenza della
Sezione, -la cui perdurante con divisibilità si intende
ribadire in questa sede- “le scelte effettuate
dall'amministrazione per la destinazione delle singole aree,
al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di
variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito
sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano
affette da errori di fatto o da abnormi illogicità” (Cons.
Stato Sez. IV, 03.08.2010, n. 5157).
Ciò implica, quale
necessario corollario, la conseguenza per cui “trattandosi
di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di
singole aree, queste non necessitano di apposita
motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti
nella impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al piano regolatore
generale” (Cons. Stato Sez. IV Sent., 03.11.2008, n. 5478) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La decisione del giudice
di merito in materia di spese processuali è censurabile in
sede di legittimità, sotto il profilo della violazione di
legge, soltanto quando le spese siano state poste,
totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente
vittoriosa; non è invece sindacabile, neppure sotto il
profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del potere
discrezionale del giudice di merito sull'opportunità di
compensare, in tutto o in parte le spese medesime. Tali
principi trovano applicazione non soltanto quando il giudice
abbia emesso una pronuncia di merito, ma anche quando egli
si sia limitato a dichiarare l'inammissibilità o
l'improcedibilità dell'atto introduttivo del giudizio.
Infatti, pure in tali ultimi casi sussiste pur sempre una
soccombenza, sia pure virtuale, di colui che ha agito con un
atto dichiarato inammissibile o improcedibile che consente
al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese,
esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso
specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto
di condanna della parte vittoriosa e che si traduce in un
provvedimento che rimane incensurabile in cassazione purché
non illogicamente motivato.
Detto principio è stato più volte predicato dalla
giurisprudenza amministrativa, che ha avuto modo di
affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e
sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un
ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede
di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della
parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la
statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al
pagamento di somme palesemente inadeguate.
Alla stregua del
condivisibile orientamento secondo cui “la decisione del
giudice di merito in materia di spese processuali è
censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo della
violazione di legge, soltanto quando le spese siano state
poste, totalmente o parzialmente, a carico della parte
totalmente vittoriosa; non è invece sindacabile, neppure
sotto il profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del
potere discrezionale del giudice di merito sull'opportunità
di compensare, in tutto o in parte le spese medesime. Tali
principi trovano applicazione non soltanto quando il giudice
abbia emesso una pronuncia di merito, ma anche quando egli
si sia limitato a dichiarare l'inammissibilità o
l'improcedibilità dell'atto introduttivo del giudizio.
Infatti, pure in tali ultimi casi sussiste pur sempre una
soccombenza, sia pure virtuale, di colui che ha agito con un
atto dichiarato inammissibile o improcedibile che consente
al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese,
esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso
specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto
di condanna della parte vittoriosa e che si traduce in un
provvedimento che rimane incensurabile in cassazione purché
non illogicamente motivato" (Cassazione civile, sez. lav.,
27.12.1999, n. 14576).
"Detto principio è stato più volte predicato dalla
giurisprudenza amministrativa, che ha avuto modo di
affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e
sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un
ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede
di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della
parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la
statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al
pagamento di somme palesemente inadeguate” (Cons. Stato,
sez. VI, 30.12.2005, n. 7581) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’articolo
9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza
di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici
antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in
questione non può essere derogato neppure nelle ipotesi in
cui fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine
limitata in altezza (nella fattispecie, si tratta
dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di
altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile
ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto,
laddove il nuovo edificio superi in altezza –e in modo
notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di
determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo
sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano
terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a
distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a
realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di
luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo
complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere
dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione
si determina.
Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti
che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato
dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse
una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è
contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi
applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett.
c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la
generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può
in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto
sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la
questione debba essere risolta facendo applicazione del
consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV,
02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in
questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in
cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti
esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta
dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di
altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile
ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto,
laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi
in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui
aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa
intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due
edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a
distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a
realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di
luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo
complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere
dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione
si determina
(Cons. Stato Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio non ritiene di revocare in dubbio il consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui, in linea di
principio, il provvedimento di annullamento d’ufficio
presuppone una congrua motivazione in ordine all’interesse
pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio
discrezionale dei poteri di autotutela, con un'adeguata
ponderazione comparativa, che tenga anche conto
dell’interesse dei destinatari di un atto discrezionale al
mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono
consolidate e del conseguente affidamento derivante dal
comportamento seguito dall'Amministrazione.
Neppure si ritiene di revocare in dubbio l’altrettanto
consolidato orientamento (peraltro trasfuso in puntuale
disposizione normativa ad opera dell’articolo 14 della l.
11.02.2005, n. 11) secondo cui la legittimità dell’esercizio
del potere di annullamento d’ufficio di un atto
discrezionale, in via di principio, postula che esso sia
realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione
dell’atto oggetto di autotutela.
---------------
In sede di vaglio circa la legittimità del provvedimento di
annullamento di titoli edilizi, deve riconoscersi adeguato
rilievo al comportamento (negligente o in malafede) del
privato il quale abbia indotto in errore l’amministrazione
attraverso una rappresentazione falsa o incompleta dello
stato dei luoghi, tale da alterare la corretta formazione
del convincimento degli organi decisionali.
---------------
Non viola il principio del contrarius actus l’annullamento
d’ufficio di una concessione edilizia illegittima, emanato
senza la previa acquisizione del parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo cui è soggetta l'area di
intervento, qualora tale rimozione avvenga esclusivamente o
essenzialmente per ragioni urbanistico-edilizie,
indipendenti da altre questioni connesse al predetto
vincolo.
Al riguardo il
Collegio non ritiene di revocare in dubbio il consolidato
orientamento giurisprudenziale (puntualmente richiamato
dall’appellante) secondo cui, in linea di principio, il
provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone una
congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico attuale
e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei
poteri di autotutela, con un'adeguata ponderazione
comparativa, che tenga anche conto dell’interesse dei
destinatari di un atto discrezionale al mantenimento delle
posizioni, che su di esso si sono consolidate e del
conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito
dall'Amministrazione (in tal senso –ex plurimis -:
Cons. Stato, III, 20.06.2012, n. 3628; id., IV, 28.05.2012,
n. 3154; id., VI, 15.05.2012, n. 2774).
Neppure si ritiene di revocare in dubbio l’altrettanto
consolidato orientamento (peraltro trasfuso in puntuale
disposizione normativa ad opera dell’articolo 14 della l.
11.02.2005, n. 11) secondo cui la legittimità dell’esercizio
del potere di annullamento d’ufficio di un atto
discrezionale, in via di principio, postula che esso sia
realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione
dell’atto oggetto di autotutela (in tale senso –ex
plurimis -: Cons. Stato, V, 07.04.2010, n. 1946; id., IV,
14.02.2006, n. 564).
---------------
Al riguardo si
ritiene che nel caso in esame debba trovare puntuale
conferma l’orientamento secondo cui, in sede di vaglio circa
la legittimità del provvedimento di annullamento di titoli
edilizi, deve riconoscersi adeguato rilievo al comportamento
(negligente o in malafede) del privato il quale abbia
indotto in errore l’amministrazione attraverso una
rappresentazione falsa o incompleta dello stato dei luoghi,
tale da alterare la corretta formazione del convincimento
degli organi decisionali (in tal senso: Cons. Stato, IV, 27.11.2010, n. 8291).
---------------
In terzo luogo il
Collegio ritiene infondato il motivo di appello con cui si è
chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per la parte
in cui non ha rilevato l’illegittimità del provvedimento di
annullamento d’ufficio in considerazione della mancata,
previa acquisizione del parere della Commissione edilizia
comunale (parere che, invece, è richiesto nella fase –per
così dire:- ‘fisiologica’ di rilascio del titolo).
Al riguardo il Collegio osserva che, anche a voler
riguardare gli aspetti procedimentali connessi all’adozione
dei provvedimenti di autotutela sulla base del principio del
c.d. ‘contrarius actus’, la carenza formale di uno
degli atti che avevano caratterizzato l’adozione dell’atto
oggetto di annullamento può rilevare ai fini di rendere
illegittimo l’esercizio del potere di autotutela solo
laddove l’atto omesso incida sul medesimo tratto
procedimentale –e sul medesimo valore tutelato– sul quale
risulta fondato l’esercizio di autotutela.
Questo Giudice di appello ha, ad esempio, affermato che non
viola il principio del contrarius actus
l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia
illegittima, emanato senza la previa acquisizione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo cui è
soggetta l'area di intervento, qualora tale rimozione
avvenga esclusivamente o essenzialmente per ragioni
urbanistico-edilizie, indipendenti da altre questioni
connesse al predetto vincolo (Cons. Stato, V, 07.09.2000, n.
4741).
Ebbene, riconducendo il principio appena richiamato alle
peculiarità del caso di specie, si osserva che la mancata
acquisizione del parere della Commissione edilizia comunale
nel corso del procedimento finalizzato all’annullamento
d’ufficio del titolo edilizio non sortisce valenza viziante
dal momento che:
- il provvedimento di annullamento si fondava sul dato
oggettivo e non suscettibile di apprezzamento discrezionale
alcuno relativo al mancato rispetto della pertinente
normativa (nazionale e locale) in tema di distanze;
- l’acquisizione del parere della Commissione edilizia
comunale è prodromico e strumentale all’acquisizione di
elementi di valutazione d carattere tecnico-discrezionale
circa le caratteristiche delle opere progettate
(Cons. Stato Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.05.2013 |
ã |
Per costruire una
edicola funeraria, all'interno del cimitero
comunale, non occorre alcun titolo edilizio (ex dpr
380/2001) ma un semplice atto amministrativo (autorizzatorio)
in conformità al vigente regolamento comunale di
polizia mortuaria!! |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
lo svolgimento di attività edilizia all'interno dei cimiteri
anche da parte dei privati non occorre il rilascio di alcuna
concessione edilizia, essendo sufficiente il giudizio da
parte del Sindaco di conformità del progetto alle
prescrizioni edilizie contenute nel piano regolatore
cimiteriale e non dalle norme comuni in tema di edilizia ed
urbanistica.
L’attività edilizia all’interno dei cimiteri è regolata, in
via primaria, non dalla normazione urbanistica, ma dalle
norme del regolamento di polizia mortuaria (D.P.R.
10.09.1990 n. 285 e successive modificazioni), e, in via
secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali, ma dal
piano regolatore cimiteriale che ogni Comune è tenuto ad
adottare (cfr. ex multis Cass. Sez. III 02.06.1983 n.
451, TAR Sicilia-Catania 18.02.1981 n. 86, TAR
Abruzzo-Pescara 04.12.1989 n. 534, TAR Toscana 03.05.1994 n.
176, TAR Calabria-Reggio Calabria 06.04.2000 n. 304).
Pertanto, per lo svolgimento di attività edilizia
all'interno dei cimiteri anche da parte dei privati non
occorre il rilascio di alcuna concessione edilizia, essendo
sufficiente il giudizio da parte del Sindaco di conformità
del progetto alle prescrizioni edilizie contenute nel piano
regolatore cimiteriale e non dalle norme comuni in tema di
edilizia ed urbanistica (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 04.06.2004 n. 9187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'attività
edilizia all'interno dei cimiteri è disciplinata
compiutamente dal regolamento di polizia mortuaria
(D.P.R. n. 285 del 1990 e successiva modificazioni)
e non dalle norme comuni in tema di edilizia ed
urbanistica.
Ne consegue che, come è stato puntualmente
denunciato dalla parte ricorrente, i provvedimenti
impugnati risultano illegittimi in quanto,
viceversa, applicano la comune normativa in tema di
edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) in relazione alla
costruzioni di alcuni loculi all'interno di una
cappella cimiteriale.
Come e'
stato rappresentato alle parti nel corso della
camera di consiglio, il ricorso può essere definito
immediatamente nel merito con sentenza redatta in
forma semplificata.
Tanto perché sia il ricorso principale che i motivi
aggiunti sono manifestamente fondati.
L'attività edilizia all'interno dei cimiteri è
disciplinata compiutamente dal regolamento di
polizia mortuaria (D.P.R. n. 285 del 1990 e
successiva modificazioni) e non dalle norme comuni
in tema di edilizia ed urbanistica.
Ne consegue che, come e' stato puntualmente
denunciato dalla parte ricorrente, i provvedimenti
impugnati risultano illegittimi in quanto,
viceversa, applicano la comune normativa in tema di
edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) in relazione alla
costruzioni di alcuni loculi all'interno di una
cappella cimiteriale.
Tanto basta per l'accoglimento con la conseguenza
che ogni altra censura può essere dichiarata
assorbita.
Ricorrono giusti motivi per la compensazione tra le
parti delle spese di giudizio (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.05.2004 n. 8749 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
regolamento di polizia mortuaria (v. d.p.r. n.
803/1975), che espressamente disciplina le
costruzioni edilizie nei cimiteri, a differenza di
quanto disposto dalle leggi urbanistiche, non
prevede affatto l'obbligo della concessione edilizia
per tali costruzioni.
In particolare, per quanto riguarda la costruzione
di sepoltura privata, l'art. 91 del suddetto
regolamento richiede la concessione per l'uso
dell'area demaniale del cimitero, concessione che è
atto ben diverso dalla concessione edilizia, mentre
a norma dell'art. 95 dello stesso regolamento, i
singoli progetti di costruzione di sepolture private
debbono essere approvati dal Sindaco su conforme
parere dell'ufficiale sanitario e sentita la
commissione edilizia.
La costruzione senza la concessione per l'uso
dell'area del cimitero e senza l'approvazione del
relativo progetto da parte del Sindaco, lungi dal
realizzare il reato urbanistico, integra soltanto la
contravvenzione prevista dall'art. 108 del
regolamento di polizia mortuaria; contravvenzione
ormai depenalizzata L. n. 689 del 1981, ex art. 32,
essendo punibile soltanto con l'ammenda stabilita
dal T.U. Leggi Sanitarie, R.D. 27.07.1934, n. 1265,
art. 358 e successive modifiche.
E' vero che l'art. 108 del citato regolamento
sanziona le violazioni, salvo che esse non
costituiscano reato più grave. Ma, contrariamente a
quanto il giudice di appello sostiene, l'attività
edilizia all'interno dei cimiteri, essendo regolata
in via primaria dal regolamento di polizia mortuaria
e, in via secondaria, dal piano regolatore
cimiteriale, non è compresa nell'ambito di
applicazione della normativa di cui alla L. n. 10
del 1977 e successive modificazioni, che concerne la
trasformazione urbanistica del territorio, escluse
le zone ed aree a regolamentazione edilizia
speciale, come quella in esame.
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 07.07.1989 la Corte di Appello
di Catania confermò la sentenza in data 23.11.1987
del Pretore di Paternò, che aveva dichiarato G.F.
colpevole del reato previsto dalla L. n. 47 del
1985, art. 20, lett. b) per aver sopraelevato una
cappella funeraria nel cimitero di (OMISSIS) senza
concessione edilizia (OMISSIS).
Avverso tale sentenza il G. propone ricorso per
cassazione, deducendo che il fatto non è previsto
dalla legge come reato ed, in subordine, invocando i
benefici di legge.
Motivi della decisione
Come questa Corte Suprema ha affermato in analoga
fattispecie (Cassazione 3^ n. 5148 del 02.06.1983 -
udienza 02.03.1983 imputato Patimo), alle cui
argomentazioni questo Collegio si richiama in
mancanza di nuove e più decisive ragioni di segno
contrario, il regolamento di polizia mortuaria (v.
d.p.r. n. 803/1975), che espressamente disciplina le
costruzioni edilizie nei cimiteri, a differenza di
quanto disposto dalle leggi urbanistiche, non
prevede affatto l'obbligo della concessione edilizia
per tali costruzioni.
In particolare, per quanto riguarda la costruzione
di sepoltura privata, l'art. 91 del suddetto
regolamento richiede la concessione per l'uso
dell'area demaniale del cimitero, concessione che è
atto ben diverso dalla concessione edilizia, mentre
a norma dell'art. 95 dello stesso regolamento, i
singoli progetti di costruzione di sepolture private
debbono essere approvati dal Sindaco su conforme
parere dell'ufficiale sanitario e sentita la
commissione edilizia.
La costruzione senza la concessione per l'uso
dell'area del cimitero e senza l'approvazione del
relativo progetto da parte del Sindaco, lungi dal
realizzare il reato urbanistico, avrebbe potuto
integrare soltanto la contravvenzione prevista
dall'art. 108 del regolamento di polizia mortuaria;
contravvenzione ormai depenalizzata L. n. 689 del
1981, ex art. 32, essendo punibile soltanto con
l'ammenda stabilita dal T.U. Leggi Sanitarie, R.D.
27.07.1934, n. 1265, art. 358 e successive
modifiche.
E' vero che l'art. 108 del citato regolamento
sanziona le violazioni, salvo che esse non
costituiscano reato più grave. Ma, contrariamente a
quanto il giudice di appello sostiene, l'attività
edilizia all'interno dei cimiteri, essendo regolata
in via primaria dal regolamento di polizia mortuaria
e, in via secondaria, dal piano regolatore
cimiteriale, non è compresa nell'ambito di
applicazione della normativa di cui alla L. n. 10
del 1977 e successive modificazioni, che concerne la
trasformazione urbanistica del territorio, escluse
le zone ed aree a regolamentazione edilizia
speciale, come quella in esame.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata in
ordine al reato previsto dalla L. n. 47 del 1985,
art. 20, lett. b), perché il fatto non è preveduto
dalla legge come reato.
E poiché il reato in questione fu considerato più
grave rispetto a quelli concorrenti ai fini della
continuazione, la stessa sentenza impugnata va
annullata con rinvio in ordine alla misura della
pena per i residui reati di cui alla L. n. 64 del
1974 e L. n. 1086 del 1977, da rideterminarsi nel
giudizio di rinvio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza
13.03.1990 n. 3489). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'attività edilizia all'interno dei
cimiteri è regolata, in via primaria, non dalla
normazione urbanistica ma dalle norme contemplate
sotto i titoli 10 e 18 del regolamento di polizia
mortuaria approvato con d.p.r. 21.10.1975 n. 803 e,
in via secondaria, non dagli strumenti urbanistici
generali ma dal piano regolatore cimiteriale che ai
sensi dell'art. 53 del citato d.p.r. 803/1975 ogni
comune è tenuto ad adottare.
Pertanto, per lo svolgimento di attività edilizia
all'interno dei cimiteri anche da parte di privati
non occorre il rilascio della concessione edilizia,
essendo sufficiente il giudizio da parte del sindaco
di conformità del progetto alle prescrizioni
edilizie contenute nel piano regolatore cimiteriale
ai sensi dell'art. 95 d.p.r. 803 cit..
L'attività edilizia all'interno dei cimiteri è
regolata, in via primaria, non dalla normazione
urbanistica ma dalle norme contemplate sotto i
titoli 10 e 18 del regolamento di polizia mortuaria
approvato con d.p.r. 21.10.1975 n. 803 e, in via
secondaria, non dagli strumenti urbanistici generali
ma dal piano regolatore cimiteriale che ai sensi
dell'art. 53 del citato d.p.r. 803/1975 ogni comune
è tenuto ad adottare; pertanto, per lo svolgimento
di attività edilizia all'interno dei cimiteri anche
da parte di privati non occorre il rilascio della
concessione edilizia, essendo sufficiente il
giudizio da parte del sindaco di conformità del
progetto alle prescrizioni edilizie contenute nel
piano regolatore cimiteriale ai sensi dell'art. 95
d.p.r. 803 cit. (TAR
Sicilia-Catania, sentenza 18.02.1981 n. 86). |
Le pronunce
di cui sopra, ancorché datate, sono condivisibili. Tuttavia, recentemente
sono intervenute altre pronunce le quali sostengono
quanto segue:
"Nell’ambito
del cimitero l’edificazione è regolata, in via
primaria, dalle disposizioni di cui al T.U.L.S. (RD
27.07.1934, nr. 1265) e dalla l. 10.09.1990, nr.
285, che i Comuni possono solo integrare, mediante
il proprio regolamento, con rinvio alle disposizioni
di cui al DPR 380/2001 e che dunque, in assenza di
una specifica previsione regolamentare locale,
necessita di un provvedimento espresso in coerenza
con il particolare regime, a natura concessoria, che
l’Ordinamento disciplina.".
Ed ancora: "E'
legittima la previsione regolamentare locale (di
polizia mortuaria) che assoggetta l’edificazione nel
suolo cimiteriale alle più garantite procedure di
autorizzazione proprie della disciplina edilizia
generale di cui al DPR 380/2001 ed alla conseguente
disciplina (oneri concessori, termini di inizio e
fine lavori e così via)". |
EDILIZIA PRIVATA:
Trattandosi di
costruzione (cappella funeraria) all’interno di un
cimitero, ed in mancanza di una specifica
disposizione regolamentare dell’Ente, non opera il
silenzio-assenso di cui all’art. 20 del DPR
380/2001.
Invero, nell’ambito del cimitero l’edificazione è
regolata, in via primaria, dalle disposizioni di cui
al T.U.L.S. (RD 27.07.1934, nr. 1265) e dalla l.
10.09.1990, nr. 285, che i Comuni possono solo
integrare, mediante il proprio regolamento, con
rinvio alle disposizioni di cui al DPR 380/2001 e
che dunque, in assenza di una specifica previsione
regolamentare locale, necessita di un provvedimento
espresso in coerenza con il particolare regime, a
natura concessoria, che l’Ordinamento disciplina.
- Ritenuto che, nell’odierno giudizio, parte
ricorrente si duole dell’illegittimità dell’inerzia
che l’Ente intimato ha serbato sulla istanza
presentata il 10.05.2011, prot. n. 4339 tesa ad
ottenere il rilascio del permesso di costruire per
la realizzazione di una cappella funeraria da n. 10
loculi, più urne, da erigersi nel cimitero comunale
al lotto nr. 21;
- Ritenuto che l’Ente, ritualmente costituitosi,
oppone alla domanda del ricorrente che il richiesto
permesso di costruire non può essere rilasciato in
quanto il Piano Regolatore Cimiteriale approvato con
delibera di CC n. 28 del 30.12.2009, art. 6 delle
NTA stabilisce che il titolo richiesto non viene
rilasciato in aree sprovviste delle opere di
urbanizzazione primaria (i cui lavori, nella specie,
sono approvati ed in corso di “verifica
finanziaria del bilancio comunale”);
- Ritenuto che, trattandosi di costruzione
all’interno di un cimitero, ed in mancanza di una
specifica disposizione regolamentare dell’Ente, non
opera il silenzio-assenso di cui all’art. 20 del DPR
380/2001;
- Ritenuto infatti che nell’ambito del cimitero
l’edificazione è regolata, in via primaria, dalle
disposizioni di cui al T.U.L.S. (RD 27.07.1934, nr.
1265) e dalla l. 10.09.1990, nr. 285, che i Comuni
possono solo integrare, mediante il proprio
regolamento, con rinvio alle disposizioni di cui al
DPR 380/2001 (TAR Reggio Calabria, 26.01.2010, nr.
26) e che dunque, in assenza di una specifica
previsione regolamentare locale, necessita di un
provvedimento espresso in coerenza con il
particolare regime, a natura concessoria, che
l’Ordinamento disciplina;
- Ritenuto che la dichiarazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza è stata resa solamente
in giudizio, da parte del difensore dell’Ente, e non
con un provvedimento espresso dell’Autorità
indirizzato personalmente al richiedente, con la
conseguenza che non si può dichiarare cessata la
materia del contendere;
- Ritenuto che, pertanto, il Comune di Bovalino va
condannato all’adozione di un provvedimento espresso
nei confronti del ricorrente, da emanarsi all’esito
del necessario procedimento amministrativo, nel
quale assicurare la piena partecipazione del
ricorrente medesimo, allo scopo di verificare, in
contraddittorio, i presupposti dell’azione
amministrativa, entro il termine di giorni trenta
dalla comunicazione della presente sentenza -o sua
notifica a cura di parte- e con l’espresso avviso
che, in mancanza, in luogo del Comune e con oneri a
suo carico provvederà un commissario ad acta
appositamente nominato dal TAR su istanza di parte,
debitamente notificata alla controparte (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 14.06.2012 n. 431 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce dell’attuale assetto della disciplina in materia di
edilizia (DPR 380/2001) e nel riparto delle funzioni
derivante dalla riforma del Titolo V della Costituzione, di
cui alla L.Cost. 1/2003, il Comune può legittimamente
disciplinare forme e condizioni della trasmissibilità tra
vivi dei diritti suoi suoli cimiteriali, integrando la
disciplina civilistica ordinaria, e può sottoporre
l’autorizzazione alla edificazione dei manufatti del
servizio votivo alle generali regole dettate dal DPR
380/2001 per l’edificazione ordinaria.
---------------
E' legittima la previsione
regolamentare locale (di polizia mortuaria) che assoggetta
l’edificazione nel suolo cimiteriale alle più garantite
procedure di autorizzazione proprie della disciplina
edilizia generale di cui al DPR 380/2001 ed alla conseguente
disciplina (oneri concessori, termini di inizio e fine
lavori e così via).
---------------
Quanto al secondo aspetto, parte ricorrente afferma
che, avendo fatto istanza per la realizzazione della
cappella, sul suolo in questione, ed avendo altresì
depositato il relativo progetto presso il Settore tecnico
decentrato di Reggio Calabria, ai fini del rispetto della
normativa antisismica, sulla istanza relativa al predetto
progetto, si sarebbe formato il silenzio assenso ex art. 19
l. 241/1990; in questo senso sarebbe illegittimo il diniego
del Comune all’allaccio dell’energia elettrica per il
servizio votivo, impugnato con il ricorso introduttivo;
inoltre, sarebbe illegittimo il diniego opposto alla istanza
in sanatoria, presentata in subordine ex art. 13 della l.
47/1985, nelle more realizzato, ed i consequenziali atti
repressivi, che il Comune ha adottato.
Nel merito delle opposte ragioni, si osserva dunque che la
tesi di parte ricorrente si fonda sul principio secondo il
quale la materia è esclusa dalla potestà di regolamentazione
comunale: la cessione del diritto di superficie sull’area
cimiteriale, secondo tale impostazione, sarebbe soggetta
alle sole norme civilistiche ordinarie, mentre
l’edificazione di manufatti del servizio votivo nell’area
cimiteriale resterebbe esclusivamente soggetta all’apposita
disciplina nazionale di cui al Regolamento approvato con DPR
285/1990 e non a quella ordinaria in tema di edificazione
(già l. 10/1977, oggi DPR 380/2001). In questo senso,
pertanto, il regolamento comunale sarebbe illegittimo e da
disapplicarsi o annullarsi in parte qua.
Ad attento esame, nelle specifiche questioni oggetto
dell’odierno giudizio, la tesi del ricorrente è infondata,
dovendosi ritenere che, alla luce dell’attuale assetto della
disciplina in materia di edilizia (DPR 380/2001) e nel
riparto delle funzioni derivante dalla riforma del Titolo V
della Costituzione, di cui alla L.Cost. 1/2003, il Comune
può legittimamente disciplinare forme e condizioni della
trasmissibilità tra vivi dei diritti suoi suoli cimiteriali,
integrando la disciplina civilistica ordinaria, e può
sottoporre l’autorizzazione alla edificazione dei manufatti
del servizio votivo alle generali regole dettate dal DPR
380/2001 per l’edificazione ordinaria.
Si deve premettere che, ai sensi dell’art. 118 Cost. e
dell’art. 3, comma 5, del Dlgs 267/2000, il Comune è
titolare sia di funzioni proprie, che di funzioni attribuite
con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio
di sussidiarietà.
Tra le funzioni amministrative proprie del Comune rientrano
quelle afferenti l’assetto e l’utilizzazione del territorio
(art. 13 del Dlgs 267/2000) che, pacificamente, comprende
anche la materia della disciplina delle costruzioni di
manufatti cimiteriali, all’interno delle apposite aree.
In questo senso, il principio di sussidiarietà impone di
orientare l’interpretazione della disciplina vigente nel
senso di assicurare la massima latitudine possibile
all’autonomia decisionale comunale, che rappresenta il
livello di governo più vicino ai cittadini.
Tale principio implica che la disciplina di cui al DPR
285/1990 costituisce un quadro normativo unitario e mantiene
un proprio valore di orientamento uniforme a livello
nazionale della regolamentazione delle aree cimiteriali per
quanto concerne l’igiene e la sanità collettiva, ma che, per
quanto non espressamente disciplinato, o per quanto risulti
essere relativo alla specifica incidenza della materia
sull’assetto del territorio, può essere integrato dal
regolamento comunale.
---------------
Quanto alla necessità del
titolo edilizio in ordine al progetto della cappella
funeraria, la legittimità del regolamento comunale discende
sia dal principio di sussidiarietà, che si è illustrato
prima, sia da evidenti considerazioni sistematiche.
Infatti, il tenore della disciplina del DPR 380/01 è tale da
attrarre nella sua sfera di applicazione ogni genere di
trasformazione edilizia dei suoli e dunque non si vede quale
tipo di ragione, in diritto o anche di esigenza di interesse
pubblico, dovrebbe comportare una eccezione per gli edifici
funerari, peraltro soggetti alla disciplina delle norme
tecniche dell’edilizia, in funzione antisismica, che sono
disciplinate pur sempre dal medesimo DPR 380/2001 (art. 52 e
ss. ed in particolare artt. da 83 in poi).
A ben vedere, l’unica sostanziale ragione secondo la quale
parte ricorrente sostiene la estraneità della disciplina in
materia rispetto a quella generale, starebbe in una
sostanziale specialità del DPR 285/1990, che esaurirebbe in
sé la disciplina applicabile, con la conseguenza che
l’autorizzazione del sindaco in esso prevista costituirebbe
l’unico titolo esigibile per la costruzione del manufatto a
servizio votivo dei defunti.
Si deve dare atto che tale argomentazione è fondata sulle
conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza più risalente
(TAR Sicilia Catania, 18.02.1981, n. 88; Cassazione Penale,
sez. III, 02.03.1983) e che, peraltro, anche pronunce
recenti hanno mantenuto (TAR Campania, Napoli, 9187/2004).
Tuttavia, il Collegio deve sottoporre a revisione critica
l’orientamento appena richiamato: invero, la “specialità”
del regolamento di igiene di cui al DPR 285/1990, che trae
il proprio vigore dalle norme di cui al testo unico delle
leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n.
1265, artt. da 337 a seguire, non esclude la necessità del
titolo edilizio, quando il regolamento locale lo richiede.
Invero, l’art. 94 del DPR 285/1990, che prevede che i
singoli progetti di costruzioni di sepolture private debbono
essere approvati dal sindaco su conforme parere della
commissione edilizia e del coordinatore sanitario della
unità sanitaria locale competente, ha ad oggetto l’esercizio
del potere di controllo della corrispondenza del progetto
con le previsioni del piano regolatore del cimitero di cui
agli artt. 54 e ss. del medesimo decreto, e quindi richiama,
nella disciplina territoriale, all’esercizio dei poteri di
controllo delle attività di trasformazione del territorio
che, come si è visto, sono da ritenersi strutturalmente
propri delle competenze comunali ai sensi del Dlgs 267/2000,
collocandoli all’interno di un quadro generale costituito
dalla regolamentazione del piano regolatore cimiteriale.
Ne consegue che l’art. 94 cit. va interpretato nel senso che
non istituisce un procedimento tipico o nominato: il Comune,
pertanto, ben può riservare, in via regolamentare,
l’esercizio del summenzionato potere di controllo alla
disciplina procedimentale propria del DPR 380/2001,
assicurando uniformità di presupposti, procedimenti e
condizioni all’esercizio del potere di controllo delle
trasformazioni edilizie del territorio, sia in area
cimiteriale che all’esterno di essa, con la conseguenza che
è legittima la previsione regolamentare locale che
assoggetta l’edificazione nel suolo cimiteriale alle più
garantite procedure di autorizzazione proprie della
disciplina edilizia generale di cui al DPR 380/2001 ed alla
conseguente disciplina (oneri concessori, termini di inizio
e fine lavori e così via)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 26.01.2010 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ma allora, vuoi vedere che se il comune ha disposto,
nel proprio regolamento di polizia mortuaria,
l'assoggettamento a titolo edilizio (ex dpr n.
380/2001) della costruzione di una edicola funeraria
bisogna pure versare gli oneri di urbanizzazione ??
Parrebbe di sì ... |
EDILIZIA
PRIVATA:
La costruzione di una cappella
cimiteriale non è esente dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione.
L'eventuale esenzione necessita della concomitanza di due
requisiti: per effetto del primo la costruzione deve
riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per
effetto del secondo le opere debbono essere eseguite da un
ente istituzionalmente competente.
L’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione
richiede l’esistenza di due presupposti che debbono entrambi
concorrere, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo.
Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo
le opere debbono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente. La ratio di tale norma
è, infatti, quella di agevolare l’esecuzione di opere
destinate al soddisfacimento di interessi pubblici
(Consiglio di Stato, Sezione V, 11.01.2006, n. 51).
La Cappella realizzata dall’interessata non può rientrare
tra le previsioni di cui alla detta lettera f) tanto dal
punto di vista soggettivo quanto da quello oggettivo.
La Cappella, se fosse stata costruita direttamente dal
Comune, sarebbe certamente rientrata tra le opere pubbliche
realizzate da ente istituzionalmente competente per il
soddisfacimento dell’interesse dell’intera collettività.
Alla stessa conclusione si sarebbe pervenuti se il Comune
avesse istituito apposito ente per assicurare a tutti i
cittadini la possibilità di essere seppelliti e se questo
avesse realizzato l’opera.
In conclusione l’opera, se destinata al soddisfacimento del
bisogno di tutta la collettività, indistintamente
considerata, realizzata direttamente dalla pubblica
amministrazione o da un organismo all’uopo creato, ha i
requisiti per beneficiare dell’esenzione. Ciò nella
considerazione che, se così non fosse, si assisterebbe ad un
notevole appesantimento dell’operato dell’amministrazione
che attraverso una partita di giro finirebbe col recuperare
apparentemente la quota di spese sostenute per
l’urbanizzazione della zona interessata dall’edificazione. E
chiaramente non avrebbe senso che un settore
dell’amministrazione che realizza un’opera pubblica in una
zona urbanizzata da altro suo settore rimborsi a
quest’ultimo la quota parte delle spese sostenute per la
ripetuta urbanizzazione.
Altro discorso va fatto quando un soggetto diverso da quello
che la lettera f) definisce istituzionalmente competente
realizzi un’opera destinata ad essere utilizzata solo ed
esclusivamente dai suoi associati. Detto soggetto,
costituito per realizzare l’interesse di una categoria ben
definita di persone persegue un interesse apprezzabile non
generale ma particolare, e può agire o meno per finalità di
lucro. Tale ultima finalità non rileva assolutamente,
essendo preponderante la prima, consistente nel
perseguimento dell’interesse di un gruppo di persone
definibili sulla scorta delle previsioni del suo statuto.
Il perseguimento di un interesse particolare comporta che la
Confraternita, che voglia realizzare un immobile
nell’interesse degli associati utilizzando un’area
cimiteriale, debba corrispondere un contributo commisurato
all’incidenza delle spese di urbanizzazione sostenute dalla
collettività. Sarebbe ingiustificato, infatti, che il gruppo
di soggetti rappresentati dalla Confraternita utilizzassero
gratuitamente le opere di urbanizzazione realizzate dalla
collettività, non essendo condivisibile la deduzione della
ricorrente secondo la quale nulla sarebbe dovuto in presenza
di aree già urbanizzate.
Non esiste nemmeno il presupposto oggettivo considerato che
l’opera eseguita dall’interessata non è qualificabile in
alcun modo tra le opere di urbanizzazione che l’ultima parte
di detta lettera f) individua tra quelle che i privati
eseguono in attuazione di strumenti urbanistici (strade
previste da un piano di lottizzazione ad esempio) (CGARS,
sentenza 10.06.2009 n. 534 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
costruzione di una cappella privata, all'interno del
cimitero comunale, sconta il pagamento degli oneri di
urbanizzazione.
I due ricorsi si fondano sul postulato che in virtù
dell’art. 9, lettera f, della L. n. 10/1977, per la
costruzione di una Cappella Cimiteriale non sarebbe dovuto
il pagamento dei predetti oneri atteso che le Confraternite
è un Ente Ecclesiale non avente scopo di lucro, ma
caratteristiche mutualistiche ed assistenziali.
Le Cappelle, secondo l’assunto di parte ricorrente, anche se
non destinate a scopi propri dell’Amministrazione,
soddisfano bisogni della collettività, anche se la gestione
del manufatto Cimiteriale è svolta da privati.
L’iter logico giuridico seguito dalla ricorrente non è
condivisibile.
Invero, l’art. 9 della L. n. 10/1977, alla lettera f),
disposizione invocata dalla ricorrente per postulare
l’esonero dai contributi e pretendere la restituzione del
asseritamene indebito, statuisce che non sono dovuti gli
oneri di urbanizzazione per: gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici.
Nel caso all’esame del Collegio la Cappella non è
sussumibile in nessuna delle fattispecie elencate nella
norma surriportata.
Infatti, essa non può essere considerata opera pubblica
realizzata da un Ente pubblico istituzionalmente competente,
né opera di urbanizzazione realizzata da un privato in
attuazione di uno strumento urbanistico, atteso che non
risulta che il manufatto de quo sia previsto da alcun
strumento urbanistico e neppure che la Confraternita lo
abbia realizzato nel quadro di interventi, sia pure a cura
di privati, di attuazione delle previsioni di uno strumento
urbanistico.
Né dai ricorso o dalle allegazioni processuali è dato
dedurre che la Cappella sia stata costruita dalla
Confraternita in attuazione di un accordo ex L. n. 241/1990.
Né, ad avviso del Collegio, hanno pregio le considerazioni
della ricorrente relative ad una rilevanza della natura
non profit della Confraternita, né il presunto fine di
interesse generale perseguito dal sodalizio nella
realizzazione della Cappella.
Infatti il testo della lettera f) dell’art. 9 della L. n.
10/1977 esclude, per la sua stessa natura di norma di
privilegio comportante un esenzione dall’obbligo di versare
somme dovute ad un ente pubblico, qualunque interpretazione
estensiva od analogica.
Né pur ricorrendo alle predette tipologie interpretative si
potrebbe comunque pervenire all’esito interpretativo indicato
dalla ricorrente, atteso che la Confraternita pur essendo un
sodalizio che non persegue fini di lucro non realizza
interessi generali, come ritiene la ricorrente, ma soddisfa
un interesse dei confrati (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 03.05.2005 n. 788 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Beh, non ce che dire: in questo tempo di crisi
socio-economica profonda, di stagnazione del mercato
immobiliare, di casse comunali in rosso non è male l'idea
di rimpinguare i capitoli di bilancio coi defunti !! Del
resto, il mercato dell'oblio non conosce recessione
di sorta ... Ma se qualche comune ci fa (o ci ha già fatto)
un pensierino al riguardo,
ci dice che tipo di
oneri urbanizzazione applica ?? Di quale tabella ??
Zona "A", zona "B" ??
Ci verrebbe da pensare alla tabella della zona "C
- E ed altre" laddove col termine "altre"
sono da ricomprendere (per esclusione) le zone
cimiteriali ... Poi, cortesemente,
ci vorrà anche
spiegare che razza di carico
urbanistico comporta l'edificazione di una cappella
cimiteriale tale da legittimare la pretesa di
versamento degli oo.uu. ...
Comunque, la questione che più ci sta a cuore è quella
della necessità -o meno- del titolo edilizio per
l'edificazione di una edicola funeraria all'interno
del cimitero comunale. Quindi, se qualche nostro lettore è a conoscenza di altre
sentenze che confermino ovvero sconfessino la tesi
(da ultimo) del
TAR Campania-Napoli citata in premessa
è pregato, gentilmente,
di darcene notizia inviandoci una mail
cliccando esclusivamente qui:
info.ptpl@tiscali.it ...
e lo ringraziamo già sin d'ora.
Se avremo riscontri positivi ne daremo
prontamente notizia "su questi schermi" a
vantaggio di tutti.
13.05.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo
bottone:
dossier EDICOLA FUNERARIA |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Bottone,
Tutela del Paesaggio: in Campania “Liberi Tutti”
? (12.05.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
R. Lasca,
Mobilità volontaria ex art.
30 D.Lgs. n. 165/2001: quale giurisdizione sulle
controversie sorte sulle relative procedure? Nella
ricerca della soluzione del quesito sta il COME ed il
PERCHE’ l’ordinamento del Pubblico Impiego deve essere
cambiato in fretta dal Legislatore!
(07.05.2013). |
UTILITA' |
APPALTI:
LE CENTRALI DI COMMITTENZA PER GLI APPALTI DEI PICCOLI
COMUNI - Primo rapporto sull’attuazione dei nuovi obblighi:
stato dell’arte e qualche strumento operativo (10.04.2013
- tratto da www.itaca.org). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
TRIBUTI:
OGGETTO: Risposte a quesiti riguardanti detrazioni,
cedolare secca, redditi di lavoro dipendente e fondiari, IMU
e IVIE (Agenzia delle Entrate,
circolare 09.05.2013 n. 13/E). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
L'applicazione del D.Lgs. 165/2001 alle aziende
speciali (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 09.05.2013). |
ENTI
LOCALI: Gestioni
associate e spesa del personale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 07.05.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 13.05.2013,
"Pubblicazione ai
sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000,
n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica
ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data
del 30.04.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7,
della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di
Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 06.05.2013 n. 55). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2013, "Integrazioni
del capitolato d’oneri generale e del capitolato d’oneri
particolare per la vendita in piedi di lotti boschivi di
proprietà pubblica approvato con d.d.g. n. 2481/2012 della
D.g. Sistemi verdi e paesaggio" (decreto
D.G. 30.04.2013 n. 3723). |
APPALTI:
G.U. 08.05.2013 n. 106 "Procedimento per la soluzione
delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera
n), del decreto legislativo 12.04.02006, n. 163" (AVCP,
provvedimento 24.04.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
E. Michetti,
Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità
di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso
gli enti privati in controllo pubblico (07.05.2013
- tratto da www.gazzettaamministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P. M. Zerman,
Elusione del patto di stabilità interno e responsabilità per
danno erariale degli amministratori degli enti locali
(link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Oggetto di commento, si legga anche Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. Piemonte,
sentenza 16.01.2013 n. 6
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
M. Sala,
Sul diritto di coabitazione con l’animale domestico
(Immobili & proprietà n. 4/2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
APPALTI SERVIZI: R.
Caranta,
Accordi tra amministrazioni e contratti pubblici
(Urbanistica e appalti n. 4/2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Mafrica e M. Petrulli,
Altri esempi di particolari interventi edilizi subordinati
al rilascio del permesso di costruire (L'ufficio
tecnico n. 4/2013). |
ESPROPRIAZIONE:
E. I. Blasco,
La (non agevole) applicazione della normativa sulla
trasparenza ai procedimenti espropriativi - Il problema
della pubblicità delle indennità d'esproprio (L'ufficio
tecnico n. 4/2013). |
APPALTI:
S. Usai,
Il potere/dovere della stazione appaltante di non assegnare
l'appalto in presenza di motivate ragioni di interesse
pubblico (L'ufficio tecnico n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
N. D'Angelo,
Torri anemometriche e pali eolici: regimi abilitativi e
violazioni penali (L'ufficio tecnico n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Sciscioli,
Aspetti e profili organizzativi del SUAP alla luce del
D.P.R. 160/2010 (L'ufficio tecnico n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Balasso,
La qualificazione tecnico-giuridica degli interventi (parte
prima) (L'ufficio tecnico n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: W.
Fumagalli,
LE CASE MOBILI, I TITOLI ABILITATIVI EDILIZI E LE PREVISIONI
URBANISTICHE -
LA DISCIPLINA URBANISTICA VALE ANCHE PER LE CASE MOBILI -
Non sempre le case mobili vengono installate per fare fronte
ad esigenze temporanee (AL
n. 6/2012). |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Paletti agli approvvigionamenti.
O il mercato elettronico o le centrali di committenza.
Corte
conti Lombardia: sfuggono alla regola solo i beni e servizi
non disponibili.
Sfuggono al mercato elettronico o alle centrali di
committenza solo le acquisizioni di beni e servizi che sia
dimostrato non essere presenti sul alcun mercato
elettronico. Tutte le altre acquisizioni debbono
necessariamente passare dalle centrali di committenza o dai
mercati elettronici.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della
Lombardia, col
parere 23.04.2013 n. 165,
chiarisce in termini definitivi la questione connessa agli
obblighi incombenti sugli enti locali per le acquisizioni di
beni e servizi e sulle centrali di committenza.
Comuni fino a 5 mila abitanti. I comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti sono
soggetti a due obblighi alternativi. Il primo è fissato
dall'articolo 33, comma 3-bis, del dlgs 165/2001 che impone
come prima scelta quella di avvalersi delle centrali di
committenza obbligatoriamente costituite mediante unioni di
comuni o consorzi; la seconda opportunità è di effettuare
gli acquisti «attraverso gli strumenti elettronici di
acquisto gestiti da altre centrali di committenza di
riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all'articolo
26 della legge 23.12.1999, n. 488 ed il mercato
elettronico della pubblica amministrazione di cui
all'articolo 328 del dpr 05.10.2010, n. 207».
L'obbligo di avvalersi delle centrali di committenza o, in
alternativa, dei mercati elettronici, precisa molto
chiaramente la sezione Lombardia, vale tanto per gli appalti
di importo superiore alla soglia comunitaria, quanto per gli
importi inferiori alla soglia comunitaria. In ogni caso,
l'alternativa tra centrali di committenza e mercati
elettronici è piena.
Comuni con oltre 5 mila abitanti e province. Gli enti locali
di maggiori dimensioni non sono soggetti alle disposizioni
dell'articolo 33, comma 3-bis del codice dei contratti.
Essi, sopra soglia, sono liberi di attivare procedure
contrattuali autonome, a meno che non siano operative le
convenzioni di cui all'articolo 26, comma 3 della legge
488/1999 stipulate dalla Consip o dalle centrali di
committenza regionali costituite ai sensi dell'articolo 1,
comma 455, della legge 296/2006.
Per gli acquisti sotto soglia, si applica l'articolo 1,
comma 450, della legge 296/2006, che obbliga le
amministrazioni locali ad effettuare gli acquisti di beni e
servizi dai mercati elettronici indicati dall'articolo 328
del dpr 207/2010.
È opportuno precisare che l'articolo 1, comma 450, della
legge 296/2006 si applica anche agli enti fino a 5 mila
abitanti, ma in questo caso, detta norma va coordinata con
le già viste disposizioni di cui all'articolo 33, comma
3-bis, del codice dei contratti.
Acquisizioni in economia per piccoli comuni. Sfuggono
all'obbligo di avvalersi della centrale di committenza
valevole per i comuni fino a 5 mila abitanti solo le
acquisizioni in economia in amministrazione diretta e quelle
mediante cottimo fiduciario, per importi fino a 40 mila
euro. Infatti, in questo caso, non essendovi propriamente
gare, l'articolo 33, comma 3-bis, del dlgs 163/2006, secondo
la Corte dei conti, non trova applicazione.
Tuttavia, proprio perché comunque resta operante l'articolo
1, comma 450, della legge 296/2006, le acquisizioni mediante
cottimo fiduciario al di sotto dei 40 mila euro debbono
essere effettuate attraverso il Me.Pa. o gli altri mercati
elettronici contemplati dall'articolo 328 del dpr 207/2010.
Il parere della Sezione afferma che lo stesso vale nel caso
dell'amministrazione diretta: occorre aggiungere, però,
qualora l'acquisizione occorrente per la resa della
prestazione sia inferiore ai 40 mila euro.
Acquisizioni in economia per comuni con oltre 5 mila
abitanti e province. Per gli enti di maggiori dimensioni, le
acquisizioni in economia mediante cottimo fiduciario debbono
sempre essere effettuate ricorrendo ai mercati elettronici.
Sfuggono solo le acquisizioni in economia mediante
amministrazione diretta, eseguibili con materiali e mezzi
già nella disponibilità degli enti (ovviamente, questo vale
anche per gli enti fino a 5 mila abitanti).
Acquisti al di fuori dei mercati elettronici. Il parere
della sezione Lombardia spiega che la possibilità di
ricorrere alla procedura ex art. 125 del dlgs 163/2006 al di
fuori dei mercati elettronici residua solo qualora non sia
possibile reperire i beni o i servizi necessitati.
A tale scopo, occorre darne atto nella determinazione a
contrarre, che dovrà essere necessariamente preceduta dalla
evidenziazione delle caratteristiche tecniche necessarie del
bene e del servizio e dall'indagine sulla sussistenza nei
mercati elettronici disponibili delle prestazioni richieste,
avendo cura di specificare la motivazione che illustri la
non equipollenza delle prestazioni da acquisire con altri
beni o servizi presenti sui mercati elettronici
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: In
conclusione, operando una lettura complessiva dell’articolo
33, comma 3-bis, del codice dei contratti, coordinato con il
comma 450
della legge n. 296/2006,
si deve affermare che il ricorso ad
un’unica centrale di committenza è obbligatorio per tutte le
procedure concorsuali relative ad appalti di importo
superiore alla soglia di rilevanza comunitaria nonché per
gli acquisti in economia di importo superiore ad € 40.000,00
mediante cottimo fiduciario e non invece per gli acquisti,
mediante medesima procedura, di importo inferiore e per
quelli mediante amministrazione diretta.
Conseguentemente, l’obbligo alternativo previsto dal secondo
periodo del medesimo comma 33 (“In alternativa, gli stessi
Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli
strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali
di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni
di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 e ed
il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui
all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”) dovrebbe
trovare applicazione solo per i suddetti acquisti.
Tuttavia, anche per acquisti mediante cottimo fiduciario di
importo inferiore ad € 40.000,00 o per acquisti mediante
amministrazione diretta, non ricompresi nell’articolo 33,
comma 3-bis, cod. contr., trova applicazione l’obbligo di
ricorso alle forme di mercato elettronico previste
dall’articolo 1, comma 450, della legge n. 296/2006 come
modificata dalla legge n. 94/2012 (“al mercato elettronico
della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati
elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328
ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla
centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle
relative procedure”).
Restano salve le specifiche eccezioni sopra riportate.
Quanto, infine, alla portata cogente della norma contenuta
nell’articolo 33 cod. contr. (e dell’articolo 1, comma 450,
legge n. 296/2006), si ribadisce
l’alternativa offerta ai comuni di popolazione inferiore a
5.000 abitanti (centrale di committenza o mercato
elettronico), fermo restando che il mancato ricorso ad una
delle due modalità ivi previste determinerà l’applicazione
dell’impianto sanzionatorio previsto dall’articolo 1, comma
1, d.l. n. 95/2012.
---------------
Il sindaco del comune di Castel Rozzone, con nota n. 1090
del 11.03.2013, chiedeva all’adita Sezione l’espressione
di un parere in ordine all’obbligo delle centrali di
committenza per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000
abitanti.
In particolare, il comune di Castel Rozzano, richiamata la
pertinente normativa (art. 33, comma 3-bis, d.lgs. n.
163/2006), formulava i seguenti quesiti:
a) se sia ipotizzabile che la competenza per la gestione
degli affidamenti mediante cottimo fiduciario nonché per
quelli disciplinati dall’articolo 125, commi 8 e 11, del
codice degli appalti, inferiori ad € 40.000,00, resti in
capo al Comune dato il riferimento normativo alla locuzione
“gare bandite” contenuto nell’articolo 23, comma 5, legge n.
214/2011. In caso di risposta positiva, il comune precisa
che sarà in ogni caso vincolato al ricorso al mercato
elettronico stante le disposizioni vigenti per tutti gli
enti locali;
b) la reale portata cogente dell’articolo 33, comma 3
bis, d.lgs. n. 163/2006, in ordine all’obbligo di ricorrere
ad un’unica centrale ci committenza attesa comunque
l’opzione consentita di ricorrere ad altri sistemi di
approvvigionamento mediante mercato elettronico: si chiede,
in particolare, quali siano le reali differenze, in termini
di approvvigionamento di beni e servizi, fra le norme
generali poste per i comuni con popolazione superiore ai
5.000 abitanti e quelle per i comuni con popolazione
inferiore, in relazione all’alternativa posta dalla norma
evocata.
...
La questione in esame concerne l’interpretazione
dell’articolo 33, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 a
tenore del quale “I Comuni con popolazione non superiore a
5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna
Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di
committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture
nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32
del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito
accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici. In alternativa, gli stessi Comuni possono
effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di
committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di
cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 e
ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di
cui all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”.
Tale normativa trova applicazione per le gare bandite
successivamente al 31.03.2013 (vedi l’articolo 23, comma
5, legge n. 214/2011 e l’articolo 29, comma 11-ter, legge n.
14 del 2012).
In relazione a tale disposizione vanno esaminati
separatamente i due quesiti posti dal Comune.
In ordine al primo quesito, l’Ente locale chiede se sia
ipotizzabile che la competenza per la gestione degli
affidamenti mediante cottimo fiduciario nonché per quelli
disciplinati dall’articolo 125, commi 8 e 11, del codice
degli appalti, inferiori ad € 40.000,00, resti in capo al
Comune dato il riferimento normativo alla locuzione alle
“gare bandite” contenuto nell’articolo 23, comma 5, legge n.
214/2011. In caso di risposta positiva, il comune precisa
che sarà in ogni caso vincolato al ricorso al mercato
elettronico stante le disposizioni vigenti per tutti gli
enti locali.
Detto in altri termini, poiché l’articolo 23 della legge n.
214/2011, che ha introdotto il comma 3-bis all’interno
dell’art. 33 codice contratti, nell’individuare la data di
decorrenza dell’obbligo di ricorso alle centrali di
committenza ha fatto espresso ricorso alle “gare bandite”
successivamente ad un certo termine, l’Ente locale si
interroga circa l’effettiva portata del menzionato articolo
33, in particolare con riguardo a procedure che non
richiedono il previo esperimento di una gara tra potenziali
aggiudicatori.
La questione proposta è già stata affrontata dalla
magistratura contabile con la deliberazione della Sezione
Regionale Piemonte n. 271/2012 le cui motivazioni sono
ampiamente condivisibili.
In sostanza, la Sezione Piemonte, dopo aver messo in luce
che l’articolo 33 in esame si colloca al titolo I,
“contratti di rilevanza comunitaria”, della parte II
“contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture nei settori
ordinari” del codice dei contratti pubblici, e che per
l’applicabilità della stessa anche ai contratti pubblici
sotto soglia occorre fare riferimento all’art. 121 del
successivo titolo II, ove si prescrive che a questi ultimi
si applicano, oltre alle disposizioni della parte I, della
parte IV e della parte V, anche le disposizioni della parte
II “in quanto non derogate dalle norme del presente titolo”,
evidenzia come “le previsioni di cui all’art. 33, comma 3-bis (al pari delle altre contenute nella parte II del
Codice), si applicano anche ai contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture di importo inferiore alla soglia
comunitaria, solo ove non risultino derogate dalle
disposizioni di cui al titolo II, rubricato “contratti sotto
soglia
comunitaria”.
Non è possibile, in altri termini, concludere in termini
generale ed assoluti che l’articolo 33, comma 3-bis, non si
applichi per tutti gli acquisti/affidamenti sotto soglia
comunitaria.
Tra questi, l’articolo 125 del codice contratti, nel
disciplinare i lavori, servizi e forniture in economia,
distingue tra acquisizioni in economia mediante
amministrazione diretta e acquisizioni in economia mediante
procedura di cottimo fiduciario.
Nell'amministrazione diretta le acquisizioni sono effettuate
con materiali e mezzi propri o appositamente acquistati o
noleggiati e con personale proprio delle stazioni
appaltanti, o eventualmente assunto per l'occasione, sotto
la direzione del responsabile del procedimento.
Il cottimo fiduciario, invece, è una procedura negoziata in
cui le acquisizioni avvengono mediante affidamento a terzi
(l’articolo 3, comma 40, cod. contratti prevede
espressamente che “le «procedure negoziate» sono le
procedure in cui le stazioni appaltanti consultano gli
operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più
di essi le condizioni dell'appalto. Il cottimo fiduciario
costituisce procedura negoziata”).
Per lavori, servizi o forniture di importo pari o superiore
ad € 40.000,00, “l'affidamento mediante cottimo fiduciario
avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione,
parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque
operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti
idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero
tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla
stazione appaltante” (commi 8 e 11 dell’articolo 125 cit.).
Invece, per importi inferiori a tale soglia, per il cottimo
fiduciario “è consentito l'affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento”, così come avviene
normalmente per l’ipotesi dell’amministrazione diretta.
Dunque, da quanto esposto si può ricavarne la seguente
indicazione: mentre l’amministrazione diretta non prevede
alcun tipo di gara, per il cottimo fiduciario occorre
distinguere a seconda dell’importo di
lavori/servizi/forniture.
Se al di sotto dei 40.000,00 euro non occorre l’esperimento
di una procedura comparativa, al di sopra di tale soglia è
necessario il “rispetto dei principi di trasparenza,
rotazione, parità di trattamento” e la “previa consultazione
di almeno cinque operatori economici”.
Ciò posto, appare corretto affermare che per le procedure in
economia di amministrazione diretta e di cottimo fiduciario
inferiore ad € 40.000,00 non trova applicazione l’obbligo
del ricorso alla centrale di committenza.
Nell’ipotesi di amministrazione diretta, le acquisizioni
sono effettuate con strumenti propri o appositamente
acquistati o noleggiati dall’amministrazione, e con
personale proprio della stazioni appaltanti, o eventualmente
assunto per l’occasione, sotto la direzione del responsabile
del procedimento: come rilevato dalla deliberazione della
Sezione Piemonte, “si tratta di fattispecie non pienamente
compatibili con il ricorso a una centrale di committenza e
comunque, in assenza di vere e proprie procedure
concorrenziali non rispondenti alla ratio della norma che,
come già più volte rilevato, è quella di ottenere risparmi
di spesa riducendo i costi di gestione delle procedure
negoziali attraverso la concentrazione delle stesse”.
Analoghe motivazioni sostengono l’esclusione dell’obbligo
per le procedure di cottimo fiduciario “semplificato” (per
importi inferiori ad € 40.000,00).
A sostegno di tali conclusioni milita anche l’argomento
letterale: l’assenza, in entrambe le fattispecie, di una
procedura concorrenziale non consente di ritenere integrato
quel concetto di “gara” previsto dall’articolo 23 della
legge n. 214/2011 per individuare la decorrenza cronologica
dell’articolo 33, comma 3-bis, cod. contratti.
Diverso il discorso per quanto concerne la procedura di
cottimo fiduciario per importi di lavori/servizi/forniture
pari o superiore ad € 40.000,00.
In tal caso, infatti, seppure non sia prevista la previa
pubblicazione di un bando (art. 31 del Regolamento di
esecuzione cod. contr.), la procedura prevede comunque
l’esperimento di una gara ufficiosa con la consultazione di
almeno 5 operatori economici nel rispetto dei principi di
trasparenza e parità di trattamento, così implicando una
valutazione comparativa delle offerte ricevute.
Si tratta, quindi, di una procedura semplificata cui si
applicano anche le disposizioni della parte II (tra cui
l’articolo 33, comma 3-bis, in esame) che non risultano
espressamente derogate da quelle previste dal Titolo II per
i contratti sotto soglia.
D’altra parte, il ricorso alle centrali uniche di
committenza risulta non solo compatibile con detta
procedura, ma anche coerente con la ratio della previsione
normativa: una gestione obbligatoria per i piccoli comuni da
parte di centrali di committenza uniche, può e deve
esplicare i vantaggi auspicati, in termini di
razionalizzazione e risparmi di spesa, anche con riguardo
alla procedura negoziata in esame (deliberaz. Sezione
Piemonte cit.).
Si può quindi concludere che “l’applicazione dell’obbligo di
ricorso a centrali uniche di committenza per i piccoli
comuni, possa in via analogica applicarsi anche al cottimo
fiduciario (per importi superiori ad € 40.000,00),
valorizzando il momento di esplicazione della gara
informale”.
*** *** ***
Con il secondo quesito, il Comune chiede di conoscere “la
reale portata cogente dell’articolo 33, comma 3-bis, d.lgs.
n. 163/2006, in ordine all’obbligo di ricorrere ad un’unica
centrale di committenza attesa comunque l’opzione consentita
di ricorrere ad altri sistemi di approvvigionamento mediante
mercato elettronico”.
Com’è noto, l’articolo 33, comma 3-bis, del d.lgs. n.
163/2006, dopo aver introdotto l’obbligo di ricorso alle
centrali di committenza, prevede che “in alternativa, gli
stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti
attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da
altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese
le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 ed il mercato elettronico della
pubblica amministrazione di cui all’articolo 328 del d.P.R.
05.10.2010, n. 207”.
Tale normativa, pertanto, si applica per tutti gli acquisti
effettuati da comuni inferiori a 5.000 abitanti
indipendentemente dalla soglia di rilevanza comunitaria
dell’appalto.
Sul punto, va anche ricordato che ai sensi dell'art. 1 -comma 450- della L. 296/2006, come novellato dall'art. 7 -comma 2- del D.L. 52/2012 conv. in L. 94/2012 e dall'art. 1
-comma 149- della L. 228/2012, "fermi restando gli
obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente
articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, per gli acquisti dì beni e servizi di importo inferiore
alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare
ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici
istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al
sistema telematico messo a disposizione dalla centrale
regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative
procedure".
Tale normativa, invece, trova applicazione per tutti i
comuni ma con riguardo ai soli appalti di importo inferiore
alla soglia di rilevanza comunitaria.
Nel corpo dell’istanza di parere, infine, il comune richiama
l'art. 1, comma 1, del D.L. 95/2012 (cd. seconda "spending
review"), convertito in legge 135/2012, che ha previsto che
"successivamente alla data di entrata in vigore della legge
di conversione del presente decreto, i contratti stipulati
in violazione dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, ed i contratti stipulati in
violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli
strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A.
sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa
di responsabilità amministrativa. Ai fini della
determinazione del danno erariale si tiene anche conto della
differenza tra il prezzo, ove indicato, dei detti strumenti
di acquisto e quello indicato nel contratto”.
Per quanto concerne il ricorso ai mercati elettronici,
occorre rammentare che, giusta l’obbligo sopra richiamato ai
sensi dell’art. 1, comma 450, della l. 296/2006, per gli
acquisti sotto la “soglia comunitaria” l’utilizzo dei
mercati elettronici è stato reso obbligatorio:
• a decorrere dal 01.07.2007, per le amministrazioni
statali, centrali e periferiche, ad esclusione degli
istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle
istituzioni educative e delle istituzioni universitarie;
• a decorrere dal 09.05.2012, per le tutte le
amministrazioni come definite ai sensi dell’art. 1, d.lgs
30.03.2001, n. 165, ivi compresi, conseguentemente, gli
enti locali. Quest’ultimo obbligo e la sua decorrenza, in
realtà, sono il frutto della recente novellazione della
norma citata, effettuata dal d.l. 07.05.2012, n. 52 (art.
7, comma 2) convertito con modificazioni dalla l. 06.07.2012, n. 94.
Dunque, dalle normative richiamate, effettivamente non
perfettamente coordinate tra loro, emerge il seguente
quadro: per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti sussiste
un obbligo di ricorso ai mercati elettronici senza alcun
rilievo per l’importo dell’appalto (il comma 450 riguarda
gli importi sotto soglia, il nuovo art. 33, comma 3-bis, cod.
contr. sia quelli sotto che quelli sopra).
Tuttavia, per tali comuni, a differenza di quelli con
popolazione superiore, si configura un’alternativa tra il
ricorso al mercato elettronico e quello alla centrale di
committenza di cui all’articolo 33, comma 3-bis.
L’istituto del MEPA trova oggi una sua compiuta disciplina
nell’art. 328 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento
di esecuzione e attuazione del codice dei contratti
pubblici).
La norma ribadisce che il MEPA gestito dalla CONSIP ovvero
il mercato elettronico creato ad hoc dalla stazione
appaltante o quello realizzato da centrali di committenza ai
sensi dell’art. 33 del codice dei contratti pubblici,
consentono alle pubbliche amministrazioni di effettuare
l’acquisto di beni o servizi che hanno caratteristiche
generalmente disponibili sul mercato.
Pertanto, attesa la lata previsione del citato comma 450
legge n. 296/2006 e del nuovo art. 33, comma 3-bis, la
possibilità di ricorrere alla procedura ex art. 125 cod.
contr. al di fuori di tali mercati residua solo nell’ipotesi
di non reperibilità dei beni o servizi necessitati: nella
fase amministrativa di determinazione a contrarre, l’ente
dovrà evidenziare le caratteristiche tecniche necessarie del
bene e della prestazione, di avere effettuato il previo
accertamento della insussistenza degli stessi sui mercati
elettronici disponibili e, ove necessario, la motivazione
sulla non equipollenza con altri beni o servizi presenti sui
mercati elettronici.
Peraltro, non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al
MEPA Consip, essendo espressamente prevista la facoltà di
scelta tra le diverse tipologie di mercato elettronico
richiamate dall’art. 328 del d.p.r. 207/2010: segnatamente,
tra il mercato elettronico realizzato dalla medesima
stazione appaltante e quello realizzato dalle centrali di
committenza di riferimento di cui all’art. 33 cod. contr.,
potendo inoltre ricorrere alle convenzioni di cui
all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 (le
opzioni percorribili sono confermate dall’art. 33, comma 3-bis, cod. contr.)
Ne deriva che, così venendo al profilo della cogenza
dell’articolo 33, comma 3-bis, mentre il MEPA gestito dalla
CONSIP rientra appieno tra gli “strumenti di acquisto messi
a disposizione” dalla stessa (art. 1, comma 1, d.l. n.
95/2012), analoga conclusione non può essere effettuata per
i mercati elettronici curati da parte della singola stazione
appaltante ovvero ad opera della centrale di committenza.
Tuttavia, a ben vedere, il ricorso a un MEPA diverso da
quello gestito direttamente dalla CONSIP appare una modalità
alternativa di adempimento rispetto a un obbligo primario
direttamente comminato dalla legge, con la conseguenza che
troverà applicazione per le operazioni in tal senso non
concluse dagli enti locali la nullità c.d. testuale o
espressa comminata dal legislatore ai sensi dell’art. 1418,
comma 3, c.c. (in tal senso sez. contr. Marche,
deliberazione 29.11.2012 n. 169; sez. contr.
Lombardia, deliberazione n. 89/PAR/2013).
Trattasi, infatti, di interpretazione estensiva, e non già
analogica, utilmente applicabile quindi anche con riguardo a
fattispecie tendenzialmente tassative quali le norme
comminatorie di nullità.
Tale conclusione non appare contraddetta dall’ultimo periodo
del comma 1, art. 1, del d.l. n. 95/2012, che introduce una
specifica “prova di resistenza” per le sole Amministrazioni
dello Stato (“La disposizione del primo periodo del presente
comma non si applica alle Amministrazioni dello Stato quando
il contratto sia stato stipulato ad un prezzo più basso di
quello derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di
prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A.”), determinando come conseguenza quella di
impedire, per le sole amministrazioni locali (rispetto a cui
l’obbligo di ricorso al MEPA gestito dalla CONSIP è
indubbiamente più lasco) il beneficio della verifica del
danno.
In effetti, come si ha avuto modo di cennare, per le
Amministrazioni dello Stato detto beneficio compensa la
circostanza che la disciplina degli obblighi di
approvvigionamento sia maggiormente stringente. Per le
amministrazioni locali, invece, stante la possibilità di
ricorso a diverse forme di reperimento sui vari MEPA, il
legislatore ha limitato la possibilità di deroga e di
conseguente ricerca sul libero mercato.
Da quanto esposto deriva che, salvo i casi di non
reperibilità dei beni e servizi necessitati, l’avvenuta
acquisizione di beni e servizi secondo modalità diverse da
quelle previste dal novellato art. 1, comma 450, legge n.
296/2006 e dall’articolo 33, comma 3-bis, cod. contr., da
parte di comuni di qualsivoglia dimensione demografica,
nella ricorrenza dei presupposti per il ricorso al MEPA,
inficerà il contratto stipulato ai sensi del disposto di cui
all’art. 1, comma 1, L. 135/ 2012 comportando le connesse
responsabilità.
*** *** ***
In conclusione, riassumendo quanto esposto per entrambi i
quesiti formulati ed operando una lettura complessiva
dell’articolo 33, comma 3-bis, del codice dei contratti,
coordinato con il citato comma 450, si deve affermare che il
ricorso ad un’unica centrale di committenza è obbligatorio
per tutte le procedure concorsuali relative ad appalti di
importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria
nonché per gli acquisti in economia di importo superiore ad
€ 40.000,00 mediante cottimo fiduciario e non invece per gli
acquisti, mediante medesima procedura, di importo inferiore
e per quelli mediante amministrazione diretta.
Conseguentemente, l’obbligo alternativo previsto dal secondo
periodo del medesimo comma 33 (“In alternativa, gli stessi
Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli
strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali
di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni
di cui all’articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488
e ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione
di cui all’articolo 328 del d.P.R. 05.10.2010, n. 207”)
dovrebbe trovare applicazione solo per i suddetti acquisti.
Tuttavia, anche per acquisti mediante cottimo fiduciario di
importo inferiore ad € 40.000,00 o per acquisti mediante
amministrazione diretta, non ricompresi nell’articolo 33,
comma 3 bis, cod. contr., trova applicazione l’obbligo di
ricorso alle forme di mercato elettronico previste
dall’articolo 1, comma 450, della legge n. 296/2006 come
modificata dalla legge n. 94/2012 (“al mercato elettronico
della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati
elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328
ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla
centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle
relative procedure”).
Restano salve le specifiche eccezioni sopra riportate.
Quanto, infine, alla portata cogente della norma contenuta
nell’articolo 33 cod. contr. (e dell’articolo 1, comma 450,
legge n. 296/2006), si ribadisce l’alternativa offerta ai
comuni di popolazione inferiore a 5.000 abitanti (centrale
di committenza o mercato elettronico), fermo restando che il
mancato ricorso ad una delle due modalità ivi previste
determinerà l’applicazione dell’impianto sanzionatorio
previsto dall’articolo 1, comma 1, d.l. n. 95/2012
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.04.2013 n. 165). |
LAVORI PUBBLICI: Nello
specifico, il comune di Brignano intende applicare
l’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 a mente del
quale, in caso di appalto di lavori pubblici, “in
sostituzione totale o parziale delle somme di denaro
costituenti il corrispettivo del contratto, il bando di gara
può prevedere il trasferimento all'affidatario della
proprietà di beni immobili appartenenti all'amministrazione
aggiudicatrice, già indicati nel programma di cui
all'articolo 128 per i lavori, o nell'avviso di
preinformazione per i servizi e le forniture, e che non
assolvono più a funzioni di interesse pubblico”.
A parere della Sezione, l’operazione descritta dal Comune
non trova alcun ostacolo nella normativa finanziaria che
limita l’acquisto di beni immobili.
Con successiva integrazione (nota n. 2089/2013), il Sindaco
del Comune di Brignano chiede di conoscere, in linea
generale ed al di là del caso concreto prospettato, se il
divieto di procedere ad acquisti immobiliari ricomprende
anche la permuta immobiliare “alla pari”.
La risposta deve essere negativa. In conclusione, può
ritenersi che l’espressione utilizzata dal legislatore nel
caso di specie abbia carattere atecnico e che sia più
correttamente applicabile ai contratti nei quali l’effetto
traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto
giuridico, determini comunque un esborso finanziario a
carico del soggetto pubblico.
---------------
Il sindaco del comune di Brignano Gera d’Adda, con nota n.
2302 del 15.03.2013, chiedeva all’adita Sezione
l’espressione di un parere in ordine all’articolo 1, comma
138, legge 228/2012.
In particolare, l’Ente si interroga sulla possibilità di
procedere alla realizzazione di un’opera pubblica (Polo per
l’infanzia) avvalendosi dell’articolo 53, comma 6, del
d.lgs. n. 163/2006 il quale stabilisce che, in sostituzione
totale o parziale delle somme di denaro costituenti il
corrispettivo del contratto, il bando di gara può prevedere
il trasferimento all’affidatario della proprietà di beni
immobili appartenenti all’amministrazione aggiudicatrice,
già indicati nel programma di cui all’articolo 128 per i
lavori e che non assolvono più a funzioni di interesse
pubblico.
Sulla base di tali premesse, il Sindaco dell’ente locale
chiedeva se l’operazione di “permuta” dell’opera pubblica da
realizzare con bene immobile di proprietà
dell’amministrazione senza alcun esborso monetario sia
compatibile con la legge di stabilità 2013.
Con successiva nota 2089/2013 chiedeva, in linea generale,
se il divieto in esame comprendesse o meno le operazioni di
permuta “alla pari”.
...
La questione in esame concerne la possibilità o meno, per il
comune di Brignano, di procedere alla realizzazione di
un’opera pubblica (Polo per l’infanzia) avvalendosi
dell’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 il quale
stabilisce che, in sostituzione totale o parziale delle
somme di denaro costituenti il corrispettivo del contratto,
il bando di gara può prevedere il trasferimento
all’affidatario della proprietà di beni immobili
appartenenti all’amministrazione aggiudicatrice, già
indicati nel programma di cui all’articolo 128 per i lavori
e che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico.
Il Sindaco del comune di Brignano chiede di sapere se
l’operazione di permuta rientri o meno nel divieto di
acquisto beni immobili introdotto dall’articolo 12, comma 1-quater, della legge n. 111/2011 (comma inserito dall’articolo
1, comma 138, della legge n. 228/2012) ai sensi del quale
“per l'anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'articolo 1, comma
3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, (…), non possono acquistare immobili a titolo
oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo
che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione
sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose,
la disponibilità di locali in sostituzione di immobili
dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di
immobili venduti. Sono esclusi gli enti previdenziali
pubblici e privati, per i quali restano ferme le
disposizioni di cui ai commi 4 e 15 dell'articolo 8 del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122. Sono
fatte salve, altresì, le operazioni di acquisto di immobili
già autorizzate con il decreto previsto dal comma 1, in data
antecedente a quella di entrata in vigore del presente
decreto”.
Nello specifico, il comune di Brignano intende applicare
l’articolo 53, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 a mente del
quale, in caso di appalto di lavori pubblici, “in
sostituzione totale o parziale delle somme di denaro
costituenti il corrispettivo del contratto, il bando di gara
può prevedere il trasferimento all'affidatario della
proprietà di beni immobili appartenenti all'amministrazione
aggiudicatrice, già indicati nel programma di cui
all'articolo 128 per i lavori, o nell'avviso di preinformazione per i servizi e le forniture, e che non
assolvono più a funzioni di interesse pubblico”.
A parere della Sezione, l’operazione descritta dal Comune
non trova alcun ostacolo nella normativa finanziaria che
limita l’acquisto di beni immobili.
E’ vero, infatti, che l’Ente locale acquista un’opera
pubblica –e quindi un bene immobile– ma è altrettanto vero
che l’articolo 1, comma 138, legge n. 228/2012 vieta
l’acquisto di immobili a titolo oneroso e non la diversa
ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differita nel
tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
D’altra parte, lo stesso articolo 12 della legge n. 111/2011
(modificato dal citato comma 138), comma 1-ter, prevede che
“a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal
patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti
del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente:” è chiaro ed evidente il riferimento giuridico
alla fattispecie civilistica della compravendita (laddove le
parti sono l’alienante e l’acquirente) e non a quella
dell’appalto.
Con successiva integrazione (nota n. 2089/2013), il Sindaco
del Comune di Brignano chiede di conoscere, in linea
generale ed al di là del caso concreto prospettato, se il
divieto di procedere ad acquisti immobiliari ricomprende
anche la permuta immobiliare “alla pari”.
La risposta deve essere negativa.
Pur consapevole che la permuta, anche ove non preveda
movimenti finanziari, è un contratto commutativo e quindi a
titolo oneroso, la Sezione ritiene di dare prevalenza ad
argomentazioni di diverso tenore, che consentono di
escludere che il contratto di permuta ricada all’interno
della norma proibitiva degli acquisti.
Dal punto di vista teleologico, innanzitutto, occorre
considerare che la disposizione in commento novella un
decreto legge recante Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria, ed è inserita nell’ambito di
una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11,
comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 ”contiene
esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari”.
Va poi ricordato che, se è vero che secondo la
giurisprudenza della Corte costituzionale (ex plurimis
sentenza 18.02.2010, n. 52) il legislatore statale, ai
sensi dell’art. 117 Cost., può limitare la capacità
negoziale degli enti locali in conformità alla propria
spettanza della materia “ordinamento civile”, è altrettanto
vero che tali limitazioni devono essere testualmente ed
espressamente comminate.
Si impone, pertanto, un’interpretazione del divieto di
acquisto costituzionalmente orientata: l’intervento dello
Stato, infatti, si giustifica se ed in misura in cui risulta
finalizzato al rispetto del principio di coordinamento della
finanza pubblica e dell’obiettivo di contenimento della
pesa.
Solo in questa prospettiva, dunque, si giustifica il divieto
introdotto dall’articolo 1, comma 138, legge n. 228/2012.
Sotto questo profilo, allora, è del tutto evidente che,
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste
patrimoniali dell’ente afferenti a beni immobili, il
contratto di permuta risulta operazione finanziariamente
neutra e, conseguentemente, non contemplata dal richiamato
divieto.
A parere della Sezione, l’ambito applicativo del divieto va
allora circoscritto alle categorie giuridiche potenzialmente
pregiudizievoli per le finanze pubbliche.
Sotto il profilo letterale, infine, si può osservare che il
comma 1-ter dell’art. 12 sopra riportato prevede, tra gli
altri, una serie di obblighi concernenti le operazioni di
acquisto che prevedono l'indicazione “del soggetto alienante
e del prezzo pattuito”.
Dal riferimento alla posizione dell’alienante può cogliersi
un grave indizio semantico dell’inapplicabilità del divieto
di acquisto ai casi di permuta “pura”, in quanto, come noto,
nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di
acquirenti sono reciproche e predicabili con riferimenti a
entrambi i contraenti.
In conclusione, può ritenersi che l’espressione utilizzata
dal legislatore nel caso di specie abbia carattere atecnico
e che sia più correttamente applicabile ai contratti nei
quali l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta
del rapporto giuridico, determini comunque un esborso
finanziario a carico del soggetto pubblico
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.04.2013 n. 164). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il dettato normativo non sembra, in
considerazione dell’ampiezza della locuzione utilizzata,
consentire alcuna limitazione al novero delle consulenze
prese in esame ai fini della riduzione della spesa”.
Del
resto, l’esclusione delle consulenze talmente specialistiche
da essere comunque al di fuori delle professionalità interne
all’Amministrazione “non
appare coerente con la disciplina dettata in materia
(articolo 7 del decreto legislativo 165/2001) che prevede,
espressamente, tra i presupposti per il ricorso a
collaborazioni, il preliminare accertamento
dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili all’interno dell’Amministrazione e la natura
temporanea e altamente qualificata della prestazione resa da
esperti di particolare e comprovata specializzazione”.
Ne deriva che il Comune è tenuto a
rispettare il limite di spesa ex art. 6, comma 7, del d.l.
n. 78/2010, nel vigente quadro legale ed ermeneutico della
giurisprudenza costituzionale e contabile.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) ha posto
alla Sezione una richiesta di parere sulla corretta
interpretazione ed applicazione dell’art. 6, comma 7, del
d.l. n. 78/2010.
Più nel dettaglio, l’organo rappresentativo dell’ente
osserva quanto segue.
Il Comune nel 2009 ha affidato un unico incarico di
consulenza per l’esigua somma di Euro 2.856,00. Premesso
ciò, il Sindaco chiede se sia possibile affidare nel 2013
un incarico per assistenza legale per problematiche di
particolare difficoltà sorte per pratiche edilizie
complesse, non rispettando il limite di cui all’art. 6, c.7,
del D.L. 78/2010. In base a tale disposizione, le
Pubbliche Amministrazioni possono, per l’anno in corso,
conferire incarichi di consulenza nel limite del 20% della
spesa effettivamente sostenuta nel 2009.
L’organo rappresentativo dell’ente precisa che tale
consulenza legale risulta necessaria: infatti, nel settore
tecnico non vi sono figure professionali in grado di
formulare pareri su pratiche così complesse, ragion per cui
si rivela indispensabile un legale specializzato.
Tale incarico verrebbe affidato di volta in volta
specificandone la motivazione, per un importo complessivo
non superiore, complessivamente nell’anno 2013, alla somma
di euro 10.000,00.
...
La tematica relativa all’esegesi dell’art. 6, comma 7, del
d.l. n. 78/2010 è stata affrontata dalle Sezioni Riunite
della Corte dei Conti in sede nomofilattica, con specifico
riferimento alla possibilità di escludere dall’applicazione
dei limiti previsti dall’art. 6, comma 7, le spese per
incarichi di consulenza “talmente specialistiche che
siano comunque al di fuori delle professionalità interne
all’amministrazione” (Corte dei Conti, Sezioni Riunite,
n. 50/2011).
Il Supremo Consesso della Magistratura contabile, la cui
esegesi riveste natura vincolante per tutte le sezioni
regionali di controllo della Corte dei Conti, ha ritenuto
che “il dettato normativo non sembra, in
considerazione dell’ampiezza della locuzione utilizzata,
consentire alcuna limitazione al novero delle consulenze
prese in esame ai fini della riduzione della spesa”. Del
resto, l’esclusione delle consulenze talmente specialistiche
da essere comunque al di fuori delle professionalità interne
all’Amministrazione –proseguono le Sezioni Riunite– “non
appare coerente con la disciplina dettata in materia
(articolo 7 del decreto legislativo 165/2001) che prevede,
espressamente, tra i presupposti per il ricorso a
collaborazioni, il preliminare accertamento
dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili all’interno dell’Amministrazione e la natura
temporanea e altamente qualificata della prestazione resa da
esperti di particolare e comprovata specializzazione”.
Ne deriva che il Comune di Cisano Bergamasco (BG) è tenuto a
rispettare il limite di spesa ex art. 6, comma 7, del d.l.
n. 78/2010, nel vigente quadro legale ed ermeneutico della
giurisprudenza costituzionale e contabile
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 18.04.2013 n. 157). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Progetti, incentivi limitati. Sono strumentali alla
realizzazione delle opere.
Dalla Corte conti della Campania una lettura restrittiva dei
bonus.
L'incentivazione ai dirigenti e dipendenti degli uffici
tecnici per la progettazione di strumenti urbanistici spetta
solamente se gli stessi sono strettamente connessi con la
realizzazione di opere pubbliche.
È questa l'indicazione
espressa col
parere 10.04.2013 n. 141 dalla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti della Campania:
siamo in presenza di una lettura assai restrittiva, che
limita significativamente l'ambito di applicazione delle
disposizioni dettate dall'articolo 92 del dlgs n. 163/2006,
codice degli appalti.
Si perviene a questa conclusione non sulla base del dato
letterale, ma della ratio della disposizione e del suo
inserimento nell'ambito di disposizioni che sono dettate per
l'incentivazione dell'apporto degli uffici tecnici alla
realizzazione di opere pubbliche. I giudici contabili
campani lasciano margini all'autonomia regolamentare delle
singole amministrazioni locali, ma chiariscono che essa può
essere esercitata esclusivamente su aspetti di dettaglio,
quindi senza potere stravolgere questo principio.
In modo
altrettanto netto essi chiariscono che si devono ritenere
esclusi dal tetto al fondo per le risorse decentrate, cioè
dal divieto di superare nel triennio 2011/2013 il suo
ammontare del 2010, tutte le incentivazioni previste da
questa disposizione, anche se i relativi oneri sono
sostenuti direttamente dalle amministrazioni.
Il parere ci dice espressamente che «l'attività di
pianificazione debba essere contestualizzata nell'ambito dei
lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità
con l'attività di progettazione di opere pubbliche». Si deve
pervenire a questa conclusione non sulla base di un dato
letterale, ma dell'inquadramento sistematico: «L'esclusivo
riferimento ai lavori pubblici dell'art. 90 dlgs 163/2006
induce a ritenere che l'art. 92 presuppone l'attività di
progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come
finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica
progettata».
Inoltre, viene evidenziato che «la citata latitudine
ermeneutica riconduce l'attività di pianificazione
nell'alveo di interventi pubblici o di opere di pubblico
interesse, in relazione alle quali l'ente agirà in veste di
stazione appaltante». E ancora «è di palmare evidenza come
il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis
siano ascrivibili solo alla materia dei lavori pubblici,
presupponendosi una procedura a evidenza pubblica
finalizzata alla realizzazione di un'opera di pubblico
interesse».
Occorre parlare al riguardo di «tassatività della
normativa». Il parere contiene un'apertura, anche se assai
ridotta, alla autonomia normative delle singole
amministrazioni locali: «Potrebbe comunque competere alla
fonte regolamentare prevista dall'art. 92, commi 5 e 6, del dlgs
n. 163/2006, definire l'esatta portata ermeneutica del
concetto di atto di pianificazione comunque denominato,
anche prevedendo un'elencazione delle fattispecie di
riferimento, che comunque tengano conto dell'alveo
interpretativo elaborato dalla giurisprudenza contabile»
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PATRIMONIO:
I proventi di una servitù di passaggio su un
terreno di proprietà comunale sono obbligatoriamente
ascrivibili al titolo III dell'entrata del bilancio (entrate
extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non
tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e
trasferimenti di capitale).
---------------
Con la nota indicata
in epigrafe il Sindaco del Comune di Casaletto Spartano
chiede a questa Sezione un parere in ordine alla possibilità
di acquisizione di un fabbricato “da destinare alla
collettività generale e da includere nel patrimonio degli
usi civici posseduti dal comune”, utilizzando somme
provenienti dal pagamento, da parte della Società Snam
progetti, della servitù di passaggio di un gasdotto
realizzato su terreni gravati da usi civici.
Il comune prosegue chiedendo se i proventi di cui alla
citata servitù possano essere iscritti al titolo IV della
parte entrate del bilancio di previsione, finanziando la
spesa, prevista al titolo II della parte spesa dello stesso
bilancio, per l’acquisizione dell’immobile predetto.
...
Premesso che la Sezione non può affrontare la complessa
questione attinente all’immobile relativamente alla
possibilità di essere o meno, lo stesso, incluso nel
patrimonio degli usi civici del comune, in quanto non in
possesso degli elementi utili alla sua risoluzione (essendo,
la materia degli usi civici, dettagliatamente disciplinata
da una specifica normativa di settore e da copiosa
giurisprudenza che varia in relazione alle concrete
situazioni specifiche e riguardando, in linea di massima,
provvedimenti amministrativi di tipo ricognitivo e non
costitutivo dell’uso), nel merito dei quesiti sottoposti
–possibilità di acquisizione dell’immobile in oggetto
utilizzando i proventi rimessi all’ente da una società,
quale corrispettivo della servitù per il passaggio su
terreni di sua proprietà, e iscrizione dei proventi stessi
nel titolo IV delle entrate– la stessa Sezione si esprime
nei seguenti termini.
Il d.leg. 18.08.2000, n. 267, T.U. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, e precisamente
l’articolo n. 199 del titolo IV –Investimenti-, prevede
quanto segue: “Fonti di finanziamento. 1. Per
l’attivazione degli investimenti gli enti locali possono
utilizzare:
a) entrate correnti destinate per legge agli investimenti;
b) avanzi di bilancio, costituiti da eccedenze di entrate
correnti rispetto alle spese correnti aumentate delle quote
capitali di ammortamento dei prestiti;
c) entrate derivanti dall’alienazione di beni e diritti
patrimoniali, riscossioni di crediti, proventi da
concessioni edilizie e relative sanzioni;
d) entrate derivanti da trasferimenti in conto capitale
dello stato, delle regioni, da altri interventi pubblici e
privati finalizzati agli investimenti, da interventi
finalizzati da parte di organismi comunitari e
internazionali;
e) avanzo di amministrazione, nelle forme disciplinate
dall’articolo 187;
f) altre forme di ricorso al mercato finanziario consentite
dalla legge.".
Considerato che le entrate che l’ente
intende utilizzare –proventi di una servitù di passaggio su
un terreno di sua proprietà– sono obbligatoriamente
ascrivibili al titolo III dell’entrata del bilancio (entrate
extratributarie), e quindi tra le entrate correnti, e non
tra le entrate del titolo IV (entrate da alienazioni e
trasferimenti di capitale),
ed escluso il caso in cui l’ente stesso non sia a conoscenza
di una specifica disciplina giuridica (correlata alla
situazione di fatto dell’immobile che solo esso è in grado
di conoscere e che sfugge invece a questa Corte, non avendo
essa la disponibilità degli elementi fattuali della
fattispecie concreta), che gli consenta di applicare la
lettera a) della normativa succitata –utilizzo di entrate
correnti destinate per legge agli investimenti-,
questa Sezione esprime parere negativo all’utilizzo
specifico dei proventi della servitù per l’acquisto
dell’immobile, ritenendo che non sia consentito, alla luce
di quanto esplicitamente espresso dalla normativa,
l’utilizzo di entrate correnti per l’attivazione di
qualsiasi investimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 28.02.2013 n. 25). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque reflue domestiche.
Domanda
Vorrei avere un'elencazione abbastanza esauriente delle
acque reflue assimilate alle acque reflue domestiche.
Risposta
L'articolo 101, comma 7, del decreto legislativo numero 152,
del 03.04.2006 -Testo unico ambientale (Tua)- dispone
che, ai fini della disciplina degli scarichi e delle
autorizzazioni, sono assimilate, ex lege, alle acque reflue
domestiche le acque reflue:
a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla
coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura;
b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame;
c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle
lettere a) e b) che esercitano anche attività di
trasformazione o di valorizzazione della produzione
agricola, inserita con carattere di normalità e
complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e
con materia prima lavorata proveniente in misura prevalente
dall'attività di coltivazione dei terreni di cui si abbia a
qualunque titolo la disponibilità;
d) provenienti da impianti di acquacoltura e di piscicoltura
che diano luogo a scarico e che si caratterizzino per una
densità di allevamento pari o inferiore a 1 kg per metro
quadrato di specchio d'acqua o in cui venga utilizzata una
portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto
secondo;
e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle
domestiche e indicate dalla normativa regionale;
f) provenienti da attività termali, fatte salve le
discipline regionali di settore.
Il dpr 19.10.2011, entrato in vigore il 18.02.2012, amplia sensibilmente il novero delle acque reflue
assimilate ex lege a quelle domestiche. Dispone detta norma:
1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 101 e
dall'allegato 5 alla Parte terza del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, sono assimilate alle acque reflue
domestiche:
a) le acque che prima di ogni trattamento depurativo
presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di
cui alla tabella 1 dell'allegato A;
b) le acque reflue provenienti da insediamenti in cui si
svolgono attività di produzione di beni e prestazione di
servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente
da servizi igienici, cucine e mense;
c) le acque reflue provenienti dalle categorie di attività
elencate nella tabella 2 dell'allegato A, con le limitazioni
indicate nella stessa tabella.
2. Fermo restando quanto
previsto dall'articolo 101, comma 7, lettera e), del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, in assenza di disciplina
regionale si applicano i criteri di assimilazione di cui al
comma 1. L'allegato A, al su riportato articolo 2, alla
tabella 2 elenca le attività che generano acque reflue
assimilate alle acque reflue domestiche. Esse sono:
1- Attività alberghiera, rifugi montani, villaggi turistici,
residence, agriturismi, campeggi, locande e simili
2- Attività
ristorazione (anche self-service), mense, trattorie,
rosticcerie, friggitorie, pizzerie, osterie e birrerie con
cucina
3- Attività ricreativa
4- Attività turistica non
ricettiva
5- Attività sportiva
6- Attività culturale
7- Servizi di
intermediazione monetaria, finanziaria, e
immobiliare
8- Attività informatica
9- Laboratori di parrucchiera
barbiere e istituti di bellezza con un consumo idrico
giornaliero inferiore a 1 m3 al momento di massima
attività
10- Lavanderie e stirerie con impiego di lavatrici ad
acqua analoghe a quelle di uso domestico e che
effettivamente trattino non più di 100 kg di biancheria al
giorno
11- Attività di vendita al dettaglio di generi
alimentari, bevande e tabacco o altro commercio al
dettaglio
12- Laboratori artigianali per la produzione di
dolciumi, gelati, pane. Biscotti e prodotti alimentari
freschi, con un consumo idrico giornaliero inferiore a 5 mc
nel periodo di massima attività.
13- Grandi magazzini,
solamente se avviene la vendita di beni con esclusione di
lavorazione di carni, pesce o di pasticceria, attività di
lavanderia e in assenza di grandi aree di parcheggio (articolo
ItaliaOggi Sette del 06.05.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Scheda Sistri.
Domanda
Il sistema di tracciabilità dei rifiuti (Sistri) comporta
adempimenti con risvolti penali?
Risposta
Il sistema della tracciabilità dei rifiuti, più noto con il
non propriamente acronimo Sistri, sarebbe dovuto entrare in
vigore, a pieno regime, quasi in contemporanea con il
decreto legislativo numero 205, del 2010. Il 25.12.2010 è entrato in vigore il citato decreto legislativo
numero 205, del 2010, che ha riscritto la parte IV del
decreto legislativo numero 152, del 2006.
Infatti, il testo
dell'articolo 258, del suddetto decreto legislativo numero
152, del 2006, è stato sostituito da una normativa che
prevede che la condotta tipica descritta è diversa da quella
prevista dalla norma del 2006, per cui applicando in modo
corretto le regole della successione di leggi penali nel
tempo previste dal codice penale non può essere considerata
come reato una condotta da essa difforme.
Ne consegue che il
trasporto di rifiuti pericolosi non senza scheda Sistri,
sarebbe stato punito dagli articoli 260-bis e ter del
decreto legislativo numero 152, del 2006, mentre il nuovo
comma 4 dell'articolo 258 del decreto legislativo numero
205, del 2010 sarebbe stato applicabile soltanto alla
ristretta categoria di soggetti agenti (titolari o legali
rappresentanti di imprese) non aderenti, per scelta, al
succitato Sistri.
Nel caso, il sistema sanzionatorio aveva
previsto la punizione, in sede penale, di qualsiasi
trasporto di rifiuti pericolosi e non senza scheda Sistri o
con scheda contenente false indicazioni, sia il trasporto di
rifiuti non pericolosi propri da soggetti che avessero
scelto di non aderire al Sistri senza formulario o con
formulario contenente false indicazioni. Ma il Sistri non è
entrato in vigore, tant'è che nel consiglio dei ministri del
15.06.2012, con il decreto legge «sviluppo», è stato
previsto il termine di dodici mesi a far tempo dal 30.06.2012, data dalla quale doveva diventare operativo a pieno
regime il sistema, per consentire i necessari accertamenti
sul funzionamento del Sistri.
Ora la Corte di cassazione,
sezione III penale, con la sentenza del 24.04.2012, numero
15732, ha affermato che la modifica normativa apportata
dalla legge 03.12.2010, n. 205, all'articolo 258 del decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, ha determinato il venire
meno della punibilità della condotta di trasporto di rifiuti
senza formulario o con formulario con dati incompleti o
inesatti, non più sanzionata penalmente in quanto non
riconducibile né alle previsioni del nuovo testo
dell'articolo 258 né alla fattispecie introdotta con
l'articolo 260-bis, che opera in riferimento alla scheda
Sistri e non ai precedenti formulari con la conseguenza che,
in applicazione dei principi fissati dall'articolo 2 del
codice penale, le condotte poste in essere devono essere
ritenute non più riconducibili all'ipotesi di reato
contemplate alla disciplina previgente (articolo
ItaliaOggi Sette del 06.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione senza opere.
Domanda
Un gruppo di privati ha ottenuto l'approvazione di un piano
di lottizzazione di un ampio terreno, su cui dovrà essere
realizzato un villaggio turistico. Dovrà essere firmata la
Convenzione di Lottizzazione, dopo di che intenderebbero
cedere le rispettive quote a un'impresa di costruzioni che
realizzerà il progetto, opere di urbanizzazione incluse. Si
chiede un parere su come vada inquadrata in chiave
tributaria la vendita.
Risposta
La cessione può essere considerata cessione di terreno
lottizzato, ai sensi dell'art. 67, 1° comma, lettera a) del
Tuir, anche se i cedenti non eseguiranno materialmente le
opere di urbanizzazione. Il perfezionamento della
lottizzazione sarà dato dalla firma della convenzione
urbanistica, mentre il momento di inizio della lottizzazione
si è avuto alla data di approvazione del piano (ris. n.
319/E/2008).
Per il calcolo della plusvalenza l'art. 68 del Tuir distingue a seconda che il terreno sia stato acquistato
a titolo oneroso o gratuito (situazione che, ovviamente, può
variare per ogni proprietario). Nel primo caso, il calcolo
della plusvalenza è dato dal corrispettivo percepito meno il
valore normale del terreno nel quinto anno anteriore
all'inizio della lottizzazione o delle opere; nel secondo è
più favorevole in quanto il valore normale del terreno va
assunto alla data di inizio della lottizzazione o delle
opere o della costruzione.
Da ciò consegue che, in questo secondo caso, se la cessione
avviene a breve distanza di tempo dalla data di inizio della
lottizzazione la plusvalenza sarà sostanzialmente pari a
zero; nel primo caso, invece, al fine di azzerarla si può
valutare l'opportunità di rivalutare il terreno in base a
una perizia riferita alla data dell'1 gennaio 2013, da
redigersi entro il 01.07.2013, pagando l'imposta sostituiva
del 4%, rateizzabile, ai sensi dell'art. 1, comma 473, legge
n. 218/2012 e dell'art. 7, 6° comma, legge n. 448/ 2001) (articolo ItaliaOggi
Sette del 06.05.2013). |
VARI:
Conservazione del mod. 730.
Domanda
Per quanti anni si devono conservare i modelli 730
presentati?
Risposta
Il modello 730 deve essere conservato fino al quarto
esercizio successivo all'anno di presentazione; quindi, ad
es., il mod. 730 del 2012 va conservato - unitamente alla
relativa documentazione (come ad es. il modello Cud, gli
scontrini parlanti per i farmaci acquistati, le ricevute e
le fatture delle spese mediche, le quietanze dei bonifici
bancari o postali eseguiti per le detrazioni del 36% per le
ristrutturazioni edilizie o per le detrazioni del 55% per
interventi di riqualificazione energetica; i modelli F24
attestanti i versamenti delle imposte) - fino al 31 dicembre
2016 e così via. Detto termine di conservazione può però, in
tutti quei casi in cui si ha diritto a quote di detrazione
fiscale frazionabili in più annualità (detrazione del 36%
per le ristrutturazioni e del 55% per le spese afferenti a
interventi per risparmio energetico) anche andare oltre il
quarto esercizio successivo all'anno di presentazione della
dichiarazione dei redditi, quindi, per stare all'esempio,
oltre il 2016. In questi casi la conservazione deve essere,
infatti, estesa fino alla fine del quinto esercizio
successivo a quello nel corso del quale è stata detratta
l'ultima quota della detrazione Irpef (articolo ItaliaOggi
Sette del 06.05.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L. n. 190/2012. Termine di approvazione del piano triennale
di prevenzione della corruzione per gli enti locali.
L'art. 1, comma 60, L. n. 190/2012,
prevede che entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore
della L. n. 190/2012 (28.11.2012), attraverso intese in sede
di Conferenza unificata di cui all'art. 8, comma 1, D.Lgs.
n. 281/1997, si definiscono gli adempimenti, con
l'indicazione dei relativi termini, delle regioni, delle
province autonome di Trento e di Bolzano e degli enti
locali, nonché degli enti pubblici e dei soggetti di diritto
privato sottoposti al loro controllo, volti alla piena e
sollecita attuazione delle disposizioni della L. n.
190/2012, con particolare riguardo, tra l'altro, alla
definizione del piano triennale di prevenzione della
corruzione e alla sua trasmissione alla regione interessata
e al Dipartimento della funzione pubblica.
Con nota del 21.03.2013, l'ANCI, nel rilevare, a tale data,
che, scaduto il suddetto termine di 120 giorni per
l'assunzione delle intese, in seno alla Conferenza
unificata, queste non sono ancora intervenute, si è espresso
per l'opportunità che gli enti territoriali definiscano,
nell'attesa, prime misure in materia di prevenzione della
corruzione, propedeutiche alla definizione del piano
triennale di prevenzione della corruzione.
Anche la CIVIT, con nota del 27.03.2013, a fronte della
mancata definizione delle intese e nell'attesa che queste
intervengano, ha espresso il proprio avviso per l'adozione,
da parte delle autonomie locali, se lo ritengono, del piano
triennale di prevenzione della corruzione, fatte salve le
successive integrazioni e modifiche.
Il Comune chiede un parere in ordine all'approvazione del
piano triennale di prevenzione della corruzione, di cui alla
L. n. 190/2012 [1],
in particolare se per gli enti locali valga la scadenza del
31.03.2013 (art. 1, comma 8, L. n. 190/2012 e art. 34-bis,
D.L. n. 179/2012 [2])
o se invece gli stessi debbano attendere che vengano
definiti gli adempimenti per gli enti territoriali,
attraverso le intese in sede di conferenza unificata di cui
all'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 281/1997 [3]
(art. 1, comma 60, L. n. 190/2012).
Ai sensi dell'art. 1, comma 8, L. n. 190/2012, l'organo di
indirizzo politico, su proposta del responsabile della
prevenzione della corruzione, entro il 31 gennaio di ogni
anno, adotta il piano triennale di prevenzione della
corruzione, curandone la trasmissione al Dipartimento della
funzione pubblica.
L'art. 34-bis, D.L. n. 179/2012, ha stabilito che, in sede
di prima applicazione, il termine di approvazione del piano
triennale della prevenzione della corruzione e della sua
trasmissione al Dipartimento della funzione pubblica è stato
differito al 31.03.2013.
Venendo al quesito del Comune e, dunque, al termine di
approvazione del piano triennale di prevenzione della
corruzione per gli enti locali, il suddetto Dipartimento
della funzione pubblica, con circolare n. 1/2013
[4], ha
affermato che le prescrizioni di cui ai commi da 1 a 57
dell'art. 1 si rivolgono a tutte le pubbliche
amministrazioni previste dall'art. 1, comma 2, D.Lgs. n.
165/2001, come chiarito espressamente dal comma 59 dell'art.
1 della legge, il quale precisa che le disposizioni di
prevenzione della corruzione sono attuazione diretta del
principio di imparzialità di cui all'art. 97 della
Costituzione. Pertanto, il campo di applicazione comprende
anche le regioni e gli enti locali.
Tuttavia, per le autonomie territoriali -precisa il
Dipartimento della funzione pubblica- rimane fermo quanto
stabilito dal successivo comma 60, ai sensi del quale, entro
120 giorni dalla data di entrata in vigore della L. n.
190/2012 (28.11.2012), attraverso intese in sede di
Conferenza unificata di cui all'art. 8, comma 1, D.Lgs. n.
281/1997, si definiscono gli adempimenti, con l'indicazione
dei relativi termini, delle regioni, delle province autonome
di Trento e di Bolzano e degli enti locali, nonché degli
enti pubblici e dei soggetti di diritto privato sottoposti
al loro controllo, volti alla piena e sollecita attuazione
delle disposizioni della L. n. 190/2012, con particolare
riguardo, per quanto qui di interesse, alla definizione del
piano triennale di prevenzione della corruzione e alla sua
trasmissione alla regione interessata e al DPF.
Al riguardo, l'ANCI, con nota del 05.02.2013, inviata ai
Sindaci [5],
evidenziando che gli adempimenti di interesse degli enti
locali sono definiti attraverso apposite successive intese
in Conferenza unificata, ha affermato che, pertanto, la
scadenza del 31.03.2013 per l'adozione del piano triennale
di prevenzione della corruzione non è riferita ai comuni.
L'Associazione di categoria ha, comunque, sottolineato
l'opportunità di procedere, nelle more dell'emanazione di
tali provvedimenti, alla nomina del responsabile della
prevenzione della corruzione.
Purtuttavia, scaduto, in data 27 marzo u.s., il termine di
120 giorni previsto per l'adozione di intese in sede di
Conferenza unificata, si rileva che, ad oggi, queste ultime
non sono state ancora assunte.
Con una nuova nota del 21.03.2013, l'ANCI, nel rilevare, a
tale data, la mancata definizione delle intese e nel farsi
cura di sollecitare i competenti Ministeri a procedere
all'insediamento dei tavoli tecnici in Conferenza, si è
espressa per l'opportunità che le Amministrazioni, nelle
more dell'adozione delle intese, in via prudenziale,
procedano a definire le prime misure in materia di
prevenzione della corruzione, propedeutiche alla definizione
del piano. A tal riguardo, l'ANCI ricorda il rilevante
apparato sanzionatorio che ricade in capo al responsabile
della prevenzione nel caso in cui all'interno dell'ente si
verifichi un reato di corruzione accertato con sentenza
passata in giudicato, e il responsabile della prevenzione
non possa dimostrare di aver predisposto, prima della
commissione del fatto, il piano e di aver vigilato sulla sua
applicazione ed osservanza (art. 1, comma 12, L. n. 190/2012
[6]).
L'ANCI, nella nota del 21 marzo, richiamata, dà, altresì,
indicazioni in relazione all'iter procedurale per l'adozione
del piano triennale di prevenzione della corruzione, che,
per espressa previsione di legge, deve essere redatto
secondo le indicazioni contenute nel Piano nazionale
anticorruzione (che dovrà essere predisposto dal
Dipartimento della Funzione Pubblica), secondo linee di
indirizzo adottate dal Comitato interministeriale istituito
e disciplinato con DPCM, e che verrà poi sottoposto
all'approvazione della CIVIT, in qualità di Autorità
nazionale per la corruzione [art. 1, comma 2, lett. b),
comma 4, lett. c), comma 6)]. Specificamente, essendo ad
oggi intervenute soltanto le linee di indirizzo del Comitato
interministeriale [7],
l'ANCI invita le Amministrazioni a far riferimento alle
previsioni di legge che definiscono le esigenze cui deve
rispondere il piano (art. 1, comma 9, L. n. 190/2012),
nonché ai contenuti minimi dei piani triennali di
prevenzione della corruzione definiti nelle Linee di
indirizzo del Comitato interministeriale, sottolineando che,
come in esse specificato, le stesse non hanno un carattere
stringente ed operativo per gli enti locali, ma dovranno da
questi essere 'recepite e adattate nei propri Piani'.
Anche la CIVIT, con nota del 27 marzo u.s., nell'osservare
che il Piano nazionale anticorruzione non è ancora stato
adottato e che, nell'attesa, le amministrazioni centrali e
gli enti nazionali, possono, se lo ritengono, adottare il
Piano triennale di prevenzione della corruzione, fatte salve
le successive integrazioni e modifiche per adeguarlo ai
contenuti del Piano nazionale anticorruzione come approvato
dalla Commissione, ha affermato che tali considerazioni
possono valere anche per le Regioni e gli enti locali,
specie dopo la scadenza del termine dei quattro mesi, di cui
all'art. 1, comma 60, L. n. 190/2012, entro cui sarebbero
dovute intervenire le intese in sede di Conferenza unificata
per definire gli adempimenti per gli enti territoriali.
Avuto riguardo a quanto espresso dall'ANCI e dalla CIVIT,
l'Ente potrà valutare, nella sua autonomia, l'opportunità di
procedere, intanto, nell'attesa che vengano raggiunte le
Intese di cui all'art. 1, comma 60, L. n. 190/2012, in seno
alla Conferenza unificata, all'approvazione di un piano
triennale di prevenzione della corruzione, che potrà poi
essere aggiornato una volta che verranno espressi gli
specifici indirizzi per gli enti territoriali.
---------------
[1] L. 06.11.2012, n. 190, recante: 'Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione'.
[2] D.L. 18.10.2012, n. 179, recante: 'Ulteriori misure
urgenti per la crescita del Paese', convertito con
modificazioni dalla L. 17.12.2012, n. 221.
[3] Ai sensi dell'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 281/1997, la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali è unificata per
le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni,
delle province, dei comuni e delle comunità montane, con la
Conferenza Stato-regioni.
[4] Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento
della funzione pubblica, Servizio studi e consulenza
trattamento del personale, circolare 25.01.2013, n. 1,
recante: 'legge n. 190 del 2012 - Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione'.
[5] Anci, prot. n. 11/SIP/AR/mcc-13, del 22.01.2013, Roma. A
tale data, l'ANCI, nell'osservare che, ai sensi dell'art. 1,
comma 6, L. n. 190/2012, ai fini della predisposizione del
piano triennale di prevenzione della corruzione, il
prefetto, su richiesta, fornisce il necessario supporto
tecnico e informativo agli enti locali, anche al fine di
assicurare che i piani siano formulati e adottati nel
rispetto delle linee guida contenute nel Piano nazionale
predisposto dalla Commissione interministeriale e approvato
dalla CIVIT, ha rilevato che il Piano nazionale non era
ancora stato elaborato.
[6] Ai sensi dell'art. 1, comma 12, in argomento, il
responsabile della corruzione sarebbe chiamato a rispondere
ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 165/2001, nonché sul piano
disciplinare, oltre che per il danno erariale e all'immagine
della pubblica amministrazione.
[7] In attuazione dell'art. 1, comma 4, L. n. 190/2012, con
DPCM del 16.01.2013, è stato istituito il Comitato
interministeriale per la prevenzione e il contrasto della
corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione,
che nella seduta del 21 marzo ha approvato le linee di
indirizzo per la definizione del Piano nazionale
anticorruzione
(06.05.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Realizzazione opere pubbliche su beni patrimoniali
indisponibili.
Per orientamento consolidato della
giurisprudenza, la disponibilità dei beni demaniali (e
similmente quella dei beni patrimoniali indisponibili) dello
Stato e di altre pubbliche amministrazioni, attesa la loro
destinazione alla diretta realizzazione di interessi
pubblici, può essere legittimamente attribuita ad un
soggetto diverso dall'ente titolare del bene solo mediante
concessione amministrativa, la cui struttura risulta dalla
convergenza di un negozio unilaterale ed autoritativo della
p.a. (provvedimento di concessione) e di una convenzione
attuativa di diritto privato, che pone diritti ed obblighi
in capo all'ente concedente ed al concessionario.
Qualora, nell'ambito della concessione, l'ente pubblica
conceda l'uso dell'area demaniale, o patrimoniale
indisponibile, con facoltà per il concessionario di
procedere alla costruzione di un manufatto, il diritto del
concessionario si atteggia quale diritto di superficie, per
cui colui che costruisce acquista la proprietà della
costruzione soprastante il suolo (art. 952, c.c.).
In particolare, il diritto di proprietà del soggetto che
costruisce (superficiario) si configura diritto di
consistenza reale ma temporaneo, in quanto ha la stessa
(limitata) durata della concessione del bene demaniale (o
patrimoniale indisponibile) e si estingue, a norma dell'art.
953, c.c., con la revoca della concessione o per la scadenza
del termine di durata della stessa, con incremento per
accessione della proprietà del 'domimus soli'. Gli effetti
dell'accessione automatica non possono essere derogati
dall'autonomia negoziale delle parti.
Ai sensi dell'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001, è
possibile espropriare un bene appartenente al patrimonio
indisponibile dello Stato o di altri enti pubblici solo per
perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a
quello soddisfatto con la precedente destinazione.
Il Comune chiede alcuni chiarimenti in ordine alla procedura
da seguire per la realizzazione di un'opera pubblica (pista
ciclabile) su un argine di canale che risulta appartenere ad
un ente pubblico economico, con specifico riguardo
all'istituto giuridico utilizzabile, tenuto conto che la
nuova costruzione non verrebbe ad inficiare l'utilizzo
pubblico già in corso.
Si ritiene utile per la disamina del quesito posto dal
Comune muovere da alcune considerazioni sulla natura
dell'argine.
Nel nostro ordinamento, le acque pubbliche fanno parte del
demanio necessario (idrico) dello Stato. L'art. 822, c.c.,
prevede, infatti, che 'appartengono allo Stato e fanno
parte del demanio pubblico... i fiumi, i torrenti, i laghi e
le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia'
[1].
La giurisprudenza ha chiarito che la demanialità dei corsi
d'acqua pubblici (nel caso esaminato dalla Corte si trattava
di un fiume), prevista dalla disposizione codicistica,
comporta la demanialità dell'alveo ('principio di
inseparabilità tra acqua ed alveo') [2]
ed, altresì, che l'alveo è la parte di terreno coperta dal
fiume con le piene ordinarie, affermando che 'fanno parte
del demanio idrico, perché rientrano nel concetto di alveo,
le sponde e le rive interne dei fiumi, cioè le zone soggette
ad essere sommerse dalle piene ordinarie'. Per contra,
invece, 'le sponde e le rive esterne, che possono essere
invase dalle acque solo in caso di piene straordinarie,
appartengono ai proprietari dei fondi rivieraschi'
[3].
Per quanto concerne, specificamente, gli argini, la
giurisprudenza ha chiarito che anch'essi sono una parte
dell'alveo e, precisamente, quella porzione che vale a
delimitarla, con la conseguenza che il terreno posto dal
lato dove scorre il fiume e che resta coperto dalle piene
ordinarie è soggetto al regime del demanio, mentre il resto
è suscettibile di privata appartenenza [4].
Nel caso di specie, viene in considerazione l'argine per la
parte esterna, il quale risulta appartenere ad un ente
pubblico economico non commerciale costituito da proprietari
privati e attualmente interessato da un'opera pubblica
diretta al soddisfacimento di un pubblico interesse.
Ai sensi dell'art. 830, comma secondo, c.c., ai beni
appartenenti agli enti pubblici non territoriali che sono
destinati a un pubblico servizio si applica la disposizione
di cui all'art. 828, comma secondo, c.c., in base alla quale
i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non
possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei
modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.
Da una lettura combinata degli artt. 830 e 828, comma
secondo, c.c., risulta la riconducibilità dei beni
appartenenti agli enti pubblici non territoriali al
patrimonio indisponibile in quanto destinati a soddisfare un
pubblico servizio [5].
Venendo al caso di specie, posta l'appartenenza dell'argine
ad un ente pubblico economico e il suo attuale utilizzo
pubblico, si può affermarne la natura di bene patrimoniale
indisponibile (artt. 830 e 828, comma secondo, c.c.).
Un tanto premesso, si passa ora ad esaminare la questione
posta dal Comune circa la procedura da seguire per la
realizzazione della nuova opera pubblica, tenuto conto di
quanto lo stesso precisa sul fatto che questa non verrebbe a
compromettere l'utilizzo pubblico in corso, che anzi
potrebbe essere migliorato.
Ai sensi dell'art. 823, c.c., i beni che fanno parte del
demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare
oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei
limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano: norma dalla
quale si è tratto che la disponibilità dei beni demaniali (e
similmente quella dei beni patrimoniali indisponibili) dello
Stato e di altre pubbliche amministrazioni, attesa la loro
destinazione alla diretta realizzazione di interessi
pubblici, può essere legittimamente attribuita ad un
soggetto diverso dall'ente titolare del bene solo mediante
concessione amministrativa [6].
Circa la struttura del provvedimento in questione, questo
risulta dalla convergenza di un negozio unilaterale ed
autoritativo della p.a. (provvedimento di concessione) e di
una convenzione attuativa di diritto privato, che pone
diritti ed obblighi in capo all'ente concedente ed al
concessionario [7],
ma la cui efficacia è subordinata al provvedimento
amministrativo, unilateralmente revocabile da parte della
p.a. per sopravvenuta incompatibilità con il pubblico
interesse [8].
Nel caso in esame, l'ente pubblico economico, proprietario
dell'argine, potrà utilizzare lo strumento della concessione
per attribuire diritti al Comune istante in relazione
all'utilizzo dell'argine. In ogni modo, gli aspetti relativi
alla disciplina della concessione -onerosità, salvaguardia
dell'interesse pubblico cui il bene è destinato (che l'Ente
riferisce non verrebbe intaccato dalla nuova opera)- possono
essere oggetto di regolamentazione da parte dell'ente
pubblico del cui patrimonio indisponibile l'argine fa parte.
Nell'ambito della concessione, l'ente pubblico economico
potrebbe concedere al Comune l'uso dell'argine per un
determinato periodo di tempo, con riconoscimento al Comune
medesimo del diritto di costruire un'opera al di sopra
dell'argine. In tal caso, non vi è dubbio che il diritto del
(Comune) concessionario avrebbe elementi identici al diritto
di superficie [9],
per cui colui che costruisce acquista la proprietà della
costruzione soprastante il suolo (proprietà superficiaria,
art. 952, c.c.) [10].
Con riferimento a quest'ultimo aspetto, corre, tuttavia,
l'obbligo di evidenziare le considerazioni della
giurisprudenza relative al diritto di superficie su suolo
demaniale (e che possono tornare utili anche con riferimento
ai beni del patrimonio indisponibile). Per il Giudice di
legittimità [11],
il diritto di proprietà del soggetto che costruisce
(superficiario) si configura diritto di consistenza reale ma
temporaneo, in quanto ha la stessa (limitata) durata della
concessione del bene demaniale (nel caso di specie,
patrimoniale indisponibile) e si estingue, a norma dell'art.
953, c.c., con la revoca della concessione o per la scadenza
del termine di durata della stessa, con incremento per
accessione della proprietà del 'domimus soli'
[12]:
pertanto, nel caso prospettato, la proprietà della nuova
opera passerebbe all'ente pubblico economico proprietario
dell'argine. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato il
principio secondo cui non è consentito all'autonomia
negoziale delle parti derogare agli effetti dell'accessione
automatica in favore del proprietario del suolo (nel caso di
specie, l'ente pubblico economico) che si determina all'atto
di estinzione del diritto di superficie [13].
Il Comune pone un ulteriore quesito in ordine alla
definizione di un interesse pubblico superiore ai sensi
dell'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001.
L'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001 [14],
tratta della possibile espropriazione dei beni pubblici in
regime di patrimonio indisponibile. Secondo il codice
civile, infatti, tali beni non possono essere sottratti alla
loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che
li riguardano (art. 828, comma secondo, c.c.). Tuttavia, per
l'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001, è possibile
espropriare un bene appartenente al patrimonio indisponibile
dello Stato o di altri enti pubblici solo per perseguire un
interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto
con la precedente destinazione.
Ricorrendo la condizione per cui l'interesse pubblico da
perseguire è superiore a quello precedentemente soddisfatto,
la destinazione ad un uso pubblico del bene patrimoniale
indisponibile, osserva la dottrina, non solo non viene meno
per effetto dell'ablazione, ma è addirittura rafforzata,
ponendosi il bene al servizio di interessi superiori a
quelli già soddisfatti con la precedente destinazione
[15].
Peraltro, osserva ancora la dottrina [16],
il testo unico non disciplina il procedimento attraverso cui
valutare comparativamente l'interesse alla espropriazione
del bene pubblico con quello al mantenimento della
destinazione attuale. Dalla lettura della giurisprudenza
rinvenuta risulta che l'avvio della procedura ablatoria, da
parte dell'amministrazione interessata, avviene mediante
approvazione del progetto dell'opera pubblica da realizzare
e che compete al Giudice l'accertamento (su contenzioso
instaurato dal soggetto espropriato) della prevalenza
dell'interesse pubblico sotteso alla nuova opera rispetto
alla precedente destinazione dei beni pubblici espropriati
[17].
---------------
[1] I beni del demanio idrico fanno parte del demanio
naturale necessario dello Stato, sono cioè beni che non
possono non appartenere allo Stato (cfr. A. Torrente, P.
Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè,
1985, p. 140).
[2] C. Cass., sez. un., 06.11.1998, n. 11211.
[3] C. Cass., sez. un., 18.12.1998, n. 12701. Nello stesso
senso, Tribunale superiore delle acque, 20.03.1996, n. 32,
il quale, con riferimento alla previsione codicistica di cui
all'art. 822, c.c., afferma che fiumi, torrenti ed altri
corsi d'acqua sono individuati dal loro alveo, intendendosi
come tale lo spazio che le acque fluenti giungono a coprire
nelle condizioni di piena ordinaria.
[4] Tribunale superiore delle acque, 20.03.1996, n. 32.
Nello stesso senso, Trib. Sup. acque, 20.10.1992, n. 79,
secondo cui ai sensi dell'art. 934, c.c., la proprietà
dell'alveo del lago e cioè del terreno sotto l'acqua o
ricoperto dall'acqua durante le piene ordinarie appartiene
al proprietario dello stagno o del lago, nella specie il
demanio. Mentre, il terreno circostante un lago, che si
trovi sopra il livello dell'acqua nelle piene ordinarie,
ricoperto solo dalle piene straordinarie, è di proprietà
privata.
[5] C. Cass., sez. un., 14.11.2003, n. 17295; C. Cass.,
09.04.1998, n. 3667; C. Cass., 28.08.2002, n. 12608.
[6] C. Cass., 26.04.2000, n. 5346; C. Cass., sez. un.,
01.07.2009, n. 15378 e C. Cass. 02.03.1989, n. 1161, in
relazione ai beni facenti parte del patrimonio
indisponibile.
[7] C. Cass. 14.08.1998, n. 8045.
[8] C. Cass., 08.09.1983, n. 5527.
[9] Comm. trib. reg. Firenze, sez. XVI, 22.09.2011, n. 48.
[10] Cfr. C. Cass. n. 1718/2007 e n. 4402/1998, relative
alla costituzione di un diritto di superficie nell'ambito di
una concessione demaniale.
[11] C. Cass., sez. un., 13.02.1997, n. 1324.
[12] C. Cass., sez. un., 13.02.1997, n. 1324, che richiama,
sul punto, C. Cass., 28.02.1969, n. 670.
[13] C. Cass., 27.02.1980, n. 1369, relativa alla
concessione di area demaniale con facoltà per il
concessionario di procedere alla costruzione di un
manufatto.
[14] D.P.R. 08.06.2001 n. 327, recante: 'Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità'.
[15] Paolo Pirruccio, L'espropriazione per pubblica utilità.
Procedimento amministrativo e contenzioso giurisdizionale,
Cedam, 2011, p. 68.
[16] Cfr. Francesco Caringella e Giuseppe De Marzo, Il nuovo
diritto amministrativo, L'espropriazione per pubblica
utilità, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 49-50. Per gli autori,
preso atto che non è chiaro chi e in che modo si stabilisce
la prevalenza dell'interesse pubblico, si può ipotizzare una
iniziativa del promotore della espropriazione volta ad
attivare il procedimento in cui si valuti se sottrarre il
bene alla destinazione attuale, in funzione del
soddisfacimento del diverso interesse sotteso alla procedura
ablatoria. Si può poi ipotizzare sia un atto autonomo, di
sottrazione del bene alla attuale destinazione, sia la
evidenziazione della prevalenza dell'interesse perseguito
con la procedura di espropriazione in sede di dichiarazione
di pubblica utilità (Cfr. Francesco Caringella e Giuseppe De
Marzo, Il nuovo diritto amministrativo, L'espropriazione per
pubblica utilità, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 49-50).
[17] Cfr. TAR Puglia, n. 2079/2008 e Cons. St., n.
2047/2010, in cui i Giudici amministrativi si pronunciano su
un ricorso proposto da un Consorzio per l'annullamento delle
deliberazioni del C.I.P.E. recanti approvazione del progetto
definitivo e preliminare del raddoppio di una tratta
ferroviaria, e di tutti i provvedimenti presupposti,
connessi e conseguenti. Il Consorzio, nel caso di specie,
contesta l'avvio della procedura ablatoria promossa per
realizzare un'opera approvata da un'altra amministrazione,
cui avrebbe fatto seguito l'espropriazione di alcuni
immobili appartenenti al patrimonio indisponibile del
Consorzio stesso, deducendo, tra le altre censure, la
violazione dell'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 327/2001
(30.04.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
La centrale unica di committenza si sostituisce al singolo
comune.
Domanda
La centrale unica di committenza in vigore dal 01.04.2013
per i Comuni non superiori ai 5.000 abitanti, lascia
inalterata la possibilità di ricorrere -per il singolo
Comune- alle disposizioni di cui all'art. 125 del Codice
dei Contratti in tema di lavori e forniture di beni e
servizi in economia? Oppure, anche per i lavori, beni e
servizi di importo inferiore ai 40.000 Euro è obbligatorio
ricorrere alla centrale unica di committenza?
Risposta
L'art. 33, comma 3-bis, D.Lgs. 12-04-2006, n. 163 stabilisce
che "I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti
ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano
obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza
l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito
delle unioni dei comuni, di cui all'art. 32, D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un
apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e
avvalendosi dei competenti uffici. In alternativa, gli
stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti
attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da
altre centrali di committenza di riferimento...".
E' evidente che la centrale di committenza o il consorzio si
sostituiscono al singolo comune nell'espletamento di tutte
le gare e, quindi, anche di quelle informali relative alle
procedure in economia di cui all'art. 125 D.Lgs.
12.04.2006, n. 163. Infatti, non può ritenersi autorizzata
una lettura limitativa della norma, là dove stabilisce che i
comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti
"affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di
committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture",
utilizzando l'espressione più ampia.
Inoltre, l'accentramento nelle mani della centrale di
committenza o di un consorzio consente -in generale- un
risparmio di spesa e la possibilità di ottenere prezzi più
convenienti per la P.A., trattando la centrale per una
pluralità di enti (26.04.2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Applicazione dell'art. 26, comma 3, della L. 488/1999 ai
comuni montani con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Le disposizioni previste dall'art. 26,
comma 3, della L. 488/1999 -che stabiliscono, per i comuni
con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti e per i comuni
montani con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti,
l'inapplicabilità dell'obbligo di ricorrere alle convenzioni
Consip ovvero di utilizzarne i parametri di prezzo-qualità,
come limiti massimi, per l'acquisizione di beni e servizi-
pur risultando tuttora vigenti, sembrano, tuttavia, essere
state superate dalle norme successivamente approvate,
caratterizzate da un sempre più vincolante obbligo di
ricorso al sistema del mercato elettronico e delle
convenzioni.
L'Ente istante chiede di sapere se le disposizioni previste
dall'art. 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, siano
tuttora applicabili ai comuni con popolazione al di sotto
dei 1.000 abitanti e ai comuni montani con popolazione
inferiore ai 5.000 abitanti e se ciò determini che, per gli
stessi, non viga l'obbligo di ricorso alle convenzioni
Consip o all'utilizzo dei parametri prezzo-qualità
ricavabili da queste.
La normativa citata stabilisce che non si applica ai comuni
sopra menzionati l'obbligo di ricorrere alle convenzioni
Consip, ovvero di utilizzarne i parametri di prezzo-qualità,
come limiti massimi, per l'acquisizione di beni e servizi,
anche con procedure telematiche di acquisto.
Tali disposizioni, oggetto di modifica nel 2003 e nel 2004
[1], pur
risultando tuttora vigenti, appaiono essere tuttavia
superate dalle norme successivamente approvate,
caratterizzate da un sempre più vincolante obbligo di
ricorso al sistema del mercato elettronico e delle
convenzioni. Come rilevato dalla Corte dei conti
[2],
attesa l'evidente natura vincolistica dei recenti interventi
che hanno profondamente innovato il quadro normativo
relativo agli acquisti di beni e servizi della P.A., è
necessario effettuare un'interpretazione rigorosa di dette
disposizioni tale da non eludere i principi informatori alle
stesse sottesi.
Si richiama l'attenzione, in particolare, su quanto previsto
dai commi 449 e 450 dell'art. 1 della legge 27.07.2006, n.
296 [3],
per gli acquisti sopra e sotto soglia compiuti dalle
pubbliche amministrazioni, indipendentemente dalla
dimensione demografica delle stesse.
Il comma 449, secondo periodo, richiede a tutte le
amministrazioni pubbliche non statali e diverse dagli enti
del Servizio sanitario nazionale, di ricorrere alle
convenzioni-quadro ovvero di utilizzare i parametri
qualità-prezzo, da queste desumibili, come limiti massimi
per la stipulazione dei contratti.
Il comma 450, secondo periodo, stabilisce l'obbligo per le
amministrazioni pubbliche non statali, fermo restando quanto
previsto al comma 449, di ricorrere, per l'acquisizione di
beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria,
al mercato elettronico della pubblica amministrazione (MEPA),
ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi
dell'art. 328 del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 o al sistema
telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di
riferimento per lo svolgimento delle relative procedure.
Si rileva, inoltre, che l'art. 1, comma 7, del decreto legge
06.07.2012, n. 95, stabilisce una disciplina speciale per l'approvigionamento
di beni -quali energia elettrica, gas, carburanti,
combustibili per riscaldamento e telefonia- che non sembra
ammettere deroghe o procedure particolari per i piccoli
comuni. Tali modalità di acquisto si applicano a tutte le
amministrazioni pubbliche e alle società inserite nel conto
economico della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istat ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009,
n. 196.
Si osserva, infine che, per i comuni con popolazione pari o
inferiore a 3.000 abitanti, l'art. 4 della legge regionale
09.03.2012, n. 3, letto in combinazione con l'art. 33, comma
3-bis, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice
dei contratti pubblici), prevede un regime particolare per
gli acquisti, stabilendo che questi, dal 01.10.2013
[4],
vadano compiuti attraverso un'unica centrale di committenza
ovvero, in alternativa, per le sole acquisizioni di beni e
servizi, tramite strumenti elettronici gestiti da altre
centrali di committenza (ivi compresi le convenzioni-quadro
ed il MEPA).
Pertanto, in Friuli Venezia Giulia, per tali comuni (a
prescindere dalla loro natura montana) l'obbligo di
avvalersi delle convenzioni Consip e di ricorrere al MEPA
per le acquisizioni di beni e servizi trova applicazione
quale possibile alternativa al ricorso ad un'unica centrale
di committenza costituita nell'ambito delle forme
associative di cui alla legge regionale 09.01.2006, n. 1
[5].
---------------
[1] L'art. 26,
comma 3, della L. 488/1999, è stato dapprima sostituito
dall'art. 3, comma 166, della legge 24.12.2003, n. 350 e
successivamente dall'art. 1 del decreto legge 12.07.2004, n.
168, convertito con modifiche dalla legge 30.07.2004, n.
191.
[2] Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, parere
21.03.2013, n. 89.
[3] Nel testo risultante dalle modifiche apportate prima dal
decreto legge 07.05.2012, n. 52 (convertito con
modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94) e
successivamente dalla legge 24.12.2012, n. 228.
[4] Termine previsto dalla legge regionale 08.04.2013, n. 5
che posticipa quello del 1° aprile antecedentemente
stabilito. Per ulteriori considerazioni sui cambiamenti
apportati da tale legge all'art. 4 della legge regionale
09.03.2012, n. 3, si veda la nota prot. n. 11716/P dd.
11.04.2013 di questo Servizio inviata a tutti gli enti
locali della Regione.
[5] Sull'applicazione in Friuli Venezia Giulia delle norme
sulle centrali di committenza, si veda la nota prot. n. 8437
dd. 14.03.2013 di questo Servizio, inviata a tutti gli enti
locali della Regione prima dell'approvazione della novella
di cui alla precedente nota
(18.04.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
APPALTI: DECRETO
PAGAMENTI/
Via libera al Durc retrodatato. Sarà rilasciato prima della
compensazione effettiva. I
principali emendamenti approvati e i nuovi presentati.
La retrodatazione del Documento unico di regolarità
contributiva (Durc) diventa realtà. Le imprese che abbiano
chiesto la compensazione del credito con la pubblica
amministrazione potranno infatti il ottenere il Durc, nel
momento in cui risultano idonee a poter richiedere la
compensazione e non più nel momento in cui la compensazione
diviene effettiva. Ciò consentirà loro di partecipare alle
gare d'appalto (per le quali è necessario essere in possesso
del Durc) immediatamente, senza dunque attendere l'effettiva
compensazione. Prevista poi anche la creazione di una
anagrafe della spesa per la pubblica amministrazione. Gli
enti saranno infatti tenuti a comunicare al Ministero
dell'economia e delle finanze l'elenco sia dei debiti sia
dei crediti di cui sono titolari, esattamente come qualsiasi
contribuente.
Questo il contenuto dei principali emendamenti
al dl pagamenti (35/2013) approvati durante la seduta della
Commissione bilancio alla Camera di giovedì 9 maggio.
Il Durc. In base a quanto previsto nella prima stesura dal
dl 35, le imprese per poter ottenere il Durc non solo
dovevano poter aver accesso alla compensazione, ma dovevano
aspettare che essa diventasse effettiva. Con questo
meccanismo, i tempi medi stimati per ottenere il Durc erano
tra i 12 e i 18 mesi. Con la conseguenza che le imprese, in
mancanza del Documento, sarebbero state costrette a
sospendere l'attività.
L'emendamento all'art. 6, proposto
dai relatori al decreto pagamenti, Maurizio Bernardo (Pdl) e
Marco Causi (Pd), ribalta il meccanismo. In base alle
modifiche apportate, le imprese potranno ottenere il
Documento unico di regolarità contributiva dal momento in
cui ricevono il via libera alla possibilità di compensare,
ovvero nel momento in cui il rapporto di debito credito
viene certificato.
Il fatto che poi, materialmente, la
compensazione effettiva si completi in 12 o 18 mesi, non è
più un fattore determinante per ottenere il Durc. Sempre per
quel che riguarda la certificazione del credito, è stato
approvato anche un emendamento all'art. 9, con il quale ha
ottenuto il via libera l'apposito modulo di certificazione
del credito previsto dal ministero dell'economia.
L'anagrafe della spesa. Via anche al regime di monitoraggio
dei debiti scaduti delle pubbliche amministrazioni nei
confronti dei propri fornitori. Con un emendamento all'art.
7 è stato infatti previsto che ogni anno, a partire dal 01.01.2014, entro il 30 aprile, le p.a. dovranno
comunicare attraverso l'apposita piattaforma telematica
tutti i debiti scaduti e non ancora pagati alla data del 31
dicembre precedente. Ai dirigenti delle pubbliche
amministrazioni che risulteranno inadempienti o che
adempiranno con ritardo, saranno applicate le relative
sanzioni.
Soddisfatto del risultato ottenuto con
l'approvazione dell'emendamento a sua firma è Enrico Zanetti
(Scelta Civica), secondo il quale «con questo meccanismo
avremo nel tempo un quadro certo e aggiornato dei debiti che
le pubbliche amministrazioni non avranno onorato nei tempi
previsti, assicurando così che futuri piani di pagamento
degli arretrati possano avvenire con procedure immediate». A
tal fine, è stato approvato un altro emendamento all'art. 6,
in base al quale le associazioni di categoria potranno
stipulare delle convenzioni con il ministero dell'economia,
tramite le quali esse stesse potranno fornire al dicastero
le informazioni circa la situazione debitoria in cui versa
la pubblica amministrazione.
Termini per i controlli. Sono stati infine approvati due
emendamenti aventi ad oggetto dei termini perentori. Il
primo emendamento, previsto per l'art. 2, sposta dal 30
giugno al 31 luglio il termine ultimo entro il quale il
ministero dell'economia potrà effettuare i controlli sui
singoli enti circa l'effettivo utilizzo in compensazione
delle risorse finanziarie elargite. Il secondo, presentato
per l'art. 6, stabilisce in 30 giorni il termine per la p.a.
per effettuare i pagamenti alle imprese o i professionisti.
Gli emendamenti dei relatori.
L'iter del dl pagamenti non è però ancora giunto al termine.
I relatori, dopo l'incontro avvenuto ieri con i
rappresentanti del Governo e della Ragioneria dello Stato,
hanno infatti presentato un fascicolo di 28 emendamenti, ai
quali possono essere presentati sub emendamenti entro le 11
di oggi.
Tra i più importanti, quelli che vertono sulla questione
dell'ampliamento del patto di stabilità ai comuni virtuosi,
sull'ampliamento delle compensazioni (si veda altro articolo
in pagina) e sulla partecipazione delle società in house al
meccanismo delle compensazioni
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Enti
locali. Le regole per le progressioni
IL CASO RISOLTO/
Contratti di lavoro.
Nei Comuni no a promozioni automatiche.
Le progressioni orizzontali o economiche devono essere
corrisposte in modo selettivo, così da premiare il merito;
devono basarsi sulla valutazione, con riferimento di regola
a quella dell'ultimo triennio, e possono essere erogate
esclusivamente ad una quantità limitata di dipendenti.
Sono
queste le principali indicazioni dettate dal Dlgs 150/2009
ed entrate in vigore l'01.01.2010. In precedenza l'Aran
ha ritenuto che comunque le progressioni orizzontali
dovessero in ogni caso essere erogate in modo selettivo e
premiando il merito. Ed ancora che i destinatari non
potessero comunque essere contemporaneamente tutti i
dipendenti o la stragrande maggioranza di essi, anche se dal
2003 è stato abrogato il tetto numerico del codiddetto
baricentro ed è rimasto solamente quello del finanziamento
esclusivamente tramite la parte stabile del fondo.
Tale tesi
è fatta propria dagli ispettori della Ragioneria Generale
dello Stato ed è stata ripresa dalla Corte dei Conti della
Basilicata. La stessa sezione giurisdizionale lucana ha
inoltre censurato la scelta di un ente di prevedere il
ricorso al criterio della anzianità come elemento essenziale
di scelta. Si deve inoltre ricordare che il Ccnl limita la
possibilità di partecipare alle progressioni ai dipendenti
che hanno una anzianità minima di almeno 2 anni nella
posizione economica.
Tali indicazioni -sulle quali ci chiede lumi Luigi Tortora,
relativamente alle promozioni da lui definite «automatiche»
al Comune di Casamarciano (Napoli)- vanno in direzione
completamente diversa rispetto a quanto avvenuto nella
stragrande, per lo meno, maggioranza degli enti locali e,
più in generale, delle Pa. Generalmente, soprattutto nei
primi anni 2000, si è infatti scelto di erogare la
progressione orizzontale a tutti o quasi i dipendenti; il
più delle volte si è approdato a tale esito stanziando
risorse che finanziano in modo assai massiccio il ricorso a
questo istituto e limitandosi a prevedere il superamento di
un punteggio minimo.
Peraltro, nella stragrande maggioranza
degli enti locali i criteri di valutazione sono stati
oggetto di contrattazione, in quanto allegati al contratto
collettivo decentrato integrativo. Tali scelte determinano
la violazione delle previsioni dettate dal Ccnl 31.03.1999. Inoltre, molto spesso si assegna un punteggio sia alla
anzianità che alla mera frequenza di corsi di formazione,
introducendo in tal modo meccanismi di automaticità che
cozzano con le previsioni contrattuali, le quali
privilegiano comunque criteri selettivi. Non si deve inoltre
dimenticare che la decorrenza retroattiva delle progressioni
è da considerare illegittima, anche nel caso in cui la
contrattazione decentrata arrivi tardivamente.
Sulla base di queste indicazioni si deve ritenere, in modo
assai rafforzato dallo 01.01.2010, che le progressioni
orizzontali riconosciute a tutti i dipendenti di una stessa
categoria sollevino numerosi dubbi di legittimità e che
comunque occorre garantire che solamente una quota limitata
di personale possa ricevere il beneficio in oggetto. Sta
alla contrattazione decentrata individuare cosa
concretamente si debba intendere come quota limitata di
possibili beneficiari, ovviamente senza stravolgere la
chiara indicazione legislativa, per la quale questo
strumento deve essere inteso come un premio per i dipendenti
che hanno avuto le migliori performance e non come una sorta
di scatto periodico del trattamento economico fondamentale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Appalti, la metà sarà verde.
Dal 2014
Appalti pubblici da aggiudicare con criteri premianti per le
offerte migliori sotto il profilo ambientale. Entro il 2014
qualificare come «verde» il 50% degli appalti cui si
applicano i criteri ambientali minimi.
Sono queste alcune
delle indicazioni contenute nel decreto 10.04.2013
siglato dall'ex ministro Corrado Clini che rivede, per
l'anno 2013, il Piano d'azione per la sostenibilità
ambientale dei consumi nel settore della pubblica
amministrazione (varato nel 2008), pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 03.05.2013, n. 10.
La premessa
dell'intervento risiede nella consapevolezza dell'importanza
di un migliore uso degli appalti pubblici a sostegno di
obiettivi politici e sociali dell'Unione europea, come
risulta anche da diverse comunicazioni europee del 2010 e
2011. In quest'ottica assume particolare interesse il
capitolo in materia di «appalti verdi e criteri ambientali
minimi», che fornisce indicazioni per l'applicazione, negli
appalti pubblici, degli elementi di valutazione ambientale
all'interno del criterio di aggiudicazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa.
I criteri ambientali minimi
(Cam) consistono in indicazioni specifiche, applicabili per
gli appalti sopra e sotto la soglia comunitaria in diversi
settori (arredi, edilizia gestione dei rifiuti, servizi
urbani, servizi energetici, elettronica, prodotti tessili,
cancelleria, ristorazione, servizi di gestione degli edifici
e trasporti). Per la fase di selezione, per esempio, si fa
riferimento alla opportunità di «selezionare gli
offerenti in base alla loro capacità tecnica di assicurare
migliori prestazioni ambientali»; per la fase di
aggiudicazione si ipotizzano criteri premianti con i quali
valutare le offerte che offrono prestazioni o soluzioni
tecniche più avanzate rispetto alle caratteristiche definite
nel capitolato.
Il decreto sottolinea come le stazioni appaltanti per
qualificare «verde» una procedura devono recepire
almeno le prescrizioni tecniche, le clausole e le condizioni
di esecuzione e selezione dei candidati previsti nei decreti
attuativi del piano di azione
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
L'art. 45 del Tuel non si estende alla sospensione del primo
cittadino.
Sindaci sostituiti dai vice.
La surroga si applica solo ai consiglieri.
L'istituto della surroga provvisoria del consigliere
comunale, disciplinato dall'art. 45 del dlgs n. 267/2000, è
applicabile anche all'ipotesi della sospensione del sindaco,
disposta ai sensi dell' art. 59 del dlgs citato?
L'art. 45 del dlgs n. 267/2000, al comma 2, dispone che «nel
caso di sospensione di un consigliere ai sensi dell'art. 59,
il consiglio procede alla temporanea sostituzione affidando
la supplenza per l'esercizio delle funzioni di consigliere
al candidato della stessa lista che ha riportato, dopo gli
eletti, il maggior numero di voti».
Tuttavia, la fattispecie in questione, relativa alla
sospensione del sindaco, non ricade nell'ambito applicativo
dell'art. 45, ma in quello dell'art. 53, il quale
inequivocabilmente prevede che il vicesindaco sostituisce il
sindaco «in caso di assenza o impedimento temporaneo, nonché
nel caso di sospensione dall'esercizio della funzione ai
sensi dell'art. 59».
Pertanto, la disciplina dell'art. 45, che si riferisce
unicamente ai consiglieri comunali, non può trovare
applicazione in caso di sospensione dall'esercizio delle
funzioni del sindaco, il quale è sicuramente componente del
consiglio comunale, ma non consigliere comunale
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Decadenza del consigliere.
Può considerarsi decaduto un consigliere comunale per
mancata partecipazione alle sedute del consiglio? È
applicabile la disciplina statutaria -ai sensi della quale
sono dichiarati decaduti i consiglieri che, senza
giustificato motivo, siano assenti dal consiglio per tre
sedute consecutive- in caso di autosospensione, da parte di
consiglieri comunali di minoranza, effettuata allo scopo di
evidenziare il proprio dissenso?
L'istituto della decadenza per mancata partecipazione alle
sedute è previsto dall'art. 43, comma 4, del dlgs n.
267/2000 che demanda allo statuto comunale la relativa
disciplina, «garantendo il diritto del consigliere a far
valere le cause giustificative».
La giurisprudenza ha chiarito che la decadenza dalla carica
di consigliere appartiene alla categoria di quelle
limitazioni all'esercizio di un diritto al munus publicum
che devono essere interpretate restrittivamente.
Di conseguenza la decadenza non può riguardare il deliberato
astensionismo di un gruppo politico che rientra nel novero
delle facoltà ordinariamente a disposizione delle forze di
opposizione, ma piuttosto sanziona comportamenti negligenti
dei consiglieri dai quali possano derivare disagi
all'attività dell'organo la cui valutazione, meramente
discrezionale e di esclusiva competenza del solo consiglio
comunale, costituisce il fondamento giuridico del
provvedimento.
Al consigliere comunale deve essere riconosciuta la facoltà
di far valere le cause giustificative delle assenze nonché
fornire eventuali documenti probatori.
Il Tar Lombardia, Brescia sez. II, con la sentenza del
28.04.2011 n. 638, nell'accogliere un ricorso avverso una
deliberazione di decadenza di un consigliere per mancata
partecipazione alle sedute del consiglio, ha ribadito che
l'astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale
costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del
disinteresse e della negligenza che l'amministratore mostra
nell'adempiere il proprio mandato e che rientra nel diritto
del consigliere comunale l'impiego di tutti gli strumenti
giuridici offerti dall'ordinamento per opporsi a decisioni
non condivise (quali, ad esempio, l'espressione di voto
contrario, l'astensione dal voto o l'omessa partecipazione
alla seduta anche al fine di impedire il formarsi del quorum
strutturale).
Pertanto, tali principi giurisprudenziali dovrebbero
costituire paradigma di riferimento di un eventuale
deliberazione del consiglio del comune ai sensi del proprio
statuto comunale, pur rientrando nella discrezionalità del
suddetto organo assembleare la valutazione in ordine alla
sussistenza dei presupposti previsti dalla citata fonte
normativa.
Si soggiunge che l'art. 43 del dlgs n. 267/2000 demanda allo
statuto dell'ente di stabilire i casi di decadenza per
mancata partecipazione alle sedute, fermo restando «il
diritto del consigliere a far valere le cause
giustificative» (ex multis Tar Sicilia sent.
14.03.2011, n. 464)
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2013). |
APPALTI: Enti
locali, 30 giorni per pagare.
Ok all'emendamento su termini perentori - Per le Regioni 2,1
miliardi aggiuntivi.
LE NOVITÀ/
Via libera dei governatori al riparto da 7,2 miliardi Passa
la modifica «salva Durc»: varrà la data di emissione della
fattura.
Sprint della commissione Bilancio della Camera sul decreto
per i pagamenti della Pa: lunedì arriverà il via libera
definitivo garantendo l'approdo del provvedimento in Aula
martedì mattina. Si è lavorato ancora a tarda sera, con i
relatori Marco Causi (Pd) e Maurizio Bernardo (Pdl)
impegnati a predisporre nuovi emendamenti su temi chiave a
partire dal vincolo di destinazione per le società in house
che dovranno girare «prioritariamente» i pagamenti ricevuti
dalle amministrazioni ai loro creditori. Altri temi aperti
sono il silenzio-assenso per la certificazione dei crediti,
un ruolo più rilevante della Cassa depositi e prestiti,
l'estensione della compensazione crediti commerciali-debiti
fiscali (forse solo tra Stato e Stato).
Disco verde
Tra gli emendamenti approvati nella giornata di ieri rientra
quello (primo firmatario Raffaello Vignali del Pdl) che
fissa in 30 giorni dall'erogazione degli anticipi di
liquidità agli enti locali il tempo massimo per saldare le
imprese o i professionisti (sia per il 2013 sia per il
2014). Ma, paradossalmente, non c'è il via libera
all'emendamento che fissava lo stesso principio anche per i
pagamenti delle Regioni. Passa l'emendamento "salva Durc":
«l'accertamento della regolarità contributiva è effettuato
con riferimento alla data di emissione della fattura o di
richiesta equivalente di pagamento».
La commissione presieduta da Francesco Boccia (Pd) ha
accolto anche un emendamento del Movimento 5 Stelle che
limita la possibilità per le Regioni di aumentare la
pressione fiscale per procedere al pagamento delle aziende
che vantano crediti nella sanità. Per coprire le
anticipazioni, le Regioni dovranno varare «prioritariamente»
misure «di riduzione della spesa corrente». Il principio,
però, non è passato per la parte di debiti regionali non
relativi alla sanità. Approvato l'emendamento dei relatori
che apre ai debiti "fuori bilancio". Stop alla norma che,
nel caso di maggiori anticipazioni di tesoreria utilizzate
dai Comuni, vincolava una corrispondente quota del gettito Imu. Ancora in bilico l'emendamento, contestato da
associazioni di settore a partire da Assobirra, che
estenderebbe lo sblocco del patto di stabilità interno agli
Ato e alle unioni di Comuni attingendo all'aumento delle
aliquote su birra e alcol.
Enti locali e Regioni
Giornata chiave anche per Regioni ed enti locali, con le
prime scadenze rispettate, a dimostrazione che la macchina
attuativa per ora funziona. La Conferenza dei governatori ha
stabilito il riparto di 7,2 miliardi che arriveranno dal
Fondo liquidità dell'Economia per saldare i debiti regionali
non sanitari. Poco meno della metà va al Lazio (3 miliardi)
davanti a Campania (1,7 miliardi) e Piemonte (poco meno di
1,5 miliardi). Seguono Sicilia, Calabria, Toscana, Liguria,
Molise, Marche. Le altre Regioni –e questa è di per sé è
una notizia– non hanno presentato richieste perché non
avrebbero debiti arretrati o avrebbero comunque sufficiente
liquidità. Al tempo stesso la Conferenza ha trovato
un'intesa, che dovrebbe confluire in un emendamento, per
ampliare di 2,1 miliardi il patto verticale: le risorse
saranno trasferite dalle Regioni a Comuni e Province per
pagare i debiti di parte capitale contratti da questi ultimi
con le imprese.
Sempre ieri, in Conferenza Stato-città, è stato raggiunto
l'accordo sul riparto dei 5 miliardi di allentamento del
patto di stabilità concesso agli enti locali. Unica novità
rispetto a quanto anticipato ieri su questo giornale è che
lo sblocco potrà essere utilizzato per «sostenere
pagamenti in conto capitale» anziché «gli stati
avanzamento lavori trasmessi entro l'08.04.2013». In
pratica le risorse andranno distribuite prima per i debiti
non estinti alla data di approvazione del decreto e solo
dopo per quelli che nel frattempo sono stati pagati. Senza
più alcuna distinzione tra appalti di lavori e altre
forniture
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Bilanci.
Termine al 30 giugno.
Fino al 30 settembre spazio a rincari su tutto il fisco
locale.
Nel caos che domina i conti locali, privi di qualsiasi
certezza sulle entrate fiscali ma anche sulla distribuzione
dai tagli disposti nel 2012 dalla spending review ancora da
attuare, molti Comuni non hanno assunto nuove decisioni
sulle aliquote di Imu e addizionale Irpef entro la scadenza
di ieri. All'atto pratico, però, cambia poco: il 9 maggio è
solo un primo termine e per ritoccare i conti c'è ancora
molto tempo.
La prima scadenza generale è fissata (per ora) al 30 giugno,
data entro la quale i Consigli comunali dovranno dare il via
libera ai bilanci di previsione 2013. Per scrivere i
preventivi, naturalmente, occorre aver deciso le aliquote e
calcolato le entrate che ne derivano. Perciò le scadenze per
conti e fiscalità locale coincidono. Non è escluso, però,
che il termine del 30 giugno slitti: molte amministrazioni
sono nell'impossibilità materiale di scrivere bilanci in
grado di rispettare i criteri di correttezza e veridicità.
L'ultima legge di stabilità comunque, viste le tante
incognite sui conti comunali, ha offerto i tempi
supplementari: se c'è l'esigenza di salvaguardare gli
equilibri ed evitare che i conti vadano fuori controllo, le
amministrazioni potranno alzare addizionali o Imu anche dopo
aver chiuso i bilanci preventivi, purché lo facciano entro
il 30 settembre.
Il termine indicato dall'ultimo decreto sui pagamenti e
scaduto ieri, insomma, serve solo a far incidere le nuove
scelte già sul saldo Imu del 17 giugno (il 16 è domenica).
L'unica conseguenza, quindi, è che gli aumenti decisi dopo
si scaricheranno integralmente sul saldo di dicembre, mentre
sulla prima rata i calcoli seguiranno le aliquote decise
l'anno scorso (anche per i fabbricati di imprese, alberghi e
centri commerciali, con tutte le complicazioni nei calcoli
per il cambio di distribuzione del gettito fra Stato e
Comuni; si veda l'articolo sotto).
Ma quanto è diffusa la possibilità di incappare in nuovi
aumenti, dopo la corsa delle aliquote vista l'anno scorso
soprattutto nell'Imu? Per l'imposta sul mattone, il rischio
si concentra in particolare nei Comuni che nonostante tutto
hanno mantenuto finora inalterati i parametri standard
fissati dal decreto Salva-Italia del 2011. Si tratta del
49,5% dei municipi italiani, che quest'anno potrebbero
essere costretti a ritoccare in alto le aliquote per far
quadrare i conti. Lo stesso potrebbe accadere in un altro
20% abbondante di enti che hanno già rivisto le aliquote
senza però toccarne i massimi.
Per le addizionali Irpef, invece, l'intensità del rischio è
in una certa misura proporzionale al reddito dichiarato,
perché cresce la tendenza a differenziare le richieste
fiscali in base ai guadagni dei contribuenti: una tendenza
corretta, ma solo se le dichiarazioni fossero sempre fedeli
ai redditi reali dei contribuenti.
A moltiplicare il rischio, anche quest'anno è comunque il
"costo fiscale" dell'incertezza che connota sempre di più le
regole di finanza pubblica. Sembra un concetto astratto, ma
diventa concretissimo se ci si mette nei panni di un sindaco
(o, peggio, di un responsabile dei servizi finanziari). Oggi
i Comuni ignorano l'entità delle entrate da Imu, la somma
del fondo di solidarietà (gli ex-trasferimenti, oggi
alimentati sempre dall'Imu) e, sulle uscite, la quota di
tagli che dovranno subire quest'anno. È ovvio che, per
evitare sorprese, la via d'uscita fiscale possa diventare
trafficata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Imu, comuni scontenti.
A rischiare di più saranno le seconde case.
Le
considerazioni del Cnai sull'annuncio di sospensione
dell'imposta.
La scadenza dell'Imu viaggia sul filo dell'incertezza.
Siamo in attesa del decreto di sospensione dell'Imu, come
dichiarato dal premier Enrico Letta, per la rata di giugno.
Il decreto di prossima emanazione dovrebbe riguardare la
sospensione del pagamento Imu solo sulla prima casa,
portando benefici alla maggior parte dei cittadini, in
quanto proprietari di un unico immobile, appunto
l'abitazione principale.
Malumori invece dai comuni che vedono sfumare milioni di
euro già riportati in bilancio, senza stanziamento di
risorse alternative.
Il Cnai è convinto della necessità di sospendere l'Imu fino
ad arrivare all'abrogazione dell'imposta stessa, tuttavia
non si può prescindere da alcuni ragionamenti. A causa della
riduzione del gettito dovuta dalle prime case, i comuni
potrebbero decidere di aumentare le aliquote sulle seconde
case; chiaramente le ripercussioni non mancherebbero, per
esempio un ulteriore crollo del mercato immobiliare e rischi
di speculazioni finanziarie a scapito dei meno facoltosi.
Alcuni comuni stanno anche lavorando per aumentare
l'aliquota sulla prima casa, se venisse sospeso il pagamento
di giugno e a questa prima iniziativa non si aggiungessero
ulteriori interventi, il pagamento per intero ricadrebbe
sulla rata di dicembre, con l'aggravio di una maggiore
percentuale dell'imposta, così i comuni andrebbero a
recuperare anche la perdita subita a giugno, e con
l'aliquota maggiorata vedrebbero equiparato ampiamente il
valore del denaro incassato a dicembre. Altri stanno
pensando di non riconfermare le ulteriori quote di esenzione
previste per le fasce di cittadini svantaggiati e più
poveri, quindi anche in questo caso, il mancato incasso
della rata di giugno peserebbe addirittura sulle persone più
bisognose.
Altra perplessità riguarda sempre le seconde case, quelle in
locazione. L'aumento dell'Imu porterebbe sicuramente un
relativo aumento dei canoni di affitto, ma di conseguenza vi
sarebbe una ripercussione sull'imposta di registro, un
aumento tirerebbe l'altro; facilmente più di qualcuno
penserà a incassare la maggiorazione del canone, o
addirittura l'intero affitto in nero. Ovviamente anche in
questa ipotesi i danni erariali sarebbe elevati.
Inoltre non dimentichiamo i tempi, Caf professionisti e
consulenti, in questo periodo sono alle prese con infinite
scadenze fiscali, hanno diritto a organizzare nella maniera
più opportuna il loro lavoro, ma come fanno se a oggi non si
sa se pagare oppure no; la scadenza Imu è prevista per il 17
giugno prossimo, al Caf Cnai e al Cnai, portavoce dei
professionisti e delle aziende rappresentate, lamentiamo le
lungaggini della burocrazia e la lentezza operativa, che non
consente di agire con correttezza portando tutti ad
attivarsi all'ultimo minuto, senza dimenticare la
farraginosità del calcolo.
Senza parlare del principio di incostituzionalità su cui si
fonda l'Imu. Gli italiani pagano e rischiano di pagare
un'imposta ingiusta sulle abitazioni che nel nostro paese
rappresentano la forma più comune di investimento. Queste le
parole del presidente del Cnai, Orazio Di Renzo, che
sintetizza dichiarando: «Chi riesce con sacrifici e impegno
a pagare una casa e a possederla, per lo stato e le banche
rappresenta sicuramente una forma di garanzia e di
stabilità, anziché premiarlo al contrario viene pluripenalizzato,
da quando decide di contrarre il mutuo per l'acquisto.
Riprendendo un nostro concetto, è proprio vero che tutti i
comportamenti messi in essere dalla nostra politica sembrano
preferire una società liquida, dove tutto è incerto e senza
struttura, senza garanzie né progetti. Se non fosse per i
cittadini che oggi possiedono un'immobile, tutto l'apparato
pubblico potrebbe lavorare sul nulla, perché nessuno avrebbe
niente da rischiare; se molti sono ligi nei pagamenti e
attenti a come agiscono è soprattutto per non perdere quello
che hanno, appunto la casa, tutto il resto gira intorno al
concetto di improvvisazione»
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: AVVOCATI/
A breve al ministero della giustizia i nuovi parametri
elaborati dal Cnf.
Tutti i compensi in 40 tabelle.
Fino a 25 mila euro per l'intero giudizio in tribunale.
Tra i mille e i 25 mila euro. È il parametro per la
determinazione, da parte del giudice, del compenso di un
avvocato che segue il cliente dall'inizio alla fine in un
giudizio ordinario innanzi al tribunale, che varia a seconda
del valore della controversia: per una causa di un valore
medio tra i 5.200 e i 26 mila euro il cliente, in mancanza
di accordo, dovrà pagare l'avvocato che l'ha seguito in
tutte le fasi di giudizio circa 7.500 euro.
Sono i nuovi
parametri degli avvocati approvati dal Consiglio nazionale
forense (si veda ItaliaOggi del 7 maggio scorso). In tutto
40 tabelle che, allegate alla parte normativa, saranno
inviate a breve al ministro della giustizia, Anna Maria
Cancellieri, per il via libera definitivo. Dal giudice di
pace, alla Corte d'appello, all'arbitrato, si tratta di
valori tabellari ad hoc per ogni tipo di procedimento, di
cui dovrà tenere conto il giudice nel momento in cui liquida
il compenso dell'avvocato, in mancanza di accordo tra il
legale e il cliente. Da questi valori, si potrà discostare
in aumento fino al 70% e in diminuzione fino al 30%, tenendo
conto «delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio
dell'attività prestata».
Entriamo nel dettaglio delle
tabelle, considerando che riguardano il settore civile e
corrispondono ciascuna al tipo di procedimento (comprese la
materia stragiudiziale, la mediazione, le procedure
concorsuali, quelle arbitrali, i processi amministrativi e
tributari, i processi davanti alle giurisdizioni superiori).
Mentre una tabella riguarda il settore penale.
Giudice di pace.
Le tabelle elaborate dal Cnf sono suddivise in fasi e per
valore della controversia. Per quanto riguarda i giudici di
pace, le fasi sono cinque: studio della controversia, fase
introduttiva del giudizio, istruttoria o trattazione, fase
decisionale e compenso per prestazioni post decisione. Per
una causa del valore fino ai 1.100 euro, il compenso
dell'avvocato, considerando tutte le fasi di giudizio, sarà
di 550 euro. Mentre per una controversia di valore tra i
5.200 e i 26 mila euro sarà di 3.250 euro.
Tribunale.
I valori tabellari dei giudizi ordinari e sommari di
cognizione innanzi al tribunale, invece, sono suddivisi
sempre in cinque fasi ma in sei classi di valore. Si va di
circa mille euro previsti per una controversia fino ai 1.100
euro ai 25 mila per una causa seguita dalla A alla Z
dall'avvocato di valore tra i 260 mila e i 520 mila euro.
Giudizi di lavoro. Anche per i giudizi di lavoro le fasi
processuali sono cinque, mentre gli scaglioni sono sei. Per
un giudizio di valore medio, tra i 5.200 e i 26 mila euro,
il parametro del compenso dell'avvocato di cui dovrà tenere
conto il giudice, considerando tutte le fasi, è di otto mila
euro.
Giudizi di previdenza. Stessa suddivisione di fasi e valore
per i giudizi di previdenza, dove si va dai mille euro che
il giudice dovrà considerare come riferimento per il
compenso dell'avvocato che ha seguito tutte le fasi di una
causa fino ai 1.100 euro, ai 27.500 per una controversia che
invece va dai 260 mila ai 520 mila euro.
Corte d'appello. Per i giudizi innanzi alla Corte d'appello
i parametri per la definizione del compenso dell'avvocato
che dovrà pagare il cliente in caso di mancato accordo,
oscilla tra i mille euro per lo scaglione base considerando
tutte le fasi di giudizio, ai 29.500 euro per l'ultima
classe di valore. Per una controversia che invece va dai
5.200 ai 26 mila euro il valore derivante dalla somma di
tutte le fasi è pari a 8.700 euro.
Tar e Consiglio di stato. Per quanto riguarda il Tribunale
amministrativo regionale, invece, le fasi previste sono sei,
con in più la fase cautelare. Considerando anche in questo
caso lo scaglione base, il valore tabellare che dovrà tenere
in considerazione il giudice, sommando tutte le fasi, è pari
a 1.400 euro. Una causa di valore medio può costare invece
al cliente 8.900 euro. Stesso discorso per i giudizi innanzi
al Consiglio di stato, dove il compenso dell'avvocato che
segue la controversia in tutte le sue fasi di giudizio va
dai 1.200 euro per una causa rientrante nel primo scaglione
ai 24.600 euro per l'ultimo scaglione.
Arbitrato.
Per il collegio arbitrale, invece, il compenso è unico ed è
suddiviso in quattro scaglioni. Si va dai 6.400 euro per una
causa di valore fino ai 26 mila euro, ai 54 mila previsti
per l'ultimo scaglione che va dai 260 ai 520 mila euro
(articolo ItaliaOggi del 09.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il Cnf ha approvato i parametri per la liquidazione delle
spese legali. La parola al mingiustizia.
Nuovi compensi per gli avvocati.
Sarà il valore della causa a determinare minimi e massimi.
Elaborati i nuovi parametri per i compensi degli avvocati.
Per il giudice, in mancanza di accordo tra legale e cliente,
saranno determinanti le caratteristiche, l'urgenza e il
pregio dell'attività prestata. Con tabelle dettagliate per
ogni tipo di giudizio, valore della controversia e fasi
dell'attività processuale.
È la bozza di decreto
ministeriale approvata dal Consiglio nazionale forense, in
base alla delega conferita dalla riforma forense (legge n.
247/2012), e che sarà inviata a giorni al ministero della
giustizia per il via libera definitivo, così da superare i
vecchi parametri stabiliti dal dm n. 140/2012.
Il meccanismo
per la determinazione del compenso si rifà a quello dei
minimi e massimi tariffari: per un giudizio ordinario
innanzi al tribunale si va, infatti, dai 190 euro previsti
per la fase di studio di una causa (del valore massimo di
1100 euro) ai 5000 euro (per la stessa attività prestata
però per una causa dal valore compreso fra i 260 e i 520
mila euro). Ma il giudice potrà discostarsi dai valori
tabellari. Vediamo nel dettaglio la proposta del Cnf,
presentata alla categoria nell'assemblea unitaria di sabato
scorso, 4 maggio.
La determinazione del compenso. L'articolo 5 riporta i
«criteri generali per la determinazione dei compensi». In
pratica, in caso di liquidazione del compenso dell'avvocato
da parte del giudice, in mancanza di accordo tra avvocato e
cliente, il giudice dovrà tenere conto «delle
caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività
prestata». Come l'importanza dell'opera, la natura e il
valore della pratica, la quantità delle attività compiute in
relazione alla posizione processuale e all'impulso
dell'azione, le condizioni soggettive del cliente, i
risultati conseguiti, il numero delle questioni trattate, i
contrasti giurisprudenziali, la quantità e il contenuto
della corrispondenza intrattenuta dall'avvocato con il
cliente e con gli altri soggetti nel corso della pratica. Il
giudice dovrà obbligatoriamente tenere conto dei parametri
di cui alle tabelle e, ove ricorressero i presupposti,
«nella liquidazione potrà motivatamente discostarsi in
aumento fino al 70% ovvero in diminuzione fino al 30%».
Le tabelle dei parametri riguardano il settore civile e
corrispondono ciascuna al tipo di procedimento (compresi la
materia stragiudiziale, la mediazione, le procedure
concorsuali, quelle arbitrali, i processi amministrativi e
tributari, i processi davanti alle giurisdizioni superiori).
Una tabella riguarda invece il penale.
La proposta del
Consiglio nazionale forense «supera il decreto Parametri
140/2012», si legge in una nota diffusa dal Cnf, «in
relazione non solo agli ingiustificati abbattimenti dei
compensi che giungono fino alla metà per le attività di
difesa previste dalla legge a carico dei legali, ma anche in
relazione a gravi lacune, peraltro puntualmente segnalate in
note inviate sin dalla predisposizione del decreto 140 al
ministero della giustizia»
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2013). |
TRIBUTI:
La Ctr di Firenze sui valori Ici/Imu.
Accertamenti standard ko.
La determinazione dei valori delle aree edificabili richiede
anche il buon senso. L'accertamento Ici (e Imu) fondato sul
valore di mercato deve essere fatto area per area e non per
zone omogenee, applicando i valori indicati in una tabella.
La definizione dei valori delle aree con regolamento,
infatti, viola i limiti fissati dalla legge all'esercizio
del potere regolamentare, in quanto i comuni non possono
individuare e definire le fattispecie imponibili.
Lo ha
affermato la commissione tributaria regionale di Firenze,
Sez. XXIV, con la sentenza 15.02.2013 n. 8.
Per i giudici il comune così come non può stabilire un
valore imponibile per i fabbricati diverso da quello
calcolato sulla base della rendita catastale, «non può
neanche -per le aree edificabili- mutare il criterio di
calcolo basato -per legge- sul valore venale in comune
commercio».
Secondo la Ctr, l'articolo 52 del dlgs 446/1997
pone dei limiti alla potestà regolamentare dei comuni
sull'individuazione e la definizione delle fattispecie
imponibili. Un'area edificabile è soggetta a Ici sulla base
del suo valore di mercato e, si legge nella pronuncia, «tale
valore, proprio perché individuale e, quindi, unico,
difficilmente potrà essere riconducibile a una qualche
tabella di valori fissata dall'ente, sia pur per zone
omogenee».
Dunque, l'accertamento va fatto area per area
«tenendo conto di una serie di elementi, in parte dettati
dalla norma, in parte dal buon senso». In realtà, i criteri
per determinare il valore di un'area edificabile sono
fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992.
Questa norma si applica sia all'Ici sia all'Imu. Occorre
fare riferimento a zona territoriale di ubicazione
dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso
consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del
terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi
medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse
caratteristiche.
I valori possono essere deliberati dal consiglio comunale o
dalla giunta. La differenza tra i due atti generali è data
dal fatto che i valori medi fissati dal consiglio con
regolamento sono vincolanti, mentre sono solo delle
direttive interne se deliberati dalla giunta
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
La trasparenza nella P.A..
Amministrazioni senza segreti. Da pubblicare i redditi dei
politici, gli appalti e le liste d'attesa delle Asl.
ACCESSO GENERALIZZATO/ Non serve dimostrare di avere
interesse: chiunque può richiedere la messa in rete dei
documenti mancanti.
La pubblica amministrazione è chiamata a un grande sforzo di
trasparenza. Dal 20 aprile –data di entrata in vigore del
decreto legislativo 33, provvedimento indotto dalla legge
anticorruzione 190 del 2012– gli enti devono, infatti,
pensare alla pubblicazione online –su una sezione ad hoc dei
loro siti istituzionali, spazio definito "Amministrazione
trasparente"– di un lungo elenco di informazioni e dati (la
Civit ne ha contati circa 200): dagli incarichi di
consulenza e relativi compensi ai costi della politica
(redditi, eventuali altri compiti con annesse retribuzioni,
delibera di nomina, curriculum, durata del mandato) di
chiunque rivesta una carica elettiva; dalle liste di attesa
delle Asl alle notizie sulle gare pubbliche; dai bilanci
delle società controllate o partecipate alle spese del
personale con rapporto di lavoro indeterminato e
determinato; dai bandi di concorso ai rendiconti dei gruppi
consiliari regionali e provinciali.
L'elenco non è esaustivo dei gravosi compiti a cui la Pa è
chiamata in questi giorni per rendere trasparente la propria
attività. Non solo. Le informazioni da pubblicare online
dovranno essere aggiornate, facilmente accessibili e
consultabili e anche riutilizzabili. Si tratta, pertanto, di
mettere in campo un ripensamento dell'organizzazione interna
degli uffici –a cominciare dalla nomina del responsabile
della trasparenza– che comporterà non poca fatica. Sforzo
che, però, può anche essere non così imponente per quelle
realtà che finora non hanno trascurato la trasparenza.
Perché le regole sulla pubblicità degli atti non sono di
oggi. Il decreto 33 da una parte ha riorganizzato gli
adempimenti prima contenuti in varie normative (in questo
senso si può parlare di testo unico sulla trasparenza) e
dall'altra ne ha introdotti di nuovi. Dunque, per quelle
amministrazioni per le quali l'accesso ai documenti non è
finora stato un fastidio –non così tante, per la verità–, la
strada si presenta in discesa.
Con l'obiettivo di fornire ai cittadini e alle imprese
informazioni anche importanti: in campo sanitario, ad
esempio, le Asl devono pubblicare per ogni prestazione non
solo i tempi di attesa previsti, ma anche quelli effettivi;
per gli appalti di lavori, servizi e forniture deve essere
reso noto l'elenco delle gare, ma anche i casi di trattativa
privata con le motivazioni.
In teoria, una volta messi a punto gli schemi da parte
dell'Autorità dei contratti pubblici, devono essere resi
noti tempi e costi delle opere pubbliche. E ancora: dal sito
ogni impresa deve poter valutare i tempi medi di pagamento,
nonché l'elenco di tutti i pagamenti a qualsiasi titolo
versati a imprese e privati di importo superiore ai mille
euro.
Le amministrazioni finora in ritardo sulla trasparenza
devono, dunque, rimboccarsi le maniche. Tenuto conto che il
sistema delle sanzioni è stato reso più penetrante ma che,
soprattutto, è stato fornito ai cittadini uno strumento in
grado di tenere le pubbliche amministrazioni sulla corda. Si
tratta dell'accesso civico, ovvero della possibilità di
chiedere (e ottenere entro trenta giorni) la pubblicazione
online degli atti che l'amministrazione non rende
conoscibili.
A differenza del diritto di accesso sancito dalla legge 241
del 1990, subordinato all'esistenza di un particolare
interesse da parte di chi vi fa ricorso (per esempio: posso
chiedere di conoscere gli elaborati di un concorso solo se
sono un candidato), l'accesso civico è privo di vincoli, se
non quello di potervi ricorrere solo quando
l'amministrazione è inadempiente, ovvero non pubblica sul
proprio sito le informazioni che dovrebbe. Per il resto, il
nuovo diritto è aperto a tutti, non ha bisogno di
motivazioni ed è gratuito. E ha l'ulteriore pregio di far «scattare»
la segnalazione dell'inadempienza al responsabile della
trasparenza, che a sua volta «segnalerà» il
funzionario inadempiente all'ufficio disciplina interno
(articolo Il
Sole 24 Ore del 06.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Il dl 35/13 ha rimesso in termini i contribuenti che non
hanno ancora provveduto.
Imu, dichiarazioni senza fretta.
Tempo fino al 30 giugno per acquisti effettuati nel 2012.
Si allungano i termini per la presentazione della
dichiarazione Imu. Slitta al 30 giugno dell'anno successivo
all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per
denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni.
Lo prevede l'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013)
che, oltre a modificare il termine per la dichiarazione a
regime, il cui obbligo prima dell'intervento normativo era
soggetto al termine breve di 90 giorni, ha anche rimesso in
termini i contribuenti che non hanno ancora provveduto
all'adempimento per acquisti effettuati a partire dalla data
di istituzione dell'imposta municipale (01.01.2012).
Tutti i soggetti interessati hanno la possibilità di
assolvere all'obbligo entro il prossimo 30 giugno. Pertanto,
anche chi non ha presentato la dichiarazione nei termini non
è sanzionabile, purché provveda a regolarizzare la propria
posizione.
La scadenza. Sul nuovo termine per le dichiarazioni Imu è
intervenuto il ministero dell'economia e delle finanze, con
la circolare 1/2013, che ha fornito dei chiarimenti sia ai
comuni che ai contribuenti. Secondo il ministero,
l'ampliamento del termine per la presentazione della
dichiarazione «ha lo scopo di evitare un'eccessiva
frammentazione dell'obbligo dichiarativo derivante dal
precedente termine mobile dei 90 giorni e risolve i problemi
sorti in ordine alla possibilità, da parte dei contribuenti,
di ricorrere all'istituto del ravvedimento, disciplinato
dall'articolo 13 del decreto legislativo 472/1997, che
altrimenti non avrebbero trovato soluzione».
L'articolo 10, infatti, come indicato nella relazione di
accompagnamento al decreto 35/2013, prevede due diversi
termini «collegati alla natura periodica o non periodica
della dichiarazione».
La circolare ministeriale pone in rilievo che la norma oltre
a stabilire a regime il nuovo termine di presentazione delle
dichiarazioni, «produce effetti anche su quelle dovute per
l'anno 2012 che potranno, quindi, essere presentate entro il
30.06.2013». Pertanto, i contribuenti per i quali
l'obbligo è sorto dal 01.01.2012, devono presentare la
dichiarazione entro il prossimo 30 giugno e non più, come
previsto prima della modifica normativa, entro il 04.02.2013.
Naturalmente, la nuova scadenza è fissata per tutti coloro
che hanno acquistato nel corso del 2012 la proprietà di
immobili o di altri diritti reali di godimento (usufrutto,
uso, abitazione, superficie e così via). La dichiarazione ha
effetto anche per gli anni successivi, a meno che non
intervengano variazioni dei dati dai quali possa conseguire
un diverso ammontare dell'imposta dovuta.
Soggetti obbligati. I contribuenti che hanno ceduto o
acquistato immobili o la titolarità di altri diritti reali
nel 2012 devono inoltrare la dichiarazione al comune, a meno
che gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta non siano
acquisibili attraverso la consultazione della banca dati
catastale o gli enti non siano già in possesso delle
informazioni necessarie per verificare il corretto
adempimento dell'obbligazione tributaria.
La dichiarazione deve essere presentata da coloro che
vantino il diritto a fruire di riduzioni d'imposta. Quindi,
sono tenuti all'adempimento coloro che possiedono immobili
di interesse storico o artistico.
Inoltre, vanno denunciati tutti i casi in cui
l'amministrazione comunale non possiede le notizie utili per
verificare l'operato dei contribuenti.
Nello specifico, tra i casi più significativi, l'adempimento
è richiesto quando: l'immobile ha formato oggetto di
locazione finanziaria o di un atto di concessione
amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso
in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area
edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in
seguito alla demolizione di un fabbricato. Va dichiarato
qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del
diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile.
Il valore dell'area, che è quello di mercato, deve sempre
essere dichiarato dal contribuente, poiché questa
informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco
perché l'obbligo non sussiste quando viene alienata un'area
fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di
mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza.
L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti
dalle imprese e distintamente contabilizzati, classificabili
nel gruppo catastale D, che sono tenute a dichiarare il
valore venale del bene sulla base delle scritture contabili,
sia in aumento che in diminuzione, fino all'anno di
attribuzione della rendita catastale. La dichiarazione, poi,
deve essere presentata per gli immobili relativamente ai
quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini
della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto
obbligato al pagamento.
Sono tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati
inagibili o inabitabili solo se si perde il diritto al
beneficio fiscale, poiché il comune non dispone delle
informazioni necessarie per verificare il venir meno delle
condizioni richieste dalla legge. Va ricordato che le
istruzioni per adempiere all'obbligo dichiarativo sono
contenute in un allegato al modello di dichiarazione
approvato con decreto ministeriale del 30.10.2012,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
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Esonero per le prime case.
Esonerati dall'obbligo di presentare la dichiarazione Imu
coloro hanno già assolto all'obbligo per l'Ici. Non sono
tenuti neppure i possessori di immobili adibiti ad
abitazione principale, con relative pertinenze. Nelle
istruzioni ministeriali allegate al nuovo modello viene
precisato che la conoscenza da parte del comune delle
risultanze anagrafiche fa venire meno la necessità di
presentazione della dichiarazione. L'esclusione si estende
anche all'indicazione dei figli di età non superiore a 26
anni per i quali è possibile fruire della maggiorazione di
50 euro.
Tuttavia, anche per i titolari di immobili adibiti a prima
casa le istruzioni prevedono un'eccezione all'esonero
generalizzato dall'obbligo dichiarativo, nel caso in cui i
componenti del nucleo familiare possiedano più di un
immobile nello stesso comune. La legge esclude il doppio
beneficio per i coniugi non legalmente separati.
L'agevolazione, infatti, è limitata a un solo immobile nel
quale risiede e dimora uno dei coniugi, il quale è tenuto a
presentare la dichiarazione. In questo caso il ministero
ritiene che, al fine di evitare comportamenti elusivi in
ordine all'applicazione delle agevolazioni, riemerge
l'esigenza di porre l'obbligo dichiarativo a carico di uno
dei due coniugi.
Altra eccezione è rappresentata dal coniuge assegnatario: lo
stesso è obbligato a presentare la dichiarazione Imu solo se
il comune in cui si trova l'ex casa coniugale non coincide
né con il comune di in cui è stato celebrato il matrimonio,
né con il comune di nascita. In seguito a separazione
legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio, l'art. 4, comma 12-quinquies
del dl 16/2012, convertito dalla legge 44/2012, ha stabilito
che l'assegnazione della casa coniugale al coniuge si
intende effettuata a titolo di diritto di abitazione.
In
questo caso, però, il provvedimento del giudice viene
comunicato solo al comune di celebrazione del matrimonio,
che è tenuto a informare il comune d nascita degli ex
coniugi dell'avvenuta modificazione dello stato civile. Ecco
perché la dichiarazione va presentata solo se il comune nel
cui territorio è ubicato l'immobile assegnato non coincide
né con il comune dove è stato celebrato il matrimonio né con
quello di nascita (articolo ItaliaOggi
Sette del 06.05.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI Avvocati. Contro le Sezioni unite.
Il compenso segue sempre i parametri.
I compensi degli avvocati, dopo l'abrogazione delle vecchie
tariffe, devono essere sempre quantificati secondo i nuovi
parametri.
Lo ha stabilito il Tribunale per i minori di
Catania (ordinanza 10.04.2013) decidendo sull'opposizione
proposta dal difensore di un imputato ammesso al gratuito
patrocinio che chiedeva invece l'applicazione delle tariffe
perché aveva esaurito la sua attività nel 2010, prima della
loro abrogazione. Si levano dunque le prime voci di dissenso
dei giudici di merito dopo la decisione delle Sezioni unite
della Cassazione che, invece, lasciava spiragli
all'applicazione delle vecchie norme.
Le tariffe sono state cancellate dal decreto legge 1/2012
ma, nei casi di liquidazione del compenso da parte del
giudice, sono rimaste operanti fino a che il decreto
140/2012, emanato dal ministro della Giustizia, non ha
stabilito i nuovi parametri. In particolare, l'articolo 41
del decreto dispone che dal 23.08.2012 tutte le
liquidazioni dei compensi ai legali devono seguire le nuove
regole; ma le Sezioni unite, con la sentenza 17406/2012,
hanno escluso dagli effetti di questa norma i compensi per
le prestazioni concluse entro quella data, anche se
liquidate in seguito.
I giudici catanesi disattendono
consapevolmente l'orientamento della Cassazione sostenendo
che il decreto 140 ha ancorato l'operatività dei nuovi
parametri al momento della «liquidazione», ossia alla
decisione sulla determinazione del compenso, e non a quello
dell'effettuazione della «prestazione». Inoltre, la
conclusione del rapporto di prestazione d'opera avverrebbe
solo con la precisazione del corrispettivo; fino alla
liquidazione dell'onorario, il rapporto non esaurito
subirebbe gli effetti dei mutamenti normativi.
Ma i nodi da sciogliere nel passaggio dalle tariffe ai
parametri non si fermano qui. Come si deve comportare il
giudice d'appello che riforma una sentenza pronunciata
quando erano in vigore le tariffe professionali e che deve
regolamentare di nuovo le spese di primo grado? Sulla
risposta grava una non uniforme presa di posizione della
Cassazione: con la sentenza 5426/2005 ha affermato che «la
liquidazione degli onorari va riferita all'intera fase di
merito», mentre con la sentenza 17059/2007 ha invece
ritenuto che per la liquidazione degli onorari si deve avere
riguardo «ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e
quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado».
Aderendo alla prima impostazione si dovrebbe tener conto,
per entrambi i gradi del giudizio, delle sole disposizioni
del decreto 140, mentre la sentenza del 2007 porterebbe a
concludere che le spese processuali vanno determinate in
base alla norme in vigore al momento della chiusura di ogni
grado. A favore di quest'ultima impostazione sembra essere
l'articolo 83, comma 2, del Dpr 115/2002, per il quale la
liquidazione dell'onorario dell'ausiliario del magistrato è
fatta al termine di ciascun grado del processo.
Appare ragionevole che il giudice proceda analogamente nel
liquidare le spese di lite. E dunque: ricorso alle tariffe
del 2004 per il primo grado, applicazione dei parametri del
2012 per l'appello (articolo Il Sole 24
Ore del 06.05.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore, Regioni indietro.
Soltanto nove leggi chiedono di certificare i requisiti
anti-decibel.
Sono pochi gli appigli che la normativa, nazionale e
regionale, offre agli acquirenti di immobili per difendersi
dal rumore. A fronte di qualche sporadico ma significativo
passo in avanti, come nel caso della Regione Marche che,
unica nel panorama nazionale, prevede che l'acquirente o il
conduttore del l'immobile abbiano diritto a un risarcimento
del danno in caso di mancato rispetto dei requisiti acustici
minimi, sono ancora molte le autonomie che non hanno messo a
punto leggi specifiche sull'inquinamento acustico e nelle
quali l'unico punto di riferimento è costituito dal vecchio
Dpcm del 05.12.1997.
Nessuna legge è vigente in: Abruzzo, Basilicata, Campania,
Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Molise, Piemonte, Sicilia,
Toscana e Veneto. Mentre altrove la situazione è a macchia
di leopardo. Soltanto il Friuli Venezia Giulia (Lr 16/2007)
prevede contributi a fondo perduto fino al 50% della spesa
sostenuta per l'incremento dei requisiti acustici passivi
degli edifici. Una normativa avanzata è in vigore anche in
Calabria: nella legge 34/2009 si specifica che i progetti
dei requisiti acustici passivi degli edifici devono essere
redatti da tecnici competenti in acustica, sia per le nuove
costruzioni che per il recupero del patrimonio edilizio
esistente. Ma le modalità costruttive sono regolate da una
delibera, che non è ancora stata emanata. Inoltre, i
maggiori volumi del fabbricato conseguenti al rispetto dei
requisiti acustici non sono computati nel calcolo delle
cubature.
La Calabria prevede anche che i valori di isolamento
raggiunti devono essere certificati mediante collaudo
acustico, da presentare in caso di compravendita o di
locazione dell'immobile. Il certificato acustico ha valore
decennale.
Molto avanti appaiono anche le leggi delle Regioni Lombardia
(legge 13/2001), Marche (28/2001), Puglia (legge 3/2002) e
Umbria (da ultimo legge 8/2006) che prevedono, oltre al
progetto redatto dal "tecnico competente", che i requisiti
acustici siano rispettati anche in caso di interventi sul
patrimonio edilizio esistente in modo da pareggiare, nel
tempo, i requisiti acustici del patrimonio edilizio
nazionale o meglio, da rendere più conveniente la
ricostruzione ex novo del patrimonio edilizio del primo
dopoguerra e privo di valore storico. La Regione Marche,
però, dice ...
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In tribunale
per i lavori riparatori.
La qualità acustica di un edificio può essere fonte di
disagi e contenzioso nei confronti del costruttore che sia
anche venditore e nei rapporti tra privati. Prima di
iniziare una lite occorre verificare:
- se la propagazione del rumore dipende da difetti
strutturali all'edificio;
- se il rumore sia causato dall'attività di terzi che superi
la normale soglia di tollerabilità (articolo 844 del Codice
civile).
Nel primo caso, i rimedi sono quelli posti a garanzia dei
vizi degli immobili, con richieste finalizzate a ottenere,
nell'ordine di gravità del difetto:
e l'eliminazione del vizio;
r il risarcimento del danno
t la risoluzione del contratto di vendita per inadempimento.
L'eliminazione del vizio (per pareti leggere, carenza di
materiale fonoassorbente) si attua con lavori che dotino
l'immobile di un sufficiente isolamento acustico a spese del
costruttore (articolo 1668 del Codice civile). Se vi sono
lavori da fare, la relativa durata, insieme al periodo
durante il quale si è subito il rumore eccessivo, è fonte di
risarcimento del danno da disagio abitativo ovvero da
ridotto godimento del bene (Corte d'appello di Bologna,
sezione III, sentenza n. 1281/2011).
Quando non è possibile rimuovere il difetto strutturale (per
esempio per problemi di solai tra piani destinati alla
residenza), il privato può chiedere la riduzione del prezzo,
che in alcune pronunce arriva al 20% (Tribunale di Torino n.
2715/2007). Se poi il vizio rende il bene totalmente
inadatto alla sua destinazione, si può chiedere la
risoluzione del contratto, con restituzione degli importi e
risarcimento del danno.
Alla scala dei danni subiti dal l'acquirente, corrisponde
una scala di responsabilità del costruttore. Responsabilità
cui il costruttore rimedia attraverso specifiche polizze di
assicurazione decennale (obbligatorie per la legge 122/2005)
che, appunto, coprono i gravi difetti costruttivi (uso di
materiali o tecniche inadeguate). L'azione giudiziaria nei
confronti del costruttore si prescrive in dieci anni, ma
all'interno di questo periodo di tempo, la lite deve essere
iniziata entro un anno da quando il vizio (l'eccessivo
rumore) è stato rilevato o denunciato (articoli 4 della
legge 122/2005 e 1669, Codice civile).
Il metodo di accertamento dell'errore di costruzione nella
coibentazione acustica e quindi l'entità del danno subito
dal l'acquirente, vive attualmente un periodo di incertezza.
Infatti nei rapporti tra costruttore-venditore e privato
acquirente non hanno rilievo diretto le norme previste dalla
legge 447/1995 (legge quadro sull'inquinamento acustico) e
dal Dpcm 05.12.1997 sui requisiti degli edifici. I
parametri previsti in tali norme sono stati sospesi
dall'articolo 11, comma 5, della legge 88/2009 e non sono
applicabili nei rapporti tra privati, finché non
sopravvengono specifici ulteriori decreti legislativi. Nel
frattempo, spetta a tecnici abilitati asseverare la corretta
esecuzione dei lavori a regola d'arte. In altri termini, i
problemi di isolamento acustico sono affidati a generici
principi di buona tecnica (che lasciano spazi di
tolleranza). Al contrario, nei rapporti tra costruttore e
pubblica amministrazione il Dpcm del 1997 è in vigore.
L'amministrazione comunale deve vigilare sul rispetto dei
parametri acustici, negando l'agibilità in caso di
irregolarità.
Questa incongruenza è stata percepita da più tribunali ed è
stata risolta applicando di fatto, come norma più prossima
sia il Dpcm del 1997 sia le norme Uni, che diventano meri
valori di riferimento, ricognitivi dello stato dell'arte. Il
rumore può quindi essere misurato con i parametri del Dpcm e
con gli strumenti indicati dalle norme tecniche dell'Uni.
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I rimedi di natura civile e penale.
Il giudice ordina lo stop ai vicini.
Se il rumore è causato dal l'attività di terzi e supera la
normale soglia di tollerabilità (articolo 844 del Codice
civile), i rimedi utilizzabili sono di natura civile e
penale.
Ad esempio, chi si esercita al pianoforte «costantemente»
rischia provvedimenti del giudice civile che, anche in via
di urgenza, può imporre orari e porre un confine alla
«normale tollerabilità». Restando nel caso del pianoforte,
per individuare la normale tollerabilità si possono
utilizzare il limite di 40 decibel e il livello
differenziale di 5 decibel tra il rumore ambientale e quello
di fondo (Corte di cassazione, sentenza n. 9434/2012).
Se il rumore deriva da un'autoclave, chi ne fruisce rischia
di pagare i danni al vicino (Corte di Cassazione, sentenza
n. 7181/2012), e stesso rischio corre il condominio il cui
ascensore rechi molestia al residente, anche se questi è
ritenuto obiettivamente «particolarmente sensibile»
(Cassazione n. 26898/2011). La tutela dal rumore può anche
costringere un Comune a regolamentare l'uso di un parco
giochi che disturbi i residenti (Cassazione n. 4848/2013) o
a far eliminare le bande stradali rumorose (Corte d'Appello
Torino 09.07.2012).
Infine nel conflitto infine tra esercizi commerciali (bar,
pizzerie) e residenti ai piani superiori, questi ultimi
partono avvantaggiati sia sui rumori che sulle molestie
olfattive, (anche se sul punto non vi sono valori limite)
(Cassazione penale n. 16670/2012). Il vantaggio deriva dalla
circostanza che gli esercizi commerciali rumorosi disturbano
un numero indeterminato di persone (tutela affidata
all'articolo 659 del Codice penale), mentre tale reato non
riguarda l'inquilino del piano di sopra che sposta i mobili
con frequenza (Cassazione penale n. 6546/2013) (articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La concertazione è «sparita» da gennaio. La riforma Brunetta in un'ordinanza del giudice del lavoro.
Gli obblighi di concertazione dallo scorso 31 dicembre sono
stati sostituiti dall'informazione che, in alcune materie,
deve essere preventiva, e -nei casi previsti dal
legislatore- dall'esame congiunto.
Sono queste le
conclusioni inedite contenute nell'ordinanza del 6 aprile
scorso del giudice del lavoro di Lecce, provvedimento
assunto in via d'urgenza nell'ambito di un ricorso per
condotta antisindacale di un Comune. Queste indicazioni
costituiscono una novità assoluta, per molti versi
discutibile e, se confermate, produrrebbero effetti
stravolgenti sul sistema delle relazioni sindacali.
Sicuramente, appare sempre più urgente arrivare ad un
chiarimento sulle regole attualmente in vigore, chiarimento
che dovrebbe arrivare con la definizione di un accordo per
il quale sono in corso le trattative. Da sottolineare che la
stessa ordinanza stabilisce che tra le materie oggetto di
informazione preventiva occorre includere anche il programma
esecutivo di gestione (Peg).
Nel caso concreto, un sindacato ha proposto ricorso contro i
provvedimenti assunti da un Comune per il distacco
temporaneo di un dipendente presso una partecipata, per
l'approvazione della metodologia di valutazione delle
performance, per l'adozione del piano delle azioni positive,
del Peg, del fabbisogno del personale e dei criteri per
l'istituzione delle posizioni organizzative. Il ricorso è
per condotta antisindacale, ed è motivato dalla mancata
attivazione della concertazione in tutte queste materie.
Nella parte più innovativa del provvedimento si legge che
«dal 31.12.2012 (cioè dal termine per l'adeguamento
dei contratti nazionali stipulati prima del Dlgs 150/2009,
ndr) gli obblighi di concertazione un tempo previsti sono
automaticamente sostituiti dagli obblighi di informazione
preventiva». Per cui occorre verificare «se alla data di
proposizione del ricorso sussisteva l'attualità della
condotta antisindacale, considerato che dal 01.01.2013
l'amministrazione non è tenuta ad avviare la concertazione».
Sulla base di questo assunto, l'ordinanza non censura la
delibera dell'ente sui criteri per la istituzione delle
posizioni organizzative, avendo l'ente effettuato
l'informazione preventiva. Invece, il mancato svolgimento di
questa procedura determina l'illegittimità sia del
provvedimento di definizione delle performance
organizzative, sia del piano delle azioni positive, sia del Peg (incluso nelle materie per cui è necessario rispettare i
vincoli delle relazioni sindacali, nonostante il suo
carattere essenzialmente finanziario), sia della
programmazione annuale e triennale del fabbisogno del
personale.
Da sottolineare infine che il provvedimento ricorda che
comunque la concertazione doveva limitarsi alle scelte di
carattere generale e non ai singoli atti gestionali, per cui
non vi è nessuna condotta antisindacale nel mancato avvio di
tali procedure per uno specifico distacco (articolo Il Sole 24
Ore del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Anticorruzione. Sui rinnovi cortocircuito fra il Dlgs
39/2013 e la spending review.
Cda, no alle nomine obbligatorie
NELLE CONTROLLATE/ Il decreto di luglio impone di riservare due posti su tre ai
dipendenti ma la nuova normativa li giudica incompatibili.
Una nuova dose di incertezza sulla normativa degli enti
locali arriva dalle nuove regole sulle incompatibilità nelle
nomine dei Cda delle società pubbliche. Il momento è caldo,
perché in questi giorni si procede, con l'approvazione dei
bilanci di esercizio, al rinnovo dei consigli in scadenza.
Fino a pochi giorni fa nel mondo degli enti locali si stava
discutendo sulle modalità di prima applicazione
dell'articolo 4 del Dl 95/2012, e del rispetto delle regole,
anch'esse al debutto, di rappresentanza di genere previste
dal DPR 251/2012. Su questo panorama, il 4 maggio è
intervenuta l'entrata in vigore del Dlgs 39/2013, che cambia
radicalmente le regole di nomina dei consiglieri.
Il decreto segue alla legge 190/2012, nata per impedire ai
corrotti di restare in politica (ed oggi efficace per la
candidatura di una sola persona, un ex sindaco condannato in
Molise per un abuso di ufficio nel lontano 1982).
Va ricordato che l'articolo 4 del Dl 95/2012 prevedeva che
almeno due consiglieri su tre, o tre su cinque, fossero,
nelle società interamente pubbliche, dipendenti degli enti
locali, con tutta una serie di declinazioni a seconda dei
casi (disciplinate dai commi 4 e 5 del citato articolo). Il
punto, comunque, era risparmiare sui compensi degli
amministratori e assicurare un rapporto più stretto tra
Comune e società partecipate. Si poteva essere d'accordo o
no (e noi non lo siamo mai stati), ma si trattava di una
scelta chiara, che però ha prodotto i suoi effetti per pochi
giorni, visto che le prime assemblee societarie interessate
dalla sua applicazione si sono tenute nell'ultima decade di
aprile.
Il nuovo decreto, invece, interpreta la presenza dei
dirigenti comunali nei Cda come elementi potenzialmente
corruttivi. Probabilmente il tutto dipende solo dal fatto
che il ministero proponente è diverso da quello che ha
stilato la norma precedente, ma il problema è che ci sono in
ballo i membri di centinaia di Cda e, con essi, i destini di
altrettante società. All'articolo 9, comma 1, si precisa che
«gli incarichi amministrativi di vertice e gli incarichi
dirigenziali, comunque denominati, nelle pubbliche
amministrazioni, che comportano poteri di vigilanza o
controllo sulle attività svolte dagli enti di diritto
privato regolati o finanziati dall'amministrazione che
conferisce l'incarico, sono incompatibili con l'assunzione e
il mantenimento, nel corso dell'incarico, di incarichi e
cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati
dall'amministrazione o ente pubblico che conferisce
l'incarico». Il tutto ribadito all'articolo 12, comma 4,
lettera b), che spazza anche il dubbio che si possano
nominare dirigenti che non svolgano funzioni di controllo.
Si noti che si parla anche di "mantenimento" della nomina, e
che quindi di fatto si prevede l'obbligo alle dimissioni di
coloro che siano stati nominati in applicazione all'articolo
4 del Dl 95/2012. Il coordinamento tra le norme, per altro,
è impossibile, a meno che non si ritenga che nei consigli di
amministrazione debbano essere indicati solo dipendenti che
non siano dirigenti. Sarebbe difficile, però, comprenderne
la ratio, e il tenore letterale dell'articolo 4 lascia
intendere che si pensi, come è ovvio, proprio ai dirigenti,
visto il riferimento all'onnicomprensività del trattamento
economico che è proprio solo della dirigenza.
Per ridare ordine al sistema, il legislatore deve decidere
chi deve entrare in un Cda e chi no, ma una volta fatta
questa difficile scelta, si deve sforzare di non cambiare
idea, e di tenere fermi i criteri almeno per qualche mese (articolo Il Sole 24
Ore del 06.05.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Fisco locale. Abrogata la possibilità di alzare l'imposta e
i diritti sulle affissioni.
Aumenti vietati per la pubblicità
LO STOP/ L'ultimo decreto Sviluppo ha cancellato la chance
di elevare le tariffe e colpisce anche i ritocchi già decisi
in passato.
A rischio il gettito derivante dall'imposta di pubblicità e
dai diritti sulle pubbliche affissioni.
In un contesto particolarmente difficile per la finanza
locale, le entrate provenienti dalle tariffe definite al
Capo I del Dlgs 507/1993 non possono più essere aumentate
rispetto alla misura standard.
L'articolo 11, comma 10, della legge 449/1997, integrato
dall'articolo 30, comma 17, della Finanziaria 2000, elevava
al 50% l'aumento massimo consentito per superfici superiori
al metro quadrato, a decorrere dal 01.01.2000. Il punto
30 dell'Allegato 1 al Dl 83/2012 abroga questa norma, con
decorrenza 26.06.2012. Nonostante lo sblocco della
potestà tributaria e tariffaria degli enti locali, le
tariffe dell'imposta di pubblicità e dei diritti sulle
pubbliche affissioni non possono quindi superare le misure
standard previste dal Dlgs 507/1993.
L'unica eccezione è rappresentata dalla possibilità di
aumento, limitatamente alle affissioni di carattere
commerciale, prevista per i Comuni delle prime tre classi,
che possono suddividere le località del proprio territorio
in due categorie in relazione alla loro importanza,
applicando alla categoria speciale una maggiorazione fino al
150% della tariffa normale.
Il regolamento comunale deve comunque specificare le
località comprese nella categoria speciale, la cui
superficie complessiva non può superare il 35% di quella del
centro abitato; in ogni caso, la superficie degli impianti
per pubbliche affissioni installati in categoria speciale
non potrà essere superiore alla metà di quella complessiva.
In ossequio al principio generale secondo cui l'impianto
tributario e tariffario deve essere definito in rifermento
alle norme vigenti, è da ritenersi che eventuali aumenti
deliberati in passato non possano essere confermati nel
2013.
Il nodo da sciogliere non è tuttavia di poco conto se si
considera che la legge 296/2006 (articolo 1, comma 169)
dispone che gli enti locali deliberano le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la
data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione e che, se l'ente non delibera alcuna
variazione di aliquote e tariffe, le stesse si intendono
prorogate di anno in anno.
La variazione delle tariffe determinerebbe inoltre l'obbligo
di rimborso delle somme eventualmente corrisposte per l'anno
in corso.
A poco tempo dalla scadenza per l'approvazione dei bilanci,
molte sono ancora le incertezze in tema di entrate degli
enti locali. Manca infatti la rideterminazione del Fondo
sperimentale di riequilibrio 2012 (che avrebbe dovuto
avvenire entro lo scorso 28 febbraio in funzione del gettito
Imu definitivamente accertato a favore di Comuni) e,
conseguentemente, la quota di gettito da versare allo Stato
al fine di costituire il Fondo di Solidarietà, nonché le
relative modalità di riparto.
Alle questioni sopra accennate si sommano inoltre le
incertezze sul quadro ordinamentale della Tares e dell'Imu,
che solo parzialmente hanno trovato definizione con il
recente DL 35/2013.
È auspicabile che si arrivi quanto prima alla definizione di
un quadro normativo certo, in riferimento al quale poter
pianificare correttamente le risorse e le strategie per il
raggiungimento degli obiettivi programmati (articolo Il
Sole 24 Ore del 06.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
La Commissione
giudicatrice di un concorso esprime, quanto alla sufficienza
della preparazione del candidato, un giudizio
tecnico-discrezionale caratterizzato da profili di puro
merito…non sindacabile in sede di legittimità, salvo che
risulti manifestamente viziato da illogicità,
irragionevolezza , arbitrarietà o travisamento.
Il giudice deve valutare la coerenza logica del giudizio
operato dalla Commissione, ma non può sostituire o
giustapporre alla valutazione della Commissione un proprio ,
differente giudizio.
La Sezione deve qui richiamare quanto più volte Consiglio di
Stato ha avuto modo di affermare in subiecta materia
e cioè che:
a) la Commissione giudicatrice di un concorso esprime,
quanto alla sufficienza della preparazione del candidato, un
giudizio tecnico-discrezionale caratterizzato da profili di
puro merito…non sindacabile in sede di legittimità, salvo
che risulti manifestamente viziato da illogicità,
irragionevolezza , arbitrarietà o travisamento (Cons. Stato
Sez. IV n. 1237/2008);
b) il giudice deve valutare la coerenza logica del giudizio
operato dalla Commissione, ma non può sostituire o
giustapporre alla valutazione della Commissione un proprio,
differente giudizio (Cons. Stato Sez. IV n. 5581/2012)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2013 n. 2509 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Cantiere pericoloso. Tutti responsabili.
Ne risponde pure il subappaltatore.
Se il cantiere dell'appaltatore è pericoloso la
responsabilità si estende anche al subappaltatore. Gli
obblighi di osservanza delle norme antinfortunistiche, con
specifico riferimento all'esecuzione di lavori in subappalto
all'interno di un unico cantiere edile predisposto
dall'appaltatore, grava su tutti coloro che esercitano i
lavori, quindi anche sul subappaltatore interessato
all'esecuzione di un'opera parziale e specialistica,.
Quest'ultimo, infatti, ha l'onere di riscontrare e accertare
la sicurezza dei luoghi di lavoro, pur se la sua attività si
svolga contestualmente ad altra, prestata da altri soggetti,
e sebbene l'organizzazione del cantiere sia direttamente
riconducibile all'appaltatore, che non cessa di essere mai
titolare dei poteri direttivi generali.
Questo è il principio giuridico contenuto nella
sentenza
07.05.2013 n. 19505, IV Sez. penale, della Corte di
Cassazione.
Il fatto in sintesi: un subappaltatore veniva condannato
alla pena di 550 euro per avere omesso di predisporre che
una gru a rotazione bassa fosse munita di apposita
recinzione. L'imputato lamentava, in primo luogo con
riferimento alla violazione relativa alla assenza di
recinzione della gru a rotazione bassa, che non è stato
considerato che egli, operante nel cantiere impiantato ed
organizzato da altri unicamente come subappaltatore, aveva
espressamente vietato ai propri dipendenti di usare detta
gru di cui egli non era, infatti, proprietario. Del resto lo
stesso ispettore del lavoro intervenuto in loco non aveva
verificato a chi appartenesse la gru.
I giudici di cassazione ricordano che le disposizioni
normative riguardanti l'antinfortunistica, con specifico
riguardo all'esecuzione di lavori in subappalto all'interno
di un unico cantiere edile predisposto dall'appaltatore,
grava su tutti coloro che esercitano i lavori, quindi anche
sul subappaltatore
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La comunicazione va
considerata quale provvedimento conclusivo di un
procedimento ad istanza di parte ma la comunicazione di
preavviso di diniego nei procedimenti di tal guisa deve
ritenersi assoggettata alle stesse regole valevoli per la
comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente
superamento del vizio formale in questione nelle ipotesi,
come quella di specie, in cui la comunicazione di avvio del
procedimento non è necessaria.
Infatti, al riguardo, l'obbligo in questione presuppone che
l'interessato ignori l'esistenza del procedimento stesso.
---------------
L'omessa indicazione del termine e dell'autorità cui è
possibile ricorrere comporta una mera irregolarità che non
incide né sulla validità né sull'efficacia del provvedimento
stesso e, al più, può dar luogo, nel concorso di
significative ulteriori circostanze, alla concessione del
beneficio della rimessione in termini.
E’ stata in primo luogo dedotta violazione dell’art. 10-bis
della l. n. 241/1990 per avere il Comune respinto un’istanza
della ricorrente senza preavviso delle ragioni di diniego.
La censura è ad avviso della Sezione incondivisibile, atteso
che la comunicazione va considerata quale provvedimento
conclusivo di un procedimento ad istanza di parte ma la
comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti di
tal guisa deve ritenersi assoggettata alle stesse regole
valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento, con
conseguente superamento del vizio formale in questione nelle
ipotesi, come quella di specie, in cui la comunicazione di
avvio del procedimento non è necessaria.
Infatti, al riguardo, l'obbligo in questione presuppone che
l'interessato ignori l'esistenza del procedimento stesso
(Consiglio di Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4421).
---------------
E’ stata infine
dedotta violazione dell’art. 3, u.c., della l. n. 241/1990
per non essere stati indicati il termine e l’autorità cui
era possibile ricorrere.
La censura non può essere condivisa perché, in base a
consolidata e condivisa giurisprudenza, l'omessa indicazione
del termine e dell'autorità cui è possibile ricorrere
comporta una mera irregolarità che non incide né sulla
validità né sull'efficacia del provvedimento stesso e, al
più, può dar luogo, nel concorso di significative ulteriori
circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione
in termini (Consiglio di Stato, sez. VI, 29.05.2012, n.
3176)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2402 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di verifica
possono essere rimodulate le quantificazioni dei costi e
dell’utile purché non venga modificato l’importo complessivo
della offerta formulata, atteso che (premesso che
nell'interpretazione del dato normativo non può trascurarsi
che la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di verifica
della offerta anomala è pur sempre la piena affidabilità
della proposta contrattuale, senza però che possa essere
modificato l'importo complessivo dell'offerta presentata) è
condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo cui
l'impresa aggiudicataria può, nell'ambito del
subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta
presentata, rimodulare le quantificazioni dei costi e
dell'utile, indicate nella relazione giustificativa
dell'offerta economica.
Il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala
deve prevedere la inammissibilità solo delle giustificazioni
che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che
invece non è stata adeguatamente meditata, risultano
tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi
rispetto a quella originariamente indicata.
Per le stesse ragioni non è consentita l'immotivata
rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far quadrare
i conti, al fine cioè di assicurare che il prezzo
complessivo offerto resti immutato, superando le
contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di
costo; ciò proprio perché, nel giudizio di congruità
dell'offerta, esplicazione di valutazioni tecniche
sindacabili solo in caso di illogicità manifesta o di
erroneità fattuale, non è in questione soltanto della
generica capienza dell'offerta, ma anche la sua serietà.
Pure condivisibile è la tesi che in sede di verifica possono
essere rimodulate le quantificazioni dei costi e dell’utile
purché non venga modificato l’importo complessivo della
offerta formulata, atteso che (premesso che
nell'interpretazione del dato normativo non può trascurarsi
che la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di
verifica della offerta anomala è pur sempre la piena
affidabilità della proposta contrattuale, senza però che
possa essere modificato l'importo complessivo dell'offerta
presentata) è condivisibile l'orientamento giurisprudenziale
(Consiglio Stato, Sez. V, sent. n. 653 del 10.2.2010)
secondo cui l'impresa aggiudicataria può, nell'ambito del subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta
presentata, rimodulare le quantificazioni dei costi e
dell'utile, indicate nella relazione giustificativa
dell'offerta economica.
Il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala
deve prevedere la inammissibilità solo delle giustificazioni
che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che
invece non è stata adeguatamente meditata, risultano
tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi
rispetto a quella originariamente indicata. Per le stesse
ragioni non è consentita l'immotivata rimodulazione di voci
di costo al solo scopo di far quadrare i conti, al fine cioè
di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti
immutato, superando le contestazioni della stazione
appaltante su alcune voci di costo; ciò proprio perché, nel
giudizio di congruità dell'offerta, esplicazione di
valutazioni tecniche sindacabili solo in caso di illogicità
manifesta o di erroneità fattuale, non è in questione
soltanto della generica capienza dell'offerta, ma anche la
sua serietà (Consiglio di Stato, sez. V, 30.11.2012, n.
6117) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2401 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
L’amministrazione è
notoriamente titolare del potere, riconosciuto dall’art.
21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, di revocare per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di
mutamento della situazione di fatto o di una nuova
valutazione dell’interesse pubblico originario, un proprio
precedente provvedimento amministrativo.
---------------
E' stato considerato legittimo il provvedimento di revoca di
una gara di appalto, disposta in una fase non ancora
definita della procedura concorsuale, ancora prima del
consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il
contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con
riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla
revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione
ammette un ripensamento da parte della amministrazione a
seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario.
E' stato ripetutamente ribadito che fino a quando non sia
intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel potere
discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del
bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano
concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere
inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione
della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche
nell’organizzazione del servizio attinenti le concrete
modalità di esecuzione, il riassetto societario, la volontà
di provvedere in autoproduzione e non mediante
esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso
tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di
personale in un quadro di attività concertate in sede
sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno,
sono tutti profili attinenti al merito dell’azione
amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del
giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di
irragionevolezza.
Anche il riferimento al risparmio economico derivante dalla
revoca è stato ritenuto legittimo motivo della stessa.
Con particolare riferimento alla specifica fattispecie in
esame deve poi aggiungersi che l’amministrazione è
notoriamente titolare del potere, riconosciuto dall’art.
21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, di revocare per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di
mutamento della situazione di fatto o di una nuova
valutazione dell’interesse pubblico originario, un proprio
precedente provvedimento amministrativo (C.d.S., sez. V,
18.01.2011, n. 283).
Con riguardo alle procedure ad evidenza pubblica è stato
considerato legittimo il provvedimento di revoca di una gara
di appalto, disposta in una fase non ancora definita della
procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle
posizioni delle parti e quando il contratto non è stato
ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio
economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto
la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte
della amministrazione a seguito di una nuova valutazione
dell’interesse pubblico originario (C.d.S., sez. III,
15.11.2011, n. 6039; 13.04.2011, n. 2291); è stato
ripetutamente ribadito che fino a quando non sia intervenuta
l’aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale
dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e
degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di
interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo
da sconsigliare, la prosecuzione della gara, puntualizzando
che le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio
attinenti le concrete modalità di esecuzione, il riassetto
societario, la volontà di provvedere in autoproduzione e non
mediante esternalizzazione, la necessità di consentire
attraverso tale scelta organizzativa un maggior assorbimento
di personale in un quadro di attività concertate in sede
sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno,
sono tutti profili attinenti al merito dell’azione
amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del
giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di
irragionevolezza (C.d.S., sez. V, 09.04.2010, n. 1997);
anche il riferimento al risparmio economico derivante dalla
revoca è stato ritenuto legittimo motivo della stessa
(C.d.S., sez. V, 08.09.2011, n. 5050) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2400 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel giudizio di ottemperanza il giudice è
chiamato non solo alla puntuale verifica dell'esatto
adempimento da parte dell'Amministrazione dell'obbligo di
conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente
all'interessato l'utilità o il bene della vita già
riconosciutogli in sede di cognizione, ma deve anche
apprezzare le eventuali sopravvenienze di fatto e/o di
diritto per stabilire in concreto se il ripristino della
situazione soggettiva, sacrificata illegittimamente, come
definitivamente accertato in sede di cognizione, sia
compatibile con lo stato di fatto e/o diritto prodottosi
medio tempore.
Nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come
contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della
pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza
in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento
attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale
o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva
del giudicato.
Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo
l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento
illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o
elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un
obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo
contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti
essenziali dalla sentenza, con la conseguenza che la
verifica della sussistenza del vizio di violazione o
elusione del giudicato implica il riscontro della difformità
specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale
di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella
sentenza da eseguire.
La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando
il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in
sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con
precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla
statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato
allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a
dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue
l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale,
giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto
illegittimo.
Occorre preliminarmente ricordare che nel giudizio di
ottemperanza il giudice è chiamato non solo alla puntuale
verifica dell'esatto adempimento da parte
dell'Amministrazione dell'obbligo di conformarsi al
giudicato per far conseguire concretamente all'interessato
l'utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede
di cognizione [C.d.S., sez. V, 03.10.1997, n. 1108; sez. IV, 15.04.1999, n. 626; 17.10.2000, n. 5512,
verifica che, come’è noto, deve essere condotta nell'ambito
dello stesso quadro processuale che ha costituito il
substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si
chiede l'esecuzione (C.d.S., sez. V, 09.05.2001, n. 2607;
sez. IV, 09.01.2001, n. 49; 28.12.1999, n. 1964) e
che implica una delicata attività di interpretazione del
giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del
comando, attività da compiersi esclusivamente sulla base
della sequenza "petitum - causa petendi - motivi - decisum",
C.d.S., sez. IV, 09.01.2001, n. 49; 28.12.1999, n.
1963; sez. V, 28.02.2001, n. 1075], ma deve anche
apprezzare le eventuali sopravvenienze di fatto e/o di
diritto per stabilire in concreto se il ripristino della
situazione soggettiva, sacrificata illegittimamente, come
definitivamente accertato in sede di cognizione, sia
compatibile con lo stato di fatto e/o diritto prodottosi
medio tempore [C.d.S., sez. V, 04.10.2007, n. 5137; sez. VI,
05.07.2011, n. 4037; 27.12.2011, n. 6849,
ferma in ogni caso l’irrilevanza delle sopravvenienze di
fatto e di diritto successive alla notificazione della
sentenza della cui ottemperanza si tratta, tra le tante,
C.d.S., sez. VI, 05.07.2011, n. 4037; 03.11.2019, n.
7761; 22.10.2010, n. 5816; sez. IV, 03.12.2010, n.
8510].
Una simile ricostruzione dei poteri del giudice
dell’ottemperanza non implica affatto un possibile
inammissibile vulnus alla stessa effettività della tutela
giurisdizionale amministrativa e ai principi costituzionali
sanciti dagli articoli 24, 111 e 113, rappresentando
piuttosto il naturale e coerente contemperamento della
pluralità degli interessi e dei principi costituzionali che
vengono in gioco nel procedimento giurisdizionale
amministrativo, quali quello secondo cui la durata del
processo non deve andare a danno della parte vittoriosa (che
ha diritto, però, all’esecuzione del giudicato in base allo
stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’atto
lesivo, caducato in sede giurisdizionale) e quello della
stessa dinamicità dell’azione amministrazione e
dell’esercizio della relativa funzione da parte della
pubblica amministrazione che ne è titolare (che non consente
di poter ragionevolmente ipotizzare una sorta di
“congelamento” o di “fermo” della stessa, tant’è che sia
l’atto amministrativo che la sentenza di primo grado,
ancorché impugnati, non perdono in linea di principio la
loro efficacia e la loro idoneità a spiegare gli effetti
loro propri, tranne che questi ultimi non siano ritenuti
meritevoli di essere sospesi, su istanza degli interessati,
da parte rispettivamente del giudice di primo grado o da
quello di appello).
E’ anche da ricordare che la giurisprudenza ha
sottolineato che nel giudizio di ottemperanza può essere
dedotta come contrastante con il giudicato non solo
l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere
(inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè
un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi
un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la
violazione o l’elusione attiva del giudicato (C.d.S., sez.
VI, 12.12.2011, n. 6501).
Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo
l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento
illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o
elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un
obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo
contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti
essenziali dalla sentenza (C.d.S., sez. VI, 03.05.2011,
n. 2602; sez. IV, 13.01.2010, n. 70; 04.10.2007, n.
5188), con la conseguenza che la verifica della sussistenza
del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il
riscontro della difformità specifica dall’atto stesso
rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente
all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire
(C.d.S., sez. IV, 21.05.2010, n. 3233; sez. VI, 07.06.2011, n. 3415;
05.12.2005, n. 6963).
La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando
il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in
sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con
precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla
statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato
allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a
dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue
l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale,
giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto
illegittimo (C.d.S., sez. IV, 01.04.2011, n. 2070,
04.03.2011, n. 1415; 31.12.2009, n. 9296) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2400 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il riconoscimento del
danno da perdita di chance non può intendersi subordinato
all'offerta in giudizio da parte dell’interessato di una
prova in termini di certezza, perché ciò è oggettivamente
incompatibile con la natura di tale voce di danno,
risultando quindi sufficiente che gli elementi addotti, in
virtù del principio contenuto nell'art. 2697 c.c.,
consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la
possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa
della condotta illecita altrui.
La censura è infondata.
Ed invero, nel giudizio di primo grado la Cooperativa
ha agito per ottenere il ristoro del danno subito per
l’inutile partecipazione ad una gara ab origine viziata e
per la perdita della chance di vedersi aggiudicato l’appalto, laddove l’amministrazione avesse provveduto come di dovere
a rinnovare la procedura concorsuale.
In particolare, la perdita di chance è stata causata dal
permanere nella gestione del servizio dell’aggiudicataria e
dalle proroghe a questa concesse dal Comune dell’Aquila, poi
annullate dal Tar Abruzzo .
La mancata indizione di una nuova gara e le illegittime
proroghe del servizio, infatti, hanno frustrato l’interesse
della Cooperativa alla partecipazione ad una nuova procedura
concorsuale che avrebbe dovuto essere indetta e che la
stessa, anche in forza dell’esperienza maturata per aver nel
passato svolto il servizio, avrebbe potuto aggiudicarsi.
Nella peculiare situazione di fatto testé delineata, quindi, la mera caducazione degli atti di gara non risulta
oggettivamente sufficiente a ristorare il danno subito dalla
Cooperativa, contrariamente a quanto ritenuto
dall’appellante.
Le citate voci di danno, peraltro, conseguono direttamente
agli atti impugnati ed annullati, senza che possa
pretendersi dalla Cooperativa la prova che si sarebbe
certamente aggiudicata il servizio all’esito della rinnovata
gara.
Infatti, come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza
anche di questa Sezione, il riconoscimento del danno da
perdita di chance non può intendersi subordinato all'offerta
in giudizio da parte dell’interessato di una prova in
termini di certezza, perché ciò è oggettivamente
incompatibile con la natura di tale voce di danno,
risultando quindi sufficiente che gli elementi addotti, in
virtù del principio contenuto nell'art. 2697 c.c.,
consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la
possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa
della condotta illecita altrui (così Cons. Stato, Sez. V, 18.04.2012, n. 225).
E non v’è dubbio, come la mancata indizione della nuova
gara e le illegittime proroghe di cui alla delibera della
Giunta del Comune dell’Aquila in data 29.04.2003,
abbiano oggettivamente compromesso la possibilità, per la
Cooperativa, di ottenere futuri vantaggi.
Pertanto, attesa la peculiarità della fattispecie, del tutto
correttamente il primo giudice ha liquidato il danno patito
dalla Cooperativa in via equitativa, sulla base di obiettivi
dati dalla stessa forniti, relativi al valore dell’appalto
(assumendo a parametro l’offerta formulata
dall’aggiudicataria) ed alla stima dell’utile conseguibile
(in relazione alla prevista durata dello stesso, anche a
seguito delle proroghe concesse) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2399 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Occupandosi delle disposizioni dei ricordati
artt. 1 e 7 del r.d. n. 3267 del 1923 la giurisprudenza ha
già avuto modo di sottolineare che, a causa della sua ratio
ed in virtù della stessa genericità della sua formulazione,
la autorizzazione in questione riguarda ogni attività
sottoposta a vincolo idrogeologico ed immutazione totale o
parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo
idrogeologico, ivi compresa in particolare l’attività
edificatoria, con la precisazione che detta normativa non
esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici
siano interessati dall’attività edificatoria, essendo invece
consentito ai proprietari dei terreni vincolati di
richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo
l’autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura
necessaria a consentire la realizzazione della costruzione.
Il regime autorizzatorio de qua implica in sostanza un
controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e
dell’equilibrio geologico o idraulico per evitare che
eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano
suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione
dell’ambiente, pregiudicandone l’equilibrio idrogeologico: è
stato così ritenuto legittimo il divieto di rimozione di
alberi per finalità idrogeologiche (ai sensi del ricordato
art. 7) qualora la conservazione di colture boschive attiene
alla stabilità dei terreni e al regime delle acque.
L’articolo 23 della legge regionale 07.05.1996, n. 11
(“Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 28.02.1987, n. 13, concernente la delega in materia di economia,
bonifica montana e difesa del suolo”), stabilisce al primo
comma che “Nei terreni e nei boschi di cui all’articolo 14,
sottoposti a vincolo idrogeologico, i movimenti di terra
nonché la soppressione di piante, arbusti e cespugli,
finalizzati ad una diversa destinazione o uso dei medesimi,
sono soggetti ad autorizzazione ai sensi dell’art. 7 del
R.D. 03.12.1923, n. 3267”, aggiungendo, al secondo
comma, che “L’autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata
dal Presidente della Comunità Montana per il territorio di
sua competenza e dei Comuni interclusi e dal Presidente
dell’Amministrazione provinciale per il restante territorio,
previa acquisizione del parere espresso dalla competente
Area generale di coordinamento sviluppo attività settore
primario – Settori tecnico amministrativi provinciali
foreste”.
L’articolo 14 della predetta legge regionale reca la
seguente definizione di bosco e di pascolo montano: “1. Sono
da considerarsi boschi i terreni sui quali esista o venga
comunque a costituirsi per via naturale o artificiale, un
popolamento di specie legnose forestali arboree od arbustive
a densità piena, a qualsiasi stadio di sviluppo si trovino,
dalle quali si possono trarre, come principale utilità,
prodotti comunemente ritenuti forestali, anche se non
legnosi, nonché benefici di natura ambientale riferibili
particolarmente alla protezione del suolo ed al
miglioramento della qualità della vita e, inoltre, attività
plurime di tipo zootecnico.
2. Sono da considerare altresì
boschi gli appezzamenti di terreno pertinenti ad un
complesso boscato che, per cause naturali o artificiali,
siano rimasti temporaneamente privi di copertura forestale e
nei quali il soprassuolo sia in attesa o in corso di
rinnovazione o ricostituzione.
3. A causa dei caratteri
parzialmente o prevalentemente forestali delle operazioni
colturali, di allevamento, di utilizzazione e delle funzioni
di equilibrio ambientale che possono esplicare, sono
assimilabili ai boschi alcuni ecosistemi arborei
artificiali, quali castagneti da frutto, le pinete di pino
domestico, anche se associate ad altre colture, le
vegetazioni dunali litoranee e quelle radicate nelle
pertinenze idrauliche golenali dei corsi d’acqua.
4. Sono da
considerarsi pascoli montani i terreni situati ad una
altitudine non inferiore a 700 metri, rivestiti di cotico
erboso permanente, anche se sottoposti a rottura ad
intervalli superiori ai dieci anni ed anche se rivestiti da
piante arboree od arbustive radicate mediamente ad altezza
non inferiore ai 20 metri”.
Il regio decreto 30.12.1923, n. 3267 (“Riordinamento e
riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni
montani”), dopo aver previsto all’art. 1 che “Sono
sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici i terreni di
qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di
utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7,
8 e 9 possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere
la stabilità o turbare il regime delle acque”, dispone
all’art. 7 che “Per i terreni vincolati la trasformazione
dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione
di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione
sono subordinate ad autorizzazione del Comitato forestale e
alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo
di prevenire i danni di cui all’art. 1”.
Occupandosi delle disposizioni dei ricordati artt. 1 e
7 del r.d. n. 3267 del 1923 la giurisprudenza ha già avuto
modo di sottolineare che, a causa della sua ratio ed in
virtù della stessa genericità della sua formulazione, la
autorizzazione in questione riguarda ogni attività
sottoposta a vincolo idrogeologico ed immutazione totale o
parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo
idrogeologico, ivi compresa in particolare l’attività
edificatoria (C.d.S., sez. VI, 31.12.1988, n. 1347; 29.03.1983, n. 161; 25.05.1979, n. 395), con la
precisazione che detta normativa non esclude che i terreni
interessati da vincoli idrogeologici siano interessati
dall’attività edificatoria, essendo invece consentito ai
proprietari dei terreni vincolati di richiedere la rimozione
del vincolo (o anche solo l’autorizzazione al taglio di
alcuni alberi) nella misura necessaria a consentire la
realizzazione della costruzione (C.d.S., sez. V, 14.04.1993, n. 480).
Il regime autorizzatorio de qua implica in sostanza un
controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e
dell’equilibrio geologico o idraulico per evitare che
eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano
suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione
dell’ambiente, pregiudicandone l’equilibrio idrogeologico
(C.d.S., sez. V, 03.01.1992, n. 4; sez. VI, 02.03.1987, n. 94): è stato così ritenuto legittimo il divieto di
rimozione di alberi per finalità idrogeologiche (ai sensi
del ricordato art. 7) qualora la conservazione di colture
boschive attiene alla stabilità dei terreni e al regime
delle acque (C.d.S., sez. VI, 30.10.1985, n. 571) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.05.2013 n. 2389 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Spetta al ricorrente, che
assume di aver subito un danno dall’adozione di un
provvedimento illegittimo o anche da un comportamento della
pubblica amministrazione, l’onere della prova, secondo il
principio generale fissato dall’art. 2697 c.c., non potendo
a tanto supplire il soccorso istruttorio del giudice,
trattandosi di prove che sono nella piena disponibilità
della parte.
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E’ stato ripetutamente sottolineato, in tema di
responsabilità della pubblica amministrazione:
- l’ingiustizia del danno non può considerarsi in re ipsa
nella sola illegittimità dell’esercizio della funzione
amministrativa o pubblica in generale, dovendo in realtà il
giudice procedere ad accertare che sussista un evento
dannoso;
- che il danno sia qualificabile come ingiusto (in relazione
alla sua incidenza su un interesse rilevante per
l’ordinamento);
- che l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo
causale, ad una condotta della pubblica amministrazione;
- che l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della
pubblica amministrazione anche sotto il profilo soggettivo
del dolo o della colpa.
Anche nel giudizio amministrativo, invero, spetta al
ricorrente, che assume di aver subito un danno dall’adozione
di un provvedimento illegittimo o anche da un comportamento
della pubblica amministrazione, l’onere della prova, secondo
il principio generale fissato dall’art. 2697 c.c. (ex
multis, C.d.S., sez. V, 13.06.2008, n. 2967; 18.01.2006,
n. 112; sez. VI, 14.11.2012, n. 5747; 22.08.2006, n. 4932;
27.02.2006, n. 835), non potendo a tanto supplire il
soccorso istruttorio del giudice, trattandosi di prove che
sono nella piena disponibilità della parte.
E’ stato ripetutamente sottolineato, in tema di
responsabilità della pubblica amministrazione:
- che l’ingiustizia del danno non può considerarsi in re
ipsa nella sola illegittimità dell’esercizio della
funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo in
realtà il giudice procedere ad accertare che sussista un
evento dannoso;
- che il danno sia qualificabile come ingiusto (in relazione
alla sua incidenza su un interesse rilevante per
l’ordinamento);
- che l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo
causale, ad una condotta della pubblica amministrazione;
- che l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della
pubblica amministrazione anche sotto il profilo soggettivo
del dolo o della colpa (ex pluribus, Cass. Civ., sez.
III, 28.10.2011, n. 22508; 23.02.2010, n. 4326) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.05.2013 n. 2388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire, come ogni altro atto
della p.A. destinato ad incidere sulla proprietà privata,
costituisce un provvedimento autoritativo, di natura
vincolata e non discrezionale, con il quale si vuole
attestare la conformità del progetto alla normativa
urbanistica ed edilizia della zona interessata. A tal fine
il Comune deve articolare l’istruttoria verificando
l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 11 del
d.p.r. n. 380/2001, secondo il quale “il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi
abbia titolo per richiederlo”.
Invero, la p.A. deve rilasciare il permesso di costruire
solo a chi dimostri di possedere un titolo idoneo di
godimento sull’area da assoggettare alla trasformazione
urbanistica; è chiaro che il Comune, in sede di esame dei
progetti edilizi, è chiamato a valutare se ricorrono le
condizioni legali e fattuali per l’esercizio dello ius
aedificandi, ovvero di una facoltà inerente al diritto di
proprietà.
In ossequio, dunque, ai principi generali di efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 1 l.
241/1990, è richiesto un controllo non solo formale ma anche
sostanziale sui requisiti di ammissibilità della domanda di
autorizzazione. Tuttavia, al di là di tale onere di
accertamento, non incombe in capo alla PA l’ulteriore onere
di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico
documentali sul titolo di proprietà depositato dal
richiedente. Il Comune deve limitarsi ad accertare
l’astratta titolarità della proprietà in capo a costui,
senza doverla accertare in concreto. La giurisprudenza
maggioritaria è infatti concorde nell’affermare che “ai fini
del rilascio del permesso di costruire l’amministrazione è
onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo
astrattamente idoneo da parte del richiedente alla
disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio:
cioè l’astratta proprietà desunta dagli atti pubblici
prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali”.
Inoltre, con riferimento all’ipotesi in cui sussistano
conflitti di interesse tra le parti private in ordine
all’assetto proprietario degli immobili interessati, la p.A.
ha il dovere di verificare l’esistenza di un titolo di
proprietà legittimante all’esercizio dello ius aedificandi,
ma non può essere onerata dell’accertamento circa la reale
titolarità del diritto di proprietà, che compete, se del
caso, al giudice ordinario e non al giudice amministrativo,
rientrando nella sfera dei diritti soggettivi a quest’ultimo
generalmente preclusi. Ed invero, con riferimento ai diritti
dei terzi si ritiene, concordemente, che sia estraneo al
potere dell’amministrazione comunale l’accertamento di
eventuali limiti al diritto di proprietà del richiedente
nell’esercizio dell’attività edificatoria.
Invero, secondo giurisprudenza consolidata, il
permesso di costruire, come ogni altro atto della p.A.
destinato ad incidere sulla proprietà privata, costituisce
un provvedimento autoritativo, di natura vincolata e non
discrezionale, con il quale si vuole attestare la conformità
del progetto alla normativa urbanistica ed edilizia della
zona interessata. A tal fine il Comune deve articolare
l’istruttoria verificando l’esistenza dei presupposti
richiesti dall’art. 11 del d.p.r. n. 380/2001, secondo il
quale “il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo”.
Da una corretta interpretazione della norma, si evince che
la p.A. deve rilasciare il permesso di costruire solo a chi
dimostri di possedere un titolo idoneo di godimento
sull’area da assoggettare alla trasformazione urbanistica; è
chiaro che il Comune, in sede di esame dei progetti edilizi,
è chiamato a valutare se ricorrono le condizioni legali e
fattuali per l’esercizio dello ius aedificandi, ovvero di
una facoltà inerente al diritto di proprietà.
In ossequio, dunque, ai principi generali di efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 1 l.
241/1990, è richiesto un controllo non solo formale ma anche
sostanziale sui requisiti di ammissibilità della domanda di
autorizzazione. Tuttavia, al di là di tale onere di
accertamento, non incombe in capo alla PA l’ulteriore onere
di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico
documentali sul titolo di proprietà depositato dal
richiedente. Il Comune deve limitarsi ad accertare
l’astratta titolarità della proprietà in capo a costui,
senza doverla accertare in concreto. La giurisprudenza
maggioritaria è infatti concorde nell’affermare che “ai fini
del rilascio del permesso di costruire l’amministrazione è
onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo
astrattamente idoneo da parte del richiedente alla
disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio:
cioè l’astratta proprietà desunta dagli atti pubblici
prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali” (da
ultimo Cons. Stato sez. IV n. 1990/2012).
Inoltre, con riferimento all’ipotesi in cui sussistano
conflitti di interesse tra le parti private in ordine
all’assetto proprietario degli immobili interessati, la p.A.
ha il dovere di verificare l’esistenza di un titolo di
proprietà legittimante all’esercizio dello ius aedificandi,
ma non può essere onerata dell’accertamento circa la reale
titolarità del diritto di proprietà, che compete, se del
caso, al giudice ordinario e non al giudice amministrativo,
rientrando nella sfera dei diritti soggettivi a quest’ultimo
generalmente preclusi. Ed invero, con riferimento ai diritti
dei terzi si ritiene, concordemente, che sia estraneo al
potere dell’amministrazione comunale l’accertamento di
eventuali limiti al diritto di proprietà del richiedente
nell’esercizio dell’attività edificatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La mancata comunicazione del preavviso di diniego
ex art. 10-bis non comporta l’illegittimità dell’atto
laddove la PA dimostri che il contenuto del provvedimento
non poteva essere diverso da quello in concreto adottato, in
relazione a quanto previsto dall’art. 21-octies.
Invero, l'art . 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, in materia di
partecipazione procedimentale, non deve essere interpretato
in senso formalistico, ma si deve avere riguardo
all'effettivo e oggettivo pregiudizio, nel senso che la
violazione dell'obbligo di preventiva comunicazione dei
motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, imposto dal
cit. art. 10-bis, è inidonea di per sé a giustificare
l'annullamento di un atto, non essendo consentito, ai sensi
del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei
provvedimenti amministrativi, il cui contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
In ordine,
infine, alla violazione e falsa applicazione di legge,
eccesso di potere per contrasto con gli artt. 3, 10-bis e 21-octies l. n. 241/1990, si ritiene concordemente con la
giurisprudenza maggioritaria che la mancata comunicazione
del preavviso di diniego ex art. 10-bis non comporta
l’illegittimità dell’atto laddove la PA dimostri che il
contenuto del provvedimento non poteva essere diverso da
quello in concreto adottato, in relazione a quanto previsto
dall’art. 21-octies.
In tal senso si è infatti espresso di
recente il Consiglio di Stato, affermando che “L'art . 10-bis, l.
07.08.1990 n. 241, in materia di partecipazione
procedimentale, non deve essere interpretato in senso
formalistico, ma si deve avere riguardo all'effettivo e
oggettivo pregiudizio, nel senso che la violazione
dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza, imposto dal cit. art. 10-bis, è inidonea di per sé a giustificare l'annullamento di
un atto, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei provvedimenti
amministrativi, il cui contenuto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato” (cfr. sez. IV, 20.02.2013, n. 1056).
Ebbene nel caso di specie, in base alle anzidette ragioni,
si può affermare che il contributo istruttorio che il
ricorrente avrebbe offerto se avesse partecipato al
procedimento non avrebbe potuto indurre l’Amministrazione ad
assumere determinazioni di diverso segno, attesa la
obiettiva incertezza circa la titolarità del bene oggetto
del titolo richiesto (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
E' legittimo il diniego di compenso del lavoro
straordinario che il pubblico dipendente afferma di aver
svolto ma che non furono autorizzate dall'Amministrazione né
in via preventiva né in via successiva e neppure in
sanatoria, né l'autorizzazione può ritenersi implicitamente
rilasciata per ragioni di necessità ed urgenza, solo
allegate ma non documentate.
Invero, l'autorizzazione ad eseguire lavoro straordinario ha
lo scopo di controllare, nel rispetto del principio di cui
all'art. 97 Cost., l'esigenza di effettive ragioni di
pubblico interesse e del servizio, per cui una volta
individuata la reale esistenza delle suddette esigenze, con
conseguente autorizzazione alla esecuzione delle ore di
lavoro straordinario, sussiste il conseguente obbligo per
l'ente di corrispondere il compenso per le suddette
prestazioni.
Trova quindi applicazione il
costante orientamento della giurisprudenza, confermato di
recente dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa
(Consiglio di Stato sez. III, 25.03.2013, n. 1650),
secondo cui “E' legittimo il diniego di compenso del lavoro
straordinario che il pubblico dipendente afferma di aver
svolto ma che non furono autorizzate dall'Amministrazione né
in via preventiva né in via successiva e neppure in
sanatoria, né l'autorizzazione può ritenersi implicitamente
rilasciata per ragioni di necessità ed urgenza, solo
allegate ma non documentate”.
La giurisprudenza amministrativa in subiecta materia
ha infatti reiteratamente precisato, come correttamente
rilevato dai ricorrenti, che l'autorizzazione ad eseguire
lavoro straordinario ha lo scopo di controllare, nel
rispetto del principio di cui all'art. 97 Cost., l'esigenza
di effettive ragioni di pubblico interesse e del servizio,
per cui una volta individuata la reale esistenza delle
suddette esigenze, con conseguente autorizzazione alla
esecuzione delle ore di lavoro straordinario, sussiste il
conseguente obbligo per l'ente di corrispondere il compenso
per le suddette prestazioni
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di un’istanza di sanatoria ex
art. 36 dpr 380/2001, successivamente alla impugnazione
dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere
improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza
di interesse, in quanto il riesame dell’abusività
dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale
sanabilità, provocato dall’istanza di sanatoria, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito
od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell’impugnativa.
La presentazione di un’istanza di sanatoria
ex art. 36 dpr 380/2001 successivamente alla impugnazione
dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza
di interesse, in quanto il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale
sanabilità, provocato dall’istanza di sanatoria, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito
od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell’impugnativa (TAR Campania Napoli,sez IV, 28.10.2011
n. 5052; TAR Lazio Roma sez. II, 14.11.2011 n. 8825)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1033
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Consiglio di Stato pur osservando che, secondo
un suo precedente, non integra l’ipotesi di trasformazione
urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a
concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l’intervento
materialmente consistente nella mera ripulitura di un
terreno parzialmente erboso, con ripristino di una
recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla
rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente
utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato
all’esposizione di autovetture a scopi commerciali, tuttavia
ritiene di condividere l’orientamento più restrittivo, in
base al quale lo spargimento di ghiaia su un’area che ne era
in precedenza priva richiede la concessione edilizia
allorché appaia preordinata alla modifica della precedente
destinazione d’uso.
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla
risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui
deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers.
Il Consiglio di Stato, con la citata pronuncia, soggiunge
che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un
testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia
-D.P.R. n. 380/2001 atteso che l’art. 3, in materia di
definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso
di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni-
<<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche
per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via
permanente di suolo inedificato>> (lett. e. 3) e <<la
realizzazione di depositi di merci o di materiali, la
realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto
ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la
trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e. 7); si
tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di
connotazione strettamente edilizia e, nondimeno,
assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell'art. 10, comma 2,
secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
Non è da trascurare, con specifico riferimento alle
caratteristiche dell’intervento descritto in atti, non solo
che all’area è stata impressa la nuova destinazione d’uso a
parcheggio non mediante lo spargimento di ghiaia bensì
attraverso la messa in opera di asfalto, ma anche che
trattasi di area di rilevanti dimensioni, complessivamente
trasformata anche mediante la realizzazione di una rampa di
collegamento tra i due livelli nei quali si sviluppa e di un
pergolato in ferro su parte di essa. Trattasi quindi di una
vera e propria trasformazione del terreno al quale è stata
impressa una destinazione d’uso diversa da quella
originariamente agricola.
Con ricorso spedito per la notifica in
data 04.06.2010 e ritualmente depositato il successivo 28
giugno, la sig.ra G.M. impugna il provvedimento
di cui in epigrafe, col quale il Comune di Maiori, all’esito
dell’esame della domanda di condono edilizio, avanzata in
data 25.10.1994, per la realizzazione di un parcheggio
pubblico scoperto, già oggetto dell’ordinanza sindacale di
rimessione in pristino n. 82 del 30.09.1994, ha chiesto il
pagamento della somma di € 86.354,87 a titolo di oblazione,
della somma di € 57.444,67 a titolo di oneri concessori,
nonché della somma di € 8.047,16 a titolo di indennità ex
art. 15 L. 1497/39, e quindi dell’importo totale di €
151.847,16.
Avverso tale atto, parte ricorrente solleva, sotto distinti
e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e
dell’eccesso di potere, assumendo che l’abuso realizzato
dalla ricorrente sarebbe riconducibile alla tipologia “4”
della tabella allegata alla legge sul condono, per il quale
si prevede l’importo fisso dell’oblazione pari a £
5.000.000, invece che alla tipologia “1”, prevista in caso
di “nuova costruzione”, nel caso di specie inconfigurabile,
mentre non sarebbero dovuti gli oneri concessori perché non
vi sarebbe alcuna incidenza sul carico urbanistico.
L’intervento, infatti, sarebbe privo di portata planovolumetrica ed avrebbe modificato la destinazione d’uso
in conformità alla normativa urbanistica, che contempla la
realizzazione di “Attrezzature di interesse pubblico”.
Inoltre l’abuso risalirebbe ad una data anteriore al 1967 ed
anche per tale motivo non sarebbe dovuto alcun contributo
per gli oneri concessori e comunque non sarebbe specificato
sulla base di quale calcolo si è pervenuti alla somma come
sopra determinata.
Il Comune di Maiori si costituisce in giudizio al fine di
resistere.
...
Parte ricorrente indirizza i propri strali, col primo mezzo,
avverso la parte del provvedimento col quale
l’Amministrazione comunale quantifica l’oblazione dovuta
attraverso la qualificazione dell’abuso in tipologia 1
invece che 4, come si assume in ricorso.
La questione centrale agitata in ricorso attiene quindi alla
quantificazione dell’importo dell'oblazione (€ 86.354,87) da
corrispondere per l’abuso in questione. Secondo il
ricorrente, l’importo richiesto dall'amministrazione
resistente doveva essere inferiore e ciò in quanto per la
pratica edilizia in questione andavano applicati i criteri
di quantificazione di cui al punto 4 della tabella allegata
alla L. 28.02.1985, n. 47, per il quale si prevede
l’importo fisso di £ 5.000.000.
Ai fini del decidere si deve partire dal rilievo che la
tabella allegata alla legge n. 47 del 1985 prevede, dal
punto 1 al punto 7, diverse ipotesi, che sono state prese in
considerazione dal legislatore a seconda della gravità
dell'abuso, con la previsione di importi decrescenti in
relazione alla tipologia dello stesso, la cui fattispecie
più grave è descritta proprio dal punto 1. Questo prevede il
pagamento dell’importo nella misura maggiore per le "opere
realizzate in assenza o difformità dalla licenza edilizia o
concessione e non conformi alle norme urbanistiche ed alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici". Detto
diversamente, ai fini della sussunzione dell'intervento da
sanare nella tipologia 1 si richiede la cumulativa
ricorrenza di assenza (o difformità) di titolo abilitativo e
di non conformità alle previsioni urbanistiche.
Come
precisato dal Consiglio di Stato, “Ai fini della
determinazione della misura dell'oblazione da corrispondere
per il conseguimento della concessione in sanatoria, se sono
realizzate opere in assenza o in difformità dalla
concessione e non conformi alle previsioni dello strumento
urbanistico, si applica il punto 1 tab. all. alla l. 28.02.1985 n. 47” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04/11/1994,
n. 1247; per una recente applicazione cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 01.10.2003, n. 5652). La tipologia 4 prevede la
disciplina da applicare alle <<Opere realizzate in
difformità dalla licenza edilizia o concessione che non
comportino aumenti della superficie utile o del volume
assentito; opere di ristrutturazione edilizia come definite
dall'art. 31, lettera d), della legge n. 457 del 1978,
realizzate senza licenza edilizia o concessione o in
difformità da essa; opere che abbiano determinato mutamento
di destinazione d'uso>>.
Alla luce delle disposizioni
normative e della consolidata giurisprudenza formatasi su di
esse, risulta, pertanto, erronea l’interpretazione
patrocinata dalla ricorrente, secondo cui l’abuso in
questione andava ricondotto nel punto 4 della tabella
prefata, sì da far ritenere illegittimo l’operato
dall'amministrazione comunale. Invero, come detto sopra, se
sono state realizzate opere in assenza o in difformità dalla
concessione e non conformi alle previsioni dello strumento
urbanistico, si applica il punto 1 di tale tabella. Proprio
in tale tipologia, come di dirà, è da ricondurre l’abuso in
esame, che è consistito nella realizzazione di un parcheggio
su area di 2.606 mq di superficie complessiva, “distribuita
su due livelli sfalsati collegati tra loro a mezzo rampa, si
presenta asfaltata e coperta da un pergolato metallico su
cui insistono tralci di viti da uva radicati alla coltre di
terreno esistente al di sotto del manto di asfalto
calpestabile” (cfr. relazione tecnica in atti).
Occorre in
primo luogo chiedersi se per tale intervento sia o meno
necessario il permesso di costruire.
Orbene, il Consiglio di
Stato (sez. V, 11.11.2004, n. 7325), in un caso
analogo a quello in esame, per giunta caratterizzato dall’adibizione
di un’area a parcheggio mediante il semplice spargimento sul
suolo di ghiaia, e quindi senza la messa in opera di
asfalto, ha ritenuto la necessità del previo titolo
concessorio, con conseguente riconduzione al punto 1 della
tabella allegata alla l. n. 47 del 1985.
Il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa perviene a
tali conclusioni sulla base, in primo luogo, della
classificazione dell’intervento rispetto all’ambito
applicativo della concessione edilizia (ora permesso di
costruire) scolpito dalla normativa antecedente
all’intervento del TUed (D.P.R. n. 380/2001), avuto riguardo
all’epoca non recente di realizzazione dell’abuso. A tal
riguardo si osserva, preliminarmente, che, secondo tale
disciplina normativa (articolo 1 - Trasformazione
urbanistica del territorio e concessione di edificare - L.
n. 10/1977; l'articolo in esame è stato abrogato dall'art.
136, comma 1 e 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, a decorrere
dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185) <<Ogni attività comportante trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa
agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è
subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi
della presente legge>>.
Ebbene, l’interpretazione del dato
normativo richiamato non è stata affatto pacifica, in quanto
la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato due
indirizzi ermeneutici: secondo il primo, andrebbero
assoggettati a titolo abilitativo solo gli interventi aventi
portata -simultaneamente- urbanistica ed edilizia. Invero,
osservano i fautori della tesi in esame, l’uso congiunto
delle due espressioni (urbanistica ed edilizia) nel citato
articolo escluderebbe l’assoggettamento al previo rilascio
del titolo degli interventi che, pur non mancando di impatto
urbanistico, siano privi di consistenza materiale di opere
edilizie. Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone
la regola della soggezione a concessione di ogni attività
comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, non comprende le sole attività di edificazione,
ma tutte quelle consistenti in una modificazione dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione
alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione
giuridica (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343;
Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez.
V, 01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche
dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988;
Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez.
VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a
tale tesi ha aggiunto che l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10
impone al soggetto attuatore di munirsi di concessione
edilizia per ogni attività che comporti la trasformazione
del territorio attraverso l’esecuzione di opere comunque
attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il
mutamento e l’alterazione abbiano un qualche rilievo
ambientale ed estetico, o solo funzionale (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 26/09/2003, n. 5502). Pertanto, è soggetto a
concessione edilizia ogni intervento sul territorio,
preordinato alla perdurante modificazione dello stato dei
luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di
opere in muratura (Cons. Stato, sez. V, 06/04/1998, n. 415;
cfr. altresì: <<la concessione edilizia è richiesta sia
quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando
si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur
non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante
modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul
suolo>> Cons. Stato, sez. V, 14/12/1994, n. 1486; Cons.
Stato, sez. VI, 27/01/2003, n. 419).
Il Consiglio di Stato
pur osservando che, secondo un suo precedente, non integra
l’ipotesi di trasformazione urbanisticamente rilevante del
territorio, soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del
1977, l’intervento materialmente consistente nella mera
ripulitura di un terreno parzialmente erboso, con ripristino
di una recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a
nulla rilevando, sotto il profilo urbanistico, la
conseguente utilizzazione del suolo così ripulito e
riordinato all’esposizione di autovetture a scopi
commerciali (Cons. Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103),
tuttavia ritiene di condividere l’orientamento più
restrittivo, in base al quale lo spargimento di ghiaia su
un’area che ne era in precedenza priva richiede la
concessione edilizia allorché appaia preordinata alla
modifica della precedente destinazione d’uso.
Tale
indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente
interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve
ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì
<<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la
riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano
regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di
ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato,
sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989).
Il Consiglio di Stato, con
la citata pronuncia, soggiunge che la tesi abbracciata dal
Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo
Testo unico in materia edilizia -D.P.R. n. 380/2001 atteso
che l’art. 3, in materia di definizione degli interventi
edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole
al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di
infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi,
che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e. 3) e <<la realizzazione di depositi
di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione
di lavori cui consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato>> (e. 7); si tratta, come è facile
rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente
edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo.
Significativa è, poi, la previsione dell'art. 10, comma 2,
secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>.
Non è da trascurare, con specifico riferimento alle
caratteristiche dell’intervento descritto in atti, non solo
che all’area è stata impressa la nuova destinazione d’uso a
parcheggio non mediante lo spargimento di ghiaia bensì
attraverso la messa in opera di asfalto, ma anche che
trattasi di area di rilevanti dimensioni, complessivamente
trasformata anche mediante la realizzazione di una rampa di
collegamento tra i due livelli nei quali si sviluppa e di un
pergolato in ferro su parte di essa.
Trattasi quindi di una vera e propria trasformazione del
terreno al quale è stata impressa una destinazione d’uso
diversa da quella originariamente agricola
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1035 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia
del rispetto dei duecento metri prevista dall'art. 338 R.D.
1265/1934 (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero
285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della
fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla
stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di
opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione
dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di
rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle
esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia
della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati
all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area
di possibile espansione della cinta cimiteriale".
Tale vincolo osta al rilascio anche dei titoli edilizi in
sanatoria, senza necessità di compiere valutazioni in ordine
alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati
dal vincolo, come affermato dalla giurisprudenza con
riferimento alle istanze di condono avanzate ai sensi
dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47.
Detto vincolo comporta, in definitiva, una limitazione
legale a carattere assoluto del diritto di proprietà, che
preclude il rilascio del titolo edilizio per opere
incompatibili col vincolo medesimo.
In punto di diritto, va ricordato che l'articolo
338 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n.
1265/1934 vieta l'edificazione nelle aree ricadenti in fasce
di rispetto cimiteriale dei manufatti che possono
qualificarsi come costruzione edilizie, come tali
incompatibili con la natura dei luoghi e con l'eventuale
espansione del cimitero.
Al riguardo, la giurisprudenza,
ormai consolidata, ha affermato che in materia di vincolo
cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri
prevista dal citato articolo (o del limite inferiore di cui
al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di
riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si
pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità
che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici,
che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi
nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale"
(ex multis C. Stato, V, 14.09.2010, n. 6671; C.
Stato, IV 12.03.2007, n. 1185, C. Stato, V, 12.11.1999, n. 1871; C. Stato, II, parere 28.02.1996, n.
3031/1995; TAR Sicilia, Palermo, III, 18.01.2012, n. 77;
TAR Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n. 15615; Tar
Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253; Tar Toscana, I,
29.09.1994, n. 471).
Non sfugge al Collegio che una
parte minoritaria della giurisprudenza (TAR Genova
Liguria sez. I 20.06.2008, n. 1388) opta per la natura
relativa della inedificabilità prodotta dal vincolo, ma alla
tesi contraria, che si lascia preferire per la complessità
delle esigenze di tutela alle quali il vincolo presiede,
propende decisamente la recenziore giurisprudenza del
Consiglio di Stato (sez. IV, 20.07.2011, n. 4403),
secondo cui, peraltro, il vincolo di rispetto cimiteriale,
riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati
sparsi (cfr. TAR Milano, II, 06.10.1993 n. 551).
Da
ciò consegue l’infondatezza anche del profilo di censura che
valorizza il carattere isolato del manufatto, che pertanto
incorre nella preclusività del vincolo che per giunta osta
al rilascio anche dei titoli edilizi in sanatoria, senza
necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta
compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo,
come affermato dalla giurisprudenza con riferimento alle
istanze di condono avanzate ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47 (cfr. C. Stato, se. V,
03.05.2007, n.
1933 e del 12.11.1999, n. 1871).
Detto vincolo, secondo consolidata giurisprudenza, comporta,
in definitiva, una limitazione legale a carattere assoluto
del diritto di proprietà, che preclude il rilascio del
titolo edilizio per opere incompatibili col vincolo medesimo (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E'
illegittimo il
permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni; esso si pone, infatti,
in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n.
380 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità
delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma
una sorta di conformità ex post, condizionata
all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al
tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma,
eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la
richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.
È, infine,
infondato e va rigettato anche il terzo ed ultimo motivo di
gravame, con cui il ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e l'eccesso di potere per
difetto assoluto di motivazione e di istruttoria, perché
l’Amministrazione non ha impartito prescrizioni, come
l’arretramento del fabbricato rispetto alla fascia di
rispetto cimiteriale, attesa la ridotta incidenza (mt. 1,00)
rispetto alla stessa.
L’infondatezza della censura si deve
alla natura stessa del titolo edilizio richiesto, che
essendo da reputare “illegittimo il permesso di costruire in
sanatoria contenente prescrizioni; esso si pone, infatti,
in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n.
380 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità
delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma
una sorta di conformità ex post, condizionata
all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al
tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma,
eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la
richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni” (cfr.
TAR Latina Lazio sez. I, 20.12.2012, n. 1004) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di sanatoria
produce l'effetto di rendere inefficace l'ordinanza di
demolizione atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria
l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla
sanatoria edilizia o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
Va accolto,
invece, il gravame integrativo, proposto avverso l’atto che
accerta l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione del
capannone prot. n. 28748 del 02.04.2004, in quanto, come
denunciato col primo mezzo, avente rilievo assorbente di
ogni altra censura, la presentazione dell'istanza di
sanatoria produce l'effetto di rendere inefficace
l'ordinanza di demolizione atteso che a seguito dell'istanza
di sanatoria l'ordinanza di demolizione deve essere
sostituita o dalla sanatoria edilizia o da un nuovo
provvedimento sanzionatorio (ex multis, Consiglio di Stato
sez. I, 27.12.2012, n. 4921).
E’ appena il caso di
osservare che parte ricorrente allega a tale gravame
relazione tecnica dalla quale risulterebbe che il manufatto
in oggetto non sarebbe più insistente nella fascia di
rispetto cimiteriale dopo il suo ridimensionamento a metri
100,00 dalla data di approvazione del PRG adeguato al PUT,
risalente al 27/12/2006. Tale sopravvenienza non è in grado
di inficiare la legittimità del diniego impugnato in sede
introduttiva, trattandosi di una disciplina urbanistica
introdotta soltanto successivamente ai riferimenti temporali
rispetto ai quali è richiesta la cosiddetta doppia
conformità ai fini del rilascio del titolo sanante ex art.
36 d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.05.2013 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'obbligazione di corrispondere il contributo per
il rilascio della concessione edilizia ha origine legale e
rinviene il suo fatto costitutivo nell'attribuzione al
richiedente, mediante il titolo concessorio, dello ius
aedificandi avente ad oggetto il progetto assentito
dall'Amministrazione.
Sicché, la disciplina regolatrice della suddetta
obbligazione, anche nei suoi aspetti quantitativi, non può
che essere individuata sulla scorta del principio di diritto
intertemporale in base al quale tempus regit actum, ovvero
con riferimento alle norme ed ai criteri di computo vigenti
alla data di rilascio della concessione.
A tale conclusione interpretativa è del resto pervenuta la
stessa pregressa giurisprudenza, avendo essa affermato che
"ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, il
rilascio della concessione edilizia si configura come fatto
costitutivo dell'obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere il contributo ed è a tale momento che occorre
riferirsi per la determinazione dell'entità del contributo
stesso in base ai parametri normativi allora vigenti".
Come è noto, l'obbligazione di
corrispondere il contributo per il rilascio della
concessione edilizia ha origine legale e rinviene il suo
fatto costitutivo nell'attribuzione al richiedente, mediante
il titolo concessorio, dello ius aedificandi avente ad
oggetto il progetto assentito dall'Amministrazione.
Consegue immediatamente, da tale rilievo, che la disciplina
regolatrice della suddetta obbligazione, anche nei suoi
aspetti quantitativi, non può che essere individuata sulla
scorta del principio di diritto intertemporale in base al
quale tempus regit actum, ovvero con riferimento alle norme
ed ai criteri di computo vigenti alla data di rilascio della
concessione.
A tale conclusione interpretativa è del resto pervenuta la
stessa pregressa giurisprudenza, avendo essa affermato che
"ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, il
rilascio della concessione edilizia si configura come fatto
costitutivo dell'obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere il contributo ed è a tale momento che occorre
riferirsi per la determinazione dell'entità del contributo
stesso in base ai parametri normativi allora vigenti" (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1071 del 25.10.1993)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 02.05.2013 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le circolari
amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici
periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore
normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i
soggetti estranei all'Amministrazione.
Quanto alla mancata impugnativa della circolare
ministeriale, il Collegio deve confermare la giurisprudenza
consolidata, da cui non vi è motivo di discostarsi per il
caso di specie, per la quale le circolari amministrative
sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero
sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o
provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti
estranei all'Amministrazione (Cons. Stato: sez. VI,
13.09.2012, n. 4859; sez. IV, 12.06.2010, n. 3877)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.04.2013 n. 2374 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ambito del
particolare sub-sistema delineato dall’articolo 159 del dlgs
22.01.2004 n. 42, la richiesta da parte dell’organo statale
di elementi istruttori, formulata nei confronti del Comune,
sortisce una valenza interruttiva e non meramente
sospensiva.
Alla conclusione appena rassegnata può giungersi in primo
luogo all’esito dell’esame della pertinente disciplina.
Ed infatti, il comma 3 dell’articolo 159 del decreto
legislativo n. 42, cit. (nella formulazione ratione temporis
rilevante), stabili(va) che “la Soprintendenza, se ritiene
l’autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela
del paesaggio, dettate ai sensi del presente titolo, può
annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta
giorni successivi alla ricezione della relativa, completa
documentazione. Si applicano le diposizioni di cui
all’articolo 6, comma 6-bis, del regolamento di cui al
decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali
13.06.1994, n. 495”.
A sua volta, il comma 6-bis dell’articolo 6, cit.,
stabilisce che “qualora, in sede di istruttoria, emerga la
necessità di ottenere chiarimenti o di acquisire elementi
integrativi di giudizio, ovvero di procedere ad accertamenti
di natura tecnica, il responsabile del procedimento ne dà
immediata comunicazione ai soggetti indicati nell’articolo
4, comma 1, nonché, ove opportuno, all’amministrazione che
ha trasmesso la documentazione da integrare. In tal caso, il
termine per la conclusione del procedimento è interrotto,
per una sola volta e per un termine non inferiore a trenta
giorni, dalla data di comunicazione e riprende a decorrere
dal ricevimento della documentazione o dell’acquisizione
delle risultanze degli accertamenti tecnici”.
Pertanto, già l’esame testuale delle pertinenti disposizioni
rende palese che la richiesta di elementi integrativi da
parte dell’organo statale produca effetti interruttivi e non
meramente sospensivi.
A conclusioni in tutto analoghe è pervenuta la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato relativa al
decorso del termine di cui al comma 3 dell’articolo 159 del
decreto legislativo 42 del 2004.
Al riguardo è stato chiarito che:
a) il termine di 60 giorni di cui alla richiamata
disposizione ha carattere perentorio e decorre dalla
ricezione, da parte della Soprintendenza,
dell'autorizzazione rilasciata e della documentazione
tecnicoamministrativa, sulla cui base l'autorizzazione è
stata adottata;
b) nel caso in cui la detta documentazione sia incompleta,
“il termine non decorre e la Soprintendenza legittimamente
richiede gli atti mancanti. Quindi il termine decorre dal
momento in cui la Soprintendenza riceva la documentazione
completa”;
c) la Soprintendenza, oltre all'integrazione della
documentazione appena richiamata, può chiedere integrazioni
istruttorie, purché non si tratti di ingiustificati
aggravamenti del procedimento dati da richieste pretestuose,
dilatorie o tardive;
d) in questo caso, ai fini del decorso del termine di legge
si applica quanto disposto dal sopra citato art. 6-bis del
decreto ministeriale n. 495 del 1994, richiamato dal più
volte richiamato comma 3 dell’articolo 159 del d.lgs. n. 42
del 2004.
In particolare, il Collegio ritiene che meriti puntuale
conferma quanto affermato da Cons. Stato, VI, 10.01.2011, n.
43, secondo cui, a seguito di una richiesta di integrazione
documentale e per effetto della interruzione prodotta da
tale richiesta, l'originario termine di sessanta giorni si
prolunga di ulteriori trenta giorni, con la conseguenza che
–fermo restando il termine minimo di trenta giorni,
decorrente dal ricevimento della documentazione integrativa-
il tempo decorrente dall'originario ricevimento degli atti
fino alla richiesta istruttoria sommato a quello successivo
che va dal ricevimento della documentazione integrativa
richiesta fino all'adozione del provvedimento di
annullamento non deve complessivamente essere superiore a
novanta giorni, non tenendosi ovviamente conto del periodo
che va dalla comunicazione della richiesta di integrazione
al ricevimento degli atti.
Il primo motivo di appello (con cui i ricorrenti hanno
chiesto la riforma delle sentenze in epigrafe per non aver
rilevato il superamento da parte della Soprintendenza del
termine perentorio fissato per l’annullamento
dell’autorizzazione rilasciata ai fini paesistici) è
infondato.
In primo luogo il Collegio ritiene di confermare la
tesi espressa nell’ambito delle sentenze in epigrafe secondo
cui, nell’ambito del particolare sub-sistema delineato
dall’articolo 159 del decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42 (nella formulazione che qui rileva), la richiesta da
parte dell’organo statale di elementi istruttori, formulata
nei confronti del Comune, sortisse una valenza interruttiva
e non (come invece preteso dagli appellanti) meramente
sospensiva.
Alla conclusione appena rassegnata può giungersi in
primo luogo all’esito dell’esame della pertinente
disciplina.
Ed infatti, il comma 3 dell’articolo 159 del decreto
legislativo n. 42, cit. (nella formulazione ratione temporis
rilevante), stabili(va) che “la Soprintendenza, se ritiene
l’autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela
del paesaggio, dettate ai sensi del presente titolo, può
annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta
giorni successivi alla ricezione della relativa, completa
documentazione. Si applicano le diposizioni di cui
all’articolo 6, comma 6-bis, del regolamento di cui al
decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali 13.06.1994, n. 495”.
A sua volta, il comma 6-bis dell’articolo 6, cit.,
stabilisce che “qualora, in sede di istruttoria, emerga la
necessità di ottenere chiarimenti o di acquisire elementi
integrativi di giudizio, ovvero di procedere ad accertamenti
di natura tecnica, il responsabile del procedimento ne dà
immediata comunicazione ai soggetti indicati nell’articolo
4, comma 1, nonché, ove opportuno, all’amministrazione che
ha trasmesso la documentazione da integrare. In tal caso, il
termine per la conclusione del procedimento è interrotto,
per una sola volta e per un termine non inferiore a trenta
giorni, dalla data di comunicazione e riprende a decorrere
dal ricevimento della documentazione o dell’acquisizione
delle risultanze degli accertamenti tecnici”.
Pertanto, già l’esame testuale delle pertinenti disposizioni
rende palese che la richiesta di elementi integrativi da
parte dell’organo statale produca effetti interruttivi e non
meramente sospensivi (come invece ritenuto dagli odierni
appellanti).
A conclusioni in tutto analoghe è pervenuta la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato relativa al
decorso del termine di cui al comma 3 dell’articolo 159 del
decreto legislativo 42 del 2004.
Al riguardo è stato chiarito che:
a) il termine di sessanta giorni di cui alla richiamata
disposizione ha carattere perentorio e decorre dalla
ricezione, da parte della Soprintendenza,
dell'autorizzazione rilasciata e della documentazione
tecnicoamministrativa, sulla cui base l'autorizzazione è
stata adottata;
b) nel caso in cui la detta documentazione sia incompleta,
“il termine non decorre e la Soprintendenza legittimamente
richiede gli atti mancanti. Quindi il termine decorre dal
momento in cui la Soprintendenza riceva la documentazione
completa” (Cons. Stato, Sez. II, n. 2449 del 2004);
c) la Soprintendenza, oltre all'integrazione della
documentazione appena richiamata, può chiedere integrazioni
istruttorie, purché non si tratti di ingiustificati
aggravamenti del procedimento dati da richieste pretestuose,
dilatorie o tardive;
d) in questo caso, ai fini del decorso del termine di legge
si applica quanto disposto dal sopra citato art. 6-bis del
decreto ministeriale n. 495 del 1994, richiamato dal più
volte richiamato comma 3 dell’articolo 159 del d.lgs. n. 42
del 2004 (Cons. Stato, Sez. VI: 19.09.2008, n. 4311;
id., Sez. VI, 10.09.2008, n. 4313; id., Sez. VI, 26.11.2007, n. 6032).
In particolare, il Collegio ritiene che meriti puntuale
conferma quanto affermato da Cons. Stato, VI, 10.01.2011, n. 43, secondo cui, a seguito di una richiesta di
integrazione documentale e per effetto della interruzione
prodotta da tale richiesta, l'originario termine di sessanta
giorni si prolunga di ulteriori trenta giorni, con la
conseguenza che –fermo restando il termine minimo di trenta
giorni, decorrente dal ricevimento della documentazione
integrativa- il tempo decorrente dall'originario ricevimento
degli atti fino alla richiesta istruttoria sommato a quello
successivo che va dal ricevimento della documentazione
integrativa richiesta fino all'adozione del provvedimento di
annullamento non deve complessivamente essere superiore a
novanta giorni, non tenendosi ovviamente conto del periodo
che va dalla comunicazione della richiesta di integrazione
al ricevimento degli atti
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.04.2013 n. 2359 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
In via generale l'assunzione di una pratica al
protocollo dell'amministrazione ha la funzione di
certificare la certezza legale dell'avvenuta ricezione, ai
fini sia di costituire un termine iniziale incontestabile
per l'esplicazione dei poteri che a tale ricezione si
connettono, sia di garantire la conoscenza effettiva da
parte dell'organo procedente.
Di conseguenza, solo la data attestata dal protocollo va
assunta a prova dell'avvenuta conoscenza e considerata quale
termine iniziale per la decorrenza del termine, irrilevanti
essendo i diversi, eventuali elementi dai quali possa
desumersi la ricezione da parte dell'amministrazione, la cui
considerazione renderebbe invece incerta ed eventuale
l'individuazione di un momento che, viceversa, per la
rilevanza che l'ordinamento gli connette, deve emergere come
formalmente incontestabile. Nel caso di specie, pertanto, la
decorrenza del termine previsto dall'art. 159 d.lgs.
22.01.2004, n. 42 deve computarsi dal momento
dell’acquisizione al protocollo della Soprintendenza
dell’atto comunale di autorizzazione ai fini paesaggistici.
In altri termini, quando si debba attribuire rilievo al
decorso del tempo (per la verifica della formazione di un
silenzio della pubblica amministrazione o del mancato
esercizio di un potere di riesame), tranne i casi
espressamente tipizzati dalla legge, non rileva di per sé la
rilevazione su un foglio dei dati di ‘ricezione di un fax’ o
l’apposizione di un generico timbro: ha rilievo la data
attestata dal protocollo, facente fede fino a querela di
falso, soltanto dopo la quale comincia a decorrere il
termine entro il quale il potere può essere esercitato.
Ebbene, al
fine della risoluzione della questione, il Collegio ritiene
di prestare puntuale adesione a quanto già affermato con la
sentenza di questo Consiglio, Sezione VI, 06.06.2011, n.
3341.
Nell’occasione questo Consiglio (chiamato a pronunciarsi,
appunto, su un’ipotesi di esercizio del potere statale di
annullamento di cui all’articolo 159, cit.) ha chiarito che
“in via generale l'assunzione di una pratica al protocollo
dell'amministrazione ha la funzione di certificare la
certezza legale dell'avvenuta ricezione, ai fini sia di
costituire un termine iniziale incontestabile per
l'esplicazione dei poteri che a tale ricezione si
connettono, sia di garantire la conoscenza effettiva da
parte dell'organo procedente.
Di conseguenza, solo la data attestata dal protocollo va
assunta a prova dell'avvenuta conoscenza e considerata quale
termine iniziale per la decorrenza del termine, irrilevanti
essendo i diversi, eventuali elementi dai quali possa
desumersi la ricezione da parte dell'amministrazione, la cui
considerazione renderebbe invece incerta ed eventuale
l'individuazione di un momento che, viceversa, per la
rilevanza che l'ordinamento gli connette, deve emergere come
formalmente incontestabile. Nel caso di specie, pertanto, la
decorrenza del termine previsto dall'art. 159 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 deve computarsi
dal momento dell’acquisizione al protocollo della
Soprintendenza dell’atto comunale di autorizzazione ai fini
paesaggistici”.
In altri termini, quando si debba attribuire rilievo al
decorso del tempo (per la verifica della formazione di un
silenzio della pubblica amministrazione o del mancato
esercizio di un potere di riesame), tranne i casi
espressamente tipizzati dalla legge, non rileva di per sé la
rilevazione su un foglio dei dati di ‘ricezione di un fax’
o l’apposizione di un generico timbro: ha rilievo la data
attestata dal protocollo, facente fede fino a querela di
falso, soltanto dopo la quale comincia a decorrere il
termine entro il quale il potere può essere esercitato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.04.2013 n. 2359 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le norme sulla
partecipazione del privato al procedimento amministrativo
non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso
che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata
la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel
senso che la comunicazione è superflua, con prevalenza dei
principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa, […] tutte le volte che la conoscenza sia
comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in
concreto lo scopo cui tende la comunicazione prevista
dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Osserva il Collegio che, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, da cui non ravvisa ragioni
per discostarsi, “le norme sulla partecipazione del
privato al procedimento amministrativo non vanno applicate
meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra
annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase
partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso
che la comunicazione è superflua, con prevalenza dei
principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa, […] tutte le volte che la conoscenza sia
comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in
concreto lo scopo cui tende la comunicazione prevista
dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990" (ex plurimis:
Cons. di Stato, Sez. IV, 17.09.2012, n. 4925, e 18.04.2012,
n. 2286) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.04.2013 n. 2350 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’eccesso di “consultazione” (il fatto ciò che
l’Amministrazione procedente chieda pareri non previsti o
non imposti) non determina un vizio dell’istruttoria, ma, al
contrario, ne arricchisce i contenuti.
Tale modus procedendi, pertanto, non è di per sé sufficiente
ad inficiare la legittimità del provvedimento che risulti
nel suo contenuto dispositivo sostanzialmente corretto.
Il fatto, invero, che un determinato parere non sia previsto
(o non sia reso obbligatorio) non impedisce
all’Amministrazione procedente, ove ritenga utili le
valutazioni di una diversa Amministrazione o di un
determinato organo, di acquisire, prima di decidere, il suo
apporto valutativo.
Del resto, su un piano più generale, l’eccesso di “consultazione”
(il fatto ciò che l’Amministrazione procedente chieda pareri
non previsti o non imposti) non determina un vizio
dell’istruttoria, ma, al contrario, ne arricchisce i
contenuti. Tale modus procedendi, pertanto, non è di
per sé sufficiente ad inficiare la legittimità del
provvedimento che risulti nel suo contenuto dispositivo
sostanzialmente corretto.
Il motivo di appello, quindi, solleva una questione
meramente formale, ma non evidenzia in che modo,
l’acquisizione dei due pareri contestati, abbia potuto
tradursi in una diminuzione di garanzie procedimentali.
Il fatto, invero, che un determinato parere non sia previsto
(o non sia reso obbligatorio) non impedisce
all’Amministrazione procedente, ove ritenga utili le
valutazioni di una diversa Amministrazione o di un
determinato organo, di acquisire, prima di decidere, il suo
apporto valutativo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.04.2013 n. 2343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il legislatore, nel
disciplinare l’accertamento di compatibilità paesaggistica,
non predetermina i parametri sulla cui base deve essere
compiuta la valutazione, lasciando quindi alla più ampia
discrezionalità dell’autorità competente qualsiasi tipo di
scelta.
Ed invero, a
sostegno del diniego l’istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica viene richiamata la mancanza dei
“necessari presupposti di compatibilità delle opere
abusivamente realizzate a causa, sia dei materiali estranei
al contesto paesaggistico (fabbricato 3), sia delle modalità
di aggregazione e composizione (tipologia edilizia degli
altri fabbricati), che rendono i manufatti incongruenti con
le preesistenze e il paesaggio tutelato caratterizzato dalle
costruzioni di fattura tradizionale e dal disegno dei campi
degradanti verso l’ambito lagunare” (parere della
Soprintendenza del 06.10.2008).
Al di là della qualificazione giuridica del parere come
obbligatorio e vincolante, non vi è dubbio che si tratta di
motivazione congrua e sufficientemente dettagliata che
sfugge, nel merito, alle contestazione formulate dal
ricorrente.
Va rilevato, infatti, che il legislatore, nel disciplinare
l’accertamento di compatibilità paesaggistica, non
predetermina i parametri sulla cui base deve essere compiuta
la valutazione, lasciando quindi alla più ampia
discrezionalità dell’autorità competente qualsiasi tipo di
scelta (Cass. pen. Sez. III, 03.02.2006, n. 4495)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.04.2013 n. 2343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Appalti di fornitura e servizi pubblici affidati
direttamente.
L’art. 5 della legge n. 381 del 1991, concede agli enti
pubblici la possibilità di affidare direttamente, soltanto
in presenza di determinati presupposti, la fornitura di beni
e servizi.
Questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez.
VI, con la
sentenza 29.04.2013 n. 2342.
Nel caso in esame, relativo all’affidamento della gestione
di un campo sportivo comunale per lo svolgimento di attività
fieristiche, una società operante nel settore aveva
impugnato il provvedimento con il quale l’amministrazione
aveva affidato direttamente l’attività, senza procedere al
preventivo esperimento di una gara pubblica.
Accolto l’appello della società dal Tribunale amministrativo
regionale di primo grado, la sentenza viene appellata dal
Comune dinanzi ai Giudici di Palazzo Spada, secondo i quali:
“Il predetto art. 5 prevede che «gli enti pubblici,
compresi quelli economici, e le società di capitali a
partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in
materia di contratti della pubblica amministrazione»,
possono stipulare convenzioni con le cooperative che
svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di
servizi «per la fornitura di beni e servizi diversi da
quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al
netto dell’IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle
direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché
tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di
lavoro per le persone svantaggiate».”
Da una corretta applicazione della norma discende pertanto
che l’amministrazione può affidare direttamente alle
cooperative sociali appalti di fornitura di beni e servizi
pubblici, soltanto alle condizioni prestabilite, visto
oltretutto che: “Tale tipologia di appalti presuppone, in
coerenza con la causa del contratto, che la relativa
prestazione sia rivolta all’amministrazione per soddisfare
una sua specifica esigenza al fine di ottenere, quale
corrispettivo, il pagamento di una determinata somma.”
In conclusione, l’appello dell’amministrazione comunale è
rigettato perché nel caso in esame si è in presenza di una
concessione di bene pubblico, rispetto alla quale devono
essere seguite rigorosamente le procedure di garanzia per la
scelta del concessionario dettate dal Codice dei contratti,
mentre gli appalti di fornitura e servizi pubblici possono
essere affidati direttamente esclusivamente in presenza dei
presupposti di cui all’art. 5 della legge n. 381/1991
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia,
agricoltori risarciti per mancata concessione.
Comune obbligato a risarcire con circa 40 mila euro un
imprenditore agricolo per avergli negato una concessione
edilizia sulla base di un parere negativo, peraltro non
vincolante, della Asl competente territorialmente.
Il
Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 18.04.2013 n. 2164, ha riconosciuto al ricorrente
il diritto di ottenere dall'ente locale l'importo del
contributo che avrebbe potuto ottenere se avesse ottenuto la
concessione edilizia, finalizzata alla realizzazione di una
stalla su un suolo in sua proprietà, e per la cui
realizzazione, aveva chiesto finanziamenti comunitari e
interni.
Il parere negativo dell'Asl si era basato su particolari
«linee di indirizzo» elaborate dai responsabili dei servizi
di prevenzione della provincia di Brescia, in ragione delle
quali la distanza di 100 metri sarebbe stata determinata,
sulla base dell'esperienza, come quella minima ammissibile
per un tollerabile impatto igienico-sanitario delle stalle
con le zone residenziali
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cds:
per il cambio di destinazione serve l'ok del comune
Non basta la Scia. Da magazzino a bar? Se permesso.
Il carico urbanistico che grava su di un bar è certamente
superiore a quello che può interessare un magazzino. Di
conseguenza la modifica della destinazione d'uso tra le due
diverse categorie deve essere formalmente autorizzata dal
Comune e non è sufficiente la presentazione di una denuncia
di inizio attività (ora Scia); e ciò, anche se non sono
state apportate modifiche all'immobile.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 18.04.2013 n. 2153 ha chiarito che il cambio di destinazione non
può essere riportato alla medesima classe del magazzino
originariamente autorizzato dal Comune, posto che, come è
evidente, ben diverse sono le caratteristiche proprie
dell'uno e dell'altro utilizzo e, di conseguenza, diversi
sono i parametri ai quali deve essere conformata l'opera
edilizia all'uno o all'altro dedicata.
Senza contare che la
diversa tipologia del carico urbanistico proprio della
destinazione a sala ristorante e bar rispetto a quello
proprio del magazzino non consentono l'assenso mediante
semplice procedura di Dia, che l'art. 57, comma 14, della
legge regionale della Calabria 19/2002, consente per il
mutamento della destinazione d'uso, alla specifica
condizione che dalla stessa non derivi la necessità di
dotazioni aggiuntive di standard e servizi pubblici e
privati. Nel caso specifico, è stato ritenuto illegittimo il
comportamento dell'Ente nel non aver accertato se dal
mutamento realizzato derivasse la necessità di dotazioni
aggiuntive, ovvero se risultasse il rispetto degli standard
urbanistici.
Nonostante tale circostanza, tuttavia, non è stata accolta
la richiesta di risarcimento del danno presentata dalla
ricorrente originaria, posto che la relativa domanda era
sfornita di prova circa la sussistenza del dolo o della
colpa dell'Amministrazione. Ciò in quanto il danno non è
rilevabile dal mero atto illegittimo, che comporterebbe
l'identificazione della illegittimità con il danno, mentre
la domanda di risarcimento è, anche nel processo
amministrativo, regolata dal principio dell'onere della
prova di cui all'art. 2697 cod. civ., in base al quale chi
vuol far valere un diritto in giudizio deve indicare e
provare i fatti che ne costituiscono il fondamento
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Tar
Lombardia.
Edifici piccoli Progettazione per i geometri.
Anche i geometri possono occuparsi della progettazione e
della direzione dei lavori di costruzioni civili di modesta
entità. Se lo scorporo delle attività professionali
riguardanti il cemento armato è effettivo e non simulato, e
ciascun professionista (geometra da un lato, architetto o
ingegnere dall'altro) riceve dal committente un incarico
rientrante nel rispettivo ambito professionale assumendosi
una responsabilità piena circa il contenuto della propria
prestazione, con il solo vincolo di coordinarsi con gli
altri professionisti dato il carattere unitario
dell'edificazione.
In una simile prospettiva è infatti
possibile trovare un punto di equilibrio tra la parte della
norma che esclude il cemento armato dalla competenza
professionale dei geometri in relazione alle costruzioni
civili e quella che estende ai geometri la progettazione e
la direzione lavori con riferimento alle costruzioni civili
di modesta importanza.
È quanto afferma il TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II, con la
sentenza 18.04.2013 n. 361
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimità la
previsione regolamentare del pagamento di un canone annuo a
fronte del rilascio di una concessione edilizia per
l’installazione di antenne ricetrasmittenti per telefonia
mobile, impianti similari e pertinenze tecnologiche.
Con il ricorso in esame è proposta azione impugnatoria avverso la
nota, meglio descritta in epigrafe nei suoi estremi, con cui
l’intimata Amministrazione Comunale ha richiesto alla
società ricorrente il versamento del canone annuo di lire
20.000.000 a fronte del rilascio della concessione edilizia
per l’installazione di una stazione radio base per la
prestazione del servizio radiomobile, nonché avverso l’art.
3, punto 4, del Regolamento comunale per l’installazione
degli impianti di trasmissione radiotelevisiva, della rete
di telefonia mobile e per gli apparecchi di ricezione nei
centri urbani, approvato con delibera C.C. n. 4 del 26.01.2001, che prevede il pagamento di tale canone annuo
a fronte della concessione edilizia per l’installazione di
antenne ricetrasmittenti per telefonia mobile.
Chiede, altresì, parte ricorrente l’accertamento del proprio
diritto alla restituzione di quanto versato a titolo di
canone annuo.
Il ricorso è fondato e va accolto per le seguenti
considerazioni.
La gravata nota regolamentare ricollega il pagamento del
canone annuo al rilascio della concessione edilizia cui sono
soggette le installazioni di antenne ricetrasmittenti per
telefonia mobile, impianti similari e relative pertinenze
tecnologiche.
In relazione a tale previsto nesso tra il rilascio della
concessione edilizia ed il pagamento di un canone annuo,
viene in rilievo, quale parametro sulla cui scorta
positivamente delibare in ordine all’illegittimità della
gravata disposizione, l’art. 3 della legge n. 10 del 1977,
il quale subordina la concessione edilizia al pagamento di
un contributo commisurato all’incidenza delle opere di
urbanizzazione e al costo di costruzione, dovendo quindi
escludersi che, ai sensi della normativa statale
applicabile, il rilascio della concessione edilizia possa
essere subordinato o comunque ricollegato al pagamento di un
canone annuo che risulta estraneo rispetto alla natura di
corrispettivo di diritto pubblico commisurato all'aumento
del carico urbanistico di zona ed ai costi di costruzione.
E’, pertanto, evidente il carattere arbitrario del previsto
canone annuo, avente carattere periodico e continuativo, il
quale non trova alcun fondamento nella normativa statale e
prescinde peraltro, nella sua quantificazione, dal calcolo
dell’incidenza dell’opera sui costi di urbanizzazione e di
costruzione.
Né è possibile evincere una qualche causa giustificatrice
della pretesa, non essendovi alcuna controprestazione
gravante sull’Amministrazione Comunale che possa legittimare
la corresponsione di un canone annuo, tenuto altresì conto
che il terreno sul quale insiste l’impianto risulta essere
di proprietà di privati, e non del Comune.
L’assenza di una causa giustificatrice del previsto canone
annuo che possa allo stesso conferire carattere di
corrispettivo nell’ambito di un rapporto sinallagmatico,
conduce ad ascrivere tale canone nel novero delle
prestazioni patrimoniali la cui previsione, a fini
impositivi, è tuttavia riservata alla legge, precluso
essendo quindi all’intimata Amministrazione Comunale la
possibilità di introdurre prestazioni patrimoniali, quale il
contestato canone annuo, in assenza di una previsione di
legge.
La contestata previsione, unilateralmente adottata dal
Comune per via di un atto regolamentare, nel tradursi in una
prestazione imposta, risulta inoltre illegittima per difetto
della copertura legislativa richiesta dall’art. 23 della
Carta fondamentale.
Prevede tale norma che “Nessuna prestazione personale o
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”
istituendo così una riserva di legge, qualificata di tipo
relativo, essendo sufficiente che la legge determini la c.d.
base legislativa indicante i presupposti, i soggetti passivi
e il nucleo della prestazione patrimoniale da porre a carco
dei privati, correlativamente potendo demandare alla potestà
regolamentare la definizione dei profili di dettaglio e
delle modalità di attuazione del prelievo.
La riserva di legge in parola deve, dunque, ritenersi
rispettata anche in assenza di una espressa indicazione
legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a
delimitare l'ambito di discrezionalità dell'amministrazione
purché la concreta entità della prestazione imposta sia
chiaramente desumibile dagli interventi legislativi che
riguardano l'attività dell'amministrazione (Corte
Costituzionale, 14.06.2007, n. 190).
Nell’alveo della garanzia apprestata dalla predetta norma
costituzionale la dottrina e la giurisprudenza della Corte
pacificamente riconducono non solo le prestazioni
patrimoniali di natura tributaria ma anche quelle di diversa
natura come i contributi (Corte Costituzionale, 14.06.2007 n. 190; 26.02.1998, n. 26) e, in genere, tutte
le prestazioni patrimoniali determinate con atto unilaterale autoritativo, alla cui adozione non concorra la volontà del
privato (Corte costituzionale, 14.06.2007, n. 190; 31.05.1996, n. 180), qualificando la giurisprudenza della
Corte costituzionale come prestazione imposta anche un
canone per un'utilizzazione di beni demaniali che, pur
avendo a base un negozio fra la p.a. ed il privato, sia
imposto autoritativamente per la fruizione di un bene
pubblico (Corte Costituzionale, 10.06.1994, n. 236).
Poste le brevi coordinate interpretative appena
tratteggiate, ritiene il Collegio che non possa essere
esclusa la natura di prestazione patrimoniale imposta, ai
sensi e per gli effetti della copertura e della riserva di
legge scolpita all’art. 23 della Costituzione, al previsto
canone annuo cui è sottoposta la concessione edilizia per
l’installazione degli impianti di che trattasi.
Invero, richiamandosi quanto testé ricordato, ovverosia che
il Giudice delle leggi annette natura di prestazione
patrimoniale imposta ex art. 23 Cost., in genere, a tutte le
prestazioni patrimoniali determinate con unilaterale atto
autoritativo alla cui adozione non concorra la volontà del
privato (Corte costituzionale, 14.06.2007, n. 190; 31.05.1996, n. 180), il carattere di prestazione imposta
deve essere alla censurata norma regolamentare conferito se
non altro in considerazione della fonte che lo contiene, che
è un atto generale, ossia un Regolamento locale approvato
con deliberazione di Consiglio comunale.
Richiedendo l’art. 23 della Costituzione che ogni
prestazione patrimoniale imposta sia legittimata da una
fonte normativa avente valore di legge, nella specie
insussistente, la censurata disposizione regolamentare
risulta illegittima anche sotto tale profilo.
Ritiene, dunque, il Collegio che la riserva relativa di
legge recata dall’art. 23 Cost. richiede per il contestato
canone annuo cui è soggetta la concessione edilizia per
l’installazione di impianti di telefonia, di cui alla
gravata norma regolamentare, una copertura legislativa, in
difetto della quale detta norma è illegittima.
In ragione delle superiori considerazioni il ricorso va,
quindi, accolto, stante la rilevata illegittimità della
gravata previsione regolamentare del pagamento di un canone
annuo a fronte del rilascio di una concessione edilizia per
l’installazione di antenne ricetrasmittenti per telefonia
mobile, impianti similari e pertinenze tecnologiche, il che
conduce all’annullamento della relativa norma.
Va parimenti disposto l’annullamento della gravata nota con
la quale è stato richiesto alla società ricorrente il
versamento del canone annuo, riverberandosi sulla stessa in
via derivata i medesimi vizi che affligono la norma
regolamentare (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 09.04.2013 n. 3579 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il verbale di sopralluogo con cui tecnici
comunali od agenti di polizia municipale accertano abusi
edilizi sono atti dotati di fede privilegiata nel senso che
fanno fede dei fatti accertati fino a querela di falso.
Migliore sorte
non può essere riservata al secondo mezzo a mente del quale,
in violazione dell’art. 5 della l. 241 del 1990, in alcun
modo sarebbero state individuate le “discordanze” rilevate,
ovvero evidenziate le concrete e specifiche ragioni poste a
base dell’atto.
Ed invero, l’espresso richiamo nel provvedimento
all’evincersi tali “discordanze” dalla documentazione
allegata al permesso di costruire e dal “verbale di
ispezione operato dal Comando dei vigili urbani unitamente
ai tecnici comunali il 04.05.2012”, costituisce
presupposto sufficiente a dar conto del percorso (salvo, si
intende, l’onere di ostensione del verbale), posto che “il
verbale di sopralluogo con cui tecnici comunali od agenti di
polizia municipale accertano abusi edilizi sono atti dotati
di fede privilegiata nel senso che fanno fede dei fatti
accertati fino a querela di falso” (cfr., in tali sensi,
Cons. Stato, sez. quinta, sentenza 03.11.2010, n. 7770;
28.01.1998, n. 103; sezione prima, 08.01.2010, n.
250 e cfr. anche, per il principio, Tar Campania, questa
sesta sezione, n. 760 del 06.02.2013; 11.12.2012,
n. 5084, 21.06.2012, n. 2944; 02.05.2012, n. 2006, 05.06.2012, n. 2635 e n. 2644; 30.03.2011, n. 1856; sezione terza, 20.11.2012, n.
4638; sezione quarta, 03.01.2013, n. 59).
Il che non significa che non possano essere contestate senza
necessità di querela le valutazioni nel caso operate in
ordine ai fatti accertati (cfr. per tutte, Cons. Stato,
sezione quinta, 28.04.2011, n. 2541), ma significa
certamente che l’atto dirigenziale qui contestato ed assunto
in presenza del detto verbale, come si concluderà in avanti,
si regge sufficientemente sul richiamo all’accertamento
ispettivo compiuto posto a confronto con gli atti in
possesso dell’amministrazione (nonché, questi ultimi, dello
stesso ricorrente)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 20.03.2013 n. 1546 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Deve
ritenersi pacifico che la collocazione dei manufatti di cui
trattasi
(ndr: gazebo
di 200 mq., adibito a punto vendita per arredi da giardino e
ad altri tre gazebi per deposito di materiali)
debba definirsi “nuova costruzione”, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380.
La norma in questione, infatti, specifica dettagliatamente
le caratteristiche dell’intervento, qualificabile nei
termini sopra indicati, anche con riferimento –al punto
e.5)– alla “installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali
roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee”. Appare evidente
pertanto che i manufatti, oggetto del provvedimento
impugnato, fossero qualificabili come nuove costruzioni,
indipendentemente dalle caratteristiche di amovibilità e di
visibilità degli stessi, in quanto comunque destinati ad uso
stabile, connesso all’attività commerciale svolta sull’area.
Detti manufatti erano quindi soggetti –a norma dell’art. 10,
comma 1, lettera a), del medesimo d.P.R. n. 380/2001– a
permesso di costruire e, in assenza di tale titolo
abilitativo, alla sanzione demolitoria, di cui al successivo
art. 31, anche indipendentemente dal carattere vincolato, o
meno, della porzione di territorio interessata.
L’accertamento dell’abuso edilizio, la qualificazione dello
stesso e l’applicazione delle misure conseguenti
costituivano, pertanto, atti per i quali nessuna
discrezionalità era riconosciuta all’Amministrazione, tenuta
a reprimere l’abuso stesso nei modi previsti dalla legge.
Non può non trovare applicazione, in tale contesto, l’art.
21-octies della legge n. 241/1990, in base al quale “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione delle
norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora
l’amministrazione non dimostri in giudizio che il contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Deve ritenersi pacifico, in primo luogo, che la
collocazione dei manufatti di cui trattasi debba definirsi
“nuova costruzione”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 3,
comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia).
La norma in questione, infatti, specifica
dettagliatamente le caratteristiche dell’intervento,
qualificabile nei termini sopra indicati, anche con
riferimento –al punto e.5)– alla “installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee”. Appare evidente pertanto che i manufatti,
oggetto del provvedimento impugnato, fossero qualificabili
come nuove costruzioni, indipendentemente dalle
caratteristiche di amovibilità e di visibilità degli stessi,
in quanto comunque destinati ad uso stabile, connesso
all’attività commerciale svolta sull’area.
Detti manufatti erano quindi soggetti –a norma dell’art.
10, comma 1, lettera a), del medesimo d.P.R. n. 380/2001– a
permesso di costruire e, in assenza di tale titolo
abilitativo, alla sanzione demolitoria, di cui al successivo
art. 31, anche indipendentemente dal carattere vincolato, o
meno, della porzione di territorio interessata.
L’accertamento dell’abuso edilizio, la qualificazione dello
stesso e l’applicazione delle misure conseguenti
costituivano, pertanto, atti per i quali nessuna
discrezionalità era riconosciuta all’Amministrazione, tenuta
a reprimere l’abuso stesso nei modi previsti dalla legge.
Non può non trovare applicazione, in tale contesto, l’art.
21-octies della legge n. 241/1990, in base al quale “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione delle
norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora
l’amministrazione non dimostri in giudizio che il contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Tra i vizi procedurali e formali di cui sopra sono da
annoverare –per giurisprudenza ormai pacifica– l’eventuale
violazione delle disposizioni, prescrittive di forme di
partecipazione al procedimento, ovvero mere carenze
motivazionali che, anche ove dichiarate, non risulterebbero satisfattive dell’interesse dedotto in giudizio, in quanto
non idonee ad incidere sul contenuto del provvedimento, ove
quest’ultimo risulti non modificabile
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
15.03.2013 n. 1569 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
abusiva la costruzione di una serie
di edicole funerarie, cappelle gentilizie e tumuli non
contemplata dalla concessione
comunale alla società ..., soggetto promotore ex art. 37-bis
l. n. 109 del 1994, per la “progettazione della costruzione,
ampliamento e gestione del cimitero”.
Invero, le opere edilizie realizzate dalla ricorrente
esorbitano dai contenuti della convenzione stipulata con il
Comune e non hanno i caratteri delle opere pubbliche
comunali, e, pertanto, non possono dalla prima essere
realizzate al di fuori di un ordinario procedimento edilizio
e in assenza del prescritto titolo abilitativo.
E, difatti, solo le opere oggetto della concessione sono
destinate al soddisfacimento dei bisogni di tutta la
collettività, indistintamente considerata, e risultano
perciò connotate non soltanto da un rilievo di ordine
generale, proprio di ogni opera cimiteriale, ma da una
oggettiva natura di opera pubblica.
Cappelle, edicole e tumuli, invece, come già scritto
autonomamente realizzabili dagli assegnatari dei suoli,
eventualmente riuniti in confraternite, risultano privi di
siffatta connotazione in quanto primariamente destinati al
soddisfacimento di specifici, ‘individuati’ interessi
singolari (quelli degli assegnatari cui la loro
realizzazione era affidata), pur avendo, in una prospettiva
complessiva e finale, un apprezzabile rilievo sociale: non
si tratta, dunque, di opere ‘stricto sensu’ pubbliche, come
tali esonerate dalla necessità di uno specifico titolo
edilizio in applicazione dell’art. 7, lett. c), d.p.r. n.
380 del 2001 (a norma del quale <<Non si applicano le
disposizioni del presente titolo per: […] c) opere pubbliche
dei comuni deliberate dal consiglio comunale, ovvero dalla
giunta comunale, assistite dalla validazione del progetto,
ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della
Repubblica 21.12.1999, n. 554>>).
Nel ricorso si espone che:
- con determinazione dirigenziale n. 12 del 05.09.2003 il
Comune di Taranto affidava in concessione alla società
Bozzetto Fondazioni s.r.l., soggetto promotore ex art.
37-bis l. n. 109 del 1994, la “progettazione della
costruzione, ampliamento e gestione del cimitero di Talsano”;
- in data 26.01.2004 Società e Comune stipulavano la
relativa convenzione;
- alla Bozzetto Fondazioni subentrava poi nel rapporto
concessorio, ai sensi dell’art. 37-quinques l. n. 109
citata, la società di progetto Erregiesse s.r.l.;
- con deliberazione n. 61 del 21.04.2004 il Consiglio
Comunale adottava la necessaria variante al p.r.g. (ai fini
della destinazione urbanistica ‘cimiteriale’
dell’area interessata dall’ampliamento, nella disponibilità
del soggetto promotore);
- con delibera di Giunta n. 542 del 25.08.2004 veniva
approvato il progetto definitivo dell’intervento;
- con deliberazione n. 37 del 16.02.2005 il Consiglio
Comunale approvava la citata variante di piano;
- con d.d. n. 53 del 15.03.2005, all’esito del procedimento
di validazione ex art. 47 d.p.r. n. 554 del 1999, veniva
approvato il progetto esecutivo;
- con atto rep. n. 46249 del 10.10.2007 la Erregiesse cedeva
l’area interessata dal progetto al Comune di Taranto, che
per l’effetto riconosceva alla prima il diritto di gestire
il complesso cimiteriale durante il periodo della
concessione;
- in data 19.02.2010 le parti stipulavano un “Atto
aggiuntivo al contratto avente n. 7941 del 26.01.2004.
Revisione della concessione”;
- in data 20.10.2011 il RUP, a seguito di
apposito sopralluogo, redigeva la nota protocollo n. 1145,
nella quale si dava atto della realizzazione, da parte di
Erregiesse, di una serie di edicole funerarie, cappelle
gentilizie e tumuli privi di titolo edilizio: di tali opere
abusive, infine, si ordinava la demolizione con alcune
ordinanze dirigenziali, la cui n. 5 del 31.01.2012, relativa
alle edicole, veniva impugnata con il ricorso in esame.
...
Tanto premesso in fatto, deve rilevarsi che il ricorso è
infondato e va, quindi, respinto: in particolare, come
subito si esporrà, il Collegio ritiene che le opere edilizie
realizzate dalla ricorrente esorbitassero dai contenuti
della convenzione stipulata con il Comune di Taranto e non
avessero i caratteri delle opere pubbliche comunali, e,
pertanto, non potessero dalla prima essere realizzate al di
fuori di un ordinario procedimento edilizio e in assenza del
prescritto titolo abilitativo.
Correttamente, dunque, l’Amministrazione ne riteneva
l’abusività e ne ordinava la demolizione.
Esaminando, appunto, i contenuti della richiamata
Convenzione, può osservarsi come la stessa prevedesse da un
lato la diretta realizzazione da parte della concessionaria
di una serie di opere cimiteriali (loculi, cellette per
ossari, campi di inumazione, aree servizi e uffici,
parcheggio, ecc.), e, dall’altro, la “cessione in
concessione ai soggetti privati di una parte del suolo per
la realizzazione di cappelle private, cappelle per
confraternite e per la realizzazione di edicole” (pag.
6).
Rispetto a tali porzioni di suolo, dunque, la ricorrente
doveva soltanto provvedere alla necessaria “infrastrutturazione”
(v. art. 6 della Convenzione), ottenendo poi un
corrispettivo dalla loro “concessione” ai privati
(pagg. 6/7).
L’accordo fra Amministrazione e Concessionaria, dunque, non
contemplava in alcun modo la diretta realizzazione da parte
di quest’ultima delle edicole private, delle cappelle e dei
tumuli, ma, soltanto, la predisposizione dei suoli a
siffatte opere destinati.
Il ‘concetto’ veniva quindi ribadito all’art. 6-bis
dell’atto aggiuntivo (oltre che alla sua pag. 4), denominato
“Oggetto Convenzione”, nel quale, in linea con le
disposizione della originaria Convenzione, si prevedeva per
Erregiesse la costruzione di 2208 loculi, di 192 loculi a
fronte lungo, di 2400 cellette ossario (oltre che di uffici,
servizi cimiteriali, box per fiorai e un parcheggio), e,
soltanto, l’infrastrutturazione delle aree destinate alle 22
cappelle per confraternite, alle 370 cappelle famigliari,
alle 112 edicole private e ai 264 tumuli privati.
Coerentemente, d’altronde, il medesimo atto aggiuntivo
ricollegava i ricavi in questa parte spettanti alla
Erregiesse alla “concessione dei suoli” per
l’edificazione di edicole funerarie, tumuli e cappelle e non
alla vendita di tali manufatti (v. pag. 5).
Del medesimo tenore, ancora, risultavano gli atti con i
quali il Comune provvedeva a fissare, revisionandoli, i
contenuti della concessione, nei quali, sul punto,
esclusivamente si faceva riferimento alla
infrastrutturazione delle “aree per la costruzione di n.
22 Cappelle Confraternite, n. 100 Cappelle private e n. 80
Edicole private”, invece disponendo la diretta
costruzione da parte del Promotore dei ‘Colombari’
contenenti i loculi e le cellette, dei campi di inumazione,
di un edificio per il culto e di un edificio da destinare ai
servizi cimiteriali (v. delibere di Giunta Comunale n. 292
dell’08.07.2005 e n. 73 dell’11.06.2009).
E’ dunque da questi atti, amministrativi e convenzionali,
che potevano e dovevano ricavarsi i contenuti
dell’intervento in progetto e, per quello che qui più
interessa, distinguerne le parti direttamente riferibili
all’immediata iniziativa della ricorrente, in quanto oggetto
della concessione, da quelle invece rimesse alla futura ed
eventuale volontà dei privati assegnatari dei suoli (ove
realizzare, autonomamente, cappelle, edicole e tumuli):
distinzione, questa, non soltanto rilevante quanto alla
valutazione della condotta di Erregiesse sul piano
contrattuale, ma, anche, ai nostri fini, incidendo la stessa
sulla natura delle opere in parola.
In questa prospettiva, difatti, solo le opere oggetto della
concessione erano destinate al soddisfacimento dei bisogni
di tutta la collettività, indistintamente considerata, e
risultavano perciò connotate non soltanto da un rilievo di
ordine generale, proprio di ogni opera cimiteriale, ma da
una oggettiva natura di opera pubblica (cfr. Cons. giust.
amm. Sicilia, sez. giurisd., 10.06.2009, n. 534): non a
caso, d’altronde, la Convenzione e l’Atto aggiuntivo ne
affidavano la realizzazione in via diretta e immediata al
soggetto promotore.
Cappelle, edicole e tumuli, invece, come già scritto
autonomamente realizzabili dagli assegnatari dei suoli,
eventualmente riuniti in confraternite, risultavano privi di
siffatta connotazione in quanto primariamente destinati al
soddisfacimento di specifici, ‘individuati’ interessi
singolari (quelli degli assegnatari cui la loro
realizzazione era affidata), pur avendo, in una prospettiva
complessiva e finale, un apprezzabile rilievo sociale: non
si trattava, dunque, di opere ‘stricto sensu’
pubbliche, come tali esonerate dalla necessità di uno
specifico titolo edilizio in applicazione dell’art. 7, lett.
c), d.p.r. n. 380 del 2001 (a norma del quale <<Non si
applicano le disposizioni del presente titolo per: […] c)
opere pubbliche dei comuni deliberate dal consiglio
comunale, ovvero dalla giunta comunale, assistite dalla
validazione del progetto, ai sensi dell’articolo 47 del
decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554>>).
Legittima, per conseguenza, la valutazione della loro
abusività effettuata dal Comune
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 13.03.2013 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti demolitori di abusi edilizi costituiscono atti
doverosi e vincolati nel contenuto, la cui adozione non
richiede di essere preceduta dalla comunicazione di avvio
del relativo procedimento.
Ai rilievi fin qui articolati, infine, debbono soltanto
aggiungersi alcune considerazioni finali, e in particolare:
- i provvedimenti demolitori di abusi edilizi costituiscono
atti doverosi e vincolati nel contenuto, la cui adozione non
richiede di essere preceduta dalla comunicazione di avvio
del relativo procedimento (fra le ultime, Tar Campania
Napoli, VII, 11.01.2013, n. 255).
- non si ravvisa nel procedimento alcun deficit istruttorio,
avendo l’Amministrazione svolto articolate verifiche, delle
quali si dava formalmente atto, insieme ai relativi esiti,
nell’ordinanza impugnata, nella nota prot. n. 1145 del
20.10.2011 e nella nota prot. n. 1096 del 06.10.2011
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 13.03.2013 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per
attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa
privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche
se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad. es.
parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture
commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali
o residenziali) non rappresentano vincoli espropriativi.
In questa prospettiva, le destinazioni a parco urbano, a
verde urbano, a verde pubblico, verde pubblico attrezzato,
parco giochi, e simili si pongono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo -con le connesse garanzie
costituzionali (indennizzo o durata predefinita)- e
costituiscono espressione di potestà conformativa (avente
validità a tempo indeterminato) quando lo strumento
urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già
ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del
bene.
Le suesposte osservazioni si conformano, come già accennato,
ad un consolidato orientamento della giurisprudenza sulla
natura giuridica e la portata dei vincoli conformativi e di
quelli ad effetto espropriativo, la quale -al riguardo-
afferma che:
a) per vincolo preordinato all'esproprio può intendersi solamente
quello che sia immediatamente e direttamente finalizzato
all'espropriazione del bene;
b) vincoli preordinati all'esproprio sono solamente quelli che
discendono dalle specifiche prescrizioni (cfr. art. 2 della
L. n. 1187 del 1968) riguardanti singoli immobili
interessati alla realizzazione di opere pubbliche previste
nel piano o da particolari disposizioni di legge (ovvero
precisate in appositi provvedimenti amministrativi) da
effettuare nell'interesse della collettività, che,
nell'ambito della programmazione e pianificazione
urbanistica, intervengono in un momento logicamente
successivo a quello della zonizzazione del territorio,
perché corrispondente ad ulteriori vicende collegate
all'emersione di nuovi e specifici interessi pubblici,
variamente accertati con appositi provvedimenti
amministrativi;
c) -ciò che qui maggiormente interessa per l'attinenza con la
questione dedotta in giudizio dalla società cooperativa
ricorrente- la mera zonizzazione pur comportando
l'imposizione di prescrizioni relative alla tipologia ed
alla volumetria dei singoli edifici, non implica il sorgere
di alcun vincolo preordinato all'espropriazione;
d) se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è doverosa
non solo per i vincoli preordinati all'ablazione del suolo,
ma anche per quelli "sostanzialmente espropriativi" (secondo
la definizione di cui all'art. 39, comma 1, del D.P.R.
08.06.2001, n. 327), è anche vero che non possono essere
annoverati in quest'ultima categoria di vincoli quelli
derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso
l'iniziativa privata in regime di economia di mercato;
e) come è noto, la sussistenza di vincoli preordinati
all'espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale
ovvero in altri strumenti urbanistici, dopo i fondamentali
interventi della Corte Costituzionale, che riconobbe
l'illegittimità della disciplina dell'indeterminatezza
temporale dei vincoli preordinati all'espropriazione
contenuta nella legge urbanistica e la modifica normativa di
cui alla L. 19.11.1968, n. 1187, con la previsione di una
durata quinquennale del periodo di vigenza di tali
previsioni, è valutata dalla giurisprudenza del Consiglio di
Stato in senso strettamente contenutistico.
Si afferma infatti, con principio non contestato, che
costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli
preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione,
e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà
incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio.
---------------
In definitiva, la destinazione ad attrezzature ricreative,
sportive e a parchi pubblici, data dal piano regolatore ad
aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle
stesse di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo,
conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento
urbanistico per definire i caratteri generali
dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso
il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione
dell'interesse pubblico generale non soggette ai limiti
temporali richiamati da parte ricorrente, trattandosi di
vincoli non ablatori, ma derivanti da destinazioni
realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di
economia di mercato.
All’uopo, va rammentato come, secondo la
giurisprudenza -costituzionale e di legittimità-
intervenuta in materia, i vincoli di destinazione imposti
dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili
anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di
economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di
convenzionamento (ad. es. parcheggi, impianti sportivi,
mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone
artigianali, industriali o residenziali) non rappresentano
vincoli espropriativi (cfr. Corte cost. n. 179/1999; Cons.
Stato, Sez. IV, n. 4340 del 2002 e n. 3524 del 2005; da
ultimo: TAR Lazio, Roma, Sez. II, 27.01.2012, n. 929;
TAR Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., 12.01.2009, n. 35).
In
questa prospettiva, le destinazioni a parco urbano, a verde
urbano, a verde pubblico, verde pubblico attrezzato, parco
giochi, e simili si pongono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo -con le connesse garanzie
costituzionali (indennizzo o durata predefinita)- e
costituiscono espressione di potestà conformativa (avente
validità a tempo indeterminato) quando lo strumento
urbanistico consente di realizzare tali previsioni, non già
ad esclusiva iniziativa pubblica, ma ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, senza necessità di ablazione del
bene (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2718 del 2005, n. 5490
del 2004, nonché Cons. giust. Reg. Sic. n. 1113 del 2008 e
n. 1017 del 2007).
Le suesposte osservazioni si conformano, come già accennato,
ad un consolidato orientamento della giurisprudenza sulla
natura giuridica e la portata dei vincoli conformativi e di
quelli ad effetto espropriativo, la quale -al riguardo-
afferma che:
a) per vincolo preordinato all'esproprio può intendersi
solamente quello che sia immediatamente e direttamente
finalizzato all'espropriazione del bene (cfr. Cass., Sez. I,
21.03.2000 n. 3307);
b) vincoli preordinati all'esproprio sono solamente quelli
che discendono dalle specifiche prescrizioni (cfr. art. 2
della L. n. 1187 del 1968) riguardanti singoli immobili
interessati alla realizzazione di opere pubbliche previste
nel piano o da particolari disposizioni di legge (ovvero
precisate in appositi provvedimenti amministrativi) da
effettuare nell'interesse della collettività, che,
nell'ambito della programmazione e pianificazione
urbanistica, intervengono in un momento logicamente
successivo a quello della zonizzazione del territorio,
perché corrispondente ad ulteriori vicende collegate
all'emersione di nuovi e specifici interessi pubblici,
variamente accertati con appositi provvedimenti
amministrativi (cfr. Cass., Sez. I, 26.02.2004 n.
3838);
c) -ciò che qui maggiormente interessa per l'attinenza con
la questione dedotta in giudizio dalla società cooperativa
ricorrente- la mera zonizzazione pur comportando
l'imposizione di prescrizioni relative alla tipologia ed
alla volumetria dei singoli edifici, non implica il sorgere
di alcun vincolo preordinato all'espropriazione (Cass., Sez.
I, 21.03.2000 n. 3307, 28.11.1996 n. 10575 e 27.06.1997 n. 5758);
d) se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è
doverosa non solo per i vincoli preordinati all'ablazione
del suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente
espropriativi" (secondo la definizione di cui all'art. 39,
comma 1, del D.P.R. 08.06.2001, n. 327), è anche vero che
non possono essere annoverati in quest'ultima categoria di
vincoli quelli derivanti da destinazioni realizzabili anche
attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di
mercato (come espressamente e puntualmente sancito dalla
Corte Costituzionale, con la sentenza 12.05.1999 n. 179,
per come ribadito dalla giurisprudenza, cfr., ex multis,
Cons. Stato, Sez. VI, 14.05.2000 n. 2934);
e) come è noto, la sussistenza di vincoli preordinati
all'espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale
ovvero in altri strumenti urbanistici, dopo i fondamentali
interventi della Corte Costituzionale, che riconobbe
l'illegittimità della disciplina dell'indeterminatezza
temporale dei vincoli preordinati all'espropriazione
contenuta nella legge urbanistica (cfr. Corte Cost., 29.05.1968 n. 55) e la modifica normativa di cui alla L. 19.11.1968, n. 1187, con la previsione di una durata
quinquennale del periodo di vigenza di tali previsioni, è
valutata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in
senso strettamente contenutistico.
Si afferma infatti, con
principio non contestato, che costituiscono vincoli soggetti
a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che
comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il
contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento
del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo
significativo il suo valore di scambio (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 03.01.2001 n. 3, Sez. IV, 17.04.2003 n. 2015
e 22.06.2004 n. 4426).
Nel caso di specie, i contenuti del PRG del Comune di
Carbonate, per come sono stati sopra indicati con
riferimento all'area di proprietà del ricorrente (e, in
particolare, laddove è espressamente previsto che la
realizzazione da parte del privato delle attrezzature
private di uso pubblico impedisce l’ablazione del diritto di
proprietà da parte del Comune) escludono l'esistenza delle
condizioni normative necessarie per ritenere esistente
sull'area stessa un vincolo di carattere espropriativo.
In altri termini e conclusivamente, la destinazione ad
attrezzature ricreative, sportive e a parchi pubblici, data
dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non
comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo
espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla
zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per
definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna
delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale,
ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico
generale non soggette ai limiti temporali richiamati da
parte ricorrente, trattandosi di vincoli non ablatori, ma
derivanti da destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa
privata, in regime di economia di mercato (cfr., ancora,
Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2007 n. 870; TAR Lazio
Roma Sez. II, Sent., 27.01.2012, n. 929)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.03.2013 n. 632 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di una canna fumaria
(nella fattispecie, in
lamiera d’acciaio inox del
diametro di circa 30 cm. e di altezza di circa 10 ml.
fuoriuscente sulla parete esterna che si affaccia sul
cortile)
deve ritenersi
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi
ed impianti, e, dunque, soggetta al regime del permesso di
costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera
c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di
specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui
inerisce.
Peraltro, il preventivo rilascio del permesso di costruire
può configurarsi anche in presenza di opere alle quali
consegua una trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio, anche se esse non consistano in opere murarie,
essendo realizzate in metallo, in laminati di plastica, in
legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni
preordinate a soddisfare esigenze non precarie del
costruttore.
Poi, nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha
ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire qualora esse non presentino piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sagoma dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 146
dell’11.09.2012, con la quale sono state ingiunte la
sospensione lavori e la rimessione in pristino
dell'originale stato dei luoghi.
...
- che con ordinanza del 22.11.2012, n. 9704/2012 sono stati
disposti incombenti istruttori a carico del Comune, eseguiti
mediante deposito in atti di apposita relazione da cui
emerge l’avvenuto sopralluogo da parte dei tecnici comunali
volto a “verificare la consistenza e le caratteristiche
di una canna fumaria…. realizzata in lamiera d’acciaio inox
di diametro di circa 30 cm. e di altezza di circa 10 ml.;
fuoriesce sulla parete esterna che si affaccia sul cortile e
dal piano del calpestio dello stesso dopo alcune curve
termina sul terrazzo posto al 3° piano….“E’ da considerarsi
un intervento di nuova costruzione in quanto totalmente
diversa per materiale dimensione e posizionamento da quella
rimossa con modifica dell’aspetto esteriore e pertanto
necessita di autorizzazione paesaggistica ex d.lvo n.
42/2004”;
- che il ricorso
deve ritenersi infondato e, pertanto, va respinto;
- che, al fine del decidere, il Collegio non può che
rilevare che l'intervento in esame deve ritenersi
riconducibile ai lavori di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1°, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi
ed impianti, e, dunque, soggetto al regime del permesso di
costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera
c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di
specie, una modifica del prospetto del fabbricato cui
inerisce, peraltro riscontrabile dalle riproduzioni
fotografiche in atti;
- che il preventivo rilascio del permesso di costruire può
configurarsi anche in presenza di opere alle quali consegua
una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio,
anche se esse non consistano in opere murarie, essendo
realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno od
altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore;
- che nel caso delle canne fumarie, la giurisprudenza ha
ravvisato la necessità del previo rilascio del permesso di
costruire, qualora esse non presentino piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla
sagoma dell'immobile, e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile;
- che dalle riproduzioni fotografiche depositate in atti, la
canna fumaria installata sull'edificio in esame per
dimensioni, l'altezza, la relativa conformazione, risulta
incidere notevolmente sul prospetto e la sagoma della
costruzione su cui è installata, non potendosi, perciò,
considerarsi, contrariamente a quanto prospettato dal
ricorrente, un elemento meramente accessorio ovvero di
ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale
assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell'immobile;
- che, pertanto, per le considerazioni che precedono, il
ricorso deve essere respinto (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 25.02.2013 n. 2015 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sull'istituto della conferenza di servizi.
La legge n. 241/1990 prevede, come noto, tre diversi tipi di conferenza
di servizi:
a) quella istruttoria (art. 14, commi 1 e 3),
nella quale vi è una sola amministrazione competente a
decidere in relazione agli interessi pubblici coinvolti in
uno solo (comma 1) o in più procedimenti (comma 3), sicché
mediante la conferenza viene acquisita la posizione di altri
soggetti pubblici portatori di interessi coinvolti
dall’esercizio del potere amministrativo, ma la competenza a
decidere permane in capo all’amministrazione che indetto la
conferenza (c.d. decisione monostrutturata);
b) quella
decisoria (art. 14, comma 2), che serve ad assumere
decisioni concordate tra più amministrazioni, in
sostituzione dei previsti pareri, concerti, intese, nulla
osta o atti di assenso comunque denominati (c.d. decisone pluristrutturata);
c) quella che la dottrina definisce predecisoria o preliminare, prevista dall’art. 14-bis al
fine specifico di agevolare l’approvazione di progetti di
particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni
e servizi.
Con particolare riferimento alla conferenza istruttoria,
dall’esame del primo comma dell’art. 14 della legge n.
241/1990 (il quale attualmente dispone che “qualora sia
opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi
pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo,
l’amministrazione procedente può indire una conferenza di
servizi”) si desume che l’indizione della conferenza è
facoltativa e spetta all’amministrazione cui compete
l’adozione del provvedimento finale.
Inoltre, prima delle
modifiche apportate alla disposizione in esame dall’art. 49
del decreto legge n. 78 del 31.05.2010 sussistevano
dubbi in ordine alla facoltatività o all’obbligatorietà
dell’indizione della conferenza istruttoria. Infatti il
primo comma dell’art. 14 disponeva che “qualora sia
opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi
pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo,
l’amministrazione procedente indìce di regola una conferenza
di servizi”, e l’inciso “di regola” induceva a qualificare
la conferenza istruttoria come uno strumento ordinario di
esercizio della funzione amministrativa, la cui deroga
avrebbe richiesto una specifica motivazione.
Il problema
risulta oggi superato per effetto del decreto legge n.
78/2010, perché nella relazione relativa al disegno di legge
A.S. 2228 si legge che, per effetto delle modifiche
apportate al primo comma, è rimessa «alla discrezionalità
della pubblica amministrazione la decisione di convocare la
conferenza di servizi istruttoria, evitando che la mancata
adozione di tale modulo procedurale possa formare oggetto di
sindacato da parte del giudice amministrativo»
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 20.02.2013 n. 1899 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra
la normativa in materia edilizia e la normativa in materia
di pubbliche affissioni (di cui al decreto legislativo n.
507/1993), giacché trattasi di discipline differenti, avente
differenti contenuti e finalità, che concorrono nella
valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela
di interessi pubblici diversi nonché ai fini della
definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Infatti la normativa edilizia trova applicazione in tutte le
ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel
suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico
che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto
assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Pertanto laddove la sistemazione di una insegna o di una
tabella pubblicitaria o di ogni altro genere dovesse
comportare, per le sue consistenti dimensioni, un rilevante
mutamento territoriale, non v’è dubbio che l’interessato
dovrebbe munirsi anche del prescritto titolo edilizio.
Ciò posto –fermo
restando che appare senz’altro condivisibile la tesi della
ricorrente secondo la quale le insegne di cui trattasi non
assumono autonomo rilievo anche ai fini urbanistici ed
edilizi– occorre tuttavia rammentare che, secondo la
giurisprudenza (TAR Calabria Catanzaro, Sez. I, 05.01.2012, n. 2), non sussiste un rapporto di tipo derogatorio
fra la normativa in materia edilizia e la normativa in
materia di pubbliche affissioni (di cui al decreto
legislativo n. 507/1993), giacché trattasi di discipline
differenti, avente differenti contenuti e finalità, che
concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai
fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai
fini della definizione di differenti procedimenti
amministrativi.
Infatti la normativa edilizia trova
applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un
mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia
sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed
entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione
dei regolamenti edilizi.
Pertanto laddove la sistemazione di
una insegna o di una tabella pubblicitaria o di ogni altro
genere dovesse comportare, per le sue consistenti
dimensioni, un rilevante mutamento territoriale, non v’è
dubbio che l’interessato dovrebbe munirsi anche del
prescritto titolo edilizio.
---------------
In particolare, quanto
alle insegne luminose, il Collegio osserva che dalla scarna
motivazione del provvedimento impugnato si può comunque
desumere che l’Amministrazione ha ritenuto applicabile nel
caso in esame la disposizione dell’art. 6 della delibera di
C.C. n. 260 del 1997, nella parte in cui prevede che “nel
caso di installazione di insegne su immobili antichi di
rilevanza storico-architettonica” non è consentito
l’utilizzo di “materiali plastici”.
Ciò posto risulta evidente che il provvedimento impugnato è
palesemente viziato per difetto di motivazione. Infatti –pur volendo ammettere che, come correttamente ricordato
dalla difesa di Roma Capitale, la discrezionalità tecnica
può essere sindacata in sede giurisdizionale solo per
difetto di motivazione o in presenza di profili di
incongruità ed illogicità tali da far emergere
l’inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale
compiuta dall’Amministrazione (ex multis, Cons. Stato, Sez.
VI, 30.06.2011, n. 3894)– nel caso in esame non può
farsi a meno di evidenziare che:
a) l’Amministrazione non ha
affatto indicato in motivazione le ragioni per cui
l’immobile di cui trattasi rientra tra gli “immobili antichi
di rilevanza storico-architettonica” ai quali si riferisce
l’art. 6 della delibera di C.C. n. 260 del 1997;
b) tale
motivazione si rendeva tanto più necessaria se si considera
che il predetto immobile non risulta sottoposto a tutela ai
sensi del decreto legislativo n. 42/2004 (si veda la
riguardo il parere favorevole espresso dalla Soprintendenza
Statale su richiesta della società ricorrente) e che
dall’esame della documentazione fotografica relativa a tale
immobile (all. 33 al ricorso) non emergono ictu oculi
aspetti di interesse storico-architettonica (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 20.02.2013 n. 1899 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’interesse all’accesso ai documenti
amministrativi, così come è disegnato dall’art. 22 e
seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, anche
successivamente alle modifiche intervenute nel 2005 (per
effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009 (per
effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa e
più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non
presuppone necessariamente una posizione soggettiva
qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse
legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del
procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso
deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non
può più agire, o non possa ancora agire, in sede
giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di
accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale
domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la
richiesta di accesso e non anche la possibilità di
utilizzare gli atti richiesti in un giudizio.
Con l’introduzione dell’azione a tutela dell’accesso, il
legislatore ha, infatti, inteso assicurare all’amministrato
la trasparenza della Pubblica amministrazione,
indipendentemente dalla lesione, in concreto, di una
determinata posizione di diritto o di interesse legittimo;
l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi
viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di
tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi
ad incidere l’attività amministrativa, eventualmente in modo
lesivo.
Ove poi il diritto di accesso sia strumentale alla tutela
della propria situazione giuridica o finalizzato a far
valere in sede amministrativa i propri interessi attraverso
la partecipazione al procedimento, l’amministrazione cui è
richiesto l’accesso documentale non ha alcuna facoltà di
scrutinio sulla fondatezza o meno dell’eventuale giudizio
già intrapreso o da intraprendersi ad iniziativa della parte
richiedente l’accesso.
Come pure è irrilevante che la richiesta sia preordinata
all'utilizzazione degli atti in un giudizio nel quale
sussistono comunque i poteri istruttori del giudice.
E’ stato infatti da tempo osservato che poiché il diritto di
accesso gode di un sistema autonomo di protezione
giurisdizionale, rispetto ad esso, la pendenza di un altro
giudizio, avente ad oggetto principale la “situazione
legittimante”, lungi dall’essere fattore preclusivo, è
piuttosto indice sintomatico della correttezza
dell’interesse ad agire, dovendo ritenersi conclamata la
sussistenza di una posizione qualificata ai fini
dell’accesso alla documentazione richiesta.
---------------
Non solo l’attività puramente autoritativa, ma tutta
l’attività funzionale alla cura di interessi pubblici è
sottoposta all’obbligo di trasparenza e di conoscibilità da
parte degli interessati, inclusi gli atti disciplinati dal
diritto privato.
Tuttavia, per quanto concerne gli atti provenienti (anche)
dai privati, l’accesso in tanto è consentito in quanto si
tratti di atti utilizzati ed in qualche modo rilevanti
nell’iter del procedimento e non già di atti solo
occasionalmente detenuti dall’amministrazione.
Peraltro, nell’ambito degli atti privati utilizzati ai fini
dell’attività amministrativa occorre distinguere quelli che
sono gli atti di soggetti terzi, da quelli che sono atti
propri del soggetto richiedente l’accesso.
Per questi ultimi, Consiglio di Stato ha affermato il
principio secondo cui il diniego di accesso risulta
“inutilmente penalizzante per la parte e contrario ai doveri
di collaborazione che comunque devono sussistere fra i
diversi soggetti coinvolti nell’esercizio della funzione
pubblica. E ciò anche quando la richiesta di accesso (o di
copia degli atti), evidentemente ritenuta dalla parte
necessaria, risulti dovuta ad eventuale negligenza nella
conservazione di copia degli atti presentati”.
Il Consiglio ha soggiunto che, in tale evenienza,
l’amministrazione può comunque richiedere al privato i costi
sostenuti per l’attività ostensiva, la quale -pur non
essendo stata la parte pienamente diligente- risulta
comunque necessaria per la cura degli interessi di
quest’ultima.
Nel merito, giova ricordare che l’interesse all’accesso ai
documenti amministrativi, così come è disegnato dall’art. 22
e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, anche
successivamente alle modifiche intervenute nel 2005 (per
effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009 (per
effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa
e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non
presuppone necessariamente una posizione soggettiva
qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse
legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del
procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso
deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non
può più agire, o non possa ancora agire, in sede
giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di
accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale
domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la
richiesta di accesso e non anche la possibilità di
utilizzare gli atti richiesti in un giudizio (Cons. Stato,
Sez. VI, 27.10.2006 n. 6440).
Con l’introduzione dell’azione a tutela dell’accesso, il
legislatore ha, infatti, inteso assicurare all’amministrato
la trasparenza della Pubblica amministrazione,
indipendentemente dalla lesione, in concreto, di una
determinata posizione di diritto o di interesse legittimo;
l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi
viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di
tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi
ad incidere l’attività amministrativa, eventualmente in modo
lesivo.
Ove poi il diritto di accesso sia strumentale alla tutela
della propria situazione giuridica o finalizzato a far
valere in sede amministrativa i propri interessi attraverso
la partecipazione al procedimento (cfr., al riguardo, Cons.
Stato, Sez. VI, 21.05.2009 n. 3147), l’amministrazione
cui è richiesto l’accesso documentale non ha alcuna facoltà
di scrutinio sulla fondatezza o meno dell’eventuale giudizio
già intrapreso o da intraprendersi ad iniziativa della parte
richiedente l’accesso (cfr. TAR Lazio, Sez. III-quater, 12.08.2009 n. 8176).
Come pure è irrilevante che la richiesta sia preordinata
all'utilizzazione degli atti in un giudizio nel quale
sussistono comunque i poteri istruttori del giudice
(Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5752).
E’ stato infatti da tempo osservato che poiché il diritto di
accesso gode di un sistema autonomo di protezione
giurisdizionale, rispetto ad esso, la pendenza di un altro
giudizio, avente ad oggetto principale la “situazione
legittimante”, lungi dall’essere fattore preclusivo, è
piuttosto indice sintomatico della correttezza
dell’interesse ad agire (Cass., SS.UU., 28.05.1998, n. 5292),
dovendo ritenersi conclamata la sussistenza di una posizione
qualificata ai fini dell’accesso alla documentazione
richiesta.
---------------
Come noto, non solo
l’attività puramente autoritativa, ma tutta l’attività
funzionale alla cura di interessi pubblici è sottoposta
all’obbligo di trasparenza e di conoscibilità da parte degli
interessati, inclusi gli atti disciplinati dal diritto
privato (Cons. St., A.P., 22.04.1999, n. 4).
Tuttavia, per quanto concerne gli atti provenienti (anche)
dai privati, l’accesso in tanto è consentito in quanto si
tratti di atti utilizzati ed in qualche modo rilevanti
nell’iter del procedimento e non già di atti solo
occasionalmente detenuti dall’amministrazione (Cons. St,
sez. V, 11.03.2002, n. 1443, nonché sez. VI, sentenza n.
191 del 22.01.2001).
Peraltro, nell’ambito degli atti privati utilizzati ai fini
dell’attività amministrativa occorre distinguere quelli che
sono gli atti di soggetti terzi, da quelli che sono atti
propri del soggetto richiedente l’accesso.
Per questi ultimi, dopo un iniziale orientamento propenso a
negare l’accesso (cfr. la sentenza n. 1443/2002, cit.), il
Consiglio di Stato ha affermato il diverso principio secondo
cui il diniego di accesso risulta “inutilmente penalizzante
per la parte e contrario ai doveri di collaborazione che
comunque devono sussistere fra i diversi soggetti coinvolti
nell’esercizio della funzione pubblica. E ciò anche quando
la richiesta di accesso (o di copia degli atti),
evidentemente ritenuta dalla parte necessaria, risulti
dovuta ad eventuale negligenza nella conservazione di copia
degli atti presentati”.
Il Consiglio ha soggiunto che, in
tale evenienza, l’amministrazione può comunque richiedere al
privato i costi sostenuti per l’attività ostensiva, la quale
-pur non essendo stata la parte pienamente diligente-
risulta comunque necessaria per la cura degli interessi di
quest’ultima (Cons. St., sez. IV, sentenza 07.02.2011, n. 810)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 20.02.2013 n. 1896 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Sul piano
dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la
sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un
nuovo concorso e la decisione di scorrimento della
graduatoria preesistente ed efficace.
Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la
regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso
costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e
approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio
imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di
interesse pubblico.
L’articolo 3, comma 87, della legge 24.12.2007, n. 244 (legge
finanziaria 2008), ha aggiunto, all’articolo 35 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, il comma 5-ter, in forza
del quale “Le graduatorie dei concorsi per il reclutamento
del personale presso le amministrazioni pubbliche rimangono
vigenti per un termine di tre anni dalla data di
pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza
inferiori previsti da leggi regionali”.
L’articolo 1, comma 4, del decreto legge n. 216 del 09.12.2011, convertito dalla legge 24.02.2012, n.
14, dispone che “L’efficacia delle graduatorie dei concorsi
pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, relative alle
amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle
assunzioni, approvate successivamente al 30.09.2003,
è prorogata fino al 31.12.2012, compresa la Presidenza
del Consiglio dei Ministri”.
Da ultimo, l’art. 1, comma 388, della l. 24.12.2012, n. 228
(legge di stabilità 2013), ha ulteriormente prorogato, sino
al 30.06.2013, il termine stabilito nel 2011.
Pertanto, non sussistono dubbi in merito alla perdurante
vigenza delle graduatorie sulle quali si fondano le pretese
di parte ricorrente.
Al riguardo si osserva che risulta destituito di fondamento
quanto eccepito nelle difese della resistente, circa
l’esclusione di Roma Capitale dal novero delle
amministrazioni soggette a limitazione delle assunzioni.
Infatti, nella delibera n. 194 del 01.06.2011 (recante
l’approvazione del nuovo sistema di classificazione della
dirigenza e l’approvazione del piano assunzionale 2011–2013), si dà espressamente atto che anche l’amministrazione
capitolina è obbligata ad adottare misure di contenimento
della spesa di personale ed è assoggettata alle limitazioni
per le assunzioni di personale a tempo indeterminato
previste, in particolare, dall’art. 76, comma 7, d.l. n.
112/2008, conv., con modificazioni, in l. 133/2008,
sostituito dall’art. 14 d.l. 31.05.2010, n. 78 e da
ultimo modificato dall’art. 1, comma 118, l. 13.12.2010, n. 220.
Relativamente alle disposizioni introdotte con la legge
finanziaria per il 2008, l’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, nella sentenza 28.07.2011, n. 14, ha posto in
rilievo che siffatto intervento normativo «abbandona la
struttura formale della disciplina di mera proroga, a
carattere contingente, e si caratterizza per alcuni elementi
di novità: - è definitivamente confermato che la vigenza
delle graduatorie, ora determinata in tre anni, decorrenti
dalla pubblicazione, è un istituto ordinario (“a regime”)
delle procedure di reclutamento del personale pubblico,
disciplinato da una fonte di rango legislativo e non più dal
solo regolamento generale dei concorsi (d.P.R. n. 487/1994);
- l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto generale
dello “scorrimento” è riferito, indistintamente, a tutte le
amministrazioni, senza limitazioni di carattere soggettivo
od oggettivo. Fermi restando questi importanti profili
innovativi, tuttavia, la disciplina, per la sua ratio e per
la sua formulazione letterale, va estesa anche alle
procedure concorsuali svolte in epoca precedente alla sua
entrata in vigore» (punto 16 della motivazione).
Il Consiglio di Stato, ha quindi analiticamente affrontato i
rapporti tra la scelta di indire un nuovo concorso e quella
di attingere ad una graduatoria ancora efficace,
evidenziando quanto segue: «a) Va superata la tesi
tradizionale, secondo cui la determinazione di indizione di
un nuovo concorso non richiede alcuna motivazione. A
maggiore ragione, è da respingersi la tesi “estrema”,
secondo cui si tratterebbe di una decisione insindacabile
dal giudice amministrativo.
b) Simmetricamente, però, non è
condivisibile l’idea opposta, in forza della quale, la
disciplina in materia di scorrimento assegnerebbe agli
idonei un diritto soggettivo pieno all’assunzione, mediante
lo scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della
vacanza e disponibilità di posti in organico. Infatti, in
tali circostanze l’amministrazione non è incondizionatamente
tenuta alla loro copertura, ma deve comunque assumere una
decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti
normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio,
alle scelte programmatiche compiute dagli organi di
indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto
rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire
se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
c)
Ferma restando, quindi, la discrezionalità in ordine alla
decisione sul “se” della copertura del posto vacante,
l’amministrazione, una volta stabilito di procedere alla
provvista del posto, deve sempre motivare in ordine alle
modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni
caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei
ancora valide ed efficaci al momento dell’indizione del
nuovo concorso.
d) Nel motivare l’opzione preferita,
l’amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la
circostanza che l’ordinamento attuale afferma un generale
favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei,
che recede solo in presenza di speciali discipline di
settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni
di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque,
essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione
del nuovo concorso» (punto 31 della motivazione).
Ne consegue che «sul piano dell’ordinamento positivo, si è
ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra
l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di
scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace.
Quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la
regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso
costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e
approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio
imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di
interesse pubblico» (punto 50 della motivazione).
Peraltro, nei successivi passaggi della motivazione, è stato
posto in rilievo che «la riconosciuta prevalenza delle
procedure di scorrimento non è comunque assoluta e
incondizionata. Sono tuttora individuabili casi in cui la
determinazione di procedere al reclutamento del personale,
mediante nuove procedure concorsuali, anziché attraverso lo
scorrimento delle preesistenti graduatorie, risulta
pienamente giustificabile, con il conseguente
ridimensionamento dell’obbligo di motivazione. In tale
contesto si situano, in primo luogo, le ipotesi in cui
speciali disposizioni legislative impongano una precisa
cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari
meccanismi di progressioni nelle carriere, tipiche di
determinati settori del personale pubblico. In tali
eventualità emerge il dovere primario dell’amministrazione
di bandire una nuova procedura selettiva, in assenza di
particolari ragioni di opportunità per l’assunzione degli
idonei collocati nelle preesistenti graduatorie» (punto 51
della motivazione).
In aggiunta a tali casi vengono poi
segnalate alcune ipotesi di fatto, in cui si manifesta
l’opportunità, se non la necessità, di procedere
all’indizione di un nuovo concorso, pur in presenza di
graduatorie ancora efficaci, con la conseguente attenuazione
dell’obbligo di motivazione.
In particolare, secondo la Plenaria, «può assumere rilievo
l’esigenza preminente di determinare, attraverso le nuove
procedure concorsuali, la stabilizzazione del personale
precario, in attuazione delle apposite regole speciali in
materia. Tale finalità, tuttavia, non esime
l’amministrazione dall’obbligo di valutare,
comparativamente, in ogni caso, anche le posizioni
giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati nella
graduatoria come idonei. La normativa speciale in materia,
infatti, non risulta formulata in modo da imporre la
indiscriminata prevalenza delle procedure di
stabilizzazione, ma lascia all’amministrazione un rilevante
potere di valutazione discrezionale in ordine ai
contrapposti interessi coinvolti» (punto 53 della
motivazione).
Inoltre «può acquistare rilievo l’intervenuta modifica
sostanziale della disciplina applicabile alla procedura
concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria
ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle
prove di esame e ai requisiti di partecipazione» (punto 54
della motivazione).
Infine «deve attribuirsi risalto determinante anche
all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale
per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle
eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando
relativo alla preesistente graduatoria» (punto 55 della
motivazione) (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 20.02.2013 n. 1889 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Nella giunta comunale deve essere garantita la
presenza di entrambi i generi.
Il Tar Sardegna ha annullato il provvedimento di nomina
della Giunta comunale, che esclude completamente dal suo
seno la rappresentanza femminile.
La giurisprudenza amministrativa, confortata anche dalla
conforme interpretazione del principio fornita dalla Corte
Costituzionale, ha in più occasioni riconosciuto all'art. 51
Cost. (che sancisce "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro
sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche
elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti
stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove
con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e
uomini".) valore di norma cogente e immediatamente
vincolante, come tale idonea a conformare ed indirizzare lo
svolgimento della discrezionalità amministrativa, ponendosi
rispetto ad essa quale parametro di legittimità sostanziale
(ex multis Corte Cost. n. 4/2010; Tar Campania-Napoli,
sez. I, n. 12668 del 2010 e nn. 1427 e 1985 del 2011).
Il principio in questione è stato inteso in primo luogo come
immediato svolgimento del principio di uguaglianza
sostanziale di cui all'art. 3 Cost., non solo nella sua
accezione negativa (come divieto di azioni discriminatorie
fondate sul sesso), ma anche positiva, impegnando le
Istituzioni alla rimozione degli ostacoli che di fatto
impediscono la piena partecipazione di uomini e donne alla
vita sociale, istituzionale e politica del Paese.
Ma la pregnanza del principio nel tessuto ordinamentale,
come in parte già rilevato più sopra, si svolge anche su un
ulteriore piano dei valori costituzionali, giungendosi ad
una più consapevole individuazione della sua valenza
trasversale nella misura in cui lo si ricollega, in chiave
strumentale, al principio di buon andamento e imparzialità
dell'azione amministrativa: la rappresentanza di entrambi i
generi nella compagine degli organi amministrativi, specie
se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica,
"garantisce l'acquisizione al modus operandi dell'ente, e
quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto
quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e
di professionalità, che assume una articolata e
diversificata dimensione in ragione proprio della diversità
del genere" (Tar del Lazio sent. n 6673/2011).
Il principio costituzionale così inteso, quindi, illumina
ulteriori disposizione poste dal legislatore ordinario a
tutela della effettiva realizzazione della parità tra uomini
e donne: il codice delle pari opportunità tra uomo e donna
(d.lgs. 11.04.2006, n. 198), all'art. 1, comma 4,
precisa che "l'obiettivo della parità di trattamento e di
opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente
nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad
opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti
amministrativi, politiche e attività", mentre l'art. 6 TUEL
(d.lgs. 267/2000) al comma 3 prevede "Gli statuti comunali e
provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10.04.1991, n. 125, e per promuovere la presenza di
entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del
comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed
istituzioni da esso dipendenti".
Inteso nei termini sopra specificati il principio di parità
si pone come vincolo per l'azione dei pubblici poteri nello
svolgimento della discrezionalità loro consegnata
dall'ordinamento e come direttiva in ordine al risultato da
perseguire (promozione delle pari opportunità tra i generi,
in funzione della parità sostanziale e del buon andamento
dell'azione amministrativa), con possibilità per gli attori
istituzionali di individuare le modalità per la
realizzazione più appropriata dei principi in questione,
purché nel rispetto delle basilari esigenze di
ragionevolezza, coerenza e adeguatezza motivazionale.
Nell'ottica del pieno perseguimento dell'obiettivo della
pari opportunità tra uomini e donne lo Statuto comunale di
Castiadas, all'art. 2, lettera p), impegna l'azione degli
organi comunali ad adottare misure concrete, funzionali alla
prospettiva di valorizzazione della parità di genere.
In tali termini la stessa disposizione statutaria si pone
come norma cogente che rinvia inevitabilmente a coerenti
successive determinazioni amministrative, di applicazione e
di dettaglio, ponendosi come vincolo conformativo all'azione
amministrativa in generale, compresa la determinazione
sindacale di scelta della compagine assessorile.
Occorre dunque verificare se, nel caso di specie, il potere
sindacale di nomina della Giunta comunale di cui all'atto
sindacale impugnato, che esclude completamente dal suo seno
la rappresentanza femminile, sia stato esercitato entro le
guide della legittimità formale e sostanziale: occorre cioè
scrutinare le ragioni e le modalità con cui il potere è
stato speso con riferimento al paradigma normativo che
impone il rispetto delle pari opportunità tra uomo e donna,
prestandosi l'atto oggetto dell'odierna impugnativa al
sindacato giurisdizionale di legittimità sotto i profili di
razionalità, logicità e ragionevolezza.
Al riguardo le ricorrenti contestano l'adeguatezza e
veridicità degli stessi presupposti motivazionali, asserendo
che gli stessi sono inidonei a superare i denunciati profili
di violazione del principio di pari opportunità, attesa la
composizione monogenere della Giunta comunale di Castiadas,
in spregio ai sopra precisati principi normativi.
Il Collegio ritiene che non sia possibile affermare, sulla
base degli ordinari canoni di logicità e ragionevolezza, che
l'azione del Sindaco sia stata improntata alla promozione
del principio di pari opportunità, posto, come detto, a più
livelli, quale limite conformativo all'esercizio del potere,
né che siano state garantite le sottese esigenze valoriali
di imparzialità e buon andamento.
Infatti, esigenze di logica e ragionevolezza imponevano, nel
caso di specie, che la scelta di non rendere presenti in
seno alla Giunta comunale componenti di sesso femminile, pur
se, in assoluto non illegittima, fosse motivata in maniera
puntuale, illustrando i confini dell'apprezzamento operato e
del giudizio conseguente (TAR Sardegna, Sez. II, 02.08.2011, n. 864).
All'uopo non può certo ritenersi esaustiva una motivazione,
come quella addotta dalla difesa comunale che, in termini
negativi, si è sostanzialmente limitata a dar conto della
sussistenza di ragioni politiche e di adeguata
professionalità ostative all'equilibrata presenza di
entrambi i generi nella Giunta, giacché esso costituisce
argomento ulteriormente confermativo di un atteggiamento
potenzialmente discriminatorio nei confronti delle
appartenenti al genere femminile, quasi come se il requisito
in questione fosse prerogativa dei soli appartenenti al
genere maschile.
Né, attesa la necessità di dar conto in termini puntuali e
positivi dell'attività istruttoria svolta al fine di
rimuovere gli ostacoli che si frapponevano alla
realizzazione delle pari opportunità, si è rivelata idonea
l’istruttoria esperita dal Tribunale, all’esito della quale
sono state prodotte lettere di invito inviate solo
successivamente alla proposizione del ricorso e risposte
negative all’invito anch’esse rese soltanto nei giorni
scorsi (dicembre 2012/gennaio 2013).
Ed invero, solamente lo svolgimento di un'attività
istruttoria indirizzata in via preventiva all’acquisizione
in seno al nominando consesso di specifiche professionalità
appartenenti al genere femminile, (anche al di fuori dei
componenti del Consiglio, fra i cittadini in possesso dei
requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità
alla carica di consigliere ai sensi dell'art. 47 TUEL) in
grado di conciliare le esigenze di carattere strettamente
politico con quelle del necessario rispetto dei vincoli
legali e statutari in tema di parità di genere nella
rappresentanza democratica, avrebbe potuto giustificare, in
caso di comprovato esito fallimentare della stessa attività,
ove fosse stata obiettivamente acclarata l’impossibilità di
procedere altrimenti, la mancanza della componente femminile
in seno alla Giunta.
Di tale attività preventiva e promozionale non vi è traccia
nella motivazione dell'atto gravato dalle ricorrenti, non
essendo sufficiente addurre, a giustificazione dell'atto di
nomina della Giunta priva di rappresentanti del sesso
femminile, la necessità di acquisire tra i suoi componenti
persone aventi pregressa esperienza politica e/o
amministrativa al fine di ottimizzare attività, funzioni e
risultati.
Per tutte queste ragioni il ricorso è fondato e va accolto,
con conseguente pronuncia di annullamento di tutti gli atti
impugnati (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 04.02.2013 n. 84 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto alla motivazione che deve
assistere l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza
ha ripetutamente osservato come, anche in caso di
provvedimento positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad
esplicitare le ragioni della ritenuta effettiva
compatibilità dell’intervento con gli specifici valori
paesaggistici dei luoghi, e debba per questo fornire tutti
gli elementi utili al riscontro dell’idoneità
dell’istruttoria, dell’apprezzamento delle varie circostanze
di fatto rilevanti nel singolo caso e della non manifesta
irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza
di un valore in conflitto con quello tutelato in via
primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione,
costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica
per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale
investita della verifica in sede di controllo.
Se, poi, l’annullamento è fondato su più vizi
dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a
sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità
statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio
di motivazione dell’atto annullato senza necessità di
vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del
consolidato principio per cui, quando il provvedimento
amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni
giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la
fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga
legittimo.
---------------
Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato.
Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile
per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Va premesso
che, quanto alla motivazione che deve assistere
l’autorizzazione paesaggistica, la giurisprudenza ha
ripetutamente osservato come, anche in caso di provvedimento
positivo, l’Amministrazione sia tenuta ad esplicitare le
ragioni della ritenuta effettiva compatibilità
dell’intervento con gli specifici valori paesaggistici dei
luoghi, e debba per questo fornire tutti gli elementi utili
al riscontro dell’idoneità dell’istruttoria,
dell’apprezzamento delle varie circostanze di fatto
rilevanti nel singolo caso e della non manifesta
irragionevolezza del giudizio formulato circa la prevalenza
di un valore in conflitto con quello tutelato in via
primaria, di modo che l’insufficienza della motivazione,
costituendo un vizio di legittimità dell’atto, ne giustifica
per ciò solo l’annullamento da parte dell’Autorità statale
investita della verifica in sede di controllo (v., tra le
altre, Cons. Stato, Sez. VI, 22.03.2007 n. 1362).
Se,
poi, l’annullamento è fondato su più vizi
dell’autorizzazione paesaggistica, il giudice chiamato a
sindacare la legittimità del provvedimento dell’Autorità
statale può limitarsi ad accertare la sussistenza del vizio
di motivazione dell’atto annullato senza necessità di
vagliare le altre irregolarità rilevate, alla luce del
consolidato principio per cui, quando il provvedimento
amministrativo sia sorretto da una pluralità di ragioni
giustificatrici tra loro autonome, è sufficiente la
fondatezza anche di una sola di esse perché l’atto rimanga
legittimo (v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 29.07.2008
n. 2195).
---------------
Quanto, poi,
alla dedotta carenza di comunicazione di avvio del
procedimento, non ignora il Collegio l’orientamento
giurisprudenziale che, nel regime giuridico anteriore al
regolamento approvato con d.m. n. 165 del 19.06.2002,
considera necessario l’avviso ex art. 7 della legge n. 241
del 1990 da parte dell’Autorità statale investita del
controllo sull’autorizzazione paesaggistica, avviso ritenuto
indispensabile anche quando detta autorizzazione rechi nel
dispositivo l’annuncio della sua trasmissione alla locale
soprintendenza per il compimento delle relative funzioni
(v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 20.07.2011 n.
4382); sennonché, a fronte di un vizio –carenza di
motivazione in sede di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica– che per le sue caratteristiche si sottrae ad
apporti del privato suscettibili di colmare la lacuna, in
alcun modo la partecipazione delle ricorrenti avrebbe potuto
nella fattispecie dare luogo ad un differente esito
dell’attività di riscontro della Soprintendenza per i Beni
architettonici e per il Paesaggio di Ravenna, sicché è
legittimo invocare il disposto di cui all’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241 del 1990 (“Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio
del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 10.01.2013 n. 14 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non è necessario il permesso di costruire per la
realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove
non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde
preesistente, ovvero urbanizzato il terreno.
Occorre invece il permesso di costruire, ai sensi
dall’articolo 3, comma 1, lettera e), del DPR. n. 380/2001,
quando le opere di pavimentazione, in ragione delle
dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati
determinino una significativa trasformazione dello stato dei
luoghi.
In tutta evidenza, la costruzione di una piattaforma in
cemento costituisce una trasformazione dello stato dei
luoghi e rientra nelle nuove costruzioni, per il quali è
previsto il rilascio del permesso di costruire,
pacificamente assente nel caso in esame.
Non è contestata in maniera convincente la natura di nuova
costruzione, realizzata senza alcun permesso di costruire,
di una piattaforma in cemento sporgente al di fuori del
piano di campagna per circa 25 cm.
Come ha rilevato la giurisprudenza, non è necessario il
permesso di costruire per la realizzazione di modeste opere
di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere
murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato
il terreno (TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, 26.08.2009 n.
299).
Occorre invece il permesso di costruire, ai sensi
dall’articolo 3, comma 1, lettera e), del DPR. n. 380/2001,
quando le opere di pavimentazione, in ragione delle
dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati
determinino una significativa trasformazione dello stato dei
luoghi (TAR Campania Napoli 21.04.2009, n. 2084, TAR
Piemonte Torino, 02.02.2005 n. 20, TAR Lombardia Milano
20.11.2002 n. 4514, TAR Campania-Napoli 10.12.2009 n. 8606).
In tutta evidenza, la costruzione di una piattaforma in
cemento costituisce una trasformazione dello stato dei
luoghi e rientra nelle nuove costruzioni, per il quali è
previsto il rilascio del permesso di costruire,
pacificamente assente nel caso in esame (TAR Marche,
sentenza 24.02.2012 n. 134 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: Non
è applicabile alla presentata DIA il preavviso di rigetto di
cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, ciò sul
presupposto che la DIA c.d. “edilizia” non dà inizio ad un
procedimento ad istanza di parte in quanto, anche con le
innovazioni da ultimo apportate alla citata legge n.
241/1990 (in particolare, art. 19), tale denuncia rimane
ancora un atto del privato non soggetto alle regole tipiche
del procedimento amministrativo.
Ciò risulta confermato dal fatto che l’esercizio del potere
inibitorio da parte dell’amministrazione è soggetto ad un
termine di decadenza fissato dalla legge (nel caso di
specie, 30 gg. ex art. 23 del DPR n. 380/2001) tanto che
l’applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 alla
fattispecie di che trattasi finirebbe per vanificare
l’intento di accelerazione e semplificazione delle attività
soggette a denuncia di inizio attività.
Il Collegio ritiene di aderire alla giurisprudenza
amministrativa che considera non applicabile alla
fattispecie in argomento (presentazione della denuncia di
inizio attività) il preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, ciò sul presupposto che la DIA
c.d. “edilizia” non dà inizio ad un procedimento ad istanza
di parte in quanto, anche con le innovazioni da ultimo
apportate alla citata legge n. 241/1990 (in particolare, art.
19), tale denuncia rimane ancora un atto del privato non
soggetto alle regole tipiche del procedimento
amministrativo.
Ciò risulta confermato dal fatto che l’esercizio del potere
inibitorio da parte dell’amministrazione è soggetto ad un
termine di decadenza fissato dalla legge (nel caso di
specie, 30 gg. ex art. 23 del DPR n. 380/2001) tanto che
l’applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 alla
fattispecie di che trattasi finirebbe per vanificare
l’intento di accelerazione e semplificazione delle attività
soggette a denuncia di inizio attività
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2007 n. 1775 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sull'(illegittimo) artificioso frazionamento di
un intervento edilizio in più interventi (susseguentesi nel
tempo) per non versare il contributo di costrizione.
Con successiva censura,
contenuta nell’unico motivo di cui al ricorso introduttivo e
riproposta con i motivi aggiunti depositati il 23.06.2006, la ricorrente, con riferimento alla DIA del 14.12.2005 (P.E. n. 85/05), si duole del fatto che gli
interventi siano stati qualificati dal Comune resistente di
ristrutturazione edilizia e soggetti, quindi, al pagamento
dei relativi contributi determinati in euro 112.076,65.
La doglianza non è fondata.
Al riguardo, è necessario precisare quanto segue:
- il complesso produttivo di che trattasi (ex Fantic Motor)
era, a suo tempo, costituito da un’unica unità immobiliare
che la ricorrente ha sottoposto, nel tempo, a vari
interventi di natura edilizia;
- nel maggio 2004, la società deducente ha chiesto il
rilascio del permesso di costruire (P.E. n. 40/2004) –negato
dal Comune- per la ristrutturazione e l’ampliamento del
complesso industriale di che trattasi con l’intenzione di
dividerlo in due unità immobiliare;
- successivamente, nel luglio 2005, la ricorrente ha
presentato una nuova denuncia di inizio attività (P.E. n.
46/2005), sempre relativamente all’intero complesso
industriale, qualificando le relative opere, in parte, di
ristrutturazione e, per il resto, di manutenzione
straordinaria e ha, di conseguenza, determinato i relativi
contributi da corrispondere al Comune resistente. In ragione
di ciò, la deducente ha stipulato, con il Comune interessato
ai sensi dell’art. 35 delle NTA, una convenzione con la
quale si è obbligata, tra l’altro, a realizzare opere di
urbanizzazione primaria (lavori di collegamento dell’intero
quartiere produttivo con la strada provinciale Briantea 342
Como–Bergamo) per un importo di euro 45.094,84;
- il Comune resistente, tuttavia, con nota n. 6068 del 22.07.2005, ha sospeso l’esecuzione degli interventi cui
alla predetta DIA (P.E. n. 46/2005) sul presupposto che le
opere, considerate nel loro insieme, avrebbero dovuto essere
qualificate di ristrutturazione edilizia e non di
manutenzione straordinaria;
- in ragione di ciò, la ricorrente ha presentato una nuova
DIA qualificando le opere in argomento di ristrutturazione
edilizia e di ampliamento eliminando, quindi, il riferimento
alla “manutenzione straordinaria”;
- le opere di che trattasi non sono state completate dalla
ricorrente la quale, nel dicembre 2005, ha depositato due
nuove DIA (P.E. n. 84/2005 e n. 85/2005), sostitutive della
precedente P.E. n. 46/2005, consistente la prima (n. 84/2005) in
opere di ristrutturazione edilizia e di ampliamento del c.d.
lotto B e la seconda (n. 85/2005) di manutenzione
straordinaria del lotto A;
- le opere relative alla P.E. n. 85/2005, consistenti nella
chiusura di un terrapieno e nella demolizione di tavolati
per la formazione di un servizio igienico, sono le stesse di
cui alla precedente pratica n. 46/2005 (comprendente anche le
opere di ristrutturazione ed ampliamento ora confluite nella P.E. n. 84/2005) che, come detto, non è stata portata a
compimento dalla ricorrente.
Ciò premesso in fatto, il Collegio è dell’avviso che la
qualificazione effettuata dal Comune resistente secondo cui
le opere di che trattasi vanno ricomprese nella nozione di
“ristrutturazione edilizia” sia corretta in quanto non
risulta smentito che la ricorrente, con la presentazione in
data 14.12.2005 della DIA in variante, ha inteso
“frammentare” i singoli interventi che, con la P.E. n.
46/2005, erano stati previsti e presentati in maniera
unitaria.
Ciò che, infatti, non è revocabile in dubbio, nel caso in
esame, è che la ricorrente, attraverso una serie di
interventi (da considerare nella loro unitarietà visto anche
l’effetto che hanno determinato sul complesso industriale di
che trattasi), ha suddiviso in due corpi distinti l’unità
immobiliare “ex Fantic Motor” portando ad un organismo
edilizio diverso da quello originario, anche se destinato
alla stessa funzione produttiva.
La ricorrente, se l’analisi delle opere in argomento non
viene limitata ai soli interventi di cui alla P.E. n. 85/2005,
intende invero realizzare interventi che interessano
l’intero immobile attraverso l’abbattimento dei muri
perimetrali esterni, di quelli divisori interni, delle porte
e delle finestre ivi esistenti che, insieme, alle opere di
minore impatto sul complesso immobiliare (quelle cioè di cui
alla P.E. n. 85/2005, ovvero chiusura di un terrapieno e
demolizione di tavolati per la formazione di un servizio
igienico), non possono che rientrare nella nozione di
“ristrutturazione edilizia”.
L’eventuale scorporo degli interventi su una parte di
immobile da quelli riguardanti altre parti dello stesso
complesso produttivo e facenti parte di un progetto unico
non può comportare la diversa qualificazione delle opere di
che trattasi; tali interventi devono essere, infatti, visti
in una prospettiva unitaria in quanto l’artificiosa
frammentazione delle opere da realizzare sul complesso di
che trattasi comporterebbe l’elusione della normativa che
qualifica gli interventi edilizia e giustifica il
conseguente assoggettamento a contribuzione in favore del
Comune interessato.
Ciò posto, le opere realizzate dalla ricorrente vanno
annoverate negli interventi di ristrutturazione edilizia di
cui all’art. 27, comma 1, lett. d), della L.R. 12/2005,
rivolti cioè a trasformare l’immobile di che trattasi
mediante un insieme di opere che portano ad un organismo in
tutto o in parte diverso dal precedente e del quale non
rispettano gli elementi tipologici, formali e strutturali
come nel caso di opere annoverabili nella nozione della
manutenzione straordinaria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2007 n. 1775 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.05.2013 |
ã |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo
bottone:
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia) |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
INCARICHI PROGETTUALI - SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche e integrazioni - risposta al quesito relativo ai
requisiti professionali del coordinatore per la
progettazione e per l'esecuzione dei lavori - definizione di
"attività lavorativa nel settore delle costruzioni"
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Commissione
per gli Interpelli,
interpello 02.05.2013 n. 2/2013). |
SINDACATI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'incerto futuro delle province
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 02.05.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
aprile 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "MODIFICHE ALLA
L.R. 12/2005 - 'LEGGE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO'" (deliberazione
di G.R. 16.04.2013 n. 34 - tratto da
www.anci.lombardia.it). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 10.04.2013 n. 84 "Criteri per la comunicazione di
informazioni relative al partenariato pubblico-privato ai
sensi dell’articolo 44, comma 1-bis del decreto-legge
31.12.2007, n. 248 convertito, con modificazioni,
dall’articolo 1, comma 1 della legge 28.02.2008, n. 31"
(circolare
P.C.M. 27.03.2013). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La
pratica guida geotecnica sui muri a secco e non solo.
Gran parte del territorio italiano è soggetto ad alto
rischio idrogeologico. Salvaguardare i versanti e prevenire
il degrado di pendii e terreni terrazzati è un aspetto di
fondamentale importanza.
In questo articolo proponiamo ai nostri lettori le “Linee
guida per la manutenzione dei terrazzamenti delle Cinque
Terre” pubblicate dal Parco Nazionale delle Cinque
Terre.
La guida, frutto di un accurato studio geotecnico,
rappresenta un utile compendio di definizioni, tipologie di
materiali e tecnologie, con particolare riferimento alla
costruzione e manutenzione di muri a secco.
Corredati da numerose illustrazioni di realizzazioni
pratiche, didascalie e schemi grafici, gli argomenti
trattati costituiscono un interessante riferimento in
materia di geotecnica, utile a operatori del settore,
imprese e progettisti.
Questi alcuni tra gli argomenti trattati:
●
le sistemazioni artificiali dei pendii
●
il terrazzamento con muri in pietra a secco
●
la tecnica costruttiva
●
le regole costruttive per la realizzazione dei muri a secco
●
la natura delle pietre
●
le forme e le cause del degrado
●
le sollecitazioni sui muri a secco
●
la ricostruzione dei muri a secco
(02.05.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Amianto
nelle abitazioni: dove si nasconde, quali sono i rischi e
come eliminarlo. Dal SUVA tour interattivo, opuscolo e video
esplicativo.
Anche se bandito da anni, l'amianto continua a rappresentare
un pericolo per la salute dei lavoratori.
Infatti, durante lavori di ristrutturazione, manutenzione o
risanamento di edifici costruiti prima del 1992 (anno di
entrata in vigore della Legge 27.03.1992, n. 257) capita
spesso di entrare in contatto con prodotti e materiali
realizzati in parte o del tutto con fibre di amianto.
In particolare, la presenza di amianto negli edifici può
essere classificata secondo i seguenti criteri: ...
(02.05.2013 - link a www.acca.it). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Ai raggi X gli affidamenti sopra i 40 mila euro
Le amministrazioni devono trasmettere all'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici i dati di tutti gli
affidamenti di importo superiore a 40.000 euro banditi dopo
il 01.01.2013.
È quanto precisa l'organismo di
vigilanza presieduto da Sergio Santoro con il
comunicato
29.04.2013 pubblicato sul sito dell'Autorità
(www.avcp.it).
L'intervento nasce dalla esigenza di fondo di
tenere conto sia delle finalità di rilevazione dei dati
connesse alle attività sia di vigilanza, sia di quelle di spending review.
La materia oggetto del Comunicato è quella della
trasmissione dei dati all'Osservatorio dell'Autorità
prevista dall'articolo 7, comma 8, del Codice dei contratti
il quale prescrive che le stazioni appaltanti e gli enti
aggiudicatori sono tenuti a comunicare all'Osservatorio, per
contratti di importo superiore a 50.000 euro: entro trenta
giorni dalla data dell'aggiudicazione definitiva o di
definizione della procedura negoziata, i dati concernenti il
contenuto dei bandi, dei verbali di gara, i soggetti
invitati, l'importo di aggiudicazione, il nominativo
dell'affidatario e del progettista; limitatamente ai settori
ordinari, entro sessanta giorni dalla data del loro
compimento ed effettuazione, l'inizio, gli stati di
avanzamento e l'ultimazione dei lavori, servizi, forniture,
l'effettuazione del collaudo, l'importo finale.
La norma precisa anche che il soggetto che ometta, senza
giustificato motivo, di fornire i dati richiesti è
sottoposto, con provvedimento dell'Autorità, alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma fino a euro
25.822, elevabile fino a euro 51.545 se sono forniti dati
non veritieri. Il comunicato precisa che per gli appalti
pubblicati a far data dal primo gennaio 2013, la soglia dei
150.000 euro è aggiornata al valore di 40.000 euro.
In particolare per i contratti di lavori, servizi e
forniture, di importo superiore a 40.000, le pubbliche
amministrazioni, laddove si tratti di appalti nei cosiddetti
«settori ordinari» (diversi dai settori dell'acqua,
energia e trasporti), dovranno trasmettere all'Autorità i
dati relativi all'intero ciclo di vita dell'appalto; per i
settori speciali fino all'aggiudicazione compresa, i dati
dovranno essere trasmessi secondo le specifiche indicate nel
richiamato Comunicato del 04.04.2008
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
NEWS |
TRIBUTI: Maggiorazioni Tares, le agevolazioni restano.
Il gettito Tares relativo alla maggiorazione standard, nella
misura di 0,30 euro al metro quadrato, spetta allo stato. I
comuni, inoltre, non hanno più il potere di aumentarla.
Tuttavia le agevolazioni stabilite dalla legge o deliberate
dalle amministrazioni locali si applicano anche alla
maggiorazione.
Lo ha precisato il ministero dell'economia
con la
circolare 29.04.2013 n. 1/DF.
L'articolo 10 del dl «pagamenti
p.a.» (35/2013), infatti, ha stabilito che il gettito della
maggiorazione standard è riservato allo stato. Questa
addizionale alla tassa rifiuti è dovuta in misura pari a
0,30 euro per metro quadrato e non è più consentito ai
comuni di aumentarla fino a 0,10 euro, come previsto prima
dell'intervento normativo. Secondo il ministero, però,
l'articolo 10 dispone la deroga rispetto alla disciplina Tares,
contenuta nell'articolo 14 del dl 201/2011, solo per quanto
concerne «la destinazione del gettito della maggiorazione
allo stato».
Invece, continuano ad applicarsi «alla suddetta
maggiorazione le agevolazioni di cui ai commi da 15 a 20
dello stesso art. 14» (per esempio, per mancata
raccolta, mancato svolgimento del servizio, rifiuti
assimilati). In effetti i comuni hanno il potere di
concedere, con regolamento, riduzioni tariffarie per
particolari situazioni espressamente individuate dalla
legge.
Anche i benefici fiscali concessi dal comune si applicano
non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione standard.
L'articolo 14 riconosce al comune la facoltà di stabilire
riduzioni del tributo dovuto in presenza di determinate
situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità
di produzione di rifiuti. A queste riduzioni viene fissato
dalla norma un tetto massimo.
La riduzione della tariffa non può superare il limite del
30%. In particolare, questo beneficio può essere concesso
per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a
disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e
discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso
stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o
hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero.
Le riduzioni tariffarie, anche per le utenze domestiche, si
applicano sia sulla parte fissa che sulla parte variabile
della tariffa. Per le utenze non domestiche la natura
stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla
licenza
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013). |
SICUREZZA LAVORO:
Il chiarimento della commissione sulla sicurezza.
Stress senza delega.
La valutazione rischi al datore.
La valutazione dello stress lavoro correlato non è
delegabile. Infatti, in quanto parte integrante della
valutazione del rischio, è un adempimento che il Tu
sicurezza prescrive tra quelli non delegabili da parte del
datore di lavoro, il quale ne resta l'unico responsabile
anche qualora decida di avvalersi di soggetti in possesso di
specifiche competenze in materia.
Lo spiega l'interpello 02.05.2013 n.
5/2013 (prot. n. 7883/2013) con cui la commissione per gli interpelli sulla
sicurezza del lavoro risponde alle richieste di chiarimento
della Federazione italiana metalmeccanici.
La valutazione dello stress. L'articolo 28, comma 1, del Tu
sicurezza (dlgs n. 81/2008) stabilisce che la valutazione
dei rischi, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro
e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati nonché
nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare
tutti i rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori,
compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato.
Il
successivo comma 1-bis dello stesso articolo 28,
estrapolando il rischio stress lavoro correlato, stabilisce
che la sua valutazione deve essere effettuata nel rispetto
delle indicazioni della commissione consultiva approvate il
17 novembre 2010. La Federazione dei metalmeccanici ha
chiesto se il datore di lavoro può delegare a terzi
l'attività della valutazione del rischio stress
lavoro-correlato.
I chiarimenti. Il Tu sicurezza, spiega il ministero,
contempla il principio di generale delegabilità delle
funzioni in materia di sicurezza sul lavoro. L'articolo 16,
infatti, stabilisce che la delega di funzioni da parte del
datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa
con i seguenti limiti e condizioni: che risulti da atto
scritto recante data certa; che il delegato possegga tutti i
requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate; che attribuisca al
delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e
controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni
delegate; che attribuisca al delegato l'autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate; che sia
accettata dal delegato per iscritto. La delega, dunque, è
sempre possibile tranne che nei casi in cui sia «espressamente
esclusa».
L'articolo 17 del Tu stabilisce che il datore di lavoro non
può delegare le seguenti attività: valutazione di tutti i
rischi con la conseguente elaborazione del relativo
documento; designazione del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione dai rischi. Poiché la valutazione
dello stress lavoro-correlato è parte integrante della
valutazione del rischio, il ministero spiega che ad essa si
applica integralmente la relativa disciplina inclusa
l'individuazione tra i compiti non delegabili da parte del
datore di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013). |
SICUREZZA LAVORO:
I requisiti dei luoghi di lavoro.
Il bagno pubblico esonera dai servizi.
Il vespasiano esonera l'azienda dall'obbligo di dotare il
luogo di lavoro dei servizi igienici. Infatti, se i servizi
pubblici sono fruibili dai lavoratori liberamente,
facilmente e senza aggravio di costi, il luogo di lavoro è
conforme alle prescrizioni dettate dal Tu sicurezza (il dlgs
n. 81/2008) e, dunque, il datore di lavoro non ha alcun
obbligo di adeguamento.
È quanto precisa il Ministero del
Lavoro nell'interpello 02.05.2013 n. 4/2013
(prot. n. 7882/2013) della commissione per gli
interpelli in materia di sicurezza.
Luoghi di lavoro. L'allegato IV del Tu elenca i requisiti
dei luoghi di lavoro, prescrivendo, tra l'altro, che in essi
o nelle loro immediate vicinanze deve essere messa a
disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente,
tanto per uso potabile quanto per lavarsi (punto 1.13.1.1) e
che i lavoratori devono disporre, in prossimità dei loro
posti di lavoro, dei locali di riposo, degli spogliatoi e
delle docce, di gabinetti e di lavabi con acqua corrente
calda, se necessario, e dotati di mezzi detergenti e per
asciugarsi (punto 1.13.3.1).
Sui due punti, i consulenti del
lavoro hanno chiesto parere al ministero in merito alla
corretta interpretazione dell'articolo 63, comma 1, del Tu
sicurezza il quale, appunto, prescrive che i luoghi di
lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati
nell'allegato IV.
I chiarimenti. Il ministero spiega che, nei casi in cui un
luogo di lavoro è posto all'interno di un ambiente ben
definito e circoscritto, considerato che la norma impone al
datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore i
servizi igienico-assistenziali nel «luogo di lavoro o
nelle sue immediate vicinanze», è da ritenersi che il
datore di lavoro assolva al suo obbligo purché questi
servizi, anche se non in uso esclusivo, siano fruibili dai
lavoratori liberamente, facilmente e senza aggravio di costo
per loro e nel rispetto delle norme igieniche
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013). |
SICUREZZA LAVORO: Cantieri mobili, idoneità libera.
La richiesta è facoltà del
committente.
La formazione specifica e l'idoneità sanitaria non sono
requisiti di legge per la verifica dell'idoneità tecnico
professionale dei lavoratori autonomi destinati a operare
nei cantieri mobili. Ciò non vieta, tuttavia, che possano
essere previsti dal committente in aggiunta ai requisiti
minimi individuati dalla legge.
Lo precisa il Ministero del
Lavoro nell'interpello 02.05.2013 n. 7/2013 (prot. n. 7885/2013), in
risposta al quesito dell'Ance sulle norme dell'allegato XVII
del Tu sicurezza approvato dal dlgs n. 81/2008.
Cantieri mobili. La sorveglianza sanitaria e la
partecipazione a corsi di formazione, spiega il ministero,
sono due vie attraverso cui i lavoratori autonomi possono
dimostrare la propria idoneità tecnico professionale. Si
tratta di possibilità e la non obbligatorietà è stata
chiarita dalle modifiche al Tu introdotte dal dlgs n.
106/2009. In una prima versione del Tu, infatti, pur
disciplinate come benefici aggiuntivi a favore dei
lavoratori autonomi, sia la formazione che la sorveglianza
sanitaria erano richieste all'atto di operare in un cantiere
temporaneo o mobile (occorreva esibire i relativi
attestati).
Facoltà non obbligo. Successivamente alle modifiche del dlgs
n. 106/2009 invece, committenti e imprese affidataria sono
tenuti a verificare il possesso da parte del lavoratore
autonomo di tutta la documentazione prescritta all'allegato
XVII, ma non anche degli attestati inerenti la formazione e
l'idoneità sanitaria. In altre parole, precisa il ministero,
«risulta legittimo sia l'affidamento di lavori al lavoratore
autonomo in possesso di documentazione inerente la
formazione e l'idoneità sanitaria sia l'affidamento di
lavori al lavoratore autonomo privo dei predetti requisiti».
In ogni caso, conclude il ministero, resta fermo per il
committente la facoltà di richiedere al lavoratore autonomo
ulteriori requisiti rispetto a quelli minimi individuati
dall'allegato XVII e che, dunque, possono anche consistere
proprio nel possesso della documentazione (gli attestati)
inerente la formazione e l'idoneità sanitaria
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013). |
CONDOMINIO: In
condominio videosorveglianza «segnalata».
Le riprese video degli spazi comuni raggiungono finalmente
certezza normativa all'interno di una grande confusione
giurisprudenziale. Con un articolo dedicato, ossia il nuovo
articolo 1122 ter del Codice civile il legislatore della
riforma ha introdotto, nel sistema della disciplina
condominiale, la videosorveglianza.
Per le aree comuni
condominiali vi era una lacuna e la giurisprudenza che si è
occupata della questione oscillava tra il fatto che
occorresse l'unanimità dei consensi oppure una maggioranza
qualificata per deliberare l'installazione di questi
impianti.
Ora, la legge di riforma del condominio affronta
direttamente la questione. Anche in tema di
videosorveglianza la normativa tende alla semplicità, ovvero
prevede che l'assemblea, con la maggioranza degli
intervenuti che rappresentino almeno la metà dei millesimi
(articolo 1136, comma 2 del Codice civile), può deliberare
l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti
di videosorveglianza.
È di tutta evidenza che la nuova norma, limitandosi a
prevedere l'ammissibilità di una delibera di installazione
dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza,
si colloca all'interno dell'ambito di vigenza delle
prescrizioni del Codice della privacy (decreto legislativo
196/2003).
Le regole previste non risultano in alcun modo derogate e/o
superate, ma anzi integrate dai successivi provvedimenti del
Garante del 29.04.2004 e 08.04.2010 (quest'ultimo di
mera integrazione al primo), finalizzati a regolamentare la
specifica fattispecie della videosorveglianza in condominio.
In particolare, come ci chiede un lettore, andranno
osservate queste precauzioni: le persone che transiteranno
nelle aree sorvegliate dovranno essere informate con
appositi cartelli delle presenza delle telecamere; i
cartelli, qualora il sistema di videosorveglianza fosse
attivo anche in orario notturno, dovranno essere visibili
anche di notte; nel caso in cui gli impianti di
videosorveglianza fossero collegati alle forze dell'ordine,
sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo
evidenzi; le immagini registrate potranno essere conservate
per un periodo limitato, ovvero sino a un massimo di 24 ore,
fatte salve specifiche esigenze di ulteriore conservazione
in relazione a indagini della polizia o comunque di natura
giudiziaria.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei
casi, comporterà: l'inutilizzabilità dei dati personali
trattati (articolo 11, comma 2, del codice); l'adozione di
provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti
dal Garante (articolo 143, comma 1, lettera c del codice)
ed, infine, l'applicazione delle sanzioni amministrative o
penali ed esse collegate (articoli 161 e seguenti del
codice), oltre ovviamente a eventuali richieste di
risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2013). |
TRIBUTI: NON PROFIT/ La Suprema corte sull'ambito delle agevolazioni.
Ici e Imu, pochi esclusi.
Solo l'uso diretto del bene assicura esenzioni.
L'esenzione Ici (e Imu) spetta agli enti non commerciali
solo se gli immobili vengono utilizzati direttamente per le
attività di assistenza. L'agevolazione, dunque, non spetta
nel caso di uso dell'immobile da parte di un altro ente,
anche se l'attività svolta è assistita da finalità di
pubblico interesse.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza
15.02.2013 n. 3843.
Per i giudici di Piazza Cavour, lo svolgimento di attività
assistenziali «esige la duplice condizione
dell'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente
possessore, e dell'esclusiva loro destinazione ad attività
peculiari che non siano produttive di reddito. Pertanto
l'esenzione non spetta nel caso di utilizzazione indiretta,
come nella specie, ancorché eventualmente assistita da
finalità di pubblico interesse».
Questa pronuncia è interessante perché, correttamente, la
Cassazione smentisce la tesi sostenuta di recente dal
ministero delle finanze (risoluzione 4/2013), secondo il
quale il beneficio fiscale deve essere riconosciuto anche
nel caso in cui l'immobile venga dato in uso a un altro ente
non commerciale. La presa di posizione ministeriale non è
neppure in linea con le pronunce della Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che per fruire dell'esenzione Ici
(ma la stessa regola vale per l'Imu) l'ente non commerciale
deve non solo possedere, ma anche utilizzare direttamente
l'immobile. Per il ministero, invece, un ente non
commerciale che concede in comodato un immobile a un altro
ente non profit, che vi svolga un'attività con modalità non
commerciali, ha diritto all'esenzione Imu anche se non lo
utilizza direttamente.
Nella risoluzione 4/2013, infatti,
viene data una lettura a dir poco elastica delle tesi
giurisprudenziali, in quanto viene ritenuto fruibile il
beneficio fiscale anche nei casi in cui l'immobile posseduto
da un ente non commerciale venga concesso in comodato a un
altro ente, che svolga le attività elencate dall'articolo 7,
comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992
(ricreative, culturali, didattiche, sportive, assistenziali,
sanitarie e così via). A maggior ragione, si legge nella
risoluzione, se l'immobile venga dato in comodato a un altro
ente appartenente alla stessa struttura del concedente,
purché l'utilizzatore fornisca all'ente non profit «tutti
gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento
degli obblighi tributari sia di carattere formale sia
sostanziale».
Va ricordato che la disciplina Imu ha confermato l'esenzione
per gli immobili posseduti e utilizzati dagli enti non
commerciali, fissando però regole diverse rispetto all'Ici.
L'articolo 7, comma 1), lettera i) riconosce l'esenzione
alle attività elencate dalla norma purché non abbiano natura
commerciale. In effetti, l'articolo 91-bis del dl
liberalizzazioni (1/2012), in sede di conversione in legge
(27/2012), ha ribadito che gli enti ecclesiastici e non
profit pagano l'Imu se sugli immobili posseduti vengono
svolte attività commerciali. Tuttavia, ha apportato delle
modifiche alla disciplina delle agevolazioni riconoscendo,
in presenza di determinate condizioni, un'esenzione parziale
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Privacy dei lavoratori, i chiarimenti del Garante.
Il Garante della privacy attraverso la
newsletter 14.02.2013 n. 369 e la
newsletter 01.03.2013 n. 370 è intervenuto su alcuni
aspetti fondamentali in materia di controllo e privacy dei
lavoratori.
I temi trattati sono stati i seguenti:
1) Controllo del computer del lavoratore
Il datore di lavoro non può controllare il contenuto del
computer assegnato al dipendente senza averlo informato
prima di tale possibilità e senza il pieno rispetto della
libertà e della dignità del lavoratore. Il Garante della
privacy ribadisce il diritto del datore di lavoro di
effettuare controlli al fine di verificare il corretto
utilizzo degli strumenti di lavoro ma, nello stesso tempo,
ricorda che è indispensabile rispettare la libertà, la
dignità dei lavoratore e il codice della privacy. Il datore
di lavoro deve pertanto preventivamente informare i
lavoratori attraverso un apposito regolamento aziendale e
con una apposita informativa della possibilità di un
possibile controllo.
2) La comunicazione al sindacato dei nominativi dei
lavoratori che effettuano straordinari
In mancanza di una specifica regolamentazione da parte del
Ccnl il Garante ha stabilito che non possono essere
comunicate le ore di straordinario svolte da un dipendente
indicando anche il nome e il cognome dello stesso e che le
stesse devono essere effettuate in forma anonima o
aggregata.
3) La videosorveglianza dei lavoratori
Il garante ha chiarito che la videosorveglianza non deve
consentire forme di controllo a distanza dei lavoratori e
che il datore di lavoro deve segnalare in modo adeguato la
presenza di telecamere e affidare la gestione del servizio a
guardie giurate. La videosorveglianza deve essere usata per
ragioni di sicurezza e non per sorvegliare i dipendenti come
previsto dallo Statuto dei Lavoratori.
Chiarimenti anche in merito alle persone che effettuano il
controllo delle immagini: «Tali soggetti devono essere in
possesso della licenza prefettizia di “guardia particolare
giurata” utile per poter svolgere funzioni anti-rapina e
inoltre deve essere designato l'incaricato del trattamento
dei dati personali» (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
TRIBUTI: Regolamenti da inviare alle Finanze solo online.
La circolare n. 1/df chiarisce che
l'efficacia decorre dalla data di pubblicazione.
Dal 2013 non solo le deliberazioni di approvazione delle
aliquote e della detrazione, ma anche i regolamenti dell'Imu
devono essere inviati esclusivamente per via telematica per
la pubblicazione nel sito informatico www.finanze.it. Dalla
data di pubblicazione decorre la loro efficacia.
La
circolare 29.04.2013 n. 1/DF delle Finanze precisa che detti provvedimenti
devono essere inviati esclusivamente per via telematica,
mediante inserimento del loro testo nell'apposita sezione
del Portale del federalismo fiscale. Questo comporta che non
potranno essere prese in considerazione le deliberazioni
inviate con modalità diverse (posta elettronica, pec, fax o
spedizione dell'atto in forma cartacea).
Tutto ciò non impatta in alcun modo sui termini di adozione
di tali atti che devono essere, comunque, approvati entro la
data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione, come stabilisce il comma 169
dell'art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per le
aliquote e l'art. 53, comma 16, della legge 23.12.2000, n. 388 per i regolamenti. La circolare ricorda anche
che il comma 3 dell'art. 193 del Tuel -modificato dall'art.
1, comma 444 della legge n. 228 del 2012- stabilisce che
«per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga
all'articolo 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n.
296, l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative
ai tributi di propria competenza entro la data di cui al
comma 2» e cioè entro il 30 settembre di ciascun anno. È
bene rimarcare che detta norma non opera per tutti gli enti,
ma solo per i comuni che devono ripristinare gli equilibri
di bilancio.
Il nuovo comma 13-bis dell'art. 13 del dl n. 201 del 2011,
introduce, poi, nel sistema una tempistica dei versamenti
precisando che:
• la prima rata dell'Imu va versata in base agli atti
pubblicati alla data del 16 maggio di ciascun anno di
imposta. Pertanto l'invio degli atti da parte dei comuni
deve avvenire entro il 9 maggio;
• la seconda rata va pagata in base agli atti pubblicati
data del 16 novembre, che devono essere inviati dai comuni
entro il 9 novembre.
Cosa accade se i comuni non osservano le date stabilite? La
risposta è offerta dalla legge che stabilisce, riguardo al
pagamento:
• della prima rata, che i soggetti passivi calcolano
l'imposta nella misura pari al 50% di quella dovuta sulla
base dell'aliquota e della detrazione dei dodici mesi
dell'anno precedente;
• del saldo, che se non risultano pubblicate nuove delibere
alla data del 16 novembre, i contribuenti devono prendere in
considerazione gli atti pubblicati entro il 16 maggio
dell'anno di riferimento oppure, in mancanza, quelli
adottati per l'anno precedente.
Nella circolare si richiama, infatti, quanto precisato nella
risoluzione n. 5/Df del 28.03.2013, e cioè che, se alla
data del 16.05.2013 non risulti pubblicata alcuna
deliberazione per il 2013, il contribuente dovrà verificare
se è stata pubblicata la deliberazione relativa al 2012. Se
manca anche questa applicherà le aliquote fissate dalla
legge.
Se poi il comune intende confermare per il 2013 le aliquote
dell'anno 2012 -poiché non è necessario adottare
un'apposita deliberazione- deve accertarsi che la
deliberazione relativa all'anno 2012 sia stata pubblicata
sul sito e, in caso contrario, inviarla in via telematica
per il suo inserimento nella parte relativa all'anno 2012.
Riguardo poi all'adempimento posto a carico dei comuni di
compilare una griglia riassuntiva delle aliquote e dei
regimi agevolativi determinati con le delibere, la circolare
precisa che esso non incide sull'efficacia costitutiva dei
regolamenti e delle deliberazioni Imu che è determinata
unicamente dalla pubblicazione nel sito informatico del
ministero dell'economia e delle finanze. Si ricorda che
nella relazione alla norma è precisato che detta griglia è
necessaria per disporre, nel momento in cui occorre
effettuare le necessarie elaborazioni che affiancano le
proposte normative, di un quadro definito e di immediata
percezione delle manovre adottate dai comuni. Il tutto è
però rimandato a data da destinarsi (articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Incompatibilità ad hoc.
Nel silenzio della regione vale la legge statale.
Spetta ai governatori disciplinare le cause di conflitto
nelle cariche.
Esiste una causa di incompatibilità nel caso in cui il
presidente di una provincia sia stato eletto consigliere
regionale? Quale norma si applica qualora la regione non
abbia legiferato in merito alle cause di incompatibilità
alle cariche elettive regionali?
A seguito della modifica del Titolo V della Costituzione con
legge costituzionale n. 3/2001, spetta alle regioni
disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche
elettive regionali. Fino all'entrata in vigore delle
discipline regionali continuano ad applicarsi le
disposizioni statali in materia, in forza del principio di
cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 131/2003.
Nel caso
in esame, pertanto, non avendo la regione legiferato
diversamente da quanto dispone la disciplina statale in
ordine alla sussistenza di un causa ostativa all'assunzione,
per un presidente di provincia, della carica di consigliere
regionale, si è venuto a concretizzare il cumulo delle
cariche nella stessa persona. Sotto il profilo della
ricorrenza dell'incompatibilità rispetto alla carica locale,
si prospettano due soluzioni praticabili per il capo
dell'amministrazione che intenda accettare la carica
regionale: può dimettersi dalla carica locale o essere
dichiarato decaduto dal consiglio provinciale a conclusione
del procedimento amministrativo previsto dall'art. 69 del dlgs n. 267/2000.
Ai fini della determinazione del momento in
cui si concretizza l'incompatibilità, rileva la data di
proclamazione degli eletti e non quella di convalida degli
eletti. Quanto alle ricadute sulle gestione della provincia
è importante segnalare che l'art. 1, comma 115, della legge
24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità) ha previsto la
nomina di un commissario straordinario ai sensi dell'art.
141, del dlgs 18.08.2000, n. 267, laddove si sia
verificata una delle ipotesi di cessazione anticipata del
mandato degli organi provinciali, tra cui rientra anche la
decadenza.
Nel corso dei lavori parlamentari per
l'emanazione della legge di stabilità, sono stati presentati
alcuni ordini del giorno di analogo tenore, accolti dalla
camera e dal governo, relativi alla necessità di assicurare
la continuità nella gestione delle amministrazioni
interessate, fino al 31.12.2013, attraverso la nomina
come commissari dei presidenti di provincia o dei componenti
della giunta uscente.
Qualora il presidente della provincia opti per la carica
regionale con correlata decadenza, si procederà allo
scioglimento di quella rappresentanza con nomina del
commissario straordinario per la provvisoria gestione di
quella provincia individuato nella persona del
vicepresidente della provincia. Qualora, invece, l'opzione
per la nuova carica sia esercitata attraverso un atto di
dimissioni, si procederà allo scioglimento dell'ente con
nomina di un commissario nella persona di un dirigente della
carriere prefettizia
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sospensione dalla carica.
Incorre nella sospensione dalle cariche regionali, ai sensi
del dlgs 31/12/2012, n. 235, un ex presidente regionale,
eletto consigliere nelle ultime consultazioni, nei cui
confronti è stata emessa dal Tribunale penale una sentenza
penale di condanna per abuso d'ufficio?
Le cause ostative all'esercizio delle cariche elettive, di
cui agli artt. 8 e 9 del dlgs 31/12/2012, n. 235, non hanno
natura sanzionatoria penale, come già sostenuto dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale, nonché dalla
recente giurisprudenza del Consiglio di stato. Infatti tali
cause ostative «non rappresentano un aspetto del trattamento
sanzionatorio penale derivante dalla commissione del reato e
nemmeno una autonoma sanzione collegata al reato medesimo,
ma piuttosto l'espressione del venir meno di un requisito
soggettivo per l'accesso alle cariche considerate».
Non
sembra che l'applicazione della fattispecie in esame si
ponga in contrasto con il principio, ricavabile dall'art. 25
Cost. e dall'art. 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, dell'irretroattività
delle norme penali e, più in generale, delle disposizioni
sanzionatorie ed afflittive.
Pertanto, si ritiene che
nell'ipotesi in argomento ricorrano i presupposti per procedersi alla emanazione del dpcm di sospensione
dell'interessato dalla carica di consigliere regionale,
conseguita a seguito delle recenti elezioni. Può ritenersi
superata, di contro, la problematica relativa
all'applicazione della medesima normativa in esame alla
carica di presidente della giunta regionale, precedentemente
ricoperta dall'interessato, a seguito della sopravvenuta
costituzione del nuovo consiglio regionale
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Su rate e scadenze della Tares decide il Consiglio comunale.
La delibera che fissa per il 2013 il numero delle rate e le
scadenze di pagamento della Tares va adottata dal Consiglio
comunale.
Lo chiarisce il ministero dell'Economia con la
circolare 29.04.2013 n. 1/DF (si veda anche Il Sole 24 Ore
del 1° maggio), illustrando le novità introdotte dal Dl
35/2013 sul nuovo tributo comunale su rifiuti e servizi.
La posizione ministeriale è condivisibile e in linea con il
dettato normativo, considerato che l'articolo 14, comma 22
del Dl 201/2011 attribuisce alla potestà regolamentare la
disciplina sui termini di versamento del tributo: quindi è
chiara la competenza del consiglio comunale. Viene così
smentita la tesi a sostegno della giunta comunale, che si
ricaverebbe dalla formulazione letterale dell'articolo 10
del Dl 35/2013 nella parte in cui consente ai comuni di
deliberare «anche nelle more della regolamentazione comunale
del nuovo tributo».
In realtà, l'inciso non introduce alcuna
deroga al regime delle competenze ma è finalizzato a
legittimare la riscossione della Tares in assenza degli atti
fondamentali del tributo (regolamento, piano finanziario e
tariffe). Senza un regolamento applicativo e senza le
tariffe il prelievo non troverebbe attuazione, non essendovi
una disciplina di legge di supplenza. La precisazione
contenuta nel Dl 35/2013 consente quindi ai comuni di
riscuotere la Tares, ancorché in acconto, pur in assenza del
titolo che legittima la pretesa di una somma per il
finanziamento del servizio rifiuti.
Occorre, quindi, portare quanto prima in consiglio comunale
la proposta di delibera, visto l'obbligo di pubblicare il
provvedimento almeno 30 giorni prima della data di
versamento: ad esempio, in caso di delibera adottata e resa
esecutiva il 10 maggio la prima rata non può avere una
scadenza anteriore al 10 giugno.
Il Mef precisa che se il comune non interviene con propria
delibera a modificare la scadenza delle rate della Tares, il
termine per il versamento resta fissato a luglio e a ottobre
2013. Il Dl 35/2013 consente, inoltre, ai comuni di far
pagare un acconto del nuovo tributo secondo gli importi
stabiliti nel 2012 ai fini Tarsu, Tia1 e Tia2, ma l'ultima
rata dovrà essere determinata sulla base dei nuovi criteri
Tares e versata contestualmente alla maggiorazione standard.
Dal pagamento in acconto va esclusa anche l'Iva, non
compatibile con la natura tributaria della Tares, ma sul
punto il ministero tace.
In ordine alla riscossione delle prime rate i comuni possono
utilizzare le modalità di versamento già in uso nel corso
del 2012 (per esempio Mav, Rid e bollettini di conto
corrente) ma il Mef avverte che non è possibile aprire un
apposito conto corrente postale intestato alla Tares oppure
modificare l'intestazione di quelli già esistenti (articolo Il
Sole 24 Ore del 03.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Gli architetti e i geometri. Cosa dice la sentenza del TAR
(commento a TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza
18.04.2013 n. 361) (articolo
L'Eco di Bergamo del 27.04.2013 - tratto da
www.architettibergamo.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve dichiararsi improcedibile il ricorso avverso
l’ordine di demolizione, allorquando risulti presentata una
domanda di sanatoria per le opere oggetto di ingiunzione. E
ciò in quanto l'esercizio della facoltà di regolarizzare la
propria posizione da parte del privato rende inefficace
l’ordine di demolizione e determina, sotto l'aspetto
processuale, la sopravvenuta carenza di interesse
all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al
quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria.
Il provvedimento repressivo, infatti, deve essere sostituito
o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo
procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione
tenuta, in quest'ultimo caso, al completo riesame della
fattispecie, con conseguente traslazione e differimento
dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento
che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo
nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta
abusiva ricorso va pertanto dichiarato improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse.
I ricorrenti impugnano il provvedimento in epigrafe gravato,
datato 26.6.1996, con il quale il Comune ha ordinato la
demolizione di una serie di opere realizzate su mappali n.
60/b, 68, 57/b, 70, 72/b 349, 71/b, Fg. n. 5 di loro
proprietà.
I ricorrenti hanno tuttavia successivamente presentato una
domanda in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47/1985, di cui non
riferiscono l’esito.
Secondo un diffuso orientamento, cui la sezione intende dare
continuità, deve dichiararsi improcedibile il ricorso
avverso l’ordine di demolizione, allorquando risulti
presentata una domanda di sanatoria per le opere oggetto di
ingiunzione. E ciò in quanto l'esercizio della facoltà di
regolarizzare la propria posizione da parte del privato
rende inefficace l’ordine di demolizione e determina, sotto
l'aspetto processuale, la sopravvenuta carenza di interesse
all'annullamento dell'atto sanzionatorio in relazione al
quale è stata prodotta la suddetta domanda di sanatoria.
Il provvedimento repressivo, infatti, deve essere sostituito
o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo
procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione
tenuta, in quest'ultimo caso, al completo riesame della
fattispecie, con conseguente traslazione e differimento
dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento
che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo
nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta
abusiva (C.S., Sez. VI, 07.05.2009 n. 2833) ricorso va
pertanto dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza
di interesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.05.2013 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'errore materiale nella redazione di un
provvedimento amministrativo si ha allorché il pensiero
dell'estensore sia stato tradito ed alterato al momento
della sua traduzione in forma scritta, a causa di un fattore
deviante che abbia operato esclusivamente nella fase della
sua esternazione, sempreché tale divario emerga direttamente
dall'esame del contesto stesso in cui l'errore si trova in
cui il provvedimento impugnato si fonda un una norma che
rinvia ad una data diversa da quella concretamente
richiamata, peraltro coincidente quanto a giorno e mese.
Il detto errore materiale non costituisce tuttavia vizio
idoneo a dare luogo all’annullamento del provvedimento,
atteso che il medesimo sarebbe suscettibile di rettifica, ex
art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nonché della sanatoria
prevista dalla prima parte del comma secondo di detta
disposizione, secondo la quale il provvedimento non è
annullabile quando ricorrano congiuntamente la violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti, la natura
vincolata del provvedimento e la inevitabilità del contenuto
dispositivo, che palesemente non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Preliminarmente, il Collegio dà atto che il provvedimento
impugnato contiene un errore materiale, laddove
nell’affermare che “dalla documentazione prodotta si
evince che il cambio di destinazione d’uso non risulta
effettivamente eseguito né completato in modo da rendere
idoneo a fini abitativi l’immobile oggetto di condono”,
considera non realizzata la trasformazione dei sottotetti “alla
data del 31.12.1995”, anziché del 31.12.1993, come
invece previsto dalla precitata norma, espressamente
menzionata nell’oggetto e nelle premesse dello stesso
provvedimento.
L'errore materiale nella redazione di un provvedimento
amministrativo si ha infatti allorché il pensiero
dell'estensore sia stato tradito ed alterato al momento
della sua traduzione in forma scritta, a causa di un fattore
deviante che abbia operato esclusivamente nella fase della
sua esternazione, sempreché tale divario emerga direttamente
dall'esame del contesto stesso in cui l'errore si trova (TAR
Umbria, Sez. I, 17.03.2010 n. 190), come appunto avvenuto
nel caso di specie, in cui il provvedimento impugnato si
fonda un una norma che rinvia ad una data diversa da quella
concretamente richiamata, peraltro coincidente quanto a
giorno e mese.
Il detto errore materiale non costituisce tuttavia vizio
idoneo a dare luogo all’annullamento del provvedimento,
atteso che il medesimo sarebbe suscettibile di rettifica, ex
art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nonché della sanatoria
prevista dalla prima parte del comma secondo di detta
disposizione, secondo la quale il provvedimento non è
annullabile quando ricorrano congiuntamente la violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti, la natura
vincolata del provvedimento e la inevitabilità del contenuto
dispositivo, che palesemente non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (TAR Sicilia,
Catania, Sez. IV, 16.03.2011 n. 658) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.05.2013 n. 1144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal punto di vista giuridico, per ottenere il
condono edilizio in caso di mutamento di destinazione d'uso
di un fabbricato è sufficiente, in base al combinato
disposto degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5, l.
28.01.1977 n. 10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.2.1985 n.
47, che quest'ultimo venga funzionalmente completato, ossia
che, pur se le attività costruttive siano ancora in corso,
il fabbricato sia comunque già fornito delle opere
indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso
diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in
cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato
di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce,
acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del
tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso e
invece necessarie per rendere i locali idonei all’uso
abitativo, e ciò per l'evidente ragione di non incorrere
nell'eventuale disparità di trattamento, che potrebbe
scaturire tra le ipotesi di nuova costruzione totalmente
abusiva, per la cui sanabilità bastano l'esecuzione del
rustico ed il completamento della copertura, ed i casi di
opere interne con mutamento di destinazione d'uso, per le
quali è appunto sufficiente il completamento funzionale.
---------------
Nelle controversie in materia edilizia ricade sul privato
richiedente l'onere della prova in ordine all'ultimazione
delle opere abusive in data utile per fruire del condono.
Venendo al merito,
il Collegio è chiamato a decidere se alla predetta data del
31.12.1993, avesse o meno già avuto luogo la trasformazione
dei sottotetti in superficie residenziale, e pertanto se i
medesimi fossero divenuti, da semplicemente “agibili”,
anche “abitabili”.
In via di fatto, la documentazione fotografica allegata
dalla ricorrente a corredo delle domande di sanatoria
conferma le affermazioni della resistente, secondo cui le
opere erano prive di ripartizione interna, pavimentazione, e
servizi igienici.
Dal punto di vista giuridico, per ottenere il condono
edilizio in caso di mutamento di destinazione d'uso di un
fabbricato è sufficiente, in base al combinato disposto
degli art. 4, comma 1, e 18, comma 1 e 5, l. 28.01.1977 n.
10 e dell'art. 31, comma 2, l. 28.2.1985 n. 47, che
quest'ultimo venga funzionalmente completato, ossia che, pur
se le attività costruttive siano ancora in corso, il
fabbricato sia comunque già fornito delle opere
indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso
diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in
cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato
di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce,
acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del
tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso e
invece necessarie per rendere i locali idonei all’uso
abitativo, e ciò per l'evidente ragione di non incorrere
nell'eventuale disparità di trattamento, che potrebbe
scaturire tra le ipotesi di nuova costruzione totalmente
abusiva, per la cui sanabilità bastano l'esecuzione del
rustico ed il completamento della copertura, ed i casi di
opere interne con mutamento di destinazione d'uso, per le
quali è appunto sufficiente il completamento funzionale
(C.S., Sez. V, 14.07.1995 n. 1071).
Nel caso di specie, la ricorrente si limita tuttavia a
documentare che le predette trasformazioni erano in essere
alla data di presentazione delle domande di sanatoria, e
pertanto al 01.03.1995, ben oltre il termine del 31.12.1993
previsto dalla legge, laddove, in base a giurisprudenza
costante, nelle controversie in materia edilizia ricade sul
privato richiedente l'onere della prova in ordine
all'ultimazione delle opere abusive in data utile per fruire
del condono (C.S., Sez. IV, 27.12.2011 n. 6861).
Ciò che risulta agli atti del procedimento è invece solo la
mera esistenza dei sottotetti, agibili ma non abitabili,
all’08.06.1993, data di rilascio del certificato di
abitabilità (riferito all’edificio, ma con esclusione dei
sottotetti), senza che i medesimi fossero anche dotati delle
predette opere indispensabili a renderne effettivamente
possibile l’uso abitativo (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.05.2013 n. 1144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'esclusione da una gara
di appalto, pur essendo un atto infraprocedimentale,
determina per l'impresa esclusa un arresto procedimentale,
idoneo a ledere, con immediatezza ed attualità, la sua sfera
giuridica, da qui la necessità di sua impugnazione
immediata, e non invece unitamente alla pubblicazione della
graduatoria finale.
Tuttavia, qualora siano impugnate clausole del bando o della
lettera di invito che prescrivano requisiti di ammissione o
di partecipazione alla gara, la cui carenza determina
immediatamente l'effetto escludente, il successivo atto di
esclusione si configura come meramente dichiarativo e
ricognitivo di una lesione già prodotta. Conseguentemente,
in tali casi, l'impugnazione dell'atto finale non è
necessaria, poiché fra i due atti vi è un rapporto di
conseguenzialità immediata, diretta e necessaria, ponendosi
l'atto successivo come inevitabile conseguenza di quello
precedente, non essendovi pertanto da compiere nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi.
In base alla giurisprudenza consolidata,
l'esclusione da una gara di appalto, pur essendo un atto infraprocedimentale, determina per l'impresa esclusa un
arresto procedimentale, idoneo a ledere, con immediatezza ed
attualità, la sua sfera giuridica (TAR Campania, Salerno,
Sez. I 04.07.2011 n. 1240), da qui la necessità di sua
impugnazione immediata, e non invece unitamente alla
pubblicazione della graduatoria finale (TAR Sicilia,
Palermo, Sez. II 13.03.2012 n. 517).
Tuttavia, qualora siano impugnate clausole del bando o della
lettera di invito che prescrivano requisiti di ammissione o
di partecipazione alla gara, la cui carenza determina
immediatamente l'effetto escludente, il successivo atto di
esclusione si configura come meramente dichiarativo e
ricognitivo di una lesione già prodotta (TAR Lazio, Roma,
Sez. I, 06.07.2012 n. 6163). Conseguentemente, in tali casi,
l'impugnazione dell'atto finale non è necessaria, poiché fra
i due atti vi è un rapporto di conseguenzialità immediata,
diretta e necessaria, ponendosi l'atto successivo come
inevitabile conseguenza di quello precedente, non essendovi
pertanto da compiere nuove ed ulteriori valutazioni di
interessi (C.S., Sez. V, 08.03.2011 n. 1463)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.05.2013 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento eseguito su un’opera abusiva non può
qualificarsi come manutenzione o ristrutturazione perché
questi ultimi interventi, come si desume chiaramente dalle
definizioni offerte dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001,
presuppongono la preesistenza di un organismo edilizio
regolare.
Invece, in presenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, gli interventi ulteriori (anche nelle ipotesi in
cui siano riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione, del restauro e/ del
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché
l’ordinamento non può ammettere la prosecuzione di lavori
abusivi.
In proposito,
il Collegio osserva che l’intervento eseguito su un’opera
abusiva non può qualificarsi come manutenzione o
ristrutturazione perché questi ultimi interventi, come si
desume chiaramente dalle definizioni offerte dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001, presuppongono la preesistenza di un
organismo edilizio regolare.
Invece, in presenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, gli interventi ulteriori (anche nelle ipotesi in
cui siano riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione, del restauro e/ del
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché
l’ordinamento non può ammettere la prosecuzione di lavori
abusivi (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 11.12.2012 n. 1320)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.05.2013 n. 1138 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
L'amministratore pubblico deve astenersi dal
prendere parte alla discussione ed alla votazione nei casi
in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il
contenuto della deliberazione e specifici interessi suoi o
di parenti o affini fino al quarto grado; tale obbligo di
allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di
garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione
amministrativa, sorge per il solo fatto che l'amministratore
rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in
astratto, un conflitto di interessi, a nulla rilevando che
lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che
si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a..
Inoltre, l’obbligo dei pubblici amministratori di astenersi
dal votare delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado, non attiene al
contenuto intrinseco degli atti impugnati, ma alla
sussistenza di un vizio procedurale che, coinvolgendo il
funzionamento del consiglio (la sua composizione),
interferisce inevitabilmente con la regolarità della
dialettica interna all'organo e, di conseguenza, sulla
corretta esplicazione delle prerogative dei consiglieri
legittimati a partecipare alla discussione e al voto; e se
il vizio del subprocedimento deliberativo discende di per sé
dalla sola presenza in assemblea dei consiglieri in
conflitto di interesse (in quanto potenzialmente idonea ad
influire sulla altrui libera manifestazione di volontà), a
maggior ragione il pregiudizio del munus degli altri
consiglieri si verifica in concreto ogniqualvolta i membri
incompatibili non soltanto siano stati presenti, ma abbiano
altresì espresso voto favorevole alla delibera dalla quale
si sarebbero invece dovuti astenere, che, dunque, è
illegittima.
Inoltre, sul consigliere in conflitto di interessi grava,
oltre all'obbligo di astenersi dal votare, anche quello di
allontanarsi dall'aula perché la sola presenza dello stesso
può potenzialmente influire sulla libera manifestazione di
volontà degli altri membri.
Costituisce, infatti, orientamento granitico
della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui,
anche in applicazione delle previsioni di cui all’art. 78
del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, l'amministratore pubblico
deve astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione nei casi in cui sussista una correlazione
immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi suoi o di parenti o affini fino al
quarto grado; tale obbligo di allontanamento dalla seduta,
in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e
l'imparzialità dell'azione amministrativa, sorge per il solo
fatto che l'amministratore rivesta una posizione
suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto
di interessi, a nulla rilevando che lo specifico fine
privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o
meno un concreto pregiudizio per la p.a. (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 28.01.2011, n. 693).
Inoltre, l’obbligo dei pubblici amministratori di astenersi
dal votare delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado, non attiene al
contenuto intrinseco degli atti impugnati, ma alla
sussistenza di un vizio procedurale che, coinvolgendo il
funzionamento del consiglio (la sua composizione),
interferisce inevitabilmente con la regolarità della
dialettica interna all'organo e, di conseguenza, sulla
corretta esplicazione delle prerogative dei consiglieri
legittimati a partecipare alla discussione e al voto; e se
il vizio del subprocedimento deliberativo discende di per sé
dalla sola presenza in assemblea dei consiglieri in
conflitto di interesse (in quanto potenzialmente idonea ad
influire sulla altrui libera manifestazione di volontà), a
maggior ragione il pregiudizio del munus degli altri
consiglieri si verifica in concreto ogniqualvolta i membri
incompatibili non soltanto siano stati presenti, ma abbiano
altresì espresso voto favorevole alla delibera dalla quale
si sarebbero invece dovuti astenere, che, dunque, è
illegittima.
Inoltre, sul consigliere in conflitto di interessi grava,
oltre all'obbligo di astenersi dal votare, anche quello di
allontanarsi dall'aula perché la sola presenza dello stesso
può potenzialmente influire sulla libera manifestazione di
volontà degli altri membri (cfr. TAR Liguria, sez. I,
26.05.2004, n. 818)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.05.2013 n. 1137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La mancata presentazione di garanzie e coperture
assicurative costituisce giusto motivo di esclusione o di
revoca dell’aggiudicazione; inoltre, a seguito della novella
del 2011, la giurisprudenza ha chiarito che la disposizione
dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici
impone una diversa interpretazione dell’art. 75, e rende
evidente l’intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la
mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario
della cauzione definitiva, che garantisce l’impegno più
consistente della corretta esecuzione del contratto e
giustifica l’esclusione dalla gara.
Alla luce dell’art. 4.3 del disciplinare di gara, il primo
sollecito testuale dei documenti risale al 15/09/2009, e
l’amministrazione ha accordato un termine ben superiore ai
20 giorni prescritti, dilazionandolo fino al 23/10/2009.
E’ stato affermato al riguardo che “l'escussione della
cauzione provvisoria nel caso specifico si fonda
legittimamente sull'omessa produzione documentale … e, in
particolare, in base alla previsione contenuta nel
capitolato speciale d'appalto (c.s.a.), che al punto …
imponeva all'aggiudicataria provvisoria l'obbligo di
costituire la cauzione definitiva ex articolo 113 del
decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 entro il termine
massimo di 15 giorni dalla comunicazione dell'aggiudicazione
provvisoria, statuendo inoltre che la mancata costituzione
della cauzione definitiva determina la revoca
dell’aggiudicazione e l'incameramento della cauzione
provvisoria di cui all'articolo 75 del decreto legislativo
163 del 2006 …”.
Dunque, le statuizioni in questa sede censurate hanno
costituito la puntuale applicazione degli atti di gara, ai
quali l’amministrazione si è accostata con
un’interpretazione non severa, concedendo invero (ma
inutilmente) un arco temporale assolutamente congruo.
Per giurisprudenza costante, la mancata
presentazione di garanzie e coperture assicurative
costituisce giusto motivo di esclusione o di revoca
dell’aggiudicazione (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/04/2010
n. 2199); inoltre, a seguito della novella del 2011, la
giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. III – 01/02/2012 n.
493, richiamata da TAR Lazio Roma, sez. II – 03/01/2013 n.
16) ha chiarito che la disposizione dell’art. 46, comma 1-bis,
del Codice dei contratti pubblici impone una diversa
interpretazione dell’art. 75, e rende evidente l’intento di
ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione
della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione
definitiva, che garantisce l’impegno più consistente della
corretta esecuzione del contratto e giustifica l’esclusione
dalla gara.
Alla luce dell’art. 4.3 del disciplinare di gara, il
primo sollecito testuale dei documenti risale al 15/09/2009,
e l’amministrazione ha accordato un termine ben superiore ai
20 giorni prescritti, dilazionandolo fino al 23/10/2009. E’
stato affermato al riguardo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V
– 16/09/2011 n. 5213) che “l'escussione della cauzione
provvisoria nel caso specifico si fonda legittimamente
sull'omessa produzione documentale … e, in particolare, in
base alla previsione contenuta nel capitolato speciale
d'appalto (c.s.a.), che al punto … imponeva
all'aggiudicataria provvisoria l'obbligo di costituire la
cauzione definitiva ex articolo 113 del decreto legislativo
12.04.2006 n. 163 entro il termine massimo di 15 giorni
dalla comunicazione dell'aggiudicazione provvisoria,
statuendo inoltre che la mancata costituzione della cauzione
definitiva determina la revoca dell’aggiudicazione e
l'incameramento della cauzione provvisoria di cui
all'articolo 75 del decreto legislativo 163 del 2006 …”.
Dunque, le statuizioni in questa sede censurate hanno
costituito la puntuale applicazione degli atti di gara, ai
quali l’amministrazione si è accostata con
un’interpretazione non severa, concedendo invero (ma
inutilmente) un arco temporale assolutamente congruo (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.05.2013 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La norma invocata (art. 11, comma 9, del Codice
dei contratti) attribuisce al soggetto affidatario una
facoltà di recesso laddove vi sia un'inerzia della stazione
appaltante nella fase di stipulazione del contratto ossia
quando, ad esempio, la stessa non inviti la Società
vincitrice a tale adempimento entro il termine di 60 giorni
dall'aggiudicazione della gara (o, comunque, entro il
diverso termine previsto nella lex specialis).
Invero, la norma in argomento mira a introdurre una clausola
di garanzia in favore dell'operatore economico
aggiudicatario che autorizza quest'ultimo a non rimanere
sine die vincolato all'offerta che ha presentato in sede di
gara, senza che nei termini previsti dalla citata previsione
si concluda l'iter procedimentale e si addivenga alla
stipula del contratto. Dal chiaro tenore dell'enunciato si
evince che la finalità della norma è quella di evitare che
la stazione appaltante possa procrastinare indefinitamente
gli adempimenti prescritti dalla legge per il
perfezionamento del vincolo negoziale, in violazione del
principio di affidamento nonché dei canoni di imparzialità e
buon andamento che ne sono esplicazione: qualora, tuttavia,
sia l'aggiudicatario ad assumere un atteggiamento
ingiustificatamente dilatorio verso gli adempimenti
prescritti dalla legge a suo carico, non sorgono in capo
allo stesso affidamenti di sorta meritevoli di tutela, con
conseguente inefficacia dell'atto di scioglimento dal
vincolo eventualmente notificato.
In altre parole, la facoltà prevista dall'articolo 11, comma
9, non può essere esercitata dall'aggiudicataria in piena
libertà (o comunque assumendo atteggiamenti dilatori idonei
a far decorrere il termine ivi previsto), bensì è
subordinata alle condizioni appena esposte.
La doglianza è
priva di pregio, poiché la norma invocata (art. 11, comma 9,
del Codice dei contratti) attribuisce al soggetto
affidatario una facoltà di recesso laddove vi sia un'inerzia
della stazione appaltante nella fase di stipulazione del
contratto ossia quando, ad esempio, la stessa non inviti la
Società vincitrice a tale adempimento entro il termine di 60
giorni dall'aggiudicazione della gara (o, comunque, entro il
diverso termine previsto nella lex specialis).
Come ha messo
in evidenza la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, sez. III –
29/03/2013 n. 3227), la norma in argomento mira a introdurre
una clausola di garanzia in favore dell'operatore economico
aggiudicatario che autorizza quest'ultimo a non rimanere sine die vincolato all'offerta che ha presentato in sede di
gara, senza che nei termini previsti dalla citata previsione
si concluda l'iter procedimentale e si addivenga alla
stipula del contratto. Dal chiaro tenore dell'enunciato si
evince che la finalità della norma è quella di evitare che
la stazione appaltante possa procrastinare indefinitamente
gli adempimenti prescritti dalla legge per il
perfezionamento del vincolo negoziale, in violazione del
principio di affidamento nonché dei canoni di imparzialità e
buon andamento che ne sono esplicazione: qualora, tuttavia,
sia l'aggiudicatario ad assumere un atteggiamento
ingiustificatamente dilatorio verso gli adempimenti
prescritti dalla legge a suo carico, non sorgono in capo
allo stesso affidamenti di sorta meritevoli di tutela, con
conseguente inefficacia dell'atto di scioglimento dal
vincolo eventualmente notificato (cfr. TAR Campania
Napoli, sez. I – 06/03/2013 n. 1236).
In altre parole, la facoltà prevista dall'articolo 11,
comma 9, non può essere esercitata dall'aggiudicataria in
piena libertà (o comunque assumendo atteggiamenti dilatori
idonei a far decorrere il termine ivi previsto), bensì è
subordinata alle condizioni appena esposte che, nel caso di
specie, non sussistono: infatti, nessuna inerzia è
addebitabile alla stazione appaltante nella fase susseguente
all'aggiudicazione definitiva, in quanto quest'ultima ha
tempestivamente richiesto alla ricorrente la documentazione
comprovante il possesso dei requisiti dichiarati in sede di
gara, così manifestando la chiara intenzione di giungere
alla stipulazione del contratto.
L'inerzia o comunque
l'atteggiamento dilatorio è invece ascrivibile alla
ricorrente, che non ha inviato alla stazione appaltante la
documentazione reiteratamente richiesta e che, in seguito,
con nota del 22/10/2009 ha manifestato (sia pure in via
subordinata) la volontà di non voler procedere alla
sottoscrizione del contratto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.05.2013 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Scatta il peculato d'uso per le chiamate private. Cassazione sulle telefonate no limits del dipendente p.a..
Scatta il peculato d'uso a carico del dipendente pubblico
per le chiamate private «no limits» dal cellulare di
servizio: il reato, insomma, si configura soltanto quando la
condotta scorretta del lavoratore che approfitta del
telefonino affidatogli dall'amministrazione si risolve in un
danno per il patrimonio dell'ente datore o per la
funzionalità dell'ufficio.
Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione con
la
sentenza
02.05.2013 n. 19054
che mette fine a un contrasto di giurisprudenza.
Scatti illimitati
L'uso del telefono d'ufficio per motivi personali non è di
per sé reato da parte dell'impiegato pubblico. A patto che
quantità e qualità delle chiamate risultino non
significative dal punto di vista economico e funzionale. È
dunque escluso che il travet possa usare il cellulare di
servizio soltanto per motivi di emergenza per evitare di
essere penalmente perseguibile.
Affinché si configuri
l'ipotesi criminosa di cui al secondo comma dell'articolo
314 Cp, infatti, è pur sempre richiesta l'offensività del
fatto: ecco spiegato perché ai fini della rilevanza penale
si richiede un danno alle finanze pubbliche o
all'organizzazione del lavoro, laddove quest'ultima
eventualità può assumere un autonomo e determinante rilievo
nei casi in cui l'utenza è legata a un contratto «tutto
incluso» con il gestore telefonico.
Valutazione complessiva
Resta da capire perché, nella specie, non si possano
configurare le altre e diverse fattispecie criminose
ipotizzate dalla giurisprudenza di legittimità, che oggi
torna all'antico nell'indicare la soluzione nel peculato
d'uso. Il peculato ordinario, per esempio, va escluso perché
risulta tecnicamente impossibile «l'appropriazione»
delle onde elettromagnetiche che consentono la
comunicazione. Ancora: il costo delle chiamate, anche nei
contratti a consumo, è il frutto di una complessiva
valutazione del budget del sistema di comunicazione.
La truffa, poi, va esclusa perché l'indebito vantaggio del
pubblico funzionario che abusa del cellulare d'ufficio
risulta immediato e non subordinato all'induzione in errore
di nessuno. Estinto per prescrizione, nella specie, il reato
di un alto dirigente della diplomazia italiana (ma resta il
reato di falso per un conguaglio truccato)
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Telefonate private dall'ufficio: scatta il peculato d'uso.
LA DECISIONE/
La chiamata non urgente è penalmente irrilevante se è
«economicamente e funzionalmente non significativa».
Peculato d'uso per chi fa telefonate private dal telefono
dell'ufficio.
Le Sezz. unite della Corte di Cassazione,
con la
sentenza
02.05.2013 n. 19054, dirimono l'annoso contrasto che ha
diviso giurisprudenza e dottrina, tra chi vedeva nella
condotta gli estremi del peculato ordinario, chi quella del
peculato d'uso. Tra i due principali schieramenti c'erano
anche correnti, minoritarie, che teorizzavano i reati di
abuso d'ufficio e truffa. Le sezioni unite si immergono nei
corsi e ricorsi del passato e finiscono per tornare al punto
di partenza aderendo al principio che afferma il peculato
d'uso e prendendo le distanze dall'orientamento del peculato
ordinario.
La distinzione tra le due fattispecie è disegnata
dall'articolo 314 del Codice penale: a far la differenza è
la possibilità di restituire o meno, immediatamente la cosa
di cui si è fatto un uso momentaneo.
Proprio sull'impossibilità di rendere subito il maltolto si
reggeva l'orientamento fino a ieri dominante. Oggetto
dell'appropriazione definitiva non sarebbe, infatti, il
telefono, ma l'energia costituita dagli impulsi elettronici
entrati a far parte del patrimonio della pubblica
amministrazione. "Scatti" di cui il pubblico impiegato si
appropria per sempre, meritando la condanna per peculato
ordinario, sempre che il valore delle telefonate fatte a
scopi privati sia "apprezzabile". Dalla lettura che spiana
la strada alla punizione più severa prevista dal codice
penale, si allontana la Cassazione. Per le sezioni unite
l'abuso del possesso, che avviene quando si usa il telefono
fisso o il cellulare d'ufficio, non può in alcun modo
tradursi nella stabile "inversione del dominio" che connota
il peculato ordinario.
I giudici delle sezioni unite, tracciano i confini della
rilevanza penale del peculato d'uso chiarendo che l'utilizzo
del telefono per fini personali, «quando sia economicamente
e funzionalmente non significativo» è penalmente
irrilevante, anche se le telefonate private non sono urgenti
ma di carattere "ricreativo".
Esagerare però non si può, perché una rilevanza penale
esiste, e il datore di lavoro la può trovare analizzando le
due angolazioni del pregiudizio subito: il tempo perso al
telefono e il danno economico dovuto al costo delle
chiamate. Quest'ultimo però dipende dal tipo di contratto
stipulato dall'ente. Sarà più pesante se c'è una tariffa a
consumo più lieve nel caso di un "forfait".
«Il
raggiungimento della soglia della rilevanza penale -scrive
la Cassazione- si realizza con la produzione di un
apprezzabile danno al patrimonio della Pa o con una concreta
lesione della funzionalità dell'ufficio:eventualità
quest'ultima che che potrà ad esempio, assumere autonomo
determinante rilievo nelle situazione regolate dal contratto
cosiddetto "tutto incluso"».
Il valore economico è poi "apprezzabile" anche quando
le telefonate sono così vicine nel tempo da essere
considerate «un'unica condotta» (articolo Il
Sole 24 Ore del 03.05.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo lamentare la
violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e del
principio del giusto procedimento laddove il provvedimento
di revoca in autotutela del parere favorevole di
compatibilità ambientale ex art. 146, comma 5, D.Lgs. n.
42/2004, espresso dalla Soprintendenza sul progetto di
demolizione e ricostruzione del fabbricato, non è stato
fatto precedere dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
In effetti, in materia di autotutela decisoria, stante la
pacifica natura discrezionale dell'atto di annullamento
d'ufficio, occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del
procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990
n. 241, trattandosi di attività di secondo grado incidente
su situazioni giuridiche medio tempore consolidatesi, viepiù
se l’annullamento incide su di un atto amministrativo
favorevole, qual è certamente il parere -obbligatorio e
vincolante- della Soprintendenza ex art. 146, comma 5,
D.Lgs. n. 42/2004.
---------------
Il codice dei beni culturali e del paesaggio D.Lgs. n.
42/2004, mentre definisce senz’altro “beni culturali” –come
tali soggetti ex lege a tutela- quelli appartenenti ad enti
pubblici o privati senza fini di lucro “che presentano
interesse artistico” (art. 10, comma 1), con riguardo ai
beni appartenenti a soggetti privati diversi (persone
fisiche e/o società commerciali) richiede invece un’apposita
dichiarazione dell’interesse culturale (art. 13), che
accerti, nel bene che ne forma oggetto, la sussistenza di un
interesse artistico “particolarmente importante” (art. 10,
comma 3, lettera a).
Dunque, nel caso di beni appartenenti a privati, ai fini
dell’assoggettamento a tutela il codice dei beni culturali
postula –all’evidente fine del contemperamento con il
sacrificio imposto al privato- un grado più elevato
(“particolarmente importante”) dell’interesse artistico,
della cui prevalenza in concreto la dichiarazione ex art. 13
deve dare conto con specifica motivazione.
Il ricorso introduttivo è fondato, sotto
l’assorbente profilo, dedotto con il secondo motivo di
ricorso -che riveste priorità logica- con il quale si
lamenta la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e
del principio del giusto procedimento, in quanto il
provvedimento di revoca in autotutela del parere favorevole
di compatibilità ambientale ex art. 146, comma 5, D.Lgs. n.
42/2004, espresso in data 21.04.2011 dalla Soprintendenza sul
progetto di demolizione e ricostruzione del fabbricato, non
è stato fatto precedere dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
In effetti, in materia di autotutela decisoria, stante la
pacifica natura discrezionale dell'atto di annullamento
d'ufficio, occorre dar corso alla comunicazione d'avvio del
procedimento di ritiro, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di attività di secondo grado
incidente su situazioni giuridiche medio tempore
consolidatesi, viepiù se l’annullamento incide su di un atto
amministrativo favorevole, qual è certamente il parere -obbligatorio e vincolante- della Soprintendenza ex art. 146,
comma 5, D.Lgs. n. 42/2004.
In proposito, possono richiamarsi le illuminanti
considerazioni contenute nella sentenza Cons. di St., VI,
19.01.2010, n. 187, resa su di una fattispecie per molti
versi analoga a quella per cui è causa.
Non ricorreva del resto nessuna particolare urgenza
qualificata –peraltro neppure invocata– tale da non
consentire che fosse inviata all'interessato la suddetta
comunicazione, senza che risultasse compromesso il
soddisfacimento dell'interesse pubblico cui il provvedimento
di autotutela era rivolto.
E poiché il potere di revoca ha natura eminentemente
discrezionale (viepiù nel caso di specie, che involge una
differente valutazione tecnica sulla compatibilità del
progetto con il vincolo paesaggistico), non vi è alcuno
spazio per la sanatoria giurisprudenziale di cui all’art.
21-octies, comma 2, L. n. 241/1990.
Parimenti fondato è il ricorso per motivi aggiunti, proposto
per l’annullamento del decreto del Direttore regionale per i
beni culturali e paesaggistici della Liguria 02.08.2012, di
dichiarazione dell’interesse culturale del fabbricato.
In particolare, risultano fondati i motivi con i quali è
dedotta la violazione degli artt. 13 D.Lgs. n. 42/2004 e 3
L. n. 241/1990, nonché eccesso di potere sotto i profili del
difetto di motivazione, della violazione del principio di
proporzionalità e dello sviamento dalla causa tipica del
potere esercitato.
Giova premettere che il codice dei beni culturali e del
paesaggio D.Lgs. n. 42/2004, mentre definisce senz’altro
“beni culturali” –come tali soggetti ex lege a tutela-
quelli appartenenti ad enti pubblici o privati senza fini di
lucro “che presentano interesse artistico” (art. 10, comma
1), con riguardo ai beni appartenenti a soggetti privati
diversi (persone fisiche e/o società commerciali) richiede
invece un’apposita dichiarazione dell’interesse culturale
(art. 13), che accerti, nel bene che ne forma oggetto, la
sussistenza di un interesse artistico “particolarmente
importante” (art. 10, comma 3, lettera a).
Dunque, nel caso di beni appartenenti a privati, ai fini
dell’assoggettamento a tutela il codice dei beni culturali
postula –all’evidente fine del contemperamento con il
sacrificio imposto al privato- un grado più elevato (“particolarmente
importante”) dell’interesse artistico, della cui
prevalenza in concreto la dichiarazione ex art. 13 deve dare
conto con specifica motivazione
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va ribadito il
consolidato principio, in tema di vincoli paesaggistici,
ambientali ed idrogeologici apposti all'edificazione, a
mente del quale l’obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca d'introduzione del vincolo corrispondendo tale
valutazione alla esigenza di vagliare l'attuale
compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente, ferma perciò la necessità del parere
favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo
per la sanabilità dell'opera.
---------------
Lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di
proprietà dei suoli, rappresenta un interesse sottoposto a
conformazione da parte della legge e della Pubblica
amministrazione, in funzione dei molteplici interessi
pubblici e privati, diversi da quelli del proprietario del
suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e tale
conformazione discende non solo dalla normativa di carattere
urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative
settoriali.
Di conseguenza l'Amministrazione, nel nuovo esercizio del
proprio potere, dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e
limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina
urbanistica in senso stretto che, in quanto siano
applicabili anche se sopravvenuti (quali, in linea di
massima, le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli
a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse
storico e artistico), devono essere valutati al momento in
cui la domanda viene esaminata.
In tale contesto, va quindi ribadito il
consolidato principio, in tema di vincoli paesaggistici,
ambientali ed idrogeologici apposti all'edificazione, a
mente del quale l’obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca d'introduzione del vincolo corrispondendo tale
valutazione alla esigenza di vagliare l'attuale
compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente, ferma perciò la necessità del parere
favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo
per la sanabilità dell'opera (cfr. ad es. in tema proprio di
vincolo idrogeologico CdS n. 6662/2012).
Più in generale, assumono rilievo dirimente il carattere
primario di numerosi interessi posti a tutela del
territorio, tra cui quello di ambito idrogeologico -specie
per un contesto soggetto a rischi noti quale quello
regionale ligure-, nonché l’epoca di esercizio di un potere autoritativo di valutazione di quello che, in ogni caso,
resta un abuso.
In proposito, con la migliore giurisprudenza
va quindi ricordato che lo jus aedificandi, quale facoltà
compresa nel diritto di proprietà dei suoli, rappresenta un
interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e
della Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici
interessi pubblici e privati, diversi da quelli del
proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione
privata, e tale conformazione discende non solo dalla
normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da
altre normative settoriali; di conseguenza
l'Amministrazione, nel nuovo esercizio del proprio potere,
dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi
e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso
stretto che, in quanto siano applicabili anche se
sopravvenuti (quali, in linea di massima, le prescrizioni
sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze
naturali e di beni di interesse storico e artistico), devono
essere valutati al momento in cui la domanda viene esaminata
(cfr. ad es. CdS n. 1007/2013)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come per l’ordine di
demolizione in materia edilizia, così anche per l’ordine di
rimessione in pristino sanzionatoria degli abusi in materia
paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è
predicabile il principio secondo il quale, in ragione del
contenuto vincolato dell'atto, non è dovuta la comunicazione
di avvio del procedimento, né è prospettabile il difetto di
motivazione, essendo sufficiente a tal fine l’indicazione
che l’intervento risulta realizzato, in assenza del
pertinente titolo abilitativo, in area sottoposta a vincolo
paesistico.
Del resto, in mancanza della specifica contestazione circa
il fatto che l’intervento ricade in area vincolata dal punto
di vista paesaggistico, i relativi vizi non potrebbero
comunque condurre all’annullamento del provvedimento
impugnato, essendo palese –ex art. 21-octies, comma 2, L. n.
241/1990- che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
L'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela
del paesaggio non è soggetto a prescrizione o decadenza, per
cui l'accertamento dell'illecito e l'applicazione della
relativa sanzione può intervenire anche ad una significativa
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, in
considerazione della prevalenza -alla luce del rilievo
costituzionale del bene tutelato (art. 9, comma 2 Cost.)-
dell'interesse pubblico sull'affidamento del privato.
---------------
La valutazione sulla compatibilità paesaggistica dell’opera
non dev’essere affatto compiuta d’ufficio
dall’amministrazione, ma segue la presentazione di “apposita
domanda” da presentarsi a cura del proprietario, possessore
o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area
interessati dagli interventi (art. 167, comma 5, D.Lgs. n.
42/2004).
Premesso che l’autorizzazione ministeriale
per l’impianto di stazione di radioamatore non sostituisce
affatto quella paesaggistica, si osserva che, come per
l’ordine di demolizione in materia edilizia, così anche per
l’ordine di rimessione in pristino sanzionatoria degli abusi
in materia paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004, n.
42, è predicabile il principio secondo il quale, in ragione
del contenuto vincolato dell'atto, non è dovuta la
comunicazione di avvio del procedimento, né è prospettabile
il difetto di motivazione, essendo sufficiente a tal fine
l’indicazione che l’intervento risulta realizzato, in
assenza del pertinente titolo abilitativo, in area
sottoposta a vincolo paesistico (così TAR Campania-Napoli,
III, 14.12.2009, n. 8699).
Del resto, in mancanza della specifica contestazione circa
il fatto che l’intervento ricade in area vincolata dal punto
di vista paesaggistico, i relativi vizi non potrebbero
comunque condurre all’annullamento del provvedimento
impugnato, essendo palese –ex art. 21-octies, comma 2, L. n.
241/1990- che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Secondo la giurisprudenza che il collegio condivide,
l'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela
del paesaggio non è soggetto a prescrizione o decadenza, per
cui l'accertamento dell'illecito e l'applicazione della
relativa sanzione può intervenire anche ad una significativa
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, in
considerazione della prevalenza -alla luce del rilievo
costituzionale del bene tutelato (art. 9, comma 2 Cost.)-
dell'interesse pubblico sull'affidamento del privato (TAR Campania-Napoli, IV, 16.12.2011, n. 5912).
Premesso –in punto di fatto- che non è seriamente
contestabile che l’intervento in questione abbia alterato lo
stato dei luoghi (cfr. la documentazione fotografica di cui
al doc. 7 delle produzioni 16.04.2012 di parte comunale), si
osserva che la valutazione sulla compatibilità paesaggistica
dell’opera non dev’essere affatto compiuta d’ufficio
dall’amministrazione, ma segue la presentazione di “apposita
domanda” da presentarsi a cura del proprietario, possessore
o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area
interessati dagli interventi (art. 167, comma 5, D.Lgs. n.
42/2004).
Dunque tale valutazione, attendendo al distinto ed eventuale
procedimento di compatibilità paesaggistica (in vista
dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria o
pecuniaria), non integra affatto la motivazione dell’ordine
di rimessione in pristino, che viceversa è atto vincolato
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 734
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di
legittimazione a richiedere titoli edilizi,
l'amministrazione comunale deve necessariamente verificare
che il richiedente abbia titolo per intervenire
sull'immobile interessato dall'intervento, anche se deve nel
contempo escludersi un obbligo del comune di effettuare al
riguardo accertamenti laboriosi e complessi, diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità
dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o
altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività
edificatoria dell'immobile.
Il titolo edilizio, essendo rilasciato con espressa salvezza
dei diritti dei terzi, è invero un atto amministrativo che
rende semplicemente legittima l'attività edilizia
nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto
che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra
l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a
favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di
tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività
stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata
dall’autorità giudiziaria ordinaria alla stregua della
disciplina fissata dal diritto comune.
Tali principi debbono valere –a più forte ragione– rispetto
al procedimento di accertamento della compatibilità
paesaggistica, posto che la legittimazione a richiedere il
relativo titolo (art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004)
spetta non soltanto al proprietario dell’immobile (art. 11,
comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ma anche al possessore
o detentore “a qualsiasi titolo” dell'immobile o dell'area
interessati dagli interventi.
Giova premettere come, per costante
giurisprudenza, in materia di legittimazione a richiedere
titoli edilizi, l'amministrazione comunale deve
necessariamente verificare che il richiedente abbia titolo
per intervenire sull'immobile interessato dall'intervento,
anche se deve nel contempo escludersi un obbligo del comune
di effettuare al riguardo accertamenti laboriosi e
complessi, diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare
l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che
potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile.
Il titolo edilizio, essendo rilasciato con espressa salvezza
dei diritti dei terzi, è invero un atto amministrativo che
rende semplicemente legittima l'attività edilizia
nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto
che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra
l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a
favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di
tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività
stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata
dall’autorità giudiziaria ordinaria alla stregua della
disciplina fissata dal diritto comune.
Tali principi debbono valere –a più forte ragione–
rispetto al procedimento di accertamento della compatibilità
paesaggistica, posto che la legittimazione a richiedere il
relativo titolo (art. 167, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004) spetta
non soltanto al proprietario dell’immobile (art. 11, comma 1,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380), ma anche al possessore o detentore
“a qualsiasi titolo” dell'immobile o dell'area interessati
dagli interventi.
Nel caso di specie, è pacifico che, all’atto della
presentazione dell’istanza di compatibilità paesaggistica
(24.05.2011), parte ricorrente fosse certamente nel possesso
dell’area sulla quale è stata realizzata la staccionata in
questione, secondo quanto accertato dalla sentenza del
Tribunale civile di Genova, Sez. III, 27.01.2010, n. 364
(doc. 10 delle produzioni 20.01.2012 di parte ricorrente) -esecutiva per legge- emessa anche nei confronti
dell’amministrazione comunale.
Di più, tale circostanza risultava essere stata confermata
dalla stessa amministrazione comunale, in esito ad un
apposito sopralluogo in data 29.04.2009 (doc. 7 delle
produzioni 20.01.2012 di parte ricorrente).
A fronte di un tale quadro istruttorio e della circostanza
che l’accertamento della compatibilità paesaggistica è
comunque rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, non
vi era dunque alcuna necessità di disporre -viepiù nella
pendenza del giudizio civile di appello tra le parti-
ulteriori laboriosi e complicati accertamenti in ordine alla
proprietà dell’area di sedime della staccionata, derivando
la legittimazione dei ricorrenti a richiedere l’accertamento
della compatibilità paesaggistica dalla semplice, comprovata
situazione di possesso e/o detenzione -ex art. 167, comma 5,
D.Lgs. n. 42/2004- dell’area interessata dall’intervento
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 732 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le norme sulla
lottizzazione abusiva (da ultimo, art. 30 D.P.R. 06.06.2001,
n. 380) mirano a prevenire e reprimere le condotte materiali
e giuridiche intese ad infittire la trama dell’edificato sul
territorio, senza che sussista una previa pianificazione
capace di tener conto delle conseguenze dell’edificazione in
termini di esigenza di nuovi servizi ed opere di
urbanizzazione, che il costruttore non ha (e non può avere)
adeguatamente riscontrato.
Dunque, la fattispecie di lottizzazione abusiva si riferisce
alla mancanza dell'autorizzazione specifica alla
lottizzazione, inizialmente prevista dall'art. 28 della
legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata da tutta
la legislazione statale e regionale in tema di
pianificazione attuativa, sicché alcun rilievo sanante
sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una
eventuale concessione edilizia in quanto, ove manchi la
specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione
abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le
singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata
rilasciata una concessione edilizia.
Secondo quanto già più volte affermato in ambito
giurisprudenziale, la stessa formulazione dell'art. 30 del
D.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che può integrare
un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere
in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio
preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene
posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico che necessita di adeguamento degli standards.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere dunque
interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma,
il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità
di preservare la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del
territorio da parte del soggetto titolare della stessa
funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di
garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un
corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli
insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Da quanto detto consegue che la verifica circa la conformità
della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno
alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben
può mancare anche nei casi in cui per le singole opere
facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il
permesso di costruire.
Giova premettere che, secondo il
provvedimento impugnato, le opere in questione
configurerebbero una lottizzazione abusiva ex art. 30 D.P.R.
n. 380/2001, avendo trasformato una zona agricola in
residenziale in contrasto con le previsioni del P.T.C.P.,
che fissa un regime di mantenimento per l’intera zona.
Orbene, la tesi del ricorrente si sostanzia
nell’affermazione per cui, poiché l’intervento è stato
realizzato nel rispetto dello strumento urbanistico a
seguito di regolare concessione edilizia rilasciata dal
comune di Dolcedo, non sussisterebbe la affermata
lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio.
In realtà, le norme sulla lottizzazione abusiva (da ultimo,
art. 30 D.P.R. 06.06.2001, n. 380) mirano a prevenire e
reprimere le condotte materiali e giuridiche intese ad
infittire la trama dell’edificato sul territorio, senza che
sussista una previa pianificazione capace di tener conto
delle conseguenze dell’edificazione in termini di esigenza
di nuovi servizi ed opere di urbanizzazione, che il
costruttore non ha (e non può avere) adeguatamente
riscontrato.
Dunque, la fattispecie di lottizzazione abusiva si riferisce
alla mancanza dell'autorizzazione specifica alla
lottizzazione, inizialmente prevista dall'art. 28 della
legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata da
tutta la legislazione statale e regionale in tema di
pianificazione attuativa, sicché alcun rilievo sanante
sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una
eventuale concessione edilizia in quanto, ove manchi la
specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione
abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le
singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata
rilasciata una concessione edilizia (in tal senso cfr.
TAR Campania, IV, 10.11.2006, n. 9458, che richiama Cons.
di St., V, 26.03.1996 n. 301).
Secondo quanto già più volte affermato in ambito
giurisprudenziale (cfr. TAR Lazio, I, 9.10.2009, nn. 9859
e 9860; TAR Puglia-Bari, III, 24.04.2008, n. 1017), la stessa
formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 consente di
affermare che può integrare un'ipotesi di lottizzazione
abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a
stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a
realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita
di adeguamento degli standards.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere dunque
interpretato in maniera "funzionale" alla
ratio della norma,
il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità
di preservare la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del
territorio da parte del soggetto titolare della stessa
funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di
garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un
corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli
insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Da quanto detto consegue che la verifica circa la conformità
della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno
alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben
può mancare anche nei casi in cui per le singole opere
facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il
permesso di costruire (così TAR Bari, III, n. 1017/2008
cit.)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della
tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte
del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale
decorre il termine decadenziale per la proposizione
dell'impugnazione medesima va riferita al momento
dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la
costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le
caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua
eventuale difformità rispetto alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente, sì da non esservi dubbi in
ordine alla reale portata dell'intervento edilizio
assentito, fermo restando che la prova della tardività
dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e
incombe, secondo le regole generali, alla parte che la
deduce.
In generale, occorre ribadire i
consolidati principi a mente dei quali, ai fini della
tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte
del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale
decorre il termine decadenziale per la proposizione
dell'impugnazione medesima va riferita al momento
dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la
costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le
caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua
eventuale difformità rispetto alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente, sì da non esservi dubbi in
ordine alla reale portata dell'intervento edilizio
assentito, fermo restando che la prova della tardività
dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e
incombe, secondo le regole generali, alla parte che la
deduce (cfr. ex multis CdS 5657/2012 2 5612/2012)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sopraelevazione e la connessa realizzazione di
nuovi volumi integra una trasformazione urbanistico-edilizia
del preesistente manufatto incompatibile con la
qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o
risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile
principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e
creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova
costruzione o comunque un ampliamento della costruzione
esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
A titolo esemplificativo, la sezione ha già ribadito che
l'intervento di recupero del sottotetto non può qualificarsi
come ristrutturazione, in specie laddove importi
sopralevazione e modifica della sagoma dell'edificio
preesistente da demolire. L’alterazione dei i volumi e della
sagoma dell'edificio preesistente è infatti incompatibile
con la disposizione di principio di cui all'art. 3, comma 1,
lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, a mente del quale gli
interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione
sono ricompresi nell'ambito della ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia assicurato il rispetto della stessa
volumetria e sagoma dell'edificio preesistente.
Analogamente, anche in sede penale è stato ribadito che
integra il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44,
comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) l'esecuzione
di un intervento di ampliamento in sopraelevazione di un
fabbricato preesistente, non potendo il medesimo ricondursi
agli interventi di manutenzione straordinaria.
Al riguardo,
costituisce principio generale e consolidato quello a mente
del quale la sopraelevazione e la connessa realizzazione di
nuovi volumi integra una trasformazione urbanistico-edilizia
del preesistente manufatto incompatibile con la
qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o
risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile
principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e
creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova
costruzione o comunque un ampliamento della costruzione
esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
A titolo esemplificativo, la sezione ha già ribadito che
l'intervento di recupero del sottotetto non può qualificarsi
come ristrutturazione, in specie laddove importi
sopralevazione e modifica della sagoma dell'edificio
preesistente da demolire. L’alterazione dei i volumi e della
sagoma dell'edificio preesistente, nella specie consentita
dalla norma di piano e resa evidente dalle tavole
progettuali, è infatti incompatibile con la disposizione di
principio di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380
del 2001, a mente del quale gli interventi consistenti nella
demolizione e ricostruzione sono ricompresi nell'ambito
della ristrutturazione edilizia soltanto ove sia assicurato
il rispetto della stessa volumetria e sagoma dell'edificio
preesistente (cfr. ad es. sent. n. 1658/2012).
Analogamente, anche in sede penale è stato ribadito che
integra il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44,
comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380)
l'esecuzione di un intervento di ampliamento in
sopraelevazione di un fabbricato preesistente, non potendo
il medesimo ricondursi agli interventi di manutenzione
straordinaria (cfr. ad es. Cass. pen. 25017/2011)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' carente di motivazione
il diniego di concessione in sanatoria fondato su un
generico contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in
materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso
soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al
rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento
contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire
all'interessato, da un lato, di rendersi conto degli
impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione e al
mantenimento dell'opera abusiva, dall'altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la
legittimità del provvedimento impugnato.
In questa direzione, il provvedimento di diniego di
sanatoria, quando si limita ad una apodittica affermazione
di principio di contrarietà alla normativa urbanistica e
paesaggistica, risulta viziato da difetto di motivazione,
atteso che l'obbligo di motivazione, imposto dal principio
fondamentale di cui all’invocato art. 3 della l. n. 241 del
1990, presuppone adeguate argomentazioni volte a chiarire la
non compatibilità dell'opera con le esigenze di tutela nel
contesto ambientale ed urbanistico.
In linea di diritto, va ribadito il
principio a mente del quale è carente di motivazione il
diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico
contrasto dell'opera con leggi o regolamenti in materia
edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle
disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo
e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti
urbanistici, in modo da consentire all'interessato, da un
lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono
alla regolarizzazione e al mantenimento dell'opera abusiva,
dall'altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente
consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento
impugnato.
In questa direzione, il provvedimento di diniego
di sanatoria, quando si limita ad una apodittica
affermazione di principio di contrarietà alla normativa
urbanistica e paesaggistica, risulta viziato da difetto di
motivazione, atteso che l'obbligo di motivazione, imposto
dal principio fondamentale di cui all’invocato art. 3 della
l. n. 241 del 1990, presuppone adeguate argomentazioni volte
a chiarire la non compatibilità dell'opera con le esigenze
di tutela nel contesto ambientale ed urbanistico (cfr. ex multis Tar Campania n. 4531/2012, Tar Liguria n. 1086/2011,
Tar Toscana n. 605/2009)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.04.2013 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In ordine alle modalità
di conservazione e di custodia delle buste contenenti le
offerte (e circa la consistenza del relativo onere di
verbalizzazione) si sono manifestati due contrapposti
orientamenti giurisprudenziali; un primo, più
rigoroso, secondo cui l’omessa menzione nei verbali di gara
delle specifiche cautele adottate a tutela dell’integrità e
della conservazione delle buste contenenti le offerte
determinerebbe di per sé l’illegittimità delle operazioni di
gara, indipendentemente dalla dimostrazione dell’effettiva
manomissione delle buste e del loro contenuto, ed un
secondo, secondo cui sarebbe invece necessario addurre
elementi concreti e specifici tali da far ritenere
probabile, o quanto meno possibile, la sostituzione delle
buste, la manomissione delle offerte o eventuali altri fatti
rilevanti ai fini della regolarità della procedura.
Tale contrasto giurisprudenziale, pur macroscopicamente e
suggestivamente apprezzabile in modo diretto sul piano della
ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle
relative pronunce, si presenta tuttavia più attenuato
allorquando si procede ad un esame accurato delle concrete
situazioni che ne hanno costituito il substrato materiale,
emergendo aspetti peculiari tali da destare quanto meno un
ragionevole sospetto circa un’avvenuta effettiva
manomissione dei documenti di gara o anche il solo rischio
concreto che tale manomissione potesse verificarsi.
Peraltro, nella questione in esame non può prescindersi dal
considerare che nelle gare di appalto l’amministrazione ha
la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della
conservazione degli atti di gara, cui in corso del
procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto
quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, del D.lgs. n. 163
del 2006, e che spetta quindi alla stessa, ma solo a fronte
di una seria e non emulativa allegazione presuntiva
dell’interessato circa l’effetto di non genuinità degli atti
stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea contezza
dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati,
a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per
sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di
prova.
Le anomalie che devono quindi essere quantomeno allegate per
dimostrare un interesse non emulativo alla custodia dei
plichi possono ragionevolmente ricondursi all’eccessiva
durata delle operazioni di gara, all’inversione dell’ordine
di valutazione tra offerta tecnica ed economica, alla
sottrazione di un documento di gara ad opera di ignoti
ovvero alla presenza di effettivi, puntuali e circostanziati
elementi di fatto, idonei a poter essere apprezzati come
ragionevoli o non illogici e arbitrari indizi o sintomi di
una possibile manomissione dei documenti di gara.
In definitiva, in presenza del generale obbligo di custodia
dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione
appaltante è da presumere che lo stesso sia stato assolto
con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione
degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità
ed integrità dei relativi plichi, così che la generica
doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non
sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante
allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto,
quali anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche
circostanze atte a far ritenere che si possa esser
verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi
plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto
rilevante al fine della regolarità della procedura.
A tale ragionevole e condivisibile impostazione si è
attenuta questa stessa Sezione anche con la recentissima
sentenza n. 978 del 18.02.2013, dalla quale non vi è motivo
di discostarsi, con la quale è stato significativamente
ribadito che: “a) la mancata dettagliata indicazione nei
verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei
plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la
segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di
illegittimità del verbale e della complessiva attività posta
in essere dalla commissione di gara, dovendo invece aversi
riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata
l’alterazione della documentazione;
b) la mancanza delle citate cautele assume solo un ruolo
indiziario rispetto alla dimostrazione di concreti elementi
che facciano dubitare della corretta conservazione,
occorrendo comunque provare che vi sia stata una violazione
dell’integrità e segretezza dei plichi;
c) se il verbale indica che i plichi sono conservati in
luogo chiuso, senza ulteriori specificazioni, e se in
ciascun verbale si dichiara che i plichi pervenuti risultano
tutti integri e debitamente sigillati e firmati sui lembi di
chiusura, facendo il verbale prova fino a querela di falso,
si deve escludere sia avvenuta una manomissione e che le
operazioni di gara siano illegittime;
d) una esegesi integrativa dell’art. 78 del Codice dei
contratti pubblici consente di definire una più precisa
distribuzione dell’onere della prova tra i due soggetti del
rapporto procedimentale, tanto affinché tale integrazione
non si risolva nella distorsione dei canoni di logicità e di
buon andamento dell’attività amministrativa anche nei casi
di evidenza pubblica, se non addirittura, in un controllo
meramente formale della verbalizzazione, più che del
riscontro oggettivo dei fatti…”.
La Sezione non ignora che in ordine alle modalità di conservazione
e di custodia delle buste contenenti le offerte (e circa la
consistenza del relativo onere di verbalizzazione) si sono
manifestati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali;
un primo, più rigoroso (di cui la sentenza impugnata ha
fatto applicazione), secondo cui l’omessa menzione nei
verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela
dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti
le offerte determinerebbe di per sé l’illegittimità delle
operazioni di gara, indipendentemente dalla dimostrazione
dell’effettiva manomissione delle buste e del loro contenuto
(cfr., ad es., C.d.S., Sez. V, 28.03.2012, n. 1862), ed
un secondo, secondo cui sarebbe invece necessario addurre
elementi concreti e specifici tali da far ritenere
probabile, o quanto meno possibile, la sostituzione delle
buste, la manomissione delle offerte o eventuali altri fatti
rilevanti ai fini della regolarità della procedura (ex multis, C.d.S., Sez. V, 18.10.2011, n. 5579 e, più di
recente, Sez. III, 14.01.2013, n. 145).
Tale contrasto giurisprudenziale, pur macroscopicamente e
suggestivamente apprezzabile in modo diretto sul piano della
ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle
relative pronunce, si presenta tuttavia più attenuato
allorquando si procede ad un esame accurato delle concrete
situazioni che ne hanno costituito il substrato materiale,
emergendo aspetti peculiari tali da destare quanto meno un
ragionevole sospetto circa un’avvenuta effettiva
manomissione dei documenti di gara o anche il solo rischio
concreto che tale manomissione potesse verificarsi.
Peraltro, com’è stato recentemente osservato (C.d.S., sez.
III, 05.02.2013, n. 688), nella questione in esame non
può prescindersi dal considerare che nelle gare di appalto
l’amministrazione ha la piena disponibilità e l’integrale
responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui
in corso del procedimento l’interessato non può subito
accedere, giusto quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, del
D.lgs. n. 163 del 2006, e che spetta quindi alla stessa, ma
solo a fronte di una seria e non emulativa allegazione
presuntiva dell’interessato circa l’effetto di non genuinità
degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar
idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in
concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il
verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con
ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che devono quindi essere quantomeno allegate per
dimostrare un interesse non emulativo alla custodia dei
plichi possono ragionevolmente ricondursi all’eccessiva
durata delle operazioni di gara, all’inversione dell’ordine
di valutazione tra offerta tecnica ed economica (Consiglio
di Stato, Sez. V, 28.03.2012, n. 1862), alla sottrazione
di un documento di gara ad opera di ignoti ovvero alla
presenza di effettivi, puntuali e circostanziati elementi di
fatto, idonei a poter essere apprezzati come ragionevoli o
non illogici e arbitrari indizi o sintomi di una possibile
manomissione dei documenti di gara (Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.07.2011, n. 4487).
In definitiva, in presenza del generale obbligo di custodia
dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione
appaltante è da presumere che lo stesso sia stato assolto
con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione
degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità
ed integrità dei relativi plichi, così che la generica
doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non
sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante
allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto,
quali anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche
circostanze atte a far ritenere che si possa esser
verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi
plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto
rilevante al fine della regolarità della procedura.
A tale ragionevole e condivisibile impostazione si è
attenuta questa stessa Sezione anche con la recentissima
sentenza n. 978 del 18.02.2013, dalla quale non vi è
motivo di discostarsi, con la quale è stato
significativamente ribadito che: “a) la mancata dettagliata
indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di
custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per
garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per
sé motivo di illegittimità del verbale e della complessiva
attività posta in essere dalla commissione di gara, dovendo
invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia
verificata l’alterazione della documentazione;
b) la
mancanza delle citate cautele assume solo un ruolo
indiziario rispetto alla dimostrazione di concreti elementi
che facciano dubitare della corretta conservazione,
occorrendo comunque provare che vi sia stata una violazione
dell’integrità e segretezza dei plichi;
c) se il verbale
indica che i plichi sono conservati in luogo chiuso, senza
ulteriori specificazioni, e se in ciascun verbale si
dichiara che i plichi pervenuti risultano tutti integri e
debitamente sigillati e firmati sui lembi di chiusura,
facendo il verbale prova fino a querela di falso, si deve
escludere sia avvenuta una manomissione e che le operazioni
di gara siano illegittime;
d) una esegesi integrativa
dell’art. 78 del Codice dei contratti pubblici consente di
definire una più precisa distribuzione dell’onere della
prova tra i due soggetti del rapporto procedimentale, tanto
affinché tale integrazione non si risolva nella distorsione
dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività
amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non
addirittura, in un controllo meramente formale della
verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei
fatti…”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sebbene, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo di discostarsi, le garanzie di imparzialità,
pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione
amministrativa, postulano che le sedute di una commissione
di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e
continuità e che, conseguentemente, la valutazione delle
offerte tecniche ed economiche deve avvenire in una sola
seduta, senza soluzione di continuità, al fine di
scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare
l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato
della valutazione stessa, è stato tuttavia anche
sottolineato che tale principio è soltanto tendenziale ed è
suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni
particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di
tutte le operazioni in una sola seduta, dovendo in questo
caso essere minimo l’intervallo tra una seduta e predisporre
adeguate garanzie di conservazione dei plichi.
Quanto al secondo
profilo la Sezione osserva che sebbene, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo di discostarsi, le garanzie di imparzialità,
pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione
amministrativa, postulano che le sedute di una commissione
di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e
continuità e che, conseguentemente, la valutazione delle
offerte tecniche ed economiche deve avvenire in una sola
seduta, senza soluzione di continuità, al fine di
scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare
l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato
della valutazione stessa, è stato tuttavia anche
sottolineato che tale principio è soltanto tendenziale
(C.d.S., sez. V, 25.07.2006, n. 4657; sez. IV, 05.10.2005,
n. 5360) ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi
situazioni particolari che obiettivamente impediscono
l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta
(C.d.S., sez. V, 23.11.2010, n. 8155; 03.01.2002, n. 5;
16.11.2000, n. 6388), dovendo in questo caso essere minimo
l’intervallo tra una seduta e predisporre adeguate garanzie
di conservazione dei plichi (C.d.S., sez. III, 31.12.2012,
n. 6714).
Nel caso in esame l’attività di valutazione delle offerte
tecniche presentate dalle imprese partecipanti alla gara è
durata meno di due mesi, in particolare dal 30.11.2011
(verbale n. 1) al 27.01.2012 (verbale n. 13, laddove nella
seduta del 24.02.2012, verbale n. 14, si è proceduto
all’apertura delle buste contenente l’offerta economica),
periodo che, anche con riferimento alla complessità delle
operazioni svolte (di cui i singoli verbali delle sedute
danno ampiamente atto), non può essere considerato
eccessivo, arbitrario o illogico (anche in ragione
dell’intervenuta necessità di sostituire due componenti
della commissione), a nulla rilevando che i singoli verbali
non contengano alcuna menzione circa la necessità di
aggiornare di volta in volta l’attività della commissione,
fissando una nuova riunione; né d’altra parte è logico e
ragionevole ritenere che le complesse e articolate
operazioni di valutazione delle offerte (indicate nei
verbali della commissione) potessero effettivamente
esaurirsi in un’unica riunione.
Non sussiste pertanto la dedotta violazione del principio di
concentrazione e continuità delle operazioni di valutazione,
tanto più che, come è già stato evidenziato, dal solo numero
delle sedute della commissione di gara non possono farsi
discendere sospetti circa la regolarità delle operazioni di
valutazione (C.d.S., sez. III, 26.09.2012, n. 5105)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2282 - link a
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APPALTI:
Se non può dubitarsi dell’esistenza di un
generale principio regolatore delle gare pubbliche che vieta
la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e
quelli oggettivi di valutazione delle offerte, principio la
cui ratio deve essere rintracciata nell’esigenza di
assicurare la più ampia possibilità di partecipazione delle
imprese alle gare attraverso la rigida separazione tra
requisiti di partecipazione e requisiti dell’offerta e
dell’aggiudicazione, tale principio non può tuttavia
ritenersi eluso o violato allorché gli aspetti organizzativi
non sono destinati ad essere apprezzati in quanto tali, in
modo avulso dall’offerta, come dato relativo alla mera
affidabilità soggettiva, ma piuttosto quale garanzia della
prestazione del servizio secondo le modalità prospettate
nell’offerta, come elemento cioè incidente sulle modalità
esecutive dello specifico servizio e quindi come parametro
afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta.
In realtà, se non
può dubitarsi dell’esistenza di un generale principio
regolatore delle gare pubbliche che vieta la commistione fra
i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi di
valutazione delle offerte, principio la cui ratio
deve essere rintracciata nell’esigenza di assicurare la più
ampia possibilità di partecipazione delle imprese alle gare
attraverso la rigida separazione tra requisiti di
partecipazione e requisiti dell’offerta e
dell’aggiudicazione (ex multis, C.d.S., sez. III,
18.06.2012, n. 3550; sez. VI, 04.10.2011, n. 5434; sez. V,
08.09.2010, n. 6490), tale principio non può tuttavia
ritenersi eluso o violato allorché gli aspetti organizzativi
non sono destinati ad essere apprezzati in quanto tali, in
modo avulso dall’offerta, come dato relativo alla mera
affidabilità soggettiva, ma piuttosto quale garanzia della
prestazione del servizio secondo le modalità prospettate
nell’offerta, come elemento cioè incidente sulle modalità
esecutive dello specifico servizio e quindi come parametro
afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta
(C.d.S., sez. V, 23.01.2012, n. 266)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2282 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Quando viene presentata domanda di sanatoria di
abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti
sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di
sospensione dei lavori), nel presupposto, così come
affermato da ricorrente giurisprudenza, che “sul piano
procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare
ed eventualmente a respingere la domanda di condono
effettuando, comunque, una nuova valutazione della
situazione mentre, dal punto di vista processuale, la
documentata presentazione di istanza di condono comporta
l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse
avverso i pregressi provvedimenti repressivi”.
Deve rilevarsi, infatti che, quando viene presentata domanda
di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i
precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni,
inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), nel
presupposto, così come affermato da ricorrente
giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune
è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a
respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una
nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di
vista processuale, la documentata presentazione di istanza
di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per
carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti
repressivi” (Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012, n.
5553) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2280 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
L'art. 13 del codice dei contratti pubblici
esclude dal diritto di accesso alcuni specifici atti, tra i
quali appunto “i pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti
all’applicazione del presente codice, per la soluzione di
liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici”.
Interpretando detto art. 13, il giudice amministrativo ha
innanzi tutto precisato che la non ostensibilità di detti
pareri è stata prevista sicuramente perché essi, se riferiti
ad un contenzioso potenziale o attuale con l’appaltatore,
sono investiti dalle stesse esigenze di riservatezza che
tutelano le ragioni di ordine patrimoniale della stazione
appaltante; detta giurisprudenza ha, inoltre, anche
precisato che tale disposizione, fissando una regola che
appare sostanzialmente ricognitiva dei principi applicabili
in questa materia, deve essere interpretata in modo
restrittivo, rappresentando una norma eccezionale, in quanto
derogatoria rispetto alle ordinarie regole in materia di
accesso, con la conseguenza che tale normativa deve
intendersi riferibile alla sola fase di stipulazione dei
contratti pubblici di cui all'art. 12 del d.lgs. 163/2006 e
non a tutta quella anteriore, per cui risultano accessibili
quei pareri legali che, anche per l’effetto di un richiamo
esplicito nel provvedimento finale, rappresentano un
passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento
amministrativo in corso e che, una volta acquisiti
dall’Amministrazione, vengono ad innestarsi nell’iter
procedimentale, assumendo la configurazione di atti
endoprocedimentali e, quindi, costituenti uno degli elementi
che condizionano la scelta dell’Amministrazione medesima.
In estrema sintesi, in materia di accesso ai pareri legali
forniti alla P.A., occorre distinguere due diverse
ipotesi:
a) l’ipotesi in cui la consulenza legale esterna si
inserisce nell’ambito di un’apposita istruttoria
procedimentale, nel senso che il parere è richiesto al
professionista con l’espressa indicazione della sua funzione
endoprocedimentale ed è poi richiamato nella motivazione
dell’atto finale; ed in tale ipotesi la consulenza legale,
pur traendo origine da un rapporto privatistico normalmente
caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra
professionista e cliente, è soggetta all’accesso perché
oggettivamente correlata ad un procedimento amministrativo;
b) l’ipotesi in cui la consulenza sia richiesta dopo
l’avvio di un procedimento contenzioso, o dopo l’inizio di
tipiche attività precontenziose al fini di stabilire la
strategia difensiva dell’Amministrazione, per cui il parere
del legale non è affatto destinato a sfociare in una
determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire
all’ente pubblico tutti gli elementi tecnico-giuridici utili
per tutelare i propri interessi; in questa ipotesi, tali
consulenze restano caratterizzate dalla riservatezza, che
mira a tutelare non solo l’opera intellettuale del legale,
ma anche la stessa posizione della P.A., la quale,
esercitando il proprio diritto di difesa protetto
costituzionalmente, deve poter fruire di una tutela non
inferiore a quella di qualsiasi altro soggetto
dell’ordinamento.
Relativamente, invece, alla richiesta di
accesso al predetto parere legale, va subito precisato che
il ricorso è fondato.
L’Amministrazione comunale -come sopra esposto- ha
respinto l’istanza di accesso a tale parere legale in quanto
tale atto doveva intendersi “sottratto all’accesso, in virtù
dell’art. 13, comma 5, lett. c), del D.Lgs. 163/2006”; negli
scritti difensivi ha meglio precisato che con tale parere
era stata suggerita la linea di condotta dell’Ente in una
fase precontenziosa, per cui tale parere non costituiva -così come ipotizzato nel gravame- un “passaggio
procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo
in corso”, ma che atteneva “strettamente” ai rapporti tra
l’Amministrazione ed il proprio legale, per cui, in base
alla norma in questione era di certo sottratto all’accesso.
Tale art. 13 del codice dei contratti pubblici esclude,
invero, dal diritto di accesso alcuni specifici atti, tra i
quali appunto “i pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti
all’applicazione del presente codice, per la soluzione di
liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici”.
Ora va al riguardo ricordato che, interpretando detto art.
13, il giudice amministrativo ha innanzi tutto precisato che
la non ostensibilità di detti pareri è stata prevista
sicuramente perché essi, se riferiti ad un contenzioso
potenziale o attuale con l’appaltatore, sono investiti dalle
stesse esigenze di riservatezza che tutelano le ragioni di
ordine patrimoniale della stazione appaltante; detta
giurisprudenza ha, inoltre, anche precisato che tale
disposizione, fissando una regola che appare sostanzialmente
ricognitiva dei principi applicabili in questa materia, deve
essere interpretata in modo restrittivo, rappresentando una
norma eccezionale, in quanto derogatoria rispetto alle
ordinarie regole in materia di accesso, con la conseguenza
che tale normativa deve intendersi riferibile alla sola fase
di stipulazione dei contratti pubblici di cui all'art. 12
del d.lgs. 163/2006 e non a tutta quella anteriore, per cui
risultano accessibili quei pareri legali che, anche per
l’effetto di un richiamo esplicito nel provvedimento finale,
rappresentano un passaggio procedimentale istruttorio di un
procedimento amministrativo in corso e che, una volta
acquisiti dall’Amministrazione, vengono ad innestarsi
nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di
atti endoprocedimentali e, quindi, costituenti uno degli
elementi che condizionano la scelta dell’Amministrazione
medesima (Cons. St., sez. V, 23.06.2011, n. 3812 e sez. VI, 30.09.2010, n. 7237).
E va al riguardo anche
ricordato che tale ultima decisione è stata resa proprio in
ordine ad una fattispecie per molti versi analoga a quella
ora all’esame, nella quale il parere legale richiesto era
stato richiamato in un atto di autotutela.
In estrema sintesi, in materia di accesso ai pareri legali
forniti alla P.A., occorre distinguere due diverse ipotesi:
a) l’ipotesi in cui la consulenza legale esterna si
inserisce nell’ambito di un’apposita istruttoria
procedimentale, nel senso che il parere è richiesto al
professionista con l’espressa indicazione della sua funzione endoprocedimentale ed è poi richiamato nella motivazione
dell’atto finale; ed in tale ipotesi la consulenza legale,
pur traendo origine da un rapporto privatistico normalmente
caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra
professionista e cliente, è soggetta all’accesso perché
oggettivamente correlata ad un procedimento amministrativo;
b) l’ipotesi in cui la consulenza sia richiesta dopo l’avvio
di un procedimento contenzioso, o dopo l’inizio di tipiche
attività precontenziose al fini di stabilire la strategia
difensiva dell’Amministrazione, per cui il parere del legale
non è affatto destinato a sfociare in una determinazione
amministrativa finale, ma mira a fornire all’ente pubblico
tutti gli elementi tecnico-giuridici utili per tutelare i
propri interessi; in questa ipotesi, tali consulenze restano
caratterizzate dalla riservatezza, che mira a tutelare non
solo l’opera intellettuale del legale, ma anche la stessa
posizione della P.A., la quale, esercitando il proprio
diritto di difesa protetto costituzionalmente, deve poter
fruire di una tutela non inferiore a quella di qualsiasi
altro soggetto dell’ordinamento.
Ciò premesso, va evidenziato che nel caso ora esame ricorre
la prima delle ipotesi sopra indicate, in quanto il parere
legale richiesto all’avv. De Carolis, di natura
endoprocedimentale, è oggettivamente correlato ad un
procedimento amministrativo ed è stato poi espressamente
richiamato nella motivazione dell’atto di revoca
dell’aggiudicazione. In tale atto, invero, si fa espresso
riferimento a tale parere legale, che -come si legge nella
parte motiva del provvedimento- è stato reso proprio “in
ordine all’esistenza dei presupposti di legge per esercitare
il potere di autotutela mediante revoca per ragioni
economiche sopravvenute” della determinazione di
aggiudicazione della gara; per cui tale consulenza legale,
pur traendo origine da un rapporto privatistico normalmente
caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra
professionista e cliente, deve ritenersi soggetta
all’accesso perché oggettivamente correlata al procedimento
amministrativo in questione, conclusosi con l’atto di revoca
dell’aggiudicazione della gara.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso proposto
deve, pertanto, essere accolto e, per l’effetto, deve
ordinarsi al Comune di consentire alla ricorrente l’accesso
a tale parere legale
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.04.2013 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Tar
veneto.
Sale giochi, niente limiti dai comuni.
Nessuna possibilità per i comuni di porre limiti
all'apertura delle sale giochi, nemmeno di carattere
urbanistico. Ciò in quanto la competenza statale
legislativamente stabilita, esclude che pari competenza
possa essere esercitata dal comune.
È quanto ha sancito il
TAR Veneto, Sez. III, con le
sentenze
22.04.2013 n. 609 e
22.04.2013 n. 610 disponendo l'annullamento dei provvedimenti
adottati dal comune di Vicenza.
Tale ente, attraverso uno
specifico regolamento per le sale giochi e le norme tecniche
di Prg aveva cercato di porre un freno all'apertura di nuove
sale giochi, prevedendo un limite di distanza tra le stesse
con i luoghi cosiddetti sensibili. Tutto ciò, al fine di
contenere il preoccupante aumento della ludopatia.
Ma,
secondo il tribunale lagunare, dalle più recenti
disposizioni statali si ricava il principio che gli
strumenti pianificatori di contrasto alla ludopatia devono
essere stabiliti a livello nazionale o comunque essere
inseriti nel sistema della pianificazione nazionale
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
L’atto di convalida ha effetto retroattivo, con
la conseguenza che opera positivamente anche sugli atti
connessi rispetto all’atto convalidato i quali, in
conseguenza del vizio di incompetenza, potevano risultare
inficiati per illegittimità derivata.
---------------
Nell’ordinamento non vi è una assoluta separazione tra
organi di indirizzo ed organi di gestione, come è attestato
dall’esistenza di molteplici fattispecie in cui sono
ravvisabili delle forme di “interferenza funzionale”, delle
quali è un indice la stessa possibilità di attivare in casi
predeterminati l’esercizio di poteri sostitutivi prevista
proprio dall’art. 14, comma 3, del Dlgs. n. 165 del 2001, e
deve pertanto ammettersi anche la possibilità di ratificare,
da parte degli organi di gestione, gli atti viziati da
incompetenza relativa di tipo infrasoggettivo, nonostante
siano stati adottati da organi di indirizzo.
----------------
La ratifica di un atto amministrativo non richiede una
specifica motivazione sull'interesse pubblico in quanto
l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante
persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare.
---------------
La facoltà di ratificare gli atti viziati da incompetenza in
pendenza di giudizio sanandone l’illegittimità ex tunc è
espressamente prevista dal legislatore con l’art. 6 della
legge n. 249 del 1986, ed è giustificata dalla necessità di
coniugare il doveroso ripristino della legalità dell’azione
amministrativa, con i principi di economicità, di efficacia,
di imparzialità e buon andamento, nonché di economicità dei
mezzi giuridici e processuali.
L’affermazione secondo la quale gli atti di
convalida hanno avuto ad oggetto l’intera procedura e non
solo l’eliminazione di vizi formali, ovvero fatti storici
non rimediabili se non mediante la rinnovazione degli atti,
è priva di riscontri.
Infatti il decreto n. 40 del 02.02.2012 e il decreto n.
95 del 28.03.2012, hanno ad oggetto la convalida di
singoli provvedimenti.
In particolare il primo si limita a convalidare la nomina
della commissione giudicatrice, il secondo l’aggiudicazione
definitiva (oltre all’affidamento della rappresentanza in
giudizio ad un patrocinatore), e non corrisponde pertanto al
vero l’assunto secondo il quale sarebbero stati
indirettamente convalidati atti non ripetibili posti in
essere da organi incompetenti.
Infatti l’atto di convalida ha effetto retroattivo, con la
conseguenza che opera positivamente anche sugli atti
connessi rispetto all’atto convalidato i quali, in
conseguenza del vizio di incompetenza, potevano risultare
inficiati per illegittimità derivata (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 29.09.2009, n. 3371).
1.9 Con il ventiseiesimo motivo la parte ricorrente sostiene
che dal principio di non avocabilità degli atti dirigenziali
da parte degli organi politici sancito negli artt. 4 e 14,
comma 3, del Dlgs. n. 165 del 2001, e dall’art. 107 del Dlgs.
n. 267 del 2000, dovrebbe ricavarsi implicitamente la
conclusione che gli atti posti in essere dagli organi di
indirizzo non sono ratificabili dagli organi di gestione.
Con il ventottesimo motivo, analogamente, lamenta che gli
atti non sarebbero convalidabili perché posti in essere da
organi di indirizzo.
Le censure sono infondate perché nell’ordinamento non vi è
una assoluta separazione tra organi di indirizzo ed organi
di gestione, come è attestato dall’esistenza di molteplici
fattispecie in cui sono ravvisabili delle forme di
“interferenza funzionale”, delle quali è un indice la stessa
possibilità di attivare in casi predeterminati l’esercizio
di poteri sostitutivi prevista proprio dall’art. 14, comma
3, del Dlgs. n. 165 del 2001, e deve pertanto ammettersi
anche la possibilità di ratificare, da parte degli organi di
gestione, gli atti viziati da incompetenza relativa di tipo
infrasoggettivo, nonostante siano stati adottati da organi
di indirizzo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2009, n. 2840; Tar Liguria, Sez. I,
07.04.2006, n. 353;
Consiglio di Stato, Sez. V, 13.07.1992, n. 647, Tar
Puglia, Lecce, 18.10.2003, n. 6946).
1.10 Con il ventinovesimo motivo, la ricorrente lamenta che
gli atti di convalida non sono sorretti da una motivazione
circa le ragioni di interesse pubblico che li giustificano e
non compiono alcuna comparazione con il suo interesse.
La doglianza va disattesa in primo luogo perché tali atti
sono espressamente motivati con riferimento all’interesse
dell’ente all’esecuzione del contratto con il soggetto che
ha presentato l’offerta risultata più vantaggiosa al termine
della procedura di gara, e tale motivazione appare
sufficiente in considerazione degli oneri che derivano, sul
piano organizzativo e del successivo possibile contenzioso
che di solito consegue, da una ripetizione della gara
determinata solo da un vizio formale, quale è quello di
incompetenza.
In secondo luogo perché comunque, come chiarito dalla
giurisprudenza, la ratifica di un atto amministrativo non
richiede una specifica motivazione sull'interesse pubblico
(cfr. Consiglio Stato Sez. V, 30.08.2005, n. 4419) in
quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante
persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare
(cfr. Tar Lombardia, Brescia, 07.09.2001, n. 771;
Consiglio di Stato , Sez. VI, 24.09.1983, n. 683).
1.11 Con il trentesimo motivo la parte ricorrente sostiene
che gli atti di ratifica sono illegittimi perché la
convalida non è ammessa in corso di causa.
L’assunto è privo di fondamento in quanto la facoltà di
ratificare gli atti viziati da incompetenza in pendenza di
giudizio sanandone l’illegittimità ex tunc è espressamente
prevista dal legislatore con l’art. 6 della legge n. 249 del
1986, ed è giustificata dalla necessità di coniugare il
doveroso ripristino della legalità dell’azione
amministrativa, con i principi di economicità, di efficacia,
di imparzialità e buon andamento, nonché di economicità dei
mezzi giuridici e processuali (cfr. Tar. Campania, Napoli,
Sez. I, 11.07.2012, n. 3350).
1.12 La tesi secondo la quale la ratifica di cui all’art. 6
della legge n. 249 del 1968 non è applicabile ad
amministrazioni diverse da quelle statali, enunciata
nell’ambito del venticinquesimo motivo, va invece respinta
perché, come chiarito dalla giurisprudenza, tale norma ha
portata generale (cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, 12.02.1986, n. 83).
Quanto sopra delineato circa l’infondatezza delle censure
proposte avverso gli atti di ratifica comporta che questi,
ai sensi dell’art. 6 della legge n. 349 del 1968, esplichino
l’effetto di sanare ex tunc il dedotto vizio di
incompetenza, determinando l’improcedibilità delle censure
sopra esaminate.
...
3. Con il ventiquattresimo e trentunesimo motivo la parte
ricorrente sostiene che la convalida è di per sé sintomatica
dello sviamento dell’azione amministrativa e della mancanza
di imparzialità, perché in tal modo viene avvantaggiata la controinteressata, e in tal senso si duole in particolare
dell’operato del direttore dell’ente.
L’assunto non può essere condiviso.
Infatti dalla documentazione versata in atti non emerge
alcuna prova circa l’esistenza di una volontà di voler
favorire la controinteressata, e in tal senso non può
fondatamente essere invocato l’esercizio del potere di
convalida, in quanto, come è stato osservato, è del tutto
naturale e fisiologico che l'opera di rimozione dei vizi
originariamente posseduti dall'atto da sanarsi conduca ad
una conferma di quanto in precedenza disposto, e che ciò
abbia come conseguenza il consolidarsi della posizione del
destinatario dell’atto convalidato, ma da ciò non è logico
ricavare l’esistenza di un’univoca e distorta finalità di
avvantaggiare tale soggetto, né è sostenibile che
l’esercizio di tale potere discrezionale previsto dalla
legge possa essere paralizzato in ragione dell’esistenza di
soggetti controinteressati (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV,
14.10.2011, n. 5538; Tar Lazio, Roma, 23.07.1986,
n. 1212) .
E’ invece inammissibile l’autonoma e diversa censura dedotta
per la prima volta a pag. 4 della memoria del 04.05.2012,
con la quale la parte ricorrente lamenta il mancato rispetto
della disposizione di cui all’art. 13 dello statuto
dell’ente, secondo la quale se il direttore dell’ente è
competente ad adottare l’aggiudicazione definitiva, la
presidenza della commissione deve essere attribuita al
dirigente del settore interessato, perché non contenuta in
un atto notificato alle controparti.
Per completezza va tuttavia soggiunto che la censura appare
anche infondata, perché la sua operatività presuppone la
presenza in organico del direttore e di entrambi i dirigenti
dei due settori.
Quando, come nel caso di specie, allo stesso soggetto sia
attribuito il doppio incarico di direttore e di dirigente
del settore competente per la gara, è plausibile
l’interpretazione, non contrastante con alcuna norma di
rango primario, secondo la quale la presidenza della
commissione e la competenza all’approvazione degli atti di
gara possono essere attribuiti alla medesima persona
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 22.04.2013 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 84, comma 4, del
Dlgs. n. 163 del 2006, sancisce l’incompatibilità tra
componente della commissione giudicatrice e lo svolgimento
di funzioni relativamente al contratto, solo per i
commissari diversi dal presidente, e il cumulo delle
funzioni nella stessa persona non comporta una violazione
dei principi di imparzialità e buona amministrazione, in
quanto è conforme alla normativa applicabile all’ente (cfr.
il Dlgs. n. 207 del 2001 e l’art. 13 dello statuto) la
quale, mutuata da quella degli enti locali (cfr. l’art. 107
del Dlgs. n. 267 del 2000 per il quale al dirigente è
attribuita la presidenza delle commissioni di gara e di
concorso, la responsabilità delle procedure d'appalto e di
concorso e la stipulazione dei contratti) e del codice degli
appalti (cfr. art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006),
demanda al dirigente la presidenza della commissione e
l’esercizio delle funzioni inerenti al procedimento, con
l’ulteriore precisazione che l’assegnazione della
responsabilità delle singole fasi procedimentali e
dell’unitario procedimento di gara in capo al dirigente non
confligge con il principio di separazione delle funzioni tra
controllato e controllore perché l’approvazione degli atti
di gara non è tecnicamente riconducibile alla nozione di
controllo.
---------------
La previsione dello statuto dell’ente che individua nel
direttore colui che presiede la commissione di gara è
conforme a quanto prescritto dall’art. 84, comma 3, del Dlgs.
n. 163 del 2006, e dall’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2001,
che individuano in via preventiva ex lege nel dirigente il
presidente della commissione.
---------------
Tenuto conto del contenuto del contratto che non presuppone
la conoscenza di complesse e specifiche cognizioni tecniche,
e della circostanza che non sono stati nominati soggetti
estranei alla pubblica amministrazione scelti tra liberi
professionisti, si può presumere, in assenza di una puntuale
contestazione, che tali soggetti (ndr: i membri della
commissione di gara) siano in possesso di un’adeguata
esperienza, ed è da escludere fosse necessaria al riguardo
un’estesa motivazione nell’atto di nomina.
2. Le restanti censure contenute negli ulteriori motivi di
ricorso sono infondate e devono essere respinte.
Con il diciassettesimo e diciottesimo motivo la ricorrente
sostiene che a seguito delle ratifiche, in capo al direttore
sono venute a concentrarsi le figure di colui che indice la
gara, nomina e preside la commissione, ed infine approva gli
atti di gara, generando una sorta di “confusione”
procedimentale derivante dalla sovrapposizione di ruoli, e
di indebita concentrazione delle funzioni di controllato e
di controllore.
Tali censure devono essere respinte perché l’art. 84, comma
4, del Dlgs. n. 163 del 2006, sancisce l’incompatibilità tra
componente della commissione giudicatrice e lo svolgimento
di funzioni relativamente al contratto, solo per i
commissari diversi dal presidente, e il cumulo delle
funzioni nella stessa persona non comporta una violazione
dei principi di imparzialità e buona amministrazione, in
quanto è conforme alla normativa applicabile all’ente (cfr.
il Dlgs. n. 207 del 2001 e l’art. 13 dello statuto) la
quale, mutuata da quella degli enti locali (cfr. l’art. 107
del Dlgs. n. 267 del 2000 per il quale al dirigente è
attribuita la presidenza delle commissioni di gara e di
concorso, la responsabilità delle procedure d'appalto e di
concorso e la stipulazione dei contratti) e del codice degli
appalti (cfr. art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006),
demanda al dirigente la presidenza della commissione e
l’esercizio delle funzioni inerenti al procedimento (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12.11.2012,
n. 5703; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 14.06.2012, n. 1183;
Consiglio di Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2445;
Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2011 n. 5406;
Consiglio di Stato, Sez. V, 22.06.2010, n. 3890), con
l’ulteriore precisazione che l’assegnazione della
responsabilità delle singole fasi procedimentali e
dell’unitario procedimento di gara in capo al dirigente non confligge con il principio di separazione delle funzioni tra
controllato e controllore perché l’approvazione degli atti
di gara non è tecnicamente riconducibile alla nozione di
controllo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12.06.2009,
n. 3716; id. 18.09.2003, n. 5322).
...
5. Con il terzo e il ventiduesimo motivo la parte ricorrente
lamenta la violazione del principio della posteriorità della
nomina della commissione rispetto alla presentazione delle
offerte, perché lo statuto individua nel direttore, nella
qualità di presidente, un componente fisso della
commissione.
La doglianza va respinta perché la commissione è stata
nominata con atto n. 26 del 26.09.2011, dopo la
scadenza del termine del 23.09.2011 per la
presentazione delle offerte, e la previsione dello statuto
dell’ente che individua nel direttore colui che presiede la
commissione, è conforme a quanto prescritto dall’art. 84,
comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006, e dall’art. 107 del Dlgs.
n. 267 del 2001, che individuano in via preventiva ex lege
nel dirigente il presidente della commissione (cfr. per un
identica censura Tar Puglia, Lecce, 14 agosto 2007, n. 3077,
punto 3.1. in diritto).
...
7. Con il quinto e il ventiduesimo motivo la ricorrente
lamenta genericamente la mancanza di professionalità dei
componenti della commissione.
La censura va disattesa in quanto, oltre al presidente della
commissione, che è il direttore per statuto dell’ente, sono
stati nominati componenti soggetti legati da un rapporto di
servizio con la stessa amministrazione (il dott. Zanutto
responsabile dell’ufficio qualità e già direttore di enti
simili all’I.S.R.A.A.), o con altre amministrazioni (la
dott.ssa Santin direttrice di altra struttura per anziani).
Pertanto, tenuto conto del contenuto del contratto che non
presuppone la conoscenza di complesse e specifiche
cognizioni tecniche, e della circostanza che non sono stati
nominati soggetti estranei alla pubblica amministrazione
scelti tra liberi professionisti, si può presumere, in
assenza di una puntuale contestazione, che tali soggetti
siano in possesso di un’adeguata esperienza, ed è da
escludere fosse necessaria al riguardo un’estesa motivazione
nell’atto di nomina (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 07.12.2011, n. 6434; Consiglio di Stato, Sez. V, 28.03.2008, n. 1332; Tar Lazio, Roma, Sez. III Ter,
04.02.2008, n. 905)
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 22.04.2013 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Affinché la servitù di
uso pubblico possa dirsi sorta occorre che il bene privato
sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una
collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives,
ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere
generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si
trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato.
Anche la Cassazione ha da ultimo ribadito che la servitù di
uso pubblico è caratterizzata dall'utilizzazione da parte di
una collettività indeterminata di persone del bene privato
idoneo al soddisfacimento di un interesse della stessa.
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali
“ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al
d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste
debbano necessariamente interessate da un transito
generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà
privata del sedime stradale e dei relativi accessori e
pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti),
l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi
dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con
correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione
della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di
gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918,
“Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in
Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”),
onde garantire la sicurezza della circolazione che su di
essa si realizza.
Oggetto del presente giudizio è l’ordinanza sindacale n. 45
del 14.09.1995 con la quale il Comune di Trevignano
ha ingiunto a U.T. di demolire la recinzione in
muratura posta a delimitazione del fabbricato di civile
abitazione, con annesso terreno, di sua proprietà, censito
al foglio 20, mappale n. 123, di detto comune.
Il provvedimento in questione si fonda sullo sconfinamento
di tale recinzione su “un tratto di strada pubblica e la
sede di corso d’acqua demaniale”, e cioè, rispettivamente,
sulla strada vicinale “della Brentella”, qualificata nel
provvedimento come strada vicinale gravata da servitù d’uso
pubblico e “catastalmente” pubblica, nonché su un canale
consorziale.
...
L’elemento di fatto valorizzato dal TAR non è infatti
sufficiente a costituire una servitù di uso pubblico.
Nel supplemento di istruttoria richiamato nell’ordine di
demolizione si afferma che, in base alle mappe catastali e a
non meglio precisate “informazioni assunte sul posto” la
strada risulta essere utilizzata “dai proprietari dei fondi latistanti”, nonché dal personale dei consorzi di gestione
dei canali irrigui (Solagna e della Vittoria) per la normale
manutenzione.
Tuttavia, per giurisprudenza costante di questo Consiglio di
Stato, ancora di recente riaffermata, e dalla quale non vi è
motivo di discostarsi, affinché il diritto reale in
questione possa dirsi sorto occorre che il bene privato sia
idoneo ed effettivamente destinato al servizio di una
collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives,
ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere
generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si
trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato (Sez. V, 14.02. 2012 n. 728; in senso conforme:
Sez. IV, 15.05.2012, n. 2760; Sez. V, 05.12.2012,
n. 6242, quest’ultima citata dall’appellante).
L’indirizzo ora citato è perfettamente conforme a quello
della Cassazione, nel quale ha da ultimo ribadito che la
servitù di uso pubblico è caratterizzata dall'utilizzazione
da parte di una collettività indeterminata di persone del
bene privato idoneo al soddisfacimento di un interesse della
stessa (Sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 333).
Caratteristiche indispensabili di questo diritto sono:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto
di uso pubblico, che può anche identificarsi nella
protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
Va poi soggiunto che la destinazione delle strade vicinali
“ad uso pubblico”, imposta dal codice della strada di cui al
d.lgs. n. 285/1992 (art. 3, comma 1, n. 52) fa sì che queste
debbano necessariamente interessate da un transito
generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà
privata del sedime stradale e dei relativi accessori e
pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti),
l’ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi
dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con
correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione
della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di
gestione ai sensi dell’art. 3 D.lgs.lgt. n. 1446/1918,
“Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in
Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse”),
onde garantire la sicurezza della circolazione che su di
essa si realizza.
Non è dunque sufficiente che l’utilizzo della strada avvenga
in favore di proprietari di fondi vicini, né di personale
dei consorzi irrigui incaricati della gestione del canale.
Del resto, l’amministrazione resistente, che della prova
dell’uso generale è onerata, non ha in alcun modo riferito
di segnalazioni o esposti della cittadinanza tendenti a
denunciare un diminuito godimento del diritto transito per
effetto della (pur risalente) opera muraria oggetto
dell’ordine di demolizione.
Va infine dato atto che nel supplemento di istruttoria si
desume l’uso pubblico dall’inserimento della strada vicinale
nello “strumento urbanistico vigente che individua un
“percorso ambientale” che collega la strada comunale Via
alloro con la strada provinciale Via Villette”.
Ma anche questo elemento è all’evidenza del tutto inidoneo a
provare l’asservimento effettivo all’uso della collettività.
Pertanto, il provvedimento qui impugnato è effettivamente
contrastante con l’art. 825 cod. civ. e carente di
istruttoria e motivazione sullo specifico punto
dell’asservimento all’uso pubblico della strada vicinale.
Tale vizio risulta ancora una volta inficiante in modo
decisivo l’ordine di demolizione impugnato, perché lo priva
di un fondamentale presupposto fattuale. Esso fa infatti
emergere, al di là della sintomatica contraddittorietà in
ordine alla natura di tale strada quale incontestabilmente
emergente nella vicenda qui in decisione, l’assenza di un
abuso sanzionabile con l’ordine di demolizione, visto che
per quanto concerne l’altra situazione di illegalità in
detto provvedimento enucleata, consistente nello
sconfinamento sul canale consorziale, è stata rimossa in
seguito all’ottenimento della concessione idraulica in
sanatoria, come debitamente comprovato in via documentale
dall’appellante (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2218 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - VARI: Sentenza cds.
Locali, il nulla osta non serve.
La qualificazione del locale come circolo privato o locale
pubblico, è attualmente irrilevante ai fini del legittimo
esercizio dell'attività di somministrazione essendo
sufficiente, per il loro avvio, la comunicazione di inizio
attività.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con
la
sentenza 19.04.2013 n. 2207.
L'art. 64 del dlgs n.
59/2010, che disciplinava al tempo la materia della
somministrazione e che richiedeva l'autorizzazione per
l'apertura degli esercizi pubblici, ha precisato la sezione,
è stato sostituito dall'art. 2, comma 2, lett. a), del dlgs
147/2012, che ne consente l'avvio a seguito di mera
comunicazione di inizio attività. Ne consegue che la
qualificazione del locale come circolo privato o locale
pubblico, è irrilevante
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2013). |
APPALTI:
La partecipante ad una gara che sia stata
legittimamente esclusa, non ha legittimazione a censurare
l’ammissione alla gara dell’aggiudicataria e gli atti di
gara, assumendo la posizione del quisquis de populo, non
potendo trarre alcun vantaggio dall’eventuale fondatezza
delle censure.
Nel caso in cui l’amministrazione abbia escluso dalla gara
il concorrente, questi non ha la legittimazione ad impugnare
l’aggiudicazione al controinteressato, a meno che non
ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità
dell’esclusione. Infatti, la determinazione di esclusione,
non impugnata o non annullata, cristallizza definitivamente
la posizione sostanziale del concorrente, ponendolo nelle
stesse condizioni di colui che sia rimasto estraneo alla
gara, non avendo un’aspettativa diversa e maggiormente
qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un
qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla
gara.
Ne deriva, pertanto, che non spetta alcuna legittimazione a
contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla
gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui
impugnazione sia stata respinta.
Il disciplinare di gara, alla sezione XII “Esclusione dalla gara”
prevedeva espressamente che “sono escluse altresì le offerte
la cui offerta tecnica contenga proposte di variante che…4)
rendano palese, direttamente o indirettamente, l’offerta
economica o temporale”.
La testuale previsione della lex di gara riferita a
qualsiasi valorizzazione economica della proposta di
variante, toglie pregio alla censura, essendo del tutto
irrilevante che i prezzi indicati fossero quelli del
prezziario regionale e che non fossero scontati, essendo
comunque idonei a consentire la ricostruzione del prezzo
indicato nell’offerta economica.
A tal punto va confermata la sentenza di primo grado,
dovendosi ritenere illegittimamente ammessa alla gara l’a.t.i.
Rearco, cui consegue l’inammissibilità delle censure dedotte
con il ricorso incidentale di primo grado e riproposte in
appello, atteso che la partecipante ad una gara che sia
stata legittimamente esclusa, non ha legittimazione a
censurare l’ammissione alla gara dell’aggiudicataria e gli
atti di gara, assumendo la posizione del quisquis de populo,
non potendo trarre alcun vantaggio dall’eventuale fondatezza
delle censure (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria n.
11 del 2010).
A termini della citata sentenza dell’Adunanza plenaria, nel
caso in cui l’amministrazione abbia escluso dalla gara il
concorrente, questi non ha la legittimazione ad impugnare
l’aggiudicazione al controinteressato, a meno che non
ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità
dell’esclusione. Infatti, la determinazione di esclusione,
non impugnata o non annullata, cristallizza definitivamente
la posizione sostanziale del concorrente, ponendolo nelle
stesse condizioni di colui che sia rimasto estraneo alla
gara, non avendo un’aspettativa diversa e maggiormente
qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un
qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla
gara.
Ne deriva, pertanto, che non spetta alcuna legittimazione a
contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla
gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui
impugnazione sia stata respinta (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2206 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La giurisprudenza ha
riconosciuto il criterio della vicinitas come idoneo a
legittimare l'impugnazione di singoli titoli edilizi, ma
tale arresto deve ritenersi recessivo allorché oggetto di
contestazione giudiziale sia la disciplina urbanistica
-contenuta in uno strumento attuativo- di aree estranee a
quelle di proprietà del ricorrente.
In questo caso il criterio della vicinitas non è sufficiente
a fornire le condizioni dell'azione, dal momento che non
esaurisce gli ulteriori profili di interesse
all'impugnazione. Soccorre, in tali evenienze, il principio
per cui per proporre impugnativa è necessario che la nuova
destinazione urbanistica che concerne un'area non
appartenente al ricorrente incida direttamente sul godimento
o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su
interessi propri e specifici del medesimo esponente, dovendo
di tanto l'interessato fornire se non una rigorosa
dimostrazione, almeno idonei principi di prova.
A tal proposito, nel richiamare i condivisibili principi (già fatti
propri dal Tar, per il vero) contenuti in ultimo nella
sentenza della Sezione 28.05.2012 n. 3137 in punto di
requisiti legittimanti la impugnazione degli strumenti
urbanistici attuativi (si veda anche, in proposito: “la
giurisprudenza ha riconosciuto il criterio della vicinitas
come idoneo a legittimare l'impugnazione di singoli titoli
edilizi, ma tale arresto deve ritenersi recessivo allorché
oggetto di contestazione giudiziale sia la disciplina
urbanistica -contenuta in uno strumento attuativo- di aree
estranee a quelle di proprietà del ricorrente. In questo
caso il criterio della vicinitas non è sufficiente a fornire
le condizioni dell'azione, dal momento che non esaurisce gli
ulteriori profili di interesse all'impugnazione. Soccorre,
in tali evenienze, il principio per cui per proporre
impugnativa è necessario che la nuova destinazione
urbanistica che concerne un'area non appartenente al
ricorrente incida direttamente sul godimento o sul valore di
mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e
specifici del medesimo esponente, dovendo di tanto
l'interessato fornire se non una rigorosa dimostrazione,
almeno idonei principi di prova” Cons. Stato Sez. IV,
15.11.2011, n. 6016) evidenzia il Collegio che nel ricorso
di primo grado non era stata punto approfondita -e neppure
accennata, per il vero- la problematica concernente il
pregiudizio arrecato all’appellante dalla avversata variante
(e men che meno con riguardo alle aree di propria
pertinenza ulteriori rispetto a quelle oggetto della domanda
di retrocessione) .
Costituisce jus receptum quello per cui la allegazione
dell’interesse tutelato (o del bene della vita che si
intende perseguire ovvero difendere) è connotato essenziale
del ricorso di primo grado, in carenza del quale esso va
dichiarato inammissibile (ex multis: “colui che invoca
l'inadempimento di una norma di azione da parte della
pubblica amministrazione deve dedurre innanzi al Giudice
elementi idonei a rappresentare, quale conseguenza della
regola che si assume violata, la lesione di un bene della
vita ovvero di un interesse anche solo strumentale alla sua
realizzazione, in mancanza della cui allegazione deve
ritenersi azionata non una posizione soggettiva di interesse
legittimo, quanto una mera pretesa alla legalità della
azione amministrativa” -TAR Lombardia Milano Sez. III
Sent., 24.07.2008, n. 2979-) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2013 n. 2173 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: E'
legittima l'esclusione dalla gara d'appalto per i "lavori di
ristrutturazione e riconversione" di un immobile vincolato
poiché
appare perfettamente logico e conforme alla legge che incida
gravemente sulla moralità professionale di chi intende, fra
l’altro, gestire un bene vincolato dalla Soprintendenza dopo
essere stato condannato con sentenza per aver distrutto un
immobile in zona vincolata.
... per l'annullamento:
►
Quanto al ricorso introduttivo, della nota dell'Autorità
Portuale di Trieste dd. 13.11.2009, con cui la ricorrente è
stata esclusa dalla procedura di affidamento dei "lavori
di ristrutturazione e riconversione in Stazione Marittima
del capannone n. 42 sul Molo Bersaglieri di Trieste";
della lex specialis di gara; nonché del provvedimento
di aggiudicazione della procedura.
►
Quanto ai motivi aggiunti depositati in data 16.3.2010, con
i quali si impugnano il verbale interno della commissione
nominata con decreto del Pres. dell'Autorità Portuale di
Trieste dd. 06.10.2009 e per la declaratoria di nullità,
l'annullamento e/o la dichiarazione di intervenuta
caducazione del contratto d'appalto o in subordine, per la
reintegrazione "per equivalente" con risarcimento del
danno subito dal ricorrente.
...
La ricorrente, che ha chiesto di partecipare alla procedura
in oggetto in costituendo RTI con Elettroindustriale srl ed
Ediltre spa, si è vista comunicare l’esclusione con
l’impugnata e del tutto immotivata nota dell’Autorità
Portuale, oggetto del ricorso originario.
Di essa ha dedotto l’illegittimità per violazione dell’art.
38, 1° comma, lett. c) del D.Lgs. n. 163/2006, in quanto
l’intimata Autorità non avrebbe svolto alcuna valutazione
sugli eventuali reati a carico degli amministratori e degli
altri soggetti a ciò tenuti, tenendo conto dell’inerenza
delle funzioni svolte alle obbligazioni dedotte in
contratto, incidenti sulla moralità professionale.
Invero graverebbe sulla stazione appaltante l’accertamento
di tale gravità ed incidenza (ed al riguardo si cita CDS V
Sez. n. 1736 del 23.03.2009) ma non se ne rinverrebbe
traccia nella comunicazione impugnata.
Ha dedotto altresì difetto di motivazione e di istruttoria
in quanto non sarebbero riportati, nemmeno per relationem,
le ragioni per cui, in ordine ai reati individuati dalla
stazione appaltante, questi sono ritenuti gravi.
...
Il Collegio condivide la contestata decisione della
Commissione di gara e pertanto anche i provvedimenti,
compresi quelli di esclusione della ricorrente e di
aggiudicazione alla controinteressata, in quanto appare
perfettamente logico e conforme alla legge che incida
gravemente sulla moralità professionale di chi intende, fra
l’altro, gestire un bene vincolato dalla Soprintendenza dopo
essere stato condannato con sentenza per aver distrutto un
immobile in zona vincolata
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 18.04.2013 n. 237 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione
si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è
rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla
data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile
la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si
verifica quando sia percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva
sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
ché il provvedimento dell’Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia.
---------------
Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione
del ricorso per l’annullamento di una concessione edilizia,
che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di
stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell’intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi
indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione
atteso che l’esistenza della suddetta posizione legittimante
abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme
urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi
esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli
potrebbero arrecare.
Vige allora il principio, espresso nella
seguente massima (la quale del resto, nella sua seconda
parte, vale anche a respingere l’eccezione di difetto
d’interesse ad agire, del pari sollevata dalle parti
resistenti): “La decorrenza del termine per ricorrere in
sede giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell’edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli
cui l’atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque
indicati) dalla data in cui si renda palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile
dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la
sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. “vicinitas”, quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
ché il provvedimento dell’Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia” (Consiglio di Stato – Sez. IV – 05.01.2011, n. 18).
---------------
Neppure
potrebbe ritenersi, stavolta con la difesa della controinteessata, che il ricorrente, ai fini della propria
legittimazione ad agire, dovesse provare di aver subito un
concreto pregiudizio alla sua sfera giuridica, posto che il
Collegio ritiene preferibile l’orientamento
giurisprudenziale, ripetutamente affermato, che al contrario
sostiene: “Il possesso del titolo di legittimazione alla
proposizione del ricorso per l’annullamento di una
concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas,
cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato,
esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in
concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato
comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto
che propone l’impugnazione atteso che l’esistenza della
suddetta posizione legittimante abilita il soggetto ad agire
per il rispetto delle norme urbanistiche, che assuma
violate, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di
lesione, che i lavori in concreto gli potrebbero arrecare”
(TAR Campania–Napoli, Sez. II, 16.01.2013, n.
326; conforme: Consiglio di Stato – Sez. IV – 22.01.2013, n.
361)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.04.2013 n. 890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inedificabilità dell’area asservita o accorpata
ovvero la sua avvenuta utilizzazione a fini edificatori,
costituisce una qualità obiettiva del fondo, come tale
opponibile ai terzi acquirenti, e produce l’effetto di
impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti
consentiti, a nulla rilevando che la proprietà dell’area sia
stata trasferita ad altri, che l’edificazione sia
direttamente ascrivibile a questi ultimi, che manchino
specifici negozi giuridici privati diretti all’asservimento
o che l’edificio insista su una parte del lotto
catastalmente divisa.
Diversamente opinando, gli indici (di densità territoriale,
di fabbricabilità territoriale e di fondiaria) del piano
urbanistico sopravvenuto, che conformano il diritto di
edificare, si rivelerebbero vani e privi di significato, in
quanto le aree sulle quali sono stati operati frazionamenti
verrebbero ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita alla stregua delle sopravvenute previsioni, in
relazione a tutta la loro estensione considerata dal nuovo
piano, con la conseguenza di pregiudicare la stessa finalità
della strumentazione, di permettere un ordinato sviluppo del
territorio.
Se quindi, in linea generale, l’asservimento di una
particella non può essere considerata un dato irrilevante,
per il solo fatto che sia mutata la disciplina urbanistica
di riferimento, dovendosi tenere conto della stessa, in sede
di calcolo della volumetria realizzabile, ciò deve valere
tanto più qualora, come nella specie, le disposizioni
introdotte dal nuovo strumento urbanistico si pongano
addirittura come meno favorevoli, nel fissare i parametri di
calcolo della suddetta volumetria.
Soccorre, al riguardo, la precipua massima secondo la quale:
“Se il proprietario di un immobile non ha realizzato tutta
la volumetria consentita dagli indici edificatori e questi
cambiano in pejus nel corso del tempo, il medesimo deve
subirne le conseguenze, che consistono nel fatto che la
quantità di asservimento del terreno rimasto libero verrà
calcolata sulla base dei nuovi indici. Ciò in quanto i
limiti entro cui un’area può essere edificata si riferiscono
non all’edificazione ulteriore rispetto a quella esistente
al momento dell’approvazione (dello strumento urbanistico),
ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area.
Se così non fosse, si verificherebbe l’effetto perverso di
consentire l’edificabilità di aree già impegnate da
preesistenze, in contrasto con gli indici di piano in
vigore".
---------------
La semplice modifica della pianificazione urbanistica
vigente non è ex se in grado di cancellare gli asservimenti
pregressi, in specie in assenza di espressa diversa
previsione.
La situazione di “asservimento” si presenta come una
caratteristica oggettiva dell’area da ricollegare alla sua
utilizzazione edificatoria il cui contenuto consiste in un
vincolo automatico dell’area stessa in relazione alla
volumetria da essa espressa; detto vincolo, pertanto, si
traduce in una servitù (di non edificabilità non in senso
assoluto bensì relativo in quanto limitata e correlata alla
volumetria consentita con la conseguenza che la modifica
dell’indice edificabile, in senso migliorativo, consente al
proprietario dell’area vincolata una maggiore utilizzazione
indipendentemente dall’esplicita riserva dichiarata in atti,
in ragione del principio di elasticità del diritto di
proprietà, che riespande la propria area riappropriandosi
“in toto” di ogni utilità riveniente e dell’ampiezza
primitiva).
---------------
In tema di diniego di una concessione edilizia, nel caso di
asservimento di un fondo ad un altro, non rileva la
circostanza che l’area in esame sia qualificata come
edificabile dal piano regolatore, come attestato dal
certificato di destinazione edilizia, in quanto la
conformazione giuridica astratta impressa alla medesima in
sede di pianificazione generale lascia impregiudicata
l’esigenza di procedere ad una valutazione concreta delle
potenzialità edificatorie ancora esprimibili dall’area in
forza del computo della superficie e della cubatura dei
fabbricati preesistenti.
Essa si
scontra con l’indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio
ritiene di aderire, espresso, da ultimo, nella massima che
segue: “L’inedificabilità dell’area asservita o accorpata
ovvero la sua avvenuta utilizzazione a fini edificatori,
costituisce una qualità obiettiva del fondo, come tale
opponibile ai terzi acquirenti, e produce l’effetto di
impedirne l’ulteriore edificazione oltre i limiti
consentiti, a nulla rilevando che la proprietà dell’area sia
stata trasferita ad altri, che l’edificazione sia
direttamente ascrivibile a questi ultimi, che manchino
specifici negozi giuridici privati diretti all’asservimento
o che l’edificio insista su una parte del lotto
catastalmente divisa. Diversamente opinando, gli indici (di
densità territoriale, di fabbricabilità territoriale e di
fondiaria) del piano urbanistico sopravvenuto, che
conformano il diritto di edificare, si rivelerebbero vani e
privi di significato, in quanto le aree sulle quali sono
stati operati frazionamenti verrebbero ad esprimere una
cubatura maggiore di quella consentita alla stregua delle
sopravvenute previsioni, in relazione a tutta la loro
estensione considerata dal nuovo piano, con la conseguenza
di pregiudicare la stessa finalità della strumentazione, di
permettere un ordinato sviluppo del territorio” (TAR
Puglia–Bari – Sez. III, 09.01.2013, n. 11).
Se quindi in linea generale –conformemente a quanto
ritenuto dalla giurisprudenza citata– l’asservimento di una
particella non può essere considerata un dato irrilevante,
per il solo fatto che sia mutata la disciplina urbanistica
di riferimento, dovendosi tenere conto della stessa, in sede
di calcolo della volumetria realizzabile, ciò deve valere
tanto più qualora, come nella specie, le disposizioni
introdotte dal nuovo strumento urbanistico si pongano
addirittura come meno favorevoli, nel fissare i parametri di
calcolo della suddetta volumetria.
Soccorre, al riguardo, la precipua massima, citata
nell’ordinanza cautelare della Sezione, secondo la quale:
“Se il proprietario di un immobile non ha realizzato tutta
la volumetria consentita dagli indici edificatori e questi
cambiano in pejus nel corso del tempo, il medesimo deve
subirne le conseguenze, che consistono nel fatto che la
quantità di asservimento del terreno rimasto libero verrà
calcolata sulla base dei nuovi indici. Ciò in quanto i
limiti entro cui un’area può essere edificata si riferiscono
non all’edificazione ulteriore rispetto a quella esistente
al momento dell’approvazione (dello strumento urbanistico),
ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area.
Se così non fosse, si verificherebbe l’effetto perverso di
consentire l’edificabilità di aree già impegnate da
preesistenze, in contrasto con gli indici di piano in
vigore” (TAR Veneto – Sez. I – 10.09.2004, n. 3263).
---------------
La contraria
tesi, espressa dal Comune nella memoria difensiva in atti,
vale a dire che l’asservimento resterebbe efficace, “solo in
costanza della strumentazione urbanistica vigente”, ovvero
che il variare della strumentazione urbanistica
comporterebbe automaticamente il travolgimento degli
asservimenti, operati nel vigore della precedente,
equivarrebbe in pratica a negare qualsivoglia efficacia, ad
atti di tale specie, destinati ad essere spazzati via ad
ogni mutamento della disciplina urbanistica di zona, con
immaginabili gravissime conseguenze sulla possibilità per
gli stessi di conseguire la loro specifica finalità, che è
quella, evidentemente, di consentire un ordinato sviluppo
del territorio.
Probabilmente, la tesi di cui sopra origina dal
fraintendimento dell’indirizzo giurisprudenziale, espresso
in massime come la seguente: “L’atto di asservimento di un
lotto, che costituisce una qualità oggettiva dello stesso
(una sorta di obbligazione “propter rem”) e realizza una
specie particolare di relazione pertinenziale, non comporta
un divieto assoluto di edificazione, pur costituendo un
vincolo che rimane cristallizzato nel tempo, ma non può
costituire limite rispetto alle determinazioni del
pianificatore generale, che resta libero di dettare una
nuova disciplina sulla volumetria e sulla capacità
edificatoria. In tal senso, quindi, l’asservimento di un
terreno per realizzare una costruzione non rende lo stesso
definitivamente inedificabile anche per il futuro; la
destinazione ed utilizzazione delle aree rappresenta,
infatti, un dato dinamico ed evolutivo, potendo mutare nel
tempo l’indice fondiario, nonché la stessa previsione dei
lotti minimi, per cui la potenzialità edificatoria di un
terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla
stregua della modificazione della pianificazione urbanistica
e della normativa sopravvenuta” (TAR Lazio–Roma –
Sez. II, 10.09.2010, n. 32217).
Orbene, nella specie non si tratta per nulla di negare il
principio, del tutto condivisibile, secondo il quale “la
potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente
valutata ed esaminata alla stregua della modificazione della
pianificazione urbanistica e della normativa sopravvenuta”;
si tratta piuttosto di sottolineare, come fa anche la
decisione appena citata, che l’atto di asservimento
costituisce, in ogni caso, “un vincolo che rimane
cristallizzato nel tempo”, una “qualità oggettiva” del
lotto, onde la potenzialità edificatoria del medesimo,
valutata secondo gli indici sopravvenuti, non può
assolutamente prescinderne (come vorrebbe invece la difesa
del Comune).
Sicché quando –come nella specie– proprio applicando i
nuovi indici, detta potenzialità edificatoria risulta
definitivamente esaurita, non si può certo superare a piè
pari l’ostacolo e affermare che l’asservimento precedente
non ha più alcun rilievo.
In pratica, si tratta di prendere atto che i principi,
vigenti in materia, non possono essere altri che quelli,
secondo cui: “La semplice modifica della pianificazione
urbanistica vigente non è ex se in grado di cancellare gli
asservimenti pregressi, in specie in assenza di espressa
diversa previsione” (TAR Liguria – Sez. I, 22.05.2006, n. 475); e: “La situazione di “asservimento” si
presenta come una caratteristica oggettiva dell’area da
ricollegare alla sua utilizzazione edificatoria il cui
contenuto consiste in un vincolo automatico dell’area stessa
in relazione alla volumetria da essa espressa; detto
vincolo, pertanto, si traduce in una servitù (di non
edificabilità non in senso assoluto bensì relativo in quanto
limitata e correlata alla volumetria consentita con la
conseguenza che la modifica dell’indice edificabile, in
senso migliorativo, consente al proprietario dell’area
vincolata una maggiore utilizzazione indipendentemente
dall’esplicita riserva dichiarata in atti, in ragione del
principio di elasticità del diritto di proprietà, che riespande la propria area riappropriandosi “in toto” di ogni
utilità riveniente e dell’ampiezza primitiva)” (TAR
Puglia–Bari – Sez. II, 16.06.1990, n. 279).
-------------
Il secondo
introduce, invece, la questione della diversa destinazione
urbanistica dell’area, sulla quale insiste la particella in
oggetto, per effetto dell’approvazione del P.R.G. di Baronissi, modificazione di disciplina urbanistica che
avrebbe “di fatto superato tutti i vincoli sulla stessa
gravanti, ivi compreso, in particolare, quello derivante dal
predetto atto di asservimento, sottoscritto sotto la vigenza
della precedente strumentazione urbanistica (P. di F.)”.
Quindi, secondo questa tesi, la modifica della
strumentazione urbanistica comporterebbe, ipso iure, il
travolgimento degli asservimenti, stipulati sotto la vigenza
della precedente, riacquistando il lotto tutta intera la
capacità edificatoria esprimibile secondo i nuovi indici,
senza neppure la necessità di scomputare la volumetria già
impegnata al momento della stipula dell’atto di asservimento
in questione.
Essa, che si riduce in pratica a null’altro che ad una
variante di quella, già esaminata sopra, non è accettabile,
posto che altrimenti, come pure rilevato in precedenza, ogni
modifica dell’assetto urbanistico sarebbe idonea a
comportare una ridefinizione, in aumento, del carico
edilizio gravante su una determinata area, con buona pace
dell’ordinato governo del territorio, ed è, in ogni caso,
sconfessata espressamente dalla massima che segue: “In
tema di diniego di una concessione edilizia, nel caso di
asservimento di un fondo ad un altro, non rileva la
circostanza che l’area in esame sia qualificata come
edificabile dal piano regolatore, come attestato dal
certificato di destinazione edilizia, in quanto la
conformazione giuridica astratta impressa alla medesima in
sede di pianificazione generale lascia impregiudicata
l’esigenza di procedere ad una valutazione concreta delle
potenzialità edificatorie ancora esprimibili dall’area in
forza del computo della superficie e della cubatura dei
fabbricati preesistenti” (Consiglio di Stato – Sez. V –
27.06.2011, n. 3823) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.04.2013 n. 890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
manufatto di cui è causa, ancorché diruto, non poteva essere
considerato un rudere al momento della presentazione della
DIA, in quanto era possibile identificare con chiarezza le
dimensioni e le caratteristiche dell’edificio originario.
Dalla predetta relazione, infatti, emerge che:
- la muratura perimetrale dell’immobile era su tutti i lati
esistente, anche se presentava in alcuni lati parti franate;
- il colmo del tetto era esistente, con le lastre d’ardesia
e i coppi di finitura ancora parzialmente in opera, mentre
solo un tratto era franato;
- la striscia del tetto a valle -in corrispondenza della
gronda- era esistente, con lastre d’ardesia in opera.
La presenza di tali elementi architettonici consentiva,
dunque, al fabbricato di essere individuato come organismo
edilizio avente una ben determinata sagoma e un ben
determinato volume e, quindi, di poter essere considerato
oggetto di opere di ristrutturazione.
In particolare, dalla relazione e dalla richiamata
documentazione fotografica risultano non solo le dimensioni
dell’originario fabbricato, ma anche le altezze con la
relativa copertura del tetto, nonché le aperture,
caratterizzate dalla presenza di finestre (o comunque di
apertura) a diversa altezza l’una dall’altra.
Osserva al riguardo il Collegio che, come si evince dalla
relazione dell’architetto Gianluca Mosto del 12.06.2009
e dalla documentazione fotografica versata in atti nel
processo di primo grado, il manufatto di cui è causa,
ancorché diruto, non poteva essere considerato un rudere al
momento della presentazione della DIA, in quanto era
possibile identificare con chiarezza le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio originario.
Dalla predetta relazione (la cui attendibilità è con
evidenza corroborata dalla documentazione fotografica
depositata nel corso del giudizio), infatti, emerge, in
relazione alla DIA n. 437 del 2006, che:
- la muratura perimetrale dell’immobile era su tutti i lati
esistente, anche se presentava in alcuni lati parti franate;
- il colmo del tetto era esistente, con le lastre d’ardesia
e i coppi di finitura ancora parzialmente in opera, mentre
solo un tratto era franato;
- la striscia del tetto a valle -in corrispondenza della
gronda- era esistente, con lastre d’ardesia in opera.
La presenza di tali elementi architettonici consentiva,
dunque, al fabbricato di essere individuato come organismo
edilizio avente una ben determinata sagoma e un ben
determinato volume e, quindi, di poter essere considerato
oggetto di opere di ristrutturazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 03.04.2000, n. 1906).
In particolare, dalla relazione e dalla richiamata
documentazione fotografica risultano non solo le dimensioni
dell’originario fabbricato, ma anche le altezze con la
relativa copertura del tetto, nonché le aperture,
caratterizzate dalla presenza di finestre (o comunque di
apertura) a diversa altezza l’una dall’altra (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere edilizie di cui è causa hanno comportato un obiettivo
aggravio del carico urbanistico, attesa la ristrutturazione
subita dall’immobile originariamente disabitato e inagibile.
Da ciò deriva l’equiparabilità, ai soli fini della riserva
di spazio da destinare a parcheggio pertinenziale, di tali
opere a quelle di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150
del 1942.
Ritiene il Collegio che il medesimo art. 41-sexies, come
modificato dalla legge n. 122 del 1989, trova applicazione
ogni volta che sia realizzato un ‘edificio diverso’ da
quello preesistente e, in particolare, quando –con un atto
comunque denominato– sia demolito un edificio e al suo posto
ne sia realizzato un altro.
Infatti, il legislatore ha previsto che i relativi standard
vadano comunque soddisfatti, non solo quando in un centro
storico sia prevista la demolizione di un fabbricato
fatiscente con la successiva ricostruzione (ciò che
costituisce una occasione irripetibile per dotare finalmente
l’edificio di parcheggi), ma anche quando si tratti di un
edificio isolato o comunque circondato dal verde: anche per
questo secondo caso rileva una essenziale regola del diritto
urbanistico, per la quale va identificato già nel titolo
edilizio lo spazio riservato al parcheggio, per evitare che
vi siano alternative e incerte soluzioni empiriche, che
possano comportare l’alterazione di aree destinate invece a
restare immodificate.
Ciò comporta che i titoli edilizi impugnati in primo grado
risultano illegittimi e vanno annullati, con salvezza degli
ulteriori provvedimenti.
Nell’esercizio dei propri poteri conformativi, la Sezione
ritiene che, in presenza del relativo progetto presentato
dagli interessati e trattandosi di una questione che non
riguarda la realizzabilità in sé dell’edificio, il Comune
possa assentire le opere nel loro complesso, qualora vi sia
una integrazione progettuale concernente la riserva di spazi
da destinare a parcheggi, poiché il richiamato art.
41-sexies dispone “misure quantitative degli spazi aventi
tale destinazione, senza statuire alcuna formalità in ordine
alla localizzazione delle aree da asservire, onde i
parcheggi possono essere realizzati sia in luoghi esterni
all’edificio sia al suo piano terreno e perfino in aree
esterne, anche se non strettamente adiacenti al fabbricato”.
Con il terzo
motivo, l’appellante rileva che -trattandosi di un opera
sottoposta a permesso di costruire- si sarebbero dovuti
riservare appositi spazi per parcheggi, così come previsto
dalla vigente normativa.
Il motivo è fondato.
Osserva il Collegio che le opere edilizie di cui è causa,
pur non necessitando per quanto detto al precedente n. 5.2.
del permesso di costruire, hanno comportato un obiettivo
aggravio del carico urbanistico, attesa la ristrutturazione
subita dall’immobile originariamente disabitato e inagibile.
Da ciò deriva l’equiparabilità, ai soli fini della riserva
di spazio da destinare a parcheggio pertinenziale, di tali
opere a quelle di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150
del 1942.
Ritiene il Collegio che il medesimo art. 41-sexies, come
modificato dalla legge n. 122 del 1989, trova applicazione
ogni volta che sia realizzato un ‘edificio diverso’ da
quello preesistente e, in particolare, quando –con un atto
comunque denominato– sia demolito un edificio e al suo
posto ne sia realizzato un altro (in termini, Cons. Stato,
Sez. IV, 27.09.2007, n. 4842).
Infatti, il legislatore ha previsto che i relativi standard
vadano comunque soddisfatti, non solo quando in un centro
storico sia prevista la demolizione di un fabbricato
fatiscente con la successiva ricostruzione (ciò che
costituisce una occasione irripetibile per dotare finalmente
l’edificio di parcheggi), ma anche quando si tratti di un
edificio isolato o comunque circondato dal verde: anche per
questo secondo caso rileva una essenziale regola del diritto
urbanistico, per la quale va identificato già nel titolo
edilizio lo spazio riservato al parcheggio, per evitare che
vi siano alternative e incerte soluzioni empiriche, che
possano comportare l’alterazione di aree destinate invece a
restare immodificate.
Ciò comporta che i titoli edilizi impugnati in primo grado
(e non anche i contestati atti della Soprintendenza)
risultano illegittimi e vanno annullati, con salvezza degli
ulteriori provvedimenti.
Nell’esercizio dei propri poteri conformativi, la Sezione
ritiene che, in presenza del relativo progetto presentato
dagli interessati e trattandosi di una questione che non
riguarda la realizzabilità in sé dell’edificio, il Comune
possa assentire le opere nel loro complesso, qualora vi sia
una integrazione progettuale concernente la riserva di spazi
da destinare a parcheggi, poiché il richiamato art. 41-sexies dispone “misure quantitative degli spazi aventi tale
destinazione, senza statuire alcuna formalità in ordine alla
localizzazione delle aree da asservire, onde i parcheggi
possono essere realizzati sia in luoghi esterni all’edificio
sia al suo piano terreno e perfino in aree esterne, anche se
non strettamente adiacenti al fabbricato” (Cons. di Stato,
Sez. V, 18.02.2003, n. 871) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In generale, il potere di revoca degli atti di
gara (già previsto dalla disciplina di contabilità generale
dello Stato che consente il diniego di approvazione per
motivi di interesse pubblico ex art. 113 del R.D. 23.05.1924
n. 827) trova il proprio fondamento nel principio generale
dell'autotutela della pubblica amministrazione
(espressamente previsto, nel settore degli appalti pubblici,
dall’art. 11, nono comma, del D.Lgs. 163/2006), che
rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere
amministrativo, direttamente connesso ai criteri
costituzionali di imparzialità e buon andamento della
funzione pubblica.
Infatti, l'art. 21-quinquies L. 07.08.1990 n. 241 consente
un ripensamento da parte dell’amministrazione, laddove
questa ritenga di operare motivatamente una nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario. La
possibilità che in materia di appalti pubblici la stazione
appaltante possa mutare avviso, in funzione del pubblico
interesse, deve essere ricondotta all'ordinarietà
dell'esercizio stesso del potere esperibile anche dopo
l'avvio della procedura di scelta del contraente per ragioni
di pubblico interesse preesistenti o sopravvenute o per vizi
di merito e di legittimità.
La revoca della gara pubblica può dunque ritenersi
legittimamente disposta dalla stazione appaltante in
presenza di documentate e obiettive esigenze di interesse
pubblico, che siano opportunamente e debitamente
esplicitate, che rendano evidente l'inopportunità o comunque
l'inutilità della prosecuzione della gara stessa, oppure
quando, anche in assenza di ragioni sopravvenute, la revoca
sia la risultante di una rinnovata e differente successiva
valutazione dei medesimi presupposti.
---------------
Nelle determinazioni di revoca la valutazione dell'interesse
pubblico consiste in un apprezzamento discrezionale non
sindacabile nel merito dal giudice amministrativo, salvo che
non risulti viziato sul piano della legittimità per
manifesta ingiustizia ed irragionevolezza.
---------------
In presenza di un legittimo atto di autotutela, costituisce
ius receptum, il principio secondo cui la legittimità
dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara di
appalto non elimina il profilo relativo alla valutazione del
comportamento dell'amministrazione, con riguardo al rispetto
dei canoni di buona fede e correttezza, nell'ambito del
procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione
del contraente.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara
può ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga
attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo
dei doveri di lealtà, sicché anche dalla revoca legittima
degli atti di gara può scaturire l'obbligo di risarcire il
danno, nel caso di affidamento suscitato da un comportamento
contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti.
Gli atti che compongono la fase procedimentale dell'evidenza
pubblica in quanto prodromici alla stipula del contratto
sono configurabili anche quali atti di trattativa e
formazione negoziale rilevanti ai sensi dell'art. 1337 cod.
civ.. Ben può configurarsi una “culpa in contrahendo” a
carico della pubblica amministrazione qualora tra le parti
siano intercorse trattative per la conclusione di un accordo
giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente
l'affidamento nella conclusione del contratto e che una
delle parti abbia interrotto le trattative in violazione
delle regole di correttezza e di buona fede di cui all'art.
1337 cod. civ. eludendo così le ragionevoli aspettative
dell'altra, la quale, avendo confidato nella conclusione
finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o
a rinunciare ad occasioni più favorevoli.
---------------
Non è configurabile la responsabilità precontrattuale della
stazione appaltante che si sia motivatamente e
tempestivamente avvalsa della facoltà, prevista nel bando di
gara, di non procedere all’aggiudicazione definitiva
dell’appalto per ragioni di pubblico interesse comportanti
variazioni agli obiettivi perseguiti; in tal caso, infatti,
all’amministrazione appaltante non è contestabile alcun
comportamento lesivo dell’affidamento dei partecipanti.
---------------
L'art. 21-quinquies, comma 1, della L. n. 241 del 1990, come
modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, nel sancire
l'obbligo dell'amministrazione di provvedere all'indennizzo
dei soggetti direttamente interessati, quale ristoro dei
pregiudizi provocati dalla revoca, ha riguardo ai
provvedimenti amministrativi “ad efficacia durevole”, tra i
quali, pacificamente, non rientra l’aggiudicazione
provvisoria .
La revoca di un’aggiudicazione provvisoria, pur dando avvio
ad un procedimento complesso che non si risolve uno actu,
non può essere qualificato quale atto avente durevole
efficacia, con la conseguenza che rispetto ad esso non trova
applicazione l'art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, come
modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, che
sancisce l'obbligo dell'amministrazione di provvedere
all'indennizzo dei soggetti direttamente interessati, quale
ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca, precisando,
peraltro, la stessa disposizione, che l'ambito applicativo
ha riguardo ai provvedimenti amministrativi ad efficacia
durevole.
Nemmeno possono trovare applicazione nella fattispecie i
successivi commi 1-bis e 1-ter del medesimo articolo, i
quali -pur considerando anche gli atti amministrativi a
efficacia istantanea- circoscrivono il sorgere del diritto
all’indennizzo all’incidenza su rapporti negoziali (da
intendersi ovviamente come rapporti già costituiti).
In generale, il potere di revoca degli atti di gara (già previsto
dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che
consente il diniego di approvazione per motivi di interesse
pubblico ex art. 113 del R.D. 23.05.1924 n. 827) trova
il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela
della pubblica amministrazione (espressamente previsto, nel
settore degli appalti pubblici, dall’art. 11, nono comma,
del D.Lgs. 163/2006), che rappresenta una delle
manifestazioni tipiche del potere amministrativo,
direttamente connesso ai criteri costituzionali di
imparzialità e buon andamento della funzione pubblica
(Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2010 n. 1997; TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.05.2010 n. 2263).
Infatti, l'art. 21-quinquies L. 07.08.1990 n. 241
consente un ripensamento da parte dell’amministrazione,
laddove questa ritenga di operare motivatamente una nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario. La
possibilità che in materia di appalti pubblici la stazione
appaltante possa mutare avviso, in funzione del pubblico
interesse, deve essere ricondotta all'ordinarietà
dell'esercizio stesso del potere esperibile anche dopo
l'avvio della procedura di scelta del contraente per ragioni
di pubblico interesse preesistenti o sopravvenute o per vizi
di merito e di legittimità.
La revoca della gara pubblica può dunque ritenersi
legittimamente disposta dalla stazione appaltante in
presenza di documentate e obiettive esigenze di interesse
pubblico (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2009 n.
2882), che siano opportunamente e debitamente esplicitate,
che rendano evidente l'inopportunità o comunque l'inutilità
della prosecuzione della gara stessa, oppure quando, anche
in assenza di ragioni sopravvenute, la revoca sia la
risultante di una rinnovata e differente successiva
valutazione dei medesimi presupposti (TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646; TAR Trentino
Alto Adige, Trento, 30.07.2009 n. 228).
Alla luce di tali considerazioni deve concludersi per la
legittimità dell’azione amministrativa, posto che la
determinazione contestata risulta adeguatamente motivata
dalla stazione appaltante con valutazioni che non si possono
censurare per palese ingiustizia o illogicità.
L’atto di revoca emesso dalla stazione appaltante in
applicazione dei predetti criteri generali in tema di atti
di secondo grado, costituisce inoltre esercizio di un potere
che l’amministrazione si era riservata sin dalla
predisposizione del bando le cui clausole non sono state né
impugnate in parte qua né contestate da parte ricorrente.
In ogni caso nel rispetto dei principi di economicità e buon
andamento della pubblica amministrazione, deve ritenersi che
la prosecuzione dell’appalto in presenza di condizioni come
quelle esplicate, si sarebbe comunque posta in contrasto con
l’esigenza di una gestione razionale ed efficiente delle
risorse pubbliche.
Peraltro nelle determinazioni di revoca la valutazione
dell'interesse pubblico consiste in un apprezzamento
discrezionale non sindacabile nel merito dal giudice
amministrativo, salvo che non risulti viziato sul piano
della legittimità per manifesta ingiustizia ed
irragionevolezza (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12.04.2010 n. 1897), circostanze che non è dato ravvisare
nella fattispecie per cui è causa.
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La domanda di
risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale da
atto legittimo ha ad oggetto il ristoro della lesione della
posizione soggettiva inerente l'affidamento ingenerato nel
privato circa l'osservanza da parte della pubblica
amministrazione del dovere di comportarsi secondo buona fede
e correttezza durante le trattative.
La questione rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett.e)
sub 1), c.p.a., con esplicito riferimento alle controversie
“relative a procedure di affidamento di pubblici lavori,
servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti,
nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione
della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei
procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa
statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie…”. A
sua volta l’art. 30 del c.p.a. al comma 2 stabilisce che nei
casi di giurisdizione esclusiva può essere altresì chiesto
il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi.
Quanto alla tutelabilità della pretesa ai fini
risarcitori, la Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
05.04.2012 n. 1646) ha in precedenza rilevato che, in
presenza di un legittimo atto di autotutela, costituisce ius
receptum, il principio secondo cui la legittimità dell'atto
di revoca dell'aggiudicazione di una gara di appalto non
elimina il profilo relativo alla valutazione del
comportamento dell'amministrazione, con riguardo al rispetto
dei canoni di buona fede e correttezza, nell'ambito del
procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione
del contraente.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara
può ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga
attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo
dei doveri di lealtà, sicché anche dalla revoca legittima
degli atti di gara può scaturire l'obbligo di risarcire il
danno, nel caso di affidamento suscitato da un comportamento
contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti (cfr.
anche TAR Campania, Napoli, Sez. I, 08.02.2006 n.
1794; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.09.2010 n. 3459
e 12.01.2011 n. 20). Gli atti che compongono la fase
procedimentale dell'evidenza pubblica in quanto prodromici
alla stipula del contratto sono configurabili anche quali
atti di trattativa e formazione negoziale rilevanti ai sensi
dell'art. 1337 cod. civ.. Ben può configurarsi una “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione qualora
tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione
di un accordo giunte ad uno stadio tale da giustificare
oggettivamente l'affidamento nella conclusione del contratto
e che una delle parti abbia interrotto le trattative in
violazione delle regole di correttezza e di buona fede di
cui all'art. 1337 cod. civ. eludendo così le ragionevoli
aspettative dell'altra, la quale, avendo confidato nella
conclusione finale del contratto, sia stata indotta a
sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli.
Nella fattispecie, il Collegio ritiene che tali condizioni
non sussistano.
Si è visto che la legittimità del provvedimento di revoca è
stata ritenuta in funzione della condivisibilità delle
ragioni poste dall'amministrazione a fondamento dell'atto di
autotutela, adottato proprio a salvaguardia delle
sopravvenute esigenze dell’ente e del razionale utilizzo
delle risorse pubbliche.
In questa sede deve escludersi un comportamento
dell’amministrazione in contrasto con il dovere di lealtà e
correttezza nonché lesivo dell’affidamento riposto dalla
controparte nella conclusione del contratto.
A tale fine è utile il richiamo a quell’indirizzo
giurisprudenziale secondo cui non è configurabile la
responsabilità precontrattuale della stazione appaltante che
si sia motivatamente e tempestivamente avvalsa della
facoltà, prevista nel bando di gara, di non procedere
all’aggiudicazione definitiva dell’appalto per ragioni di
pubblico interesse comportanti variazioni agli obiettivi
perseguiti; in tal caso, infatti, all’amministrazione
appaltante non è contestabile alcun comportamento lesivo
dell’affidamento dei partecipanti (Consiglio di Stato, Sez.
V, 07.09.2009 n. 5245; 13.11.2002 n. 6291;
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.05.2010 n. 2263).
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Del pari
infondata è l’ultima richiesta subordinata di riconoscimento
del diritto alla corresponsione di una somma a titolo di
indennizzo ai sensi dell’art. 21-quinquies della l. n.
241/1990.
Al riguardo va infatti osservato che l'art. 21-quinquies, comma 1, della L. n. 241 del 1990, come
modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, nel sancire
l'obbligo dell'amministrazione di provvedere all'indennizzo
dei soggetti direttamente interessati, quale ristoro dei
pregiudizi provocati dalla revoca, ha riguardo ai
provvedimenti amministrativi “ad efficacia durevole”, tra i
quali, pacificamente, non rientra l’aggiudicazione
provvisoria .
La revoca di un’aggiudicazione provvisoria, pur dando avvio
ad un procedimento complesso che non si risolve uno actu,
non può essere qualificato quale atto avente durevole
efficacia, con la conseguenza che rispetto ad esso non trova
applicazione l'art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, come
modificato ed integrato dalla l. n. 15 del 2005, che
sancisce l'obbligo dell'amministrazione di provvedere
all'indennizzo dei soggetti direttamente interessati, quale
ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca, precisando,
peraltro, la stessa disposizione, che l'ambito applicativo
ha riguardo ai provvedimenti amministrativi ad efficacia
durevole (Tar Lazio, Roma, sez. I, 11.07.2006, n. 5766).
Nemmeno possono trovare applicazione nella fattispecie i
successivi commi 1-bis e 1-ter del medesimo articolo, i
quali -pur considerando anche gli atti amministrativi a
efficacia istantanea- circoscrivono il sorgere del diritto
all’indennizzo all’incidenza su rapporti negoziali (da
intendersi ovviamente come rapporti già costituiti)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 11.04.2013 n. 1916 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine di 60 giorni
ex art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 comincia a
decorrere solo dal momento in cui la documentazione perviene
completa all'organo competente a decidere, ossia da quando
l'intera documentazione rilasciata sia stata ricevuta e
detto organo sia stato, quindi, posto nelle condizioni di
pronunciarsi, non verificandosi, pertanto, alcuna
interruzione o sospensione nel caso in cui sia necessaria
un'integrazione della documentazione, bensì soltanto
l'effetto della non decorrenza del termine.
Tuttavia, per altrettanto consolidata giurisprudenza, la
documentazione tecnico-amministrativa di cui –ai fini del
decorso del termine perentorio– si impone la completa
ricezione, deve essere quella essenziale, sulla cui base
l’autorizzazione paesaggistica è stata rilasciata, e non
anche quella ulteriore ritenuta utile dalla Soprintendenza.
Ciò risulta in linea con la natura del potere di controllo
demandato all'autorità statale, non già esteso ad un riesame
nel merito, bensì circoscritto allo scrutinio di legittimità
sull’operato dell’ente locale delegato: fermo restando che
l’acclarata pretermissione, da parte di quest’ultimo, di
documentazione essenziale, normativamente prescritta a
supporto della verifica di compatibilità paesaggistica,
giustificherebbe un puro e tempestivo intervento
annullatorio dell’organo di controllo per rilevato vizio di
legittimità (eccesso di potere per difetto di istruttoria),
l'eventuale allargamento del quadro fattuale, cui
condurrebbe l'acquisizione di documenti ulteriori rispetto a
quelli considerati dal Comune, comporterebbe, infatti, la
valutazione di nuovi elementi extraprocedimentali, e,
quindi, l'assunzione di conclusioni proprie di un
inammissibile apprezzamento di merito.
In questa prospettiva ermeneutica il Consiglio di Stato ha,
appunto, precisato che, qualora la documentazione invocata
dalla Soprintendenza sia ulteriore e diversa da quella
valutata dal Comune in sede di autorizzazione paesaggistica,
la sua mancata allegazione è insuscettibile di precludere ab
origine il decorso del termine perentorio ex art. 159, comma
3, del d.lgs. n. 42/2004 o di interromperlo in conseguenza
della richiesta di integrazione istruttoria.
Non vale, poi, eccepire che –come sostenuto dal resistente Ministero per
i beni e le attività culturali– il termine di 60 giorni ex
art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 sarebbe cominciato
a decorrere non già dalla data (01.12.2009) di
ricevimento della nota del Comune di Bucciano, prot. n.
7116, del 27.11.2009, bensì dalla data (23.02.2010) di ricevimento della nota del Comune di Bucciano, prot.
n. 851, del 17.02.2010, con la quale è stata trasmessa
la documentazione integrativa richiesta dalla della
Soprintendenza di Caserta e Benevento con nota del 01.02.2010, prot. n. 1905.
Al riguardo, il Collegio non ignora che, per consolidata
giurisprudenza, il termine in parola comincia a decorrere
solo dal momento in cui la documentazione perviene completa
all'organo competente a decidere, ossia da quando l'intera
documentazione rilasciata sia stata ricevuta e detto organo
sia stato, quindi, posto nelle condizioni di pronunciarsi,
non verificandosi, pertanto, alcuna interruzione o
sospensione nel caso in cui sia necessaria un'integrazione
della documentazione, bensì soltanto l'effetto della non
decorrenza del termine (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.01.2007, n. 24;
01.12.2010, n. 8379; 10.01.2011, n. 43; 24.02.2011, n. 1148; 15.11.2011, n.
6032; TAR Campania, Salerno, sez. II, 25.06.2009, n.
3311; 08.07.2010, n. 1016; 16.03.2011, n. 496; sez. I,
21.11.2012, n. 2093).
Tuttavia, per altrettanto consolidata giurisprudenza, la
documentazione tecnico-amministrativa di cui –ai fini del
decorso del termine perentorio– si impone la completa
ricezione, deve essere quella essenziale, sulla cui base
l’autorizzazione paesaggistica è stata rilasciata, e non
anche quella ulteriore ritenuta utile dalla Soprintendenza
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2002, n. 4182; 04.09.2007, n. 4632; 24.02.2009, n. 1078;
01.12.2010, n. 8379; 03.05.2011, n. 2611; sez. II, 28.07.2011, n. 4776; sez. VI, 24.01.2012, n. 300; TAR
Umbria, Perugia, 20.08.2009, n. 496; 31.05.2011, n.
154; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2010, n. 98; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 16.03.2011, n. 496; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, 02.05.2012, n. 857).
Ciò risulta in linea con la natura del potere di controllo
demandato all'autorità statale, non già esteso ad un riesame
nel merito, bensì circoscritto allo scrutinio di legittimità
sull’operato dell’ente locale delegato: fermo restando che
l’acclarata pretermissione, da parte di quest’ultimo, di
documentazione essenziale, normativamente prescritta a
supporto della verifica di compatibilità paesaggistica (cfr.
par. 3 dell’allegato al d.p.c.m. 12.12.2005),
giustificherebbe un puro e tempestivo intervento annullatorio dell’organo di controllo per rilevato vizio di
legittimità (eccesso di potere per difetto di istruttoria),
l'eventuale allargamento del quadro fattuale, cui
condurrebbe l'acquisizione di documenti ulteriori rispetto a
quelli considerati dal Comune, comporterebbe, infatti, la
valutazione di nuovi elementi extraprocedimentali, e,
quindi, l'assunzione di conclusioni proprie di un
inammissibile apprezzamento di merito.
In questa prospettiva ermeneutica, Cons. Stato, sez. VI, 24.02.2009, n. 1078 ha, appunto, precisato che, qualora
la documentazione invocata dalla Soprintendenza sia
ulteriore e diversa da quella valutata dal Comune in sede di
autorizzazione paesaggistica, la sua mancata allegazione è
insuscettibile di precludere ab origine il decorso del
termine perentorio ex art. 159, comma 3, del d.lgs. n.
42/2004 o di interromperlo in conseguenza della richiesta di
integrazione istruttoria (cfr., nello stesso senso, TAR
Toscana, Firenze, sez. III, 02.05.2012, n. 857) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 11.04.2013 n. 1913 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: L'appaltatore risarcisce l'Iva anche senza fattura.
L'appaltatore che non ha eseguito i lavori a opera d'arte
deve risarcire il committente del danno patrimoniale,
inclusa l'Iva, anche in assenza di fattura.
È quanto affermato dalla Corte di
Cassazione con la sentenza 04.04.2013 n. 8199.
In particolare la III Sez. civile ha respinto il
ricorso di una piccola ditta che era stata condannata a
risarcire il danno patrimoniale a un cliente perché, non
avendo eseguito i lavori ad opera d'arte, aveva provocato
delle infiltrazioni d'acqua.
Ma l'appaltatore si era difeso sostenendo di non dover
rimborsare il costo dell'Iva in quanto non era stata emessa
alcuna fattura. Una tesi, questa, respinta sia dai giudici
di merito sia da quelli di legittimità.
Infatti ad avviso del Collegio di legittimità, poiché il
risarcimento del danno patrimoniale si estende agli oneri
accessori e consequenziali, se esso è liquidato sulla base
di spese da affrontare, il risarcimento comprende anche
l'Iva, pur se la riparazione non ancora avvenuta allorquando
il prestatore d'opera sia come nella specie tenuto ex art.
18 dpr n. 633 del 1972 ad addebitarla, a titolo di rivalsa,
al committente.
Infatti, trattandosi di onere futuro e certo al tempo
liquidazione del danno, il pagamento dell'Iva concorre
invero a determinare il complessivo esborso necessario alla
reintegrazione patrimoniale conseguente al fatto illecito
subito.
Bene, nel prevedere la corresponsione dell'Iva
sull'ammontare liquidato a titolo di risarcimento dei danni
patrimoniali (al tasso previsto dalla legge vigente al
riguardo), la Corte di merito ha ben applicato il principio
ricordato in sede di legittimità.
Tutti gli altri motivi di ricorso presentati
dall'appaltatore sono stati dichiarati inammissibili dalla
Corte di cassazione in quando il quesito di diritto non era
stato ben formulato. Sul punto Piazza Cavour ricorda che il
ricorso dell'appaltatore reca quesiti di diritto formulati
in termini difformi dallo schema al riguardo delineato dalla
stessa Cassazione, non contenendo la riassuntiva ma puntuale
indicazione degli aspetti di fatto rilevanti, del modo in
cui giudici del merito li hanno rispettivamente decisi.
Quindi il quesito era troppo astratto e generico
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Presupposti
per il corretto esercizio del potere di annullamento in
autotutela sono:
- un atto affetto da un vizio di legittimità;
- l’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
all’annullamento, non identificabile con il mero ripristino
della legalità violata;
- la prevalenza di tale interesse sugli interessi pubblici e
privati alla conservazione dell’atto, specie se, per il
tempo trascorso dall’adozione dell'atto viziato, si siano
consolidate, in concreto, situazioni soggettive tutelabili.
Il provvedimento impugnato –adottato un anno dopo il
perfezionamento di un titolo avente ad oggetto un intervento
edilizio di modesta entità e in corso di avanzata
costruzione- si limita a rilevare il contrasto della d.i.a.
con l’art. 61 delle n.t.a., a contestare l’incompletezza del
permesso rilasciato dall’a.n.a.s., allegato alla d.i.a., e a
lamentare la mancata presentazione del d.u.r.c., invocando
quindi esigenze di mero ripristino della legalità, senza
indicare la ragione di interesse pubblico per la quale la
d.i.a. dovesse essere annullata.
Né può valere quanto affermato dalla difesa
dell’amministrazione resistente nelle memorie depositate in
giudizio, circa l’esigenza di tutela della zona agricola
sulla quale è stata realizzata la recinzione, essendo
inammissibile l’integrazione postuma della motivazione
contenuta in una memoria difensiva.
Con ordinanza del 02.12.2010, il Comune di Samolaco ha annullato in autotutela la denuncia di inizio
attività presentata dalla sig.ra Vaninetti il 09.11.2009, avente ad oggetto la realizzazione di lavori di
completamento della recinzione dell’immobile di sua
proprietà.
Con ordinanza, adottata sempre in data 02.12.2010, il
Comune ha ingiunto la demolizione dell’opera.
La censura con cui viene lamentata l’illegittimità
dell’ordinanza di annullamento in autotutela, per violazione
dell’art. 21-nonies, è fondata.
Presupposti per il corretto esercizio del potere di
annullamento in autotutela sono:
- un atto affetto da un vizio di legittimità;
- l’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
all’annullamento, non identificabile con il mero ripristino
della legalità violata;
- la prevalenza di tale interesse sugli interessi pubblici e
privati alla conservazione dell’atto, specie se, per il
tempo trascorso dall’adozione dell'atto viziato, si siano
consolidate, in concreto, situazioni soggettive tutelabili.
Il provvedimento impugnato –adottato un anno dopo il
perfezionamento di un titolo avente ad oggetto un intervento
edilizio di modesta entità e in corso di avanzata
costruzione- si limita a rilevare il contrasto della d.i.a.
con l’art. 61 delle n.t.a., a contestare l’incompletezza del
permesso rilasciato dall’a.n.a.s., allegato alla d.i.a., e a
lamentare la mancata presentazione del d.u.r.c., invocando
quindi esigenze di mero ripristino della legalità, senza
indicare la ragione di interesse pubblico per la quale la
d.i.a. dovesse essere annullata.
Né può valere quanto affermato dalla difesa
dell’amministrazione resistente nelle memorie depositate in
giudizio, circa l’esigenza di tutela della zona agricola
sulla quale è stata realizzata la recinzione, essendo
inammissibile l’integrazione postuma della motivazione
contenuta in una memoria difensiva (cfr., fra le tante,
TAR Veneto, sez. I, 11.03.2010, n. 768; Consiglio di
Stato sez. IV, 16.09.2008, n. 4368).
Il ricorso è, dunque, fondato nella parte in cui fa valere
l’illegittimità dell’ordinanza di annullamento in autotutela
e l’illegittimità, in via derivata, dell’ordinanza di
demolizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.03.2013 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’interesse
all’accesso ai documenti amministrativi, così come è
disegnato dall’art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n.
241, anche successivamente alle modifiche intervenute nel
2005 (per effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel 2009
(per effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è nozione diversa
e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non
presuppone necessariamente una posizione soggettiva
qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse
legittimo; cosicché la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del
procedimento oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso
deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non
può più agire, o non possa ancora agire, in sede
giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di
accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale
domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la
richiesta di accesso e non anche la possibilità di
utilizzare gli atti richiesti in un giudizio.
---------------
Pur non potendosi –per evidenti motivi di ragionevolezza–
imporre l’ostensione di atti di cui l’amministrazione
dimostri (sulla base di circostanze oggettive e
circostanziate) di non essere più in possesso (tanto alla
luce del principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’),
nondimeno non può essere sufficiente –al fine di dimostrare
l’oggettiva impossibilità di consentire il diritto di
accesso e quindi di sottrarsi agli obblighi tipicamente
incombenti sull’amministrazione in base alla normativa
primaria in tema di accesso– la mera e indimostrata
affermazione in ordine all’indisponibilità degli atti quale
mera conseguenza del tempo trascorso e delle modifiche
organizzative medio tempore succedutesi.
Invero, alla luce del richiamato principio ‘ad impossibilia
nemo tenetur’, anche nei procedimenti d’accesso ai documenti
amministrativi l’esercizio del relativo diritto o l’ordine
d’esibizione impartito dal giudice non può riguardare, per
evidenti ragioni di buon senso, che i documenti esistenti e
non anche quelli non più esistenti o mai formati, spettando
alla p.a. destinataria dell’accesso indicare, sotto la
propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che
non è in grado d’esibire.
Resta inteso, peraltro, che laddove l’Amministrazione
confermasse l’oggettiva impossibilità di reperire gli atti
richiesti (sostanzialmente di natura organizzativa e
relativi a rapporti di durata pluriennale), dovrà darne
pienamente conto esplicitando in modo dettagliato le ragioni
concrete di tale impossibilità.
In primo luogo, va rilevato come “l’interesse
all’accesso ai documenti amministrativi, così come è
disegnato dall’art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990
n. 241, anche successivamente alle modifiche intervenute nel
2005 (per effetto della legge 11.02.2005 n. 15) e nel
2009 (per effetto della legge 18.06.2009 n. 69) è
nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse
all’impugnativa e non presuppone necessariamente una
posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto
soggettivo o interesse legittimo; cosicché la legittimazione
all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che
gli atti del procedimento oggetto dell’accesso abbiano
spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti.
Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso
deve quindi ritenersi consentito anche se l’interessato non
può più agire, o non possa ancora agire, in sede
giurisdizionale, in quanto l’autonomia della domanda di
accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale
domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la
richiesta di accesso e non anche la possibilità di
utilizzare gli atti richiesti in un giudizio” (TAR Lazio,
Roma, II, 20.02.2013, n. 1896; Cons. Stato, Sez. VI,
27.10.2006 n. 6440).
---------------
Quanto
all’asserita impossibilità di rinvenire la documentazione
richiesta negli archivi degli Enti resistenti, va ribadito
un condivisibile insegnamento giurisprudenziale secondo il
quale, “pur non potendosi –per evidenti motivi di
ragionevolezza– imporre l’ostensione di atti di cui
l’amministrazione dimostri (sulla base di circostanze
oggettive e circostanziate) di non essere più in possesso
(tanto alla luce del principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’),
nondimeno non può essere sufficiente –al fine di dimostrare
l’oggettiva impossibilità di consentire il diritto di
accesso e quindi di sottrarsi agli obblighi tipicamente
incombenti sull’amministrazione in base alla normativa
primaria in tema di accesso– la mera e indimostrata
affermazione in ordine all’indisponibilità degli atti quale
mera conseguenza del tempo trascorso e delle modifiche
organizzative medio tempore succedutesi.
Al riguardo, la giurisprudenza [del] Consiglio di Stato ha
già avuto modo di affermare che, alla luce del richiamato
principio ‘ad impossibilia nemo tenetur’, anche nei
procedimenti d’accesso ai documenti amministrativi
l’esercizio del relativo diritto o l’ordine d’esibizione
impartito dal giudice non può riguardare, per evidenti
ragioni di buon senso, che i documenti esistenti e non anche
quelli non più esistenti o mai formati, spettando alla p.a.
destinataria dell’accesso indicare, sotto la propria
responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che non è in
grado d’esibire (in tal senso: Cons. Stato, VI, 08.01.2002, n. 67).
Resta inteso, peraltro, che laddove l’Amministrazione
confermasse l’oggettiva impossibilità di reperire gli atti
richiesti [dall’odierna ricorrente] (sostanzialmente di
natura organizzativa e relativi a rapporti di durata
pluriennale), dovrà darne pienamente conto esplicitando in
modo dettagliato le ragioni concrete di tale impossibilità”
(Consiglio di Stato, VI, 13.02.2013, n. 892).
Di conseguenza il rifiuto di accesso e il suo differimento,
genericamente argomentati, si appalesano illegittimi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 22.03.2013 n. 758 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere
a scomputo, per realizzarle serve una prova scritta. Perché
gli oneri di urbanizzazione siano sostituiti da lavori non è
sufficiente l'accordo verbale con la PA.
La prova che una Amministrazione accetta
la realizzazione di opere a scomputo degli oneri di
urbanizzazione deve risultare da atti scritti e non solo da
accordi verbali.
Si è espresso in questi termini il TAR Piemonte, Sez. I, con
la
sentenza 22.03.2013 n. 356.
Il caso esaminato dal Tribunale Amministrativo riguarda una
società che aveva ottenuto la concessione edilizia per la
realizzazione di alcuni fabbricati e pagato la prima rata
degli oneri di urbanizzazione.
Dopo il pagamento, la società aveva presentato un progetto
di riqualificazione di un immobile comunale che avrebbe
dovuto sostituire il pagamento della seconda e della terza
rata degli oneri di urbanizzazione.
Il Comune, che in un primo momento si era mostrato
interessato, aveva in seguito preteso il versamento delle
rate e delle sanzioni per il ritardo nel pagamento.
A questo punto la società aveva obiettato che i termini di
pagamento erano stati sospesi dato che l’Amministrazione in
un primo momento aveva accolto la proposta delle opere a
scomputo degli oneri di urbanizzazione con una nota
assessorile.
Il Tar ha però precisato che nella nota c’era solo l’invito
a prendere accordi con l’ufficio competente per la redazione
del progetto. Dagli atti non risultava che la società avesse
agito in tal senso né che l’Amministrazione avesse
autorizzato la realizzazione delle opere.
Il ricorso è stato quindi respinto perché gli accordi
verbali non sono sufficienti a provare le intenzioni della
Pubblica Amministrazione
(commento tratto da www.edilportale.com - TAR Piemonte, Sez.
I, sentenza link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il
potere sanzionatorio del Comune in materia
urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non
è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che
l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione
della relativa sanzione può intervenire anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il
ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il
sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla
constatata abusività che non richiede alcuna specifica
valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di
fatto.
---------------
L'acquisizione gratuita non costituisce sanzione accessoria
alla demolizione, volta a colpire l'esecutore delle opere
abusive, ma si configura quale sanzione autonoma che
consegue all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
L'inottemperanza integra, infatti, un illecito diverso ed
autonomo dalla commissione dell'abuso edilizio, del quale
può rendersi responsabile anche il proprietario, qualora
risulti che abbia acquistato o riacquisito la disponibilità
del bene e non si sia attivato per dare esecuzione
all'ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo
in grado di dare esecuzione all'ingiunzione, non vi abbia
comunque provveduto.
È orientamento consolidato di questa Sezione che la
vetustà dell'opera non escluda il potere di controllo e il
potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non
è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che
l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione
della relativa sanzione può intervenire anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il
ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il
sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. fra le
tante Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n.
2045);
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla
constatata abusività che non richiede alcuna specifica
valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto
(Consiglio di Stato sez. IV, 28.12.2012, n. 6702;
TAR Lombardia Milano, sez. II, 19.02.2009, n.
1318);
Né sussiste una violazione del principio di proporzionalità.
Tale principio è invocabile laddove l'amministrazione possa
modulare la propria azione in base a scelte discrezionali;
mentre nell’esercizio del potere sanzionatorio degli abusi
edilizi, l'agire dell'amministrazione è vincolato dalle
scelte consacrate nella legislazione e negli atti di
programmazione urbanistica, queste effettivamente ampiamente
discrezionali, la cui attuazione costituisce atto dovuto
(cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 20.12.2011, n.
6756).
Parimenti non assume rilievo quanto prospettato dal
ricorrente circa la possibilità che l’amministrazione riduca
la fascia di rispetto cimiteriale attualmente vigente: tale
riduzione al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato non era stata approvata.
Inoltre, l’eventuale futura esclusione dei fabbricati dalla
fascia di rispetto non inciderebbe comunque sull’assenza del
requisito della doppia conformità richiesto dalla legge per
il rilascio di un provvedimento di sanatoria. Né potrebbe
invocarsi la c.d. sanatoria giurisprudenziale, stante il
contrasto di tale istituto con il principio di legalità (cfr.
Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961; TAR
Milano Lombardia sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
---------------
Come affermato
da questo Tribunale con la sentenza sez. II, 29.04.2009, n.
3597, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 345 del
1991, ha statuito che l'acquisizione gratuita non
costituisce sanzione accessoria alla demolizione, volta a
colpire l'esecutore delle opere abusive, ma si configura
quale sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza
all'ingiunzione di demolizione.
L'inottemperanza integra, infatti, un illecito diverso ed
autonomo dalla commissione dell'abuso edilizio, del quale
può rendersi responsabile anche il proprietario, qualora
risulti che abbia acquistato o riacquisito la disponibilità
del bene e non si sia attivato per dare esecuzione
all'ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo
in grado di dare esecuzione all'ingiunzione, non vi abbia
comunque provveduto (cfr. TAR Milano 2^, 14.10.1999 n. 3417)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.03.2013 n. 722 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme sulle distanze
dai fabbricati hanno carattere pubblicistico e inderogabile,
a differenza di quelle sulle distanze dai confini, che sono
derogabili mediante convenzione tra privati.
A tale proposito,
questo Tribunale, nella sentenza n. 327/2005 del 12.10.2005,
confermata dalla Sezione VI del Consiglio di stato con la
decisione n. 6475 del 18.12.2012, con riferimento alle
distanze in materia di costruzioni, ha già esposto che “è
ben noto al Collegio l’orientamento giurisprudenziale in
forza del quale le norme sulle distanze dai fabbricati hanno
carattere pubblicistico e inderogabile, a differenza di
quelle sulle distanze dai confini, che sono derogabili
mediante convenzione tra privati (cfr., ex multis, Consiglio
di Stato, Sez. IV, 12.07.2002, n. 3929 e TAR Lazio, Sez. II,
11.10.2004, n. 10705)”
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 20.03.2013 n. 95
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’atto amministrativo
fondato su più ordini di motivi deve considerarsi legittimo
quando ne esista almeno uno esente da vizi e idoneo a
sostenere congruamente l’atto stesso.
Secondo un costante
indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio aderisce,
l’atto amministrativo fondato su più ordini di motivi deve
considerarsi legittimo, quando ne esista almeno uno esente
da vizi e idoneo a sostenere congruamente l’atto stesso
(c.d. “principio della ragione sufficiente” - cfr.,
ex multis, CGA, 08.08.1998, n. 458 e TRGA Bolzano,
12.10.2005 n. 327 e 24.05.2005, n. 191, 28.09.2004, n. 417,
28.06.2002, n. 320 e 15.02.2002, n. 82)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 20.03.2013 n. 95
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In relazione alle opere realizzate in zona
vincolata, ricadente in fascia di rispetto stradale, si è in
presenza di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde
dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il
divieto di “edificazione” sancito dall’art. 4, D.M.
01.04.1968 (recante norme in materia di "distanze minime a
protezione del nastro stradale da osservarsi nella
edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui
all'art. 19, legge 06.08.1967, n. 765"), non può essere
inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire
l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità
di interesse generale, e, cioè, per esempio, per
l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il
deposito dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza
di costruzioni.
---------------
Il vincolo urbanistico sulle distanze minime a protezione
del nastro stradale, previsto dall’art. 33 della legge n. 47
del 1985, a differenza di quello di inedificabilità relativa
previsto dall’art. 32 –che può essere rimosso a discrezione
dell’Autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato–,
contiene un divieto di edificazione di carattere assoluto,
che comporta la non sanabilità dell’opera abusiva realizzata
dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua
natura incompatibile con ogni manufatto.
Ed in effetti, in tema di sanatoria di abusi edilizi in
applicazione della legge n. 47 del 1985, la natura del
vincolo riveniente da una fascia di rispetto stradale
differisce a seconda che le opere edilizie abusive siano
state realizzate prima o dopo l’imposizione del vincolo,
dovendosi ammettere solo nel primo caso la possibilità di
sanatoria (previa acquisizione del parere previsto dall’art.
32), che resta invece esclusa nella seconda ipotesi, ai
sensi del successivo art. 33, comma 1, lett. d); ciò in
quanto l’art. 32, comma 4 –nella versione vigente ratione
temporis- consente la sanatoria –tra le altre ipotesi– per
le opere abusive “in contrasto con le norme del D.M.
01.04.1968 ... sempre che le opere stesse non costituiscano
minaccia alla sicurezza del traffico” (lett. c), quando esse
siano “... insistenti su aree vincolate dopo la loro
esecuzione ...”, sicché soltanto in tale caso, attesa la
natura «relativa» del vincolo (ai fini della sanatoria),
l’Amministrazione deve darsi carico di verificare che le
opere “... non costituiscano minaccia alla sicurezza del
traffico”, mentre per gli interventi realizzati dopo
l’imposizione del vincolo opera la preclusione assoluta di
cui all’art. 33, comma 1.
In relazione alle opere realizzate in zona vincolata,
ricadente in fascia di rispetto stradale, si è in presenza
di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde dalle
caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto
di “edificazione” sancito dall’art. 4, D.M.
01.04.1968 (recante norme in materia di "distanze minime
a protezione del nastro stradale da osservarsi nella
edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui
all'art. 19, legge 06.08.1967, n. 765"), non può essere
inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire
l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità
di interesse generale, e, cioè, per esempio, per
l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il
deposito dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza
di costruzioni (cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 14.04.2010,
n. 2076).
Quanto, poi, all’asserita sanabilità dell’abuso, va
ricordato che esso, risalente al 1973, è stato realizzato
dopo l’imposizione del vincolo di assoluta inedificabilità
previsto dal D.M. n. 1404 del 1968, onde ricade nell’ipotesi
di cui all’art. 33, comma 1, della legge n. 47 del 1985 (“Le
opere di cui all’articolo 31 non sono suscettibili di
sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli,
qualora questi comportino inedificabilità e siano stati
imposti prima della esecuzione delle opere stesse: a) …; b)
…; c) …; d) ogni altro vincolo che comporti la
inedificabilità delle aree”).
E’ stato in proposito rilevato che il vincolo urbanistico
sulle distanze minime a protezione del nastro stradale,
previsto dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985, a
differenza di quello di inedificabilità relativa previsto
dall’art. 32 –che può essere rimosso a discrezione
dell’Autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato–,
contiene un divieto di edificazione di carattere assoluto,
che comporta la non sanabilità dell’opera abusiva realizzata
dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua
natura incompatibile con ogni manufatto (v. Cons. Stato,
Sez. IV, 05.07.2000 n. 3731).
Ed in effetti, in tema di sanatoria di abusi edilizi in
applicazione della legge n. 47 del 1985, la natura del
vincolo riveniente da una fascia di rispetto stradale
differisce a seconda che le opere edilizie abusive siano
state realizzate prima o dopo l’imposizione del vincolo,
dovendosi ammettere solo nel primo caso la possibilità di
sanatoria (previa acquisizione del parere previsto dall’art.
32), che resta invece esclusa nella seconda ipotesi, ai
sensi del successivo art. 33, comma 1, lett. d); ciò in
quanto l’art. 32, comma 4 –nella versione vigente ratione
temporis- consente la sanatoria –tra le altre ipotesi–
per le opere abusive “in contrasto con le norme del D.M.
01.04.1968 ... sempre che le opere stesse non costituiscano
minaccia alla sicurezza del traffico” (lett. c), quando
esse siano “... insistenti su aree vincolate dopo la loro
esecuzione ...”, sicché soltanto in tale caso, attesa la
natura «relativa» del vincolo (ai fini della
sanatoria), l’Amministrazione deve darsi carico di
verificare che le opere “... non costituiscano minaccia
alla sicurezza del traffico”, mentre per gli interventi
realizzati dopo l’imposizione del vincolo opera la
preclusione assoluta di cui all’art. 33, comma 1 (cfr., TAR
Emilia Romagna, Parma, sez. I, 26.01.2006, n. 22)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2013 n. 405 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
Non è necessaria la concessione edilizia (oggi
permesso di costruire) per modeste recinzioni di fondi
rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione
con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e
senza muretto di sostegno.
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
“ius excludendi alios”, e non comporta di norma
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a
differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione
stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo
ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di
elementi non strettamente necessari alla sua primaria
funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in
calcestruzzo lungo tutto il perimetro.
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai
relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella
recinzione non costituita da una semplice rete, dà luogo a
trasformazione urbanistica tale da richiedere la concessione
edilizia (oggi permesso di costruire), con conseguente
legittima irrogazione della sanzione ripristinatoria di cui
all’art. 7 della legge n. 47/1985, ove tale concessione non
sia stata rilasciata.
Privo di pregio è
anche l'ulteriore motivo, con cui il ricorrente sostiene che
“la recinzione in rete metallica di un fondo con cancello
di ingresso incorporato”, non raggiungendo la soglia di
rilevanza urbanistica, non necessiterebbe di titolo
concessorio e, conseguentemente, l’abusiva realizzazione
della stessa non sarebbe suscettibile di sanzione
ripristinatoria, ex art. 7 della legge n. 47/1985, ma solo
di sanzione pecuniaria; la questione, peraltro, sarebbe
stata definitivamente risolta dal D.L. 22.07.1996, n. 388,
vigente al momento dell’adozione dell’impugnato diniego, che
avrebbe sottoposto le recinzioni, muri di cinta e cancellate
a semplice denuncia di inizio di attività, prevedendo, in
assenza della DIA, l’irrogazione della sola sanzione
pecuniaria.
Va, innanzitutto, rilevato a riguardo che la recinzione per
cui è causa, secondo la descrizione fattane nella
dichiarazione allegata alla domanda di condono e nella
diffida a demolire, è in muratura (“costruzione dei muri
di recinzione del lotto con cancello su strada”), e che,
la sussistenza del vincolo di inedificabilità assoluta -per
sua natura incompatibile con ogni manufatto, che alteri lo
stato dei luoghi e sia destinato a soddisfare esigenze
costanti nel tempo, a prescindere dai materiali usati e
dalle tecniche costruttive– è di per sé sufficiente a
giustificarne la demolizione, unitamente al cancello nella
stessa incorporato.
Va, comunque, precisato, che, secondo la prevalente
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, non è necessaria la
concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per
modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e
cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno
(cfr., ex multis, TAR Veneto, sez. II, 07.03.2006, n.
533; TAR Campania, sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Emilia
Romagna, sez. II, 26.01.2007, n. 82).
Entro tali limiti, infatti, la recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius
excludendi alios”, e non comporta di norma
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a
differenza di altre e diverse ipotesi in cui la recinzione
stessa non assume solo la funzione ora descritta ma dà luogo
ad una trasformazione ulteriore mediante installazione di
elementi non strettamente necessari alla sua primaria
funzione, quali, ad esempio, un muretto di sostegno in
calcestruzzo lungo tutto il perimetro (cfr., ex multis,
TAR Basilicata, 19.09.2003, n. 897; TAR Liguria, I,
11.09.2002, n. 961; TAR Toscana, I, 26.03.2009, n. 521; TAR
Toscana, II, 13.10.2009, n. 1532).
Tale conclusione deve ritenersi applicabile anche ai
relativi cancelli, che ugualmente, se inseriti nella
recinzione non costituita da una semplice rete, dà luogo a
trasformazione urbanistica tale da richiedere la concessione
edilizia (oggi permesso di costruire) (cfr., TAR Lombardia,
Brescia, n. 574/2011; TAR Campania, VII, n. 1222/2009; TAR
Lazio, II, n. 8777/2008), con conseguente legittima
irrogazione della sanzione ripristinatoria di cui all’art. 7
della legge n. 47/1985, ove tale concessione non sia stata
rilasciata.
Né può fondatamente invocarsi l’applicazione del D.L. n.
388/1996, essendo l’ambito di operatività dello stesso
circoscritto alle nuove costruzioni e non a quelle già
realizzate oggetto di istanza di condono (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2013 n. 405 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: La
procedura del project financing
–disciplinata prima dagli articoli 37 e seguenti della legge
n. 109/1994 e successivamente dagli articoli 153 e seguenti
del d.lgs. n. 163/2006– risulta articolata in due fasi,
distinte ma strettamente connesse: la scelta del promotore,
caratterizzata da ampia discrezionalità amministrativa per
l’accoglimento della proposta, proveniente talvolta del
promotore stesso, alla stregua della già effettuata
programmazione delle opere pubbliche, con gara preliminare
per la valutazione comparativa delle diverse offerte,
seguita da eventuali modifiche progettuali e da rilascio
della concessione, ovvero da una ulteriore fase selettiva ad
evidenza pubblica (secondo le regole nazionali e
comunitarie) fra più aspiranti alla concessione in base al
progetto prescelto, con risorse totalmente o parzialmente a
carico dei soggetti proponenti. Quanto sopra, con
fattispecie a formazione progressiva, il cui scopo finale
(aggiudicazione della concessione, in base al criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa) è
interdipendente dalla fase prodromica di individuazione del
promotore.
Nella peculiare procedura, sopra sommariamente descritta,
così come in generale per ogni procedimento –selettivo o
meno– possono verificarsi interruzioni anche definitive,
connesse a provvedimenti assunti dall’Amministrazione in via
di autotutela, rapportati a vizi di legittimità, o a revoche
motivate da ragioni di interesse pubblico: queste ultime
–disciplinate in via generale dall’art. 21-quinquies della
legge 07.08.1990, n. 241, nel testo aggiunto dall’art. 14
della legge 11.2.2005, come successivamente modificato ed
integrato– possono corrispondere a sopravvenuti motivi di
pubblico interesse, a mutamento della situazione di fatto o
a nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Per il project financing, una disciplina peculiare in
materia di revoca è contenuta nell’art. 158 del citato
d.lgs. n. 163/2006, da considerare –sussistendone i
presupposti– lex specialis rispetto al predetto art.
21-quinquies L. n. 241/1990 (che parte della giurisprudenza
riteneva inapplicabile all’approvazione di un progetto
preliminare di project financing o alla fase di
aggiudicazione provvisoria, poiché riguardante –prima
dell’inserimento, con d.l. n. 7/2007, del comma 1-bis– i
soli provvedimenti ad efficacia durevole).
La questione sottoposta all’esame del
Collegio concerne una procedura di project financing,
avviata per la ricerca di offerenti, disponibili a
realizzare un’attrazione storico-scenografica sulla
distruzione di Pompei, da effettuare all’interno del noto
sito archeologico.
Detta procedura –disciplinata prima
dagli articoli 37 e seguenti della legge n. 109/1994 e
successivamente dagli articoli 153 e seguenti del d.lgs. n.
163/2006– risulta articolata in due fasi, distinte ma
strettamente connesse: la scelta del promotore,
caratterizzata da ampia discrezionalità amministrativa per
l’accoglimento della proposta, proveniente talvolta del
promotore stesso, alla stregua della già effettuata
programmazione delle opere pubbliche, con gara preliminare
per la valutazione comparativa delle diverse offerte,
seguita da eventuali modifiche progettuali e da rilascio
della concessione, ovvero da una ulteriore fase selettiva ad
evidenza pubblica (secondo le regole nazionali e
comunitarie) fra più aspiranti alla concessione in base al
progetto prescelto, con risorse totalmente o parzialmente a
carico dei soggetti proponenti. Quanto sopra, con
fattispecie a formazione progressiva, il cui scopo finale
(aggiudicazione della concessione, in base al criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa) è
interdipendente dalla fase prodromica di individuazione del
promotore (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 28.01.2012, n. 1; Cons.
St., sez. V, 06.10.2010, n. 7334, 08.02.2011, n. 843, 07.04.2011,
n. 2154; Cons. St., sez. IV, 26.01.2009, n. 391).
Nella peculiare procedura, sopra sommariamente descritta,
così come in generale per ogni procedimento –selettivo o
meno– possono verificarsi interruzioni anche definitive,
connesse a provvedimenti assunti dall’Amministrazione in via
di autotutela, rapportati a vizi di legittimità, o a revoche
motivate da ragioni di interesse pubblico: queste ultime –disciplinate in via generale dall’art. 21-quinquies della
legge 07.08.1990, n. 241, nel testo aggiunto dall’art. 14
della legge 11.2.2005, come successivamente modificato ed
integrato– possono corrispondere a sopravvenuti motivi di
pubblico interesse, a mutamento della situazione di fatto o
a nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (cfr.
anche, per il principio, Cons. St., sez. VI, 17.03.2010, n.
1554; Cons. St., sez. V, 06.10.2010, n. 7334 e 06.12.2010, n.
8554).
Per il project financing, una disciplina peculiare in
materia di revoca è contenuta nell’art. 158 del citato
d.lgs. n. 163/2006, da considerare –sussistendone i
presupposti– lex specialis rispetto al predetto art. 21-quinquies L. n. 241/1990 (che parte della giurisprudenza
riteneva inapplicabile all’approvazione di un progetto
preliminare di project financing o alla fase di
aggiudicazione provvisoria, poiché riguardante –prima
dell’inserimento, con d.l. n. 7/2007, del comma 1-bis– i
soli provvedimenti ad efficacia durevole: cfr. Cons. St.,
sez. VI, 17.03.2010, n. 1554)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2013 n. 1315 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: L'art.
167, comma 5, d.lgs. 42/2004 prevede, rispetto alla
definizione dell’istanza di compatibilità paesaggistica, la
previa adozione di un parere vincolante da parte della
Soprintendenza.
In proposito, l’art. 10-bis va qualificato quale norma di
principio, cosicché l’obbligo di valutare le osservazioni
presentate deve essere oggetto di coerente conseguente
inquadramento; quindi, è evidente che l’organo chiamato in
via sostanziale a decidere in merito alla discussa
compatibilità, cioè colui che esprime il parere vincolante
da cui l’amministrazione finale procedente non può
discostarsi, deve essere messo in condizione di valutare
tutti gli aspetti emersi nel procedimento e rilevanti ai
fini di definizione della pratica, tra i quali non possono
non essere inseriti gli apporti conseguenti all’esercizio di
obblighi (di comunicazione e di valutazione da parte della
p.a.) e prerogative (di osservazioni del privato)
procedimentali aventi il predetto carattere di principio.
Al riguardo, se in linea generale tale opzione ermeneutica
appare l’unica conforme alla natura di principio delle
regole invocate, le quali altrimenti opinando si
troverebbero ad essere frustrate nei rispettivi fini, in
linea particolare, a conferma di ciò, nell’ambito della
disciplina del codice dei beni culturali anche nel parallelo
meccanismo ordinario ex art. 146, la fase ex art. 10-bis è
collegata direttamente al ruolo della soprintendenza.
In assenza di tale doveroso passaggio, gli elementi
acquisiti nel merito in sede procedimentale finiscono con
l’essere valutati non dall’organo titolare del potere
decisorio sostanziale ma solo dall’amministrazione titolare
del potere formale di chiusura del procedimento, la quale
assume un ruolo di supplenza e sostituzione non previsto
dalla norma, così come correttamente intesa anche nel
riparto di competenza derivante dallo stesso riparto
costituzionale, che attribuisce allo Stato la competenza
primaria ed esclusiva in tema di tutela dei beni culturali e
paesaggistici.
In definitiva, la natura sostanzialmente decisoria del
parere vincolante assume connotati tali da imporre
l’analisi, in capo allo stesso organo chiamato a dare
l’indicazione da cui non ci si può discostare, di tutti gli
elementi rilevanti nella specie.
Come noto, la norma applicata (art. 167, comma 5)
prevede, rispetto alla definizione dell’istanza di
compatibilità paesaggistica, la previa adozione di un parere
vincolante da parte della Soprintendenza.
In proposito, costituisce jus receptum quello per cui l’art.
10-bis (al pari delle indicazioni ivi contenute e dei
relativi doveri), va qualificato quale norma di principio
(cfr. ad es. Tar Liguria n. 286/2012), cosicché l’obbligo di
valutare le osservazioni presentate deve essere oggetto di
coerente conseguente inquadramento; quindi, è evidente che
l’organo chiamato in via sostanziale a decidere in merito
alla discussa compatibilità, cioè colui che esprime il
parere vincolante da cui l’amministrazione finale procedente
non può discostarsi, deve essere messo in condizione di
valutare tutti gli aspetti (anche di dettaglio, come le
altezze richiamate in sede di osservazioni) emersi nel
procedimento e rilevanti ai fini di definizione della
pratica, tra i quali non possono non essere inseriti gli
apporti conseguenti all’esercizio di obblighi (di
comunicazione e di valutazione da parte della p.a.) e
prerogative (di osservazioni del privato) procedimentali
aventi il predetto carattere di principio.
Al riguardo, se in linea generale tale opzione ermeneutica
appare l’unica conforme alla natura di principio delle
regole invocate, le quali altrimenti opinando si
troverebbero ad essere frustrate nei rispettivi fini, in
linea particolare, a conferma di ciò, nell’ambito della
disciplina del codice dei beni culturali anche nel parallelo
meccanismo ordinario ex art. 146, la fase ex art. 10-bis è
collegata direttamente al ruolo della soprintendenza.
In assenza di tale doveroso passaggio, gli elementi
acquisiti nel merito in sede procedimentale finiscono con
l’essere valutati non dall’organo titolare del potere
decisorio sostanziale ma solo dall’amministrazione titolare
del potere formale di chiusura del procedimento, la quale
assume un ruolo (come nella specie) di supplenza e
sostituzione non previsto dalla norma, così come
correttamente intesa anche nel riparto di competenza
derivante dallo stesso riparto costituzionale, che
attribuisce allo Stato la competenza primaria ed esclusiva
in tema di tutela dei beni culturali e paesaggistici.
In definitiva, la natura sostanzialmente decisoria del
parere vincolante assume connotati tali da imporre
l’analisi, in capo allo stesso organo chiamato a dare
l’indicazione da cui non ci si può discostare, di tutti gli
elementi rilevanti nella specie. Al riguardo, seppur resa in
diversa fattispecie, va ribadita l’indicazione di principio
già fornita dal Tribunale (cfr. sentenza n. 1922/2011
correttamente richiamata da parte ricorrente) .
Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso
appare fondato nei limiti indicati, con conseguente
necessità di acquisire l’avviso della Soprintendenza in
ordine alle osservazioni proposte in sede di replica alla
comunicazione dei motivi ostativi
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
04.03.2013 n. 402 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nel ricorso proposto per
l’annullamento di un piano attuativo in variante di piano
regolatore, approvato dal Comune ma predisposto ad
iniziativa di parte, i soggetti promotori dell’intervento
edificatorio assumono la veste di controinteressati
agevolmente identificabili dagli atti del procedimento in
quanto presentatori del progetto, con la conseguenza che il
ricorso è inammissibile ove non sia stato ad essi
tempestivamente notificato.
---------------
Questo Consesso ha sottolineato la distinzione tra la
fattispecie dei piani ad esclusiva iniziativa e formazione
della p.a. –aventi natura di atti amministrativi
autoritativi– e quella in cui l’iniziativa è assunta invece
dai privati, per affermare che in tale ultima ipotesi si è
in presenza di atti avente natura negoziale con assunzione
di obbligazioni reciproche ed espressione di scelte
concordate: in questi casi, la posizione del privato
promotore è anche quella del soggetto che ha dato avvio al
procedimento, il quale assume quindi la qualità di parte
necessaria del procedimento stesso cui deve essere
notificata l’iniziativa giurisdizionale.
Ed invero, sul punto giova richiamare il più recente orientamento secondo
cui, nel ricorso proposto per l’annullamento di un piano
attuativo in variante di piano regolatore, approvato dal
Comune ma predisposto ad iniziativa di parte, i soggetti
promotori dell’intervento edificatorio assumono la veste di controinteressati agevolmente identificabili dagli atti del
procedimento in quanto presentatori del progetto, con la
conseguenza che il ricorso è inammissibile ove non sia stato
ad essi tempestivamente notificato (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 17.05.2012, nr. 2839; id., 17.07.2009, nr.
4473).
Ciò premesso, appare evidente che gli arresti richiamati
nella sentenza impugnata sono certamente validi nell’ipotesi
di approvazione di piani regolatori generali, in cui l’agire
pubblico è esclusivamente inteso a predisporre un ordinato
assetto del territorio comunale prescindendo dalle posizioni
dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o svantaggi che
ad essi possano derivare dalla pianificazione; a questa
ipotesi non è però sovrapponibile quella di un piano
esecutivo predisposto a iniziativa di parte, nella quale si
configurano dei titolari di posizioni specifiche
direttamente incise dall’operato dell’Amministrazione,
individuabili nei soggetti promotori del progetto confluito
nello strumento approvato, che dalla eventuale caducazione
di quest’ultimo riceverebbero una diretta e immediata
lesione degli interessi qualificati di cui sono portatori.
Questo Consesso in sede consultiva ha poi sottolineato la
distinzione tra la fattispecie dei piani ad esclusiva
iniziativa e formazione della p.a. –aventi natura di atti
amministrativi autoritativi– e quella in cui l’iniziativa è
assunta invece dai privati, per affermare che in tale ultima
ipotesi si è in presenza di atti avente natura negoziale con
assunzione di obbligazioni reciproche ed espressione di
scelte concordate: in questi casi, la posizione del privato
promotore è anche quella del soggetto che ha dato avvio al
procedimento, il quale assume quindi la qualità di parte
necessaria del procedimento stesso cui deve essere
notificata l’iniziativa giurisdizionale (cfr. Cons. Stato,
Ad. Gen., 21.11.1991, nr. 141) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.02.2013 n. 1097 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Qualora gli accordi di programma comportino
varianti urbanistiche, l’accordo di programma sottoscritto
dal Sindaco non acquista efficacia se non è approvato dal
competente Consiglio Comunale nel termine di decadenza di
trenta giorni ex art. 34, d.lgs. nr. 267 del 2000; con la
conseguenza che, essendo nelle more dell’approvazione
l’accordo di programma inefficace e non esecutivo, il
termine per la sua impugnazione decorre, ove non sia
necessaria la notifica individuale, dalla pubblicazione
della delibera consiliare, ferma restando la necessità di
impugnare contestualmente anche l’accordo.
Al riguardo, giova
richiamare l’indirizzo giurisprudenziale in materia di
accordi di programma, dal quale questa Sezione non ravvisa
ragione per discostarsi, secondo cui, qualora questi
comportino varianti urbanistiche, l’accordo di programma
sottoscritto dal Sindaco non acquista efficacia se non è
approvato dal competente Consiglio Comunale nel termine di
decadenza di trenta giorni ex art. 34, d.lgs. nr. 267 del
2000; con la conseguenza che, essendo nelle more
dell’approvazione l’accordo di programma inefficace e non
esecutivo, il termine per la sua impugnazione decorre, ove
non sia necessaria la notifica individuale, dalla
pubblicazione della delibera consiliare, ferma restando la
necessità di impugnare contestualmente anche l’accordo (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 21.11.2005, nr. 6467; id., 09.10.2002, nr. 5365).
Da questi principi ben potrebbe desumersi, come fanno le
parti odierne appellanti, la carenza di autonoma lesività
nel mero verbale di una Conferenza di servizi istruttoria,
dovendo le relative determinazioni essere recepite
nell’accordo di programma e nei successivi atti
amministrativi di approvazione di esso.
E, difatti, l’orientamento largamente prevalente –anche in
relazione all’assetto normativo anteriore alle modifiche
intervenute dal 2005 in poi sugli artt. 14 e segg. della
legge 07.08.1990, nr. 241 (non applicabili ratione
temporis alla fattispecie che qui occupa)– attribuisce alle
determinazioni della Conferenza natura meramente endoprocedimentale, desumendone che esse vanno impugnate
unitamente al provvedimento conclusivo del procedimento in
cui si inseriscono (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09.11.2011, nr. 5921; id., 31.01.2011, nr. 712; id.,
09.11.2010, nr. 7981; id., 03.12.2009, nr. 7570;
id., 11.11.2008, nr. 5620).
Parte appellata contesta siffatte conclusioni, appellandosi
a un pur esistente (ancorché minoritario) indirizzo che
riconosce il carattere autonomamente lesivo, e quindi
l’autonoma impugnabilità, del verbale conclusivo della
Conferenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, nr.
3361); e tuttavia, anche a voler seguire questa impostazione
le conclusioni non mutano se non sul piano nominalistico,
dovendo addivenirsi a declaratoria di improcedibilità del
ricorso, piuttosto che di sua inammissibilità.
E difatti, anche a convenire sull’autonoma lesività delle
determinazioni della Conferenza di servizi, non v’ha dubbio,
per quanto si è fin qui osservato, che la loro definitività
è condizionata dal loro recepimento negli atti conclusivi
del procedimento (id est, nell’accordo di programma e nei
relativi atti approvativi), ben potendo accadere che per
qualsiasi motivo l’accordo non venga sottoscritto, o
comunque che il deliberato della Conferenza non sia recepito
in un formale ed efficace provvedimento conclusivo.
Ne discende, per converso, che laddove tale provvedimento vi
sia esso va necessariamente a sua volta impugnato,
comportando l’omissione di tale adempimento
l’improcedibilità della precedente impugnativa (alla stessa
stregua di quanto avviene, ad esempio, per l’impugnativa
dell’aggiudicazione provvisoria di una gara d’appalto che
non sia seguita da quella dell’aggiudicazione definitiva) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.02.2013 n. 1097 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In via generale, per gli
strumenti urbanistici il termine di impugnazione è ancorato
alla data di loro pubblicazione, e non alla data in cui il
ricorrente ne abbia avuto piena conoscenza.
Più specificamente, per i piani particolareggiati si applica
l’art. 16 della legge 17.08.1942, nr. 1150, alla cui stregua
la notificazione individuale è dovuta solo per i proprietari
delle aree vincolate allo scopo di realizzare opere
pubbliche, in relazione alle quali il comma 9 della citata
norma prevede che l’approvazione del piano equivale a
dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso
previste (costituendo quindi avvio della procedura
espropriativa), mentre per gli altri casi, nei quali non
trova applicazione il detto obbligo di notifica, il termine
per impugnare decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione
del provvedimento presso l’Albo pretorio del Comune, secondo
i comuni principi.
Su quest’ultimo punto, per completezza espositiva va
segnalata l’esistenza di altro orientamento che estende
l’obbligo di notifica individuale a tutti i proprietari di
suoli ricompresi nel perimetro del piano attuativo.
La Sezione non può
condividere tale conclusione, la quale si pone in frontale
contrasto col consolidato indirizzo giurisprudenziale, alla
cui stregua:
- in via generale, per gli strumenti urbanistici il termine
di impugnazione è ancorato alla data di loro pubblicazione,
e non alla data in cui il ricorrente ne abbia avuto piena
conoscenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, nr.
1868; id., 12.06.2009, nr. 3730);
- più specificamente, per i piani particolareggiati si
applica l’art. 16 della legge 17.08.1942, nr. 1150, alla
cui stregua la notificazione individuale è dovuta solo per i
proprietari delle aree vincolate allo scopo di realizzare
opere pubbliche, in relazione alle quali il comma 9 della
citata norma prevede che l’approvazione del piano equivale a
dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso
previste (costituendo quindi avvio della procedura
espropriativa), mentre per gli altri casi, nei quali non
trova applicazione il detto obbligo di notifica, il termine
per impugnare decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione
del provvedimento presso l’Albo pretorio del Comune, secondo
i comuni principi (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI,
06.07.2010, nr. 4289).
Su quest’ultimo punto, per completezza espositiva va
segnalata l’esistenza di altro orientamento che estende
l’obbligo di notifica individuale a tutti i proprietari di
suoli ricompresi nel perimetro del piano attuativo (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 13.12.2005, nr. 7054)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.02.2013 n. 1097 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’intervento per realizzare un sedime stradale
non può certamente rappresentare operazione disciplinante
una intera zona del territorio comunale che, in quanto
conformativa in termini generali, permette di escludere la
previsione di indennizzo.
Alla prima doglianza deve darsi soluzione negativa, avendo il TAR del
tutto correttamente ripercorso l’evoluzione
giurisprudenziale e normativa, sino ai principi dettati
dalla Corte costituzionale (sent. n. 179/1999), sulla
ribadita necessità di una previsione di indennizzo da parte
dei provvedimenti che rinnovino motivatamente un vincolo
preordinato all’espropriazione o anche “sostanzialmente
espropriativo”. Per tale ragione il TAR ha validamente
ritenuto illegittime le deliberazioni impugnate che, pur
reiterando la previsione espropriativa e del vincolo,
cionondimeno non hanno incluso la necessaria previsione
giuridica dell’indennizzo (in questo senso v. fra le molte,
Cass. civ., Sez. I, sent. n. 1754 del 26-01-2007).
Né a
contrasto del consolidato orientamento seguito dal TAR, può
argomentarsi che la citata sentenza della Corte è
intervenuta successivamente al momento di adozione degli
atti gravati e della proposizione del ricorso. Ed invero è
principio consolidato che la sentenza della Corte che
sopravvenga in corso di giudizio deve essere recepita dal
giudice di merito, il quale è tenuto a farne applicazione
regolando il caso secondo le indicazioni emergenti dalla
pronunzia (per il principio v. tra le altre, Cons. di
Stato, sez. IV, n. 1495/2000).
Neppure potrebbe in contrario obiettarsi che il
procedimento espropriativo, in vista del quale il vincolo
viene inserito, non ha poi avuto alcun corso, poiché tale
circostanza non elimina il fatto oggettivo che, sino
all’esito (anche negativo) del procedimento per il quale
viene imposto, il vincolo esplica ugualmente i suoi effetti
limitativi dell’attitudine e quindi del valore dell’area
privata che lo subisce.
Parimenti non condivisibile è infine l’interpretazione (v.p. 5
memoria 06.11.2012) che pretende di configurare il vincolo in
questione come urbanistico-conformativo per dedurre da tale
natura la non indennizzabilità (cfr. Cons. di Stato, sez IV,
n. 4606/2008 e n. 1765/2009); ed invero l’intervento per
realizzare un sedime stradale non può certamente
rappresentare operazione disciplinante una intera zona del
territorio comunale che, in quanto conformativa in termini
generali, permette di escludere la previsione di indennizzo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.02.2013 n. 1021 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 4 della legge 10 del 1977,
vigente all’epoca, disponeva, infatti, al terzo comma che
“nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio
e di ultimazione dei lavori”, nel mentre nel susseguente
quarto comma disponeva che “il termine per l’inizio dei
lavori non può essere superiore ad un anno”, che “il termine
di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile
o agibile, non può essere superiore a tre anni”, e
disciplinava quindi le ipotesi di proroga della concessione
stessa.
Nel quinto comma disponeva –altresì– che “qualora i lavori
non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario
deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova
concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la
parte non ultimata”, nel mentre nel sesto comma, quale norma
di chiusura del “sistema”, stabiliva che la concessione era
“irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi
della presente legge” e le sanzioni previste dall'articolo
15 della stessa.
Risulta ben evidente, pertanto, che in tale contesto, non
ravvisandosi la presenza di una norma che imponesse
l’emanazione di un provvedimento di decadenza della
concessione edilizia per mancata osservanza del termine di
inizio dei lavori, la stessa si è verificata di diritto a
seguito dell’infruttuoso decorso del termine prefissato.
Nel caso di specie, l’originaria concessione edilizia è,
infatti, decaduta di diritto, non avendo la concessionaria
iniziato ed ultimato il basso fabbricato nei termini
stabiliti.
L’art. 4 della legge 10 del 1977, vigente all’epoca,
disponeva, infatti, al terzo comma che “nell’atto di
concessione sono indicati i termini di inizio e di
ultimazione dei lavori”, nel mentre nel susseguente quarto
comma disponeva che “il termine per l’inizio dei lavori non
può essere superiore ad un anno”, che “il termine di
ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o
agibile, non può essere superiore a tre anni”, e
disciplinava quindi le ipotesi di proroga della concessione
stessa.
Nel quinto comma disponeva –altresì– che “qualora i lavori
non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario
deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova
concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la
parte non ultimata”, nel mentre nel sesto comma, quale norma
di chiusura del “sistema”, stabiliva che la concessione era
“irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi
della presente legge” e le sanzioni previste dall'articolo
15 della stessa.
Risulta ben evidente, pertanto, che in tale contesto, non
ravvisandosi la presenza di una norma che imponesse
l’emanazione di un provvedimento di decadenza della
concessione edilizia per mancata osservanza del termine di
inizio dei lavori, la stessa si è verificata di diritto a
seguito dell’infruttuoso decorso del termine prefissato (in
termini C.d.S., IV, 18.05.2012, n. 2915).
La concessionaria avrebbe dovuto, pertanto, munirsi di un
nuovo titolo edilizio e non limitarsi a chiedere, nell’anno
2001, il nulla osta per la costruzione al Presidente della
IV Circoscrizione ovvero ad un soggetto privo di specifiche
competenze in materia.
Ne deriva, conseguentemente, che anche l’affidamento dalla
medesima riposto sull’assentibilità delle opere realizzate e
soprattutto sulla possibilità di mantenerle in essere deve
ritenersi non meritevole di tutela.
L’affidamento tutelabile è, infatti, unicamente quello
incolpevole e tale non può ritenersi quello di colui che ha
realizzato un’opera edilizia in assenza dei prescritti
titoli autorizzativi, viepiù quando, come nel caso di
specie, l’Amministrazione, sin dalla fase dell’esecuzione,
ha evidenziato al soggetto interessato la presunta
violazione alle norme urbanistico-edilizie (vedi relazione
Polizia Municipale in data 15.05.2003 – all. 3 fascicolo
doc. Comune) e a soli tre anni di distanza lo ha diffidato a
demolire le opere realizzate in assenza di concessione
edilizia e a ripristinare lo stato dei luoghi (vedi provv.
14.06.2006 – all. 1 fascicolo ricorrente), previo
diniego del permesso di costruire in sanatoria nel frattempo
dallo stesso invocato (vedi provv. 19.12.2005 – all. 2
fascicolo cit.).
Non pare, dunque, condivisibile l’assunto della ricorrente,
secondo il quale sarebbe stata la stessa Amministrazione ad
indurla a confidare sulla legittimità del proprio operato
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 18.01.2013 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’ordine di demolizione emesso “a distanza di tempo”.
Gli illeciti in
materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano
nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni
e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti,
caratterizzati dall’omissione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, di
talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di
illiceità, vale a, dire con il conseguimento delle
prescritte autorizzazioni in sanatoria, paesaggistiche o
urbanistico-edilizie, oppure con il ripristino dello stato
dei luoghi.
Ne deriva che l’Autorità, se emana un provvedimento
repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una
sanzione pecuniaria), non emana un atto “a distanza di
tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica
contestualmente contra jus, ancora sussistente.
La giurisprudenza amministrativa è, invero, consolidata nel
ritenere che “il potere repressivo può essere esercitato
senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in
ordine al ritardo nell’esercizio del potere”.
Osserva, inoltre, il Collegio che gli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella
realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e
autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti,
caratterizzati dall’omissione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, di
talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di
illiceità, vale a, dire con il conseguimento delle
prescritte autorizzazioni in sanatoria, paesaggistiche o
urbanistico-edilizie, oppure con il ripristino dello stato
dei luoghi (ex multis C.d.S., IV, n. 1464/2009; C.d.S., VI;
n. 1255/2007; C.d.S., V, n. 4420/2006).
Ne deriva che l’Autorità, se emana un provvedimento
repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una
sanzione pecuniaria), non emana un atto “a distanza di
tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica
contestualmente contra jus, ancora sussistente (C.d.S., VI,
n. 528/2006; C.d.S., IV, n. 2529/2004).
La giurisprudenza amministrativa è, invero, consolidata nel
ritenere che “il potere repressivo può essere esercitato
senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in
ordine al ritardo nell’esercizio del potere” (C.d.S., IV, 16.04.2010, n. 2160; C.d.S., V, 13.07.2006, n. 4420;
C.d.S., IV, 02.06.2000, n. 3184)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 18.01.2013 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In presenza del generale obbligo di custodia dei
documenti di una gara pubblica da parte della stazione
appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto
con l'adozione delle ordinarie garanzie di conservazione
degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità
ed integrità dei relativi plichi. In tal caso, la generica
doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte, non
sarebbero state adeguatamente custodite è irrilevante
allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto e
specifico atto a far ritenere che si possa esser verificata
la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la
manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al
fini della regolarità della procedura.
Per altro verso, non nega il Collegio che sussista un
preciso obbligo, per la stazione appaltante, di predisporre
adeguate cautele a tutela dell'integrità dei predetti
plichi. Questo, pur in mancanza di precise norme positive al
riguardo, discende necessariamente dalla stessa ratio che
sorregge e giustifica il ricorso alla gara ad evidenza
pubblica. Infatti, di per sé l'integrità dei plichi
contenenti le offerte dei partecipanti all'incanto è uno
degli elementi sintomatici della segretezza di queste e
della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il
rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità
consacrati dall'art. 97 Cost..
È ben consapevole tuttavia il Collegio che la mera
affermazione, senza indicazione a verbale d’una qualche
misura acconcia a garantire la continuità della
conservazione dei plichi, di manomissioni giammai avvenute
potrebbe di fatto risolversi in una probatio diabolica, a
carico dell'impresa interessata, in ordine alla non
genuinità della documentazione esaminata. Invero, lasciare
al seggio di gara il mero assunto della perfetta regolarità
delle operazioni su documenti intatti, senza ulteriori
precisazioni, appare altrettanto nocivo quanto l’astratta
asserzione dell’omessa verbalizzazione della custodia, con
conseguente ineluttabile declaratoria d’illegittimità
dell’intera gara. Nell’un caso, per vero, sarebbe in pratica
se non impossibile, certo molto complesso dimostrare in modo
rigoroso tal manomissione e, quindi, ottenere la
corrispondente tutela; nell’altro caso, la mera allegazione
di un qualunque difetto di verbalizzazione, su rigide
modalità di custodia dei plichi, ridondi sempre e senza
rimedio in danno alla trasparenza dell’azione
amministrativa, determinando l’annullamento della gara, al
di là d’ogni diversa situazione di fatto.
Pare allora al Collegio che una più cauta e seria linea
interpretativa o, meglio, integrativa dell’art. 78 del Dlgs
163/2006 serva ad offrire all’interessato non già una sorta
d’inversione dell’onere della prova da questi alla stazione
appaltante, bensì una più precisa distribuzione di tal onere
tra i due soggetti del rapporto procedimentale. Tanto
affinché tal integrazione non si risolva nella distorsione
dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività
amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non,
addirittura, in un controllo meramente formale della
verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti.
In pratica, la stazione appaltante ha la piena disponibilità
e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti
di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può
subito accedere, giusta quanto stabilito dal’art. 13, c. 2,
del Dlgs 163/2006. Sicché essa ha l’onere di dimostrare, a
fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva
dell’interessato circa un effetto di non genuinità degli
atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea
contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto
adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale
(che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni
idoneo mezzo di prova. Nella specie, l’appellante
incidentale non ha dedotto fatti e circostanze suscettibili
di generare un ragionevole dubbio sull’inidoneità della
conservazione dei plichi da parte dell’ASL appellante
principale, mentre questa ha fornito alcuni precisi principi
di prova contraria.
La Sezione sul punto ha già chiarito (cfr. Cons. St., III, 02.08.2012 n. 4422; id., 21.09.2012 n. 5050) che, in
presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di
una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da
presumere che lo stesso sia stato assolto con l'adozione
delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti
amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità
dei relativi plichi. In tal caso, la generica doglianza,
secondo cui le buste contenenti le offerte, non sarebbero
state adeguatamente custodite è irrilevante allorché non sia
stato addotto alcun elemento concreto e specifico atto a far
ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la
sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle
offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità
della procedura.
Per altro verso, non nega il Collegio che sussista un
preciso obbligo, per la stazione appaltante, di predisporre
adeguate cautele a tutela dell'integrità dei predetti
plichi. Questo, pur in mancanza di precise norme positive al
riguardo, discende necessariamente dalla stessa ratio che
sorregge e giustifica il ricorso alla gara ad evidenza
pubblica. Infatti, di per sé l'integrità dei plichi
contenenti le offerte dei partecipanti all'incanto è uno
degli elementi sintomatici della segretezza di queste e
della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il
rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità
consacrati dall'art. 97 Cost.
Nondimeno, nella specie, dà atto il TAR che, come
verbalizzato, il RUP ha disposto di «…custodire i plichi
contenenti le offerte tecniche… fino alla individuazione
della commissione giudicatrice che dovrà valutarle, ed alla
conseguente trasmissione degli atti di gara alla stessa…».
Inoltre, egli ha dichiarato a verbale di conservare tali
offerte e le buste delle offerte economiche in un armadio
chiuso, presso la sede dell’UOS Politiche approvvigionamenti
dell’Azienda. Né basta: dai verbali delle operazioni
s’evince, di volta in volta, l’apertura di plichi intonsi,
nonché la firma apposta sulla prima pagina, da parte
d’almeno un componente del seggio di gara, di tutti i
documenti esaminati in seduta riservata. Reputa, dunque, il
Collegio che siffatte operazioni dimostrino, al di là della
minore o maggior solennità nell’indicazione in verbale di
quali accorgimenti adoperati per preservare detti plichi,
che di possibili manomissioni non sussistano indizi di
sorta, donde la sufficienza in concreto delle cautele poste
in essere.
È ben consapevole tuttavia il Collegio che la mera
affermazione, senza indicazione a verbale d’una qualche
misura acconcia a garantire la continuità della
conservazione dei plichi, di manomissioni giammai avvenute
potrebbe di fatto risolversi in una probatio diabolica, a
carico dell'impresa interessata, in ordine alla non
genuinità della documentazione esaminata. Invero, lasciare
al seggio di gara il mero assunto della perfetta regolarità
delle operazioni su documenti intatti, senza ulteriori
precisazioni, appare altrettanto nocivo quanto l’astratta
asserzione dell’omessa verbalizzazione della custodia, con
conseguente ineluttabile declaratoria d’illegittimità
dell’intera gara. Nell’un caso, per vero, sarebbe in pratica
se non impossibile, certo molto complesso dimostrare in modo
rigoroso tal manomissione e, quindi, ottenere la
corrispondente tutela; nell’altro caso, la mera allegazione
di un qualunque difetto di verbalizzazione, su rigide
modalità di custodia dei plichi, ridondi sempre e senza
rimedio in danno alla trasparenza dell’azione
amministrativa, determinando l’annullamento della gara, al
di là d’ogni diversa situazione di fatto.
Pare allora al Collegio che una più cauta e seria linea
interpretativa o, meglio, integrativa dell’art. 78 del Dlgs
163/2006 serva ad offrire all’interessato non già una sorta
d’inversione dell’onere della prova da questi alla stazione
appaltante, bensì una più precisa distribuzione di tal onere
tra i due soggetti del rapporto procedimentale. Tanto
affinché tal integrazione non si risolva nella distorsione
dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività
amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non,
addirittura, in un controllo meramente formale della
verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti.
In pratica, la stazione appaltante ha la piena disponibilità
e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti
di gara (arg. ex Cons. St., III, 03.03.2011 n. 1368), cui
in corso del procedimento l’interessato non può subito
accedere, giusta quanto stabilito dal’art. 13, c. 2, del Dlgs
163/2006. Sicché essa ha l’onere di dimostrare, a fronte di
una seria e non emulativa allegazione presuntiva
dell’interessato circa un effetto di non genuinità degli
atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea
contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto
adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale
(che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni
idoneo mezzo di prova. Nella specie, l’appellante
incidentale non ha dedotto fatti e circostanze suscettibili
di generare un ragionevole dubbio sull’inidoneità della
conservazione dei plichi da parte dell’ASL appellante
principale, mentre questa ha fornito alcuni precisi principi
di prova contraria (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 14.01.2013 n. 145 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
comunicazione di avvio del procedimento non si impone
laddove il procedimento sia iniziato a seguito di istanza
del medesimo interessato.
---------------
L'omessa nomina del responsabile del procedimento non può ex
se assumere valenza di vizio procedimentale tale da condurre
all'illegittimità dell'atto, trattandosi di mera
irregolarità cui è possibile supplire considerando
responsabile il funzionario preposto alla competente unità
organizzativa, secondo quanto previsto dall'art. 5, comma 2,
l. n. 241 del 1990.
Il motivo è infondato, poiché la comunicazione
di avvio del procedimento non si impone laddove il
procedimento sia iniziato a seguito di istanza del medesimo
interessato (TAR, Campania, Napoli, Sez. VIII 05.05.2011
n. 2497), cosicché i provvedimenti di diniego del condono
edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione
dell'avvio del procedimento (C.S. Sez. IV 06.07.2012 n.
3969).
---------------
Il motivo è infondato,
poiché, a livello generale, l'omessa nomina del responsabile
del procedimento non può ex se assumere valenza di vizio
procedimentale tale da condurre all'illegittimità dell'atto,
trattandosi di mera irregolarità cui è possibile supplire
considerando responsabile il funzionario preposto alla
competente unità organizzativa, secondo quanto previsto
dall'art. 5, comma 2, l. n. 241 del 1990 (TAR Campania,
Napoli Sez. VII 09.07.2012 n. 3289).
In ogni caso, l'emanazione del provvedimento impugnato è in
realtà stata preceduta da valutazioni istruttorie, formulate
proprio dal "responsabile del servizio", il quale ha
altresì adottato il provvedimento finale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.01.2013 n. 62 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'onere
della prova, circa la data di realizzazione dell'immobile
abusivo da sanare, spetta a colui che ha commesso l'abuso, e
solo la deduzione da parte sua di concreti elementi che non
potrebbero peraltro limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il
suddetto onere in capo all'Amministrazione la quale, di
solito, non è invece materialmente in grado di accertare la
situazione dell'intero suo territorio alla data prevista
dalla legge.
Il privato che propone l'istanza di concessione edilizia in
sanatoria è invece normalmente in grado di fornire idonea
documentazione che comprovi l'ultimazione dell'abuso entro
la data di riferimento del 31.12.1993, a lui spettando
pertanto l'onere di fornire, quantomeno, un principio di
prova su tale ultimazione, in caso contrario restando
integro il potere dell'Amministrazione di non concedere il
condono e di irrogare la sanzione prescritta.
---------------
Non è necessaria l'acquisizione del parere della commissione
edilizia comunale nell'ipotesi di diniego di condono
edilizio, laddove non occorra procedere a valutazioni
tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera
alle prescrizioni normative.
---------------
I presupposti del procedimento di condono edilizio e di
quello di accertamento di conformità urbanistica sono non
solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (il
condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la
realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in
contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione
sostanziale), l'altro (sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985,
oggi art. 36, D.P.R. n. 380/2001), l'accertamento ex post
della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza
preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici
(violazione formale).
Nell'ipotesi di rigetto dell'istanza di condono non potrà
più sussistere alcun interesse alla riviviscenza della
domanda di accertamento di conformità, essendosi la materia
del contendere incentrata sulla condonabilità, ciò che
implica la non conformità urbanistica dell'abuso.
---------------
L'inammissibilità dell'impugnazione rivolta avverso il
diniego di sanatoria comporta infatti il consolidarsi degli
effetti di tale atto, rispetto al quale, la successiva
ingiunzione di demolizione, costituisce atto dovuto e
meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento
sanzionatorio sostanzialmente unitario.
Conseguentemente, l'autore di un abuso edilizio, che abbia
prestato acquiescenza al diniego di concessione di
costruzione in sanatoria decade dalla possibilità di
rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di
impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che
quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo
presupposto.
Pur essendo infatti in astratto possibile che un ordine di
demolizione, sia affetto da vizi propri, nella fattispecie
per cui è causa la ricorrente si limita a contestare il
detto provvedimento riproducendo i motivi di ricorso rivolti
avverso il pregresso diniego di sanatoria, tra l'altro
espressamente richiamato nella detta ingiunzione di
demolizione.
Osserva tuttavia il
Collegio come l'onere della prova, circa la data di
realizzazione dell'immobile abusivo da sanare, spetta a
colui che ha commesso l'abuso, e solo la deduzione da parte
sua di concreti elementi che non potrebbero peraltro
limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle
proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo
all'Amministrazione la quale, di solito, non è invece
materialmente in grado di accertare la situazione
dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge.
Il privato che propone l'istanza di concessione edilizia in
sanatoria è invece normalmente in grado di fornire idonea
documentazione che comprovi l'ultimazione dell'abuso entro
la data di riferimento del 31.12.1993, a lui spettando
pertanto l'onere di fornire, quantomeno, un principio di
prova su tale ultimazione, in caso contrario restando
integro il potere dell'Amministrazione di non concedere il
condono e di irrogare la sanzione prescritta (C.S. Sez. IV
13.01.2010 n. 45).
---------------
Con il terzo motivo si
lamenta l'omessa acquisizione del parere della Commissione
edilizia Comunale.
Anche tale motivo è infondato, non
essendo necessaria l'acquisizione del parere della
commissione edilizia comunale nell'ipotesi di diniego di
condono edilizio, laddove, come nel caso di specie, non
occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni
normative (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 17.07.2012 n. 563).
---------------
Con l'ultimo motivo la
ricorrente sostiene che, anche ove la richiesta di condono
non avesse potuto trovare accoglimento per difetto del
requisito temporale, essa avrebbe comunque dovuto essere
esaminata sotto il profilo della richiesta di concessione ex
art. 13 L. n. 47/1985 "essendo comunque evidente la volontà
del richiedente di ottenere, comunque, la sanatoria
dell'opera".
Il motivo è infondato, poiché in realtà i presupposti del
procedimento di condono edilizio e di quello di accertamento
di conformità urbanistica sono non solo diversi, ma anche
antitetici, atteso che l'uno (il condono edilizio) concerne
il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo
abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni
urbanistiche (violazione sostanziale), l'altro (sanatoria ex
art. 13 L. n. 47/1985, oggi art. 36, D.P.R. n. 380/2001),
l'accertamento ex post della conformità dell'intervento
edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli
strumenti urbanistici (violazione formale). Nell'ipotesi di
rigetto dell'istanza di condono non potrà più sussistere
alcun interesse alla riviviscenza della domanda di
accertamento di conformità, essendosi la materia del
contendere incentrata sulla condonabilità, ciò che implica
la non conformità urbanistica dell'abuso (TAR Campania,
Napoli Sez. VI 03.09.2010 n. 17282).
---------------
L'inammissibilità
dell'impugnazione rivolta avverso il diniego di sanatoria
comporta infatti il consolidarsi degli effetti di tale atto,
rispetto al quale, la successiva ingiunzione di demolizione,
costituisce atto dovuto e meramente consequenziale,
nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente
unitario (TAR Lazio, Roma, Sez. II 05.09.2012 n. 7570).
Conseguentemente, l'autore di un abuso edilizio, che abbia
prestato acquiescenza al diniego di concessione di
costruzione in sanatoria decade dalla possibilità di
rimettere in discussione l'abuso accertato in sede di
impugnazione dell'ordine di demolizione, atteso che
quest'ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo
presupposto (C.S. Sez. V 17.09.2008 n. 4446).
Pur essendo
infatti in astratto possibile che un ordine di demolizione,
sia affetto da vizi propri (TAR Puglia, Bari, Sez. II 02.09.2010 n. 3447), nella fattispecie per cui è causa la
ricorrente si limita a contestare il detto provvedimento
riproducendo i motivi di ricorso rivolti avverso il
pregresso diniego di sanatoria, tra l'altro espressamente
richiamato nella detta ingiunzione di demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.01.2013 n. 62 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In base
all’espressa disciplina di cui all'art. 35 della legge n.
47/1985, la presentazione della domanda di condono non
comporta in linea di principio, un potere-obbligo del Comune
di provvedervi, quando la domanda sia mancante delle
produzioni e degli allegati necessari.
---------------
Priva di fondamento è l’eccezione –sollevata dal ricorrente-
della prescrizione decennale degli oneri di urbanizzazione,
dovuti ai sensi della legge 1977 n. 10: il compimento del
termine prescrizionale postulerebbe l’inerzia del Comune,
talché esso non può decorrere nel periodo in cui l’ente
abbia svolto attività istruttorie, ai fini della concessione
della sanatoria.
E’ orientamento di
un’autorevole giurisprudenza ritenere che, in base
all’espressa disciplina di cui al citato art. 35 della legge
n. 47/1985, la presentazione della domanda di condono non
comporti, in linea di principio, un potere-obbligo del
Comune di provvedervi, quando la domanda sia mancante, come
nel caso di specie, delle produzioni e degli allegati
necessari (cfr.: Cons. Stato IV, 20.11.2012 n. 5884; idem V,
25.06.2002 n. 3441; idem V, 14.10.1998 n. 1468).
Se è vero
che la richiesta d’integrazione documentale datata
28.08.1997, a firma del dirigente dell’Ufficio tecnico
comunale, è rimasta parzialmente inevasa, l’inutile decorso
del tempo è attribuibile principalmente all’inerzia e alla
negligenza del ricorrente. Non si può, per contro, assumere
che il Comune abbia serbato sull’istanza di condono un
colpevole silenzio protrattosi fino al febbraio 2004.
Vi è di più: lo stesso art. 35, comma 17, stabilisce che
<<la domanda s’intende accolta, ove l’interessato provveda
al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a
conguaglio e alla presentazione all’Ufficio tecnico erariale
della documentazione necessaria all’accatastamento>>. Si può
anche affermare che il diritto al conguaglio si prescriva
nei 36 mesi successivi, come prevede la normativa in esame,
sennonché il ricorrente non fornisce alcuna prova della
presentazione all’U.t.e. della documentazione necessaria
all’accatastamento, limitandosi invece ad esibire al Comune
la ricevuta di accatastamento del fabbricato preesistente
(assentito con la c.e. 6/82). Tale circostanza costituisce
ulteriore ragione per il mancato decorso del termine di
maturazione del silenzio assenso e per la sospensione della
prescrizione del diritto al conguaglio delle somme dovute.
---------------
Priva di fondamento è,
altresì, l’eccezione –sollevata dal ricorrente- della
prescrizione decennale degli oneri di urbanizzazione, dovuti
ai sensi della legge 1977 n. 10: il compimento del termine
prescrizionale postulerebbe l’inerzia del Comune, talché
esso non può decorrere nel periodo in cui l’ente abbia
svolto attività istruttorie, ai fini della concessione della
sanatoria (cfr.: Cons. Stato IV, 03.10.2012 n. 5201; Tar
Calabria I, 26.10.2012 n. 641).
Il primo periodo di nove
anni è stato interrotto dall’attività istruttoria del 1997;
anche il secondo periodo prescrizionale di sei anni è stato
interrotto dall’attività del Comune, nel 2004
(TAR Molise,
sentenza 27.12.2012 n. 779 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nessuna
disposizione né di legge né di regolamento pone un divieto
assoluto di elementi di tipo economico nell’offerta tecnica.
Peraltro copiosa giurisprudenza ritiene vietata la
commistione tra offerta tecnica ed economica, al fine di
prevenire il suddetto pericolo che gli elementi economici
influiscano sulla previa valutazione dell’offerta tecnica,
in violazione del principio sotteso alle norme vigenti, di
segretezza dell’offerta economica fino al completamento
della valutazione delle offerte tecniche.
Ma anche la giurisprudenza (invocata dall’appellante) non si
spinge ad affermare il divieto assoluto di indicare elementi
economici all’interno dell’offerta tecnica, nel modo
rigoroso preteso dall’appellante.
La giurisprudenza si è occupata di casi
in cui in modo palese e vistoso risultava violato il
principio di segretezza dell’offerta economica fino al
completamento della fase di valutazione delle offerte
tecniche:
- in alcuni casi l’offerta tecnica era corredata del computo
estimativo contenente l’intera offerta economica;
- in alcuni casi l’offerta economica non era stata inserita
in apposita busta sigillata;
- in un caso l’offerta economica era stata erroneamente
inserita nella busta contenente la documentazione
amministrativa, che è quella che viene aperta per prima,
prima ancora della busta contenente l’offerta tecnica,
sicché palesemente l’offerta economica era divenuta nota
prima di quella tecnica;
- in alcuni la commissione aveva aperto la busta con
l’offerta economica prima di quella con l’offerta tecnica;
- in alcuni era stata la lex specialis a prevedere,
nell’ambito dell’offerta tecnica, elementi economici, talora
incidenti in percentuale rilevante, pari o superiore al 10%,
rispetto alla complessiva offerta economica.
Osserva il Collegio che lo stesso codice appalti,
nell’indicare gli elementi che compongono l’offerta tecnica,
indica voci che presentano elementi di tipo
quantitativo-economico, quali il contenimento dei consumi
energetici, il costo di utilizzazione e manutenzione, la
redditività (art. 83, comma 1, lett. e), f), g), d.lgs. n.
163/2006).
A sua volta il regolamento attuativo del codice appalti
prescrive che le offerte tecniche siano esaminate in seduta
segreta e che solo successivamente, in seduta pubblica,
siano esaminate le offerte economiche (art. 120 d.P.R. n.
207/2010).
Questo al precipuo fine di evitare che in sede di
valutazione delle offerte tecniche la commissione possa
essere influenzata da elementi di natura economica.
Come si vede, nessuna disposizione né di legge né di
regolamento pone un divieto assoluto di elementi di tipo
economico nell’offerta tecnica.
Peraltro copiosa giurisprudenza ritiene vietata la
commistione tra offerta tecnica ed economica, al fine di
prevenire il suddetto pericolo che gli elementi economici
influiscano sulla previa valutazione dell’offerta tecnica,
in violazione del principio sotteso alle norme vigenti, di
segretezza dell’offerta economica fino al completamento
della valutazione delle offerte tecniche.
Ma anche la giurisprudenza (invocata dall’appellante) non si
spinge ad affermare il divieto assoluto di indicare elementi
economici all’interno dell’offerta tecnica, nel modo
rigoroso preteso dall’appellante.
La giurisprudenza si è occupata di casi in cui in modo
palese e vistoso risultava violato il principio di
segretezza dell’offerta economica fino al completamento
della fase di valutazione delle offerte tecniche:
- in alcuni casi l’offerta tecnica era corredata del computo
estimativo contenente l’intera offerta economica (Cons. St.,
sez. V, 09.06.2009 n. 2575) ovvero una percentuale di essa
pari a circa il 10% (Cons. St., sez. V, 08.09.2010 n. 6509);
- in alcuni casi l’offerta economica non era stata inserita
in apposita busta sigillata (Cons. St., sez. V, 23.01.2007
n. 196; Cons. St., sez. VI, 17.07.2001 n. 3962);
- in un caso l’offerta economica era stata erroneamente
inserita nella busta contenente la documentazione
amministrativa, che è quella che viene aperta per prima,
prima ancora della busta contenente l’offerta tecnica,
sicché palesemente l’offerta economica era divenuta nota
prima di quella tecnica (Cons. St., sez. VI, 12.12.2002 n.
6795);
- in alcuni la commissione aveva aperto la busta con
l’offerta economica prima di quella con l’offerta tecnica
(Cons. St., sez. VI, 10.07.2002 n. 3848; Id., sez. V,
31.12.1998 n. 1996; Id., sez. VI, 03.06.1997 n. 839);
- in alcuni era stata la lex specialis a prevedere,
nell’ambito dell’offerta tecnica, elementi economici (Cons.
St., sez. V, 25.05.2009 n. 3217), talora incidenti in
percentuale rilevante, pari o superiore al 10%, rispetto
alla complessiva offerta economica (Cons. St., sez. V,
28.09.2012 n. 5121)
(Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 22.11.2012 n. 5928 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
piani di Recupero si configurano quali strumenti di
pianificazione secondaria deputati a normare non solo
interventi di ristrutturazione edilizia, ma anche interventi
di ristrutturazione urbanistica, e possono pertanto
riguardare anche aree inedificate.
Per quanto attiene alla prima di tali censure,
ossia che l’edificazione dell’area acquisita da C.S.T. non
poteva avvenire mediante Piano di Recupero non sussistendo
sulla relativa area preesistenze edilizie, va evidenziato
che -anche a prescindere dalla circostanza che la censura
stessa andava semmai riferita non al Piano di Recupero ma al
presupposto art. 8 delle N.T.A. del P.R.G., il quale per
l’appunto prevedeva per l’area in questione tale specifica
modalità di edificazione- i piani di Recupero si
configurano quali strumenti di pianificazione secondaria
deputati a normare non solo interventi di ristrutturazione
edilizia, ma anche interventi di ristrutturazione
urbanistica, e possono pertanto riguardare anche aree
inedificate (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV,
28.02.1992 n. 223, segnatamente relativa alla L.R. 07.07.1986 n. 23, vigente all’epoca dell’approvazione del
Piano di Recupero in questione, nonché , più in generale e
con espresso riguardo alla sola disciplina contenuta negli
artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978, Cons. Stato, Sez. IV,
28.05.1988 n. 468)
(Cons. Stato Sez. IV,
sentenza 09.10.2012 n. 5253 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile
della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968
e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della
relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che
l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello
della salubrità dell’edificato, da non confondersi con
l’interesse privato del frontista a mantenere la
riservatezza o la prospettiva.
---------------
Il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene
applicabile in via analogica la norma della distanza minima
assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche
nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione: ipotesi
che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi
nei quali l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di
Recupero.
Il Collegio
non sottace a tale riguardo che la giurisprudenza, laddove
afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui
all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli
strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte
comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina
anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 12.07.2007 n. 3094), posto che
l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello
della salubrità dell’edificato, da non confondersi con
l’interesse privato del frontista a mantenere la
riservatezza o la prospettiva (cfr. ibidem).
Tuttavia, dall’esame del dato letterale dell’art. 9 risulta
che per le zone di tipo A, in cui ricade l’ambito del Piano
di Recupero contemplante la realizzazione dell’edificio da
parte di C.S.T., “per le operazioni di risanamento
conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le
distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti,
computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale”, nel mentre soltanto per i “nuovi edifici
ricadenti in altre zone …è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”.
A questo punto il Collegio evidenzia pure che la
giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma
della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti
finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova
edificazione (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez.
IV, 27.01.2003 n. 419): ipotesi che, peraltro,
ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali -come,
per l’appunto, nell’evenienza in esame- l’edificazione
avviene nel contesto di un Piano di Recupero, atteso che gli
edifici preesistenti di cui si è già detto al § 5.2.2. erano
addossati all’anzidetta parete non finestrata dell’edificio
di proprietà dei Ferrario
(Cons. Stato Sez. IV,
sentenza 09.10.2012 n. 5253 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini della decorrenza
del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia
(ed ora di un permesso di costruire) rilasciata a terzi,
l’effettiva conoscenza dell’atto (dalla quale deve farsi
decorrere il termine di sessanta giorni per l’impugnazione
previsto dall’art. 21 della legge TAR, 06.12.1971, n. 1034)
si ha normalmente quando la nuova costruzione rivela in modo
certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e
l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla
disciplina urbanistica, con la conseguenza che, in assenza
di altri univoci elementi probatori, il termine per
l’impugnazione inizia a decorrere non dall’inizio dei lavori
ma dal loro completamento (di norma sotto il profilo
strutturale), a meno che nell’impugnazione non si sostenga
l’assoluta inedificabilità dell’area o si producano censure
rilevabili sin dalla fase iniziale dei lavori, come sul
mancato rispetto delle distanze fra fabbricati.
Al riguardo si deve ricordare che, per principio
consolidato, ai fini della decorrenza del termine per
l’impugnazione di una concessione edilizia (ed ora di un
permesso di costruire) rilasciata a terzi, l’effettiva
conoscenza dell’atto (dalla quale deve farsi decorrere il
termine di sessanta giorni per l’impugnazione previsto
dall’art. 21 della legge TAR, 06.12.1971, n. 1034) si ha
normalmente quando la nuova costruzione rivela in modo certo
ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e
l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla
disciplina urbanistica, con la conseguenza che, in assenza
di altri univoci elementi probatori, il termine per
l’impugnazione inizia a decorrere non dall’inizio dei lavori
ma dal loro completamento (di norma sotto il profilo
strutturale), a meno che nell’impugnazione non si sostenga
l’assoluta inedificabilità dell’area o si producano censure
rilevabili sin dalla fase iniziale dei lavori, come sul
mancato rispetto delle distanze fra fabbricati (fra le
tante, TAR Lazio Latina, sez. I, 29.07.2008, n. 972; TAR
Campania Salerno, Sez. II, 19.07.2007, n. 860; TAR Campania
Napoli, Sez. IV, 18.03.2003 n. 2637; Consiglio di Stato,
Sez. IV, 26.04.2006, n. 2295) (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per porticato deve
intendersi una struttura edilizia costituita da un piano di
copertura sostenuto da pilastri o altri sistemi di supporto,
con apertura su almeno tre lati, che ha una funzione
accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale e,
quanto alla destinazione, assolve la funzione di protezione
degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti
atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e
stazionamento dei residenti.
Ai fini del computo o meno del relativo volume ai fini
dell’osservanza degli indici di edificabilità, il porticato
deve quindi avere una precisa configurazione strutturale,
con l’apertura su almeno tre lati, e una chiara funzione
accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale,
mancando le quali si deve ritenere che la struttura edilizia
debba considerasi alla stregua delle altre componenti
dell’edificio, con la conseguenza che il volume relativo
deve conteggiarsi nel volume complessivo del fabbricato.
Infatti la volumetria di un edificio deve essere calcolata
con riferimento all’opera in ogni suo elemento costitutivo
ancorché non suscettibile di utilizzazione abitativa.
Pertanto, devono essere considerati organismi edilizi anche
i porticati coperti, allorquando questi siano di natura o
consistenza tali da ampliare in superficie o volume
l’edificio stesso.
Al riguardo, si deve
preliminarmente precisare in fatto che la struttura oggetto
di contestazione, definita porticato e destinata a
parcheggio nel progetto assentito, occupa l’intero piano
terra dell’edificio in questione e risulta interamente
aperto non su tre lati, come affermato dalle parti
resistenti, ma solo sui lati nord e sud, mentre sul lato est
è chiuso dal muro di confine della ricorrente e sul lato
ovest è egualmente chiuso dal muro di cinta di un giardino
di proprietà aliena (con altezza di mt. 2,31, come si rileva
anche dalla citata Consulenza tecnica depositata dalla
stessa signora F.).
Ciò precisato si deve ricordare che, come affermato dalla
giurisprudenza anche di questo TAR, per porticato deve
intendersi una struttura edilizia costituita da un piano di
copertura sostenuto da pilastri o altri sistemi di supporto,
con apertura su almeno tre lati, che ha una funzione
accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale e,
quanto alla destinazione, assolve la funzione di protezione
degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti
atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e
stazionamento dei residenti. Ai fini del computo o meno del
relativo volume ai fini dell’osservanza degli indici di
edificabilità, il porticato deve quindi avere una precisa
configurazione strutturale, con l’apertura su almeno tre
lati, e una chiara funzione accessoria rispetto al corpo di
fabbrica principale, mancando le quali si deve ritenere che
la struttura edilizia debba considerasi alla stregua delle
altre componenti dell’edificio, con la conseguenza che il
volume relativo deve conteggiarsi nel volume complessivo del
fabbricato (TAR Campania Napoli Sez. IV, n. 11048 del 2003;
n. 10593 del 2005).
Infatti la volumetria di un edificio deve essere calcolata
con riferimento all’opera in ogni suo elemento costitutivo
ancorché non suscettibile di utilizzazione abitativa.
Pertanto, devono essere considerati organismi edilizi anche
i porticati coperti, allorquando questi siano di natura o
consistenza tali da ampliare in superficie o volume
l’edificio stesso (TAR Campania Napoli Sez. VI, n. 9988 del
2005; Consiglio di Stato, Sez. V, 14.10.1998, n. 1467).
Applicando tali principi al caso di specie, si deve
rilevare che non solo la struttura in esame non può
definirsi in senso tecnico un porticato perché non risulta,
come si è già osservato, interamente aperta su tre lati ma
solo su due lati, ma tale struttura non sembra nemmeno avere
la funzione propria dei porticati in quanto, come si rileva
dal progetto in atti, la stessa occupa l’intero piano terra
della costruzione e non è in aderenza ad altra parte della
struttura (posta sullo stesso livello) con funzione di
elemento ad essa accessorio.
In conseguenza il relativo volume, come sostenuto dalla
ricorrente, non poteva non essere considerato ai fini del
computo del volume complessivo del fabbricato (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
La realizzazione di
autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di
sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla
disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori
terra.
Ma si deve
anche aggiungere che, come chiarito dalla giurisprudenza, la
realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata
totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è
soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove
costruzioni fuori terra (Consiglio Stato sez. IV 26.09.2008
n. 4645; sez. IV 11.11.2006, n. 6065; Sez. V, 29.03.2004, n.
1662).
Stabilisce, infatti, l'art. 9 della legge n. 122 del 1989
che "i proprietari di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti".
La norma continua disponendo che tali parcheggi possono
essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato
purché non in contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e
compatibilmente con la tutela delle risorse idriche.
In base a tali disposizioni i predetti parcheggi devono
essere quindi realizzati nel rispetto delle disposizioni
urbanistiche se non vengono a ciò adibiti i locali
(preesistenti) siti al piano terra di un fabbricato o se non
vengano allocati nel sottosuolo dello stesso fabbricato
ovvero nel sottosuolo di un'area pertinenziale esterna.
Del resto per gli edifici di nuova costruzione provvede il
precedente art. 2, comma 2, della stessa legge n. 122 del
1989, che –nel sostituire l’art. 41-sexies della L.U. n.
1150 del 1942– ha stabilito l'obbligo di riservare appositi
spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni
10 mc. di costruzione (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
L'avvio del procedimento
amministrativo deve essere comunicato solo ai soggetti nei
cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre
effetti diretti e, per giurisprudenza pacifica, tra questi
non figurano i proprietari di immobili confinanti con quello
oggetto di un permesso di costruire i quali subiscono
unicamente i riflessi dall'emanando provvedimento e, pur
essendo legittimati ad impugnarlo, non sono da considerare
destinatari della comunicazione di avvio del relativo
procedimento che non è prevista dalla normativa e
comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese
violazione dei principi di economicità ed efficacia
dell’azione amministrativa.
Per quanto riguarda
la prima doglianza si deve osservare che, a norma dell'art.
7 della legge n. 241 del 1990, l'avvio del procedimento
amministrativo deve essere comunicato solo ai soggetti nei
cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre
effetti diretti e, per giurisprudenza pacifica, tra questi
non figurano i proprietari di immobili confinanti con quello
oggetto di un permesso di costruire i quali subiscono
unicamente i riflessi dall'emanando provvedimento e, pur
essendo legittimati ad impugnarlo, non sono da considerare
destinatari della comunicazione di avvio del relativo
procedimento che non è prevista dalla normativa e
comporterebbe un aggravio del procedimento, in palese
violazione dei principi di economicità ed efficacia
dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, n.
1773 del 18.04.2005; TARLiguria Genova, sez. II, n. 1046 del
07.06.2007) (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 08.05.2009 n. 2457 link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
La pertinenza urbanistica
ha caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice
civile, comportando l'impossibilità di destinazioni ed
utilizzazioni autonome e sostanziandosi nei requisiti della
destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile
principale, risultante sotto il profilo funzionale da
elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso
assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è
complementare, dall'ubicazione, dal valore economico
rispetto alla cassa principale e dall'assenza del cosiddetto
carico urbanistico.
Ne deriva che il porticato non rientra nel novero delle
pertinenze, poiché manca il requisito della individualità e
della autonoma utilizzabilità, con la conseguenza che la sua
realizzazione necessita di concessione edilizia e non è
invece soggetta al regime autorizzatorio.
Giova rimarcare che la pertinenza urbanistica ha
caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice
civile, comportando l'impossibilità di destinazioni ed
utilizzazioni autonome e sostanziandosi nei requisiti della
destinazione strumentale alle esigenze dell'immobile
principale, risultante sotto il profilo funzionale da
elementi oggettivi, dalla ridotta dimensione sia in senso
assoluto sia in relazione a quella al cui servizio è
complementare, dall'ubicazione, dal valore economico
rispetto alla cassa principale e dall'assenza del cosiddetto
carico urbanistico.
Ne deriva che il porticato non rientra nel novero delle
pertinenze, poiché manca il requisito della individualità e
della autonoma utilizzabilità (cfr. Cassazione penale sez.
III, 21.03.1997, n. 4056), con la conseguenza che la sua
realizzazione necessita di concessione edilizia e non è
invece soggetta al regime autorizzatorio
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 19.07.2005 n. 9988 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 02.05.2013 |
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GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2013, "Determinazioni
in ordine ai criteri di gestione obbligatoria e delle buone
condizioni agronomiche e ambientali ai sensi del reg. CE
73/09 - Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 4196/2007"
(deliberazione
G.R. 24.04.2013 n. 67). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L. Spallino,
D.lgs. n. 33/2013: i soggetti obbligati (link a
www.studiospallino.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
TRIBUTI:
OGGETTO: Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)
- Imposta municipale propria (IMU) – Chiarimenti in ordine
alle modifiche recate dall’art. 10 del D.L. 08.04.2013, n.
35 (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare
29.04.2013 n. 1/DF). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento affidato a terzi.
Domanda
L'affidamento a terzi dello smaltimento dei rifiuti, libera,
penalmente, il produttore degli stessi?
Risposta
L'articolo 178 del decreto legislativo numero 152, del
03.04.2006, Testo unico ambientale (Tua), rubricato
«Principi», dispone che «la gestione dei rifiuti è
effettuata conformemente ai principi di precauzione, di
proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione
di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella
distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui
originano i rifiuti, nel rispetto dei principi
dell'ordinamento nazionale e comunitario «chi inquina paga».
A tal fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo
criteri di efficacia, efficienza, economicità e
trasparenza».
L'articolo 188, comma 1, del citato Testo unico ambientale
(Tua), rubricato «Responsabilità della gestione dei
rifiuti», nella seconda parte, sancisce, in modo espresso,
che:
«(_) Fatto salvo quanto previsto ai successivi commi del
presente articolo, il produttore iniziale o altro detentore
conserva la responsabilità per l'intera catena di
trattamento, restando inteso che qualora il produttore
iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il
trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di
cui al presente comma, tale responsabilità, di regola,
comunque, sussiste».
Il ventiseiesimo «considerando» alla direttiva 2008/98/Ce
prevede che il produttore e il consumatore dei rifiuti hanno
l'obbligo di gestire gli stessi in modo da garantire un
elevato livello di tutela e protezione della salute umana.
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 01.03.2012, numero 8018, ha affermato che, in tema di
gestione dei rifiuti, il produttore degli stessi, che affida
detta gestione a soggetti terzi, al fine del loro
smaltimento, ha degli obblighi precisi di accertamento,
quali la verifica dell'affidabilità del terzo, nonché
l'accertamento in capo al medesimo delle necessarie
autorizzazioni e competenze per l'espletamento
dell'incarico. La violazione di detti obblighi di
accertamento viene a giustificare, per i Supremi giudici
della Corte di cassazione, l'affermazione della
responsabilità penale per il mancato controllo. La
responsabilità del produttore dei rifiuti, per i predetti
giudici, è una responsabilità di «culpa in eligendo», per
non avere selezionato, con la dovuta intelligenza, il terzo
gestore del rifiuto.
Peraltro, la suddetta Corte di cassazione, sezione terza
penale, con la sentenza del 19.02.2008, numero 2008, ebbe ad
affermare, in tema, che: «Tutti i soggetti coinvolti
nella gestione dei rifiuti rispondono solidalmente del
corretto smaltimento». Pensiero già formalizzato dalla
suddetta Corte, sezione terza penale, con la precedente
sentenza numero 7746, del 2004, con la quale la predetta
affermava che: «L'individuazione della responsabilità
penale nella gestione dei rifiuti s'informa ai principi di
responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti
coinvolti, a qualsiasi titolo, nelle operazioni di recupero»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 29.04.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Qualità dei reflui.
Domanda
Gli scarichi di un'attività di lavanderia a umido, che ha
per macchinario una comune lavatrice domestica, possono
essere equiparati a quelli provenienti dalle lavatrici in
uso nelle civili abitazioni?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 03.04.2012, numero 12470, ha puntualizzato che
l'articolo 74, lettera g), del decreto legislativo numero
152, del 03.04.2006, Testo unico ambientale (Tua), ha
definito acque domestiche anche quelle derivanti da servizi,
purché esse provengano, in modo prevalente, dal metabolismo
umano e da attività domestiche.
Ha ricordato, poi, la
Suprema corte che da tempo la giurisprudenza di legittimità,
in tema di reati relativi a violazione di norme per la
tutela delle acque da inquinamento, ha sostenuto che l'assimibilità
degli insediamenti a quelli produttivi o a quelli civili
dipende dalla natura e dalla qualità dei reflui dei relativi
scarichi. Al riguardo ha richiamato la sua precedente
sentenza, sempre sezione terza penale, numero 9428, del 14.06.1988, depositata il 24.09.1988.
La Corte di cassazione, ha scritto, poi, nella citata
sentenza del 03.04.2012, numero 12470, che: «L'attività
produttiva di beni e servizi svolta in un determinato
esercizio commerciale non comporta automaticamente
l'attribuzione della qualifica “industriale” alle acque di
scarico dallo stesso rivenienti».
Ha sottolineato, poi, che,
nella fattispecie (tintoria che in assenza della prescritta
autorizzazione effettuava in fognatura scarichi di acque
reflue provenienti dalle attività di lavanderia in umido):
«Secondo l'articolo 5, comma 4, del regolamento della
regione l. del 24.03.2006, numero 3, recante norme
relative alla “disciplina e regime autorizzatorio degli
scarichi di acque reflue domestiche e di reti fognarie, in
attuazione della lr 12.12.2003, numero 26, articolo 52,
comma 1, lettera a)”, le acque reflue assimilabili a quelle
domestiche necessitano di un'autocertificazione della ditta
esercente l'attività di lavanderia, attestante un consumo
medio giornaliero non superiore a metri cubi 20», e che:
«le acque derivanti dallo scarico di una lavatrice non
sono diverse da quelle provenienti dalle lavatrici in uso
nelle civili abitazioni, e che pertanto possono essere
assimilate a quelle delle attività domestiche».
Nel caso, lo svolgimento dell'attività di lavanderia a umido
avveniva con una comune lavatrice domestica con un consumo
medio giornaliero di acque non superiore a metri cubi 20 (articolo ItaliaOggi Sette
del 29.04.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Contributo unificato.
Domanda
La rinuncia a un ricorso già presentato esonera dal
pagamento del contributo unificato?
Risposta
No. Come, infatti, precisato dal Consiglio di stato (sez.
prima, parere n. 4380/2011) la rinuncia a portare avanti una
causa non esonera, a prescindere dai motivi che portano il
ricorrente a tale decisione, dal pagamento del contributo
unificato; ciò in quanto, pur costituendo la rinuncia una
causa di improcedibilità o di estinzione di un giudizio che
ha comunque già avuto una, seppur breve, vita e durata e,
quindi, la stessa non è idonea a eliminare il presupposto
oggettivo della debenza del contributo, cioè quello
dell'avvenuta proposizione del gravame (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.04.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola, Terreno
inquinato da rifiuti e cambiamento di giurisprudenza. Ne
risponde sempre anche il proprietario? (link a
www.industrieambiente.it). |
NEWS |
TRIBUTI:
Imu seconde case, acconto facile.
A giugno si paga il 50% del totale dell'imposta 2012.
Nota Mef. In attesa di sapere la sorte del tributo
sull'abitazione principale, ecco come pagare.
I versamenti in acconto e saldo dell'Imu devono essere
effettuati in base alle aliquote e detrazioni dell'anno
precedente se delibere e regolamenti non vengono pubblicate
sul sito del ministero delle finanze, rispettivamente, entro
il 16 maggio o il 16 novembre. Nel caso in cui venga pagato
l'acconto in base alle aliquote e detrazioni del 2012, il
saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno dovrà essere
versato a conguaglio della prima rata, in base agli atti
pubblicati sul sito informatico entro il 16 novembre.
Termini più ampi, poi, sono previsti per la presentazione
della dichiarazione Imu. Slitta infatti al 30 giugno
dell'anno successivo all'acquisto del possesso dell'immobile
il termine per denunciarne la titolarità o per dichiararne
le variazioni. Vengono inoltre rimessi in termini i
contribuenti che non hanno ancora provveduto all'adempimento
per acquisti effettuati a partire dalla data di istituzione
dell'imposta municipale (01.01.2012).
Sono alcuni
chiarimenti che il ministero delle finanze ha fornito a
comuni e contribuenti, con la
circolare
29.04.2013 n. 1/Df diffusa ieri,
sulle nuove disposizioni contenute nell'articolo 10 del dl
«pagamenti p.a.» (35/2013), che ha modificato i termini per
dichiarazioni e delibere Imu, le quali hanno incidenza anche
sul calcolo dell'imposta in acconto e saldo.
Delibere comunali e versamenti. Nella circolare ministeriale
viene precisato che dal 2013 ha effetto costitutivo la
pubblicazione sul sito del ministero dell'economia e delle
finanze delle delibere di approvazione di aliquote e
detrazioni d'imposta, nonché dei regolamenti comunali.
Questi atti devono essere inviati solo per via telematica e
vanno inseriti nell'apposito Portale del federalismo
fiscale. Delibere e regolamenti condizionano anche i
versamenti del tributo.
Il quantum dovuto per l'imposta è
legato all'avvenuta pubblicazione sul sito ministeriale dei
provvedimenti comunali. Al riguardo il ministero ha chiarito
che, qualora i comuni non inviino questi atti generali entro
le scadenze fissate dalla legge, scatta «un meccanismo di
salvaguardia per consentire, comunque, i versamenti
dell'imposta nei termini dovuti». Se la pubblicazione non
viene fatta entro il 16 maggio, i contribuenti sono
legittimati a calcolare l'acconto, nella misura del 50%,
sulla base delle aliquote e detrazioni dei 12 mesi dell'anno
precedente.
Qualora dovesse essere confermata la sospensione
della rata di giugno dell'Imu prima casa (promessa dal
premier Enrico Letta), la procedura di cui sopra dovrà
essere tenuta bene in mente dai contribuenti alle prese con
il pagamento dell'Imu sulle seconde case. Per esempio, se un
contribuente ha pagato 600 euro di Imu nel 2012 per una
seconda casa, con aliquota del 7,6 per mille in acconto
(dovuto 250 euro) e del 9 per mille a saldo, con conguaglio
sulla prima rata (dovuto 350 euro), per l'acconto 2013 sarà
tenuto a versare 300 euro, vale a dire la metà dell'importo
pagato per l'intero anno.
Se gli atti generali non vengono pubblicati entro il 16
maggio, il versamento della seconda rata, a saldo
dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale
conguaglio sulla prima rata, deve essere eseguito tenendo
conto degli atti pubblicati sul sito ministeriale entro il
16 novembre. Altrimenti, i contribuenti possono calcolare
l'imposta facendo riferimento a aliquote e detrazioni
deliberate per l'anno precedente. Se la deliberazione non
risulti pubblicata neanche per il 2012, il contribuente
dovrà applicare le aliquote stabilite dalla legge.
Dichiarazioni.
Secondo il ministero, l'ampliamento del termine per la
presentazione della dichiarazione ha lo scopo di evitare
un'eccessiva frammentazione dell'obbligo derivante dal
precedente «termine mobile dei 90 giorni» e risolve i
problemi sorti in ordine alla possibilità di ricorrere
all'istituto del ravvedimento operoso «che altrimenti non
avrebbero trovato soluzione» (articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013). |
TRIBUTI: Tares,
i comuni decidono numero e scadenze rate.
I comuni, con delibera del consiglio, possono scegliere per
il 2013 il numero e la scadenza delle rate della Tares. Se
il comune non lo fa, le rate restano fissate a luglio e a
ottobre. Per il pagamento delle prime due rate i comuni
possono consentire ai contribuenti di utilizzare i modelli
di pagamento dello scorso anno relativi alla Tarsu, alla Tia
1 o alla Tia 2. L'ultima rata va pagata solo con il modello
F24 o il bollettino di conto corrente postale. La
maggiorazione di a 0,30 euro per metro quadrato è riservata
allo Stato. Non può essere aumentata fino a 0,10 e va
versata in unica soluzione con l'ultima rata. I comuni
possono continuare ad avvalersi per la riscossione del
tributo dei soggetti affidatari del servizio di gestione dei
rifiuti urbani.
Sono questi i punti di maggiore interesse della
circolare 29.04.2013 n.
1/Df della direzione legislazione
tributaria e federalismo fiscale del Mef, sulle novità in
materia di Tares contenute nell'art. 10, comma 2, del dl
35/2013, che operano limitatamente all'anno 2013, anche in
deroga all'art. 14 del dl Salva Italia (dl n. 201/2011).
La norma Tares prevede che il versamento sia effettuato in 4
rate (gennaio, aprile, luglio e ottobre); per il 2013 la
prima rata era addirittura slittata a luglio. La norma del
dl n. 35 del 2013 rimette le cose a posto riconoscendo ai
comuni, per il solo anno 2013, di stabilire con
deliberazione consiliare sia il numero che la scadenza delle
rate, ma occorre che detta delibera, ai fini della
conoscibilità dei contribuenti, sia pubblicata anche sul
sito web dell'ente locale almeno 30giorni prima della data
di versamento. Se il comune rimane inerte il termine per il
versamento della prima rata resta fissato a luglio e mentre
l'ultima rata a ottobre 2013, come prescrive il comma 35
dell'art. 14 del dl n. 201 del 2011.
La circolare precisa che per il pagamento delle prime due
rate gli enti locali possono inviare ai contribuenti i
modelli di pagamento già predisposti e precompilati per il
versamento dei precedenti prelievi e cioè per la Tarsu, per
la Tia 1 e per la Tia 2. Gli stessi enti possono, inoltre,
utilizzare le altre modalità di pagamento dei predetti
tributi, già in uso durante l'anno 2012. Gli importi in tal
modo versati dovranno essere tenuti in conto per determinare
l'ultima rata a saldo che dovrà essere quantificata sulla
base dei nuovi importi stabiliti per la Tares. Naturalmente
se il comune ha già disciplinato il nuovo tributo, può
utilizzare gli strumenti di pagamento precompilati con gli
importi determinati sulla base delle tariffe approvate.
Per la seconda deve essere necessariamente utilizzato il
modello F24 o il bollettino di conto corrente postale che è
in via di predisposizione.
La maggiorazione Tares deve essere versata contestualmente
all'ultima rata. La novità consiste nel fatto che il gettito
è riservato allo stato. La circolare precisa che il suo
importo è pari a 0,30 euro per metro quadrato, e che i
comuni non possono aumentarla fino a 0,10 euro, ma
continuano ad applicarsi ad essa le agevolazioni di cui ai
commi da 15 a 20 dell'art. 14 del dl n. 201, come ad esempio
quelle previste per le abitazioni con unico occupante o
tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso
limitato e discontinuo.
I comuni per il 2013 possono continuare ad avvalersi per la
riscossione del tributo dei soggetti affidatari del servizio
di gestione dei rifiuti urbani. Il dl 35 deroga, quindi,
alla disciplina generale di cui al comma 35, dell'art. 14
del dl 201, in base alla quale la Tares è versata
esclusivamente al comune. È ovvio, però che il gettito
derivante dalla maggiorazione è comunque riservato allo
stato. L'ultima precisazione della circolare attiene alle
modifiche apportate al comma 4, dell'art. 14 che nulla
prevedeva in relazione alle aree scoperte pertinenziali e
accessorie di locali diversi da quelli delle civili
abitazioni, a differenza di quanto stabilito in vigenza
della stessa Tarsu.
Con la nuova formulazione ci si
riallinea alle previgenti disposizioni Tarsu, per cui sono
escluse dalla tassazione, a eccezione delle aree scoperte
operative, le aree scoperte pertinenziali o accessorie a
locali tassabili e le aree comuni condominiali di cui
all'art. 1117 c.c. che non siano detenute o occupate in via
esclusiva
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Super-Tares a ottobre senza delibera
Se i comuni non interverranno con una propria delibera a
modificare le scadenze della Tares il termine di scadenza
dell'ultima rata della muova tassa sui rifiuti e sui servizi
e dunque anche della maggiorazione da 0,30 centesimi a metro
scadrà scadrà a ottobre.
È quanto chiarisce il Dipartimento delle Finanze con la
circolare 29.04.2013 n.
1/Df.
La nota fornisce una serie di risposte sulla corretta
applicazione delle modifiche introdotte sulla Tares e sull'Imu
con il Dl sblocca-debiti della Pa (per maggiori dettagli si
veda anche il servizio in Norme e Tributi a pagina 15).
Come spiegano le Finanze, salva diversa deliberazione dei
comuni, gli appuntamenti con la tassa rifiuti scadono a
gennaio, aprile, luglio e, come detto, a ottobre.
A tutela del contribuente è stato imposto ai Comuni di
pubblicare, almeno trenta giorni prima della data di
versamento, la deliberazione di modifica delle scadenze e
del numero delle rate. E questo anche utilizzando la rete
con la pubblicazione di modalità e termini di pagamento sul
sito web istituzionale del comune stesso (articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.05.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
White list appalti, fuori senza convenevoli.
Il rigetto della domanda di iscrizione negli elenchi degli
appaltatori «puliti» ai fini antimafia non deve essere
preceduto necessariamente da informazione interdittiva e può
prescindere da essa; necessario il massimo coordinamento fra
le prefetture.
È quanto precisa un comunicato dell'Interno, in G.U. 99 del
19.04.2013.
In particolare veniva posta all'attenzione la questione se
il diniego di iscrizione di un operatore economico in una
delle white list, istituite ai sensi dell'art. 5-bis del dl
74/2012 debba essere preceduto dall'emissione di
un'informazione interdittiva ovvero possa essere adottato
anche in assenza di tale provvedimento.
In realtà la questione si poneva in quanto spesso vengono
chiamate in causa almeno due prefetture, qualora quella di
presentazione della domanda di iscrizione non corrisponda a
quella di esecuzione delle verifiche antimafia. La
disciplina applicabile prevede, in sintesi che: le verifiche
antimafia sono di competenza della prefettura dove ha sede
l'impresa interessata all'iscrizione nelle white list; in
caso di sede dell'impresa in provincia diversa da quella
dove si chiede l'iscrizione occorre attivare il prefetto
competente; in caso emergano situazioni di controindicazione
è il prefetto a cui è proposta la domanda a rigettarla dando
informazione al prefetto competente territorialmente.
Da
questo quadro il comunicato deduce che «non vi è cenno nelle
disposizioni richiamate all'adozione di un'informazione
antimafia, né di tipo liberatorio, propedeutica, in ipotesi,
all'iscrizione nelle white list, né di tipo interdittivo,
preliminare, nell'ipotesi inversa, al diniego di
iscrizione».
E ancora: per le persone giuridiche la nozione di sede deve
ricavarsi da quella citata nell'atto costitutivo o nello
statuto; il prefetto a cui è stata rivolta la domanda di
iscrizione non deve pedissequamente attenersi solo agli
elementi trasmessi dall'altro prefetto; il prefetto che ha
negato l'iscrizione dovrà adeguatamente evidenziare gli
elementi di valutazione; serve maggiore circolarità e
raccordo informativo nell'attività di valutazione e di
decisione delle istanze di iscrizione nelle white list
fra le diverse prefetture
(articolo ItaliaOggi dell'01.05.2013). |
TRIBUTI: TIA/
Sentenza della Cassazione sulla tariffa rifiuti.
Presunzioni lecite.
Occupanti in base alla superficie.
È legittima la determinazione della quota variabile della
Tia per le seconde case in base al numero degli occupanti
desunto dalla superficie dell'immobile. Questa presunzione è
ammessa qualora non sia possibile conoscere il numero dei
soggetti che di fatto lo utilizzano. Dunque, non è
irragionevole il ricorso al metodo proporzionale basato
sulla superficie del bene. Spetta al contribuente fornire
gli elementi di prova idonei a dimostrare l'infondatezza
della presunzione contenuta nella norma regolamentare
adottata dal comune.
Lo ha stabilito la Sez. tributaria
dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 05.04.2013 n.
8383.
Per i giudici di piazza Cavour, non è irrazionale la norma
del regolamento comunale che per le abitazioni occupate da
non residenti determina induttivamente il numero dei
componenti il nucleo familiare: più ampia è la superficie,
maggiore è il numero di coloro che si presume occupano
l'immobile, al fine di calcolare la quota variabile della
tariffa.
A giudizio della Cassazione, la presunzione non
comporta «alcuna indebita variazione del criterio impositivo
tra le prime e le seconde case». Criterio che
«non va inteso
nella sua assolutezza, ma in relazione alla implicita
finalità di ancorare la quota variabile della tariffa al
numero presunto di occupanti laddove questo non sia
evincibile sulla base del criterio di residenza». Del resto,
il contribuente non ha fornito
«elementi di prova intesi a
superare la presunzione involta dalla norma regolamentare».
La pronuncia della Cassazione contrasta con quanto sostenuto
dal Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna
(sentenza 551/2012) che, invece, ha ritenuto illegittimo il
regolamento comunale che prevedeva per la determinazione
della Tia dovuta dai soggetti non residenti criteri e
coefficienti di calcolo basati sul numero dei componenti del
nucleo familiare desunto dalla superficie degli immobili.
Per i giudici amministrativi, non si può giustificare la
presunzione solo perché il dato reale è difficile da
accertare attraverso le risultanze anagrafiche. Il
meccanismo presuntivo, infatti, è stato giudicato del tutto
inattendibile, ben potendo accadere che un immobile di
notevole ampiezza sia utilizzato da un numero ristretto di
occupanti.
In realtà, si legge nella motivazione di
quest'ultima sentenza, il quantum variabile della tariffa
per i non residenti non può essere legato «a un unico dato
presuntivo, di natura statica e aprioristica, come quello
dell'ampiezza dell'immobile». In questo modo si crea una
discriminazione tra residenti e non residenti. Per i primi,
la tariffa è correttamente ancorata a un elemento concreto,
quello cioè del numero degli occupanti desunto dalle
risultanze anagrafiche.
Il presupposto della Tia era l'occupazione o conduzione di
locali o aree scoperte a uso privato non costituenti
accessorio o pertinenza dei locali, a qualsiasi uso adibiti,
nel territorio comunale. I costi per i servizi relativi alla
gestione dei rifiuti giacenti su strade e aree pubbliche e
soggette a uso pubblico dovevano essere coperti dai comuni
fino al 2012 con l'istituzione di una tariffa, composta da
una quota determinata in relazione alle componenti
essenziali del costo del servizio e da una quota rapportata
a quantità di rifiuti conferiti, servizio fornito e costi di
gestione.
Il principio affermato dalla Cassazione è applicabile anche
alla Tares. L'articolo 14 del dl salva-Italia (201/2011), in
seguito alle modifiche apportate dalla legge di stabilità
(228/2012), prevede che le disposizioni contenute nel dpr
158/1999, regolamento sul metodo normalizzato attuativo
della Tia «Ronchi», devono essere applicate a regime anche
alla Tares e non più in via transitoria, come stabilito in
un primo momento
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Stop
all'Imu se si perdono i diritti edificatori.
Se un terreno ha perso qualunque potenzialità edificatoria,
in conseguenza della cessione di tutti i diritti di
edificazione su di esso esercitabili, non può essere più
considerato area fabbricabile ai fini dell'Imu. Vi è
tuttavia un vuoto di imposizione laddove a fronte di tale
cessione non si verifichi un contestuale potenziamento delle
capacità edificatorie di un altro suolo.
Il caso sottoposto
da Mario Ardenghi si è verificato, ad esempio, nel comune di
Milano, che ha adottato strumenti urbanistici piuttosto
innovativi, ma può ripresentarsi in situazioni simili. In
primo luogo, è utile ricordare che, anche ai fini Imu, vale
la definizione di area fabbricabile recata nella norma di
cui all'articolo 36, Dl n. 223/2006 per il quale sono
"edificabili" i suoli che rientrano negli strumenti
urbanistici generali, anche in assenza di strumenti
attuativi.
È dunque possibile che la qualifica formale di
area fabbricabile non si accompagni ad effettive possibilità
di sfruttamento edificatorio. Va comunque precisato che tali
possibilità, seppure non incidono sulla qualifica del bene,
devono essere apprezzate al momento della individuazione del
valore del suolo. Deve in ogni caso essere ravvisabile una
potenzialità edificatoria, poiché in difetto di questa non
vi sarebbero neppure i requisiti minimali per integrare la
nozione in esame.
Venendo al caso descritto nel quesito, si è in presenza di
un suolo edificabile in relazione al quale si intende
procedere alla vendita di tutti di diritti edificatori
("cubatura"). Una volta privato il bene di qualsiasi
potenzialità di sfruttamento a fini costruttivi non sembra
possibile continuare a considerarlo come area fabbricabile.
La vicenda troverebbe uno sbocco eliquibrato se, in
coincidenza con la suddetta cessione, un altro bene ubicato
nel territorio del comune di Milano dovesse beneficiare di
un incremento di potenzialità edificatoria in dipendenza
dell'assegnazione dei medesimi diritti di cubatura. Così,
infatti, si assisterebbe ad un corrispondente aumento di
valore ai fini Imu a favore di un suolo diverso.
Ci si chiede invece cosa accade se i diritti ceduti
dovessero restare per un tempo indefinito in una sorta di
"limbo", in attesa che l'acquirente individui l'area sulla
quale esercitare gli stessi. Il punto è che l'Imu è
un'imposta reale che colpisce quindi i beni che vi sono
soggetti. Per procedere all'attuazione dell'imposizione
occorre individuare un fabbricato, un'area fabbricabile o un
terreno agricolo. Nel caso in questione si tratterebbe,
invece, di tassare un diritto. Sembra quindi impraticabile
l'imposizione sui diritti sino a quando essi non si
incorporano in un immobile. La questione deve essere ben
valutata all'atto della adozione delle decisioni di
programmazione urbanistica.
È evidente che se si ammette la
possibilità di cedere i diritti di cubatura consentendone il
"parcheggio" in uno spazio virtuale per un lasso temporale
non breve gli effetti in termini di gettito Imu saranno
rilevanti. Visto da un altro punto di vista, si potrebbe
peraltro argomentare che con questo sistema si porrebbe fine
ad una concezione di area edificabile troppo improntata alla
ragion fiscale e piuttosto svincolata dalle effettive
prospettive di costruzione. L'imposta sarebbe infatti
applicata solo dopo l'individuazione del suolo beneficiario
dei diritti edificatori, in prossimità dell'effettivo
sfruttamento del bene
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Si rimette in moto il Sistri.
Dal 30 aprile primi adempimenti per i rifiuti pericolosi. In G.U. il dm 20/03/2013 che sblocca l'operatività del
sistema di tracciamento telematico.
Verifica e aggiornamento dei dati aziendali,
regolarizzazione delle iscrizione e pagamento del
contributo, avvio del vero e proprio monitoraggio telematico
dei rifiuti gestiti.
Questa la scaletta degli obblighi che
il nuovo dm ambiente 20.03.2013 (pubblicato sulla G.U.
del 19.03.2013 n. 92) pone, secondo un calendario che va
dal 30.04.2013 al 03.03.2014, a carico delle imprese
tenute a aderire al sistema di controllo della tracciabilità
dei rifiuti meglio noto come «Sistri» (sistema che prevede
l'invio telematico dei dati sui rifiuti gestiti al server
dello stato, il controllo satellitare del loro trasporto, il
videocontrollo del loro conferimento negli impianti di
trattamento).
A essere chiamati per primi agli adempimenti dal nuovo
decreto del Minambiente che sancisce (testualmente) il
«riavvio progressivo del Sistri» sono i grandi produttori e
gestori di rifiuti pericolosi, seguiti a breve distanza (4
mesi) da tutti gli altri soggetti obbligati (come
individuati dlgs 152/2006, cosiddetto «Codice ambientale», e
dal dm 52/2011, cosiddetto «Testo Unico Sistri», adottato in
attuazione del primo).
Soggetti obbligati in due scaglioni. In particolare, il
primo novero dei soggetti (impegnati già dal 30.04.2013
nella verifica dei dati eventualmente già trasmessi alla
p.a., per poi avviare il monitoraggio telematico dei rifiuti
dal successivo 1° ottobre) comprende, nel tenore del nuovo
decreto, i produttori iniziali di rifiuti speciali
pericolosi con più di dieci dipendenti, gli enti e le
imprese che gestiscono rifiuti speciali pericolosi
individuati dall'articolo 3, comma 1, lettere c), d) e) f)
g) h), del citato dm 52/2011.
Categoria, quest'ultima, alla quale appartengono
raccoglitori, trasportatori a titolo professionale,
recuperatori, smaltitori, commercianti e intermediari di
rifiuti speciali pericolosi, consorzi per la gestione degli
stessi. A seguire temporalmente tali soggetti negli
adempimenti (allineamento dati dal 30.09.2013 al 28.02.2014, tracciamento rifiuti dal
03.03.2014)
saranno, secondo il nuovo dm, tutti «gli altri enti o
imprese obbligati all'iscrizione al Sistri», dunque i
soggetti (diversi da quelli citati ma) previsti
dall'articolo 3 del «T.u. Sistri», ossia: produttori di
rifiuti speciali pericolosi con non più di dieci dipendenti;
produttori (sempre con non più di dieci dipendenti) di
rifiuti speciali non pericolosi derivanti da lavorazioni
industriali, artigianali, recupero e smaltimento beni a fine
vita o coincidenti con fanghi da potabilizzazione,
trattamento acque o abbattimento dei fumi; raccoglitori,
trasportatori a titolo professionale, recuperatori,
smaltitori, commercianti e intermediari di rifiuti speciali
non pericolosi; consorzi per la gestione dei citati rifiuti;
enti pubblici della Regione Campania individuati dal dm
52/2011.
Verifica e aggiornamento dati. Come anticipato,
preliminarmente al tracciamento telematico dei rifiuti
gestiti il nuovo dm 20.03.2013 chiede ai soggetti già
iscritti al Sistri il controllo dei propri dati trasmessi
alla p.a. Gli enti e le imprese interessate dovranno in
particolare verificare l'attualità dei dati comunicati
(verosimilmente, nel silenzio del decreto, quelli indicati
alle Camere di commercio e all'Albo gestori ambientali) ed
eventualmente aggiornarli qualora obsoleti (cosiddetto
«allineamento»).
Il tutto secondo il seguente e già
accennato scadenzario, modellato sulle due macrocategorie di
soggetti obbligati: grandi produttori e gestori di rifiuti
pericolosi tra il 30 aprile e il 30.09.2013; tutti
gli altri tra il 30.09.2013 ed il 28.02.2014.
Iscrizione al Sistri e contributo 2013. L'obbligo di
iscrizione al Sistri (per coloro che ancora non vi hanno
provveduto tra i numerosi «start and go» del sistema imposti
della normativa) va assolto entro i termini iniziali di
operatività della nuova macchina rispettivamente previsto,
dunque: entro il 01.10.2013 da parte dei grandi
produttori e gestori di rifiuti pericolosi; entro il 03.03.2014 da parte degli altri. Il nuovo dm 20.03.2013 prevede
sì la sospensione del pagamento del contributo per l'anno
2013, ma esclusivamente a favore degli enti e delle imprese
già iscritte al Sistri alla data del 30.04.2013.
Obblighi «operativi»: il tracciamento dei rifiuti. Gli
adempimenti consistenti nella vera e propria nuova modalità
di tracciamento dei rifiuti (quelli che il legislatore
appare intendere con il termine «operatività del Sistri»,
termine del quale non si rintraccia né nel dlgs 152/2006 né
nel dm 52/2011 una definizione legale) impegneranno a vario
titolo gli appartenenti alle due citate macrocategorie a
partire, rispettivamente, dal 01.10.2013 e dal 03.03.2014.
Tali adempimenti operativi coincidono, lo ricordiamo:
con la comunicazione telematica (mediante computer e
utilizzo della «chiave usb» rilasciata in fase di
iscrizione) dei dati quali/quantitativi dei rifiuti gestiti
al sistema informatico gestito dallo stato (e raggiungibile
dal portale «sistri.it»); con il monitoraggio dei veicoli
che trasportano rifiuti (tramite utilizzo dei dispositivi di
tracking satellitare, meglio noti come «black box») e
l'accompagnamento dei loro spostamenti con copia cartacea
della «Scheda Sistri-Area movimentazione»; con la
videosorveglianza tramite apparecchiature installate da
personale «Sistri» di ingressi ed uscite dei mezzi di
trasporto rifiuti dagli impianti di discarica e
incenerimento.
Regime transitorio, scripta manent. Il passaggio dal
classico sistema cartaceo (fondato sui tre storici
documenti: registri carico/scarico, formulario di trasporto,
dichiarazione annuale «Mud») a quello «semimmateriale» (in
quanto la «Scheda Sistri-Area movimentazione» dovrà sempre
essere prodotta fisicamente) non sarà tuttavia immediato per
imprese ed enti che aderiranno al nuovo sistema.
Prescrive
infatti il nuovo dm 20.03.2013 che fino alla scadenza del
termine di 30 giorni dalla data di operatività del Sistri
(dunque, rispettivamente, fino al 31.10.2013 e fino al
02.04.2014, in base alla categoria di appartenenza sopra
citata) i soggetti interessati dovranno adempiere agli
obblighi previsti dagli articoli 190 e 193 del dlgs
152/2006, ossia agli obblighi relativi alla tenuta dei
citati registri e formulari.
Sanzioni ad hoc, non solo per persone fisiche. Con
l'operatività del Sistri resusciteranno anche le norme
contenute nell'articolo 260-bis del «Codice ambientale» (ivi
introdotte dal dlgs 205/2010, ma dormienti fino alla
reviviscenza del Sistri) che prevedono un sistema
sanzionatorio di natura amministrativa ad hoc (con pene
pecuniarie e interdittive) per le violazioni degli obblighi
Sistri.
Alle redivive sanzioni poste dal dlgs 152/2006 a
carico delle persone fisiche si aggiungeranno altresì, è il
caso di ricordarlo, quelle previste dal dlgs 231/2001 (sulla
responsabilità amministrativa delle organizzazioni, come
riformulato dal dlgs 121/2011) direttamente a carico di enti
e imprese che avranno tratto vantaggio da alcune violazioni
alle regole Sistri commesse dai loro dipendenti (come la
falsa certificazione di analisi rifiuti, il trasporto senza
idonea copia cartacea della citata della scheda di
movimentazione) (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.04.2013). |
CONDOMINIO: La Cassazione: in linea generale la manutenzione
straordinaria spetta all'ex proprietario.
Spese extra, le paga chi vende.
Possibile anche una diversa pattuizione con l'acquirente.
In caso di vendita di un appartamento situato in condominio
le spese per i lavori di manutenzione straordinaria sulle
parti comuni deliberate prima del trasferimento della
proprietà restano a carico del condomino venditore, anche se
l'esecuzione delle opere sia iniziata successivamente
all'acquisto.
Tuttavia non è escluso che il venditore e il compratore, con
apposito patto contenuto nel preliminare di vendita e poi
ribadito nel rogito, stabiliscano che queste spese siano
sostenute dall'acquirente e nuovo condomino che, di fatto,
si gioverà dei miglioramenti deliberati dall'assemblea.
Sono
i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, nella recente
sentenza
10.04.2013 n. 8782.
La vicenda. Un condomino aveva deciso di vendere il proprio
appartamento. L'acquirente, venuto a sapere che erano già
stati deliberati lavori straordinari di manutenzione del
caseggiato (probabilmente dietro riduzione del prezzo, come
spesso accade), si impegna nel preliminare ad accollarsi le
spese già deliberate.
Questo il testo della clausola del
contratto preliminare poi riprodotta anche nel rogito: «Le
parti convengono che tutte le spese condominiali, alla data
di oggi eventualmente ancora dovute, gravino interamente
sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti
al rifacimento della terrazza condominiale, che restano a
carico della parte acquirente». Dopo il preliminare, e fino
alla data del rogito, il venditore provvede quindi ad
anticipare le spese straordinarie di rifacimento
dell'edificio nella convinzione che l'acquirente (che si era
impegnato ad accollarsi le spese) provvedesse poi al
rimborso delle stesse.
Ma l'impegno preso non viene rispettato e, conseguentemente,
l'acquirente è citato davanti al giudice di pace, che lo
condanna al pagamento dell'importo anticipato dal venditore
e relativo ai lavori di manutenzione straordinaria. Il
tribunale adito in secondo grado, però, ribalta la decisione
e condanna il venditore al pagamento delle spese processuali
di entrambi i gradi di giudizio. Il tribunale osserva che,
con la clausola contrattuale, le parti avevano espressamente
convenuto che tutte le spese condominiali, a quella data
ancora eventualmente dovute, dovessero gravare per intero
sulla sola parte venditrice, a eccezione di quelle attinenti
al rifacimento della terrazza condominiale, che restavano a
carico della parte acquirente.
Secondo il tribunale, però,
la clausola in questione comportava l'obbligo, da parte
dell'acquirente, di provvedere, per la quota gravante
sull'immobile acquistato, al pagamento delle sole spese di
rifacimento della terrazza condominiale eventualmente ancora
dovute alla data di stipula del rogito notarile e non anche
al rimborso di quanto corrisposto, a tale titolo, dal
venditore al condominio in epoca antecedente.
La decisione della Suprema corte. Tale decisione non è stata
condivisa dalla Cassazione che, in via preliminare, ha
precisato come in caso di vendita di una unità immobiliare
in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di
straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni
sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si
siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione
delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era
proprietario dell'immobile al momento della delibera dei
detti interventi, avendo tale decisione assembleare valore
costitutivo della relativa obbligazione.
Tuttavia, secondo i
giudici supremi, è da ritenersi valida, nei rapporti tra
venditore e compratore, una clausola da inserire nel
contratto di compravendita che faccia ricadere l'onere per
le spese condominiali relative a lavori di straordinaria
manutenzione (deliberate e ancora da eseguire) sul
compratore.
E, secondo la Cassazione, con la clausola sopra riportata,
contrariamente a quanto ritenuto nel caso di specie dal
tribunale adito dalle parti nel secondo grado di giudizio,
le parti avevano proprio voluto ribadire la regola generale
costituita dall'onere del venditore di accollarsi tutte le
spese condominiali ordinarie eventualmente ancora dovute al
momento del rogito ma, contestualmente, avevano previsto in
modo evidente che le spese, già deliberate, per il
rifacimento del terrazzo sarebbero dovute rimanere
totalmente a carico della parte acquirente.
Quindi, in base
alla clausola esaminata, avendo il venditore corrisposto al
condominio le spese per il ripristino del terrazzo comune
secondo le scadenze stabilite dal piano di riparto
approntato dall'amministratore nelle more della stipula del
contratto di vendita, quest'ultimo aveva acquisito, al
momento del rogito, il diritto di chiedere, nei confronti
dell'acquirente, il rimborso della somme anticipate per le
spese dei lavori straordinari (articolo ItaliaOggi
Sette del 29.04.2013). |
CONDOMINIO:
Passaggi di proprietà, chi vende avvisa l'amministratore.
Capita spesso che nel caso di vendita di un appartamento
situato in condominio le parti si dimentichino di avvisare
l'amministratore condominiale dell'intervenuto passaggio di
proprietà. Eppure con detto trasferimento muta
automaticamente la composizione della compagine
condominiale, in quanto al vecchio condomino (proprietario)
si sostituisce un nuovo proprietario (e dunque anche
condomino).
Ciò comporta che, a partire dalla data del rogito
sottoscritto dinanzi al notaio, l'amministratore sarebbe
tenuto a inviare l'avviso di convocazione assembleare al
nuovo condomino (e non più al vecchio proprietario) e sempre
a quest'ultimo dovrebbe richiedere il pagamento delle spese
condominiali maturate a partire da quella data (e non più
anche al vecchio condomino).
Invero è sempre stato incerto quale delle parti della
compravendita, al di là dei doveri di cortesia, avesse
l'obbligo giuridico di avvisare l'amministratore
condominiale dell'intervenuto trasferimento della proprietà
(così come di altro diritto reale sul medesimo immobile). Da
questo punto di vista importanti novità sono state apportate
dal nuovo art. 63 disp. att. c.c. introdotto dalla legge n.
220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli
edifici e che entrerà vigore dalla metà del prossimo mese di
giugno.
La nuova disposizione di legge prevede, infatti, che il
condomino che venda un'unità immobiliare sita in condominio
resti obbligato solidalmente con l'acquirente per i
contributi maturati successivamente al trasferimento della
proprietà e fino al momento in cui sia stata trasmessa
all'amministratore condominiale copia autentica del relativo
titolo. D'ora in avanti, quindi, chi vende, o comunque
trasferisce la proprietà o altro diritto reale, non potrà
disinteressarsi del tutto delle vicende condominiali
successive alla cessione del diritto, essendo tenuto in via
prudenziale a comunicare formalmente all'amministratore la
vicenda del suo trasferimento e, quindi, il mutamento della
compagine condominiale (anche perché l'amministratore possa
più agevolmente provvedere al nuovo incombente
dell'aggiornamento del registro dell'anagrafe dei
condomini).
In caso contrario il condomino che cede il diritto rischierà
di essere chiamato al pagamento degli oneri maturati
successivamente al trasferimento del medesimo ed
eventualmente non versati dall'avente causa, ovvero dal
nuovo condomino.
Il nuovo art. 63 disp. att. c.c., infatti, ha introdotto una
specifica ipotesi di solidarietà tra venditore e acquirente
relativamente all'obbligazione di pagamento dei contributi
condominiali, che può essere in qualche modo interrotta
soltanto con l'invio all'amministratore della copia
autentica del titolo che determina il trasferimento del
diritto sull'unità immobiliare.
Fino a quel momento, quindi, l'amministratore potrà chiedere
il versamento delle spese comuni a entrambe le parti e,
considerando che il più delle volte quest'ultimo non sarà al
corrente della compravendita, sarà altamente probabile che
ne chieda il pagamento a quello che ritiene essere il
condomino, ovvero al venditore. Si tratta quindi sicuramente
di un ottimo espediente per fare in modo che il vecchio
condomino informi l'amministratore condominiale del
passaggio di proprietà relativo all'unità immobiliare (articolo
ItaliaOggi Sette del 29.04.2013). |
TRIBUTI:
Il perimetro normativo dell'area edificabile.
La sentenza 01.03.2013 n. 5166 della Corte di Cassazione riporta in auge il
concetto di edificabilità «di fatto».
Il concetto era già
stato definito, tra l'altro, dalla sentenza 9131/2006 della
Suprema corte, secondo la quale si ha edificabilità «di
fatto» quando il terreno –pur non essendo urbanisticamente
pianificato– può avere una vocazione edificatoria, che «si
identifica attraverso una serie di fatti indici quali, tra
l'altro, la vicinanza al centro abitato, lo sviluppo
edilizio assunto dalle zone adiacenti, l'esistenza di
servizi pubblici essenziali, la presenza di opere di
urbanizzazione primaria, il collegamento con centri urbani
già organizzati».
La sentenza 5166/2013 ora aggiunge come
altro indice «l'esistenza di qualsiasi altro elemento
obbiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica,
quale, ad esempio» in un'area agricola, l'ottenimento di
«una concessione edilizia per il recupero di fabbricati
civili con opera di demolizione nuova costruzione». In
precedenza, alle stesse conclusioni era giunta la sentenza
7950/2003 e la pronuncia a Sezioni unite 172 del 23.04.2001.
Sul piano legislativo, l'articolo 37, comma 3, del Dpr
327/2001 (il Testo unico dell'espropriazione per pubblica
utilità) aveva stabilito che ai fini della determinazione
dell'indennità di esproprio «si considerano le possibilità
legali ed effettive di edificazione». Mentre l'articolo 2
del Dlgs 504/1992 (la legge istitutiva dell'Ici) aveva
definito l'area edificabile come quella «utilizzabile a
scopo edificatorio...in base alle possibilità effettive di
edificazione determinate secondo i criteri previsti agli
effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica
utilità».
Per dirimere i contrasti interpretativi
verificatisi a ogni livello, l'articolo 36, comma 2, del Dl
223/2006 ha definitivamente sancito che «un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo
edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione
della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo».
Insomma, poiché è stato finalmente definito cosa
si intende per «area edificabile», ogni rilevanza
dell'edificabilità «di fatto» dovrebbe essere sopita.
Almeno due dati contrastano, però, con questa conclusione:
non solo la sentenza 5166/2013 della Cassazione, ma anche il
fatto che la normativa introduttiva dell'Imu «propria» e
dell'Imu «sperimentale» (l'articolo 13, commi 1 e 2, del Dl
201/2011) ha fatto testuale rimando, tra l'altro,
all'articolo 2 del Dlgs 504/1992 in tema di Ici (e quindi
anche al concetto di edificabilità «di fatto»), per definire
il perimetro degli immobili cui appunto va applicata l'Imu.
Nonostante questo, si può fondatamente ritenere che, al di
là del campo dell'indennità di espropriazione (dove non può
non aver rilievo lo specifico stato di un dato immobile), e
quindi nel campo tributario, dell'edificabilità «di fatto»
ci si possa dimenticare, al cospetto della definizione di
edificabilità sopravvenuta con il Dl 223/2006: quanto
all'Ici/Imu, la norma del 2006 senz'altro abroga quella
precedente; mentre la sentenza della Cassazione interviene
nel 2013 ma con riferimento a una fattispecie di plusvalenza
maturata nel 1999 e giudicata in primo grado nel 2005.
Anche perché, se il concetto di edificabilità «di fatto»
fosse vigente, su questo spinoso tema regnerebbe
l'incertezza invece della chiarezza portata dal legislatore
del 2006: non si saprebbe se la vendita di queste aree sia
soggetta a Iva o a imposta di registro, se la vendita generi
plusvalenza tassabile in capo al venditore, e se –in sede
di donazione e si successione– si possano utilizzare o meno
i coefficienti di valutazione catastale
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Incompatibilità. Il limite fissato a livello regionale.
Niente politica locale per segretari e dirigenti.
I segretari comunali e provinciali e i dirigenti delle Pa
non possono svolgere il ruolo di consiglieri, di sindaci e
di assessori nei Comuni con popolazione superiore a 15mila
abitanti, nelle forme associative con questa soglia minima
di popolazione e nelle Province della stessa regione in cui
svolgono la propria attività lavorativa.
È questo uno degli
effetti di maggiore rilievo (assai discutibile) del Dlgs
39/2013. L'entrata in vigore del provvedimento è prevista
per il prossimo 4 maggio, per cui la disposizione comincerà
a produrre i propri effetti già con il rinnovo degli organi
elettivi di numerosi Comuni della fine del prossimo mese.
Va sottolineato che queste regole non si estendono ai
responsabili che nei Comuni privi di dirigenti esercitano
funzioni dirigenziali. La stessa incompatibilità è prevista
tra lo svolgimento di ruoli dirigenziali in una Pa e gli
incarichi di consigliere e/o di assessore regionale, e con
l'essere componente dell'organo di indirizzo degli enti di
diritto privato controllati dalla regione, da Province o da
Comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti. In tutti
questi casi matura l'incompatibilità, per cui i soggetti
interessati devono effettuare una scelta entro i 15 giorni
successivi alla contestazione; nel caso in cui ciò non
avvenga il legislatore prevede la decadenza automatica.
Gli effetti di queste norme meritano una valutazione
approfondita: nei fatti, con queste regole, lo svolgimento,
nella stessa regione di compiti dirigenziali in una Pa o di
segretario in un Comune condiziona il corpo elettorale di un
altro municipio. Non è chiara, in questo quadro, la ragione
dell'esclusione dei piccoli e medi Comuni dall'ambito di
applicazione della disposizione.
Occorre inoltre sottolineare che i segretari comunali e
provinciali, in quanto responsabili anticorruzione, sono
espressamente indicati come i soggetti che devono vigilare
sulla corretta applicazione di queste disposizioni. Essi
devono contestare tanto le ragioni di inconferibilità quanto
quelle di incompatibilità, e devono provvedere alla
segnalazione all'Autorità anticorruzione, a quella Antitrust
e alla procura regionale della Corte dei Conti delle
violazioni che accertano. Tutti gli eletti devono, al
momento dell'insediamento e con cadenza annuale, dichiarare
l'insussistenza di cause di inconferibilità; questa è
condizione per potere svolgere questo incarico.
La disposizione irroga la sanzione del divieto per i cinque
anni successivi di attribuzione di qualunque tipo di
incarico in una amministrazione pubblica nel caso in
dichiarazione mendace, ferme restando le sanzioni penali
previste dall'ordinamento in questi casi. Infine, il decreto
legislativo espressamente prevede l'irrogazione della
sanzione della nullità per tutti gli incarichi che vengono
conferiti in violazione delle nuove regole sulle
incompatibilità e sulle inconferibilità di incarichi
amministrativi (articolo Il Sole 24
Ore del 29.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Coperture. Pre-dissesto e dissesto sono le uniche condizioni
per l'utilizzo.
Alienazioni per spese correnti solo con i conti verso il
crack.
Con le norme attuali, le alienazioni di patrimonio possono
essere usate a copertura di disavanzi correnti o al
finanziamento di debiti fuori bilancio solo da enti che
abbiano deliberato il piano di riequilibrio pluriennale o il
dissesto.
L'articolo 193 del Tuel prevedeva che per salvaguardare gli
equilibri si potessero utilizzare i proventi da alienazioni
di beni patrimoniali disponibili. La norma consentiva agli
enti in difficoltà l'impiego, per far fronte a disavanzi,
anche di tutte le entrate straordinarie da alienazioni di
patrimonio disponibile. Due norme specifiche, invece,
autorizzavano tutti gli enti all'impiego delle plusvalenze
da alienazioni per finanziare spese correnti non ripetitive
(articolo 3, comma 28, legge 350/2003) e le quote capitale
di rimborso del debito (articolo 1, comma 66. legge
311/2003).
Questa facoltà ora è caduta con l'abrogazione delle due
norme con l'articolo 1, commi 441 e 442, della legge
228/2012. Il comma 443 ha previsto che, in base all'articolo
162, comma 6, del Tuel, i proventi da alienazioni possano
essere destinati solo a copertura di spese d'investimento o
a riduzione del debito. Il comma 444, integrando l'articolo
193 del Tuel, ha stabilito che i proventi della cessione di
patrimonio siano utilizzabili solo per finanziare squilibri
di parte capitale. Per salvaguardare gli equilibri è invece
possibile modificare tariffe e aliquote dei tributi. Un ente
in condizioni "normali", dunque, non può usare le
alienazioni per finanziare disavanzi correnti o debiti fuori
bilancio, né delle plusvalenze per spese non ripetitive o
per il rimborso del debito.
Se il piano di riequilibrio è approvato dalla Corte, invece,
è possibile ricorrere a mutui per la copertura di debiti
fuori bilancio riferiti a spese d'investimento (in deroga
all'articolo 204, comma 1, del Tuel) e accedere al fondo di
rotazione: a patto (articolo 242-bis, comma 8, lettera g) che
l'ente abbia portato aliquote o tariffe al massimo, si sia
impegnato ad alienare il patrimonio non indispensabile ai
fini istituzionali e abbia rideterminato la dotazione
organica. L'impegno alle alienazioni è un prerequisito, nel
piano di riequilibrio, per ricorrere al debito e al fondo di
rotazione. È quindi possibile vendere patrimonio per
finanziare disavanzo corrente solo se l'ente ha intrapreso
un percorso di risanamento "coatto".
Il dissesto è l'altra situazione che consente l'utilizzo del
patrimonio per finanziare (anche) spese correnti, perché il
commissario (articoli 252 e 255 del Tuel) può valersi delle
alienazioni patrimoniali per reperire le risorse necessarie
a liquidare i creditori (articolo Il
Sole 24 Ore del 29.04.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Anticorruzione. Nomina vietata a chi negli ultimi due anni è
stato presidente o ad nella stessa regione.
Le società chiudono agli «ex».
Gli effetti delle incompatibilità si estendono alle aziende
controllate.
I PARAMETRI/
Aver svolto un ruolo di vertice impedisce di essere scelto
come rappresentante di un'amministrazione con più di 15mila
abitanti.
Si stringono le maglie per le nomine degli amministratori
delle società e degli altri organismi partecipati dagli enti
locali.
Il Dlgs 39/2013 determina condizioni più rigide per la
designazione, da parte di Comuni, Province e Unioni di
Comuni, di propri rappresentanti negli organi esecutivi dei
soggetti di diritto privato sottoposti a controllo o nei
quali sia detenuta una partecipazione, anche minoritaria.
Le nuove disposizioni, che entrano in vigore il 4 maggio,
disciplinano sia l'inconferibilità di incarichi sia nuove
fattispecie di incompatibilità, con un ambito oggettivo
molto ampio, che impatta sia sulle nomine delle società
interamente partecipate affidatarie in house sia sulle
società miste, sulle fondazioni e sulle associazioni, mentre
resterebbero escluse le istituzioni e le aziende speciali
per la loro configurazione pubblicistica.
L'inconferibilità vieta agli enti locali di conferire
incarichi a coloro che abbiano riportato condanne penali per
i reati contro la Pa, ma anche a chi abbia svolto incarichi
o ricoperto cariche in società partecipate o svolto attività
professionali a favore di questi ultimi, oltre che a coloro
che siano stati componenti di organi di indirizzo politico:
la caratteristica della disciplina è la sottoposizione alla
condizione limitativa delle nomine e delle assunzioni di
cariche nelle due direttrici.
La disposizione-chiave è l'articolo 7, che al comma 2 vieta
a Province, Comuni con più di 15.000 abitanti e Unioni con
la stessa dimensione di attribuire incarichi di
amministratore in società o organismi sottoposti al loro
controllo a soggetti che siano stati nei due anni precedenti
amministratori locali negli enti conferenti (senza limite
dimensionale) o nell'anno prima amministratori locali in un
comune o un'unione con più di 15.000 abitanti. Sono
assoggettati alla condizione ostativa anche gli ex
presidenti o ad di partecipate (in controllo pubblico) da
enti locali della stessa regione.
Questo ultimo profilo impedisce che un ex amministratore di
una società partecipata, esauriti i suoi mandati nella
stessa, sia nominato in una società partecipata da un altro
ente locale nella stessa regione.
Tali disposizioni impediscono inoltre al Segretario generale
e ai dirigenti che svolgono su di esse funzioni di controllo
di essere nominati nei cda delle società partecipate (e
negli altri organismi di diritto privato) sottoposte a
controllo.
La normativa non incide tuttavia sulle nomine effettuate da
Comuni con popolazione inferiore ai 15mila abitanti se la
società partecipata non ha come socio nessun Comune (o
Unione) con dimensioni superiori.
Anche i piccoli enti, invece, devono attenersi alle norme
sull'incompatibilità, stabilite negli articoli 9, 11 e 13
del Dlgs 39/2013, in base alle quali il soggetto cui viene
conferito l'incarico deve scegliere, a pena di decadenza,
entro il termine perentorio di 15 giorni, tra la permanenza
nell'incarico e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e
cariche nella società controllata dall'ente che lo nomina,
lo svolgimento di attività professionali o l'assunzione
della carica di componente di organi di indirizzo politico.
Le disposizioni del decreto incidono pertanto sulle norme
dell'articolo 4, comma 5, della legge 135/2012, inerenti
l'obbligo di nomina di dipendenti dell'amministrazione
controllante nei cda delle società partecipate e devono
inoltre essere poste in combinazione con le previsioni del
Dlgs 267/2000 su ineleggibilità (articolo 60) e di
incompatibilità (articoli 63 e 67).
---------------
Il meccanismo
01|LA CAUSA
L'inconferibilità si riferisce a chi sia stato negli ultimi
due anni presidente o amministratore delegato di una società
in controllo pubblico da parte di Province, Comuni e loro
forme associative, a prescindere dalla dimensione
demografica
02|LA CONSEGUENZA
A questi soggetti sono preclusi, all'interno della stessa
regione, incarichi amministrativi di vertice in Province o
Comuni o Unioni con più di 15mila abitanti o incarichi di
amministratore di ente privato controllato, sempre
nell'ambito degli enti con più di 15mila abitanti. Stop
anche agli incarichi di amministratore di ente pubblico di
livello provinciale o comunale (articolo Il Sole 24 Ore del
29.04.2013). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Si ha violazione di
giudicato quando il nuovo atto emanato dall’amministrazione
riproduce i medesimi vizi già censurati ovvero si pone in
contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti
dalla precedente statuizione del giudice, mentre si
configura la fattispecie dell’elusione del giudicato laddove
l’amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare
esecuzione al giudicato, tende sostanzialmente a raggirarlo
in modo da pervenire surrettiziamente allo stesso esito,
oggetto del recedente annullamento.
L’atto emanato dall’amministrazione dopo l’annullamento in
sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo può
considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato
solo quanto da esso derivava un obbligo talmente puntuale
che il suo contenuto era desumibile nei suoi tratti
essenziali direttamente dalla sentenza.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, si ha
violazione di giudicato quando il nuovo atto emanato
dall’amministrazione riproduce i medesimi vizi già censurati
ovvero si pone in contrasto con precise e puntuali
prescrizioni provenienti dalla precedente statuizione del
giudice, mentre si configura la fattispecie dell’elusione
del giudicato laddove l’amministrazione, pur formalmente
provvedendo a dare esecuzione al giudicato, tende
sostanzialmente a raggirarlo in modo da pervenire
surrettiziamente allo stesso esito, oggetto del recedente
annullamento (C.d.S., sez. IV, 04.03.2011, n. 1415; 01.04.2011, n. 2070; sez. V, 20.04.2012, n. 2348; sez. VI,
05.07.2011, n. 4037).
E’ stato anche precisato che l’atto emanato
dall’amministrazione dopo l’annullamento in sede
giurisdizionale di un provvedimento illegittimo può
considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato
solo quanto da esso derivava un obbligo talmente puntuale
che il suo contenuto era desumibile nei suoi tratti
essenziali direttamente dalla sentenza (ex multis, C.d.S.,
sez. IV, 21.05.2010, n. 3223; sez. VI, 03.05.2011, n. 2601;
07.06.2011, n. 3415)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Non solo, in via
generale, l’ammissibilità della convalida di un atto nelle
more del giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio in
virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21-nonies della
legge 07.08.1990, n. 241, per quanto, proprio con
riferimento alla disposizione contenuta nell’art. 6 della
legge 18.03.1968, n. 249, è stato affermato che essa
consente la convalida o la ratifica degli atti viziati da
incompetenza anche in pendenza di gravame, in sede
amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la
sola esclusione dell’ipotesi che sia intervenuta una
sentenza passata in giudicato, fermo restando che essa è
tuttora vigente e compatibile con le disposizioni contenute
nella legge 07.08.1990, n. 241.
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli
articoli 24 e 113 della Costituzione è dato rinvenire per
effetto della convalida o della ratifica di un atto
amministrativo, atteso che l’esercizio del potere di
convalida (ratifica) comporta un provvedimento, nuovo ed
autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere
costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato al fine
di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è
stato emanato, nuovo atto che non è affatto sottratto al
sindacato giurisdizionale.
Al riguardo la
Sezione osserva che, come emerge dalla sua lettura, con la
delibera consiliare n. 187 del 21.12.1998 è stata
convalidata (rectius, ratificata) la delibera di giunta
municipale n. 838 del 24.09.1998, con cui era stata (ri)determinata,
ora per allora, l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993, nella
misura del 6 per mille, giacché per effetto delle
sopravvenute modifiche al testo dell’articolo 6 del D.Lgs.
n. 504 del 1992 competente ad adottare la delibera di
fissazione dell’aliquota era l’organo consiliare.
Orbene, se non può minimamente dubitarsi dell’esistenza
dell’interesse pubblico, concreto ed attuale,
all’eliminazione del vizio formale di incompetenza,
interesse insito nella natura pacificamente tributaria dell’I.C.I.
e delle sue peculiari finalità, sopra accennate, d’altra
parte deve ricordarsi che non solo, in via generale,
l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del
giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio in virtù delle
disposizioni contenute nell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 (C.d.S., sez. IV, 14.10.2011, n.
5538), per quanto, proprio con riferimento alla disposizione
contenuta nell’art. 6 della legge 18.03.1968, n. 249, è
stato affermato che essa consente la convalida o la ratifica
degli atti viziati da incompetenza anche in pendenza di
gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di
appello, con la sola esclusione dell’ipotesi che sia
intervenuta una sentenza passata in giudicato (C.d.S., sez. IV 29.05.2009, n. 3371; 31.05.2007, n. 2894; 28.02.2005, n. 739), fermo restando che essa è tuttora
vigente e compatibile con le disposizioni contenute nella
legge 07.08.1990, n. 241 (C.d.S., sez. VI, 07.05.2009,
n. 2840).
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli
articoli 24 e 113 della Costituzione è dato rinvenire per
effetto della convalida o della ratifica di un atto
amministrativo, atteso che l’esercizio del potere di
convalida (ratifica) comporta, com’è avvenuto nel caso di
specie, un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a
quella da convalidare, di carattere costitutivo, che si
ricollega all’atto convalidato al fine di mantenerne gli
effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato, nuovo
atto che non è affatto sottratto al sindacato
giurisdizionale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il
contenuto del piano regolatore generale anche
all'indicazione dei "vincoli da osservare nelle zone a
carattere storico, ambientale e paesistico", legittima
l'autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica
a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei
vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni
competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni. Ne
consegue che la sussistenza di competenze statali e
regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la
tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di
adozione e approvazione di un piano regolatore generale.
Si è del pari ritenuto che “il piano regolatore generale,
nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle
zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può
disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli
conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle
commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia
delle cose di interesse storico, artistico o ambientale”.
Per quanto sopra detto si ricava che la distinzione tra le
forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le
scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di complessi
edilizi di interesse culturale, storico ed ambientale non
risiede nel dato quantitativo relativo all’ambito, puntuale
o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni
limitative quanto nel dato teleologico relativo alla diversa
finalità che permea le rispettive statuizioni
amministrative.
---------------
Il piano regolatore generale può recare previsioni
vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in
sé quali “zone”, quante volte la scelta, pur se puntuale
sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela
autonoma dell’immobile ex se considerato ma al
soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal
carattere qualificante che il singolo immobile assume nel
contesto dell’assetto territoriale.
In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione
rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di
settore in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente
al fine di giustificare l’adozione di un provvedimento
impositivo di vincolo culturale o paesaggistico in base alla
considerazione atomistica delle caratteristiche del bene,
viene valutato come elemento particolare valore urbanistico
e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di
scelta pianificatoria.
E tanto in coerenza con una nozione ampia della materia
urbanistica, che valorizza la funzione di governo del
territorio attraverso la disciplina, nella loro globalità,
di tutti i possibili insediamenti e delle altre
utilizzazioni del territorio.
L'art. 7, n. 5, della legge 17.08.1942 n.1150, sostituito dalla
legge 19.11.1968 n. 1187, include tra i contenuti
essenziali del piano regolatore generale, "i vincoli da
osservare nelle zone a carattere storico, ambientale,
paesistico".
Detta norma si salda con la disciplina dettata dall’art. 36
della legge regionale 07.12.1978 n. 47 n. 47/1978,
secondo cui il piano regolatore generale, può individuare
gli edifici e i complessi edilizi di interesse culturale,
storico-artistico ambientale, dettando la relativa
disciplina particolareggiata secondo le categorie di
intervento A1 (restauro scientifico) e A2 (restauro
conservativo), delimitando le eventuali aree verdi di
pertinenza o, comunque, gli spazi liberi circostanti di
rispetto non edificabili e definendo le destinazioni d' uso.
L’articolo 27 della medesima legge regionale prevede
interventi di recupero del patrimonio urbanistico ed
edilizio in zone che possono comprendere anche singoli
immobili, complessi edilizi nonché edifici isolati ed aree.
Tanto premesso quanto alla ricognizione del dato
positivo, merita condivisione l’insegnamento
giurisprudenziale alla stregua del quale “l’art. 1 l. 19.11.1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del piano
regolatore generale anche all'indicazione dei "vincoli da
osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e
paesistico", legittima l'autorità titolare del potere di
pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali
interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti
dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e
ulteriori limitazioni. Ne consegue che la sussistenza di
competenze statali e regionali in materia di bellezze
naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia
perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano
regolatore generale.” (Cons. Stato, sez. IV, 05.10.1995,
n. 781).
Si è del pari ritenuto che “il piano regolatore
generale, nell'indicare i limiti da osservare per
l'edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e
paesistico, può disporre che determinate aree siano
sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da
quelli disposti dalle commissioni competenti nel
perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse
storico, artistico o ambientale” (Cons. Stato, sez. IV, 14.02.1990, n. 78).
Dall’esame congiunto delle coordinate normative e
giurisprudenziali passate in rassegna si ricava che la
distinzione tra le forme di tutela previste dalla
legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte
alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse
culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato
quantitativo relativo all’ambito, puntuale o meno, degli
oggetti interessati dalle determinazioni limitative quanto
nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che
permea le rispettive statuizioni amministrative.
Non è quindi condivisibile l’assunto, che sorregge la
sentenza appellata, secondo cui le scelte pianificatorie
dovrebbero riguardare necessariamente un ambito territoriale
non definibile a priori ma comunque non riducibile a
specifici fabbricati.
Si deve al contrario ritenere, alla
luce del tenore del dato positivo e della ratio che lo
informa, che il piano regolatore generale possa recare
previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici,
configurati in sé quali “zone”, quante volte la scelta, pur
se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non
alla tutela autonoma dell’immobile ex se considerato ma al
soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal
carattere qualificante che il singolo immobile assume nel
contesto dell’assetto territoriale. In tale caso, infatti,
non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di
azione della legislazione statale di settore in quanto il
pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di
giustificare l’adozione di un provvedimento impositivo di
vincolo culturale o paesaggistico in base alla
considerazione atomistica delle caratteristiche del bene,
viene valutato come elemento particolare valore urbanistico
e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di
scelta pianificatoria.
E tanto in coerenza con una nozione ampia della materia
urbanistica, che valorizza la funzione di governo del
territorio attraverso la disciplina, nella loro globalità,
di tutti i possibili insediamenti e delle altre
utilizzazioni del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.04.2013 n. 2265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI -
URBANISTICA:
L’individuazione
dell’area ove ubicare un’opera pubblica costituisce una
scelta tecnico-discrezionale dell’amministrazione, che resta
naturalmente sottratta al sindacato di legittimità, salvo
evidenti profili di illogicità o abnormità.
In linea generale, va richiamato il consolidato orientamento
giurisprudenziale, dal quale la Sezione non ravvisa motivo
per discostarsi, secondo cui l’individuazione dell’area ove
ubicare un’opera pubblica costituisce una scelta
tecnico-discrezionale dell’amministrazione, che resta
naturalmente sottratta al sindacato di legittimità, salvo
evidenti profili di illogicità o abnormità (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 15.05.2008, nr. 2247; id., 31.07.2007, nr.
4051) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.04.2013 n. 2257 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La destinazione a "verde
pubblico attrezzato" ha di regola natura conformativa,
dovendo però verificarsi caso per caso, alla stregua della
concreta disciplina urbanistica posta dallo strumento
generale, se questa comporti la preclusione pressoché totale
di ogni attività edilizia, con conseguente svuotamento
sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima
ipotesi potendosene ritenere il carattere espropriativo.
Per una corretta ricostruzione della disciplina urbanistica
dell’area, che costituisce la questione centrale del
presente giudizio, conviene muovere dalla seconda delle
doglianze richiamate nella narrativa in fatto: e, cioè, da
quella con cui si lamenta la natura espropriativa della
destinazione a “verde pubblico attrezzato” impressa
dal P.P. del 1982, e quindi la sua decadenza –anche a
volerla ritenere recepita dal successivo P.R.G.– per decorso
del termine quinquennale di efficacia.
Al riguardo, la più recente giurisprudenza della Sezione è
nel senso che la detta destinazione abbia di regola natura
conformativa, dovendo però verificarsi caso per caso, alla
stregua della concreta disciplina urbanistica posta dallo
strumento generale, se questa comporti la preclusione
pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente
svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in
tale ultima ipotesi potendosene ritenere il carattere
espropriativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2012, nr.
6094; id., 11.09.2012, nr. 4815; id., 16.09.2011, nr. 5216)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.04.2013 n. 2254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La insindacabilità nel merito di apprezzamenti
discrezionali, come quelli sottesi alla perimetrazione di un
Parco naturale, ha conosciuto nel corso del tempo una
significativa evoluzione, in linea con i principi
costituzionali e comunitari del “giusto processo”
–inscindibile dalla effettività della tutela– e del “giusto
procedimento amministrativo”, che vede la pubblica autorità
chiamata a rendere conto in modo sempre più incisivo –e con
accresciute modalità di partecipazione e di verifica dei
diretti interessati– della razionalità delle proprie
determinazioni.
Le vecchie formule, che limitavano il sindacato
giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali
all’esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità
dell’iter logico, seguito dall’Autorità emanante il
provvedimento, debbono ormai ritenersi superate dai
parametri di attendibilità della valutazione, che sia frutto
di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della
scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità
amministrativa.
Sotto il primo profilo, infatti, è, ormai, pacificamente
censurabile la valutazione che si ponga al di fuori
dell’ambito di esattezza o attendibilità, quando non
appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura
ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza
consolidata o di dottrina dominante in materia.
Un’evoluzione analoga non può non investire la
discrezionalità cosiddetta amministrativa, sotto il profilo
non tanto dell’an e del quid, ma del quomodo, soprattutto
ove le scelte si proiettino su complessi bilanciamenti di
interessi, legati ai parametri costituzionali di buon
andamento e imparzialità dell’amministrazione.
Un criterio di scelta, formulato come discrezionale e
pertanto insindacabile nel merito, può, infatti, ritenersi
funzionalmente deviato –ed essere sindacabile sul piano
della legittimità– “quando non renda esplicita e
verificabile la logica interna che lo ispira, non
consentendo di appurare l’effettivo perseguimento della
scelta ottimale fra più soluzioni possibili, nell’interesse
pubblico ed in comparazione con ogni altro possibile
interesse –anche privato– coinvolto”.
Occorre anzitutto, in punto di diritto, premettere alcune necessarie
considerazioni in merito alla sindacabilità delle scelte
della p.a. in tema di perimetrazione dei parchi.
La insindacabilità nel merito di apprezzamenti
discrezionali, come quelli sottesi alla perimetrazione di un
Parco naturale, ha conosciuto nel corso del tempo una
significativa evoluzione, in linea con i principi
costituzionali e comunitari del “giusto processo” –inscindibile dalla effettività della tutela– e del “giusto
procedimento amministrativo”, che vede la pubblica autorità
chiamata a rendere conto in modo sempre più incisivo –e con
accresciute modalità di partecipazione e di verifica dei
diretti interessati– della razionalità delle proprie
determinazioni.
Le vecchie formule, che limitavano il sindacato
giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali
all’esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità
dell’iter logico, seguito dall’Autorità emanante il
provvedimento, debbono ormai ritenersi superate dai
parametri di attendibilità della valutazione, che sia frutto
di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della
scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità
amministrativa.
Sotto il primo profilo, infatti, è, ormai, pacificamente
censurabile la valutazione che si ponga al di fuori
dell’ambito di esattezza o attendibilità, quando non
appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura
ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza
consolidata o di dottrina dominante in materia (cfr. in tal
senso, per il principio, Cons. St., sez IV, 13.10.2003, n.
6201; Cons. St., sez. VI, 06.02.2009, n. 694; Cons. St., sez. VI; 27.10.2009, n. 6559; Corte europea dei diritti
dell’uomo, Albert et Le Compte c. Belgio, par. 29, 10.02.1983 e Obermeier c. Austria, par 70, 28.06.1990).
Un’evoluzione analoga non può non investire la
discrezionalità cosiddetta amministrativa, sotto il profilo
non tanto dell’an e del quid, ma del quomodo, soprattutto
ove le scelte si proiettino su complessi bilanciamenti di
interessi, legati ai parametri costituzionali di buon
andamento e imparzialità dell’amministrazione.
Un criterio di scelta, formulato come discrezionale e
pertanto insindacabile nel merito, può, infatti, ritenersi
funzionalmente deviato –ed essere sindacabile sul piano
della legittimità– “quando non renda esplicita e
verificabile la logica interna che lo ispira, non
consentendo di appurare l’effettivo perseguimento della
scelta ottimale fra più soluzioni possibili, nell’interesse
pubblico ed in comparazione con ogni altro possibile
interesse –anche privato– coinvolto” (Cons. St., sez. V,
08.03.2012, n. 1330) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.04.2013 n. 2253 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il piano quadro è uno
strumento parallelo, nella sostanza, al piano
particolareggiato e che è prevista, in alternativa all’uno e
all’altro, la possibilità per i privati di presentare un
piano di lottizzazione.
L’appello del Comune, per quanto attiene alla censura proposta contro la
statuizione annullatoria della delibera n. 51/2004 che ha
rigettato l’istanza di lottizzazione proposta dalla
Cooperativa, deve essere respinto.
Il Comune di Crispiano deduce anzitutto l’erroneità della
sentenza del TAR, nella parte in cui ha ritenuto che non
sarebbe necessaria l’adozione di un piano quadro per
l’accoglimento della proposta lottizzativa.
L’appellante assume che l’adozione di tale piano,
diversamente da quanto ha ritenuto il primo giudice, sia
necessaria.
Si tratta, tuttavia, di un assunto infondato.
Occorre invero osservare, in primo luogo, che il
provvedimento impugnato, nel corpo della sua motivazione, in
alcun punto e in alcun modo ha inteso far riferimento alla
necessità del piano quadro per l’accoglimento dell’istanza.
Le diffuse argomentazioni esposte al riguardo
dall’appellante, come anche le molteplici motivazioni sul
punto spese dal TAR, appaiono ininfluenti, quindi, ai
fini del decidere, ove si ci si attenga, propriamente e
doverosamente, a quello che è l’oggetto proprio e specifico
del provvedimento impugnato.
Ad ogni buon conto questa Sezione, per quanto rilevar possa,
ha già avuto modo di chiarire, in una fattispecie analoga a
quella oggetto del presente giudizio, che il piano quadro è
uno strumento parallelo, nella sostanza, al piano
particolareggiato e che è prevista, in alternativa all’uno e
all’altro, la possibilità per i privati di presentare un
piano di lottizzazione (Cons. St., sez. IV, 19.03.2003, n.
1456).
Peraltro, come correttamente rilevato dal TAR, l’alternatività
del piano quadro rispetto al piano di lottizzazione si
desume chiaramente dall’elaborato grafico (TAV. 3) del PdF
nel quale si legge, in modo che non lascia spazio a dubbio
alcuno, che “il rilascio delle licenze edilizie è
subordinato alla redazione di un piano di lottizzazione
convenzionata o di un piano quadro con l’obbligo
dell’assunzione degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria”.
L’alternatività del piano quadro rispetto al piano di
lottizzazione è stata anche riconosciuta, expressis verbis,
dalla stessa amministrazione comunale, che il 24.04.1996 ha
rilasciato alla Cooperativa un certificato di destinazione
urbanistica, nel quale si legge che l’area rientra nella
zona ES e che in tale zona l’edificazione sarebbe stata
subordinata alla preventiva approvazione “di un piano di
lottizzazione o alternativamente di un piano quadro” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.04.2013 n. 2252 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte di pianificazione effettuate dall’Ente
locale in sede di adozione dello strumento urbanistico,
afferendo ad una prima fase del più ampio e complesso
procedimento di pianificazione generale, culminante
nell’approvazione del Piano regolatore, non possono ex se
far sorgere aspettative in ordine ad una definitiva
zonizzazione di immobili.
Invero, dalla mera adozione di un PRG “non possono
discendere in capo agli interessati aspettative edificatorie
qualificate rispetto alle successive scelte pianificatorie
operate in via definitiva dal Comune con il concorso della
Regione”.
A ciò occorre aggiungere che, in sede di adozione dello
strumento urbanistico generale, il Comune non risulta
“vincolato” dalle precedenti indicazioni urbanistiche, a
maggior ragione laddove le stesse discendano da un mero
programma di fabbricazione. Ed infatti, in caso contrario,
ogni nuova scelta pianificatoria dell’Ente locale
risulterebbe necessariamente “condizionata” (e quindi
“depotenziata”) dalle scelte effettuate in passato,
pervenendosi ad una cristallizzazione (come tale
immodificabile) delle destinazioni (e potenzialità
edificatorie) dei suoli.
A tali fini, appare sufficiente che, in sede di nuova
pianificazione generale, l’Ente locale dia conto delle
ragioni che sorreggono le scelte di pianificazione
effettuate, senza necessità di dover specificamente motivare
in ordine ad ogni singola variazione intervenuta.
Inoltre, proprio perché il procedimento di approvazione di
un Piano regolatore generale si presenta particolarmente
complesso e vede l’intervento, oltre che dei cittadini che
intendano presentare osservazioni ed opposizioni, anche, con
poteri differenti, della Regione, le indicazioni
urbanistiche definitive ben possono risultare dalle
indicazioni grafiche risultanti dalle planimetrie, purché le
stesse si presentino coerenti (e siano dunque sorrette)
dalle motivazioni generali che hanno determinato le scelte
urbanistiche dell’Ente locale, ovvero l’intervento
correttivo della Regione, in sede di approvazione.
Ed infine, ben può l’Ente locale, alla luce delle
osservazioni, prescrizioni e/o condizioni espresse dalla
Regione in sede di approvazione del Piano regolatore,
riparametrare talune sue scelte, senza necessità –perché si
possa intervenire su singole zonizzazioni– di una
indicazione puntuale, cioè riferita specificamente ad una
specifica area od immobile, della Regione medesima.
---------------
L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede
di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in
cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte,
ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e
risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e
dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza
necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.
Il Collegio deve innanzi tutto osservare –in ciò condividendo
quanto affermato dal I giudice– che le scelte di
pianificazione effettuate dall’Ente locale in sede di
adozione dello strumento urbanistico, afferendo ad una prima
fase del più ampio e complesso procedimento di
pianificazione generale, culminante nell’approvazione del
Piano regolatore, non possono ex se far sorgere aspettative
in ordine ad una definitiva zonizzazione di immobili.
Così come affermato condivisibilmente dalla sentenza
appellata, dalla mera adozione di un PRG “non possono
discendere in capo agli interessati aspettative edificatorie
qualificate rispetto alle successive scelte pianificatorie
operate in via definitiva dal Comune con il concorso della
Regione”.
A ciò occorre aggiungere che, in sede di adozione dello
strumento urbanistico generale, il Comune non risulta
“vincolato” dalle precedenti indicazioni urbanistiche, a
maggior ragione laddove le stesse discendano da un mero
programma di fabbricazione. Ed infatti, in caso contrario,
ogni nuova scelta pianificatoria dell’Ente locale
risulterebbe necessariamente “condizionata” (e quindi
“depotenziata”) dalle scelte effettuate in passato,
pervenendosi ad una cristallizzazione (come tale
immodificabile) delle destinazioni (e potenzialità
edificatorie) dei suoli.
A tali fini, appare sufficiente che, in sede di nuova
pianificazione generale, l’Ente locale dia conto delle
ragioni che sorreggono le scelte di pianificazione
effettuate, senza necessità di dover specificamente motivare
in ordine ad ogni singola variazione intervenuta.
Inoltre, proprio perché il procedimento di approvazione di
un Piano regolatore generale si presenta particolarmente
complesso e vede l’intervento, oltre che dei cittadini che
intendano presentare osservazioni ed opposizioni, anche, con
poteri differenti, della Regione, le indicazioni
urbanistiche definitive ben possono risultare dalle
indicazioni grafiche risultanti dalle planimetrie, purché le
stesse si presentino coerenti (e siano dunque sorrette)
dalle motivazioni generali che hanno determinato le scelte
urbanistiche dell’Ente locale, ovvero l’intervento
correttivo della Regione, in sede di approvazione.
Ed infine, ben può l’Ente locale, alla luce delle
osservazioni, prescrizioni e/o condizioni espresse dalla
Regione in sede di approvazione del Piano regolatore,
riparametrare talune sue scelte, senza necessità –perché si
possa intervenire su singole zonizzazioni– di una
indicazione puntuale, cioè riferita specificamente ad una
specifica area od immobile, della Regione medesima.
---------------
E’, infine, il
caso di ricordare che l’onere di motivazione gravante
sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento
urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone
territorialmente circoscritte, ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto
con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che
sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV,
03.11.2008 n. 5478) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.04.2013 n. 2250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' pacifico che
l'Amministrazione comunale, sulle aree gravate da una
servitù di passaggio su un'area privata, debba esercitare il
potere diretto a garantire ed a disciplinare l'uso generale
del bene da parte della collettività, nell'ambito del
pubblico interesse giustificativo della servitù medesima,
concedendo l’uso particolare (cfr. l’art. 38, comma 3, del
Dlgs. 15.11.1993, n. 507, che infatti assoggetta ad
autorizzazione e al pagamento della relativa tassa
l’occupazione di suolo privato ad uso pubblico).
Nel caso di specie tali poteri sussistono in quanto,
quand’anche la striscia di terreno fosse da qualificare come
privata, quell’area è sicuramente assoggettata all’uso
pubblico, in quanto gravata da lunghissimo tempo da una
servitù di pubblico passaggio pedonale costante ed
indiscriminato a favore della generalità di persone.
Considerato:
- che con il provvedimento impugnato il Comune di Villa
Estense ha ordinato la rimozione di fioriere, panchine e
vasi che sono stati apposti alla ricorrente sulla via
Cavour, nella parte esterna alla carreggiata non asfaltata
prospiciente il muro di cinta del giardino pertinenziale
dell’edificio di proprietà;
- che tale provvedimento è impugnato per le censure di
violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990,
perché la precedente comunicazione del 15.06.2012 faceva
riferimento a problematiche inerenti l’occupazione di suolo
pubblico, mentre il provvedimento impugnato è motivato con
la necessità di evitare che tali manufatti siano lasciati in
stato di abbandono, divenendo ricettacolo di sporcizia e
deposito rifiuti, causa di propagazione di vegetazione
infestante con conseguenti problematiche igienico sanitarie,
e per prevenire situazioni di intralcio alla circolazione
veicolare e pedonale che siano causa di situazioni di
pericolo;
- che con ulteriore censura si lamenta il difetto di
istruttoria e di motivazione, l’illogicità e la disparità di
trattamento in quanto non è comprovata la sussistenza delle
condizioni di degrado indicate nell’ordinanza, e in mancanza
delle fioriere e delle panchine vi è il rischio che vengano
parcheggiate delle automobili, mettendo a rischio lo stato
di conservazione del muro di cinta, e comunque, come risulta
dalla perizia allegata al ricorso, la striscia di terreno è
di proprietà privata;
- che si è costituito in giudizio il Comune di Villa Estense
eccependo l’inammissibilità del ricorso per carenza di
interesse nonché per la mancata notifica del medesimo ai
controinterssati, e concludendo per la sua reiezione;
- che per economicità di giudizio si può prescindere
dall’esaminare le eccezioni di inammissibilità perché il
ricorso è infondato nel merito;
- che infatti, contrariamente a quanto dedotto, il
provvedimento impugnato non presuppone neppure
l’accertamento della proprietà comunale della porzione di
terreno sulla quale sono presenti le fioriere e le panchine,
ma l’esistenza o meno di poteri del Comune a disciplinare
l’uso generale di quel suolo da parte della collettività;
- che infatti è pacifico che l'Amministrazione comunale,
sulle aree gravate da una servitù di passaggio su un'area
privata, debba esercitare il potere diretto a garantire ed a
disciplinare l'uso generale del bene da parte della
collettività, nell'ambito del pubblico interesse
giustificativo della servitù medesima, concedendo l’uso
particolare (cfr. l’art. 38, comma 3, del Dlgs. 15.11.1993, n. 507, che infatti assoggetta ad autorizzazione e al
pagamento della relativa tassa l’occupazione di suolo
privato ad uso pubblico);
- che nel caso di specie tali poteri sussistono in quanto,
quand’anche la striscia di terreno fosse da qualificare come
privata, quell’area è sicuramente assoggettata all’uso
pubblico, in quanto gravata da lunghissimo tempo da una
servitù di pubblico passaggio pedonale costante ed
indiscriminato a favore della generalità di persone;
- che pertanto va respinta la censura di cui al secondo
motivo, in quanto l’abusività dell’installazione delle
fioriere e delle panchine è sufficiente a sorreggere
l’ordine di rimozione e, come dedotto dal Comune nelle
proprie difese, la presenza di tali manufatti è
oggettivamente idonea a costituire un intralcio alla
manutenzione del ciglio della strada, con conseguente
degrado della stessa, ed intralcio alla circolazione dei
veicoli e dei pedoni (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 22.04.2013 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'asservimento della volumetria da un lotto a
favore di un altro, onde realizzare una maggiore
edificabilità, è consentita solo con riferimento ad aree
aventi una medesima destinazione urbanistica, posto che
diversamente si verificherebbe un'evidente alterazione delle
caratteristiche tipologiche della zona tutelate dalle norme
urbanistiche.
---------------
Anche ove le aree tra le quali andrebbe operata la cessione
di cubatura appartengano ad una stessa zona ai sensi del
D.M. n. 1444 del 1968, la loro riconducibilità a sottozone
diverse, contrassegnate da una diversità di
regolamentazione, potrebbe ostare ad una valutazione di
omogeneità.
Invero, questa interpretazione prospettata dal Comune è da
condividere, le quante volte le diversità di disciplina
riscontrabili tra le sottozone in giuoco abbiano
un’apprezzabile incidenza sostanziale sulla destinazione di
indirizzo dei rispettivi fondi, e possa dunque profilarsi
quale effetto dell'asservimento un'elusione dei limiti posti
dallo strumento urbanistico, con un’alterazione delle
caratteristiche tipologiche da questo tutelate.
Del resto, la giurisprudenza è consolidata sul principio per cui
l'asservimento della volumetria da un lotto a favore di un
altro, onde realizzare una maggiore edificabilità, è
consentita solo con riferimento ad aree aventi una medesima
destinazione urbanistica, posto che diversamente si
verificherebbe un'evidente alterazione delle caratteristiche
tipologiche della zona tutelate dalle norme urbanistiche
(Consiglio Stato sez. V, 11.04.1991, n. 530; v.
peraltro, in precedenza, sez. IV, 04.05.1979, n. 302,
che, dopo avere avvertito che l'asservimento di aree
rispetto ad una licenza edilizia ha la funzione di
concentrare su un'area, oltre alla volumetria propria di
essa, anche quella spettante ad aree diverse appartenenti
allo stesso o ad altri proprietari, aveva già chiarito che
una simile possibilità è data solo nel rispetto delle norme
disciplinanti l'attività edilizia sull'area a favore della
quale viene operato l'asservimento, che trova un limite
insuperabile nell'omogeneità dell'area da asservire rispetto
a quella destinata all'edificazione, onde prevenire
l'elusione dei limiti posti dallo strumento urbanistico; sul
requisito dell’omogeneità cfr. anche, più di recente, sez.
V, 03.03.2003, n. 1172; 10.06.2005, n. 3052; 22.10.2007, n. 5496; sez. IV, 30.09.2008, n. 4708).
---------------
La tesi di
fondo di parte ricorrente è, infatti, quella che l’esistenza
del requisito dell’omogeneità tra area ceduta ed area
beneficiaria, vale a dire le due sottozone F2 ed F3, sarebbe
assicurata già, una volta per tutte, dal fatto stesso della
loro comune appartenenza alla zona agricola “F”.
Per contro, l’interpretazione seguita dall’Amministrazione,
e convalidata dal primo Giudice, si ispira al più rigoroso
ordine di idee per cui anche ove le aree tra le quali
andrebbe operata la cessione di cubatura appartengano ad una
stessa zona ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968, la loro
riconducibilità a sottozone diverse, contrassegnate da una
diversità di regolamentazione, potrebbe ostare ad una
valutazione di omogeneità.
La Sezione ritiene che questa seconda interpretazione, da
essa già condivisa (decisione 22.10.2007, n. 5496), sia
preferibile, le quante volte le diversità di disciplina
riscontrabili tra le sottozone in giuoco abbiano, come nella
specie, un’apprezzabile incidenza sostanziale sulla
destinazione di indirizzo dei rispettivi fondi, e possa
dunque profilarsi quale effetto dell'asservimento
un'elusione dei limiti posti dallo strumento urbanistico,
con un’alterazione delle caratteristiche tipologiche da
questo tutelate
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2220 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della tutela vincolistica su beni
archeologici, «l’effettiva esistenza delle cose da tutelare
può essere dimostrata anche per presunzione e che è
ininfluente che i materiali oggetto di tutela siano stati
portati alla luce o siano ancora interrati, essendo
sufficiente che il complesso risulti adeguatamente definito
e che il vincolo archeologico appaia adeguato alla finalità
di pubblico interesse al quale è preordinato».
La stessa giurisprudenza ha specificato che
«l’amministrazione dei beni culturali ed ambientali può
estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati
ruderi archeologici particolarmente importanti: è
necessario, però, in tal caso, che i ruderi stessi
costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da
rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi
dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni
meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l’imposizione
della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità
di pubblico interesse cui è preordinata».
Più recentemente la Sezione, in relazione ad una fattispecie
analoga alla presente, ha affermato che «quando si tratta
della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto
ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a
tutela una intera area complessivamente abitata
nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura,
comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le
esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e
solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma
complessivamente tutta la complessiva superficie destinata
illo tempore all’insediamento umano».
Ritiene la Sezione che l’appello sia fondato.
Il decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice
dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo
10 della L. 06.07.2002, n. 137), disciplina il
procedimento amministrativo per la dichiarazione di
interesse culturale di beni specificamente indicati, i
poteri di vigilanza e controllo del Ministero competente, le
modalità di protezione “diretta” dei beni stessi (si vedano,
in particolare, gli articoli 10, 18, 19 e 20 e seguenti).
La giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento
formatosi nella vigenza della legge 01.06.1939, n. 1089,
ma con affermazioni estensibili al nuovo sistema, ha già
avuto modo di rilevare che, ai fini della tutela
vincolistica su beni archeologici, «l’effettiva esistenza
delle cose da tutelare può essere dimostrata anche per
presunzione e che è ininfluente che i materiali oggetto di
tutela siano stati portati alla luce o siano ancora
interrati, essendo sufficiente che il complesso risulti adeguatamente definito e che il vincolo archeologico appaia
adeguato alla finalità di pubblico interesse al quale è
preordinato» (Cons. Stato, VI, 01.03.2005, n. 805).
La stessa giurisprudenza ha specificato che
«l’amministrazione dei beni culturali ed ambientali può
estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati
ruderi archeologici particolarmente importanti: è
necessario, però, in tal caso, che i ruderi stessi
costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da
rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi
dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni
meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l’imposizione
della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità
di pubblico interesse cui è preordinata» (Cons. Stato. VI,
n. 5069 del 2005).
Più recentemente la Sezione, in relazione ad una fattispecie
analoga alla presente, ha affermato che «quando si tratta
della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto
ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a
tutela una intera area complessivamente abitata
nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura,
comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le
esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e
solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma
complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano» (Cons. Stato, VI,
29.01.2013, n. 522) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.04.2013 n. 1906 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e ruolo del notaio.
Nell’illecito
lottizzatorio, non può ritenersi assiomaticamente
sussistente la buona fede dell’acquirente per il solo fatto
che quegli si sia rivolto ad un notaio quale pubblico
ufficiale rogante. Le parti stipulanti infatti -proprio al
fine specifico di non fare emergere elementi indiziari di
uno scopo lottizzatorio dell'attività negoziale- potrebbero
rendere dichiarazioni non veritiere, surrettiziamente
Incomplete o nebulose, oppure produrre documentazione
parziale e non corrispondente alla realtà.
Lo stesso notaio, infine, potrebbe concorrere alla
lottizzazione abusiva, sia contribuendo con la propria
condotta alla realizzazione dell’evento illecito (facendo
proprio il fine degli autori del reato, magari anche con
attiva induzione propiziatoria) sia per violazione del
dovere della normale diligenza professionale media esigibile
ai sensi del 2° comma dell’art. 1176 cod. civ.
L’intervento del notaio non garantisce una sorta di “ripulitura
giuridica" della originaria illegalità dell’immobile
abusivo, permettendo che esso resti definitivamente radicato
sul territorio, né può consentire all'acquirente di godere
di un acquisto dolosamente o colposamente attuato in ordine
ad un bene di provenienza illecita ed al costruttore abusivo
di conseguire comunque il suo illecito fine di lucro.
Argomentandosi in senso difforme (come efficacemente
rilevato in dottrina) lo scempio territoriale, che è
intollerabile perché perpetrato in violazione anche dei
doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della
Costituzione, diventerebbe praticamente intoccabile e la
cultura dell'illegalità diventerebbe diritto acquisito (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 08.04.2013 n. 15981). |
EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Uso di immobile realizzato in violazione di
vincoli.
Non c'è dubbio che anche l'uso dell'immobile, realizzato in
violazione di vincoli, si palesa idoneo ad aggravare le
conseguenze dannose prodotte dall'opera abusiva
sull'ecosistema protetto da vincolo paesaggistico o di altra
natura e giustifica l'applicazione della misura cautelare
diretta ad impedire la protrazione e l'aggravamento delle
conseguenze dannose del reato ed è altresì indubitabile che
la valutazione sul punto ha ad oggetto l'incidenza negativa
della condotta su un più delicato equilibrio rispetto a
quello riguardante genericamente il carico urbanistico sul
territorio, sicché la esclusione della idoneità dell'uso
della cosa a deteriorare ulteriormente l'ecosistema protetto
dal vincolo deve formare oggetto di un esame particolarmente
approfondito.
L'ulteriore lesione del bene protetto deve,
però, essere esclusa ove si accerti la assoluta
compatibilità di tale uso con gli interessi tutelati dal
vincolo, tenendosi conto della natura di quest'ultima e
della situazione preesistente alla realizzazione dell'opera
(massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.04.2013 n. 15802). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Discarica materiali di matrice cementizia
contenenti amianto.
L’art. 1, comma 184, lettera c), della legge n. 296 del
2006, come modificato dall’art. 1, comma 166, della legge n.
244 del 2007, il quale prevede che la proroga delle
autorizzazioni fino al 31.12.2008 non si applichi alle
discariche di II categoria, tipo A, in cui si conferiscono
materiali di matrice cementizia contenenti amianto, deve
essere interpretato nel senso che l'esclusione della proroga
dipende dal contenuto dell’autorizzazione e, cioè, dalla
tipologia di discarica e non dai materiali concretamente
conferiti nella stessa. La circostanza se una discarica
autorizzata a ricevere materiali di matrice cementizia
contenenti amianto abbia effettivamente ricevuto tali
materiali risulta, dunque, irrilevante.
Diversamente opinando, del resto, la proroga
dell’autorizzazione verrebbe fatta dipendere da un fattore
estraneo al contenuto dell’autorizzazione stessa e di
difficile accertamento, in quanto dipendente esclusivamente
dal comportamento in concreto tenuto dal gestore della
discarica (massima tratta da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.04.2013 n. 15782). |
PATRIMONIO:
Sì alla locazione "diretta" di un immobile
comunale non utilizzato a fini economici.
La decisione 5 aprile 2013, n. 285 risolve la questione
circa la possibilità per una civica P.A. di concedere “in
via diretta” a un privato la locazione di un bene
demaniale da utilizzarsi per un limitato periodo di tempo e
senza scopo di lucro.
Il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 30 e
144, D.Lgs. n. 163/2006, ha gravato la determinazione con
cui il competente dirigente, senza l’esperimento di una
procedura a evidenza pubblica, ha concesso in locazione a un
partito politico un immobile comunale da adibire a “luogo
di propaganda politica”.
Il TAR di Ancona, però, ha escluso l’applicabilità dei
principi sull’evidenza pubblica, atteso che il Comune non
solo aveva a disposizione ulteriori immobili comunali idonei
a soddisfare similari esigenze, ma era dotato di un
regolamento per cui era possibile l’affidamento a trattativa
privata delle concessioni di immobili, il cui canone annuo
di locazione era di modesta entità.
IL CASO
Il deducente, candidato Sindaco alle scorse consultazioni
elettorali, ha contestato la legittimità del provvedimento
di (diretta) concessione in locazione di un immobile
comunale a un partito politico, in quanto, a suo opinare, il
Comune avrebbe dovuto concedere il predetto bene previo
esperimento di una procedura a evidenza pubblica.
LE NORME VIOLATE
L’interessato, reputando che la concessione in locazione di
un bene demaniale sia da equiparare, in termini di
disciplina, alle concessioni di servizi o di lavori
pubblici, ha eccepito la violazione degli artt. 30 e 144,
D.Lgs. n. 163/2006.
Orbene, con riferimento alle concessioni di servizi, è
appena il caso di rammentare come l’art. 30 cit. sancisce
che: “1. Salvo quanto disposto nel presente articolo, le
disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di
servizi.
2. Nella concessione di servizi la controprestazione a
favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di
gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il
servizio. Il soggetto concedente stabilisce in sede di gara
anche un prezzo, qualora al concessionario venga imposto di
praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a
quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e
dell'ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia
necessario assicurare al concessionario il perseguimento
dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti e
della connessa gestione in relazione alla qualità del
servizio da prestare.
3. La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto
dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei
principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non
discriminazione, parità di trattamento, mutuo
riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui
sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in
tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto
della concessione e con predeterminazione dei criteri
selettivi.
4. Sono fatte salve discipline specifiche che prevedono
forme più ampie di tutela della concorrenza.
5. Restano ferme, purché conformi ai principi
dell'ordinamento comunitario, le discipline specifiche che
prevedono, in luogo delle concessione di servizi a terzi,
l'affidamento di servizi a soggetti che sono a loro volta
amministrazioni aggiudicatrici.
6. Se un'amministrazione aggiudicatrice concede a un
soggetto che non è un'amministrazione aggiudicatrice diritti
speciali o esclusivi di esercitare un'attività di servizio
pubblico, l'atto di concessione prevede che, per gli appalti
di forniture conclusi con terzi nell'ambito di tale
attività, detto soggetto rispetti il principio di non
discriminazione in base alla nazionalità.
7. Si applicano le disposizioni della parte IV. Si applica,
inoltre, in quanto compatibile l'art. 143, comma 7”.
Parallelamente, in materia di concessioni di lavori
pubblici, il successivo art. 144 prevede che: “1. Le
stazioni appaltanti affidano le concessioni di lavori
pubblici con procedura aperta o ristretta, utilizzando il
criterio selettivo dell'offerta economicamente più
vantaggiosa.
2. Quale che sia la procedura prescelta, le stazioni
appaltanti pubblicano un bando in cui rendono nota
l'intenzione di affidare la concessione.
3. I bandi relativi alle concessioni di lavori pubblici
contengono gli elementi indicati nel presente codice, le
informazioni di cui all'all. IX B e ogni altra informazione
ritenuta utile, secondo il formato dei modelli di formulari
adottati dalla Commissione in conformità alla procedura di
cui all'art. 77, par. 2, direttiva 2004/18. 3-bis. I bandi e
i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo
schema di contratto e il piano economico finanziario, sono
definiti in modo da assicurare adeguati livelli di
bancabilità dell'opera.
4. Alla pubblicità dei bandi si applica l'art. 66 ovvero
l'art. 122”.
LA DECISIONE DEL TAR
Il G.A. marchigiano non ha ritenuto meritevoli di
accoglimento le censure mosse dal deducente.
Sul proposito ha, infatti, precisato che mentre l’art. 30
del Codice riguarda unicamente le concessioni di servizi,
l’art. 144 afferisce le sole modalità di affidamento delle
concessioni di lavori relativi alla costruzione e gestione
di opere pubbliche.
Inoltre, ha sottolineato che le concessioni sono costituite
da veri e propri contratti che presentano le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico, a eccezione del
corrispettivo dei servizi o dei lavori consistente nel
diritto di gestire il servizio pubblico o l’opera, ovvero in
tale diritto accompagnato da un prezzo.
Di conseguenza, l’adito Collegio ha ritenuto che l’essenza
della concessione -di lavori o servizi pubblici– risiede
nella circostanza per cui il concessionario si remunera per
l’appunto erogando il servizio all’utenza, oppure sfruttando
il bene demaniale a fini economici.
Al contempo, ha osservato che le concessioni amministrative
sono entrate nell’alveo di applicazione della normativa
comunitaria sugli appalti pubblici in quanto, dal punto di
vista della tutela della concorrenza, le stesse possiedono
uguale incidenza sul mercato; non a caso, il concessionario
di beni o servizi pubblici ricava un’utilità sfruttando
economicamente beni pubblici che non sono disponibili in
quantità illimitata.
Di tal ché, il giudicante ha rilevato che le suddette
concessioni, poiché in grado di alterare le ordinarie
dinamiche del mercato, devono essere assegnate mediante le
procedure competitive di cui agli artt. 30 e 144 del D.Lgs.
n. 163/2006.
Orbene, con riferimento al caso di specie, il TAR ha
evidenziato l’inapplicabilità delle suddette disposizioni e
principi, atteso che il partito politico non avrebbe svolto
nel locale concesso in locazione alcuna attività economica.
Parallelamente, ha soggiunto la dirimente circostanza per
cui il Comune aveva comunicato al ricorrente la
disponibilità di altri locali aventi caratteristiche e
ubicazione simili a quelle dell’immobile concesso in
locazione all’avversario partito politico.
E ancora, ferma restando la regola per cui gli appalti
aventi valore esiguo possono essere affidati senza gara, il
Tribunale ha precisato che il regolamento comunale sulla
gestione dei beni demaniali e patrimoniali stabiliva la
possibilità di “… affidamento a trattativa privata delle
concessioni allorquando il canone annuo di locazione è
inferiore a €. 5.000,00”.
In considerazione di siffatte emergenze, il Collegio di
Ancona ha ritenuto che la civica P.A. non aveva alcun onere
di bandire un confronto concorrenziale per il rilascio della
concessione dell’immobile in questione, anche avuto riguardo
alla circostanza per cui lo stesso non era stato mai oggetto
di interesse da parte di nessuna delle forze politiche più
“tradizionali”.
I PRECEDENTI ED I POSSIBILI IMPATTI
PRATICO-OPERATIVI
La pronuncia in esame cristallizza il fermo principio per
cui le pubbliche Amministrazioni possono affidare, in via
diretta, la locazione di un bene demaniale soltanto nelle
ipotesi in cui il privato non intenda svolgere, all’interno
dello stesso, qualsivoglia attività economica, in grado di
determinare non solo alterazioni concorrenziali, ma anche
entrate economiche in favore dell’Erario.
Sul punto il TAR di Pescara, con riferimento alla locazione
di un locale demaniale in cui sarebbe stata svolta
un’attività di commercio al pubblico, ha dichiarato
l’illegittimità della delibera con cui la Giunta comunale,
in spregio ai canoni di trasparenza, imparzialità e par
condicio, aveva stabilito l’affidamento diretto in favore di
un soggetto.
Invero, il Comune avrebbe dovuto procedere alla preliminare
pubblicazione di un avviso, onde passare all’affidamento
della locazione dell’immobile di sua proprietà solo mediante
l’esperimento di idonea procedura concorrenziale che avrebbe
consentito la partecipazione di tutti i potenziali aspiranti
(TAR Abruzzo Pescara, Sez. I, 05.11.2008, n. 878 in
www.giustizia-amministrativa.it).
E ancora, Palazzo Spada ha rimarcato la rilevanza dello
svolgimento di una procedura a evidenza pubblica per la
concessione di beni pubblici –nella specie di una cava di
marmo– passibili di utilizzo economico, attesa l’esigenza di
garantire una migliore gestione delle risorse dell’ente e,
così, il miglior utilizzo di beni che fanno parte del
patrimonio o del demanio e che vengono ceduti in godimento a
terzi con ricavo di un corrispettivo a incremento delle
entrate finanziarie (Cons. Stato, Sez. VI, 04.04.2007, n.
1523, in www.giustizia-amministrativa.it).
Eppertanto, alla stregua delle suindicate decisioni, può
ragionevolmente ritenersi che l’indizione di una formale
gara per l’affidamento in locazione di un immobile demaniale
non è necessaria qualora il privato, per mezzo del medesimo
bene, intenda esercitare un’attività che in alcuna guisa
incide sul mercato, né tampoco sull’entrate erariali
(commento tratto da www.ispoa.it - TAR Marche,
sentenza 05.04.2013 n. 285 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’impugnazione
di una violazione amministrativa o di un verbale di
accertamento esula dalla giurisdizione del giudice
amministrativo, poiché la situazione giuridica di cui si
chiede tutela ha la consistenza di diritto soggettivo e
l’esercizio dell’attività sanzionatoria non è espressione di
attività discrezionale ma vincolata dell’amministrazione,
perché retta dal principio di legalità, sicché, ove
l’amministrazione accerti che un comportamento integri gli
estremi di un illecito previsto da una norma di legge, deve
applicare la sanzione, senza alcun margine di scelta.
Tale conclusione riguarda tutti gli atti del procedimento
sanzionatorio, compreso il verbale di accertamento e
contestazione.
Né rileva in contrario, che esso non sia espressamente
indicato tra gli atti impugnabili davanti al giudice
ordinario, essendo espressione dello stesso potere che dà
luogo alla irrogazione della sanzione, costituendone anzi il
presupposto, sicché la giurisdizione non può che appartenere
all’unico giudice, quello ordinario.
Peraltro, l’orientamento della Corte di Cassazione è nel
senso di considerare il verbale di accertamento, atto privo
di autonoma lesività, con la mera funzione di portare a
conoscenza dell’interessato la contestazione, sicché questi
possa apprestare le proprie difese, cui consegue
l’irrilevanza e la svalutazione del ruolo del procedimento
amministrativo sanzionatorio, anche perché il giudice
ordinario può conoscere direttamente del rapporto
sanzionatorio.
In ragione di quanto esposto, atteso che la sanzione della
rimozione degli impianti pubblicitari prevista dal comma
13-quater dell’art. 23 del Codice della Strada, costituisce
un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria
prevista dal precedente comma 11 dell’art. 23, per
l’installazione di impianti pubblicitari su strade demaniali
abusivamente installati, ne consegue il difetto di
giurisdizione di questo giudice, appartenendo la materia de
qua al giudice ordinario.
Con ricorso al TAR Lazio, la società PES s.r.l., chiedeva
l’annullamento dei provvedimenti adottati dal Comune di
Roma, in relazione ai quali era stata disposta la rimozione
di numerosi impianti pubblicitari tutti collocati per
effetto di specifico atto autorizzativo, con conseguente
condanna al risarcimento in forma specifica, mediante il
ripristino degli impianti già rimossi.
Il TAR, con sentenza n. 5400 del 2012, declinava la
giurisdizione, affermando che:
a) dai verbali elevati dalla polizia municipale si ricava
che la rimozione è stata disposta ai sensi dell’art. 23,
comma 13-quater, del Codice della Strada “a seguito
peraltro di un’operazione di controllo straordinaria sul
territorio condotta dal…Corpo di polizia”;
b) dalla documentazione si rileverebbe la mancanza di
provvedimenti amministrativi adottati in esercizio di un
potere discrezionale, essendosi in presenza di verbali di
accertamento della violazione di cui al citato art. 23,
comma 13-quater.
La società appellante assume l’erroneità della sentenza di
cui chiede l’annullamento, atteso che oggetto del ricorso
sarebbero, non già i verbali di irrogazione della sanzione e
di rimozione degli impianti, ma la normativa comunale
sopravvenuta che ha fissato nuove distanze e altezze degli
impianti dislocati sul territorio, concludendo che in
ragione del petitum sostanziale, la giurisdizione
apparterrebbe al giudice amministrativo.
Quanto al merito del ricorso, deduce violazione e falsa
applicazione dell’art. 23, comma 13-quater, del Codice della
strada; difetto di istruttoria, incompetenza, eccesso di
potere.
Si è costituita in giudizio Roma Capitale che ha chiesto il
rigetto dell’appello, perché infondato in fatto e diritto.
Alla camera di consiglio del 04.12.2012, il giudizio è stato
assunto in decisione.
L’appello è infondato e va respinto.
Conformemente a giurisprudenza consolidata (cfr. Cons.
Stato, sezione quinta, 27.06.2012, n. 3786 e 3787)
l’impugnazione di una violazione amministrativa o di un
verbale di accertamento esula dalla giurisdizione del
giudice amministrativo, poiché la situazione giuridica di
cui si chiede tutela ha la consistenza di diritto soggettivo
e l’esercizio dell’attività sanzionatoria non è espressione
di attività discrezionale ma vincolata dell’amministrazione,
perché retta dal principio di legalità, sicché, ove
l’amministrazione accerti che un comportamento integri gli
estremi di un illecito previsto da una norma di legge, deve
applicare la sanzione, senza alcun margine di scelta.
Tale conclusione riguarda tutti gli atti del procedimento
sanzionatorio, compreso il verbale di accertamento e
contestazione.
Né rileva in contrario, che esso non sia espressamente
indicato tra gli atti impugnabili davanti al giudice
ordinario, essendo espressione dello stesso potere che dà
luogo alla irrogazione della sanzione, costituendone anzi il
presupposto, sicché la giurisdizione non può che appartenere
all’unico giudice, quello ordinario (cfr. Cass. Civ., sez.
II, 21.12.2011, n. 28045; 14.04.2009, n. 8890).
Peraltro, l’orientamento della Corte di Cassazione è nel
senso di considerare il verbale di accertamento, atto privo
di autonoma lesività, con la mera funzione di portare a
conoscenza dell’interessato la contestazione, sicché questi
possa apprestare le proprie difese, cui consegue
l’irrilevanza e la svalutazione del ruolo del procedimento
amministrativo sanzionatorio, anche perché il giudice
ordinario può conoscere direttamente del rapporto
sanzionatorio (cfr. Cass. Sez. unite, 28.01.2010, n. 1786;
sezione prima, 15.01.2010, n. 532).
In ragione di quanto esposto, atteso che la sanzione della
rimozione degli impianti pubblicitari prevista dal comma
13-quater dell’art. 23 del Codice della Strada, costituisce
un accessorio della sanzione amministrativa pecuniaria
prevista dal precedente comma 11 dell’art. 23, per
l’installazione di impianti pubblicitari su strade demaniali
abusivamente installati, ne consegue il difetto di
giurisdizione di questo giudice, appartenendo la materia
de qua al giudice ordinario
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.03.2013
n. 1777 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio e dolo intenzionale.
Il dolo intenzionale, quale atteggiamento psicologico
dell’agente, deve desumersi dai comportamenti tenuti prima,
durante e dopo la condotta ed in particolare modo
dall'evidenza delle violazioni, dalla competenza
dell'agente, dalla reiterazione e gravità delle violazioni,
dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato e,
in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei
rispettivi vantaggi o svantaggi.
Intenzionalità non
significa però esclusività del fine che deve animare
l’agente. La legge del 1997 non richiede che le condotte
abusive, quale ne sia la forma, vengano realizzate “al solo
scopo" di conseguire questo o quell'evento tipico, perché
una tale formula non è stata inserita nella fattispecie incriminatrice.
Affermare infatti che l'agente deve agire “al solo scopo
di" equivarrebbe ad abrogare il delitto in questione.
Invero, trattandosi di delitto che può essere commesso solo
dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico
servizio nell'esercizio di attività pubbliche, viene sempre
esternata una finalità pubblica che serve per mascherare il
vero fine.
Da ciò deriva che, allorché accanto all'esternazione del
fine pubblico si affianca anche uno scopo privato, occorre
accertare quale sia stata la finalità prevalente ed
essenziale che ha mosso l'agente ed in quale misura un fine
abbia avuto la prevalenza sull'altro, sì da escludere il
reato allorché il fine pubblico ha avuto la prevalenza
sull'altro, ravvisandolo invece qualora resti accertato che
la finalità pubblica rappresenti una mera occasione o
pretesto per coprire la condotta illecita.
La finalità pubblica, inoltre, non può essere esclusa per la
semplice violazione di una norma posta a presidio di un
interesse pubblico, giacché questo può realizzarsi anche
mediante una violazione di legge o di regolamento
specialmente quando si tratta di violazioni formali (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 22.03.2013 n. 13735). |
APPALTI:
Il contratto di
avvalimento deve rispettare la disciplina civilistica in
tema di contenuto contrattuale, con particolare riferimento
all’esistenza ed alla determinatezza dell’oggetto: esso deve
identificare in modo chiaro ed esauriente la volontà del
soggetto ausiliario di impegnarsi, la natura dell’impegno
assunto e la concreta portata delle risorse messe a
disposizione per effetto dell’avvalimento.
Il contratto di avvalimento prodotto
dall’aggiudicataria da un lato prevede l’impegno
dell’impresa ausiliaria di mettere a disposizione i
requisiti riguardanti il fatturato e l’esperienza in servizi
analoghi, dall’altro lato prevede la messa a disposizione
del know how aziendale e delle competenze di tipo gestionale
e professionale.
Trattasi di dizioni generiche che non lasciano evincere
quali siano in concreto le risorse ed i mezzi prestati
dall’impresa ausiliaria ai fini dell’esecuzione del servizio
de quo.
In tal modo l’oggetto del contratto di avvalimento si palesa
indeterminato, in contrasto con l’art. 88, comma 1, lett. a,
del d.p.r. n. 207/2010.
Invero, il suddetto negozio
giuridico deve rispettare la disciplina civilistica in tema
di contenuto contrattuale, con particolare riferimento
all’esistenza ed alla determinatezza dell’oggetto: esso deve
identificare in modo chiaro ed esauriente la volontà del
soggetto ausiliario di impegnarsi, la natura dell’impegno
assunto e la concreta portata delle risorse messe a
disposizione per effetto dell’avvalimento (ex multis: Cons.
Stato, V, 05.12.2012, n. 6233; TAR Lombardia, Milano, III,
29.12.2012, n. 3290; TAR Toscana, I, 21.05.2012, n. 986); nel
caso di specie, al contrario, è incomprensibile quale sia la
prestazione ausiliaria oggetto di avvalimento
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
L’accesso ai documenti amministrativi si
configura come un diritto soggettivo perfetto, che può
essere esercitato indipendentemente dal giudizio
sull’ammissibilità o sulla fondatezza della domanda
giudiziale eventualmente proponibile sulla base dei
documenti acquisiti mediante l’accesso, con la conseguenza
che la circostanza che gli atti oggetto dell’istanza di
ostensione siano divenuti inoppugnabili non preclude
l’esercizio del suddetto diritto, in quanto l’interesse
presupposto dall’art. 22 della legge n. 241/1990 è nozione
diversa e più ampia dell’interesse all’impugnazione.
---------------
Chi ha partecipato ad una procedura concorsuale è portatore
di un interesse differenziato da quello della generalità dei
consociati ed è quindi legittimato a chiedere copia degli
atti prodotti dagli altri concorrenti.
L’accesso ai documenti amministrativi si configura come un
diritto soggettivo perfetto, che può essere esercitato
indipendentemente dal giudizio sull’ammissibilità o sulla
fondatezza della domanda giudiziale eventualmente
proponibile sulla base dei documenti acquisiti mediante
l’accesso, con la conseguenza che la circostanza che gli
atti oggetto dell’istanza di ostensione siano divenuti
inoppugnabili non preclude l’esercizio del suddetto diritto,
in quanto l’interesse presupposto dall’art. 22 della legge
n. 241/1990 è nozione diversa e più ampia dell’interesse
all’impugnazione (Cons. Stato, VI, 24.11.2000, n. 6246).
Orbene, poiché il rilascio della documentazione in argomento
è stato chiesto dalla ricorrente in dichiarata qualità di
soggetto partecipante alla gara (documento n. 9 depositato
in giudizio), il Collegio ritiene che non possa
disconoscersi in capo alla stessa la titolarità del diritto
di accesso, essendo pacifico che chi ha partecipato ad una
procedura concorsuale è portatore di un interesse
differenziato da quello della generalità dei consociati ed è
quindi legittimato a chiedere copia degli atti prodotti
dagli altri concorrenti (TAR Sicilia, Palermo, II,
11.02.2002, n. 430)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 442 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I profili dedotti in giudizio non dimostrano che
l’offerta della seconda classificata sia nel suo insieme
inattendibile, ma riguardano singole voci, la cui
inattendibilità è stata peraltro argomentata in modo
generico.
Al contrario, l’offerta deve essere considerata, ai fini
della valutazione della sua congruità, nel suo insieme, in
quanto l’eventuale sottostima di un singolo elemento
potrebbe trovare compensazione nella sovrastima di altre
voci economiche.
---------------
Per potersi ravvisare l’interesse al ricorso occorre che
l’utilità che la parte ricorrente vuole conseguire derivi in
via immediata e secondo criteri di regolarità
dall’accoglimento dell’impugnativa, e non in via mediata da
eventi incerti o potenziali, cosicché è irrilevante che
l’offerta della nuova e potenziale aggiudicataria sia o meno
anomala, in quanto l’esito negativo del sub procedimento di
verifica rappresenta una mera eventualità.
L’eccezione è fondata, nei sensi appresso
indicati.
L’esponente, con la quarta censura, nel contestare l’offerta
della seconda classificata, ha evidenziato alcuni elementi
di incongruità della stessa, soffermandosi sulla proposta
ivi contenuta di interventi strutturali costosi e
sull’omessa considerazione dell’incremento fisiologico dei
costi di utenze e personale.
I profili dedotti, tuttavia, non dimostrano che l’offerta
della seconda classificata sia nel suo insieme
inattendibile, ma riguardano singole voci, la cui
inattendibilità è stata peraltro argomentata in modo
generico; al contrario, l’offerta deve essere considerata,
ai fini della valutazione della sua congruità, nel suo
insieme, in quanto l’eventuale sottostima di un singolo
elemento potrebbe trovare compensazione nella sovrastima di
altre voci economiche (Cons. Stato, III, 08.12.2012, n. 5238;
TAR Basilicata, I, 05.03.2010, n. 104).
Inoltre la seconda classificata, non essendo stata
interessata da procedimento di verifica di anomalia, non ha
avuto modo di produrre documenti giustificativi
dell’offerta.
Né, comunque, l’esponente potrebbe far leva sulla
circostanza che, una volta attivato il procedimento di
verifica dell’anomalia della proposta della seconda
graduata, sarebbe ipotizzabile l’esclusione di questa: in
proposito, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha
chiarito che per potersi ravvisare l’interesse al ricorso
occorre che l’utilità che la parte ricorrente vuole
conseguire derivi in via immediata e secondo criteri di
regolarità dall’accoglimento dell’impugnativa, e non in via
mediata da eventi incerti o potenziali, cosicché è
irrilevante che l’offerta della nuova e potenziale
aggiudicataria sia o meno anomala, in quanto l’esito
negativo del sub procedimento di verifica rappresenta una
mera eventualità (Cons. Stato, VI, 02.04.2012, n. 1941; idem, IV,
n. 587/2007; TAR Campania, Salerno, I, n. 2476/2007)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 439 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sui presupposti per l’annullamento d’ufficio di un
provvedimento amministrativo.
L’annullamento d’ufficio è il risultato
di un’attività discrezionale dell’Amministrazione e non
deriva in via automatica dall’accertata originaria
illegittimità dell’atto essendo altresì necessaria una
congrua motivazione in ordine alla sussistenza
dell’interesse pubblico alla reintegrazione del preesistente
stato di legalità.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa è
assolutamente granitica nel precisare che l’interesse alla
reintegrazione dell’ordine pubblico deve essere specificato
e dimensionato in relazione alle esigenze concrete ed
attuali, avuto riguardo anche gli interessi privati che
militano in senso opposto , senza peraltro ricorrere in sede
di motivazione a clausole di stile.
Fondato, invece si appalesa il secondo mezzo di
gravame con cui riprendendo il motivo già dedotto in primo
grado e qui riprodotto, parte appellante deduce la
sussistenza a carico dell’atto impugnato del vizio di
violazione dei principi che regolano l’esercizio del potere
di autotutela con riferimento alla insufficiente motivazione
resa in ordine alla sussistenza dell’ interesse pubblico
all’annullamento
Per costante orientamento giurisprudenziale, l’annullamento
d’ufficio è il risultato di un’attività discrezionale
dell’Amministrazione e non deriva in via automatica
dall’accertata originaria illegittimità dell’atto essendo
altresì necessaria una congrua motivazione in ordine alla
sussistenza dell’interesse pubblico alla reintegrazione del
preesistente stato di legalità.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa è
assolutamente granitica nel precisare che l’interesse alla
reintegrazione dell’ordine pubblico deve essere specificato
e dimensionato in relazione alle esigenze concrete ed
attuali, avuto riguardo anche gli interessi privati che
militano in senso opposto , senza peraltro ricorrere in sede
di motivazione a clausole di stile (ex multis, Cons.
Stato VI 17.02.2006 n. 671 ).
Ebbene, non pare che il provvedimento di autotutela qui in
discussione sia rispettoso dei parametri giurisprudenziali
sopra ricordati, se è vero che nella parte narrativa
dell’atto si fa lapidariamente accenno alla necessaria
prevalenza, nella valutazione comparativa, dell’interesse
pubblico alla conservazione dello stato dei luoghi, nel che
è ravvisabile una semplicistica formula stereotipa.
Ora che nella specie a carico dell’amministrazione vi fosse
un ben più pregnante onere di motivazione, non adeguatamente
assolto dall’utilizzo di una clausola di stile apposta a
sostegno della determinazione assunta, è un dato agevolmente
rilevabile dalla circostanza per cui l’annullamento viene
adottato a distanza di oltre otto anni dal rilascio
dell’autorizzazione al restauro rilasciata in favore del
sig. Viola senza che sia stata presa in considerazione la
posizione del beneficiario del titolo ad aedificandum
in questione.
L’assenza di una idonea motivazione conforme ai principi
ripetutamente sanciti dalla giurisprudenza rende invalido
l’atto di annullamento d’ufficio qui in contestazione fatta
salva, s’intende, l’adozione da parte dell’intimato Comune
di ogni ulteriore provvedimento
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.03.2013 n. 1605 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Tolleranza misure progettuali e reato
paesaggistico.
Ai sensi dell'art. 22, comma 6, del DPR n. 380/2001
qualsiasi tipo di intervento edilizio previsto dai commi 1,
2 e 3 dell'articolo, e quindi anche quelli di minore
impatti, che riguardi immobili sottoposti a tutela
storico-artistica o paesaggistica-ambientaie, è subordinato
ai preventivo rilascio dei parere o della autorizzazione
richiesti dalle corrispondenti previsioni normative.
Pertanto, il limite di tolleranza del 2% rispetto alle
misure progettuali previsto dall'art. 34, comma 2-ter, del
DPR n. 380/2001 è destinato ad operare solo con riferimento
alla normativa edilizia, ma non esime l’interessato
dall'obbligo di munirsi del prescritto nulla osta
dell'autorità competente per la tutela dei vincolo con
riferimento alle difformità che intende realizzare,
configurandosi in mancanza il reato di cui all'art. 181 del D.Lgs
n. 42/2004 (massima tratta da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 13.03.2013 n. 11850). |
EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità comproprietario per opere su
area in comunione.
Il comproprietario ha il potere di porre il veto
all'esecuzione di opere non assentite sull'area in comunione
e se questi è il coniuge del comproprietario committente
dell'opera non può non tenersi conto della stretta comunanza
di interessi, che rendono il coniuge, di norma, naturalmente
partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare,
a meno che l'interessato non provi, al contrario, che tali
presupposti non ricorrano nel caso concreto, per una
qualsiasi ragione (massima tratta da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 13.03.2013 n. 11820). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Nozione di bosco e compatibilità paesistica.
La nozione di bosco deve essere riferita non soltanto ai
terreni completamente coperti da boschi o foreste di alto
fusto, ma anche (per identità di ratio) a tutte le aree
parzialmente boscate, a condizione che siano concretamente
inserite in un contesto con la preponderanza di vegetazione,
anche di tipo arbustivo.
Pertanto, a prescindere dalla presenza o meno di alberi di
alto fusto, non vi sono dubbi sulla sussistenza di un
vincolo boschivo anche qualora l'area fosse coperta solo da
vegetazione qualificabile come macchia.
E’ legittimo il provvedimento con il quale, a fronte
dell'esistenza di un vincolo paesaggistico,
l'Amministrazione, valutando la compatibilità dell'altezza
degli edifici come da progetto con le esigenze di tutela del
paesaggio, respinga, con adeguata ed esaustiva motivazione,
i progetti attinenti le costruzioni private che, pur
rientrando formalmente nei limiti previsti dal piano
regolatore relativo alla zona interessata (e quindi
astrattamente legittimi) risultino di notevole incidenza
visiva quanto ad impatto paesistico.
Va anzitutto sgombrato il campo dalla doglianza
contenuta alle pagg. 10-13 del ricorso in appello:la
circostanza che gli atti sottesi ai gravati provvedimenti di
diniego fossero carenti di una documentazione fotografica
relativa al contesto boschivo in cui sorge l’immobile, e la
doviziosa rassegna giurisprudenziale riportata nell’appello
con riferimento al concetto di “bosco”, sono del
tutto inconducenti: ciò in quanto, a tutto concedere, essi
avrebbero potuto spiegare pratico rilievo in favore di parte
appellante laddove fosse stato contestato che l’immobile
sorgesse effettivamente in un bosco.
Ma neppure l’appellante si spinge ad una simile
affermazione, di guisa che non è dato comprendere il motivo
per cui dovesse essere specificata e documentata la “tipologia”
di bosco, tanto più che la legge non distingue, in punto di
sussistenza del vincolo, le caratteristiche “di pregio”
che l’area boschiva dovrebbe possedere.
Ad abundantiam si rileva, comunque, che la censura
appare anche infondata alla stregua della condivisibile
giurisprudenza secondo la quale “la nozione di "bosco"
deve essere riferita non soltanto ai terreni completamente
coperti da boschi o foreste di alto fusto, ma anche (per
identità di ratio) a tutte le aree parzialmente boscate, a
condizione che siano concretamente inserite in un contesto
con la preponderanza di vegetazione, anche di tipo
arbustivo. Pertanto, a prescindere dalla presenza o meno di
alberi di alto fusto, non vi sono dubbi sulla sussistenza di
un vincolo boschivo anche qualora l'area fosse coperta solo
da vegetazione qualificabile come macchia” (TAR
Lombardia Milano Sez. IV, 11.07.2012, n. 1941) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2013 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma 1,
della l. 28/02/1985 n. 47 si evince che, in caso di istanza
di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree
sottoposte a vincolo, il silenzio-assenso per decorso del
termine di 24 mesi dall'emissione del parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di
parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché
il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone
vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e
non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità.
Si è detto peraltro, ancora di recente, che “il parere
dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, di
cui all'art. 32 l. n. 47 del 1985, è pregiudiziale ad ogni
altra valutazione e, se sfavorevole, rende impossibile la
sanatoria dell'opera. Conseguentemente, nel caso in cui
l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento
sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima
Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben possibile
che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il
vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la
determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al
citato art. 32”.
Tale principio appare sovrapponibile a quello espresso dalla
giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui “a seguito
delle modifiche introdotte dall'art. 32 d.l. 30.09.2003 n.
269 (conv., con mod. in l. 24.11.2003 n. 326) all'art. 32,
comma 1, della l. 28.02.1985 n. 47, non opera più, anche per
le istanze di sanatoria già presentate, la procedura del
silenzio-assenso per gli interventi di ampliamento eseguiti
su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico.
In ordine alla problematica relativa alla epoca di
apposizione del vincolo, dopo qualche incertezza la
giurisprudenza si è ormai stabilmente orientata verso
l’affermazione della rilevanza di quest’ultimo, purché
sussistente al momento della richiesta di sanatoria (o
addirittura, seppur successivo a quest’ultima al momento
dello scrutinio sulla domanda medesima), a nulla rilevando
che esso non preesistesse al momento della esecuzione
dell’intervento abusivo.
Si è quindi condivisibilmente affermato, che “ai sensi
dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo
paesaggistico esclude la possibilità della formazione del
silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione
edilizia in sanatoria” e si è soprattutto, puntualizzato,
che ӏ irrilevante che il vincolo paesaggistico sia
sopravvenuto rispetto alla commissione dell'abuso e alla
data di presentazione della domanda di condono, perché
secondo il consolidato orientamento della giustizia
amministrativa sono rilevanti i vincoli paesaggistici
sopravvenuti ed esistenti al momento dell'adozione del
provvedimento sulla domanda di condono edilizio” ma anche
“l'art. 32 l. n. 47 del 1985, laddove impone una congrua
valutazione da parte dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo in merito alla compatibilità del mantenimento
dell'"opus" con le ragioni poste a fondamento del regime
vincolistico, si applica anche in caso di vincolo
sopravvenuto rispetto all'esecuzione ma vigente al momento
della domanda“.
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Si deve ritenere che ai fini della sanatoria edilizia,
l'intervento abusivo debba essere sottoposto al parere
preventivo dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo
anche qualora le opere oggetto della domanda siano state
realizzate prima dell'entrata in vigore della L. n.
431/1985, di estensione del vincolo ambientale; e ciò in
quanto in sede di rilascio di concessione edilizia in
sanatoria, ai sensi della L. n. 47/1985, si deve tener conto
del vincolo esistente al momento in cui viene esaminata la
domanda di condono, a prescindere dall'epoca di introduzione
del vincolo stesso, e quindi, dalla sua vigenza al momento
della commissione dell'abuso.
Rammenta in proposito il Collegio che costituisce costante
approdo della giurisprudenza amministrativa quello per cui
dal combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma
1, della l. 28/02/1985 n. 47 si evince che, in caso di
istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate
in aree sottoposte a vincolo, il silenzio-assenso per
decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emissione del
parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si
forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di
parere contrario, poiché il rilascio della concessione in
sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone
necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic
et simpliciter" della predetta autorità.
Si è detto peraltro, ancora di recente, che “il parere
dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, di
cui all'art. 32 l. n. 47 del 1985, è pregiudiziale ad ogni
altra valutazione e, se sfavorevole, rende impossibile la
sanatoria dell'opera. Conseguentemente, nel caso in cui
l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento
sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima
Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben possibile
che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il
vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la
determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al
citato art. 32” (Consiglio Stato, sez. VI, 24.02.2011,
n. 1156).
Tale principio appare sovrapponibile a quello espresso dalla
giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui “a
seguito delle modifiche introdotte dall'art. 32 d.l.
30.09.2003 n. 269 (conv., con mod. in l. 24.11.2003 n. 326)
all'art. 32, comma 1, della l. 28.02.1985 n. 47, non opera
più, anche per le istanze di sanatoria già presentate, la
procedura del silenzio-assenso per gli interventi di
ampliamento eseguiti su immobili sottoposti a vincolo
paesaggistico. (In motivazione la Corte ha precisato che il
rilascio della sanatoria è subordinato al parere
dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo da
rilasciarsi nel termine di 180 gg. dall'istanza conseguendo,
in caso di inerzia, l'impugnabilità del silenzio-rifiuto)”
(Cassazione penale, sez. III, 16.03.2010, n. 14312).
In ordine alla problematica relativa alla epoca di
apposizione del vincolo, dopo qualche incertezza la
giurisprudenza si è ormai stabilmente orientata verso
l’affermazione della rilevanza di quest’ultimo, purché
sussistente al momento della richiesta di sanatoria (o
addirittura, seppur successivo a quest’ultima al momento
dello scrutinio sulla domanda medesima), a nulla rilevando
che esso non preesistesse al momento della esecuzione
dell’intervento abusivo.
Si è quindi condivisibilmente affermato, che “ai sensi
dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo
paesaggistico esclude la possibilità della formazione del
silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione
edilizia in sanatoria” (Consiglio Stato, sez. IV,
31.03.2009, n. 2024) e si è soprattutto, puntualizzato, che
ӏ irrilevante che il vincolo paesaggistico sia
sopravvenuto rispetto alla commissione dell'abuso e alla
data di presentazione della domanda di condono, perché
secondo il consolidato orientamento della giustizia
amministrativa sono rilevanti i vincoli paesaggistici
sopravvenuti ed esistenti al momento dell'adozione del
provvedimento sulla domanda di condono edilizio -nel caso di
specie, il provvedimento di condono non aveva valutato
adeguatamente la compatibilità paesaggistica dell'opera e
pertanto risultava affetto dal vizio del difetto di
motivazione, rilevato dalla Soprintendenza-” (Consiglio
Stato , sez. VI, 23.02.2011, n. 1127, ma anche “l'art. 32
l. n. 47 del 1985, laddove impone una congrua valutazione da
parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in
merito alla compatibilità del mantenimento dell'"opus" con
le ragioni poste a fondamento del regime vincolistico, si
applica anche in caso di vincolo sopravvenuto rispetto
all'esecuzione ma vigente al momento della domanda“
(Consiglio Stato, sez. VI, 22.01.2001, n. 181).
Posto che la domanda di sanatoria venne avanzata in data
11.01.1995, e che a detta data il vincolo insistente
nell’area era certamente sussistente, armonicamente con i
superiori insegnamenti prima elencati ne deve conseguire che
tutte le censure (primo motivo di appello) volte ad
ipotizzare che le opere realizzate non dovevano essere
soggette al rilascio di autorizzazione paesaggistica devono
essere respinte (“si deve ritenere che ai fini della
sanatoria edilizia, l'intervento abusivo debba essere
sottoposto al parere preventivo dell'Autorità preposta alla
tutela del vincolo anche qualora le opere oggetto della
domanda siano state realizzate prima dell'entrata in vigore
della L. n. 431/1985, di estensione del vincolo ambientale;
e ciò in quanto in sede di rilascio di concessione edilizia
in sanatoria, ai sensi della L. n. 47/1985, si deve tener
conto del vincolo esistente al momento in cui viene
esaminata la domanda di condono, a prescindere dall'epoca di
introduzione del vincolo stesso, e quindi, dalla sua vigenza
al momento della commissione dell'abuso” (Cons. Stato
Sez. VI, 15.06.2009, n. 3806)) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2013 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorimesse e parcheggi realizzati nel
sottosuolo per l'intera altezza.
La realizzazione di autorimesse e
parcheggi, ai sensi dell'art. 9, 1° comma, della L. n.
122/1989 è condizionata dal fatto che questi siano
realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè
solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza
di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto
dell'originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale condizione, la
realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel
sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina
urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori
terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei
contributi concessori.
Per la esatta interpretazione della “ratio” della L. n.
122/1989, il riferimento ivi contenuto al “piano terreno”
dei fabbricati erigendi si spiega agevolmente con la
circostanza che neppure in detta ipotesi, come anche nel
caso di parcheggio completamente interrato, vi è alcun
aumento di volumetria.
Contrariamente a
quanto sostenutosi nell’appello, infatti, il Collegio
rammenta che per condivisibile quanto pacifica
giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato “la
realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art.
9, 1° comma, della L. n. 122/1989 è condizionata dal fatto
che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera
altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da
destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano
totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di
campagna. Qualora invece non si rispetti tale condizione, la
realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel
sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina
urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori
terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei
contributi concessori.” (Cons. Stato Sez. IV,
13.07.2011, n. 4234).
Tale approdo –dal quale non si ravvisano motivi per
discostarsi- è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza
di merito (tra le tante TAR Umbria Perugia Sez. I,
14-06-2006, n. 316 TAR Piemonte, 27.11.2002, n. 1982) ed è
appena il caso di precisare che non si pone -come
inesattamente segnalato dall’appellante- alcuna problematica
di interpretazione “restrittiva” della norma.
Semmai, l’approdo cui è giunta l’evoluzione
giurisprudenziale si segnala per l’aderenza rispetto al
testo di legge, e per la esatta interpretazione della “ratio”
di quest’ultima, in quanto il riferimento ivi contenuto al “piano
terreno” dei fabbricati erigendi si spiega agevolmente
con la circostanza che neppure in detta ipotesi (come anche
nel caso di parcheggio completamente interrato) vi è alcun
aumento di volumetria (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2013 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione di un manufatto abusivo, emessa
successivamente all'adozione di un diniego di concessione
edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di
avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241
del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente
consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio
sostanzialmente unitario.
Ciò in quanto trattasi di attività che comporta un mero
accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle
opere, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato,
con riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario.
Eguale sorte merita l’ultima doglianza,
attingente l’ordine di demolizione, del quale si assume la
illegittimità per non essere stato preceduto
dall’espletamento degli incombenti ex art. 7 della legge n.
241/1990.
La tesi dell’appellante collide con i più recenti approdi di
avveduta giurisprudenza amministrativa secondo cui “l'ingiunzione
di demolizione di un manufatto abusivo, emessa
successivamente all'adozione di un diniego di concessione
edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di
avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241
del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente
consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio
sostanzialmente unitario” (ex multis, si veda TAR
Sardegna Cagliari Sez. II, 11.07.2012, n. 694, TAR Calabria
Catanzaro Sez. I, 04.07.2012, n. 691).
Ciò in quanto -è stato condivisibilmente rimarcato dalla
giurisprudenza- trattasi di attività che comporta un mero
accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle
opere, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato,
con riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario (TAR Campania, Napoli, sez.
III, 06.12.2011, n. 5668; TAR Lazio, Roma, sez. I,
07.10.2011, n. 7815; TAR Campania, Napoli, sez. II,
03.10.2011, n. 4608; TAR Campania Salerno, sez. II,
27.06.2011, n. 1179; TAR Liguria, sez. I, 22.01.2011, n.
150; TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.11.2010, n. 2660; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23762) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2013 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Copertura in PVC intervento di nuova costruzione.
La copertura in PVC di aree destinate
alla somministrazione può essere qualificata come intervento
di nuova costruzione quando, sebbene stagionale, sia diretta
a soddisfare esigenze non meramente temporanee come ad
esempio quelle di somministrazione di cibo e bevande.
Ex art. 3, lett. e.5, TU edilizia sono stati
qualificati gli interventi di nuova costruzione tra cui i “manufatti
leggeri”.
Peraltro, la copertura in PVC di aree destinate alla
somministrazione può essere qualificata come intervento di
nuova costruzione quando, sebbene stagionale, sia diretta a
soddisfare esigenze non meramente temporanee come ad esempio
quelle di somministrazione di cibo e bevande (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 11.03.2013 n. 2518 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare.
Come noto, per
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049;
10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V,
07.09.2009, n. 5229) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 11.03.2013 n. 2518 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Abbandono di rifiuti e non necessità di incidenza
della condotta sull'integrità dell'ambiente.
Come emerge
dal tenore letterale dell'art. 256, comma 2, d.lgs.
152/2006, per la configurabilità del reato di abbandono di
rifiuti da parte dei titolari di imprese e responsabili di
enti non è necessaria alcuna incidenza della condotta sulla
integrità dell'ambiente, in quanto la condotta viene
sanzionata perché posta in essere in violazione del divieto
di cui all'art. 192, commi 1 e 2, d.lgs. 152/2006.
Detta disposizione prevede, infatti, un generale divieto di
abbandono di rifiuti che può concretarsi attraverso
l’abbandono sul suolo e nel suolo, il deposito incontrollato
sul suolo e nel suolo e, come nel caso in esame,
nell’immissione di rifiuti, allo stato solido o liquido,
nelle acque superficiali e sotterranee (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 08.03.2013 n. 10927). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Il concetto di acque reflue urbane comprende le acque
reflue domestiche e le acque reflue industriali.
L’inderogabilità dei limiti della tabella 1 e della tabella
3 dell’All. 5, parte terza al D.Lgs. 152/2006 fanno
riferimento alla tipologia delle acque in ingresso e non
alla tipologia dell’impianto, risultando perciò a tal fine
indifferente la natura biologica o meno del depuratore.
L’art. 74 del d.lvo n. 152/2006 distingue le acque reflue
domestiche, provenienti da insediamenti di tipo residenziale
e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo
umano e da attività domestiche, le acque reflue industriali,
scaricate da impianti in cui si svolgono attività
commerciali o di produzioni di beni, ed include nel concetto
di acque reflue urbane il miscuglio di acque reflue
domestiche, di acque reflue industriali, ovvero meteoriche
di dilavamento convogliate in reti fognarie, provenienti da
agglomerato.
Va infatti condivisa
la difesa della Provincia ove ribadisce l’inderogabilità dei
limiti tabellari sopra indicati prescritti dalla normativa
in materia fanno riferimento alla tipologia delle acque in
ingresso e non alla tipologia dell’impianto, risultando
perciò a tal fine indifferente la natura biologica o meno
del depuratore.
L’art. 74 del d.lvo n. 152/2006 distingue le acque reflue
domestiche, provenienti da insediamenti di tipo residenziale
e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo
umano e da attività domestiche, le acque reflue industriali,
scaricate da impianti in cui si svolgono attività
commerciali o di produzioni di beni, ed include nel concetto
di acque reflue urbane il miscuglio di acque reflue
domestiche, di acque reflue industriali, ovvero meteoriche
di dilavamento convogliate in reti fognarie, provenienti da
agglomerato.
Pertanto, secondo la Provincia, siccome nell’agglomerato di
riferimento sono presenti insediamenti in cui si svolgono le
attività commerciali e produttive sopraindicate (e quindi di
negozi, ipermercati, lavanderie, autolavaggi) risulta
incontestabile che nel depuratore in contestazione entrino
anche acque reflue industriali secondo la nozione
soprariportata.
Da ciò ne deriva che, siccome gli scarichi urbani immessi
nel depuratore presentano natura mista, in quanto in essi
confluiscono non soltanto i reflui domestici, ma anche
quelli meteorici di dilavamento, e quelli derivanti da
attività industriali, il gestore dell’impianto è soggetto
all’obbligo del rispetto dei parametri di cui alla tab. 3.
Pertanto la Provincia afferma di aver legittimamente
prescritto il rispetto dei limiti della tabella 1 e della
tabella 3 dell’All. 5, parte terza al D.Lgs. 152/2006 in
quanto è lo stesso legislatore ad aver previsto nel caso di
reflui urbani – che per loro stessa natura possono contenere
anche reflui industriali, essendo misti – l’assoggettamento
al rispetto della tab. 3 nel caso in cui vi siano scarichi
di acque reflue industriali; in cui evidenziandosi la ratio
della disposizione, che è quella di evitare che vengano
immessi nei corpi idrici superficiali reflui non
adeguatamente trattati e dunque potenzialmente pericolosi
per la salubrità dell’ambiente; pertanto, quando vi sia la
presenza all’interno dei reflui urbani di acque reflue
industriali, devono essere rispettati i più stringenti
parametri di sicurezza previsti dalla tab. 3.
La ricostruzione della normativa in materia e della ratio
operata dalla Provincia merita condivisione.
L’obbligatorietà del rispetto di tali valori limite è
espressamente sancita dall’art. 101 del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, che nello stabilire i criteri generali
della disciplina degli scarichi, dispone che “Tutti gli
scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli
obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono comunque
rispettare i valori limite previsti nell'Allegato 5 alla
parte terza del presente decreto”.
Detto allegato, recante i limiti di emissione degli scarichi
idrici in corpi d'acqua superficiali, premesso che “gli
scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque
reflue urbane devono conformarsi, secondo le cadenze
temporali indicate, ai valori limiti definiti dalle Regioni
in funzione degli obiettivi di qualità e, nelle more della
suddetta disciplina, alle leggi regionali vigenti alla data
di entrata in vigore del presente decreto” e che “gli
scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque
reflue urbane devono essere conformi alle norme di emissione
riportate nelle tabelle 1”, nonché tabella 2 in aree
sensibili, dispone che “devono inoltre essere rispettati
nel caso di fognature che convogliano anche scarichi di
acque reflue industriali i valori limite di tabella 3”
ovvero quelli stabiliti dalle Regioni” precisando, con
riferimento a questi ultimi che: “L'autorità competente
per il controllo deve altresì verificare, con la frequenza
minima di seguito indicata, il rispetto dei limiti indicati
nella tabella 3. I parametri di tabella 3 che devono essere
controllati sono solo quelli che le attività presenti sul
territorio possono scaricare in fognatura”.
Il successivo art. 105, nel disciplinare gli scarichi in
acque superficiali, ribadisce che gli scarichi di acque
reflue industriali in acque superficiali devono rispettare i
valori-limite di emissione indicati nella tabella 3, e
dispone che le acque reflue urbane devono essere sottoposte,
prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un
trattamento equivalente in conformità con le indicazioni
dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto,
prescrivendo, anche per queste, il rispetto dei predetti
valori-limite di emissione fissati in detta tabella.
Per quanto riguarda i primi, l’art. 107 stabilisce che “Ferma
restando l'inderogabilità dei valori-limite di emissione di
cui alla tabella 3/A dell'Allegato 5 alla parte terza del
presente decreto e, limitatamente ai parametri di cui alla
nota 2 della Tabella 5 del medesimo Allegato 5, alla Tabella
3, gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano
in reti fognarie sono sottoposti alle norme tecniche, alle
prescrizioni regolamentari e ai valori-limite adottati
dall'Autorità d'ambito competente in base alle
caratteristiche dell'impianto, e in modo che sia assicurata
la tutela del corpo idrico ricettore nonché il rispetto
della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane
definita ai sensi dell'articolo 101, commi 1 e 2”.
Spetta pertanto all'Autorità d'ambito individuare norme
tecniche, prescrizioni regolamentari e valori-limite in base
alle caratteristiche dell'impianto volte ad assicurare la
tutela del corpo idrico ricettore ed il rispetto della
disciplina degli scarichi di acque reflue urbane sopra
ricordata.
L’allegato V del d.lgs. 152/2006 infatti prevede che gli
scarichi provenienti da impianti di trattamento delle acque
reflue urbane devono essere conformi alle norme di emissione
riportate nelle tabelle 1 e 2 però al punto 1.1. dell’All. 5
al D.Lgs. 152/1999 stabilisce che devono essere rispettati i
valori limite di tab. 3 nel caso di fognature che raccolgono
anche scarichi di acque reflue industriali (“Devono
inoltre essere rispettati nel caso di fognature che
convogliano anche scarichi di acque reflue industriali i
valori limite di tabella 3 ovvero quelli stabiliti dalle
Regioni”.
Le finalità sopra rappresentate sono infatti tenute presenti
già in sede di approvazione dei progetti degli impianti di
trattamento delle acque reflue urbane verificando che le
modalità della gestione assicuri il rispetto dei valori
limite degli scarichi. Non si tratta, peraltro, di
un’irrazionale imposizione d’un onere impossibile, in
quanto, come evidenziato dalla Provincia l’ente gestore del
depuratore è coinvolto nel processo di regolazione e
controllo dell’immissione dei reflui industriali, secondo le
modalità indicate nel contratto di servizio con cui, ai
sensi dell’art. 203, sono regolati i rapporti tra le
Autorità d'ambito e i soggetti affidatari del servizio
integrato.
Ed il risultato in termini di perseguimento del rispetto di
tali valori viene raggiunto mediante l’attività sinergica
dei vari enti pubblici interessati, nell’ambito delle
specifiche competenze, sul controllo delle immissioni, come
richiamato dalla ricorrente, e quindi anche mediante la
partecipazione del gestore (massima tratta da
www.lexambiente.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.03.2013 n. 2374 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità ordinanza sindacale per limitare
emissioni acustiche causate dall’attività di supermercato.
E’ legittima l’ordinanza sindacale con la quale era stato
intimato alla società di provvedere entro 30 giorni, a far
realizzare adeguate opere nel locale al fine di garantire
che le emissioni acustiche causate dall’attività del
supermercato fossero conformi ai valori limite previsti dal
d.P.C.M. 14.11.1997.
Il potere di cui al richiamato art. 9
della l. n. 4471995 non va riduttivamente ricondotto al
generale potere di ordinanza contingibile ed urgente in
materia di sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto
essere qualificato quale ordinario rimedio in tema di
inquinamento acustico; ciò perché, in assenza di altri
strumenti a disposizione delle amministrazioni comunali, la
presenza di una accertata situazione di inquinamento
acustico rappresenta di per sé una minaccia per la salute
pubblica, anche se in concreto è offeso un solo soggetto.
Mentre quella riconosciuta dal Codice Civile al privato
interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per
far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale
tollerabilità è una mera facoltà, il potere del Sindaco di
emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n. 447/1995 è un
dovere connesso all’esercizio delle sue pubbliche funzioni,
al quale non può sottrarsi, anche se è leso un solo
soggetto, spogliandosi del potere, di valore pubblicistico,
di reprimere l’inquinamento acustico e attribuendolo al
privato, cui il codice civile riconosce la facoltà di
esercitare il diritto a non subire le emissioni dannose e
non il dovere, se eccedenti i valori massimi consentiti.
Osserva la Sezione
che il TAR, richiamati al riguardo l’art. 15, comma 1, della
l.r. n. 13/2001 e l'art. 9, comma 1, della L. n. 447/1995,
ha ritenuto che questa norma non può essere riduttivamente
intesa come una mera riproduzione, nell'ambito della
normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento
acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed
urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento
giuridico al Sindaco in materia di sanità ed igiene
pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e
sistematicamente interpretata nel particolare significato
che assume all'interno di una normativa dettata allo scopo
primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno
dell'inquinamento acustico, che è stato ritenuto sufficiente
a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di
intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace
strumento previsto (soltanto) dall'art. 9, comma 1, della
citata l. n. 447/1995.
Ha quindi affermato che la tutela della salute pubblica non
presuppone necessariamente che la situazione di pericolo
involga l'intera collettività, ben potendo richiedersi
tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di
una singola famiglia (o anche di una sola persona) e che non
può essere certamente reputato ordinario strumento di
intervento (sul piano amministrativo) la facoltà
riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di
adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le
immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.
La Sezione condivide la tesi fatta propria dal primo
Giudice, che il potere di cui al richiamato art. 9 della l.
n. 4471995 non va riduttivamente ricondotto al generale
potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di
sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere
qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento
acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a
disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di
una accertata situazione di inquinamento acustico
rappresenta di per sé una minaccia per la salute pubblica,
anche se in concreto è offeso un solo soggetto..
Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile
al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria
Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano
la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del
Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n.
447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue
pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è
leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore
pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e
attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la
facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni
dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi
consentiti.
Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato
dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla
normativa in materia di attività produttive, laddove fissa
le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di
tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione
distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto
di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di
natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi
vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico,
dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è
volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A..
Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di
primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di
cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della
l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni
dannose in questione (massima tratta da
www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 06.03.2013 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Se
è vero che l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente,
con la quale è consentito fronteggiare le situazioni di
emergenza anche al prezzo del sacrificio temporaneo di
posizioni individuali costituzionalmente tutelate, non può
essere impiegato per conferire un assetto stabile e
definitivo agli interessi coinvolti, questo non significa
che i provvedimenti contingibili debbano considerarsi
automaticamente illegittimi solo perché sprovvisti di un
termine finale di durata o di efficacia.
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale
possono essere reputate legittime, quando siano
razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo
accertata rapportata alla situazione di fatto.
Aggiungasi che se è vero che l'istituto
dell'ordinanza contingibile e urgente, con la quale è
consentito fronteggiare le situazioni di emergenza anche al
prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali
costituzionalmente tutelate, non può essere impiegato per
conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi
coinvolti, questo non significa che i provvedimenti
contingibili debbano considerarsi automaticamente
illegittimi solo perché sprovvisti di un termine finale di
durata o di efficacia (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2011, n.
3922 e 13.08.2007, n. 4448).
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale
possono essere reputate legittime, quando, come nel caso che
occupa, siano razionalmente collegate alla concreta
situazione di pericolo accertata rapportata alla situazione
di fatto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 06.03.2013 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego del Comune per
autorizzazione all’installazione, nella sede di produzione,
di un impianto di verniciatura a polveri.
E’ legittimo il diniego di autorizzazione all’esercizio di
un’attività industriale, ritenuta insalubre ex art. 216 del
T.U. n. 1265/1934. Infatti, l’art. 216 del T.U stabilisce
due classi di attività industriali insalubri, l’inserimento
nella prima, comporta l’obbligo di isolamento nella campagne
l’insediamento lontano dalle abitazioni, mentre solo la
collocazione nella seconda prevede il potere-dovere (a
fronte della domanda di insediamento) di valutare la
pericolosità in concreto e di prescrivere le eventuali
cautele.
Ciò premesso, la mera iscrizione nella prima classe, in
quanto derivante da una valutazione direttamente compiuta
dalla scelta legislativa, che perciò esclude ogni
discrezionalità dell’amministrazione sul punto, comporta il
dovere della stessa di rifiutare le autorizzazioni,
consentendo inoltre al Comune di varare, con riferimento a
determinati ambiti territoriali, norme di regolamentazione
urbanistica in senso preclusivo di dette attività.
Nel merito
l’appello, sostenuto dalle successive doglianze, è
meritevole di accoglimento.
Nell’accogliere il ricorso, in particolare, il giudice di
prime cure ha ritenuto che il divieto di attività rientranti
nell’elenco di prima categoria di rischio di cui all’art.
216 del T.U. n. 1265/1934, nella zona “de qua” –,
introdotto dalle fonti regolamentari applicate (art. 2/bis
del Regolamento per l’assegnazione delle aree P.I.P. e
nell’art. unico del Regolamento edilizio) per le industrie
insalubri di prima classe non integra ex se una pericolosità
sufficiente per bandirle in assoluto dal territorio. Ha
aggiunto il primo giudice che:
- “detta pericolosità infatti deve essere valutata non
già in astratto, bensì in concreto, avendo riguardo alle
misure ed alle cautele suggerite dal progresso tecnico che
possono essere tali da rendere innocua, grazie ad opportuni
accorgimenti, una attività potenzialmente nociva”;
- “la normativa comunale può anche essere molto più
rigorosa rispetto a quella statale, specie quando nello
specifico territorio comunale la salute pubblica ed anche
l’ambiente risultino particolarmente compromessi a causa di
insediamenti pericolosi e/o nocivi già esistenti”;
- “tuttavia, tale rigore normativo (in ipotesi
particolarmente giustificato da esigenze locali) non può
spingersi al punto da bandire in assoluto una qualsiasi
“lavorazione insalubre di 1^ classe” dall’intero territorio
comunale”.
In contrario rileva tuttavia il Comune appellante, ed in
effetti è sfuggito al giudice di prime cure, che l’art. 216
del citato t.u. stabilisce due classi di attività
industriali insalubri; l’inserimento nella prima, comporta
l’obbligo di isolamento nella campagne l’insediamento
lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella
seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di
insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di
prescrivere le eventuali cautele, elementi cui si è
richiamato il primo giudice. Ciò premesso, Collegio,
all’opposto di quanto ritenuto dal TAR, deve confermare che
la mera iscrizione nella prima classe, in quanto derivante
da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta
legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità
dell’amministrazione sul punto, comporta il dovere della
stessa di rifiutare le autorizzazioni, consentendo inoltre
al Comune di varare, con riferimento a determinati ambiti
territoriali, norme di regolamentazione urbanistica in senso
preclusivo di dette attività.
Pertanto, non essendo contestato che l’attività
dell’appellata rientrasse nella prima classe, sia
l’introduzione del divieto di insediamento che il diniego di
autorizzazione non costituiscono un’erronea applicazione
della normativa statale sopra menzionata
(massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.03.2013 n. 1345 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
E’ consolidato in giurisprudenza il principio che
riconosce la risarcibilità del danno esistenziale -inteso
come nozione descrittiva di un tipo di pregiudizio
costituito dalla sofferenza soggettiva non accompagnato da
riflessi di ordine economico, quindi riconducibile all’ampia
categoria del danno non patrimoniale– provocato
dall’illegittimo demansionamento o dequalificazione, ossia
dal comportamento datoriale che violi il diritto del
lavoratore all’esecuzione delle prestazioni lavorative per
le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime
effettivamente svolte.
La violazione di tale obbligo datoriale è fonte di
responsabilità risarcitoria, anche laddove non sussista uno
specifico intento di svilire o punire il dipendente, poiché
integra una violazione del diritto costituzionalmente
garantito al lavoro, non nella dimensione di mera fonte di
reddito, ma in quella di strumento di estrinsecazione della
personalità individuale attraverso l’esercizio della
professionalità lavorativa.
Fermo restando che, per consentire la tutela risarcitoria,
il pregiudizio subito dal lavoratore deve essere serio,
comportando l’effettiva perdita delle mansioni e dei compiti
più qualificanti propri della qualifica, con conseguente
depauperamento del patrimonio professionale e della dignità
lavorativa.
Anche nell’ambito del pubblico impiego, peraltro, esistono
puntuali precedenti giurisprudenziali che affermano la
responsabilità risarcitoria dell’amministrazione nei casi di
demansionamento provocati dall’attribuzione di mansioni
inferiori non rientranti nella qualifica di appartenenza.
E’ consolidato in giurisprudenza, infatti, il principio che
riconosce la risarcibilità del danno esistenziale -inteso
come nozione descrittiva di un tipo di pregiudizio
costituito dalla sofferenza soggettiva non accompagnato da
riflessi di ordine economico, quindi riconducibile all’ampia
categoria del danno non patrimoniale (Cass., sez. un.,
11.11.2008, n. 26972)– provocato dall’illegittimo
demansionamento o dequalificazione, ossia dal comportamento
datoriale che violi il diritto del lavoratore all’esecuzione
delle prestazioni lavorative per le quali è stato assunto
ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte (cfr.,
ex multis, Cass., 14.07.2006, n. 14729).
La violazione di tale obbligo datoriale è fonte di
responsabilità risarcitoria, anche laddove non sussista uno
specifico intento di svilire o punire il dipendente, poiché
integra una violazione del diritto costituzionalmente
garantito al lavoro, non nella dimensione di mera fonte di
reddito, ma in quella di strumento di estrinsecazione della
personalità individuale attraverso l’esercizio della
professionalità lavorativa.
Fermo restando che, per consentire la tutela risarcitoria,
il pregiudizio subito dal lavoratore deve essere serio,
comportando l’effettiva perdita delle mansioni e dei compiti
più qualificanti propri della qualifica, con conseguente
depauperamento del patrimonio professionale e della dignità
lavorativa (Cass., 07.12.2010, n. 24794).
Anche nell’ambito del pubblico impiego, peraltro, esistono
puntuali precedenti giurisprudenziali che affermano la
responsabilità risarcitoria dell’amministrazione nei casi di
demansionamento provocati dall’attribuzione di mansioni
inferiori non rientranti nella qualifica di appartenenza
(cfr., ad es., TAR Lazio, Roma, sez. I, 05.04.2012, n. 3151) (TAR Liguria, Sez.
II,
sentenza 24.01.2013 n. 157 -
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EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una tettoia è soggetta a
concessione edilizia poiché, pur potendo avere avendo
carattere pertinenziale rispetto all'immobile cui accede,
incide sull'assetto edilizio preesistente.
La realizzazione
di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura
pertinenziale, è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1,
lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui
realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed
è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello
stesso D.P.R. laddove comporti una modifica della sagoma o
del prospetto del fabbricato cui inerisce.
La tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in
quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e
destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e
contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere
della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al
regime del permesso di costruire, dal momento che comporta
una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.
Al riguardo si richiama quella giurisprudenza secondo cui la
realizzazione di una tettoia è soggetta a concessione
edilizia poiché, pur potendo avere avendo carattere
pertinenziale rispetto all'immobile cui accede, incide
sull'assetto edilizio preesistente (TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 16.07.2002, n. 4107; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I,
08.07.2002, n. 1936; TAR Campania Napoli, sez. III,
09.09.2008, n. 10059; TAR Campania Napoli, sez. VI,
04.08.2008, n. 9725; TAR Lombardia Brescia, sez. I,
25.05.2010).
In tal senso peraltro vengono in rilievo specifici
precedenti di questa sezione secondo cui “la
realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua
eventuale natura pertinenziale, è configurabile come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al
regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10,
comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove
comporti una modifica della sagoma o del prospetto del
fabbricato cui inerisce” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
17.02.2010, n. 968; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
28.12.2009, n. 9605) ed ancora “la tettoia realizzata sul
terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente
ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una
esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo,
è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è
quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal
momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto
edilizio preesistente” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
21.12.2007, n. 16493) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 12.12.2012 n.
5109 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
certificato di agibilità non può essere rilasciato per
fabbricati abusivi e non condonati, essendo presupposto
indefettibile per detto rilascio la conformità dei manufatti
alle norme urbanistico edilizie vigenti; consegue che il
meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato
allorché manchi il presupposto stesso per il rilascio del
certificato di agibilità, costituito dal carattere non
abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata
presentata l'istanza tesa ad ottenere il certificato
menzionato.
Il Collegio
aderisce, infatti, all’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale “ai sensi degli art. 24, comma 3, d.P.R.
06.06.2001 n. 380 e 35, comma 20, l. 28.02.1985 n. 47, il
certificato di agibilità non può essere rilasciato per
fabbricati abusivi e non condonati, essendo presupposto
indefettibile per detto rilascio la conformità dei manufatti
alle norme urbanistico edilizie vigenti; consegue che il
meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato
allorché manchi il presupposto stesso per il rilascio del
certificato di agibilità, costituito dal carattere non
abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata
presentata l'istanza tesa ad ottenere il certificato
menzionato” (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II,
09.07.2011, n. 1009, Consiglio Stato, sez. V, 30.04.2009, n.
2760, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 24.09.2007 n. 8271 e
28.09.2007 n. 8582) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
11.12.2012 n. 5073 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto per l’emanazione della
ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in
assenza o in totale difformità del titolo abilitativo, con
la conseguenza che, essendo la ordinanza atto dovuto, essa è
sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso –che è in
re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato– ed alla possibilità di adottare provvedimenti
alternativi.
Osserva il Collegio
che presupposto per l’emanazione della ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in
totale difformità del titolo abilitativo, con la conseguenza
che, essendo la ordinanza atto dovuto, essa è
sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso –che è
in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato– ed alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
11.12.2012 n. 5073 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Non può revocarsi in dubbio che il legittimo
esercizio di un'attività commerciale sia ancorato, sia in
sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per
l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità
giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali
in cui essa viene posta in essere, ma che, al tempo stesso,
non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura dell'intero
esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga solo in parte
in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e
paesistico, ove l'area interessata sia assoggetta a
vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e perciò viziato
sotto il denunciato profilo dell'eccesso di potere.
Appare, infatti, contrario a criteri di ragionevolezza -e
perciò sintomo di sviamento dell'azione amministrativa-
inibire per intero l'esercizio di un'attività commerciale
quando soltanto una parte dei locali in cui essa è svolta
non è in regola con la normativa edilizia, ben potendo
l'Amministrazione, nell'esercizio del potere sanzionatorio e
tenuto debitamente conto del contemperamento tra l'interesse
pubblico alla repressione degli abusi e l'interesse privato
sotteso all'esplicazione di un'attività imprenditoriale,
limitare la sanzione alla sola parte del locale non
autorizzata sotto il profilo edilizio.
Il Tribunale
ha in passato osservato, in linea con il proprio costante
orientamento, che “non può revocarsi in dubbio che il
legittimo esercizio di un'attività commerciale sia ancorato,
sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio,
sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla
disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n.
10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003,
n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007), ma che, al tempo
stesso, non può sanzionarsi con l'ordine di chiusura
dell'intero esercizio il fatto che quest'ultimo si svolga
solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo
edilizio (e paesistico, ove l'area interessata sia
assoggetta a vincolo), rivelandosi tale ordine eccessivo e
perciò viziato sotto il denunciato profilo dell'eccesso di
potere. Appare, infatti, contrario a criteri di
ragionevolezza -e perciò sintomo di sviamento dell'azione
amministrativa- inibire per intero l'esercizio di
un'attività commerciale quando soltanto una parte dei locali
in cui essa è svolta non è in regola con la normativa
edilizia, ben potendo l'Amministrazione, nell'esercizio del
potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del
contemperamento tra l'interesse pubblico alla repressione
degli abusi e l'interesse privato sotteso all'esplicazione
di un'attività imprenditoriale, limitare la sanzione alla
sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo
edilizio” (TAR, Campania, Napoli, sez. III, 08.06.2010,
n. 13015).
La giurisprudenza da ultimo citata è, peraltro, applicabile
solo laddove sia possibile distinguere la parte abusiva da
quella legittima ma non nei casi in cui i lavori abusivi
abbiano interessato l’intera struttura trasformandola in
modo da non potersi più riconoscere e agevolmente separare
la parte originariamente autorizzata da quella oggetto di
modifica.
E’ evidente, comunque, che le determinazioni assunte in
ordine alla cessazione dell’attività commerciale autorizzata
debbano trovare nel provvedimento un’idonea motivazione, che
nella fattispecie difetta (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
11.12.2012 n. 5072 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A termini dell’art. 32
della Legge n. 47/1985, il rilascio della concessione in
sanatoria per le opere edilizie abusive ricadenti su aree
sottoposte a vincolo, è subordinato al previo rilascio del
parere favorevole dell’amministrazione o dell’organo
preposto alla tutela del vincolo, parere non solo
obbligatorio ma anche vincolante per le determinazioni del
Comune.
Ad esso tuttavia non può attribuirsi natura provvedimentale
o di atto conclusivo del procedimento attivato con l’istanza
di permesso di costruire o di sanatoria edilizia presentate
all’amministrazione comunale, trattandosi di atto di natura
endoprocedimentale, dotato di effetti sulla determinazione
conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità
adita.
Pertanto il parere, quantunque vincolante, non è
immediatamente lesivo, in quanto l’atto che incide sulla
sfera giuridica del richiedente è il provvedimento
concessorio o negatorio della sanatoria richiesta.
Conseguentemente esso non è, in quanto tale, suscettibile di
impugnazione autonoma in via giurisdizionale, ma lo è
unitamente al provvedimento finale concretamente lesivo
della sfera giuridica del richiedente.
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In relazione a manufatti abusivi realizzati in ambiti
soggetti a tutela paesaggistica, non è il diniego di
sanatoria a dover essere rigorosamente motivato, ma semmai,
l'eventuale provvedimento favorevole.
In via
preliminare occorre osservare che, a termini dell’art. 32
della Legge n. 47/1985, il rilascio della concessione in
sanatoria per le opere edilizie abusive ricadenti su aree
sottoposte a vincolo, è subordinato al previo rilascio del
parere favorevole dell’amministrazione o dell’organo
preposto alla tutela del vincolo, parere non solo
obbligatorio ma anche vincolante per le determinazioni del
Comune.
Ad esso tuttavia non può attribuirsi natura provvedimentale
o di atto conclusivo del procedimento attivato con l’istanza
di permesso di costruire o di sanatoria edilizia presentate
all’amministrazione comunale, trattandosi di atto di natura
endoprocedimentale, dotato di effetti sulla determinazione
conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità
adita.
Pertanto il parere, quantunque vincolante, non è
immediatamente lesivo, in quanto l’atto che incide sulla
sfera giuridica del richiedente è il provvedimento
concessorio o negatorio della sanatoria richiesta (Cons.
St., sez. VI, 24.09.1996, n. 1248).
Conseguentemente esso non è, in quanto tale, suscettibile di
impugnazione autonoma in via giurisdizionale (come quella
attivata nel presente procedimento), ma lo è unitamente al
provvedimento finale concretamente lesivo della sfera
giuridica del richiedente (Cons. Stato, sez. V, 16.02.2012, n. 794).
---------------
E’ infondato
il primo motivo, dal momento che il parere impugnato è stato
congruamente motivato con esplicito riferimento alla
relazione istruttoria del competente Settore della Regione
Piemonte, ente preposto alla tutela del vincolo; il quale,
nell'affermare che "le opere realizzate appaiono tali da
recare pregiudizio alle caratteristiche di pregio ambientale
della località”, e che “si ritiene assolutamente
inaccettabile la collocazione del manufatto all’interno di
un lotto in sponda del lago, dove gli spazi a verde
necessitano di una attenta salvaguardia”, giustifica in modo
certamente adeguato, benché succinto, le ragioni sottostanti
al diniego, ragioni da individuarsi nella evidente
incompatibilità del manufatto con il pregevole contesto
naturalistico e paesaggistico sottoposto a specifica tutela,
tenuto altresì conto che, secondo condivisibili principi
giurisprudenziali, in relazione a manufatti abusivi
realizzati in ambiti soggetti a tutela paesaggistica, non è
il diniego di sanatoria a dover essere rigorosamente
motivato, ma semmai, l'eventuale provvedimento favorevole
(TAR Torino Piemonte sez. I, 15.06.2012, n. 721; TAR
Toscana, sez. III, 13.05.2011, n. 843; Cons. Stato, sez. VI,
11.10.2007, n. 5330).
Ad integrare il profilo di incompatibilità ambientale,
sinteticamente espresso nella relazione richiamata,
concorrono la significativa estensione del fabbricato, che
occupa una superficie di 48 mq circa, l’irreversibile
alterazione dello spazio verde che essa produce e la sua
realizzazione con materiali di bassa qualità
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 11.12.2012 n. 1326 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mera presentazione dell'istanza di condono non
autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento
delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali,
fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di
condono, devono ritenersi comunque abusive.
Pertanto, l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima
atteso che, in presenza di manufatti abusivi non condonati
né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili,
nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o del risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione.
Ciò, d’altra parte, non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali
pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di
assoggettamento alla medesima sanzione prevista per
l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell'art. 35 della l. n. 47 del 1985.
In definitiva, in siffatte evenienze la misura repressiva
costituisce atto dovuto, che non può essere evitata
nell'assunto che per le opere realizzate non fosse
necessario il permesso di costruire o che avessero natura
pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei
lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono,
vale il diverso principio in forza del quale è la
prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che
sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra
opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con d.i.a..
Negli stessi
termini si è affermato che la mera presentazione
dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei
lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della
richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento
dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono
ritenersi comunque abusive.
Pertanto, l'ingiunzione di
demolizione è del tutto legittima atteso che, in presenza di
manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi
ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività,
alle categorie della manutenzione straordinaria, del
restauro e/o del risanamento conservativo, della
ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di
illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione
dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al
momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque
abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la
demolizione.
Ciò, d’altra parte, non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali
pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di
assoggettamento alla medesima sanzione prevista per
l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell'art. 35 della l. n. 47 del 1985.
In definitiva, in siffatte evenienze la misura repressiva
costituisce atto dovuto, che non può essere evitata
nell'assunto che per le opere realizzate non fosse
necessario il permesso di costruire o che avessero natura
pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei
lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono,
vale il diverso principio in forza del quale è la
prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che
sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra
opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con d.i.a. (cfr. ex multis TAR Napoli
Campania sez. VI, 02.07.2012, n. 3109; 02.05.2012 n.
2006 e 11.05.2011, n. 2626; TAR Genova Liguria sez.
I, 11.07.2011, n. 1084) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 11.12.2012 n.
1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi di restauro e risanamento
conservativo sono caratterizzati, infatti, dall'essere
rivolti a conservare l'organismo edilizio preesistente nel
rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e
strutturali, senza modificarne l'identità, la fisionomia e
la struttura, né la volumetria, e senza comportare, quindi,
la creazione di un organismo edilizio, in tutto o in parte,
diverso dal precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in
particolare, si differenziano sostanzialmente dalla
"demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono,
come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto
alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia
essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti
a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed
estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie
attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che,
all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi, in
quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia
della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una
parte dei precedenti elementi.
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita
ad un nuovo edificio.
Gli interventi
di restauro e risanamento conservativo (come definiti
dall'art. 31, comma 1, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457) sono
caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a conservare
l'organismo edilizio preesistente nel rispetto dei suoi
elementi tipologici, formali e strutturali, senza
modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la
volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un
organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal
precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in
particolare, si differenziano sostanzialmente dalla
"demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono,
come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto
alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia
essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti
a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed
estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie
attraverso una serie di opere -anche di decostruzione-
che, all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi,
in quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia
della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una
parte dei precedenti elementi (cfr. TAR Trento Trentino
Alto Adige sez. I, 09.06.2011, n. 172; TAR Napoli
Campania sez. VI, 10.02.2010, n. 844).
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita
ad un nuovo edificio (TAR Torino Piemonte sez. II, 11.04.2012, n. 440; TAR Napoli Campania sez. VIII 23.02.2011, n. 1048; TAR Genova Liguria sez. I, 30.06.2009, n. 1621; nello stesso senso Cassazione penale
sez. III, 06.05.2010 n. 21351)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 11.12.2012 n.
1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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